LookOut Magazine n. 13 - novembre 2014

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LookOut Magazine n. 13 - novembre 2014
STATO ISLAMICO I volti dei leader del Califfato
www.lookoutnews.it
SANTA
DUBITO
Non è nelle
grazie del gotha
di Bruxelles.
Ma il nostro Alto
Rappresentante UE
ha tutte le carte in
regola per fare bene.
Ecco i dossier che la
metteranno alla prova
anno I - n. 13 novembre 2014 |
Federica
Mogherini
26
giovane, donna,
deterMinata
e ben preparata.
le doti del nuMero
uno degli esteri
dell’unione
ci sonotutte.
Manca solaMente
il resto
| anno II - numero 13 - novembre 2014
geopolitica
12 iraQ
Come si finanzia
lo Stato Islamico
56
18 Qatar
Piccoli emirati crescono
27 aFghanistan RPG,
arma simbolo
osservatorio sociale
Monitoraggio dei principali
eventi e FenoMeni ribellistici
ed eversivi nel nostro paese
econoMia
le rubriche
40
libano
che ci Fa l’italia
in libano?
22
l’araba Fenice
Terroriste o freedom
fighters?
42
do you spread?
I conti in tasca agli italiani
44
borsa energetica
Riad contro tutti
52
spy gaMes
Quando le spie erano
scout
56
osservatorio
sociale
Calma apparente
58
dietro lo
specchio
Regime change e
diversioni strategiche
59
un libro
al Mese
Congo
26 europa
Un colpo al cerchio
32 italia
Renzinomics
34 reportage
da salonicco
Tra le macerie d’Europa
36 polonia
Gli equilibristi di Varsavia
38 libia
Crisi libica, un affare italiano
40 libano
Che ci fa l’Italia in Libano?
sicurezza
46 regno unito
Alle armi! Alle armi!
49 regno unito
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50 stati uniti
Cyberwar is coming!
But not so fast...
la vignetta
“ Tu nis ia: l e pr ime el ezi oni d em ocratic he
26 ottob re 2 01 4 ”
GIHEN BEN MAHMOUD
Artista di origine
tunisina, vive e lavora
da sette anni a Milano
come disegnatrice ed
interprete, da sempre
coltiva la passione per
il disegno e la scrittura.
Ha lavorato per diversi
anni come graphic
designer con Edizioni
MC (Tunisi), per poi
iscriversi alla Scuola
d’Arte Applicata a
Milano. Gihèn ha
illustrato vari libri per
l’infanzia, campagne
pubblicitarie e
manifesti. Realizza
inoltre illustrazioni
per articoli di stampa
in Tunisia, Italia e
nel resto del mondo su
argomenti di attualità
sociale e politica.
Questo disegno è
estratto dalla mostra
OrienTellers, quando
le donne raccontano
l’Oriente organizzata
dall’università IULM
di Roma.
LA VOLTA BUONA, FORSE
DI MARIO MORI
l’editoriale
a copertina che abbiamo
dedicato a Federica Mogherini è solo apparentemente irriverente. Non
dubitiamo, infatti, che la
nuova responsabile della
politica estera europea
abbia la capacità, la preparazione e la forza di carattere
necessarie per onorare il suo
impegno.
La copertina non è neanche
un atto di piaggeria verso il governo. È soltanto il riconoscimento di un innegabile risultato positivo conseguito dal presidente del consiglio Matteo
Renzi, non solo nell’assicurare
all’Italia un posto che conta
nel “super governo” europeo
ma anche una vittoria tattica
nella sua battaglia, a Roma come a Bruxelles, per fare in modo che la politica torni in primo piano attraverso il ridimensionamento degli sconosciuti
L
burocrati che troppo spesso nel
nostro Paese e in Europa hanno
condizionato “le politiche”.
Un altro elemento positivo,
tutto da dimostrare (e da qui il
nostro “dubito” di copertina),
della nomina della nuova Lady
Pesc potrà risultare da un rilancio della politica estera
dell’Unione: se proviamo a
guardare a tutte le grandi crisi
dell’ultimo decennio, fatichiamo a trovare qualche timido
accenno alla presenza dell’UE
sullo scacchiere internazionale. Dal Nord Africa al Medio
Oriente, dall’Africa all’Europa,
dal Sud America all’Asia,
l’emergere di crisi nei vari focolai di tensione regionali e
internazionali non ha mai visto l’Europa come protagonista in tentativi di mediazione
e di soluzione.
Forse con la Mogherini potrebbe essere la volta buona.
inbox
il direttore editoriale
risponde
obama e la sconfitta
alle elezioni di mid-term
In America si dice sempre che il
presidente che si avvicina alla fine
del suo mandato è ‘un’anatra zoppa’.
Ma se gli americani non credono più in
Obama è semplicemente perché non
ha mantenuto le promesse fatte.
Adesso dovrà negoziare ogni mossa
con i repubblicani e questo inciderà
negativamente anche sulla politica
estera. Chi ci guadagna in tutto ciò?
Forse la risposta si trova nella parte
orientale del mappamondo...
come evitare la delocalizzazione delle imprese italiane
Mentre i tedeschi hanno avuto proprio nell’economia del trasporto un
buon vantaggio in grado di compensare le perdite derivate dalla delocalizzazione, in Italia questo non è successo. E non per questioni geografiche, ma infrastrutturali. Se sullo sfondo andiamo a metterci un cuneo fiscale
allucinante e un quadro giuridico sempre mutevole, incerto e spesso dipendente dai localismi, la frittata è spiegata.
paolo flegar
Burocrazia, sindacati, Tar, codice civile, codice di procedura penale, codice penale, sanità, amministrazioni locali, tasse sul lavoro, sui lavoratori, su chi vuole lavorare, su
chi vuole far lavorare... Vuole qualche altro motivo che spieghi la delocalizzazione?
rino carino
Ucraina, pUtin continUa a spiazzare Usa e Ue
In realtà non tutti i presidenti americani a metà mandato vengono definiti
‘anatre zoppe’. Con questo termine si
qualificano i presidenti che entrano da sconfitti nella fase calante del loro mandato,
presidenti che hanno perso credibilità presso
l’elettorato o capacità di influenza sul Congresso. Obama è uscito dalle elezioni di midterm in condizioni peggiori di un’anatra
zoppa: ha raggiunto i minimi storici di
popolarità per un presidente, ha smarrito
peso a livello internazionale grazie a una interminabile serie di gaffe e di tentennamenti
(ricordate la “linea rossa” in Siria?) e, quello
che più conta, non ha più una maggioranza
al Senato o alla Camera dei rappresentanti
degli Stati Uniti.
Forse non soltanto nella parte orientale del
mappamondo bisogna cercare chi ci guadagnerà. Anche al centro e al sud della carta
geografica c’è chi è soddisfatto di un colosso
americano retto da un presidente che si trova a fare i conti con una realtà di cose fatte
ma, soprattutto, non fatte.
Dopo che la Russia ha ottenuto con gli accordi di Minsk il cessate il fuoco nell’est dell’Ucraina, per gli USA, l’Unione Europea e la NATO rincorrere il Cremlino sarà ancora più difficile. L’Occidente d’altronde non può
nemmeno fidarsi troppo del nuovo governo di Kiev come alleato.
marco f.
Putin ha dimostrato in tutta la crisi ucraina di stare sempre avanti di un paio di
lunghezze rispetto a Europa e Stati Uniti. Il sostegno incondizionato offerto dai governi occidentali alla rivolta di Piazza Maidan, che solo oggi scopriamo essere stato
un golpe organizzato da gruppi neo-nazisti ucraini con l’appoggio della CIA (Brennan,
il direttore, per lavorare meglio si è addirittura fatto arredare un ufficio a Kiev), ha costretto di fatto l’Unione Europea a offrire costose garanzie finanziarie al governo di Poroshenko, ha portato la Russia a governare le trattative con il nuovo governo ucraino e
ha messo in castigo dietro la lavagna come uno scolaretto indisciplinato un segretario di
Stato americano, John Kerry, che è riuscito a sbagliare sia quando ha aperto bocca che
quando è stato zitto.
la morte del petroliere de margerie, cUriose coincidenze
Le teorie complottiste sulla morte dell’ad di Total Christophe de Margerie sono certamente interessanti. Resta da spiegare, però, chi lo ha
ucciso. Sono stati gli USA sotto il naso di Putin? O lo stesso Putin per creare
un “caso”? Oppure Hollande per far fuori un personaggio scomodo?
marcello mori
SCRIVI A:
[email protected]
[email protected]
Le teorie del complotto sono sempre molto affascinanti, ma spesso portano fuori
strada. Certo la morte di De Margerie priva la Russia di Putin di un prestigioso supporter occidentale. Ma lei ce li vede Obama e Hollande intenti a pianificare un’operazione così sofisticata? Francamente forse sono più fortunati che subdoli.
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Messico
uruguay
Marocco
spagna
Lo stallo nelle indagini
sul caso dei 43 studenti
scomparsi a fine
settembre a Iguala ha
provocato scontri in
tutto il Paese. E ora
spuntano anche le spese
pazze della first lady
Angelica Rivera Hurtado.
Il candidato del Frente
Amplio Tabaré Vazquez
corre da favorito al
ballottaggio
presidenziale del 30
novembre contro Lacalle
Pou. Difficile però
ripetere il gobierno feliz
di José Mujica.
La nazionale marocchina
è stata squalificata dalla
Coppa d’Africa 2015 dopo
che il governo si è rifiutato
di ospitare il torneo
di calcio, temendo la
diffusione del virus
Ebola. Riuscirà la FIFA a
trovare una nuova sede?
Il 9 novembre quasi due
milioni di persone hanno
votato il referendum
per l’indipendenza della
Catalogna, che ha però
solo valore simbolico.
Per il governatore della
Catalogna in arrivo guai
giudiziari.
nigeria
Dopo la tregua tra il
governo di Abuja e Boko
Haram, gli islamisti
continuano a fare razzie
e adesso potrebbero
ostacolare anche la
rielezione del presidente
Goodluck Jonathan.
Pace a rischio.
iran
In attesa del 24
novembre, ancora
nessun passo avanti
sul nucleare iraniano.
Teheran intanto non
perde tempo e firma
con Mosca un accordo
per costruire otto nuovi
reattori nucleari.
aFghanistan
L’insediamento di
un nuovo governo non
è servito per arginare
la furia dei talebani.
Nel 2014 più di 4.500
soldati afhgani sono
stati uccisi, a un mese
dalla fine della missione
internazionale.
cina
Al vertice APEC, Xi
Jinping ha rafforzato la
partnership energetica
con la Russia. Ma il vero
obiettivo del patto
stretto con Putin è
tagliare fuori il dollaro
dagli interscambi tra
Mosca e Pechino.
ACCADDE
OGGI
COME
ERA
IL MURO
NELL’89
8
Perimetro totale: 155 km
Controlli elettronici: 127,5 km
Torri di osservazione: 302
Cani da guardia: 259
Bunker: 20
Addetti alla sorveglianza:
11.000 soldati
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gerMania |
di Luciano Tirinnanzi
9 novembre 1989
Fine delle ideologie
25 ANNI SENZA
IL MURO
l 9 novembre 1989, a forza di picconate, venne giù il celebre muro
di Berlino e, con esso, crollarono
come noto anche quegli ideali
comunisti propagandati sui generis dall’Unione Sovietica, che a
sua volta non resse al colpo fatale assestatogli dalla storia e dal capitalismo. Eretto nell’agosto del 1961 per
dividere in due visioni antagoniste del
mondo un Paese occupato e un intero
continente devastato dalla seconda
guerra mondiale, la caduta del muro
avrebbe dovuto segnare anche un significativo progresso nelle relazioni
internazionali tra Est e Ovest. Non andò esattamente così.
Ciò nonostante, quello fu un giorno
vittorioso. Per i tedeschi innanzitutto,
ma anche per Stati Uniti, Vaticano e
numerosi altri Paesi europei. Per molti
altri, invece, a cominciare dai Paesi
del blocco sovietico che guardavano a
Mosca come all’unico orizzonte politico possibile, fu solo l’inizio del declino. Da quel modello che dominò il
mondo dalla Conferenza di Yalta in
poi - quando Roosevelt, Stalin e Churchill delinearono le rispettive aree di
influenza - si era giunti così a un nuovo capitolo, ancora tutto da scrivere.
I
L’attivista e politico
polacco Adam Michnik distribuì nel seguente modo i meriti
di quel risultato epocale, che segnò la fine
delle ideologie del XX
secolo: “Se chiediamo
a Washington, diranno
che è caduto per merito
di Reagan. Se a Mosca,
per Gorbaciov. Se in
Vaticano, per merito di Karol Wojtyla.
Se a Berlino per merito di Kohl. Se a
Varsavia, diranno che è stato per merito nostro. Per me ha cominciato a cadere a Danzica, quando la protesta degli operai di Solidarnosc sancì la fine
del comunismo: erano dei proletari
che protestavano contro la dittatura
del proletariato”.
La fine delle ideologie si stava portando dietro la fine del dominio del
mondo da parte di due oligopoli. Un
avvenimento che era la somma di più
cause e al quale si era giunti grazie al
contributo di numerosi soggetti politici, molti dei quali iniziarono ad attrezzarsi per costruire la geopolitica del
futuro già dal giorno seguente.
Solo l’Italia, tra le potenze europee,
sembra non essere mai riuscita a evolvere da quello schema. Secondo lo scacchiere crimeano del 1945, noi eravamo
parte dell’Occidente e tali saremmo
dovuti restare, ma una larga parte della popolazione per decenni guardò fiduciosa a Mosca e al comunismo,
senza tuttavia spostare l’ago della bilancia politica, per come era stata
concepita.
Oggi che tutto questo non c’è più,
che il muro di Berlino è divenuto il
proverbiale ‘pezzo da museo’ (alcune
sue parti si possono persino acquistare
su Ebay) e che sia Mosca sia Pechino
parlano ormai il linguaggio del capitalismo, in Italia la nostalgia del tempo
che fu è però rimasta. Con tutto il suo
odore stantio e la sua anacronistica resistenza al cambiamento, che ci ha
precipitati in un incubo amministrativo per insipienza di classi dirigenti che
non hanno mai riconosciuto la fine di
una stagione e che si comportano alla
stregua dei peggiori amanti, che non
riescono ad accettare la fine di una,
pur grande, storia d’amore.
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9
FACES
I volti più significativi
del mese
Il dopo
ELEZIONI
in Ucraina
10
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ALEKSANDR ZAKHARCHENKO
Classe 1976, ex elettricista e oggi capo delle milizie Oplot,
è stato eletto primo ministro della Repubblica Popolare
di Donetsk, con il 75% delle preferenze.
IGOR PLOTNITSKY
Classe 1964, già ministro della Difesa e da agosto presidente
della Repubblica Popolare di Lugansk, è stato riconfermato
leader con il 63%.
PETRO POROSHENKO
Il presidente dell’Ucraina, quello vero, non è riuscito a imporre
la sua coalizione nelle urne (22%), pertanto la sua leadership
esce ridimensionata.
VLADIMIR PUTIN
Nonostante gli americani sognino di disarcionarlo dal Cremlino,
l’unico a ridere oggi è il presidente della Russia, il cui indice di
gradimento ha raggiunto il 70,3%, tra i massimi storici.
ARSENY YATSENIUK
La coalizione del primo ministro ucraino ha ottenuto
un ottimo 23% alle elezioni parlamentari. Oggi è lui a insidiare
la presidenza e a spingere per il proseguimento delle ostilità.
BARACK OBAMA
Dopo aver perso anche il Senato nelle elezioni di mid-term,
il presidente USA non controlla più il Congresso (e nemmeno
il Paese). Il suo indice di gradimento è al 40%, in caduta libera.
geopolitica
CALIFFATO
ISLAMICO
Le finanze
La catena
di comando
Le figure chiave
La “promessa
di Allah”
QATAR
Gli obiettivi
di Doha
ITALIA
I commerci con la
penisola qatarina
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Come si
finanzia
lo Stato
Islamico
geopolitica
l’ascesa del gruppo
è stata possibile anche
grazie alle enormi
disponibilità economiche,
calcolate oggi intorno
ai due miliardi di dollari.
estorsioni, contrabbando,
riscatti di ostaggi, ma
soprattutto vendita del
petrolio al mercato nero,
finanziamenti esteri
e razzie nelle banche.
ma quanto pesano queste
voci nel bilancio
dei jihadisti sUnniti?
di Luciano Tirinnanzi
IRAQ
uando a giugno le armate di Abu Bakr
Al Baghdadi conquistano Mosul, nella
Iraq’s United Bank for Investment trovano un tesoro di 500 miliardi di dinari
- oltre 450 milioni di dollari, un quarto
del patrimonio totale - che permette
loro di fare il salto di qualità. Ma, in
parte, questa notizia è propaganda.
Athil al-Nujaifi, governatore della provincia
di Ninive (dove si trova Mosul), ha confermato
come i jihadisti sunniti abbiano razziato numerosi milioni da questa e da altre banche nell’area. Ma la grande banca finanziaria irachena
fino a poche settimane fa sosteneva che quel
mezzo miliardo di dollari ghermito dai miliziani dalla filiale di Mosul “non è mai stato
rubato” e che la banca continua a operare
normalmente.
Eppure, è un fatto che Mosul sia stata ampiamente saccheggiata di soldi, armi e mezzi
prima di divenire la capitale irachena del Califfato, controllata direttamente dalle milizie del Califfo, che ha scelto proprio questa città per fare la
sua prima e unica apparizione in pubblico.
Q
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geopolitica
LA CADUTA DI MOSUL
Base militare di Al Kindi
Tigris
Mosul
Baghdad
Musherfa 6
Avanzata
dei combattenti
IS
Haramut 6 Tamoz 17
6
Mosul Hotel
8 9
Hay al-Islah al-Ziraie 6
Hay Tanak 6
Hay Uraibi
IRAQ
10 Gharawi cade in un’imboscata
Iraqi Operation 7
Command
Aeroporto di Mosul
2 miglia
2 km
GIUGNO
6
Intorno alle 03:20,
i combattenti
dello Stato
Islamico entrano
a Mosul attraverso
cinque distretti
lungo il bordo
occidentale
della città.
