Quando gli Alleati entrarono in Roma

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Quando gli Alleati entrarono in Roma
Quando gli Alleati entrarono in
Roma
Giuliana Dea
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Il 4 giugno 1944 gli Alleati entravano a Roma, dopo mesi di attesa inutile
ad Anzio. Prima di entrare nella Capitale, si assicurarono che i tedeschi
se ne fossero andati. Poi si fecero vivi passando per la via Appia.
Nel primo pomeriggio del 5 giugno la famiglia di Paolino usciva dalla sua
casa in Via Monza, si faceva una passeggiata per via Taranto e giungeva
a via Urbino, parallela dell’ Appia, quella nuova, per una visita di cortesia
agli zii.
Era un’abitudine rimasta in piedi, quella di recarsi a trovare i parenti,
persino negli anni di guerra.
Ed era abitudine andarci a piedi, un po’ perché erano quattro passi, e
molto perché durante la guerra, ma neppure prima a dire il vero,
di
automobili ce n’erano poche, di solito in dotazione agli ufficiali tedeschi, ai
gerarchi fascisti e alle famiglie molto ricche come quella degli zii. Alle
famiglie molto povere come quella di Paolino, l’automobile era preclusa.
A dire il vero il bambino, approfittando della giovane età e del suo stato di
nipote, si era fatto scarrozzare dallo zio prima della guerra, divertendosi
un mondo.
Ora l’auto non c’era più, per motivi che non aveva mai chiesto e che
comunque, data la sua giovane età, non gli avrebbero mai spiegato. Ma
in mancanza di quella non poteva certo dire di annoiarsi. Anzi. Tra giochi
militari imparati in dodici anni di regime fascista e finalmente messi in
atto, bombardamenti e via dicendo l’automobile era l’ultimo dei suoi
pensieri.
Paolino era stato Figlio della Lupa e se non fosse scoppiata la guerra di
sicuro avrebbe avuto anche lui la sua bella divisa da Balilla.
Ma vuoi mettere la guerra e le bombe che esplodono, l’oscuramento, i
soldati, le divise autentiche e il vecchio del quinto piano che ti dice di
portare foglietti da qualche parte, ‘ma nun glielo dì a tu’ madre’?
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Era meglio di qualunque cosa. E i giochi pensati insieme al cugino
Augusto ne avevano guadagnato.
Anche adesso che andavano tutti insieme, mamma, nonna e fratello
minore (papà non c’era, come al solito) in visita di cortesia agli zii, Paolino
camminava concentrato sui giochi nuovi che avrebbe comportato
l’ingresso a Roma degli Alleati. Lui voleva fare il tedesco. Gli Alleati,
soprattutto quelli americani, gli sembravano dei babbei.
Avrebbe costretto Augusto a fare l’americano, sì.
Mentre preparava il suo gioco, il portone degli zii si presentava ai suoi
occhi. Il portone degli zii si faceva per dire: la loro famiglia viveva in un
palazzo, esattamente come Paolino e la sua famiglia. Le uniche
differenze erano l’ascensore (un affare di legno abbastanza instabile, su
cui la nonna si rifiutava di salire, e quindi, per rispetto, tutti quanti
evitavano, facendosi i 4 piani di rampe quadruple a piedi) e il fatto che a
casa di Paolino si dormiva tutti nella stessa stanza, incluso nonno, che
però non poteva alzarsi dal letto, e nonna.
A casa di Augusto al massimo si dormiva in tre per stanza, e i nonni non
c’erano, perché se stavano da Paolino, come facevano a stare anche a
casa di Augusto?
Mamma entrò nel portone. Salirono tutti in fila le scale e in mezzo al
fiatone proveniente dalle due persone adulte, bussarono alla porta.
Venne ad aprire la zia.
Ora, a Paolino la zia non piaceva molto. Aveva sempre un’aria alla io so’
io e voi nun siete un cazzo (erano parole del nonno, che arrivava da
Napoli ma dei modi romani aveva imparato quello che serviva…) e la
sottolineava con vestiti sempre curati, che cambiava di continuo
nonostante la guerra e l’impossibilità di trovare qualunque cibo,
figuriamoci la stoffa pregiata…
Mamma diceva che la zia non aveva vestiti nuovi, ma che metteva a
rotazione quelli che affollavano il suo guardaroba, di modo che nessuno
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si accorgesse che anche a casa sua erano state necessarie ristrettezze
economiche.
Paolino sapeva cos’erano le ristrettezze economiche, glielo spiegavano
un giorno sì e l’altro pure da quando aveva 4 anni, con la
raccomandazione di non sentirsi mai inferiore (che cosa significava?)
perché loro erano poveri ma onesti e non c’era nulla di cui vergognarsi.
