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RASSEGNA STAMPA martedì 4 agosto 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 04/08/15, pag. 7 Rai, duello in Vigilanza sul nuovo cda Marco Mele ROMA Antonio Campo Dall’Orto è in pole position diventare il nuovo direttore generale della Rai mentre continua la trattativa sul presidente. La commissione di Vigilanza, oggi alle 14, dovrà nominare, con voto limitato ad uno, sette dei nove consiglieri previsti dalla legge Gasparri. I sette più votati dai 40 componenti della commissione bicamerale saranno i nuovi consiglieri Rai. Bisognerà stare attenti ad eventuali pareggi (a quota quattro o cinque voti) tra due o più candidati. Un’altra votazione della Vigilanza, nel giorno in cui la Camera deve votare la fiducia, potrebbe far slittare i tempi dettati dal Governo, imperniati sull’assemblea dei soci Rai, convocata mercoledì per comunicare il nome del nuovo presidente, del consigliere nominato direttamente dall’azionista – quello che fa maggioranza in cda – e, forse, anche del nuovo direttore generale. In commissione di Vigilanza, intanto, è stata effettuata l’operazione di riequilibrio della rappresentanza dei gruppi parlamentari. Hanno rinunciato a un commissario Forza Italia e il Movimento Cinque Stelle, che scendono a sei e a cinque commissari, a favore di Gal e dei Riformatori di Fitto. Aumenta quindi la frammentazione della Vigilanza: i gruppi rappresentati da un solo commissario (Sel, Scelta Civica, Autonomie, Gal, Ala, Per l’Italia, Misto. Fratelli d’Italia, Misto-Liguria e Lega Nord) dovranno convergere su candidati con possibilità di successo. Diverse personalità, intanto, si “sfilano” dalla corsa al vertice Rai, dichiarando di non essere interessate: dopo Andrea Scrosati, di Sky, dopo il presidente dell’Enel, Patrizia Grieco, dopo Franco Bassanini, ieri è stata la volta di Marinella Soldi, che dichiarato l’intenzione di restare al vertice di Discovery Italia. Campo Dall’Orto è manager televisivo e anche uomo di prodotto: questo fa ritenere che il presidente debba avere requisiti diversi dai suoi. Questo porta da una parte molti a individuare un giornalista autorevole e riconosciuto come al di sopra delle parti o comunque una figura istituzionale, da Marcello Sorgi a Giulio Anselmi e Stefano Folli. Dall’altra, c’è chi insiste sulla scelta di un tandem donna-uomo tra presidente e direttore generale. Allora, in buona posizione c’è Antonella Mansi, presidente uscente della Fondazione Monte Paschi di Siena e vicepresidente di Confindustria. Ma potrebbe riemergere il nome di Luisa Todini. Sul nome del presidente dovrà pronunciarsi la Vigilanza (prevista per giovedì ma si parla anche di mercoledì sera) con una maggioranza di due terzi, quindi 27 voti su 40. Il Pd ne ha sedici, quindi, visto che i Cinquestelle si sono tirati fuori da ogni intesa, sul presidente dovranno convergere almeno i voti di Forza Italia e di altri singoli commissari. Tra i consiglieri che saranno votati oggi dalla Vigilanza Carlo Freccero dovrebbe essere votato dai Cinquestelle e da Sel. Tra i Pd ci sarà almeno una donna, forse Sara Bentivegna, docente alla Sapienza. Crescono le quote di Stefano Balassone, grande esperienza di televisione e di Rai. Fuori dal Parlamento, diverse associazioni, dall’Arci a Legambiente, da MoveOn Italia a Net Left, dall’Associazione Stampa Romana a Libertà e Giustizia, denunciano un «passaggio frettoloso, a riforma incompiuta, senza pubblicità e trasparenza nei curricula 2 dei candidati (previsti dalla riforma votata al Senato), escludendo dal processo riformatore le parti sociali e i cittadini, che pagando il canone sono i veri azionisti della Rai». Da Repubblica.it del 03/08/15 (Firenze) Gara di solidarietà per salvare il piccolo Diego Raccolta di fondi per aiutare la famiglia del bambino di 3 anni volato negli Stati Uniti per curarsi. E' colpito da una malattia neurologica progressiva di FEDERICO NOCENTINI E' volato negli Stati Uniti con la sua famiglia, per giocare la partita più importante. Diego è un bambino di 3 anni e mezzo, residente nel Comune unico di Castelfranco-Pian di Sco, in provincia di Arezzo, colpito dalla sindrome di Leigh. Si tratta di una malattia neurologica progressiva che interessa il sistema nervoso centrale, in particolare il tronco cerebrale e il cervelletto. La