I miliziani di IS fanno
strage della polizia
irachena nella parte
settentrionale del
quartiere Tamoz 17.
La Terza divisione
dell’esercito iracheno
abbandona il bordo
occidentale della città
e anche tra la polizia
iniziano le defezioni.
7
Qanbar, vice capo
del personale del
ministero della
Difesa, e Ghaidan,
comandante delle
forze di terra
irachene, arriva
a Mosul e assume
il controllo
da Gharawi,
capo dei federali.
8
9
Arrivano altre
truppe IS che
assaltano una
stazione di polizia
nel quartiere Hay
Urabi e poi si
dirigono all’Hotel
Mosul. Continuano
le diserzioni e
le fughe di
poliziotti e federali.
Un’autocisterna riempita con
esplosivo esplode di fronte all’Hotel
Mosul, mettendo in fuga gli ultimi
federali e poliziotti rimasti. IS
raggiunge il lato occidentale del
fiume Tigri. Esercito e ufficiali locali
si riuniscono al Comando Operazioni
intorno all’aeroporto. Qanbar
e Ghaidan si dirigono verso la base
militare di Al Kindi, che poi
abbandonano nella notte.
10 Gharawi lascia
il Comando
Operazioni e
attraversa il Tigri,
dove cade in
un’imboscata, ma
riesce a fuggire
dalla città a bordo
di un veicolo
corazzato.
fonte: reuters
il caso della banca di mosUl
I soldi spariti dalle casse della United Bank facevano parte delle riserve liquide e auree dell’istituto di credito. Vanno esclusi invece i titoli quotati in borsa, i quali sono facili
da controllare e da bloccare. Il bilancio dell’istituto bancario iracheno al 31 marzo di quest’anno mostrava che la banca centrale (di cui Mosul è solo una delle 21 filiali) aveva in
pancia 227 miliardi di dinari investiti, 371 mld di depositi,
“
nella pen-drive di un corriere dello Stato Islamico, intercettato
dai servizi segreti iracheni. Dunque, mancherebbe all’appello
un altro miliardo di dollari. Se ne deduce che il grosso dei finanziamenti allo Stato Islamico giunga da altre fonti. Quali?
il finanziamento internazionale
Come noto, uno dei cinque pilastri dell’Islam su cui si
basa la professione di fede di ogni buon musulmano, è la
Zakat, traducibile come “elemosina” nel
suo senso più nobile: è fatto obbligo per
ogni musulmano dimostrare la propria
benevolenza e misericordia verso i propri
fratelli attraverso la donazione spontanea
di una parte delle proprie ricchezze.
Un sistema che può travalicare la fede
e può servire da finanziamento occulto
per attività niente affatto connesse con
le pratiche religiose o sociali, come ad
esempio la jihad. Arabia Saudita e Qatar sono direttamente
coinvolte in questo senso. Non si tratta solo di accuse, ma
di considerazioni che provengono da numerose istituzioni,
a cominciare dalla Casa Bianca.
Già nel 2001 gli Stati Uniti avevano creato unità specializzate nello screening dei flussi finanziari esteri, concentrando le indagini proprio sulla Penisola Araba, e facendo
conseguentemente pressione sui governi di Arabia Saudita,
Kuwait e Qatar per reprimere il finanziamento di gruppi
estremisti. Che tuttavia non si è mai interrotto.
QATAR E ARABIA SAUDITA
SONO COINVOLTE NEL FINANZIAMENTO
61,5 mld di provvigioni e solo 38 mld di riserve. Se i dati
della United Bank sono corretti, la cifra reale di cui i miliziani hanno potuto usufruire realmente si aggira allora intorno ai 120 miliardi di dinari, pari a circa 85 milioni di
dollari. Forse ancor meno. Sempre che le riserve si trovassero tutte a Mosul. In ogni caso, si tratta di una cifra ben
lontana dai 450 milioni di dollari denunciati. Prima della
caduta di Mosul, sappiamo per certo che la reale disponibilità economica del Califfato era pari a 875 milioni di dollari.
La notizia è giunta a noi attraverso i dati contabili scoperti
14
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”
geopolitica
nelle casse del Califfato quotidianamente una cifra compresa tra i 200 e i 400 mila dollari, attraverso la vendita del
greggio al mercato nero, al governo turco e allo stesso regime siriano. Controllare le strade da Jarabulus a Kobane in
Siria e l’autostrada che corre lungo la provincia di Anbar in
Iraq, consentirà a IS di incrementare tali commerci, che avvengono per lo più su gomma, attraverso autocisterne.
Anche le razzie perpetrate a danno delle
aree archeologiche garantiscono una straordiMARZO 2014
Il documento del
naria fonte di finanziamento (la Siria, afferma
bilancio ufficiale
l’UNESCO, possiede oltre 10mila siti greci, rodella United Bank
mani, ottomani e di altre civiltà). Secondo l’inof Iraq
telligence britannica, solo i saccheggi presso il
sito archeologico intorno ad Al Nabuk, tra le
montagne Qalamoun a ovest di Damasco, hanno portato allo
Stato Islamico guadagni per 36 milioni di dollari.
Inoltre, le immagini satellitari della città greco-romana di
Apamea mostrano distintamente scavi e dissotterramenti
incontrollati con i bulldozer, a riprova di quanto spaventoso sia il livello di razzie raggiunto da parte dei predoni che
operano per conto dei jihadisti sunniti, e di quanto remunerativo sia questo business.
Questi tre governi hanno anzi affermato che parte delle
donazioni, emerse come chiara fonte di finanziamento diretta ai combattenti in Siria dal 2011 in poi, sono giustificate dalla necessità di sostenere le forze ribelli in Siria contro
il regime di Bashar Al Assad.
Enti di beneficenza e singoli uomini facoltosi del Golfo
hanno dunque effettivamente donato, sia pur indirettamente, cifre enormi a enti o soggetti collegati tanto all’esercito Siriano Libero quanto a Jabhat al-Nusra, sia attraverso bonifici
sia per tramite di emissari con valigette piene di contanti.
Secondo una nota informativa del Brookings Doha Center (ente di ricerca politico-economico del Qatar, con sede
anche a Washington), a maggio scorso la gran parte della
raccolta fondi privati e di beneficenza per l’insurrezione in
Siria era concentra nelle sole aree dove operano i jihadisti.
Fino alla fine dello scorso anno, dicono fonti inglesi ben
informate, è stato possibile rintracciare i dettagli dei depositi bancari internazionali per le donazioni. Oggi questo metodo è stato
sostituito da comunicazioni cellulari, contatti telefonici e account
WhatsApp utilizzati per coordinare le donazioni e trasmettere indirizzi stradali dove raccogliere fisicamente il denaro.
petrolio e archeologia
Per capire come funziona l’economia dello Stato Islamico, non vanno dimenticati i profitti dei giacimenti petroliferi che ancora controllano in Siria orientale e nel Nord
dell’Iraq. IS esporta circa 9mila barili di petrolio al giorno
a prezzi che vanno dai 25 ai 45 dollari al barile. Il che porta
le tasse
Infine, lo Stato Islamico ha creato anche un vero e proprio
sistema di tassazione, tanto in Siria quanto in Iraq, che colpisce sia le piccole e medie imprese sia i cittadini musulmani e
non, con relativi distinguo. Nella loro capitale irachena Mosul, ad esempio, oltre agli esercizi commerciali, le tasse vengono imposte anche alle compagnie telefoniche che dispongono di ripetitori nelle zone controllate da IS. Nella capitale
siriana Raqqa, invece, agli imprenditori si richiedono 20 dollari ogni due mesi in cambio di energia elettrica, acqua e sicurezza per la propria azienda. Un tributo che, in maniera
lungimirante, è inferiore alle tasse (e alle tangenti) che prima
erano dovute al governo di Assad. Ai cristiani, inoltre, è stata
imposta la Jizya, la stessa tassa che il profeta Maometto richiedeva alle comunità non musulmane in cambio di protezione. Tutti i tributi vengono riscossi attraverso rappresentanti
politici locali e gestiti dalla Banca di Credito di Raqqa, che oggi funziona come autorità fiscale almeno per la Siria e le cui
ricevute portano il timbro con il logo dello Stato Islamico.
Discorso simile vale per gli stipendi ai funzionari pubblici
e ai soldati, che si aggirano intorno ai 500 dollari al mese,
per un totale di circa 60mila uomini. Fa 360 milioni l’anno
che possono uscire dalle casse dello Stato Islamico, meno
di un quarto delle ricchezze totali, il cui resto può dunque
essere investito ancora a lungo nella loro “Guerra Santa”.
Il Califfato, dunque, si sta comportando esattamente come uno Stato sovrano e ha dato vita a un sistema tradizionale di economia di guerra che, ahimè, funziona fin troppo
bene. Se non si capisce questo, non si comprende appieno
la sua forza e la sua pericolosità.
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geopolitica
LA CATENA DI COMANDO DELLO STATO ISLAMICO
CONSIGLIO
DELLA SHURA*
(CONSIGLIERI MILITARI
E RELIGIOSI)
MEMBRI
ANZIANI
(CONSIGLIERI)
ABU MUSAB AL ZARQAWI
LEADER DI AL QAEDA IN IRAQ E IDEATORE
DEL PROGETTO PRIMORDIALE DELLO “STATO ISLAMICO”
ASSASSINATO NEL 2006 DAGLI USA
ABU SHEMA
RESPONSABILE ARMAMENTI
ABU MOHAMMAD AL-ADNANI
PORTAVOCE DELLO STATO ISLAMICO
ABU KIFAH
RESPONSABILE GUERRIGLIA E ATTENTATI
ABU OMAR AL-SHISHANI
COMANDANTE DELLE FORZE ARMATE IN SIRIA
ALIAS “IL CECENO”
ABU SUJA
CONSIGLIERE AFFARI CONNESSI
CON LA RELIGIONE
ABU BAKR AL-BAGHDADI
FONDATORE
E DEL CALIFFATO E LEADER ASSOLUTO DELLO STATO ISLAMICO
IS
CONOSCIUTO COME CALIFFO IBRAHIM
*Sono indicate
solo le figure chiave
CAPO DI STATO E DI GOVERNO ATTUALMENTE AL POTERE
GABINETTO DI GUERRA
BRACCIO ESECUTIVO
?
LUOGOTENENTI
ABU MUSLIM AL-TURKMANI
ABU ARI AL ANBARI
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN IRAQ
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN SIRIA
GOVERNATORI
DELLE PROVINCE IRACHENE
16
GOVERNATORI-EMIRI
DELLE PROVINCE SIRIANE
FINANCE COUNCIL
MILITARY COUNCIL
SECURITY COUNCIL
MEDIA COUNCIL
ARMI, PETROLIO, ECONOMIA
DIFESA E DOGANE
POLIZIA INTERNA E GIUDIZIARIA
MASS MEDIA E SOCIAL NETWORK
LEADERSHIP COUNCIL
FIGHTERS ASSISTANCE COUNCIL
INTELLIGENCE COUNCIL
LEGGI E KEY POLICIES
GESTIONE COMBATTENTI STRANIERI
SERVIZI SEGRETI
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geopolitica
Figure chiave di IS
ABU MUSLIM AL-TURKMANI
“NUMERO DUE” DEL CALIFFATO
Forse la figura più importante dopo il
Califfo stesso, Al Turkmani è un
esperto militare iracheno, proveniente
dai ranghi dei baathisti. Ha servito
Saddam Hussein come generale
dell’esercito, come membro della guardia
repubblicana (nelle forze speciali del palazzo
presidenziale) e ha militato anche nella disciolta
Istikhbarat, l’intelligence militare di Baghdad, sino
al 2003. Come Al Baghdadi, anche Al Turkmani è
stato imprigionato a Camp Bucca, le discusse
carceri irachene sotto il controllo americano
durante l’invasione che ha deposto il regime. Oggi
governa le province irachene ed è a capo delle
operazioni militari in Iraq. Potrebbe essere morto
durante il raid americano dell’8 novembre 2014 su
Qaim (Iraq) in cui sarebbe stato ferito lo stesso Califfo.
ABU OMAR AL-SHISHANI
ALTO COMANDANTE IN SIRIA
Nome di battaglia “Al Shishani”,
conosciuto anche come “il ceceno”, è
nato in Georgia nel 1986. Ha
combattuto nelle fila dei ribelli siriani
contro il regime siriano di Assad, prima
di prestare giuramento al Califfato nel
2012. Figura chiave dell’alto comando
militare, Shishani è a capo delle operazioni in
Siria e ha condotto anche la vittoriosa campagna
militare che ha portato lo Stato Islamico ad avere
il controllo dell’Iraq del nord. Ormai leggendario
tra i miliziani, il suo volto caucasico e in
particolare la sua barba rossiccia sono ormai
divenuti un’icona: la sua immagine compare in
numerosi video realizzati dalla propaganda
jihadista mentre la sua faccia viene riprodotta su
auto, carri armati, muri e persino t-shirt. Per tale
ragione, i giornalisti lo chiamano anche “ginger
jihadist”. Attualmente, si ritiene stia conducendo la
campagna contro i curdi al confine turco-siriano.
ABU MOHAMMAD AL-ADNANI
PORTAVOCE E “IDEOLOGO DI IS”
Nato nel 1977 a Idlib, in Siria, Al Adnani
è indicato come un combattente
jihadista sin dai tempi della guerra in
Iraq del 2003, anche se gli americani lo
hanno inserito nell’elenco dei “terroristi
internazionali” soltanto nel 2013. Descritto
come appassionato lettore e assiduo
frequentatore di moschee, sotto il Califfato
Al Adnani è divenuto una sorta di Ministro per
la Propaganda. È lui che sovrintende a tutte le
comunicazioni ufficiali e ai messaggi veicolati ai
media da IS. Si ritiene anche che abbia personalmente
curato la dichiarazione ufficiale multilingue del 29
giugno 2014 (foto in alto), che annunciava al mondo
la creazione dello Stato Islamico.
Proclama dello
Stato Islamico
robabilmente, lo Stato Islamico è
un parto dello Stato maggiore della
difesa irachena, promosso da quella parte di sunniti che si sono rifiutati di subire discriminazioni etnico-religiose. In ogni caso, il gruppo
è cresciuto oltre ogni aspettativa e oggi ha debordato in una forma arcaica di teocrazia, dove vige principalmente la legge della spada. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, può essere utile leggere la proclamazione
della nascita dello Stato, “La promessa di Allah”.
P
Lo Stato islamico - rappresentato da Ahl-Halli-wal -’aqd
(l’autorità del proprio popolo), composto da personalità di
alto livello, dirigenti e dal Consiglio della Shura - ha deliberato di annunciare l’istituzione del Califfato Islamico, la
nomina di un khalifah (Califfo) per i musulmani, e il pegno di fedeltà allo shaykh (Sceicco), il Mujahid, lo studioso
che pratica ciò che predica, il fedele, il leader, il guerriero,
il rinnovatore, discendente dalla famiglia del Profeta, lo
schiavo di Allah Ibrahim, Ibn ‘Awwad Ibn Ibrãhim Ibn’ Ali
Ibn Muhammad al-Badri al-Hashimi Husayni al-Qurashi per lignaggio, as-Sãmurrã’i per nascita ed educazione, al-Baghdadi per dimora e studio. E lui ha accettato la bay’ah (pegno di fedeltà). Così, egli è l’imam e khalifah per i musulNASCITA DEL CALIFFATO mani in tutto il mondo. Di conseguenza,
in nome dello Stato islamico l’Iraq e
Sham (ISIS) è d’ora in poi rimosso da tutte le deliberazioni
e le comunicazioni ufficiali, e il nome ufficiale dalla data
della presente dichiarazione è Stato islamico.
Chiariamo ai musulmani che con questa dichiarazione
del Khilafah (Califfato) spetta a tutti i musulmani di giurare fedeltà al khalifah Ibrahim e sostenerlo (che Allah lo preservi). La legittimità di tutti gli Emirati, i gruppi, gli stati e
le organizzazioni, diventa nulla per l’espansione dell’autorità del Khilafah e l’arrivo delle sue truppe nei loro territori.
Imam Ahmad (che Allah abbia misericordia di lui) ha detto, come riportato da ‘Abdus Ibn Malik al-’Attãr: “Non è
permesso a nessuno che crede in Allah di dormire senza contemplare come proprio capo chiunque li conquisti
con la spada fino a che non diventa
Khalifah e si chiama Amirul-Mu’minin (il capo dei credenti), sia che queSTIME CIA
sto leader sia un giusto o un peccatore”.
2014
29 giugno
31.500
miliziani ISIS
LOOKOUT 13 - novembre 2014
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geopolitica
Piccoli emirati
crescono
riserve di gas immense, un impero mediatico e affari milionari in tutto il
mondo. ecco come il Qatar sta capitalizzando al massimo il caos generato
dalle primavere arabe
di Rocco Bellantone
ella campagna militare contro
lo Stato Islamico, Barack
Obama sa di non potersi fidare dei propri alleati. I dubbi
maggiori della Casa Bianca si
addensano principalmente
nell’area del Golfo, dove Arabia Saudita e Qatar conducono una
partita parallela a quella dell’Occidente, sin dallo scoppio delle primavere
arabe.
La posizione del Qatar è emblematica. Poco più di due milioni di abitanti
e un territorio grande quanto l’Abruzzo, l’emirato di Doha ha capitalizzato
al massimo in questi anni il caos generato dalla fase post-rivoluzionaria,
muovendo simultaneamente le proprie pedine in Siria, Libia e negli ultimi mesi anche in Iraq.