Quello che non riusciva a capire era perché, quando mamma diceva che
anche la zia era in ristrettezze economiche, la sua aria era contenta come
se la zia dovesse vergognarsi di qualcosa.
Però quel pomeriggio la zia aveva un’aria diversa. Anzitutto indossava lo
stesso vestito della settimana precedente, e lo notarono tutti. La mamma
e la nonna si erano lanciate uno sguardo eloquente.
Inoltre si scusò, perché avrebbero trovato un po’ di disordine. Il fatto era
che c’erano stati ospiti inattesi, e così…
Alle scuse tutta la famiglia tacque. Era decisamente un fatto nuovo. Come
era nuova la faccia della zia, che lungi dall’ io so io e voi nun siete un
cazzo, sembrava piuttosto spaventata.
Non ebbero nemmeno il tempo di fare domande: la padrona di casa si
voltò e fece strada nel salotto.
La zia, infatti, aveva anche il salotto, una mancanza di cui la mamma si
lamentava. Però si lamentava pure delle pulizie che doveva fare in casa,
e Paolino si chiedeva perché si lamentava tanto quando aveva una
stanza in meno da pulire.
E a dirla tutta, tenere il salotto come lo teneva la zia sarebbe stato un
lavoro a tempo pieno, che una donna sempre sola perché il marito si
faceva vivo solo quando doveva portare lo stipendio (quando smontava
dal lavoro, o prima di cominciare i suoi turni di tranviere, papà trascorreva
tutto il suo tempo in compagnia dell’amico Oreste, a farsi fregare da
qualcuno che prometteva un buon affare o impegnato in sedute spiritiche
in cui sosteneva di essere in contatto nientemeno che con Ettore
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Petrolini… Il tutto cercando di rispettare il coprifuoco. Insomma non c’era
mai) e con due figli più genitori a carico non avrebbe potuto compiere da
sola.
Forse perché il lavoro era troppo pure per la zia, fino a un paio d’anni
prima una ragazza le dava una mano con le pulizie tutti i pomeriggi.
Paolino aveva capito che dire alla mamma di trovare anche lei un aiuto
per le pulizie gli avrebbe procurato un ceffone e che la sua mancanza
doveva avere a che fare con le loro ristrettezze economiche, così evitò
sempre la domanda.
Era sveglio, Paolino. Così sveglio che si accorse subito di quello che non
andava nel salotto.
Anzitutto, sul pavimento c’erano resti di vetri, provenienti dalle finestre
divelte. Era giugno e faceva caldo, quindi la mancanza dei vetri non
provocava grandi fastidi. Più snervante era invece lo spettacolo delle
ceramiche del servizio buono, che la zia si ostinava a tenere nella
credenza, lucide e in bella vista nonostante i pericoli dei bombardamenti,
ormai ridotte a cocci inutilizzabili.
Inoltre, il salotto era occupato.
Al tavolo c’era lo zio con un soldato seduto e un altro in piedi, di fianco
alla finestra, e
la bottiglia della grappa che Paolino e Augusto non
potevano toccare, insieme a tre bicchieri.
La zia, dopo aver accolto madre e sorella, comincio a portare questo,
quello e quell’altro in giro per casa, come faceva ogni volta che
arrivavano ospiti, mentre di tanto in tanto lanciava occhiate tristi ai
cadaveri dei suoi poveri piatti…
Paolino riconobbe subito le divise dei due soldati: le aveva viste in un
giornale per ragazzi che Augusto comprava tutte le settimane e gli
passava quando finiva di leggerlo.
A casa di zia c’erano due soldati americani!
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E Augusto, seduto su una sedia, giocava con un casco, tutto concentrato.
Se lo studiava bene, dalla forma al cinturino di pelle che serviva a
chiuderlo sotto il mento.
Paolino, sganciandosi dal controllo della mamma, si avvicinò al cugino e
si sedette, guardando il casco ammirato, ma anche incuriosito.
Che stava succedendo?
Succedere, si seppe poi, non stava succedendo più nulla. Era già
accaduto.
Durante la mattinata, subito dopo l’ingresso a Roma degli Alleati, c’erano
state scaramucce tra l’esercito tedesco e quello alleato. Gli Alleati
temevano l’eventualità di trovarsi davanti pattuglie nemiche che non
avevano recepito l’ordine di lasciare Roma, e si erano preparate
all’eventualità di dover rispondere al fuoco.
Fu così che un drappello di soldati di cui facevano parte i due ospiti della
zia andò in avanscoperta sull’Appia Nuova, si ritrovò in via Urbino e vide
in un palazzo un’ombra sospetta. Che iniziò a sparare.