malattia è causata dal cattivo funzionamento del metabolismo. In genere, si manifesta in bambini di età compresa tra tre mesi e due anni, ma può insorgere anche più tardi. I bambini colpiti presentano un progressivo ritardo dello sviluppo psicomotorio e sintomi come la perdita di appetito, vomito, epilessia ed altri disturbi che, causano anche difficoltà respiratorie e per i reni. Purtroppo per il momento non ci sono cure per guarire completamente da questa malattia. Il miglioramento del piccolo consiste nel bloccare l'avanzamento della malattia attraverso una cura sperimentale a base di un farmaco somministrato per via orale, come spiegato Ilaria, la mamma di Diego, prima di partire per questo lungo viaggio che lo terrà lontano da casa almeno per sei mesi. Per aiutare il bambino e la famiglia nelle spese della cura e del soggiorno è partito un tamtam di solidarietà, un abbraccio ideale che dal Valdarno ha raggiunto i comuni della Città metropolitana. In questi mesi sono state organizzate cene di finanziamento per Diego nella frazione di Faella, a Castelfranco-Pian di Sco e i dipendenti del Comune hanno raccolto soldi per la famiglia. Cene molto partecipate si sono svolte a Scandicci alle "Bagnese" e a Sant'Angelo a Lecore durante la manifestazione "Giovedìamoci" promossa dal circolo Sms. E la corsa per Diego continua venerdì 7 agosto dalle 19 in poi a Donnini, frazione di Reggello: il Circolo Arci Dario Renzi e la Pro-Loco del paese raccoglieranno soldi per le cure al "Donnini Summer Festival" con serata musicale condotta dal dj Alex Tamburini accompagnato dalla vocalist Medusa. Per saperne di più sul piccolo Diego si può consultare il blog internet, all'indirizzo tuttiperdiego.org http://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/08/03/news/gara_di_solidarieta_per_salvare_il_pi ccolo_diego-120374554/ 3 ESTERI del 04/08/15, pag. 6 Erdogan contro il Pkk, che reagisce Akp divisa sul nuovo governo Turchia. Obama: in Siria in difesa dei nostri ribelli Giuseppe Acconcia Barack Obama ha autorizzato attacchi aerei per difendere i ribelli siriani armati e addestrati da Washington «sia se colpiti dall’esercito di Damasco sia dall’Isis». La decisione potrebbe rafforzare il ruolo Usa nella guerra civile siriana. Lo scorso venerdì un gruppo di ribelli, appoggiati dagli Usa, sono stati attaccati innescando il primo raid statunitense in loro difesa. Fin qui il Pentagono aveva escluso che il regime di al-Assad potesse attaccare i ribelli direttamente sostenuti da Washington. Come se non bastasse, per l’agenzia di monitoraggio indipendente Airwars, solo nei raid della coalizione internazionale (57 in Siria e in Iraq) contro lo Stato islamico, sarebbero stati uccisi 459 civili che nulla avevano a che fare con il conflitto. La scorsa domenica, un velivolo dell’aviazione governativa è precipitato su un mercato nella città nord-occidentale di Ariha, uccidendo 27 persone. La città, ora nelle mani dei ribelli di Jaish al-Fateh, era una delle ultime roccaforti del governo nella provincia di Idlib,conquistata dai jihadisti. I miliziani qaedisti di Jabat el-Nusra hanno rivendicato l’attacco al velivolo. Sul fronte turco-siriano, non si fermano gli attacchi a Pkk e Hdp, la formazione di sinistra che ha avuto un insperato successo elettorale lo scorso 7 giugno entrando per la prima volta in parlamento. Dopo nove giorni di bombardamenti, due soldati turchi sono stati feriti in un’esplosione a Diyarbakir. Dell’attacco è responsabile il partito di Ocalan. Poco prima i combattenti del gruppo avevano attaccato la polizia turca a Sirnak. La strada che conduce alle province orientali di Tunceli e Erzincan è stata chiusa. Intorno a Tunceli, Hozat, Mazgirt, Agri e Nazimiye 14 aree sono state dichiarate zone militari, dopo l’uccisione di due soldati e il ferimento di 30 in un attacco del Pkk della scorsa domenica. Non solo, i quattro giudici che a gennaio avevano ordinato di fermare e perquisire i camion dell’intelligence sul confine tra Turchia e Siria sono stati arrestati con l’accusa di tentare di rovesciare il governo. Il tentativo dei giudici era di smascherare le politiche governative che hanno favorito i jihadisti dello Stato islamico diretti in Siria o di ritorno in Turchia. Questo episodio è l’ennesimo tentativo di far fallire i colloqui per la formazione di un esecutivo