N
18
LOOKOUT 13 - novembre 2014
L’obiettivo è avere sempre più in- libico di Misurata per sostenere anche
fluenza nella politica regionale e in- le offensive della coalizione islamista
ternazionale, facendo leva sulle enor- Alba Libica e del gruppo jihadista Ansar
mi capacità economiche di cui dispo- Al Sharia contro le forze governative e
ne e su una macchina
le milizie agli ordini delda guerra mediatica
l’ex generale Khalifa
qual è il canale satelliHaftar. Lo stesso trattaGolfo
BAHRAIN
Persico
tare Al Jazeera. Il resto
mento è stato riservato
lo fanno i petroldollari
negli scorsi anni ai palee le armi, attraverso
stinesi di Hamas, cui il
Doha
QATAR
cui il Qatar foraggia le
Qatar ha offerto ospitali25 miglia
attività dei principali
tà
e versato centinaia di
25 km
gruppi estremisti islamilioni di dollari nei loSAUDI ARABIA
mici operativi nei focoro conti correnti dopo
lai di tensione del
che nel 2012 la formaNord Africa e del Mezione sunnita aveva deQATAR
dio Oriente.
Il prodotto INtErNo ciso di abbandonare la
sua sede in Siria.
Tra settembre e ottolordo dEl 2013 Era
bre, Doha ha inviato cariIl vero pallino dell’emiparI a 202,5 MIlIardI
dI dollarI
chi di armi all’aeroporto
ro Tamim bin Hamad Al
Thani resta però la Siria. Sin dai primi
combattimenti tra i ribelli siriani e
l’esercito di Damasco, il Qatar ha infatti puntato tutto sul regime change.
Non solo per questioni ideologiche o
religiose (far cadere un governo sciita
in favore di un nuovo esecutivo sunnita), ma anche per motivi economici.
La destituzione di Bashar Assad
agevolerebbe l’inizio dei lavori per la
costruzione di un nuovo gasdotto che
dal North Dome (il maggiore giacimento al mondo di gas naturale condensato, situato nel Golfo persico e
condiviso tra Qatar e Iran) si potrebbe
agganciare al Nabucco per rifornire
l’Europa, attraversando Siria e Turchia. Senza Bashar Assad, amico di
Mosca, in un sol colpo Doha avrebbe l’appoggio di un governo amico
per riuscire a sottrarre il monopolio del gas in quest’area alla russa
Gazprom.
Anche le armi inviate in Siria via
Balcani (principalmente dalla Croazia
attraverso intermediari in Turchia) sono una questione dirimente. Passate
dalle mani dei combattenti del Free
Syrian Army a quelle dei combattenti
jihadisti, hanno contribuito al rafforzamento delle forze anti-Assad.
È stato il gruppo Ahrar al-Sham ad
avere un ruolo chiave nel trasformare la
rivolta contro il regime in un’avanzata
islamista. A fare da collante con la galassia jihadista è stato per lunghi tratti il
potente uomo d’affari e accademico Abdul Rahman al-Nuaimi, inserito nella
black list dei terroristi internazionali dal
dipartimento del Tesoro americano.
AHRAR AL-SHAM
Il gruppo Ahrar al-Sham
(gli uomini liberi del
Levante) è stato fondato
alla fine del 2011 nella
provincia siriana di Idlib.
Nel dicembre del 2012 ha
annunciato la formazione
del Fronte Islamico Siriano
in un cui si sono confluiti 11
gruppi integralisti islamici
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19
geopolitica
Sarebbe stato lui in questi anni a girare centinaia di milioni di dollari ai
qaedisti di Jabhat Al Nusra in Siria,
all’esercito del Califfo Al Baghdadi in
Iraq e ad Al Shabaab in Somalia.
Nella sua ascesa, il Qatar ha incontrato anche degli ostacoli. In Egitto, il
progetto di mantenere al potere i Fratelli Musulmani è fallito dopo nemmeno un anno e nella Striscia di Gaza
Hamas è stato annientato dalle forze
di sicurezza israeliane.
Doha in questo momento si trova in
una posizione difficilmente attaccabile dall’Occidente: ha messo a disposizione della coalizione la base aerea di
Al Udeid, da dove decollano i caccia
americani diretti in Siria e Iraq, mantiene alla guida della Coalizione Nazionale Siriana un uomo fidato come
Ahmad Tohmé e condivide affari multimilionari con i governi di tutto il
mondo. Tre buoni motivi per ritenere
che il piccolo emirato non avrà difficoltà a portare avanti ancora per molto tempo i suoi piani.
FOTO D’EPOCA
NEl fEBBraIo
dEl 2008
al thaNI
Era aNCora
prINCIpE E
assad avEva
aNCora
UNo stato
RAPPORTI ITALIA QATAR
la cooperazione militare
tra roma e doha
Il 29 settembre del 2011 il governo italiano, guidato
al tempo dall’ex primo ministro Silvio Berlusconi,
ha sottoscritto un accordo di cooperazione militare
con il Qatar, per la “notevole crescita del ruolo
diplomatico dello Stato arabo” nella guerra civile
libica. L’intesa consiste principalmente nella
partecipazione congiunta delle forze armate dei due
Paesi a esercitazioni e operazioni umanitarie
e di peacekeeping.
La partnership prevede anche attività di
PRINCIPALI PROGETTI IN QATAR
addestramento. Periodicamente i piloti della
Qatar Air Force vengono istruiti dal personale
PROGETTI
VALORE (USD)
dell’Aeronautica italiana nella gestione dei
Qatar Railways Development Company cargo C-130 e ufficiali del nostro esercito
42.900.000.000
Qatar Rail Network Program
addestrano la guardia d’élite che si occupa
della protezione personale dell’emiro qatarino
17.500.000.000
NDIASC - New Doha International Airport
Tamim bin Hamad al-Thani.
Il patto tra Italia e Qatar ha inoltre spianato
15.000.000.000
Ashghal - Doha Bay Crossing
la strada alle società dell’industria militare
italiana verso un mercato in costante crescita.
UDC - The Pearl Qatar
14.000.000.000
Selex ES, controllata di Finmeccanica,
ha firmato un contratto da 340 milioni di euro
Ashghal - Local Roads
13.700.000.000
per fornire alle forze di sicurezza qatarine
and Drainage Programme
il sistema di sorveglianza radar multi-funzione
Kronos. La marina del Qatar sta investendo
5.500.000.000
LREDC - Lusail City
per l’acquisto di elicotteri e missili.
Un business ormai consolidato è anche quello
Msheireb Properties - Msheireb
5.500.000.000
dei prodotti di elettronica. Doha è interessata
ai sistemi di avvistamento dei droni e ai
Qatar CAA - Space City Establishment
3.300.000.000
software avanzati per le intercettazioni
delle comunicazioni, che potrebbero tornargli
NBK Holding - Al Waab City
3.200.000.000
utili per blindare i Mondiali di Calcio del 2012.
Sistemi di difesa altamente tecnologici che
3.082.000.000
QFA - 2022 Stadiums
stanno già facendo la fortuna delle imprese
belliche nostrane.
fonte: zawya.com
20
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FARE
BUSINESS
ALL’ESTERO
QATAR: OIL&GAS
E MOLTO ALTRO
mercati mediorientali
che non hanno subito
eccessivamente le ripercussioni delle primavere arabe continuano a reggersi grazie
alla disponibilità di ingenti risorse naturali e a
una maggiore trasparenza
nella gestione della spesa
pubblica. Le immense riserve e l’incremento della produzione di idrocarburi attestano al 4,5% la crescita
media del PIL dei Paesi del
Golfo nel biennio 2013-2014.
Gli introiti da idrocarburi saranno destinati a investimenti nel pubblico costituendo così il principale stimolo per le economie dell’area. La crescente spesa
per gli investimenti e per le
politiche pubbliche favorirà
inoltre un maggiore accesso
al credito e aprirà nuove opportunità in diversi settori.
Questi elementi favoriranno certamente l’export italiano, che proprio in quest’area aumenterà a ritmi
più elevati rispetto a tutte le
altre macro regioni mondiali. Le previsioni per il quadriennio 2014-2017 descrivono infatti il Medio
I
Oriente come un porto sicuro per le imprese italiane. La
stabilità politica e la solidità
economica continueranno
ad agevolare le importazioni
dal Golfo con effetti positivi
per le esportazioni del nostro Paese, di cui si stima
una crescita pari al 9% in
media nei prossimi tre anni.
OPPORTUNITÀ
PER IL MADE IN ITALY
Tra tutti i Paesi di questa regione quello che negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più strategico dal
punto di vista politico e
commerciale è il Qatar. Qui
la dinamica delle esportazioni italiane sarà più lenta
nel breve periodo una volta
terminato il programma
ventennale di sviluppo del
gas naturale liquido. All’orizzonte appaiono comunque importanti prospettive e incoraggianti opportunità relative alla costruzione di infrastrutture
in vista dei Mondiali di Calcio in programma nel 2022.
Il Paese ha mostrato una
crescita esponenziale. Secondo gli ultimi dati del
2013, il PIL cresce a un tasso del 5,5%. Anche se in
calo rispetto agli scorsi anni, questa tendenza
le opportunità per il nostro made
in Italy non mancano. Consigli utili
per fare buoni affari nella piccola
grande penisola del golfo persico
dovrebbe essere mantenuta
anche nel prossimo triennio. La crescita del PIL è
trainata soprattutto dall’espansione di settori non
legati allo sfruttamento di
petrolio e gas. Per molte
delle nostre imprese di ingegneria e costruzioni o di
produzione del made in Italy le opportunità di certo
non mancano. Alcune nostre aziende sono già presenti in questo mercato, come Salini Impregilo, Anas e
Finmeccanica.
FATTORI DI RISCHIO
Tra i fattori critici il più rilevante è di carattere relazionale. Se non si ha il partner
giusto in loco difficilmente
si potrà coltivare un business redditizio. A nulla valgono ricerche di mercato,
studi di prefattibilità, fiere e
missioni. La conditio sine
qua non è la presenza di un
partner commerciale disposto ad accompagnare e far
crescere un’azienda, i suoi
prodotti e servizi sul mercato locale. Un altro elemento
fondamentale è rappresentato dagli investimenti iniziali.
Un atteggiamento passivo o
attendista penalizza (e di
molto) ogni tipo di affare.
a cura di
IBS ITALIA
Società di consulenza
specializzata
nell’offerta di servizi
all’internazionalizzazione
d’impresa: studi di
mercato, tax planning,
ricerca partner,
assistenza operativa
in loco, organizzazione
eventi, redazione
pratiche per
finanziamenti agevolati
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l’araba Fenice
Terroriste o freedom fighters?
Le tante donne attive nelle fila dei combattenti curdi contro lo Stato Islamico,
oggi osannate come liberatrici, saranno le terroriste di domani?
di Marta Pranzetti
Arabista, laureata in Scienze Politiche, si occupa di analisi
strategica (geopolitica e sicurezza) con particolare attenzione ai
temi dell’Islam politico, del terrorismo e delle questioni di genere.
104
attentatrici
nello Sri Lanka
dal 1987 al 2008
22
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Q
uando si è cominciato a parlare di donne come
Mayssa Abdo o Airin Mirkan, definite “eroine curde”, gli squadroni della morte fedeli ad Al Baghdadi erano alle porte di Kobane. Diverse settimane
dopo, lo scenario dei combattimenti resta quasi
immutato grazie soprattutto alla tenace resistenza
curda che è riuscita a contenere le milizie estremiste. È in questo contesto che Mayssa o Airin sono balzate
agli onori della cronaca, esaltate per il loro coraggio e la loro caparbietà.
Due interrogativi si pongono, però, leggendo la stampa
internazionale che riporta la notizia della “prima donna
contro IS”. Innanzitutto, viene da chiedersi cosa sarebbe
cambiato agli occhi dell’opinione pubblica se, invece di difendere la causa nazionalistica contro l’avanzare di un
esercito inumano, Mayssa o Airin avessero contrastato truppe
regolari irachene, turche o siriane, che pure da sempre rendono la vita impossibile al popolo curdo. E poi, cosa significa
quando i giornali scrivono “la prima donna contro IS”? Non
si tratta certo della prima e unica donna musulmana che decide di combattere per una causa coraggiosa. La storia ci insegna che sono tante (e sempre di più) le donne attive in
campo militare-guerriero e altrettante quelle impiegate
(consapevoli o costrette questa è una parentesi a parte) in
operazioni suicide come efficace strategia di attacco.
L’ambiente che più ha visto l’impiego di donne “martiri”
in ambito islamico è quello del terrorismo ceceno, che è
già stato oggetto di questa rubrica. Ma appaiono altrettanto
numerose le donne nel militantismo palestinese, afghano e
pakistano. Categoria a parte formano le combattenti nelle
squadre Peshmerga, che dal 2012 si sono unite ai ranghi
della resistenza curda contro gli attacchi del regime siriano
di Assad e che oggi collaborano nella lotta contro IS.
Ricordiamoci che le stesse Unità di Protezione del Popolo curdo in Siria (YPG), oggi osannate come “liberatrici”,
hanno affiancato in passato il PKK (organizzazione militante curda attiva in Turchia dagli anni ’80 e considerata
terroristica dalla comunità internazionale) nelle loro comuni rivendicazioni.
Un altro gruppo islamista radicale che di recente ha preso a sfruttare le donne è quello di Boko Haram. Lo scorso
giugno nella città di Gombe, nel nord-est del Paese, la prima
donna-kamikaze africana si è fatta esplodere contro un comando militare. Episodio che si è poi tragicamente ripetuto
donne, società e i tanti volti dell’islaM
a fine luglio quando quattro adolescenti si sono fatte esplodere a Kano.
Per quanto il significato escatologico che il
martirio assume nella religione islamica possa essere considerato un vettore che rende
l’atto suicida non solo permissibile ma doveroso, deve però essere chiaro che il fenomeno
degli attentati suicidi non è esclusivamente
legato all’Islam: la prima donna in assoluto a
passare alla storia come attentatrice suicida
fu Sana Khyadali, giovane libanese membro
del partito nazionalista sociale siriano che, insieme ai partiti laici del Baath e del partito comunista libanese, contrastarono la Tsahal a
suon di attentati dopo l’invasione israeliana
in Libano del 1982.
In altro contesto geografico, fu l’LTTE (organizzazione militante nazionalista attiva in
Sri Lanka) a sfruttare sistematicamente la tattica del suicidio nella guerriglia antigovernativa: su un totale di 378 attacchi suicidi condotti tra il 1987 e il 2008, secondo dati del Ministero della Difesa srilankese, le attentatrici furono ben 104.
La sottile linea rossa che distingue terroristi
e freedom fighters anima il dibattito della comunità internazionale dagli anni Sessanta e,
adesso che sempre più donne partecipano alla causa nazionalista (o religiosa), questa
considerazione si estende anche ai comparti
femminili delle squadre militanti. Quando
l’incubo di IS sarà passato, le milizie curde
continueranno nella loro militanza armata l’occasione di poter realizzare uno Stato indipendente infatti non è mai stata così realistica
come nella guerra allo Stato Islamico, quindi
difficilmente torneranno a casa, a conflitto finito, senza pretendere un tornaconto che invece difficilmente gli verrà garantito da Turchia,
Siria e Iraq – e allora a Mayssa e alle sue compagne toccherà inevitabilmente passare sulla
sponda “sbagliata” della storia e, da eroina che
sono, forse dovranno accettare di vedersi affibiata l’etichetta quasi unanime di terroriste.
Chi sono
le eroine curde
MAYSSA ABDO, meglio nota
con il nome di battaglia
Narin Afrin, è alla testa di
una delle Unità femminili
(YPJ) di Protezione del
Popolo curdo - YPG, la forza
di autodifesa del Partito di
Unione Democratica (PYD)
che ha istaurato un governo
autonomo nel Royava
(Kurdistan occidentale
siriano). Si battono
attualmente contro
l’avanzare dello Stato
islamico in Siria e Iraq.
AIRIN MIRKAN, pseudonimo
di Dilar Gencxemis, era madre
di due figli e comandante
di un’altra unità del YPJ.
È passata alla storia come
la prima attentatrice suicida
curda che si è immolata
pur di non cadere in mano
al nemico.
Tra le fila del YPJ altre
donne, come CEYLAN
OZALP, hanno preferito
uccidersi pur di non finire
nelle mani di IS.
La percentuale di donne
che combattono nella YPJ
è molto alta, considerando
anche l’impostazione laica
e paritaria della società
curda che si discosta
dalla tradizionale cultura
misogina che caratterizza
tutta la regione.
LOOKOUT 13 - novembre 2014
23
PLACES
I luoghi meno conosciuti
al mondo
ottobre-Novembre 2014
24
LOOKOUT 13 - novembre 2014
JERICO, CISGIORDANIA
Un pellegrino cristiano s’immerge nella “fonte battesimale”
del fiume Giordano, presso Qasr el-Yahud.
MELILLA, SPAGNA
Nell’enclave marocchina, gli spagnoli giocano a golf mentre gli
immigrati giocano a guardie e ladri alla frontiera (23 ottobre).
KOBANE, SIRIA
La cittadina siriana al confine turco appare così quasi ogni giorno,
da quando è stretta d’assedio dallo Stato Islamico (29 ottobre).
KABUL, AFGHANISTAN
Musulmani sciiti si autoflagellano durante la processione di
Muharram, primo dei quattro mesi sacri dell’anno (31 ottobre).
CANTIL, CALIFORNIA
I resti del Virgin Galactic’s SpaceShipTwo, navicella spaziale
per il turismo nello spazio, schiantatasi al suolo il 2 novembre.
HAMILTON, CANADA
Soldati canadesi scortano la bara del caporale Nathan Cirillo,
vittima dell’attacco al parlamento di Ottawa (28 ottobre).
econoMia
la copertina
UN COLPO
AL CERCHIO
di Alfredo Mantici
26
LOOKOUT 13 - novembre 2014
econoMia
Giovane, donna,
determinata
e ben preparata.
le doti del numero
uno degli esteri
dell’Unione ci sono
tutte. Manca
solamente il resto
EUROPA
iciamoci la verità. Negli ultimi cinque anni sotto la guida
della baronessa inglese Catherine Ashton la politica
estera dell’Unione Europea ha
brillato secondo le interpretazioni più severe per la sua assenza e, secondo le valutazioni più
benevole, per la sua timidezza.
In nessuno dei delicati dossier di
politica internazionale, dall’Ucraina
alla Siria, dall’Iraq ai Balcani, dalla Cina al Giappone, si è mai riusciti a capire quale fosse la posizione dell’Unione, a parte qualche dichiarazione “politicamente corretta”.