Il drappello a quel punto si rifugiò nel portone degli zii, mentre dal palazzo
di fronte cominciarono a partire altri colpi.
Era chiaro che si trattava di soldati tedeschi.
E così, proprio tra le finestre del palazzo di Augusto e quelle del palazzo
di fronte, cominciarono a volare colpi di Garand M1, in risposta ai Mauser
nemici. Nel contempo, i soldati alleati bussarono alle porte degli inquilini,
che li fecero entrare senza protestare (anche se poi si seppe che la zia,
tanto per non smentirsi, aveva tentato di discutere con uno di questi, fino
a quando lo zio, uomo in grado di capire quando è il momento di
desistere, non l’aveva trascinata in casa facendo spazio ai soldati alleati),
per appostarsi alle finestre e controbattere colpo su colpo all’esercito
nemico.
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Questa azione liberatrice aveva procurato collassi agli anziani, spaventi
alle mamme, preoccupazione nei padri e divertimento nei bambini in età
scolare, come Augusto. Per non parlare dei vetri rotti, dei mobili
scheggiati quando non distrutti e dei piatti distrutti.
Fortunatamente, gli unici periti sul campo che si contarono a fine
sparatoria furono i soldati dei rispettivi eserciti.
Ma al recupero dei corpi si ebbe la sorpresa più grande.
Era accaduto che nel palazzo di fronte, ignaro dell’iniziativa americana,
un drappello di soldati polacchi si era fatto strada tra le famiglie nello
stesso modo degli ospiti della zia, alla ricerca di soldati nemici.
E per un qui pro quo, anche dalla parte opposta si era creduto di trovarsi
davanti a soldati nemici. Credenza supportata, peraltro, dai colpi di
semiautomatica sparati contro le finestre.
Ora, i soldati polacchi fin dall’inizio della guerra si erano arruolati come
volontari nell’esercito inglese (e ne avevano ben donde: in fondo era la
Polonia, ad essere stata invasa il 1 settembre 1939 dalla Wermacht…)
Quindi la sparatoria che ebbe luogo fu, in definitiva, una sparatoria tra
alleati. E i colpi sparati dal palazzo opposto, anziché provenire dai
Mauser, erano gli stessi identici colpi di Garand M1 esplosi dai soldati
americani.
Nessuno però se ne rese conto fino al momento di contare e recuperare i
caduti.
Questo era accaduto a casa di un Augusto visibilmente eccitato e poco
preoccupato per i vetri rotti e le stoviglie distrutte, che si impegnava nel
racconto al cuginetto Paolino.
E Paolino?
Rodeva di invidia. Letteralmente. Si ricordò improvvisamente della
stupidità con cui aveva implorato la mamma, il mattino, di non andare a
trovare la zia immediatamente. Aveva da ritagliare le figurine del giornale.
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Le figurine del giornale! Suo cugino era in mezzo a una vera e propria
battaglia, e lui a casa a tagliare figurine inutili…
Con l’aria mogia, guardò gli adulti che ormai erano pacifici e tranquilli, tutti
seduti, eccezion fatta per la zia, intorno al tavolo ad ascoltare l’italiano
stentato e inframmezzato di parole incomprensibili pronunciate dal
soldato seduto.
Gli adulti ridevano a ogni risata del soldato, un po’ per cortesia e molto
per
paura
che
si
offendessero
e
riprendessero
in
mano
le
semiautomatiche, stavolta per rivolgerle contro di loro.
Il soldato in piedi non rideva e guardava Paolino, sempre più mogio. Si
avvicinò e gli porse un rettangolo incartato. Paolino, dimenticando la sua
delusione, prese il rettangolo e lo scartò: c’era una tavoletta di cioccolato.
Fu così che Paolino scoprì che il cioccolato in dotazione alle forze
americane era fondente. E pure buono…
Il cugino Augusto, ormai stanco di studiare l’elmetto, guardò Paolino e la
sua bocca sporca di cioccolata.
– Che, me ne dai un pezzetto?
Paolino, a bocca piena:
– L’ha data a me. Te magnate quello – indicando l’elmetto che ormai
giaceva dimenticato su un bracciolo del divano.
Il 6 giugno sul quotidiano locale non si trovò traccia della sparatoria tra
soldati alleati. Ma in fondo alla prima pagina, in un trafiletto, un titolo
recitava
‘Primi scontri tra Alleati ed esercito tedesco’.
Sotto si poteva leggere un articoletto di poche righe che decantava ‘la
mirabile impresa dei liberatori, i quali con sprezzo del pericolo avevano
sgominato un’intera guarnigione di invasori tedeschi’.
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