di coalizione tra gli islamisti moderati di Akp e i kemalisti (Chp) di Kilicdaroglu. Il politico ha accusato Erdogan di bloccare gli sforzi per la formazione di un governo AkpChp. Invece, secondo il leader kemalista, il premier in pectore Ahmet Davutoglu vorrebbe davvero arrivare ad un accordo politico ma viene frenato dal presidente turco. Se entro pochi giorni le divisioni politiche non dovessero essere superate si andrà ad elezioni anticipate. Il rischio è un aumento dei consensi per Erdogan che ha puntato sul richiamo al nazionalismo turco per accrescere i voti di Akp. Ieri era il primo anniversario del grave genocidio contro i kurdi yazidi che hanno tentato di fuggire dall’avanzata dell’Isis su Singal del 3 agosto 2014. Senza aiuto ternazionale, vennero messi al riparo nelle montagne dai combattenti del Pkk, ora sotto attacco delle autorità turche. Migliaia di giovani ragazze vennero rapite e vendute, alcune hanno 4 preferito il suicidio. Da quel giorno nacquero le Unità di resistenza di Singal (Ybs) e si rafforzò la lotta delle Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj) nel Kurdistan siriano (Rojava). Il leader del governo autonomo del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, che ha fin qui mantenuto un atteggiamento ambiguo sui continui attacchi turchi contro Pkk a Qandil, ha promesso che «chiunque coinvolto in questi crimini non sfuggirà alla giustizia e alla punizione». Anche sul fronte Iran sembra che la causa kurda stia guadagnando nuovo spazio. Il ministero della Scienza ha dato il via libera all’apertura di un dipartimento di Lingua e letteratura kurda nell’Università del Kurdistan. Sarà il primo programma universitario in kurdo permesso dalla nascita della Repubblica islamica. del 04/08/15, pag. 7 E Netanyahu ora scopre “il terrorismo ebraico” Israele/Territori Occupati. Il governo amico dei coloni sarebbe preso di mira dai più estremisti che vorrebbero rovesciarlo, dicono i servizi di sicurezza. Ma lo scetticismo è forte verso la "linea dura" annunciata domenica dal primo ministro nei confronti degli ultranazionalisti israeliani. L'Anp di Abu Mazen annuncia ricorso a Onu e Corte penale internazionale Michele Giorgio GERUSALEMME Nei giorni scorsi il governo Netanyahu è stato contestato ai raduni di protesta contro i coloni ebrei che hanno ucciso il piccolo Ali Dawabsha a Kfar Douma. Ed è stato criticato anche alla commemorazione a Gerusalemme di Shira Banky, la 16enne accoltellata a morte la scorsa settimana da un religioso ebreo durante la Gay Parade. Eppure l’esecutivo di destra israeliano, aperto sostenitore della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, figura ora tra le “vittime” di quanto è avvenuto negli ultimi cinque giorni. Secondo i servizi di sicurezza israeliani (Shin Bet), gli attivisti del gruppo ebraico “Price Tag” (Prezzo da pagare), intenderebbero rovesciare l’esecutivo, al fine di stabilire un nuovo regime basato solo sulla legge ebraica. Anche per questa ragione Netanyahu domenica ha deciso un atto di forza, annunciando che contro gli estremisti ebrei potrebbe essere usata la “detenzione amministrativa”, una misura preventiva impiegata sino ad oggi contro i palestinesi e che prevede il carcere senza processo. I dubbi sulla serietà del provvedimento non mancano. «Voi credete che Bibi (Netanyahu) demolirà le case delle famiglie delle persone che hanno compiuto l’attacco a Kfar Douma? Andranno a richiedere i campioni del Dna di tutti i maschi della colonia (da cui provengono gli assassini) come fanno con i palestinesi?», ha commentato con ironia il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi. Peraltro non si capisce come poche centinaia di fanatici – perchè questo sarebbe il numero delle “mele marce” – potrebbero rovesciare il governo e realizzare un colpo di stato. Infine, particolare non secondario, si sa da anni che una corrente degli ultranazionalisti religiosi che popolano le colonie vagheggia l’instaurazione di un Regno di Israele, fondato solo sulla legge ebraica. Si vedrà cosa accadrà sul terreno. Al momento, riferisce l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din, è noto che appena l’1,9% delle denunce dei palestinesi contro gli 5 attacchi dei coloni si è tramutato in rinvii a giudizio e in condanne. Senza dimenticare che in questi giorni sul web si