La nomina di Federica Mogherini
all’incarico di Lady Pesc rappresenta non soltanto un grande risultato
per Matteo Renzi ma, forse, può
contribuire a ridare all’Europa il
ruolo di protagonista al tavolo
delle relazioni internazionali.
La Mogherini è stata scelta
come commissario europeo
per la politica estera nonostante le forti resistenze conservatrici che si sono registrate in Italia e a Bruxelles.
Già la sua nomina a ministro degli Esteri italiano da
parte del presidente del consiglio Matteo Renzi era stata accolta con stupore un po’ provinciale
dai commentatori politici, in quanto
di lei si ricordava soprattutto un pungente giudizio sull’allora sindaco di Firenze
pubblicato via Twitter nel novembre del
2012. “Renzi ha bisogno di studiare un
bel po’ di politica estera, non arriva alla
sufficienza, temo”, twittava all’epoca.
Diventato premier, evidentemente
Renzi non ha giudicato quel tweet
un insulto ma ha fortemente voluto
la Mogherini alla testa della nostra
diplomazia scontrandosi duramente, secondo fonti qualificate, con il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che avrebbe preferito una riconferma del ministro
uscente Emma Bonino.
D
LOOKOUT 13 - novembre 2014
27
econoMia
Nonostante le voci degli scettici, Federica Mogherini si è subito imposta
alla Farnesina come “ministro secchione” essendo, per sua stessa ammissione, una “fanatica della mediazione”.
Seguendo le indicazioni date da
Renzi ai suoi ministri (“sono i politici
che governano e
non i tecnici”), la
Mogherini ha gestia seguire:
to in prima persona tutti i più importanti
dossier
ITALIA
posati sul suo tavoL’economia al
lo, arrivando additempo di Renzi
rittura - circostanza
che ha gettato nello
sconcerto gli alti
GRECIA
funzionari del ministero degli Affari
Reportage
Esteri - a scrivere inda Salonicco
tegralmente da sola
tutti i testi dei suoi
POLONIA
interventi in parlamento, sia in aula
La posizione
che in commissiodi Varsavia
ne,
così come in
sull’Ucraina
campo europeo e
internazionale.
LIBIA
Parlando perfettamente inglese e
Il fronte caldo
francese ha sempre
capeggiato all’estero
delegazioni molto
LIBANO
“snelle” rispetto al
passato e ha avuto
La missione
italiana
la possibilità di
svolgere incontri e
trattative a tu per
tu con i più importanti leader europei,
d’oltreoceano e di altri fondamentali
scacchieri senza la costante assistenza di interpreti e di funzionari.
Alla vigilia della sua nomina europea si sono levate critiche abbastanza
velenose da parte del Financial Times,
Le Monde e Wall Street Journal, oltre
a quelle di buona parte dei commentatori italiani che hanno tentato di
ostacolare la sua nomina ai vertici
della politica estera UE.
28
LOOKOUT 13 - novembre 2014
LA
CARRIERA
POLITICA
Nata a Roma nel 1973 da una famiglia della buona
borghesia (il padre Flavio, morto nel 1994, è stato un
regista e sceneggiatore di grande successo), Federica
Mogherini ha dimostrato fin dalla giovane età una
spiccata propensione per l’impegno politico e di
studio in campo internazionale. Laureata in Scienze
Politiche con una tesi sul tema Islam e Politica,
durante un periodo in Francia nell’ambito del
programma Erasmus all’Istitute de Recherche e
d’Etudes sur le Monde Arabe et la Méditerranée
(IRENAM) si è impegnata politicamente a sinistra,
prima nei ranghi della Federazione Giovanile
Comunista Italiana e, poi, nelle fila dell’allora PDS,
aderendo a “Sinistra Giovanile” di cui rapidamente
divenne Responsabile Esteri.
Molto attiva in campo internazionale, negli anni
Novanta la Mogherini aderisce allo “European Youth
Forum” e viene nominata vicepresidente
dell’“European Community Organization of Socialist
Youth” e membro della segreteria del “Forum della
Gioventù della FAO”. Questi incarichi le consentono
di intessere una fitta rete di relazioni con colleghi
dell’area socialista europea, molti dei quali oggi
hanno fatto carriera in campo politico,
amministrativo e istituzionale in Francia,
Germania, Olanda, Inghilterra e Spagna.
Vicina a Walter Veltroni, di cui è stata
collaboratrice quando l’esponente
DS era sindaco di Roma, dal 2003 è stata
nominata responsabile del partito per i
rapporti internazionali del Dipartimento
Esteri. Successivamente, durante la
segreteria di Piero Fassino, è stata
nominata responsabile nazionale dei
rapporti con l’estero e delle relazioni
internazionali.
Entrata in parlamento nella XVI
Legislatura, Federica Mogherini è
stata nominata segretaria della
Commissione Difesa, posto che ricopre
per cinque anni, mentre è anche
membro della delegazione
parlamentare italiana presso il Consiglio
d’Europa. Confermata nel suo seggio
di deputato nelle elezioni del 2013, prima
di essere nominata ministro degli Esteri
nel febbraio del 2014, la Mogherini
è presidente della delegazione
parlamentare italiana presso la NATO e
membro delle commissioni Esteri, Difesa
e Politiche dell’Unione Europea. Come
deputato nelle due legislature ha fatto
registrare un record di presenze in
aula con lo “score” del 98,7%.
econoMia
I dossier
di Lady PESC
come nuovo rappresentante
della politica estera europea,
federica mogherini dovrà
gestire dei dossier molto
delicati per dare forma a una
nuova politica estera
comunitaria, che nel passato
quinquennio di gestione di
catherine ashton (foto) si
è messa in evidenza in negativo
per il suo bassissimo profilo.
PESC
Acronimo di
Politica Estera
e Sicurezza
Comune
1. IL CONFRONTO MOSCA-BRUXELLES
Per quanto riguarda la crisi tra Russia e Ucraina, e più
in particolare le tensioni tra Europa, Stati Uniti e Russia, la Mogherini è stata criticata dalla stampa internazionale e da diplomatici dei Paesi Baltici per essere decisamente “filorussa”. L’atteggiamento tenuto durante
la crisi tra Kiev e Mosca ha però decisamente smentito
queste accuse, confermando che la Mogherini di fronte a una disputa diplomatica propende sempre per
l’avvio di negoziati e non per l’uso della forza.
Di fronte a una sconcertante dichiarazione
del capo della diplomazia USA John Kerry, secondo il quale dove non arrivano i diplomatici
debbono intervenire i militari, la Mogherini ha
ribadito che “è interesse dell’Ucraina, dell’Europa
e della Russia che la crisi abbia una soluzione politica e non una soluzione militare, che semplicemente
non esiste […] L’Italia esclude un’azione militare, che
sarebbe devastante anzitutto per l’Ucraina, per l’est dell’Europa oltre che per il futuro delle nostre relazioni”.
Insomma la Mogherini, un politico cresciuto come
ama sottolineare lei stessa “dopo la caduta del Muro di
Berlino”, promette di riportare un po’ di politica in Europa sottraendola a quei grigi funzionari che dall’economia alle relazioni internazionali tentano continuamente di prendere il sopravvento sugli uomini e sulle
donne che comunque hanno alle spalle una legittimazione popolare. Le premesse per una nuova politica europea più dinamica e pragmatica ci sono tutte e la Mogherini ne può essere l’interprete. Staremo a vedere.
LOOKOUT 13 - novembre 2014
29
econoMia
PRIMO VICE PRESIDENTE
LA NUOVA COMMISSIONE UE
FRANS TIMMERMANS
Armonizzazione
dei Regolamenti, Relazioni
Interistituzionali, Stato di Diritto
e Carta dei Diritti Fondamentali
PRESIDENTE
JEAN-CLAUDE JUNCKER
VICE PRESIDENTE
KRISTALINA GEORGIEVA
Budget
e Risorse Umane
VICE PRESIDENTE
ALENKA BRATUSEK
Unione Energetica
30
LOOKOUT 13 - novembre 2014
VICE PRESIDENT
VICE PRESIDENTE
JYRKI KATAINEN
Lavoro, Crescita,
Investimenti
e Competitività
VALDIS DOMBROVSK
Euro
e Dialogo Sociale
TE
KIS
econoMia
2. LA QUESTIONE PALESTINESE
Un atteggiamento altrettanto pragmatico e favorevole a negoziati a tutto
campo viene rivolto alla questione
israelo-palestinese. Nonostante sia
stata accusata di essere filo-palestinese (molti commentatori italiani e stranieri le hanno rinfacciato una fotografia che la ritrae a braccetto con Yasser
Arafat, ndr), nel commentare l’ultima
crisi di Gaza la Mogherini non si è limitata a chiedere la fine delle incursioni israeliane contro la Striscia, ma
non ha esitato a riconoscere che la
reazione israeliana è stata motivata
dal lancio di missili da parte dei miliziani di Hamas e dall’uso dei tunnel
per attaccare cittadini e soldati israeliani. Come si vede, non si tratta delle
posizioni tradizionali della sinistra
post-comunista che negli ultimi due
decenni ha subito una innegabile deriva filo-palestinese.
ALTO RAPPRESENTANTE
FEDERICA MOGHERINI
Affari Esteri
e Sicurezza Comune
Vice Presidente
VICE PRESIDENTE
ANDRUS ANSIP
Mercato Unico
Digitale
AL AQSA
La moschea
di Gerusalemme
simbolo della
Spianata, luogo
sacro conteso da
ebrei e musulmani
3. STATO ISLAMICO
Per quanto riguarda l’intervento contro lo Stato Islamico (IS), la Mogherini
si sta dimostrando molto prudente per
il timore che un coinvolgimento diretto dell’Italia, dell’Europa e della NATO possa comportare insostenibili ritorsioni terroristiche sul territorio europeo. È assolutamente contraria a un
intervento militare diretto della NATO
e dei Paesi europei, mentre preme per
un maggiore coinvolgimento nel processo di contenimento dell’esercito
islamico da parte dei Paesi arabi della
regione. In proposito, la Mogherini si
è attivata per favorire anche un coinvolgimento dell’Iran nella lotta internazionale contro i jihadisti dell’IS,
perché Teheran è un interlocutore fondamentale in Medio Oriente oltre che
“protettore” di tutti gli sciiti dell’area.
Argomento appena discusso in Oman
nella trilaterale con John Kerry.
Qui Farnesina
IL “SECONDO
PATTO GENTILONI”
Nel momento in cui, prima
dei Patti Lateranensi, i cattolici
non avevano alcuno spazio nella
politica italiana, Vincenzo
Ottorino Gentiloni, il bisnonno
del nuovo titolare della Farnesina
Paolo, s’inventò il Patto omonimo,
con il quale veniva aperta la
strada alla rappresentanza politica
dei cattolici italiani. Correva l’anno
1912, il Presidente del Consiglio
era il coriaceo Giovanni Giolitti
e il Pontefice era Pio X.
La rappresentanza dei cattolici
nella vita politica del Regno era
stata di fatto esclusa dal Vaticano,
dopo che la conquista di Roma
del 1870 aveva segnato una sorta
di Aventino ante litteram del
cattolicesimo italico rispetto
alla politica nazionale.
La scelta del premier Renzi
di nominare Paolo Gentiloni
al ministero degli Affari Esteri in
sostituzione di Federica Mogherini
ha dunque dei significati storici
e simbolici. Il bisnonno ridette
rappresentanza politica ai cattolici
italiani, il pronipote ricostruirà
una politica estera italiana?
LOOKOUT 13 - novembre 2014
31
econoMia
Renzinomics
Il vincolo del 3% del rapporto
deficit pubblico/pIl non consente
molti margini per operare.
la manovra del governo renzi,
ovvero il documento di Economia
e finanza in salsa leopolda,
convincerà i suoi detrattori,
UE in primis?
di Ottorino Restelli
ITALIA
Europa e le istituzioni nate dalla caduta del muro di
Berlino, in primo luogo la Commissione, hanno subito
una trasformazione radicale rispetto ai sogni dei padri
fondatori e alle intenzioni dei grandi edificatori Jacques Delors, Helmuth Kohl e Francois Mitterand. L’UE
che doveva europeizzare la Germania è stata invece
germanizzata dai tedeschi e da una pattuglia di Stati
(Finlandia e Repubbliche Baltiche al primo posto) che ne condividono la visione economica. Forse è arrivato il momento di
riflettere sui tempi e i modi dell’allargamento dell’UE e sul perché e come una pattuglia di Stati ex-comunisti e di pochi milioni di abitanti, abbia potuto mettere nell’angolo i grandi Paesi che sono stati gli ispiratori e le fondamenta dell’Unione.
In assenza di una leva valutaria (le famose svalutazioni
competitive), l’unica strada praticabile per un rilancio della
competitività è la riduzione dei costi. Poiché il costo dell’energia è fissato a livello internazionale, come pure quello
del capitale, l’unico fattore che può essere svalutato è pertanto il lavoro. Ed è proprio su questo che la Germania, la
Commissione e i vertici di Bruxelles vogliono che s’intervenga. È accaduto con Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna
ed è questa l’unica strada aperta lasciata anche all’Italia.
Non importa se poi la cura uccide i malati o se la bassa
inflazione - che potrebbe trasformarsi in una deflazione almeno in Italia, Grecia e Spagna, cioè in una riduzione del
livello generale dei prezzi - rischia di trascinare l’Europa
nella terza recessione dalla crisi dei mutui subprime di Wall
Street, come anche Standard & Poor’s ammonisce nel suo
recente rapporto sull’eurozona e come sostiene il Fondo
Monetario Internazionale, che stima al 40% la probabilità
L’
32
LOOKOUT 13 - novembre 2014
che ciò accada. Un’eventualità che altri Paesi come USA e Regno Unito
hanno potuto evitare grazie a politiche monetarie e fiscali espansive.
Quindi, non solo il “modello spagnolo” non esiste, ma le politiche dell’austerità espansiva hanno devastato le
economie continentali, distruggendo
ricchezza e capacità produttiva potenziale (25%) e facendo crescere la disoccupazione a livelli intollerabili, nonostante i bassi salari.
Inoltre, le politiche della Commis300
sione hanno fatto esplodere il debiMILIARDI
to pubblico, passato in media dal
DI EURO
66% del 2008 al 93,9% del secondo semestre del 2014. Non solo,
la CIfra
hanno fatto emergere problemi di
proMEssa
stabilità ai sistemi bancari, a causa
da JUNCKEr
delle sofferenze e dei crediti inesigiaI 28
bili e, dulcis in fundo, hanno indotto
aspettative recessive negli investitori, che
di conseguenza non investono.
Le possibilità di ripresa sono allora
LUXLEAK
nelle mani del neo presidente della
Il caso che sta
Commissione europea, Jean-Claude
scuotendo il
Lussemburgo di
Juncker, che ha promesso 300 miliardi
Juncker per le
di investimenti nei prossimi tre anni
eccessive
per re-industrializzare l’UE a partire
facilitazioni
da energia, infrastrutture e banda lardel fisco locale,
ga. Bisognerebbe, però, ricordare che
dietro cui si cela
l’Unione ha un PIL di oltre 13mila miforse una grande
evasione fiscale
liardi (2013) e che 300 miliardi in tre
anni sono da distribuire tra 28 Paesi.
ITALIA
Indice dei prezzi al consumo -0,3%
Disoccupazione
Percentuale anno per anno
Percentuale anno per anno
SET
DIC
MAR GIU
2
12,3%
2014
1
2013
0
2012
-1
SET
2011
AGO NOV FEB
MAG
econoMia
LA MANOVRA ITALIANA
La manovra del governo esce ridimensionata
dalla lettera del vicepresidente della Commissione, Jyrki Katainen. La spesa in deficit,
ottenuta cioè facendo crescere il rapporto deficit pubblico/PIL, si riduce da 11 a 6 miliardi
e l’intera manovra passa da 36 a 31 miliardi.
Nel dettaglio, il saldo di 31 miliardi risulta
così determinato, tra azioni e coperture:
• maggiori spese per 20,2 miliardi, tra cui
conferma del bonus di 80 euro (9,5 mld,
allentamento del patto di stabilità interno per gli Enti Locali del valore di 3,4
mld), rifinanziamento degli ammortizzatori sociali (1,5 mld) e stanziamento
di 1,2 miliardi per la scuola.
• minori entrate per 31 miliardi, tra cui la
clausola di salvaguardia (3 mld), riduzione IRAP (2,7 mld), decontribuzioni e agevolazioni fiscali (4,5 mld).
• minori spese per 16 miliardi,
tra cui tagli alle Regioni (3,5
mld), tagli a Comuni e Province (2,3 mld), tagli ai Ministeri (circa 2 mld), riduzione
del piano di coesione sociale
(1,5 mld).
• maggiori entrate per 10 miliardi, provenienti da tassazione TFR in
busta paga, lotta all’evasione e tassazione dei giochi.
A ciò va aggiunto il finanziamento in deficit,
che porta il rapporto deficit pubblico/PIL al
2,6% invece che al 2,9% iniziale.
Una manovra articolata che cerca di far ripartire l’economia puntando su una crescita dei consumi interni, attraverso trasferimenti ai ceti a basso reddito e sugli investimenti privati, riducendo gli oneri contributivi e fiscali delle assunzioni. Quindi, il
motore della ripresa è individuato nella
spesa privata per consumi e investimenti.
Peccato che non solo la teoria economica,
ma soprattutto la storia insegni che in una
situazione come quella della Grande Recessione, senza il massiccio intervento
pubblico non si va da nessuna parte. Forse
questa manovra riuscirà ad evitare che il
2015 sia il quarto anno consecutivo di recessione, ma rilanciare la crescita economica del Paese è tutt’altra cosa.
PATTO DI STABILITÀ
Come aggirare i vincoli?
PAROLA
DI PADOAN
“I rapportI
tra rENzI
E JUNCKEr
soNo
CordIalI.
Il Caso
IN partE
è CostrUIto
ad artE”
6 Nov 2014
Qui le ipotesi sono diverse.
