Prologo - Catnip Design
Transcript
Prologo - Catnip Design
Prologo MusicFest di Austin, quinto giorno È in momenti come questo, quando sono in scena e do il meglio di me e l'archetto danza sulle corde come se vivesse di vita propria, che mi sembra di volare. Non sono sul palco, non sono davanti al pubblico, non sono nemmeno più su questa Terra: sono in cielo, in un'altra dimensione. Il cuore mi batte al ritmo dei colpi assordanti della batteria di Gavin e la chitarra di Dallas è come un fiume in piena che mi scorre nelle vene e mi trascina da una parte all'altra del palco. Le note mi prendono, mi trasportano, e io suono con tutta l'anima. La musica mi avvolge, entra in me, una fiammata mi percorre dalla testa ai piedi, è un incendio che mi brucia dentro. La parte di pubblico che riesco a vedere è immersa in una luce al neon bluastra con sfumature rosse. Colori vivi, come mi sento viva io; colori che potrebbero distrarmi se non stessi suonando, ma sono concentrata. Io e lo strumento siamo una cosa sola, fa parte di me, e più che dal violino posato sulla spalla, sembra che le note escano direttamente dal mio cuore. Con la nostra musica portiamo il pubblico in uno stato quasi onirico, in un'altalena di emozioni. A Dallas piace cominciare e concludere con canzoni ritmate, che fanno da cornice ai lenti nel mezzo. Suoniamo Whiskey Redemption subito dopo alcune rielaborazioni di pezzi R&B che il pubblico canta con noi. Continuiamo con Ring of Fire e poi quel pezzo di Adele che adoro. Per Love runs out cantiamo tutti e tre, a turno, una sorta di sfida tutti contro tutti. Il prossimo pezzo è il mio preferito e quando lo suoniamo vado al massimo, faccio faville. È una fusione tra Whataya want from me e Beneath your beautiful che abbiamo modificato per renderla più nostra. Tra tutte le cover che abbiamo messo online, è quella più scaricata in assoluto. Convincere Dallas è stata dura e per prendere i tempi giusti ci è voluta un'eternità. Un lavoraccio, ma ne è valsa la pena. Mi basta guardare in faccia il pubblico per convincermene. Suoniamo il pezzo folk che ha scritto Dallas e chiudiamo la scaletta con una nostra versione di When you leave Amarillo. Gli applausi sono assordanti, mi vibrano dentro come una scarica elettrica. Faccio fatica a respirare. Con un inchino ringraziamo il pubblico più numeroso e più entusiasta per il quale ci sia mai capitato di esibirci e scappiamo dietro le quinte. Scendiamo dal palcoscenico e mi sembra di volare sospesa a un metro da terra. Un tipo in giacca e cravatta, forse un potenziale agente, prende mio fratello e lo trascina in un angolo buio. Gavin, invece, è dietro di me. È vicinissimo, sento l'adrenalina che gli scorre nelle vene, anche lui, come me, è euforico. «È stato fantastico!» Mi volto verso di lui. «Anche meglio del sesso.» Smette di tamburellare le bacchette sulle gambe e mi fissa dritto negli occhi. Il suo sguardo color nocciola si fa più cupo quando mi spinge nel corridoio, dove mio fratello non può vederci. «È stato fantastico perché tu sei stata fantastica.» Le fioche luci del backstage che si riflettono nei suoi occhi lo fanno sembrare quasi posseduto, un essere ultraterreno. In quel preciso momento il gruppo successivo sta entrando in scena e mio fratello con una stretta di mano sta accettando un accordo che cambierà per sempre il corso delle nostre vite. Ma qui, adesso, Gavin Garrison mi sta guardando negli occhi, sta facendo l'amore con me solo guardandomi negli occhi. E non voglio che smetta. Mai più. Abbassa la testa, le nostre labbra quasi si sfiorano, con le sue parole riesce a farmi battere ancora più forte il cuore e mi rende totalmente incapace di formulare un pensiero coerente e logico. «Ma se pensi che sia stato anche solo lontanamente paragonabile al sesso, quei bellocci con cui sei uscita fino a ora non hanno capito un bel niente della vita.» 1 Ah, il sesso quando ci si lascia! Zero stress. Nessuna preoccupazione, non bisogna essere perfetti. Fammi godere per l'ultima volta, per favore, arrivederci e grazie. Stammi bene, ma anche no. Tante care cose. Non che io sia un'esperta, per carità. Ho fatto sesso con un solo ragazzo. Ma sono convinta che l'ultima volta sia stata la migliore in assoluto. Quell'ultima volta con Jaggerd McKinley non è stata niente male, tant'è che adesso sto seriamente pensando di rimettermi con lui solo per poterci lasciare di nuovo e godermi una seconda ultima volta. Santo il Signore, quel ragazzo