sono moltiplicate le proteste degli israeliani che contestano la linea “dura” del governo verso la destra estrema e le correnti più oltranziste del movimento dei coloni. Il capo dello stato Reuven Rivlin si è rivolto alla polizia affinchè indaghi sulle minacce di morte espresse nei suoi confronti su Facebook dopo che aveva parlato di «terrorismo ebraico», commentando l’uccisione di Ali Dawabsha e l’attacco al Gay Pride. «Traditore puzzolente — ha scritto qualcuno — Farai una fine peggiore di Ariel Sharon (rimasto in coma per anni a causa di un ictus, ndr)». Un altro si è augurato che emerga presto un nuovo Yigal Amir, il responsabile dell’assassinio venti anni fa del premier laburista Yitzhak Rabin. E che nulla sia cambiato da allora lo dice proprio la figlia di Rabin. «Vedere sul web l’immagine di Rivlin con una kefiah araba mi ha rivoltato lo stomaco…attenzione le parole possono uccidere», ha avvertito Dalia Rabin ai microfoni della radio militare, ricordando il clima di odio e le accuse di tradimento rivolte al padre che aveva osato restituire ai palestinesi piccole porzioni di Cisgiordania. Un’atmosfera alla quale contribuì in qualche modo anche il capo dell’opposizione di destra, oggi primo ministro, Benyamin Netanyahu. Tanto che la famiglia di Rabin si rifiutò di accettare le sue condoglianze. Comunque sia le rivelazioni sul “complotto” contro il governo fatte dai servizi segreti hanno contribuito ad allentare le pressioni sul governo e a mettere il premier Netanyahu sotto una luce più positiva, quindi in grado di contrastare l’Autorità nazionale palestinese e la Giordania d’accordo ad inviare il testo di una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chieda protezione internazionale per i civili sotto occupazione militare. L’ambasciatore palestinese in Giordania, Atallah Khairi, ha spiegato al quotidiano al Ghad che la mossa è una risposta al rogo doloso della casa di Kfar Douma in cui è morto Ali Dawasba. Secondo i dati dell’Onu dall’inizio del 2015 sono stati almeno 120 gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. L’Anp inoltre starebbe riconsiderando gli accordi economici, amministrativi e di sicurezza con Israele, in linea con una risoluzione approvata nei mesi scorsi dal Consiglio centrale palestinese ma mai attuata dal presidente Abu Mazen. Infine si è appreso che il ministro degli esteri dell’Anp Riyad al Malki è partito per Ginevra dove richiederà al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite l’attuazione nei Territori palestinesi della Quarta Convenzione di Ginevra che, adottata nel 1949, tutela i civili durante i conflitti armati e le occupazioni militari. Del 4/08/2015, pag. 6 La Borsa riapre dopo 35 giorni di stop forzato e affonda del 16 per cento È il peggior tracollo dal 1987.Maglia nera alla National Bank:-30%. Passi avanti nelle trattative con la Troika, ma l’intesa è lontana e si studia un nuovo prestito ponte Riapertura con il botto (in negativo) per la Borsa di Atene. Il listino azionario ellenico ha ripreso ieri le contrattazioni dopo cinque settimane di chiusura e - come prevedibile - è finito subito ko. L’indice ha aperto in calo del 20% malgrado i limiti alle vendite imposti per evitare un tracollo. Pochi minuti dopo l’inizio delle contrattazioni è arrivato a bruciare quasi un quarto del suo valore prima di recuperare un po’ nel finale chiudendo con un ribasso 6 del 16%, il peggior risultato dal 1987. La maglia nera di giornata è andata alle banche con la National Bank of Greece in rosso del 30%, il limite massimo d’oscillazione consentito dalle autorità di mercato. Dal 2008, l’anno in cui è iniziata la crisi, il mercato greco ha perso l’85%. Il crollo era in parte annunciato. La Borsa aveva chiuso i battenti il 29 giugno, il giorno in cui Atene era stata costretta a imporre durissimi controlli sui capitali per arginare la fuga di liquidità dai conti correnti. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti: c’è stato il referendum, è arrivato il compromesso con l’ex Troika che ha consentito di evitare il default e di avviare i negoziati per un nuovo piano di aiuti da 86 miliardi. L’economia però nel frattempo è andata a picco e le banche, che contano per buona parte della capitalizzazione di listino, sono il settore messo peggio tanto che il piano di aiuti dei creditori prevede per loro una ricapitalizzazione da 25 miliardi circa per evitare il crac. Tutti fattori che hanno inciso sulla débacle di ieri e che ben difficilmente lasciano sperare in un rialzo in tempi brevi. I dati economici, in effetti, continuano a confermare che il barometro greco è sul brutto tempo fisso: l’attività del comparto manifatturiero - che conta circa per il 10% del Pil - è crollata ai livelli minimi degli ultimi 16 anni, prima che il paese entrasse nell’euro. I controlli di capitale hanno mandato a picco anche l’indice di fiducia delle imprese scivolato dal 90,7 a 81,3, valori che non si vedevano dai momenti difficilissimi del 2012. Solo un anno fa lo stesso indicatore viaggiava a quota 102. Il rischio di Grexit, insomma, è tutt’altro che svanito, anche se proprio in queste ore si iniziano a registrare i primi timidi progressi nei negoziati tra Atene e l’ex Troika. Ieri sarebbe stato raggiunto un primo accordo di massima su uno dei punti più complessi: le pensioni. Il governo di Alexis Tsipras avrebbe accettato i termini delle proposte di Ue, Bce e Fmi ma senza renderli retroattivi. La riforma dunque partirebbe dal prossimo ottobre. Il tempo per arrivare a un’intesa stringe: il 20 agosto scade un nuovo prestito da 3,5 miliardi della Bce e per sbloccare gli aiuti dell’ex Troika l’ok al compromesso deve arrivare entro l’11-12 agosto, in modo da dare tempo ad alcuni Parlamenti, tra cui quelli di Atene e di Berlino, di approvarlo. Già domani, non a caso, il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos si incontrerà con i massimi vertici di Ue, Bce e Fmi per un summit sulle privatizzazioni e per fare una sorta di punto dopo i primi giorni di negoziati in grado di far capire se e quando si arriverà a una sintesi finale. Nel caso i tempi si allunghino, i tecnici di Bruxelles starebbero già valutando l’ipotesi di un prestito ponte per consentire alle trattative di andare ai supplementari senza far scattare il default. Si vedrà. La firma sull’accordo non sarà però la fine dei problemi per Tsipras, che subito dopo aver ricevuto i primi aiuti finanziari dovrà affrontare il congresso di Syriza e puntellare il suo governo, con l’ipotesi non proprio improbabile di scissione del suo partito e di elezioni anticipate. La sua speranza è vincere nelle urne (oggi come oggi è ancora in testa nei sondaggi) e di portare a casa in autunno una consistente ristrutturazione del debito. Del 4/08/2015, pag. 6 Il controllo dei capitali sta asfissiando il Paese il Pil 2015 crollerà del 4% A giugno l’import di materie prime è sceso del 50% In queste condizioni impossibile per le aziende fare business IL RETROSCENA ETTORE LIVINI 7 MILANO. Le vigne ai piedi del Falakro e del Menikio, quest’anno, sono cariche d’uva come non mai. Il sole sta facendo salire il livello di zucchero negli acini, il maltempo – facendo gli scongiuri – ha risparmiato i filari nelle valli a nord di Kavala. I viticoltori ellenici però non hanno nessuna voglia di festeggiare. La vendemmia 2015 è a rischio. E non per colpa di grandine o peronospora ma a causa del nuovo nemico pubblico numero uno di tutto il paese: i controlli di capitali. Il copione di questa nuova tragedia greca è uguale per tutti: agricoltori e multinazionali, commercianti e pescatori. Sei mesi di estentuanti negoziati a Bruxelles hanno messo in ginocchio le imprese e frenato i consumi. La stretta sulla liquidità imposta dalla crisi e dal Governo il 29 giugno è stata però il colpo di grazia che ha paralizzato il paese, senza risparmiare nessuno: i produttori di vino faticano a pagare i fornitori esteri di bottiglie e tappi e molti non riceveranno in tempo le barrique in quercia in cui invecchiare la produzione dell’anno. I delfini e il formichiere dello zoo di Atene rischiano la pelle perché il gestore – che pure ha il conto in banca gonfio di liquidità – non può a girare in Olanda e Germania i contanti necessari a sbloccare le sardine surgelate per i cetacei e i vermi di cui va ghiotto il mammifero sudamericano. Centinaia di pescherecci sono fermi perchè mancano i soldi per la benzina mentre tra il Pireo e le frontiere di terra – calcola la Camera di Commercio – ci sono 4.500 container bloccati perché i destinatari ellenici non riescono a pagare venditori che – vista la situazione – pretendono pagamenti anticipati al 100%. La Grecia