C’è chi propone l’uscita
dall’eurozona e il ritorno alla
Lira. Chi invece propone di
trovare una soluzione
mobilitando le molte risorse
che ancora, non si sa per
quanto, esistono in questo
Paese e impegnarle su un
disegno chiaro di politica
industriale.
L’idea, condivisa da molti
(anche dall’ex ministro
Corrado Passera), è quella di
mobilizzare una parte, quella
non strategica, di
quell’immenso patrimonio
pubblico dell’Italia - stimato
nel 2012 dalla Cassa Depositi
e Prestiti in 1.800 miliardi di
euro, di cui 700 miliardi
considerati immediatamente
fruttiferi - costituiti da:
immobili, concessioni, crediti
e partecipazioni. Altri, più
prudentemente, stimano il
patrimonio pubblico in 1.000
miliardi di euro. Sia come sia,
colpisce l’elevato valore del
patrimonio pubblico
dell’Italia, che per ora giace
immobilizzato. Intanto, si
potrebbe costituire un fondo
dove far confluire una piccola
parte (80-100 miliardi) di
questo patrimonio e collocare
quote di questo fondo tra i
grandi possessori di liquidità
di questo Paese:
Assicurazioni (108 miliardi
di euro di premi annui
raccolti, 526 miliardi di euro
di investimenti e 397 miliardi
di euro a copertura delle
riserve tecniche, fonte IVASS
2013), Fondi Pensione e Casse
Previdenziali (104 miliardi di
euro di raccolta, fonte COVIP
2012) e Cassa Depositi
e Prestiti (305 miliardi
di euro di attivo, di cui 139
di liquidità, e impieghi per
soli 22 miliardi).
Il fondo avrebbe il mandato
di vendere entro un certo
numero di anni (cinque,
per esempio) quanto
in portafoglio e assicurare
ai titolari delle quote
- garantite dallo Stato - un
rendimento pari a un titolo
pubblico di pari periodo. Le
cessioni potrebbero avvenire
alle famiglie (per esempio
a quei 2 milioni di nuclei
familiari che posseggono
qualcosa come 4.000 miliardi
di attività) o a quei fondi
sovrani stranieri così attenti
alle bellezze Italiane.
Con questi miliardi, lo Stato
potrebbe avviare una vera
politica industriale attraverso
investimenti nei settori
strategici come l’energia
e le infrastrutture di rete
e dare un’importante
e imponente scossa
all’economia nazionale.
Non esistono altre strade.
Occorrono coraggio e astuzia,
rimanere nei parametri,
ma fare quello che tutti,
al di fuori del Palazzo,
ritengono necessario
e non più rinviabile: lanciare
una grande stagione
di investimenti pubblici.
LOOKOUT 13 - novembre 2014
33
econoMia
appresenta uno dei più lampanti esempi di
cosa abbia prodotto la crisi per l’economia
dell’Europa: è Salonicco, spaccato crudo
ma veritiero della Grecia di oggi. Seconda
metropoli del Paese dopo la capitale Atene
per importanza economica e dimensioni,
Salonicco è una città decaduta. Aggirandosi
per le strette vie del centro, come lungo le arterie
stradali che la collegano con il resto della Macedonia, il panorama che si presenta agli occhi del visitatore è quello di una città appena uscita da una
guerra. La verità è che la guerra, a Salonicco come
in tutta la Grecia, si sta ancora combattendo:
“Ovunque ti giri non ci sono altro che negozi chiusi, appartamenti abbandonati, case distrutte”, racconta chi è nato e cresciuto qui.
“Salonicco è una città che sta morendo - spiegano
alcuni commercianti - i negozi falliscono, la gente
perde il lavoro, perde la casa, perde la dignità”. Basta fare un giro in Piazza Aristotelous per rendersene conto. La piazza intitolata al grande filosofo sorge non distante dal lungomare, vicino alla Torre
bianca, simbolo dell’antica Tessalonica.
La piazza è diventata un enorme dormitorio a
cielo aperto in cui mendicanti, barboni, alcolizzati,
tossici, cani e gatti randagi si mescolano tra loro,
dando vita a una società sommersa di disperati. “Qui
si trovano solo alcol ed eroina” dice un passante.
Colpisce anche l’enorme quantità di graffiti che
ricoprono i muri e i grandi palazzoni costruiti frettolosamente dopo il grande incendio del 1917: scritte e simbologie anarchiche e appelli alla rivolta
contro l’Europa sono dappertutto. I sentimenti anti-euro e anti-Germania sono i più gettonati. “Stanno provando in ogni modo a toglierci il sorriso, ma
non ci riusciranno mai. E questo li fa arrabbiare
sempre di più: sono invidiosi perché loro sono sempre tristi e non sanno godersi la vita” spiega un altro cittadino del posto.
In questa situazione di profondo disagio sociale ed
economico, c’è un reato che, più di altri, è in costante
crescita: è il traffico di esseri umani. Provengono dalle vicine Bulgaria, Albania o Turchia, ma anche dalla
Russia e dai Paesi più poveri dell’Est Europa. Sono
donne e bambini costretti a mendicare, lavorare come schiavi e prostituirsi (ironia della sorte, quest’anno Salonicco è stata nominata European Youth Capital 2014). “Il 18 ottobre si è tenuta in tutto il mondo
la Walk for Freedom, una marcia organizzata da A21
(Abolish Injustice in 21st century, ndr), una organizzazione non governativa internazionale che si è data
l’obiettivo di sensibilizzare le persone contro questa
enorme piaga - spiega Kalli Mitelineos, responsabile
R
34
LOOKOUT 13 - novembre 2014
GrECIa
REPORTAGE
di Matteo Trombacco
Tra le
macerie
d’Europa
da
SALONICCO
EpICENtro
dElla CrIsI
econoMia
“
dell’associazione a Salonicco - Alla manifestazione di
quest’anno hanno partecipato oltre 2.700 sostenitori,
350mila in tutto il mondo. Il grande risultato ottenuto
a Salonicco è anche dovuto all’enorme cassa di risonanza che è stata data all’evento dalla contemporaneità
con l’International Thessaloniki Night Half Marathon
che ha abbracciato il progetto finanziandolo e facendo
sfilare i partecipanti poco prima del via della gara”.
Tra le varie iniziative messe in campo da A21, a
Salonicco come nel resto del mondo,
c’è anche la formazione delle forze
dell’ordine per imparare a gestire le
vittime di questi reati. “Non abbiamo
dati precisi sul fenomeno - spiega
Annie Kardas, referente internazionale del progetto A21- sappiamo solo
che è in aumento in tutto il mondo e
in special modo in Grecia, Paese che
più di altri ha pesantemente risentito
della crisi economica. Secondo il Rapporto sul Traffico delle Persone 2014, pubblicato dal Dipartimento di Stato americano, i casi di traffico di persone segnalati sul suolo greco nel 2013 sono stati 37,
mentre 142 sono state le persone perseguite per lo
stesso crimine. Purtroppo, però, le condanne sono
state 46 e solo quattro sentenze hanno portato a condanne tra i quindici e i ventidue anni”.
Sfruttamento del lavoro minorile, schiavitù, prostituzione sono anche le accuse mosse contro i trafficanti di uomini che costringono le donne a vendersi
e i bambini a mendicare, rubare o lavorare in fabbriche illegali: “L’anno scorso - prosegue Kalli Mitelineos
- siamo riusciti a salvare alcune ragazze strappandole al racket della prostituzione che, qui a Salonicco,
non viene praticato per strada, ma solo in appartamenti e, purtroppo, in alcuni alberghi di lusso della
città. È qui che la malavita trova la propria clientela,
scegliendola per lo più tra gli stranieri”.
Osservando Salonicco dall’alto, dalle colline su
cui si adagia la sua periferia più a nord, si scorge
una città affascinante e viva, fatta di persone che
hanno ancora voglia di vivere e combattere, ma anche una metropoli in cui orde di fantasmi si aggirano tra le rovine di un passato che non c’è più.
I segni della crisi economica sono profondi: si notano nelle abitazioni, nell’incuria in cui versano gli spazi
pubblici e gli antichi monumenti romani, greci, bizantini e ottomani. E poi animali randagi, macchine abbandonate, ricoperte di ruggine e polvere, lasciate a
marcire quando sono venuti a mancare i soldi per
mantenerle. Ma, soprattutto, l’abbandono di Salonicco
e la sfiducia nell’euro si scorgono negli occhi della gente che, nonostante tutto, continua a resistere.
TRA I REATI IN CRESCITA
IL TRAFFICO DI ESSERI UMANI
”
LOOKOUT 13 - novembre 2014
35
econoMia
POLONIA
GLI EQUILIBRISMI
DI VARSAVIA
varsavia osserva con attenzione
l’evoluzione della crisi ucraina. Mantenere
la giusta distanza tra gli alleati della Nato
e il “nemico russo” non sarà semplice
di Marco Giaconi
a Polonia è sicuramente il Paese
più interessato alla “occidentalizzazione” dell’Ucraina. L’operazione NATO “Rapid Trident” ai
confini ucraini è stata in gran parte determinata dalle pressioni di
Varsavia sul comando generale
dell’Alleanza. E, certamente, un gruppo
di operativi del servizio segreto polacco
(WSI, Wojskowe Słuzby Informacyjne)
ha penetrato le regioni antirusse e operato al meglio per favorire le azioni delle aree maggiormente contrarie all’annessione della Crimea al Cremlino.
Jerzy Dziewulski, un dirigente dell’intelligence di Varsavia, è stato fotografato più volte in assetto militare al
fianco di Alexander Turcinov, ex presidente del parlamento ucraino. La
sua presenza testimonia che in Ucraina
operano elementi delle forze speciali polacche. Il perché, d’altronde, è ovvio. Se
l’Ucraina ritorna russa, la Polonia - che
peraltro dopo la seconda guerra mondiale ha perso una parte di territori proprio
in favore di Kiev - sarebbe chiusa da due
lati dalla Federazione Russa.
L
econoMia
Questa prospettiva, unita al progetto
della “Novorossiya” (“Nuova Russia”)
di Vladimir Putin, non può non allarmare Varsavia, che ancora oggi non dimentica le fosse di Katyn in Ucraina,
dove nel 1941 furono massacrati 22mila ufficiali polacchi dalla GPU staliniana (Direttorato Statale Politico Unificato), che in seguito avrebbe dato la colpa dell’eccidio ai nazisti.
La Polonia ha rimarcato la sua posizione antirussa nel 2009. Con l’aiuto
della Svezia è stata capofila del programma “Eastern Partnership”, finalizzato a favorire le relazioni tra l’UE
e le vecchie periferie dell’impero sovietico a est dell’Unione, ovvero
l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia,
la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian.
Il trattato di libero scambio tra l’UE e
l’Ucraina era pronto per essere firmato, ma Viktor Yanukovich, allora presidente del Paese, rifiutò di firmarlo
poco prima del summit della Eastern
Partnership, nel novembre del 2013.
Alla luce di ciò che è accaduto nei
primi mesi del 2014, è evidente che
Yanukovich è stato sollevato dal potere anche con il sostegno polacco. Ed è
altrettanto evidente che Mosca, con le
armi dell’information warfare, sta
portando avanti il progetto di ricostituire, con altri mezzi, il suo spazio
geopolitico naturale, che Vladimir Putin ritiene quello dell’antica Unione
Sovietica.
Non a caso, nel 2006 il presidente
russo era stato chiaro in merito. “La
caduta dell’URSS è stato il più grande
disastro geopolitico del XX secolo” furono le sue parole. Adesso, il contesto
per dare concretezza ai suoi piani è
più che mai favorevole: l’UE e la NATO si sono impelagati in una lunga
“war on terror”, i leader occidentali
mostrano di pensare sempre più spesso a una politica estera più da Croce
Rossa che da Stati sovrani, l’economia
occidentale (salvo gli USA) è debolissima e sempre più dipendente dagli
idrocarburi, mentre le primavere arabe hanno destabilizzato il Mediterraneo meridionale, senza risultati.
Quello di Putin è il potere di chi parla il linguaggio della Realpolitik, mentre i Paesi Occidentali sono deboli come tutti gli idealisti e fanno una politica estera dipendente dagli umori dell’elettorato. Così, in risposta alle azioni di Mosca in Ucraina, la Polonia ha
richiesto alla NATO una presenza permanente di almeno 10mila soldati dell’Alleanza Atlantica sul proprio territorio, subendo un rifiuto sia del Comando NATO sia di Washington, che
in questo momento non intendono
complicare ulteriormente i rapporti
già pessimi con Mosca.
Qualcosa comunque è destinato a
muoversi. Un’operazione dell’Alleanza
prevede rotazioni di truppe e strutture
ampliate per i contingenti già sul terreno e interesserà, oltre che la Polonia,
anche anche la Romania, la Bulgaria e
i Paesi Baltici. Inoltre, Varsavia condivide un lungo confine con la Bielorussia,
una sorta di “Bulgaria post-sovietica”
per fedeltà a Mosca, e contiene anche
la militarizzata exclave di Kaliningrad,
l’antica Koenigsberg e patria di Kant. E,
da parte sua, la Russia durante le operazioni in Ucraina ha ammassato truppe ai confini dell’Ucraina orientale, dei
Paesi Baltici e della Moldavia.
Se, com’è probabile, l’Europa occidentale chiederà la sospensione delle
sanzioni contro la Russia, allora Varsavia si sentirà strategicamente sola.
La scelta della Polonia sarà dunque,
con ogni probabilità, quella di vendere autonomamente armi all’Ucraina e
stabilire una rete autonoma dall’UE
insieme ai Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per costituire una
brigata unificata per il peacekeeping
regionale. Una brigata di 4.500 elementi, composta da unità militari nazionali separate e un quartier generale
situato proprio in Polonia.
Per Varsavia, insomma, la separazione
dell’Ucraina dal mondo post-sovietico è
un obiettivo strategico primario, che però potrà realizzarsi solo avvicinando definitivamente Kiev all’Unione Europea.
Ovviamente, Russia permettendo.
IL
DIZIO
NARIO
Rapid Trident
è un’esercitazione
annuale diretta
dell’EUCOM
statunitense e condotta
dall’USAREUR in
Ucraina per migliorare
l'interoperabilità tra
Ucraina, Stati Uniti,
NATO e i Paesi membri
del Partenariato per la
Pace. Sono 15 in totale
i Paesi partecipano alle
esercitazioni militari
con un organico di circa
1.300 persone: Ucraina,
Azerbaijan, Bulgaria,
Canada, Georgia,
Germania, Regno Unito,
Lettonia, Lituania,
Moldavia, Norvegia,
Polonia, Romania
e Spagna.
LOOKOUT 13 - novembre 2014
37
econoMia
Crisi libica,
un affare italiano
gli sforzi diplomatici
dell’occidente sinora
non sono serviti
a frenare l’avanzata
delle milizie islamiste
a tripoli e bengasi.
per l’italia potrebbe
essere l’ultima
occasione per
marcare la propria
presenza nell’area
del mediterraneo
di Rocco Bellantone
LIBIA
rima la conferenza internazionale di Madrid tra i rappresentanti dei Paesi del Mediterraneo e del Nord Africa del 17
settembre. Poi, tra il 29 settembre e l’11 ottobre, i negoziati separati tra i rappresentanti dei due parlamenti di Tobruk e
Tripoli, organizzati a Ghadames e Tripoli con la supervisione della missione UNSMIL (United Nations Support
Mission in Libya). Infine, la dichiarazione congiunta attraverso cui il 18 ottobre Francia, Italia, Germania, Regno
Unito e Stati Uniti hanno chiesto la
cessazione delle ostilità, minacciando
di applicare sanzioni individuali contro chiunque “tenti di sabotare il processo di riconciliazione nazionale”.
Riavvolto il nastro delle trattative e
dei proclami, non è rimasto granché
degli sforzi dell’Occidente se non la
consapevolezza che per evitare il fallimento dello Stato libico serviranno
operazioni militari più incisive. Altro
che diplomazia.
P
38
LOOKOUT 13 - novembre 2014
Deve essersene reso conto anche il capo dello scricchiolante governo libico,
Abdullah Al Thinni, il quale dopo le titubanze degli ultimi mesi, per fermare
l’avanzata delle milizie islamiste a Bengasi e Tripoli si è visto costretto a metà
ottobre a concedere carta bianca a un alleato scomodo come il generale Khalifa
Haftar, pur dubitando della sua lealtà.
A parlare in Libia è dunque ancora
il linguaggio delle armi, mai realmente deposte dalla guerra civile che nel
2011 ha portato all’uccisione del Colonnello Gheddafi. L’immagine della
Libia odierna mostra che i tempi per
la democrazia non sono affatto maturi, e forse non lo saranno mai. Lo dicono le profonde spaccature politiche
e l’instabilità istituzionale, con doppi
parlamenti e doppi governi a contendersi il potere: uno legittimamente
eletto alle elezioni del 25 giugno scorso,
a maggioranza laica e guidato dal premier Al Thinni, confinato a Tobruk, vicino al confine egiziano (prima di essere esautorato); l’altro nella capitale Tripoli, espressione delle fazioni islamiste e il cui premier è Omar al-Hassi.
TOBRUK
La Corte Suprema
libica ha sciolto il
Parlamento “laico”
che si era ricostituito
qui dopo la fuga
da Tripoli
(6 novembre 2014)
econoMia
PROTAGONISTI
IN sENso orarIo: Il GENEralE
“GolpIsta” KalIfa haftar;
Il lEadEr IslaMIsta oMar al-hassI;
Il MINIstro dElla dIfEsa
ItalIaNo roBErta pINottI CoN
l’oMoloGo Usa, ChUCK haGEl;
Il “prEMIEr dI toBrUK”,
aBdUllah al thINNI
A questa frammentazione politica
corrisponde poi una fragilità militare
manifesta, per rimediare alla quale sinora non sono bastati né la campagna
antiterrorismo “Operazione Dignità”
lanciata a maggio da Haftar, né i raid
aerei condotti dai caccia delle aviazioni di Egitto ed Emirati Arabi Uniti sulle postazioni degli islamisti.