sì che sa muovere le mani. E non solo per riparare auto scassate. Siamo usciti per un anno e me lo aveva sempre tenuto nascosto. «Dixie, è la seconda volta che ti perdi l'attacco.» La voce di mio fratello mi coglie di sorpresa. «Potresti gentilmente tornare tra noi? Questa sala non è mica gratis, sorellina.» «Colpa mia, scusa.» Mio fratello e Gavin mi fissano e mi sento le guance in fiamme. Di solito è Gavin quello che si distrae e sbaglia tutto (perché magari ha adocchiato una bella ragazza o una fan lo ha centrato in pieno con le mutandine che ha appena lanciato sul palco), di solito è lui che mio fratello guarda storto. «Tutto a posto?» Gavin è preoccupato. La scorsa settimana abbiamo suonato al Midnight Rodeo, un locale in centro. Quello che ormai è il mio ex ragazzo non ha mai particolarmente apprezzato Leaving Amarillo, la nostra band, e si è presentato lì ubriaco fradicio. Gavin e mio fratello erano già pronti a prenderlo a cazzotti prima che la sicurezza lo scortasse all'uscita, uno spettacolo decisamente poco edificante. «Sì, tutto a posto. Scusate. Riprendiamo.» Scrollo le spalle, sollevo Oz, il mio violino, e mi preparo a suonare. Dopo appena due battute la musica intorno a noi si interrompe bruscamente, di nuovo. «Cazzo, Dixie! Sono solo tre accordi.» Gli occhi di Dallas sembrano sparare raggi laser color del ghiaccio e il bersaglio da colpire sono io. Abbasso l'archetto e sospiro. «Mi dispiace.» Prendo fiato e sorrido a mio fratello e a Gavin chiedendo scusa. «Giuro che adesso mi riprendo. Sto bene adesso.» «Sei riuscita a dormire almeno un po' stanotte?» Lo sguardo di Dallas si fa più dolce e questa sua improvvisa preoccupazione mi stupisce. Durante le prove e le registrazioni la musica viene prima di tutto il resto. Di solito. Non so se a farlo preoccupare sono state le occhiaie scure che mi ritrovo dopo tutte le notti passate al capezzale di nostro nonno o la mia recente rottura, sta di fatto che per ricominciare aspetta la mia risposta. «Sì, tranquillo. Sto bene, davvero. Riprendiamo.» Con un sorriso forzato, alzo di nuovo l'archetto. Suoniamo senza pause metà della scaletta e combatto con tutte le mie forze contro la stanchezza e i ricordi che mi tormentano, e che non hanno nulla a che vedere con Jaggerd. Alla fine è l'istinto affinato con anni e anni di esercizio a vincere e l'archetto vola sulle corde. «Così, dai!» urla mio fratello dando il cinque a Gavin quando ci fermiamo un attimo per riprendere fiato. «È così che si fa!» Mi sorride e anch'io gli sorrido, Dallas è così entusiasta. «Che cosa ne dici, siamo pronti per Nashville?» Essere riuscita a suonare e aver reso mio fratello orgoglioso di noi mi fa sentire leggera, come se avessi perso cinque chili. «Ci siamo quasi, sorellina. Ci siamo quasi» mi risponde Dallas prima di rivolgersi a Gavin. «Okay, riprendiamo dall'inizio di Ring of Fire e andiamo fino in fondo alla scaletta.» Faccio uno sforzo cosciente per non alzare gli occhi al cielo quando mi chiama sorellina. Nonostante io abbia ormai diciannove anni, Dallas mi tratta ancora come se ne avessi dodici. E come se fosse mio padre. I nostri genitori sono morti in un incidente stradale quando noi eravamo piccoli ed effettivamente è successo che Dallas dovesse farmi da padre. Lo sguardo color nocciola di Gavin cerca il mio e mi fa un cenno per accertarsi che io sia pronta prima di darci l'attacco. Sento un tuffo al cuore, come mi succede ogni volta che ci guardiamo negli occhi per più di mezzo secondo. Mi è bastato quello sguardo per tornare indietro nel tempo, alla prima volta in cui l'ho visto. Gavin Garrison, il batterista della band nonché il miglior amico di mio fratello, è stato la mia prima cotta. Dal momento in cui comparve a casa dei nonni, sotto il portico, il giorno del funerale dei miei genitori, con quei suoi occhi timorosi da cucciolo abbandonato, i vestiti strappati e i capelli troppo lunghi e arruffati, siamo sempre stati un trio inseparabile. Quel giorno fu quasi surreale: gente che non conoscevamo ci camminava intorno in punta di piedi, ci offriva tè, biscotti e qualunque cosa potesse, a parer loro, farci dimenticare che all'improvviso eravamo diventati un'orfana di nove anni e un orfano di dodici. Io e Dallas eravamo seduti sul dondolo sotto il portico, in silenzio, e già di per sé era un fatto strano perché di solito io non tacevo mai. Lo shock e il dolore, però, con le loro mani pesanti mi avevano tappato la bocca. Gavin si