si sta fermando. E il risultato è paradossale: il rischio di Grexit - archiviato in apparenza grazie al compromesso con Ue, Bce e Fmi del 13 luglio - rischia di rientrare ora dalla finestra. E non per colpa dei falchi del nord o di Wolfgang Schaeuble, ma per il micidiale mix tra le divisioni di Syriza, un memorandum lacrime e sangue dif-ficilissimo (dicono tutti) da implementare e la realtà di un’economia arrivata di nuovo - causa asfissia finanziaria - sull’orlo del crac. I dati sullo stato di salute di Atene sono quelli di una Caporetto: a fine 2014 le agenzie di rating prevedevano per il Pil di quest’anno una crescita del 2,5%. Oggi, dopo cinque settimane di liquidità con il contagocce, la Ue ha rivisto al ribasso le stime aggiornandole a una flessione tra il 2 e il 4%. La situazione si è avvitata a gran velocità con i controlli dei capitali: le aziende possono pagare direttamente i loro fornitori esteri solo fino a un tetto massimo di 50mila euro (appena alzato a 100mila). Per le operazioni oltre a questa cifra serve l’autorizzazione del ministero delle Finanze. Far funzionare il business dentro questi rigidissimi paletti è quasi impossibile: dei 3,5 miliardi di importazioni al mese necessari per tenere in vita la Grecia Spa, solo 500 milioni sono disponibili oggi senza l’ok del governo. Accedere agli altri 3 miliardi è un terno al lotto visto che lo Stato ne ha sbloccati in un mese solo 1,5. Le importazioni, per l’associazione delle imprese elleniche, sono crollate del 50% a giugno. La metà delle aziende nazionali ha lasciato a casa a luglio parte del personale per la mancanza di materie prime da lavorare, quasi tutte stanno tentando disperatamente di aprire conti correnti all’estero per aggirare la stretta alla liquidità. E un quarto di loro, secondo un drammatico studio appena pubblicato dalla Endeavor, si è arresa e sta pensando di emigrare trasferendo il quartier generale oltrefrontiera. I guai dei vignaioli del Nord e delle bestie dell’Attika Park di Atene sono solo la punta dell’iceberg e il crollo della Borsa e dell’indice manifatturiero annunciati ieri rischiano di essere solo l’anticamera di un disastro annunciato se non si libererà rapidamente il paese dai lacciuoli dei controlli di capitale che rischiano di costare secondo l’Ufficio pubblico di bilancio fino a 1,75 miliardi di Pil alla settimana. L’unica nota positiva per l’economia della Grecia è la tenuta, almeno finora, del turismo, voce che vale da sola il 16% del Pil del paese. Tra gennaio e maggio gli arrivi sono cresciuti del 27% con entrate dirette di 2,2 miliardi. Una goccia nell’oceano dei guai ellenici: «Il rischio di Grexit esiste ancora - ha detto ieri il vicepremier Yannis Dragasakis -. Appena firmata l’intesa con i 8 creditori e sbloccati gli 86 miliardi di aiuti potremo togliere i controlli ai capitali e ripartire». I cittadini ellenici (e il formichiere dello zoo di Atene) si augurano abbia davvero ragione. Del 4/08/2015, pag. 15 L’ascesa di Corbyn il rosso Se il Labour diventa una Syriza in salsa british Il plauso di Boris Il sindaco di Londra Boris Johnson: «E’ uomo di principi e di passioni» LONDRA Che sul laburismo britannico spiri il vento di Syriza o di Podemos è stato Tony Blair a capirlo per primo. Il vecchio e contestato premier finge da anni di essere fuori dalle beghe del partito ma quando c’è di mezzo un passaggio delicato, come è la scelta del nuovo leader dopo il crollo del timido Ed Miliband, non è il tipo che si lascia trascinare nella contesa. Si butta a capofitto. E allora, a metà luglio, quando i giochi sembravano volgere verso una disputa fra candidati blairiani di stretta fede centrista (la moderata Liz Kendall) e candidati un po’ meno blairiani ma non di esagerata deriva a sinistra (Andy Burnham e Yvette Cooper), Tony Blair, parlando ai militanti laburisti, ha sparato a zero contro l’outsider che è Jeremy Corbyn: «Se il vostro cuore è con Corbyn allora fatevi il trapianto». Raffinato politico, aveva già intuito che la storia del centrosinistra britannico è a un punto di svolta. Il guaio per Tony Blair è che ogni volta che parla, nonostante il fascino non smarrito, i laburisti pronti a marciare in direzione opposta aumentano. E da luglio Jeremy Corbyn ha cominciato a sbancare fra i 400 mila iscritti che sceglieranno chi sarà la guida del partito