Mentre i morti aumentano e i focolai di tensione si estendono dalla Cirenaica alla Tripolitania con la complicità ormai certa di governi e finanziatori
esteri (leggi Sudan e Qatar), la missione volta a sradicare dalla Libia il
terrorismo di matrice islamista diventa sempre più proibitiva. Ansar Al
Sharia a Bengasi e la coalizione Alba
Libica a Tripoli hanno ormai stretto in
una morsa il governo, forti del patto
di alleanza con lo Stato Islamico annunciato a inizio ottobre a Derna. Lo
stesso Califfo siro-iracheno Al Baghdadi ha fatto sentire la sua vicinanza agli jihadisti, invitando centinaia di
miliziani da Tunisia e Algeria a raggiungere il Paese e ottenendo l’appoggio di un numero consistente di uomini delle tribù berbere che controllano
la regione meridionale del Fezzan.
È IL MOMENTO
DELL’ITALIA
Sono almeno due i motivi che
dovrebbero spingere le potenze
euro-atlantiche a non abbandonare
questa causa.
Il primo rimanda agli interessi
energetici e al controllo di larga
parte dei giacimenti e dei terminal
degl’idrocarburi presenti in
territorio libico. Il secondo
- che riguarda principalmente
l’Unione Europea - riconduce
all’annoso problema dei migranti
che dall’Africa subsahariana
risalgono fino alle coste libiche
per poi affrontare la traversata
del Mediterraneo.
Stati Uniti, Francia e Regno Unito,
registi della caduta del Colonnello,
hanno deciso di voltare le spalle
a Tripoli e dirottare i loro interessi
strategici nella grande guerra
contro lo Stato Islamico. L’Italia si
è accodata, ma è ancora in tempo
per colmare questo vuoto.
Lo ha detto chiaramente il premier
Matteo Renzi, lo ha sottolineato
l’Alto rappresentante UE Federica
Mogherini e, il primo novembre,
lo ha annunciato anche il ministro
della Difesa, Roberta Pinotti,
durante una visita al Cairo,
dove ha incontrato il presidente
egiziano Abdel Fattah Al Sisi e il
ministro della Difesa, Sedki Sobhi.
Al momento, la missione militare
italiana in Libia - rimodulata
nell’ottobre del 2013 - prevede
il monitoraggio e l’organizzazione
delle attività addestrative delle
forze armate libiche. In totale,
sono stati formati 1.345 militari
ed è stata supportata la fase di
screening del primo contingente
libico (254 militari) arrivato
in Italia nel gennaio del 2014.
Nell’immediato futuro, l’impegno
del nostro Paese potrebbe però
aumentare in maniera sensibile.
“Siamo disponibili a dare una
mano a costituire delle forze
armate in grado di tenere in
sicurezza la Libia - ha affermato
dal Cairo il ministro Pinotti
- a condizione di avere un
interlocutore credibile.
Certamente, ci sarà bisogno di
fornire anche delle armi”. Il
momento dell’Italia potrebbe
dunque arrivare a breve.
La Libia, in ogni caso, non può
aspettare ancora a lungo.
LOOKOUT 13 - novembre 2014
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econoMia
Che ci fa l’Italia
in Libano?
la missione Unifil a guida italiana
avrebbe bisogno di essere ripensata
per andare incontro al nuovo scenario
della guerra in medio oriente
di Marta Pranzetti
LIBANO
“
na terra dagli equilibri fragili”.
Così il Ministro della Difesa
italiano, Roberta Pinotti, aveva definito il Libano in occasione dell’avvicendamento
del comando UNIFIL lo scorso
luglio, quando il Generale
Paolo Serra passava il testimone al
Generale Luciano Portolano, in un raro ma fiero caso di passaggio di consegne tra italiani.
In quell’occasione, il Ministro aveva
elogiato la “lunga e delicata” missione
di pace nella Terra dei Cedri - dove
l’Italia è impegnata ininterrottamente
dal 1978 - definendola un “modello
operativo” per imparzialità nella mediazione, capacità di cooperazione tra
le forze armate e il governo libanesi e,
ancora, per sensibilità umana e ricerca di dialogo.
Caratteristiche che indiscutibilmente si potrebbero applicare al nostro
impegno militare in Libano, se non
fosse che uno dei suoi obiettivi fondamentali - monitorare l’attività di Hezbollah (il “Partito di Dio” e movimento armato sciita libanese) e impedirne
il riarmo - lasci alquanto a desiderare.
Un dubbio sull’efficacia della missione sorge, infatti, quando si viene a
sapere che cellule di Hezbollah operano da tempo ben oltre i confini nazionali. Dal 2013 è noto il coinvolgimento delle milizie sciite del Partito di Dio
in terra siriana e, più di recente, anche
in Iraq contro lo spauracchio dello
U
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LOOKOUT 13 - novembre 2014
1.100
i soldati del
contingente italiano
schierati nell’area
Stato Islamico, organizzazione sunnita che minaccia l’espansione nel Levante. Una jihad nella jihad, dunque,
che evidenzia sin troppo bene come
l’operatività di Hezbollah sia tutto
fuorché contenuta. Ovviamente, non
solo a causa delle inefficienze dei nostri soldati.
Se a questo si sommano le minacce
che il leader del Partito, Hassan Nasrallah, non ha smesso di lanciare contro Israele - l’ultima durante un raduno
sciita a Beirut in novembre, in occasione della festività dell’Ashura, quando
ha dichiarato di essere in possesso di
altri razzi che facilmente potrebbero
colpire la “Palestina occupata” (leggasi
Israele, ndr) - questo la dice lunga sui
risultati effettivi di una missione che
pure sarebbe il fiore all’occhiello italiano, insieme all’Afghanistan.
Certo, tra gli obiettivi del mandato
UNIFIL è esplicitamente citato che il
riarmo debba essere monitorato “tra il
fiume Litani e la Blue Line” (la linea
di confine con Israele) il che, se inteso
letteralmente, esula la missione dei
caschi blu da ogni responsabilità relativamente alla rinnovata attività di
Hezbollah. Ma non sarebbe forse il caso di rivedere nel 2015 (per l’ennesima
volta, ma con più cognizione di causa)
il mandato di una missione che di sicuro rimarrà ancora attiva, vista la fragilità del contesto nazionale libanese e
dell’intero Medio Oriente?
HEZBOLLAH FUORI DAI CONFINI
La Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni
Unite nasce con le Risoluzioni ONU 425 e 426, in
risposta all’intervento armato israeliano in Libano
del 1978. Il mandato viene rivisto a più riprese
(nel 1982 e nel 2000) e infine ampliato con la
Risoluzione 1701 del 2006, a seguito dell’intervento
militare israeliano in territorio libanese.
La missione, a guida italiana, consta attualmente
di un contingente militare internazionale di 10.319
unità, di cui 1.100 italiani, e quasi un migliaio di civili.
Le vittime tra il personale sinora sono state 306.
econoMia
l’opinione
QUALE RUOLO
PUÒ AVERE
L’ITALIA
ALL’ESTERO?
VINCENZO CAMPORINI
Generale dell’aeronautica Militare,
già Capo di stato Maggiore della difesa
ome c’era da aspettarsi, l’Italia sta facendo la sua
parte in Iraq. D’altronde, era impensabile chiamarsi fuori dalla coalizione internazionale. L’impegno
del nostro Paese è in linea con il momento di crisi
che stiamo attraversando sul piano finanziario. Le
nostre forze armate hanno però messo a disposizione assetti molto preziosi. I nostri fornitori in volo sono tra i più moderni, di altissimo livello dal punto di vista
tecnico. Lo stesso discorso vale per i nostri predator (droni),
fondamentali per garantire una copertura di intelligence adeguata in un teatro di guerra vasto e complicato come quello
iracheno, dove individuare gli obiettivi da colpire è essenziale.
Per quanto riguarda il Libano, UNIFIL è certamente una
missione di grande peso e prestigio che l’Italia ha sempre
guidato in maniera efficace. Se la situazione in questo Paese sinora non è implosa è certamente anche per merito dei
caschi blu guidati dall’Italia.
In questo scenario resta scoperto il fronte libico, dove al
di là delle dichiarazioni e buone intenzioni, non è in programma al momento alcuna iniziativa di carattere internazionale. Pensare che l’Italia si possa fare promotrice di
un’operazione simile ad esempio alla missione ALBA (Albania, 1997) è al di fuori di qualsiasi criterio di fattibilità. La
Libia rimane un problema enorme, a cui però purtroppo la
comunità internazionale colpevolmente non sta dedicando
nessuna attenzione.
C
PAOLO MESSA
Giornalista e fondatore della testata
formiche
Italia si conferma un partner importante della comunità internazionale sia nell’ambito delle missioni della NATO che nel quadro delle iniziative realizzate sotto l’egida delle Nazioni Unite. Lo dimostra il ruolo di primo piano svolto in Libano. Non
sempre però il nostro Paese è promotore di interventi in grado di favorire maggiormente i nostri interessi geopolitici e strategici. Quello che è accaduto in Libia nel 2011 è emblematico di questo stato di cose e anche
adesso non è chiaro se l’Italia sia realmente intenzionata a
organizzare un’operazione su cui far convergere poi la comunità internazionale.
In qualità di Lady Pesc, Federica Mogherini può avere un
ruolo determinante. Il suo è un profilo eccellente. Il problema, semmai, è che la Commissione Esteri e Sicurezza
dell’UE non dispone di un proprio budget, il che la dice
lunga sulla politica internazionale dell’Europa in questi
anni. Il dossier più delicato nelle mani della Mogherini riguarda non tanto l’Iraq quanto i rapporti con Mosca. La situazione è molto complessa, anche a causa dell’atteggiamento poco severo dell’UE e, in particolare, dell’Italia nel
momento in cui la Russia ha invaso il territorio ucraino.
Per rimettere ordine più che le sanzioni serviranno grandi
doti diplomatiche e di mediazione.
L’
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41
do you spread?
I conti in tasca
agli italiani
I numeri della disuguaglianza sociale
di Brian Woods
l Capitale nel XXI Secolo di Thomas Piketty ha riacceso il mai sopito dibattito scientifico e culturale su origine ed evoluzione della disuguaglianza sociale. Negli
ultimi due decenni la letteratura
scientifica sulla disuguaglianza e
sulla strettamente connessa nozione
di povertà si è concentrata sulla definizione di misure e indici, cercando di
superare i limiti intrinseci di misure
unidimensionali come il reddito o il
consumo, a vantaggio di indici multidimensionali di caratteri come salute,
scolarizzazione, reddito, etc.
Non è questo il luogo per presentare
i risultati dei recenti sviluppi teorici
sul tema, visto che l’obiettivo di questo breve articolo è semplicemente richiamare la drammatica attualità e
necessità di una generale riforma
dell’imposizione fiscale in Italia. Per
questo scopo, è allora sufficiente fare
riferimento a indicatori semplici, come
gl’indici di concentrazione di Gini*,
che hanno il pregio di essere “certificati” e fornire un’immediata interpretazione delle dinamiche subite dalla
società italiana nell’ultimo ventennio.
I dati citati sono contenuti ne La ricchezza delle famiglie italiane e nei Bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia. Ciò che interessa è individuare delle evidenze che dovrebbero
suggerire indagini più accurate e soprattutto riforme non più rinviabili.
I
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cosa è accadUto
alla distribUzione
di QUesta ricchezza?
Dal 1995, l’indice di concentrazione
di Gini relativo al reddito è mutato
continuamente, mostrando dapprima
riduzioni e poi tornando a crescere, in
particolare negli ultimi anni, fino a
raggiungere lo 0,34 nel 2012. Viceversa, l’indice di Gini della ricchezza ha conosciuto una crescita
continua, passando dallo
8.542
0,618 del 1995 allo 0,64
MILIARDI
nel 2012. Inoltre, il 10%
DI EURO
delle famiglie più ricche
la
rICChEzza
possiede il 46,6% della
ItalIaNa
ricchezza netta familiare
NEl 2012
totale (era il 45,7% nel
2010). La concentrazione
della ricchezza finanziaria è ancora più elevata, attestandosi attorno
allo 0,74, mentre cresce quella delle
passività finanziarie arrivando allo
0,93. Il che si traduce in un indice di
concentrazione di Gini misurato sui
redditi familiari del 35,6%, in crescita.
L’IRPEF è una tassa che grava per
oltre 82% su lavoro dipendente (12
milioni) e pensioni (16 milioni), mentre il lavoro autonomo (oltre 11 milioni di persone su 23 milioni di occupati) paga solo il 18%. Forse c’è qualcosa che non va e più che il ridisegno
delle aliquote marginali, andrebbe
completamente ripensata l’imposizione sul reddito. Poi, se circa 2 milioni
voci dal Mercato globale
di famiglie posseggono qualcosa come
4.000 miliardi di attività, l’istituzione
di una tassa sul patrimonio complessivo, ovunque posseduto, superiore a
1 milione di euro con un’aliquota crescente dall’1% al 2%, appare difficilmente rinviabile.
Forse la lotta all’evasione, all’elusione e alla distrazione dei redditi va
condotta in modo più serio e mirato,
magari dando degli obiettivi coerenti
all’Agenzia delle Entrate ed evitando
gli accertamenti a strascico, che fanno
sì il budget (chi non commette errori
con un sistema cosi farraginoso e ostile?) ma sicuramente non combattono
l’evasione e garantiscono ancora sonni tranquilli ai veri evasori.
I mezzi ci sono, l’Information Technology ha fatto passi da gigante e
solo in Italia nessuno sembra essersene accorto. È credibile che in un mondo in cui si può approssimare l’attitudine terroristica di un individuo semplicemente scrutandolo con una telecamera, cioè scomponendo i tratti di
carattere, comportamenti, abitudini,
vezzi etc., non si possa costruire un
algoritmo (data-mining e analisi
multidimensionale) che segnali i
sospetti casi di evasione, semplicemente frugando nelle migliaia
di dati disponibili che riguardano
ciascun individuo?
la ricchezza
degli italiani
Ai prezzi del 2012, la ricchezza, al netto delle passività, delle famiglie italiane
(circa 8 volte il reddito) è
passata da 6.207 miliardi di
euro (1995) a 8.542 miliardi
di euro (2012), in continua
riduzione dal 2008, anno in
cui ha raggiunto il massimo
di 9.411 miliardi di euro.
La ricchezza netta per
famiglia è cresciuta da
317.374 euro nel 1995 a
357.476 euro nel 2012
(407.956 nel 2006), mentre la ricchezza
individuale è passata da 109.193 euro
nel 1995 a 143.124 euro nel 2012
(161.250 euro nel 2006). La diversa dinamica della ricchezza netta individuale rispetto a quella familiare è dovuta
alla progressiva riduzione del numero
dei componenti medi della famiglia,
passati da 2,89 (1995) a 2,48 (2012).
La composizione della ricchezza risulta modificata a vantaggio delle attività finanziarie, essendosi ridotte le
attività reali dal 65% (1995) al 61,1%
(84% abitazioni). Il numero di annualità necessario a un affittuario per acquistare un appartamento di 100 mq è
più che raddoppiato da 5 a 11.
Gli individui poveri (povertà relativa) sul territorio nazionale sono il
14,1% del totale, ma raggiungono il
24,7% nel Mezzogiorno e oltre il 30%
tra i nati all’estero. I recenti dati della
Banca d’Italia indicano che il reddito
totale da lavoro dipendente è di
16.248 euro, quello totale del lavoro
indipendente è di 18.206 e quello dei
pensionati è di 11.482 euro. Nel 2012
il reddito familiare è stato di 30.380
euro ma, con un’evidente e insostenibile asimmetria, il 10% delle
famiglie con il reddito più basso
percepisce il 2,4% del totale dei
redditi prodotti, mentre il 10% per
cento di quelle con redditi più
elevati percepisce un reddito
pari al 26,3% del totale.
*L’Indice di
concentrazione
di Gini misura la
diseguaglianza di
una distribuzione,
ovvero in che
modo un bene
condivisibile
è diviso tra
la popolazione.
Si applica in
particolare nella
distribuzione
del reddito o
della ricchezza
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borsa energetica
Riad contro tutti
È guerra per il prezzo del petrolio. Nel mirino dell’Arabia Saudita, l’Iran
e la produzione non convenzionale americana
a cura di
Nomisma Energia
opo quattro anni di stabilità sopra i
100 dollari, a inizio novembre i prezzi
del Brent, i benchmark (punto di riferimento) delle quotazioni internazionali sono scesi verso gli 80 dollari, il
valore minimo dall’inizio delle primavere arabe nel dicembre del 2010. La
discesa, iniziata a luglio di quest’anno, è legata secondo alcuni a un semplice allineamento tra domanda e offerta. I più maliziosi
credono invece che si tratti di una vera e propria “guerra per il prezzo” tra l’Arabia Saudita
e il resto del mondo. In base a quest’ultima
interpretazione, il governo di Riad avrebbe
come principali bersagli sia l’Iran che la produzione non convenzionale americana dello
shale oil e tight oil.
Ciò sta generando una crescente attesa per
la prossima riunione del cartello OPEC in
D
PREZZO GREGGIO NECESSARIO PER EQUILIBRIO DI BILANCIO
NEI PAESI OPEC NEL 2013
elaborazioni ne nomisma energia su dati reuters
44
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programma il 27 novembre a Vienna. È infatti
quella la sede naturale in cui prendere la decisione di tagliare il tetto produttivo e assegnare quote individuali agli Stati membri
(Iraq incluso) con l’effetto di riportare i prezzi
sopra i 100 dollari al barile (bbl), creando una
crescita verso valori più sostenibili per i diversi budget dei Paesi del cartello. Molti degli
Stati produttori (tra questi Iran, Nigeria,
Ecuador, Algeria Venezuela, Iraq e Libia) hanno piani di spesa e investimenti costruiti su
valori medi del greggio oltre i 100 dollari/bbl,
e pertanto soffrono particolarmente dal calo
delle quotazioni. Tra questi il più distante dal
prezzo di riferimento è l’Iran, che a causa dell’embargo ha una economia debole costretta
ad affidarsi molto alla rendita derivante dal
petrolio.