avvicinò, con un cenno del mento indicò la gente che entrava e usciva continuamente di casa e poi si rivolse a noi. «Festa?» chiese senza presentarsi. Guardai mio fratello perché non sapevo come rispondere a quello sconosciuto. Dallas deglutì e scosse la testa. «Funerale. I nostri genitori.» Gavin si passò una mano tra i capelli arruffati, scompigliandoli ancora di più. «Ah... cazzo!» Era la prima volta che sentivo quella parola pronunciata ad alta voce, deliberatamente, e un brivido mi percorse la schiena. Con mia grande sorpresa, il cuore iniziò a battermi forte. Da quando la zia Sheila ci aveva comunicato che i nostri genitori erano morti, nel petto sentivo solo dei colpi sordi, lenti, come se il mio cuore avesse deciso che non gliene fregava più niente di niente. «Vi va di andare a rompere qualcosa?» chiese Gavin. Mi girai di scatto verso mio fratello, panico e adrenalina pura mi scorrevano nelle vene. Di' di sì, fu la mia silenziosa supplica. «Perché no?» disse Dallas saltando giù dal dondolo come se seguire tipi un po' strani fosse la cosa più normale del mondo. Scesi insieme i gradini del portico. Dallas ci presentò. Gavin si presentò. Si voltò, mi strinse la mano come facevano gli adulti e giuro su Dio che una scossa mi attraversò il braccio. La stessa scintilla, in quel medesimo istante, brillò anche negli occhi di Gavin e io rimasi come pietrificata. «Che cosa stavi facendo? Perché sei a casa nostra?» gli chiese Dallas guardandolo con sospetto. «Ehm...» Gavin lasciò la mia mano e si grattò la testa. Si guardò intorno, sembrava cercare una via di fuga. Si voltò verso mio fratello e il suo sguardo si fece di nuovo circospetto, velato da quell'ombra di timore. «Cercavo qualcosa da mangiare. Di solito alle feste si mangia.» I ricordi si interrompono bruscamente quando sento il primo colpo sui piatti. È il mio attacco e abbandono il passato per tornare al presente. Sollevo Oz e suono la mia parte; Dallas annuisce, almeno questa volta non ho rovinato tutto, ma si rende conto che sono distratta. Mentre canta i versi che abbiamo scritto insieme, una canzone sul passato che non è fatto solo di ricordi, mi volto verso Gavin. È cambiato molto, non è più il mingherlino attaccabrighe di un tempo. Sotto la maglietta color antracite i muscoli si tendono e si rilassano e adesso ha le braccia ricoperte di tatuaggi. Suona la batteria, ci mette l'anima, e io non riesco a togliergli gli occhi di dosso. È diverso. È più... vivo. È migliorato molto anche in fatto di igiene personale rispetto a quando aveva dieci anni e nella vita doveva cavarsela praticamente da solo. Però ha ancora fame. Un bisogno profondo, oscuro, che quando lo guardo in quei suoi occhi fieri e feroci mi consuma anima e corpo. «Prendiamoci cinque minuti di pausa» dice Dallas al termine della canzone lanciandomi un'occhiataccia che sembra voler dire vedi di ripigliarti, cazzo. «Devo fare un paio di telefonate.» Me ne vado senza dire una parola né all'uno né all'altro. Prendo una bottiglietta d'acqua e salgo la rampa di scale che porta sul tetto. Cerco di non perdermi nei ricordi, ma quella giornata incombe pesante su di me come un cielo in tempesta. Quel giorno, dieci anni fa, corsi in casa a prendere quante più tartine, biscotti e dolci potessi. Era così tanta la fretta di tornare fuori prima che i ragazzi se ne andassero che rischiai di inciampare. Offrii loro quello che avevo preso e mi infilai in bocca una fetta di torta al cioccolato perché non volevo che Gavin si sentisse un caso umano. I miei genitori erano morti da poco e già ne avevo abbastanza della compassione altrui, una sensazione troppo amara. Non la sopportavo. In un certo senso io e quel ragazzino eravamo uguali, me lo sentivo. Ecco perché non feci mai commenti né gli chiesi perché andasse in giro con i vestiti sporchi, i capelli arruffati, tutto solo da una parte all'altra della città in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Mangiammo camminando, il parcheggio abbandonato non era lontano, e appena arrivati cominciammo a lanciare vecchie bottiglie di birra contro il muro di mattoni e continuai finché non riuscii più a sollevare il braccio. Ognuna di quelle meravigliose esplosioni di vetro mi riportava in vita, faceva riemergere le emozioni che avevo nascosto sotto una spessa coltre nera. Il giorno in cui i miei genitori erano morti il mondo era diventato grigio, e non in senso metaforico. Da quel giorno in Texas il clima era diventato uggioso