nei prossimi cinque anni. Al punto che i sondaggi interni danno il sessantaseienne di Chippenham, ex sindacalista nel settore pubblico, favoritissimo nella corsa. Che sia un modo per allarmare gli incerti o che sia un modo di esorcizzare il pericolo rosso, la realtà è che nel lessico inglese sono entrati due termini di ultimo conio: «corbynmania» (copyright del Financial Times ) e «corbynisti» (copyright dell’ Observer ) che derivano da «corbynismo», la versione britannica di Syriza e Podemos. Il laburismo è a rischio di una inaspettata mutazione. Jeremy Corbyn non è un violento parolaio. Ha modi soft, è garbato. Non è neppure un pupazzo costruito dalle televisioni. Ha una storia immacolata, che gli riconoscono persino i tory, ed è una storia di militanza al servizio della causa. Soprattutto è uno che va controcorrente. Non ha paura a definire amici i palestinesi di Hamas. È deputato da 32 anni, sempre eletto nella circoscrizione di Islington Nord, e dal 1997, da quando il laburismo ha sterzato al centro, ha votato 500 volte ai Comuni contro le indicazioni del partito. Poi è un repubblicano a carati pieni. Guai a parlargli della regina. Un eretico. Ma rispettato. Con un tale pedigree politico sarebbe scontato appiccicargli l’etichetta di ultimo rudere del sinistrismo radicale e schematico, così schematico da portarlo a dividersi dalla moglie perché lei voleva iscrivere i tre figli alle «grammar school», le scuole più selettive del Regno. Questi «vizi» di origine non li ha di certo cancellati. Ma li ha corretti. Prima con la tranquilla coerenza che ha sempre sfoggiato. Poi, da ultimo, sposando nuove tensioni sociali: il movimentismo ecologista e l’associazionismo del volontariato. E ne è nato, spontaneo, un laburismo simile ma non uguale a fenomeni come Syriza o come Podemos. Con una carica di populismo gentile, il «corbynismo», che specie i giovani 9 sottoscrivono. Il quotidiano conservatore Daily Telegraph ha riconosciuto: «È ben sintonizzato con le nuove generazioni». Entrato senza favori nella competizione per la leadership sta mietendo successi con un programma che fa accapponare la pelle ai centristi: la rinazionalizzazione delle ferrovie e delle Poste (la Royal Mail), l’uscita dalla Nato, più tasse per i ricchi, più spesa pubblica, camera dei Lord elettiva, scetticismo europeo. Il bagaglio è pesantissimo però condiviso da molti laburisti. Tony Blair e i suoi sono fuori dalla grazia di Dio. I moderati in fibrillazione. Ormai ci sono due partiti laburisti incompatibili, tenuti assieme unicamente dalle convenienze elettorali: Syriza o Podemos con bandiera britannica e gli eredi del New Labour blairiano che cercano di scongiurare la mutazione. Jeremy Corbyn non è un fantasma, è un candidato forte. Lo apprezza il popolarissimo sito internet per mamme Mumsnet : «È un uomo sexy». E lo apprezza il sindaco di Londra, Boris Johnson, tory: «Corbyn emerge in un campo pieno di oscillanti opportunisti. È uomo di principi e di passioni». Vinca o non vinca, onore delle armi . Del 4/08/2015, pag. 14 L’inchiesta. Era il primo del club dei “Brics”, i paesi emergenti Poi il ciclo economico si è invertito: meno investimenti dall’estero, export di petrolio in calo. E una classe dirigente rapace ha preso il sopravvento La fine del modello Brasile così scandali e recessione hanno fermato la corsa FEDERICO RAMPINI UN LIVELLO di popolarità dell’8% è il nuovo record mondiale tra le democrazie. È il governo di Dilma Rousseff a detenere questo trofeo negativo. Checché ne dica lei, sono davvero un numero esiguo i suoi concittadini che la giudicano all’altezza. Se l’ordine regna (talvolta) in Brasile, secondo Amnesty International il prezzo è intollerabile: 1.500 morti solo a Rio de Janeiro negli ultimi 5 anni, per i metodi violenti della polizia militare. Come sembra lontana quella “bonifica virtuosa” delle favelas (le baraccopoli di Rio) che fece notizia ai tempi di Luis Inacio Lula da Silva, il predecessore della Rousseff. Ancora quattro anni fa, e con Lula già in pensione, The Economist alla vigilia del viaggio di Obama in Brasile additò il paese come un modello per il Sud del pianeta, esaltando le ingegnose politiche della sua socialdemocrazia, a cominciare dalla “bolsa familia”, un sistema di sussidi alle madri per mantenere a scuola i ragazzi e debellare il lavoro