Tuttavia, le affermazioni di alcuni degli attori coinvolti preannunciano che a Vienna il
target produttivo, fissato nel dicembre del
2011, verrà nuovamente confermato a 30 milioni di barili al giorno (mln.bbl/g), in una
strategia volta a spingere fuori dal mercato le
produzioni più costose e che si trovano al di
fuori dell’OPEC (con in testa l’output non
convenzionale degli Stati Uniti), con buona
pace, però, per i bilanci dei Paesi più esposti
al calo dei prezzi.
Su questo terreno si sta giocando la partita
tra Riad e Teheran, e resta da vedere come tale situazione si rifletterà sui negoziati del 24
novembre tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 (Stati
Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina +
Germania) sul suo contestato programma nucleare. È infatti presumibile che un’apertura
dell’Occidente nei confronti dell’Iran venga
difficilmente digerita dai rivali sauditi. Questi,
forti di importanti primati (come ad esempio
il possedimento delle più vaste riserve petrolifere al mondo, la principale produzione del
cartello, seconda solo a quella della Russia, e
non ultimo la capacità inutilizzata maggiore),
manovrando il proprio livello di output pos-
coMe caMbia il Mercato del petrolio e del gas
sono infatti incidere sui prezzi, e
quindi sulle rendite di gli altri
principali attori del mercato.
Nonostante il costante calo
delle quotazioni internazionali
del petrolio, scese di 30
dollari/bbl negli ultimi tre mesi,
la produzione dei Paesi dell’OPEC non accenna a calare
mantenendosi ampiamente sopra i 30 mln.bbl/g. E Riad, che
ha innescato formalmente la spirale di ribassi scontando il prezzo del proprio greggio verso i mercati asiatici,
non sembra intenzionata a tagliare la produzione, lasciando scivolare i prezzi e mentendo la propria quota di mercato.
Se a settembre a dettare la crescita della
produzione è stata in gran parte
la ripresa dell’output dei
due mercati più instabili
del 2014, Libia e Iraq,
adesso è l’Arabia Saudita che avendo coperto gli ammanchi di mercato legati alle rivolte che
via via si sono succedute
negli ultimi quattro anni, dovrebbe arretrare lasciando spazio agli altri membri del cartello.
In prospettiva, se un ritorno stabile verso quota 1,5 mln.bbl/g dell’era
PRODUZIONE MONDIALE PETROLIO E NGLs* (MLN.BBL/G)
elaborazioni ne nomisma energia su dati oil market report
Gheddafi da parte della Libia nonostante il
graduale reintegro della produzione iniziato
in estate, è visto con scetticismo per il perdurare delle tensioni interne, è invece più
probabile quello dell’Iraq, dove la produzione ha ricominciato a fluire sostenuta
dal sud del Paese, mentre grazie ai bombardamenti delle forze alleate lo Stato
Islamico ha visto ridimensionarsi drasticamente le risorse petrolifere a sua
disposizione, e con esse la capacità di influire sugli equilibri di
mercato.
A queste condizioni, in un
contesto di bassa domanda
globale, la spirale ribassista è
destinata a protrarsi. Notizie
estremamente positive per le
asfittiche economie europee.
NOMISMA
ENERGIA
Nomisma è una
società di studi
economici
indipendente.
Realizza attività di
ricerca e consulenza
economica per
imprese, associazioni
e pubbliche
amministrazioni,
a livello nazionale
e internazionale
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sicurezza
FOCUS
REGNO UNITO
Come funziona il
software londinese
MONDO
La minaccia cyber
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sicurezza
Alle armi!
Alle armi!
REGNO UNITO
tracciare il traffico degli
armamenti non è mai
stato così a portata di mano.
ecco il primo software
(britannico) in grado di
mappare le rotte dei signori
della guerra. funzionerà?
di Eleonora Vio
l presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato chiaro. Il piano è “smantellare
e distruggere” lo Stato Islamico (IS). Governi e policy maker hanno un gran da fare per stabilire in cosa consista la forza
dell’organizzazione agli ordini del Califfo
Al Baghdadi. Nessuno prima d’ora - nemmeno Al Qaeda, da cui IS si è distaccato - aveva dimostrato una capacità bellica tale da permettergli non solo di allargare le sue fila internamente, ma soprattutto di ottenere una serie
d’importanti vittorie sia in Iraq che in Siria.
L’ente londinese Conflict Armament Research
(CAR), con il suo ultimo comunicato sulle armi nelle mani dell’IS tra Siria e Iraq e il nuovo
software di nome iTrace, che dal 27 settembre
2014 fa luce sui traffici di armi convenzionali,
è riuscito a dare una prima risposta a queste
perplessità.
In dieci giorni a fianco dei curdi dell’Unità di
Protezione del Popolo (YPG) nei pressi di Ayn
al-Arab (ovvero Kobane) nel nord della Siria, e
dei peshmerga del Governo Regionale Curdo
(KRG) a nord-ovest di Mosul, la squadra britannica del CAR ha analizzato le armi sequestrate all’IS.
I
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sicurezza
“Sono stati trovati razzi anticarro jugoslavi M79 identici
a quelli donati dall’Arabia Saudita alle forze ribelli siriane”
dice il direttore del CAR, James Bevan. “È plausibile pensare che il governo saudita abbia distribuito queste armi a
diverse fazioni, alcune delle quali si sono poi unite all’IS,
oppure che l’IS stesso le abbia sequestrate ai ribelli”.
Il timore che armi fornite a un gruppo cadano nelle mani
di altri combattenti coinvolti nella guerra civile è motivo
sufficiente per gli USA per non armare pesantemente alcun
gruppo in Siria.
La situazione è diversa in Iraq, dove il governo statunitense sta fornendo un ingente arsenale alle forze curde. “I peshmerga rispondono all’organo centrale del KRG (Kurdistan
Regional Government), perciò sono più strutturati rispetto ai
ribelli siriani, la cui lealtà politica individuale non è chiara”
spiega Bevan. “In questo senso il rischio di donare loro armi, e che queste siano utilizzate per altri
scopi, è ridotto, ma l’IS può sempre accaparrarsele in un secondo momento”.
La maggior parte delle armi analizzate dal CAR sono state sottratte dall’IS all’esercito iracheno nella campagna nel
nord Iraq conclusasi con la presa di Mosul, e dimostra proprio come la forza
dell’IS consista anche nella disponibilità
di armi requisite in battaglia.
“Si tratta di fucili M16 e munizioni donati dagli Stati Uniti al governo iracheno”
continua Bevan. “Anche se non stupisce
il fatto in sé, queste armi sono state trovate in Siria e ciò evidenzia le capacità
logistiche dell’IS nel muovere armi velocemente e per lunghe distanze”.
In possesso dei militanti dell’IS sono
finite anche armi di piccolo calibro sottratte alle forze governative siriane durante incursioni alle installazioni militari, succedutesi nei tre anni e mezzo di
scontri. Su alcune armi ritrovate è stato
cancellato il numero di serie, rendendo
impossibile al produttore dell’arma identificare chi l’avesse ricevuta. Trattandosi
però di vecchie armi, di cui probabilmente era già andata
persa nota, “la rimozione del numero suona più che altro
da avvertimento” è il parere di Bevan. “Qualcuno vuole
cancellare la sua complicità nel traffico e quasi sicuramente si tratta di un attore locale, ora sta a noi capire chi”.
Alle investigazioni sul campo, che stabiliscono il percorso compiuto da un’arma dalla sua fabbricazione alla vendita, e all’eventuale smercio ai ribelli, segue il caricamento
dei dati raccolti su iTrace ovvero “il più potente database
di pubblico accesso per rintracciare armi al mondo” come
lo definisce il CAR.
iTrace deve la sua esistenza ai fondi ottenuti dall’Unione
Europea e a un’intuizione avuta dallo stesso Bevan e da
gran parte della sua squadra durante il 2009, due anni prima della nascita del CAR, quando ancora monitoravano le
sanzioni per conto dell’ONU.
“Ci siamo accorti che i traffici d’armi verso Stati sottoposti all’embargo trascendevano i confini nazionali e avevano una dimensione regionale” spiega Bevan. “Ad esempio,
abbiamo visto come le armi sudanesi trovate in Darfur fossero identiche ad altre trovate in Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana”.
Al CAR ci sono voluti due anni d’indagini in Africa subsahariana, per raccogliere i dati necessari a ottenere i finanziamenti per iTrace, ma il potenziale del database è stato chiaro fin da subito. Con la sua capacità di trattare grossi flussi d’informazioni e di costruire mappe interattive,
“
LA RIMOZIONE DEL NUMERO
SERVE DA AVVERTIMENTO
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”
iTrace permette di collegare migliaia di singoli casi tramite
semplici dati, come la localizzazione o il numero di serie
dell’arma, in un modello dinamico che riflette la fornitura
d’armi a livello regionale e globale.
A usufruirne saranno non solo i decisori di piani politici
ed economici che, tra le altre cose, dovranno stare più attenti a fornire armi a Stati responsabili di traffici in mercati
illeciti, ma anche i giornalisti per le loro investigazioni e il
grande pubblico. Infatti, iTrace nelle intenzioni ha il pregio
di rendere un settore elitario come quello delle armi alla portata di tutti.
sicurezza
Come
funziona
iTrace
Il software ideato dalla Conflict
armament research consente di
effettuare analisi mirate sui traffici
di armi. tanti sono i criteri di ricerca:
calibro, numeri di serie, scelta
del paese produttore o quello
in cui l’arma è stata ritrovata
ffettuare ricerche su
iTrace, oltre ad essere
cosa semplice e alla
portata di tutti, consente davvero all’utente, chiunque esso sia, di rendersi conto dell’imponenza dei traffici
d’armi su scala mondiale.
Per prima cosa, bisogna
effettuare la registrazione
sul sito della Conflict Armament Research (CAR) nella
sezione dedicata al prezioso
software. Attraverso la compilazione di un form con i
propri dati personali e la
scelta di una password, si
riceve poi una mail di conferma dell’avvenuta registrazione. Da questo momento, è possibile avviare
le specifiche ricerche sui
traffici d’armi sfruttando
tutte le potenzialità di iTrace. Sul portale del CAR, dopo aver eseguito il login,
cliccando sull’opzione “Advanced Search” (ricerca
avanzata) il gioco è fatto.
E
La prima opzione che viene richiesta è la selezione
del database (archivio) in
cui compiere la ricerca. La
scelta, a seconda delle preferenze, è tra: munizioni,
produttori, stock ovvero carichi di armi o munizioni, e
infine armi.
Si procede poi alla scelta
del periodo in cui completare l’analisi, che va dagli ultimi sei mesi fino a vent’anni
fa. A seguire, ci sono altri filtri che servono a definire la
ricerca desiderata in maniera
estremamente dettagliata.
Il programma consente di
risalire al produttore, al calibro, all’anno di produzione,
al luogo in cui un’arma è stata ritrovata così come al numero di serie o addirittura se
esso sia stato cancellato.
Selezionando su “Add to
search” (aggiungi alla ricerca), i parametri inseriti verranno momentaneamente
salvati, in caso si voglia procedere a un’altra ricerca. I
risultati di due o più ricerche possono poi essere incrociati al fine di offrire
un’analisi ad hoc, secondo
le singole esigenze.
Eseguendo alcune prove è
possibile sbizzarrirsi nelle
più disparate ricerche e scoprire, per esempio, che un
missile “PG 7V” da 40mm
prodotto in Bulgaria e ritrovato in Etiopia sia transitato
per l’Eritrea, e visualizzare tali spostamenti su un’interfaccia stile “Google Earth” con
tanto di rotte in evidenza.
Se la ricerca viene, invece,
effettuata su un determinato
tipo di arma rinvenuta in un
Paese specifico, sarà possibile ottenere tutta una serie
di informazioni sull’arma
stessa, con tanto di fotografie dettagliate. La stessa
procedura è adottabile per
qualsiasi tipo di munizioni.
Il database, in continuo aggiornamento, si propone di
essere sempre più preciso e
ricco di informazioni.
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Fornisce una
gamma di soluzioni
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soddisfare le
esigenze di governi,
organizzazioni
internazionali
e non governative
e istituti di ricerca
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sicurezza
Cyberwar is coming! But not so fast...
di VIncenzo Perugia
siamo all’alba di una guerra di nuova concezione oppure è soltanto una suggestione?
STATI UNITI
“
a cyberwar non è mai accaduta
in passato, non si sta verificando nel presente, ed è altamente
improbabile che possa disturbare il futuro”. A scriverlo è Thomas Rid, in un interessante articolo denominato Cyberguerra e
pace, apparso a fine 2013 su Foreign
Affairs. Lo studioso e Lettore del
King’s College di Londra aveva già
espresso questo concetto anche nel
suo libro La Cyberwar non avverrà
(2013), in controtendenza rispetto al
resto degli analisti mondiali.
Quella di Rid sarà pure una semplificazione sulla realtà della guerra virtuale e sui legami tra cyberspazio e sicurezza ma, in effetti, ancora oggi, nonostante numerose azioni di sabotaggio
e spionaggio, gli attacchi informatici
L
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LOOKOUT 13 - novembre 2014
non hanno comportato una concreta
minaccia alla pace mondiale.
Tali azioni sono qualcosa di separato dalla guerra convenzionale, perché non riescono a soddisfare tutte e
tre le definizioni che furono di Von
Clausewitz sulla guerra: dev’essere
violenta, strumentale e attribuibile a
un’azione intrapresa da una parte
per raggiungere un obiettivo politico.
Pertanto, sostiene Rid, pur se il
mondo è immerso nella tecnologia e
le attività nel cyberspazio sono diventate inseparabili dalle operazioni
quotidiane (si pensi agli affari, all’istruzione, alla gestione digitale della pubblica amministrazione, e anche
agli eserciti), di qui a inserire gli attacchi informatici nelle tecniche di
guerra ce ne passa.
La prima volta che si parlò con contezza di questa minaccia era il 1993,
quando ancora il mondo non era né
cablato né connesso e non poteva dirsi pronto alla rivoluzione di Internet
che, in ogni caso, sarebbe arrivata di
lì a poco. “Cyberwar Is Coming!”
scrissero al tempo due analisti della
RAND Corporation, John Arquilla e
David Ronfeldt, sostenendo che
l’astro nascente del web avrebbe radicalmente trasformato il concetto stesso di guerra.
Ancora niente di così catastrofico è
accaduto. Ciò nonostante, nel febbraio del 2011 l’ex direttore della CIA,
Leon Panetta, sentì il bisogno di avvertire il Congresso degli Stati Uniti
che “la prossima Pearl Harbor potrebbe benissimo essere un attacco
cibernetico”. Dunque, ha ragione la
CIA o Thomas Rid? In fondo, sarebbe meglio per tutti non doverlo scoprire mai.
sicurezza
l’opinione
iTRACE,
UNA
GRANDE
ILLUSIONE?
STEFANO MELE
avvocato specializzato in diritto
delle tecnologie, privacy, sicurezza
delle informazioni e intelligence
icuramente il sistema iTrace, realizzato attraverso
un fondo finanziato dall’Unione Europea, è un
progetto molto interessante. La valutazione, il monitoraggio e il rintracciamento dei traffici illeciti di
armi si riferisce però solo a quelle leggere di piccolo calibro e alle relative munizioni. È un’attività
utile perché può supportare l’azione delle agenzie
nazionali, sempre più impegnate a monitorare i conflitti di
media e ampia portata che si stanno concentrando principalmente in Medio Oriente e Africa.
Capire da dove provengono le armi destinate ai gruppi
terroristici operativi in queste aree è certamente importante. Tutto dipenderà dalle capacità dei team di investigatori
del Conflict Armament Research impegnati nella raccolta
di informazioni sul territorio.
Il problema, però, è che il vero business attorno a cui
ruotano questi traffici illeciti riguarda le armi pesanti e le
cyber armi, vale a dire i malware utilizzati da Stati o compagnie private per compiere attacchi di alto profilo. Riuscire a tracciare questo segmento permetterebbe di avere un
quadro più nitido degli attori coinvolti in queste attività illecite, focalizzando l’obiettivo non solo sui compratori ma
anche sui produttori e sui finanziatori.
S
FABIO GHIONI
Esperto in sicurezza e tecnologie
non convenzionali, autore del libro
hacker republic
on credo che il sistema iTrace avrà un grande impatto sul monitoraggio dei traffici di armi nel mondo. Da quello che ho potuto osservare le sue funzioni sono infatti piuttosto limitate. In pratica servirà solo a impedire a piccoli produttori di armamenti di vendere “in proprio” senza passare per la
cerchia delle monopoliste del settore.
In quest’ottica, anche la possibilità di arginare quei traffici illeciti attraverso cui si stanno armando ad esempio i
gruppi terroristici appare remota. Ripeto, iTrace contribuirà
piuttosto a far assorbire i piccoli produttori nelle multinazionali che riforniscono d’armi e munizioni tutto il mondo.
Le grandi lobby delle armi non ne risentiranno. Quella di
poter vedere fermati i loro affari è solo una grande illusione. E lo stesso vale per la scelta di rendere il sistema aperto
a chiunque voglia registrarsi: una concessione che ritengo
irrilevante.
N
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spy gaMe
Quando le spie erano scout
La storia di un attore di teatro, protagonista (a modo suo)
della Guerra di secessione americana
iugno 1863. Da oltre due anni sul
suolo degli Stati Uniti si combatte
una feroce guerra civile che vede contrapposti gli undici Stati della Confederazione del Sud, che dall’aprile del
1861 hanno deciso di abbandonare gli
Stati Uniti, e i restanti Stati dell’Unione, guidati dal presidente Abraham Lincoln.
Sul campo di battaglia si affrontano due
forze disomogenee. I confederati del Sud, in
massima parte di origini anglosassoni, protestanti e di estrazione agricola, combattono
per mantenere in piedi il loro sistema di vita,
basato su un’aristocrazia terriera, elegante e
cavalleresca. Quando viene messa in discussione la schiavitù, uno dei pilastri di questo
sistema su cui si fonda anche la coltura del
cotone, la reazione del Sud è andarsene sbattendo la porta. Dall’altra parte c’è il Nord, capitalista, industriale e multietnico, che vuole
imporre con la forza delle armi il mantenimento dell’Unione, minacciando - ma lo ha
fatto solo dopo due anni di guerra - di dichiarare per legge l’abolizione della schiavitù.