e non aveva mai smesso di piovere. Ma quello sfogo, quel rompere qualcosa, come l'aveva chiamato Gavin, aveva ridato colore alla mia vita come un raggio di sole che filtra tra le nuvole. Mi faceva sentire bene. Troppo bene. Mi stavo divertendo e quel senso di colpa era troppo per una bambina di nove anni. «Caaaazzooooo!» urlai per sfogare il dolore, la confusione. Gavin si fermò e mi guardò. Dallas continuò a lanciare le bottiglie anche quando crollai a terra. Mi nascosi dietro i miei boccoli scuri, una tenda tra me e i ragazzi, e piansi, piansi davvero, per la prima volta da quando avevo ricevuto la notizia. A un certo punto il rumore di vetri infranti si interruppe. «Non toccarla» disse mio fratello con voce calma ma minacciosa, quasi violenta. «Sta bene. Vuoi essere nostro amico? Allora non toccarla, mai.» Alzai la testa e vidi Gavin che si stava avvicinando a me. Stava venendo a consolarmi, probabilmente, ma Dallas l'aveva fermato. La ghiaia sotto le ginocchia e i palmi delle mani mi faceva male, ma io osservavo il ragazzo sconosciuto, la battaglia che si stava consumando nella profondità dei suoi occhi. «Alzati, Dixie Leigh» disse Dallas in tono più dolce. «È ora di tornare a casa.» Casa. Non poteva essere vero. Casa nostra era una villetta nella zona residenziale appena fuori Austin dove giravamo in bicicletta e giocavamo con gli amici. A casa nostra c'erano mamma e papà, i pancake per colazione e i cartoni animati la domenica mattina. Dovevamo tornare in una catapecchia senza televisione, con un portico tutto diroccato, lungo una strada sterrata di Amarillo, e dovevamo vivere con persone che prima vedevamo solo durante le feste. Casa nostra era morta insieme ai nostri genitori. Non saremmo mai più tornati a casa. In cima alle scale esco sul tetto, sento la pesante porta di ferro chiudersi alle mie spalle e prendo un respiro profondo. Oggi qui in Texas è nuvoloso, proprio come quel giorno di dieci anni fa. Io, Dallas e Gavin non vagabondiamo più per le strade di Amarillo come tre cuccioli randagi, ma per certi versi la nostra vita è sempre la stessa. Adesso però giriamo il Texas su Emmylou, la Chevrolet Express che ci accompagna da un concerto all'altro, noi e i nostri strumenti, e suoniamo per chiunque sia disposto a pagarci. Anche quando, a volte, la paga non è altro che un pasto caldo e le mance lasciate in un barattolo. Abbiamo iniziato a suonare a casa dei miei nonni quando io avevo quindici anni, ma abbiamo fatto veramente sul serio solo dopo essere arrivati terzi a un concorso nazionale, quando io ero all'ultimo anno di superiori e i ragazzi si erano già diplomati. Suono il violino nei Leaving Amarillo, e sono brava. Di solito apriamo proprio con me che suono Devil went down to Georgia da sola, per attirare l'attenzione del pubblico. Funziona quasi sempre. Purtroppo quando ci siamo resi conto che i Leaving Amarillo potevano essere molto più di un hobby, io avevo già accettato una borsa di studio per la scuola di musica più prestigiosa del Texas. L'anno scorso ho frequentato il primo semestre alla Shepherd School of Music di Houston, ho studiato musica classica e io e il mio violino eravamo già pronti per la buca dell'orchestra. Quando il nonno ha avuto un attacco di cuore sono riuscita a congelare la borsa di studio e a tornare a casa per prendermi cura di lui. Quando si è completamente ripreso, Dallas e Gavin mi hanno permesso di suonare con i Leaving Amarillo per un paio di serate. E poi ancora altre. E adesso che abbiamo preso lo slancio, spero di non dovermi mai più vestire di nero e seguire come una pecora gli altri musicisti nella buca dell'orchestra. Il problema è che se entro la fine dell'estate non troviamo un manager con le conoscenze giuste che ci metta sotto contratto, a settembre sarò costretta a tornare a scuola. Quante volte gli ho detto che nella buca dell'orchestra non riesco a respirare, eppure Dallas è irremovibile e non mi permetterà mai di rinunciare alla borsa di studio per vivere chiusa in un furgone con lui e Gavin e suonare per due spiccioli. A parte la musica, una ragazza come me non ha molte altre possibilità di carriera. Se lascio la scuola e la band non sfonda passerò il resto dei miei giorni a chiedere ai clienti se con la torta vogliono anche il caffè. Guardo in lontananza il centro di Amarillo, le nuvole grigie che attraversano rapide il cielo, e sento tutto il peso del tempo che scorre, che mi scivola tra le dita veloce e che non riesco a fermare in alcun modo. Prego i miei genitori e chiunque lassù mi stia ascoltando e chiedo una possibilità. Una svolta. Supplico di farcela. Vi prego, vi prego, fateci vivere il nostro sogno. 2 «Che cosa raccontano di bello gli uccellini, oggi?» La voce di Gavin mi riporta alla realtà. «Un sacco di cose. Ne trarrò ispirazione per una canzone sui torti subiti.» Mi volto verso di lui e mi appoggio alla balaustra. Prima di appoggiare i gomiti alla ringhiera, Gavin guarda per un attimo verso il basso e fa una smorfia. Ha sempre sofferto di vertigini, ma Gavin Garrison non è il tipo che si fa fermare dalla paura, lui guarda il diavolo dritto in faccia. «Ah sì? Fammi sapere quando sei pronta a buttarla giù.» Con lo sguardo seguo il profilo delle braccia tatuate e arrivo al petto muscoloso. Poi salgo verso il collo e la mascella, com'è virile. Dei riccioli scuri e folti spuntano dall'orlo del cappellino di lana. Sul mento ha una fossetta, quasi impercettibile, e ne ha un'altra sulla guancia sinistra che compare solo quando sorride. Dio, che cosa non mi si agita dentro quando sorride e quella fossetta compare. Mi basta pensarci e il cuore inizia a battermi a mille. «Ehm, buttarla giù?» Cerco di formulare una risposta sensata, ma purtroppo appena Gavin è arrivato sul tetto ogni pensiero coerente si è volatilizzato. Quando suoniamo, è una cosa incredibile. Le note scorrono alla perfezione e ci completiamo l'un l'altra. Ma se a dividerci non ci sono la musica, e quel muro di mattoni che è mio fratello, divento immediatamente un disastro di proporzioni catastrofiche. «La canzone» mi risponde dolcemente, guardandomi con la coda dell'occhio. «Ah già. Ti terrò informato.» Sospira. «Senti, lo so che sei giù perché tu e come si chiama, coso, vi siete lasciati ma, credimi, tipi come quello...» «Non sono giù per lui. Per Jaggerd.» Gavin mi guarda con aria interrogativa e nel momento stesso in cui le parole escono dalla mia bocca mi pento di non avergli lasciato credere che fosse veramente così. Sarebbe stato molto più semplice da spiegare. «Ah, bene. Meglio. È che mi sei sembrata un po' distratta, giù in sala. E tuo fratello è più nervoso del solito.» «Il nonno ha passato delle notti travagliate. E... sono dieci anni, Gav» sussurro. Dalle rughe che si formano sulla sua fronte capisco che non ha la minima idea di che cosa io intenda. «I nostri genitori. Sono passati dieci anni da quando...» «Oh Dio! Non mi ricordavo... sono un cretino.» È così mortificato che tutto il mio dolore passa in secondo piano, spazzato via dal desiderio di consolarlo. Fa l'espressione, come l'ho definita io. Quella che sembra dire vorrei tanto cancellare tutte le tue sofferenze, portarti a letto e farti stare meglio grazie al mio bel cazzo, ma tuo fratello mi ucciderebbe, quindi me ne starò qui così come uno scemo senza nemmeno riuscire a decidere in che posizione tenere le braccia. «Non fa niente» gli dico per non farlo sentire in colpa. «È solo che oggi mi pesa più del solito.» Lui non lo sa, ma l'espressione mi consola. Perché anche se non può stringermi a sé, anche se non può sussurrarmi parole di conforto all'orecchio, né alleviare il mio dolore con dei baci, o molto di più, i suoi occhi mi dicono che vorrebbe farlo, che è tentato. Per il momento mi basta questo. Mi basta saperlo. Quello che non so è per quanto tempo mi basterà. Gavin tira fuori un pacchetto di Marlboro rosse morbide e con un colpo secco ne fa uscire una. Gli lancio un'occhiataccia. «Non avevi smesso?» I suoi occhi si incupiscono, il suo sguardo in tempesta si fissa nel mio. «Non posso resistere a tutte le tentazioni, scricciolo.» Il fatto che fumi mi irrita, ma un brivido mi scalda il cuore quando sento il soprannome che mi ha dato quando eravamo piccoli. Quell'estate, avevo tredici anni, Dallas e Gavin avevano deciso di fare piccoli lavori di giardinaggio. Dallas voleva comprarsi un furgone, mentre Gavin... non so esattamente che cosa volesse farci con quei soldi. Forse sperava di potersi mantenere da solo e non dover pesare sulle spalle dei nonni. In quel periodo non ero né carne né pesce: ragionavo da bambina e avevo il corpo di una giovane donna. Mi sentivo sia bambina che donna, ma allo stesso tempo non ero nessuna delle due cose. La cena era pronta e la nonna mi mandò a chiamare i ragazzi che stavano tagliando un prato non molto lontano da casa nostra. Avrei voluto saltellare, ma con uno sforzo di volontà camminai lentamente, per