G
di Alfredo Mantici
Direttore editoriale
di Lookout News,
capo del Dipartimento
analisi del Sisde fino al 2008
Sin dalle prime battute del conflitto, i confederati si dimostrano un osso durissimo. La
disponibilità per i due eserciti di nuove armi
micidiali - come il fucile a canna rigata e la
pallottola Minié - provoca decine di migliaia
di morti in una guerra che i politici di entrambi gli schieramenti erano convinti dovesse durare poche settimane.
Robert E. Lee, comandante dell’Armata della Virginia del Nord (riconosciuto all’unanimità dagli storici come “il generale più amato
della storia americana”), d’accordo con il presidente degli Stati del Sud Jefferson Davis, decide di portare la guerra dal baluardo confederato della Virginia, al Nord. L’invasione è
rapida e fulminante e porta l’esercito confederato alle porte di Washington.
Fino a questo momento, nessuno dei due
contendenti è riuscito a far buon uso dello
spionaggio. Le difficoltà di comunicazione a
distanza rendono d’altronde difficile la raccolta d’informazioni tempestive sulle intenzioni degli avversari. In tutte le grandi battaglie, gli eserciti si sono quasi sempre scontrati
alla cieca. L’unica vera fonte di notizie sono
le brigate di cavalleria. Espulse dal campo di
battaglia dalle nuove micidiali armi della fanteria (che rendono impossibili le cariche a
sciabola sguainata dei tempi di Napoleone)
vengono sistematicamente utilizzate per sondare il terreno alla ricerca delle forze armate
avversarie.
Una spia sUdista
Quando Lee attraversa il fiume Potomac,
confine orientale tra il Nord e il Sud, entrando
in Pennsylvania con un esercito di 75mila soldati, si trova in gravi difficoltà. Il comandante
della cavalleria confederata, J.E.B. Stuart, che
per definizione dovrebbe essere “gli occhi e
le orecchie” dell’armata, è scomparso nel
nulla con i suoi cavalleggeri. Mandato in
avanscoperta per raccogliere informazioni,
ha preferito lanciarsi in una scorribanda dal
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storie di spionaggio e controspionaggio
sapore propagandistico ma completamente inutile sotto il profilo
militare.
Lee è pertanto costretto ad avanzare in territorio nemico senza un
piano preciso. I suoi tre corpi d’armata si muovono sparpagliati e alla
rinfusa, distribuiti su colonne lunghe decine di chilometri. Senza saperlo, il suo esercito si ritrova presto nelle vicinanze della formidabile Armata del Potomac, formata da
120mila nordisti. La soluzione per
evitare una sconfitta inevitabile arriva da una spia o meglio, come pudicamente si chiamavano allora, da
uno scout.
Si tratta di Henry Thomas HarriPer tre giorni, dal 1 al 3 luglio, i confederati
son, un attore shakespeariano molto noto nel
circuito teatrale della Virginia. Pagato in oro e gli unionisti si affronteranno nella battaglia
sonante, Harrison comincia a vagare per la più sanguinosa mai combattuta sul suolo amePennsylvania facendosi passare per un conta- ricano. Il generale Lee non riesce a prevalere
dino in cerca della moglie fuggita al seguito di neanche inviando 13mila soldati grigi contro la
un soldato dell’Unione. Con questa scusa, sinistra “collina del cimitero”, in quella che
bussa alle case dei contadini e arriva a chiede- verrà ricordata come la carica di Pickett. Grare informazioni anche alle sentinelle degli ac- zie alla spia Harrison, riesce comunque a non
campamenti. In pochi giorni, nella seconda far soccombere definitivamente la sua armata.
Nonostante la sconfitta sul campo, i suoi uometà di quel giugno fatale, Harrison è in
mini riescono infatti a rientrare ordinagrado di ricostruire nel dettaglio l’intetamente in Virginia, pronti per
ro schieramento unionista. Quello
un’altra battaglia.
che vede lo raggela. Nella reciproSe il 3 luglio l’Armata del Polo sCoUt
ca ignoranza, i due eserciti bih. t. harrIsoN
tomac fosse stata distrutta - covaccano a poche miglia l’uno
ha salvato
me certamente sarebbe succesdall’altro. Con la differenza che,
Il GENEralE
so senza le informazioni di Harrispetto alle forze del Sud, i norROBERT E. LEE
rison - la ricorrenza del 4 luglio
disti sono molto più compatti.
sarebbe stata festeggiata insieme
A rischio della propria vita, nelalla notizia della fine della guerra.
la notte del 28 giugno Harrison rieLo scout Harrison ha salvato il generasce a presentarsi agli avamposti confederati. Condotto alla presenza del generale le Lee. La guerra, invece, durerà altri ventidue
(“se Longstreet non ti riconosce, ti impic- mesi, concludendosi con un bilancio di oltre
chiamo”) riesce a convincerlo dell’attendibi- 620mila soldati del Nord e del Sud deceduti.
Finito il conflitto, Harrison non smentisce
lità delle sue informazioni. Pur sconcertato
dal fatto di doversi “fidare di una spia”, an- la propria natura. Si sposa, ha dei figli e un
che il generale Lee sembra convinto da Har- bel giorno sparisce di casa per venticinque
rison. Invia così staffette in ogni direzione anni per mettersi alla ricerca dell’oro. Al rienper far convergere tutti i suoi corpi d’armata tro, la famiglia si rifiuta di riaccoglierlo. Triste
verso una cittadina che entrerà nella storia: epilogo per uno dei protagonisti meno conosciuti della grande guerra americana.
Gettysburg.
HENRY
THOMAS
HARRISON
1832-1923
Harrison è stato
un avventuriero
americano
e uno “scout”.
Nel 1862 era finito
nelle prigioni
nordiste perché
trovato a girovagare
nelle vicinanze
di accampamenti
militari. Scarcerato
per insufficienza
di prove, fu reclutato
come spia dal
generale confederato
James Longstreet,
che ne apprezzò
l’intelligenza
e la capacità
di osservazione
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RAGES
Le principali manifestazioni
di rabbia e dissenso
l’autunno caldo
nelle piazze
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OUAGADOUGOU, BURKINA FASO
Manifestanti fanno irruzione nella sede della tv di Stato.
Dopo 27 anni i militari pongono fine al regime del presidente
Blaise Compaoré (30 ottobre).
BRUXELLES, BELGIO
Scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in occasione dello
sciopero generale contro le politiche di austerità annunciate
dal governo di centrodestra (6 novembre).
LONDRA, REGNO UNITO
Anonymus in azione vicino a Buckingham Palace nel Guy Fawkes
day, giornata in memoria del ribelle cattolico che voleva far
saltare in aria il parlamento britannico nel 1605 (5 novembre).
KIEV, UCRAINA
Militanti nazionalisti, sostenitori del partito di estrema destra
Svoboda, protestano di fronte al Parlamento nella Giornata dei
Cosacchi Ucraini (14 ottobre).
SANAA, YEMEN
Sostenitori del gruppo sciita degli Houthi eseguono la danza
tradizionale Baraa. I secessionisti del Sud e AQAP minacciano
la stabilità del governo centrale (12 ottobre).
GERUSALEMME, ISRAELE
Nuovi scontri dopo che il 5 novembre un membro di Hamas
si è lanciato contro la folla nel rione nel rione di Sheikh Jarrah,
uccidendo un cittadino israeliano.
osservatorio sociale
Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese
Calma apparente
nche se nel mese di ottobre non si sono registrati attentati di matrice
anarco-insurrezionalista, è lecito presumere che i “nuclei di fuoco”
che finora sono sfuggiti all’opera di prevenzione e repressione sviluppata dalla Magistratura e dalle forze dell’ordine proseguano nella
pianificazione di “azioni dirette” lungo le direttrici già delineate
nell’ultimo biennio. Sono altrettanto probabili ulteriori tentativi di
strumentalizzazione di manifestazioni di piazza legate alla situazione di crisi economica che investe il nostro Paese.
A ottobre è proseguita la stasi nelle operazioni terroristiche di matrice anarco-insurrezionalista che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Non si sono, infatti,
registrati attentati dinamitardi o iniziative eversive né in Val di Susa né in altre aree di attività dell’antagonismo italiano.
Il calo dell’iniziativa anarchica può essere sostanzialmente ricondotto all’azione incalzante di magistratura e forze dell’ordine che, dall’inizio dell’anno, hanno inferto duri colpi alle reti antagoniste. Per rendersi conto di quanto
l’opera di prevenzione e repressione abbia inciso sull’attività anarchica, è
sufficiente scorrere i siti d’area che riportano ormai quasi soltanto aggiornamenti sulla situazione giudiziaria dei “compagni arrestati” e comunicati di solidarietà e protesta “contro la repressione”.
Nonostante la momentanea interruzione delle azioni dinamitarde, gli
anarchici sono scesi in campo a Bologna il 18 ottobre, dando luogo a una
violenta manifestazione contro la presenza in città del governatore della
Banca d’Italia, Ignazio Visco, invitato dalle autorità accademiche a tenere
una “lectio magistralis” presso l’ateneo cittadino. Un centinaio d’incappucciati ha tentato di raggiungere l’Università scontrandosi con la polizia, contro
cui sono stati lanciati bastoni, bombe carta, fumogeni, bottiglie e barattoli di
vernice. Secondo il questore gli anarchici “cercavano l’incidente” tentando di
rendere ancora più teso il clima da “autunno caldo” che, a causa della crisi
economica, inizia a prendere corpo nel nostro Paese.
Un clima che è testimoniato anche dagli scontri di Piazza Indipendenza a Roma
del 29 ottobre, quando sindacalisti della Fiom e lavoratori della AST di Terni si
sono scontrati con le forze dell’ordine durante una manifestazione di protesta per
la paventata chiusura dello stabilimento “acciai speciali” della città umbra.
A
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TIMELINE
DEGLI EVENTI
18 ottobre BOLOGNA
Scontri con la polizia
all’Università, in risposta
alla presenza nell’ateneo
del governatore
della Banca D’Italia,
Ignazio Visco.
29 ottobre ROMA
Scontri in piazza
dell’Indipendenza tra
poliziotti, sindacalisti
della FIOM e lavoratori
dell’AST di Terni.
8 novembre BOLOGNA
Aggressione da parte
di alcuni centri sociali
all’auto dell’eurodeputato
e segretario della Lega
Nord, Matteo Salvini.
copertina
OTTOBRE
2014
Aggiornato
al 10 novembre 2014
ATTENTATI
LETTERE O
PACCHI BOMBA
INCIDENTI
DI PIAZZA
RAPINE
O AGGRESSIONI
RISCHI
O MINACCE
ARRESTI
BOLOGNA
ROMA
dietro lo specchio
PER SAPERNE DI PIÙ
dietro lo specchio - WWW.LOOKOUTNEWS.IT
Regime change
e diversioni strategiche
Fallito il tentativo di prendere il potere dopo le rivolte di Piazza Maidan,
l’Occidente è in cerca di nuove soluzioni
l regime change messo in opera a Kiev
non ha portato agli USA quanto sperato.
Non ha provocato un intervento armato
della Russia, così da porla tra gli Stati canaglia nemici dell’Occidente, portare
truppe NATO e missili a ridosso della sua
frontiera, e riavviare in grande stile una
nuova Guerra Fredda, per scompaginare - più
velocemente dei quarant’anni impiegati per
portare l’URSS al crollo finanziario - le alleanze che sorreggono il potere di Putin e provocare un regime change ben più importante di
quello ucraino.
La Russia, secondo la vice-segretario Victoria
Nuland e i consiglieri di guerra neocon dell’Amministrazione Obama, sarebbe stata così
ricacciata nella subordinazione dei bei tempi del beone intrallazzatore Boris Yeltsin,
che per premio aveva potuto lasciar depredare il Paese da suoi famigli, poi oligarchi.
Un risultato ottenuto è stato quello di incrinare la partnership russo-europea: un polo indipendente, altro ostacolo al predominio
mondiale degli USA e del dollaro. La Russia
non è caduta nella trappola perché ormai disincantata, dopo un primo periodo di acquiescenza per la propria debolezza, aveva ben
compreso gli intenti di vassallaggio travisati
nel “libero mercato globale” osannato dagli
USA.
Ma avrebbe avuto difficoltà a evitare l’intervento, e al contempo mantenere un’interposizione territoriale con le truppe NATO, se i russi degli oblast orientali dell’Ucraina non si
fossero opposti al regime change di Kiev, organizzandosi politicamente e militarmente
per la propria autonomia.
Il cessate-il-fuoco tra le parti (l’Ucraina per
la debacle dell’esercito e la Russia per i danni
già apportati alla sua debole economia) ha
posto fine alla guerra ma non alle ostilità.
I
Il fUtUro
dEll’Est
UCraINa sarà
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DIPLOMAZIA
Ma dallE
ARMI
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La Repubblica di Donetsk ha bisogno di un
aeroporto, e per questo lì ancora si combatte.
Il territorio delle repubbliche sarà determinato dalle armi, e per questo l’esercito ucraino
continua ad attaccare i villaggi orientali in un
continuo prendi e lascia con le milizie della
Novorossija.
Né il cessate-il-fuoco ha risolto diatribe e
riposizionamenti all’interno delle oligarchie ucraine, formatesi anch’esse, come
quelle russe, nell’arrembaggio della privatizzazione capitalistica ad appannaggio di bande di profittatori, costituitesi poi in Ucraina in partiti politici di supporto.
Così, è ancora indefinibile
la posizione dell’oligarca Rinat Akhmetov che,
uomo più ricco d’Europa, ha tutte le sue
aziende nella Repubblica di Donetsk. I cui
dirigenti comunisti
hanno annunciato
storie di un Mondo al rovescio
che ogni industria sarà riportata “in
proprietà del popolo”.
Akhmetov, a differenza degli altri
oligarchi, non si è prontamente schierato con la giunta di Kiev, limitandosi
a sostenere l’integrità del Paese. Ora,
dopo la tregua che ha riconosciuto di
fatto le due repubbliche orientali,
l’oligarca non ha preso posizione, ma
la sua Fondazione è attivissima nel
fornire aiuti alla popolazione del Donbass (anche con il Rinat Akhmetov
Help Children Project). Fatto sta che
l’hangar dell’aeroporto di Dontesk
con il suo aereo viene accuratamente
tenuto al riparo dai colpi dei ribelli.
Akhmetov ha perso finora il 20%
del suo capitale, ma ne ha ancora in
abbondanza per mantenere una posizione di partecipata attesa. Nel frattempo, dati gli stretti legami commerciali, è
sicuramente in contatto con le autorità
russe e anche con i suoi omologhi, per
far sì che Putin riporti a più miti consigli i comunisti delle due repubbliche.
Ma Putin non può premere più di
tanto. Per il ruolo svolto dai comunisti
ucraini, e per non inimicarsi l’alleanza del Partito Comunista russo che,
proprio per l’Ucraina, lo sostiene nel
braccio di ferro con i liberisti. Né può
togliere supporto alle due repubbliche perché per ogni russo sarebbe un
tradimento.
E proprio su questo si sta ora articolando una diversione strategica (disinformazione) degli esperti PSYOP
(guerra psicologica) americani: ovvero la messa in circolo in Russia della
voce che Putin, sotto pressione degli
oligarchi, avrebbe tradito le repubbliche accordandosi con il presidente
ucraino Petro Poroshenko su una loro
autonomia all’interno dell’Ucraina.
La speranza USA è che il popolo gli
si rivolti contro, portando a un assedio di tutti i gruppi politici. Fatto che
potrebbe consentire ai filo-occidentali nel suo stesso partito di metterlo
da parte. Al Dipartimento di
Stato hanno sicuramente già
pronto un nuovo Yeltsin.
un libro al Mese
congo
di David van Reybrouck
Feltrinelli - 2014
pp. 688 - 25,00 euro
er comprendere la natura
della Repubblica
Democratica del Congo
occorre ben altro che tenere a
memoria i nomi che hanno
contraddistinto i suoi ultimi cento
anni di storia: Congo Belga dal
1908 al 1960, poi Repubblica del
Congo, infine Zaire dal 1971 al 1997
in seguito al golpe di Mobutu Sese
Seko. Afferrare le radici di questo
immenso Paese - 2,3 milioni di
chilometri quadrati, un’area grande
come l’Europa Occidentale e due
terzi dell’India, l’unico Stato in tutta
l’Africa con due fusi orari - significa
andare alla foce del suo maestoso
fiume: un enorme getto di detriti,
terra e alberi che nel picco della
stagione dei monsoni invade
l’Oceano Atlantico per più di 800
chilometri. L’immagine che affiora
dal reportage realizzato dal
giornalista belga David Van
Reybrouck segue l’andamento
di questo fiume: un flusso continuo
di testimonianze, ricordi di passati
coloniali, regimi e colpi di Stato, e
ancora etnie, lingue e codici tribali
e rimandi all’archeologia, alla
geografia e alla climatologia di
questi luoghi. È come una persona,
spiega l’autore, che dopo essersi
tagliata i polsi “li tiene sotto
l’acqua, ma per sempre”.
P
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ELECTION DAYS
ROMANIA
BAHRAIN
TUNISIA
LIBANO
ISOLE SOLOMON
TONGA
16
nov
parlamento
16
ROMANIA
nov
19
nov
22
LIBANO
presidenziali
ISOLE SOLOMON
parlamento
BAHRAIN
nov
presidenziali
23
TUNISIA
nov
presidenziali
27
TONGA
nov
parlamento
STATI UNITI
Elezioni di MID TERM. Rinnovo seggi del Congresso
4 novembre 2014
CAMERA
180
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REDAZIONE
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Brian Woods
Hugo
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RISULTATI DELLE URNE
DEMOCRATICI
anno II - numero 13 - novembre 2014
244
REPUBBLICANI
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Fabio Ghioni
Paolo Messa
Marco Giaconi
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SENATO
Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013
R.O.C. n. 24365 del 18/03/2014
45*
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*INCLUSI 2
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