non dovermi poi sedere a tavola di fronte a Gavin tutta sudata, appiccicosa e schifosa per colpa del clima umido del Texas. Facevo dondolare le braccia seguendo il ritmo della brezza serale e riuscii a non farmi distrarre da tutti i bei fiorellini che avrei voluto raccogliere. I ragazzi stavano tagliando il prato intorno allo stagno di Camilla Baker, ma quando arrivai li trovai uno vicino all'altro, a guardare per terra. Convinta che uno dei due si fosse fatto male e stesse sanguinando, che avesse perso un piede, o quanto meno un dito, sotto le lame del tagliaerba, iniziai a correre a tutta velocità. «Sssh!» disse Dallas alzando un braccio per evitare che calpestassi quello che stavano guardando. «Credo che sia ancora vivo.» «Che cosa è vivo?» sussurrai, sconvolta dall'immobilità dei ragazzi che, lo sapevo per esperienza, non avevano mai di questi riguardi per niente e nessuno. «Guarda» mi disse Gavin indicando verso terra. «Il petto si muove. Respira.» Immaginai potesse trattarsi di un serpente o di un qualche altro essere rivoltante ma, con un brivido gelido lungo la schiena, guardai ugualmente. E lì, vicino ai cespugli, alle liriopi come le chiamava mia nonna, c'era un uccellino minuscolo, paffuto, dalle piume color nocciola, che respirava affannosamente ma non si muoveva. Istintivamente, mi piegai per raccoglierlo. «No!» gridò Gavin. «Non toccarlo.» «Perché no? Ha bisogno di aiuto.» Scosse la testa e mi guardò con un'espressione vuota che mi tormentò per anni. «Perché è troppo piccolo per cavarsela da solo e la madre non lo vorrà più con sé se sente il tuo odore su di lui. Lo abbandonerà e non riuscirà mai a sopravvivere.» Strani, vero, i ricordi? Mi ricordo che discutemmo a lungo, ma non riuscirei a ripetere quello che ci siamo detti nemmeno con una pistola puntata alla tempia. Ricordo il suo sguardo, ricordo di essermi resa conto, di aver veramente capito per la prima volta, quanto la vita di Gavin fosse diversa dalla nostra. Noi eravamo orfani, è vero. Eravamo passati da un quartiere residenziale a un'esistenza decisamente più misera. Ma dopo una lunga giornata d'estate con Gavin, io e Dallas tornavamo a casa da chi ci voleva bene. Trovavamo cibo, musica, abbracci e dei letti caldi con le lenzuola profumate. A volte Gavin restava da noi, altre volte no. Nemmeno adesso so che cosa significasse esattamente, per Gavin, tornare a casa. Ma so che non era assolutamente come tornare a casa mia. Alla fine Dallas prese l'uccellino, se lo strinse al petto e tornammo a casa. Passammo in rassegna tutte le possibili cause che avevano potuto ridurre il povero animaletto in quello stato. Una volta arrivati a casa, Dallas ci fece finalmente vedere il povero paziente che aveva gelosamente tenuto stretto a sé. Era minuscolo. E immobile. Mi venne il magone, ma riuscii a trattenermi. La vita era dura e Dallas non faceva che ricordarmelo. Non si può piangere per ogni inezia. Ma il fatto che un essere così piccolo e indifeso potesse spirare senza un apparente valido motivo era un'ingiustizia che, a tredici anni, mi straziò. Mi ricordò la morte, la fine tanto tragica quanto inaspettata che mi aveva portato via i miei genitori e quel ricordo incombeva su di me come il cielo del Texas quando si prepara alla tempesta. Proprio quando le lacrime iniziarono ad appannarmi la vista, l'uccellino aprì gli occhi ed emise un cinguettio forte e acuto. Forse era un grazie, o forse un grido di terrore nel rendersi conto di essere prigioniero fra mani umane. Senza che nessuno di noi avesse il tempo di dire nulla, volò via lasciandoci lì a guardare il cielo. Ci sembrava di aver assistito a un miracolo. La nonna ci richiamò in casa e le raccontammo quello che era accaduto, ma penso che non ci abbia creduto, che fosse convinta ci fossimo inventati tutto in un momento di noia. Dopo cena, durante la consueta lezione di piano, provai in tutti i modi a cantare come lo scricciolo. Non ci riuscii. I ragazzi mi presero in giro. A dire il vero era soprattutto Dallas a farlo. Una volta terminata la lezione, e i tentativi di imitazione, uscimmo sul portico a mangiare il gelato nelle coppette di carta, poi Gavin si alzò per andarsene. Ma avevo impressa la sua espressione, il dolore nello sguardo quando aveva parlato della mamma dell'uccellino che lo avrebbe abbandonato, e non volevo lasciarlo andare. Stava facendo buio e il nonno si offrì di accompagnarlo. Io rimasi immobile a escogitare un modo per farlo restare. La nonna obbligò mio fratello a entrare per fare il bagno, il nonno andò a prendere le chiavi del furgone e io allungai un braccio per toccare il ragazzo che, con fare solenne, in piedi sotto il portico, osservava il cielo stellato. Come sempre, era appena troppo lontano perché potessi toccarlo. «Non andartene... rimani» sussurrai e una vampata di calore mi fece arrossire. «Puoi rimanere qui.» Intendevo per sempre, ma non gli ho mai chiesto se avesse veramente capito il senso di quell'offerta. Mi guardò con quei suoi occhi tristi, ma poi mi fece l'occhiolino. «Me la caverò, scricciolo. Non preoccuparti per me.» Ma io mi preoccupavo. E mi preoccupo ancora. Così come lui mi chiama ancora scricciolo. Anche se lo fa esclusivamente quando siamo soli, e mai di fronte a mio fratello. Torno alla realtà, gli strappo la sigaretta ancora spenta dalle mani e la getto oltre la balaustra del terrazzo sul tetto. «Ah sì? Be', direi che al cancro puoi resistere, invece.» «Ma...» Mi guarda a bocca aperta e io scrollo le spalle. «Senza il batterista la band come fa? Ci servirà del tempo per sostituirti.» Serra le labbra e socchiude gli occhi, se non lo conoscessi direi che è arrabbiato. Invece so che sta giocando a fare il misterioso, l'impenetrabile, ma non ci casco perché quella versione di Gavin funziona solo con il pubblico. Con le ragazze che da sotto il palco gli lanciano mutandine di pizzo rosse. Per me, lui è Gav. Il ragazzo che conosco da una vita. Il figlio di una donna sempre troppo ubriaca o strafatta di Dio sa che cosa per degnarsi di crescerlo. Crescerlo è un termine fin troppo nobile per Katrina Garrison. Direi piuttosto che non si degnava nemmeno di tenerlo in vita, ma per fortuna Gavin è forte, un guerriero, e non ha mai avuto bisogno di una come lei. È sempre stato lui a tenerla in vita, a ricordarle di mangiare e di farsi il bagno. Lei era troppo impegnata a racimolare i soldi per la roba per ricambiargli il favore. Il Gavin che conosco io più di una volta è quasi crollato davanti a noi quando quella snaturata, incapace di sua madre è andata in overdose. Quindi è inutile che giochi a fare il duro, con me non funziona. «E va bene, hai vinto.» Infila il pacchetto nella tasca dei jeans, ma io stendo la mano con il palmo rivolto verso l'alto. Con le dita gli faccio cenno di darmi il pacchetto e lui sbuffa divertito. «Dio, Dix! Ti ho detto che quando ci sei tu non fumo, dai. Mi sono costate sei dollari.» Lo guardo storto, non vorrà certo mettersi a discutere con me? Non esiste, ogni suo sforzo in tal senso è vano, e lui dovrebbe saperlo bene. Mi fissa per almeno un minuto, poi esasperato alza gli occhi al cielo e mi dà il pacchetto. Lo butto immediatamente giù dal tetto. «Non si gettano i rifiuti per strada.» «Sempre meglio che starmene qui a farmi venire il cancro per colpa del fumo passivo mentre ti guardo accorciarti la vita un tiro dopo l'altro.» Lo gelo con lo sguardo perché mi fa impazzire. Mi fa incazzare da morire. Gavin è disposto a fare qualsiasi cosa per quella drogata fancazzista di sua madre. Se io o Dallas avessimo bisogno di un rene, lui sarebbe già in sala operatoria per donarcelo. Ma quando si tratta della sua, di salute? No, Gavin viaggia su un treno ad alta velocità diretto al suo funerale. «Sentiresti la mia mancanza, di' la verità.» E adesso che sto meglio, adesso che mi dispiace per lui, Gavin mi tratta con condiscendenza e mi provoca. Mi viene la tentazione di tirargli un calcio negli stinchi. Ma so già che mi butterei subito in ginocchio ai suoi piedi per assicurarmi che stia bene. E se mai mi dovessi inginocchiare davanti a Gavin Garrison, lo so io in quali guai mi andrei a cacciare già che sono da quelle parti... quindi resisto alla tentazione per il suo e il mio bene. «Sì, certo, mi mancheresti Gav» gli rispondo con un sorrisetto ironico. «Perché mi domanderei che fine ha fatto quel grandissimo bast...» «Ah, ah, ah. Signorina! Che cosa direbbe tuo fratello se ti sentisse usare certe parole con me?» Mi fissa le labbra e so che effetto gli fa pensare a me che gli sussurro sconcezze all'orecchio. Sta facendo lo stesso effetto anche a me. «Va bene.» Mi avvicino. «Facciamo un patto: se tu non dici più parolacce non lo faccio neanche io.» «Non lo so. È così sexy sentire due labbra meravigliose come queste pronunciare oscenità.» Non posso che sorridere. «Finalmente la verità viene a galla. Pensi che io sia sexy.» «Tu non hai la minima idea di quello che mi passa per la testa.» Mi strizza l'occhio, ma quelle parole sussurrate sembrano quasi un avvertimento. Appoggia la schiena e i gomiti al parapetto, non mi guarda più in faccia. Non riesco a decifrare la sua espressione. La mascella serrata, rigida. Non riesce a decidersi. C'è sempre stato qualcosa tra di noi. Un feeling particolare. Ma crescendo le cose si stanno facendo sempre più complicate. «Se lo dici tu, Gav.» Scrollo le spalle con aria di sufficienza, come se non me ne importasse assolutamente nulla. Ma sono troppo vicina a lui, tutta la mia spavalderia svanisce come neve al sole e sto per crollare, per supplicarlo, voglio sapere che cosa pensa veramente di me. Di noi. Prima che la tentazione abbia la meglio, mi volto pronta a rientrare. Ma io sono una gran testarda e odio cedere per prima, quindi mi volto verso di lui e gli lascio qualcosa su cui riflettere. «Ah, Gavin?» «Sì.» Lo guardo negli occhi, voglio essere certa che mi stia ascoltando e che capisca esattamente che cosa intendo. «Per la cronaca, nella vita non prendo decisioni in base a quello che potrebbe pensare mio fratello.» Inclina la testa, si mette a braccia conserte e non posso non notare quei bicipiti da sogno. «Ah davvero?» Sì. Al contrario di te. Ho la risposta sulla punta della lingua, vorrebbe uscire. Ma serro le labbra e la tengo prigioniera. Sostengo il suo sguardo e lotto con tutte le mie forze per non tuffarmi in quegli occhi che mi fanno bruciare il sangue nelle vene. «Ci vediamo giù» gli dico, poi fuggo via. «Perfetto. Sì. Certo. Grazie mille, davvero. Grazie. Se posso fare qualcosa per te, fammi un fischio, va bene?» Dallas riaggancia e i suoi occhi azzurri cercano prima me, che sto mettendo la pece all'archetto, poi Gavin che ci ha appena raggiunti. «Era Levi Eaton» ci dice senza lasciarci il tempo di chiedergli chi fosse al telefono e perché adesso abbia quel sorriso quasi inquietante stampato in faccia. «La sua band si ritira dal MusicFest di Austin. Il tastierista è andato a letto con la moglie del cantante. Ovviamente hanno deciso di prendersi una pausa.» «Fantastico» commenta Gavin sarcastico. «Sì!» risponde mio fratello mentre Gavin si chiude la porta alle spalle. Sembra che abbia vinto alla lotteria. «Cioè, non è fantastico che quel tipo si sia scopato la moglie di quell'altro. Ma questo significa che al festival si è liberato un posto per una band.» Il MusicFest di Austin sulla Sesta Strada dura cinque giorni e dopo il South by Southwest è il festival più grande e importante che ci sia. Non pagano molto, ma otterremmo molta più pubblicità in quei cinque giorni che in tutto il resto dell'anno. Se non di più. Da quando abbiamo iniziato a suonare sul serio, ci siamo iscritti tutti gli anni, ma non siamo mai stati inseriti nel programma. «Quindi secondo te dovremmo presentarci là e far finta di essere la band di Levi?» Poso la pece e intervengo anch'io. «No.» Dallas ride come se avessi raccontato una barzelletta. «Ci hanno preso. Hanno preso noi, proprio noi. Levi ci lascia anche la sua stanza in hotel. E per fortuna, altrimenti avremmo dovuto dormire nel furgone per una settimana.» Mi sento mancare il respiro come se Dallas con un colpo di spada mi avesse fatto scoppiare i polmoni. Forse qualcuno lassù ha ascoltato la mia preghiera. Fino a ora abbiamo partecipato solo a eventi vicino a casa. Suonando anche fuori città, ovviamente è capitato che dormissimo nel furgone, ma mai per più di una notte. I ragazzi sono sempre rimasti davanti, io invece ho usato il sedile posteriore. Di solito guidiamo a turni quell'ammasso di ferraglia che abbiamo affettuosamente soprannominato Emmylou, per via della mia cotta per Emmylou Harris. Questa volta invece sarà diverso. Molto diverso. «Saranno presenti almeno un centinaio di manager, e altrettanti agenti, per non parlare dei dirigenti delle case discografiche. Ci siamo. È la nostra grande occasione. Finalmente!» Mio fratello ci sorride. «Ci hanno preso. Porca puttana, ci hanno preso!» I ragazzi si danno il cinque, io intanto cerco di analizzare tutte le implicazioni del caso. Quando il mio sguardo si posa sul ragazzo tatuato e tormentato che sorride dietro la sua batteria mi si secca la gola. Ho fatto tutto il possibile per mantenere le distanze, per contenermi, per tenere la bocca chiusa e non aprirgli il mio cuore. Avrei rovinato tutto. Una settimana. Una stanza d'albergo. La nostra opportunità di successo. Non so se ce la farò. So che devo farcela.