minorile. Oggi, invece, sembra che dal Brasile arrivino solo notizie negative. Quando una delle più grandi banche mondiali, la Hsbc anglo- cinese, decide di disfarsi della sua filiale di San Paolo, il magazine americano di economia Forbes commenta lapidario: «Se una multinazionale vuole rendere felici i suoi azionisti deve abbandonare il Brasile». Tutto gira storto, mentre si avvicina l’anno delle Olimpiadi: 2016, sarà la prima volta per un paese sudamericano, ma anche le grandi opere per i Giochi sono state un susseguirsi di scandali, proteste, indagini per tangenti. Imputare tutto il bene del passato a Lula e tutto il male alla Rousseff sarebbe ingiusto e soprattutto inesatto. Le accuse di corruzione lambiscono l’entourage di ambedue i presidenti, le loro storie sono inseparabili. Compagni di partito, carriere intrecciate: Dilma fu a lungo braccio destro di Lula. Fu lui a proiettarla verso la sua successione. Il declino 10 del Partito dei Lavoratori li coinvolge alla pari. Ieri è stato arrestato l’ex ministro Jose Dirceu, che fu capo gabinetto di Lula. L’indagine che lo riguarda si riferisce a fatti accaduti dal 2003 al 2005. Ma altre inchieste per corruzione si estendono alla campagna elettorale della Rousseff nel 2014, riguardano i finanziamenti illeciti erogati da Petrobras per la sua rielezione. Dietro la decadenza del modello brasiliano c’è anzitutto la fine di un ciclo economico. È lontana l’epoca in cui il Brasile poteva vantarsi di essere la lettera iniziale del club dei Brics (con Russia, India, Cina e Sudafrica), nonché una delle più dinamiche economie emergenti. Ora la sua moneta, il real, è ai minimi da 12 anni sul dollaro. La banca centrale ha dovuto aumentare per sei volte consecutive i tassi d’interesse, fino al 14,25%, nel tentativo di domare l’inflazione. Quest’anno si prevede una secca recessione, col Pil in calo del 2,5%, dopo un anno di crescita zero. Solo la Russia va peggio, nel club malconcio dei Brics. Per capire come si è spezzato il sogno brasiliano bisogna guardare lontano. Verso le due economie più grandi del mondo: Stati Uniti e Cina. La politica monetaria americana, con il “quantitative easing”, per cinque anni aveva generato una liquidità immensa: 4.500 miliardi di dollari stampati dalla Federal Reserve per acquistare bond, far circolare credito, rilanciare la crescita. Una parte di quei capitali sono straripati, esondati, dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Ne hanno beneficiato paesi emergenti come il Brasile, destinazione privilegiata di investimenti esteri. Ma la Fed, avendo raggiunto il suo obiettivo, ha cessato di stampar moneta. L’alta marea si ritira. I capitali abbandonano i paesi emergenti dove avevano alimentato speculazione e inflazione. In quanto alla Cina, il miracolo brasiliano deve molto al suo traino. Una battuta circolava ai vertici del governo Lula negli anni d’oro della crescita: «Fortuna che i cinesi imparano a mangiare anche il dessert». Una serie di cambiamenti portati dal benessere nella dieta ancestrale dei cinesi — la scoperta del caffè, del cioccolato, del gelato — si rivelarono una manna dal cielo per l’agricoltura brasiliana, una delle più produttive del mondo. Dalla soya allo zucchero, l’export di derrate agro-alimentari generò un ciclo positivo dell’economia brasiliana interdipendente con quello della Cina. Idem per le vendite di minerali, o di petrolio: più andava forte la crescita cinese più trascinava quella brasiliana. È vero che il Brasile ha saputo costruirsi un’economia differenziata e quindi più solida di altre nazioni emergenti. Ha una robusta industria manifatturiera, con fiori all’occhiello come Embraer, terzo produttore aeronautico mondiale dietro Airbus e Boeing. Non è un paese da mono-cultura, né uno “Stato estrattivo” come la Russia o l’Arabia saudita. E tuttavia quando viene meno un motore come la Cina, la cui crescita è in serio rallentamento, le altre componenti dell’economia brasiliana non ce la fanno a compensare quel vuoto. È significativo che gli ultimi scandali di corruzione ruotino spesso attorno a Petrobras. Questo ente petrolifero di Stato avrebbe potuto rappresentare il futuro del Brasile, dopo le scoperte di immensi giacimenti offshore. Ma da un anno è crollato il prezzo del petrolio, vanificando tanti progetti. E la rendita accumulata con Petrobras, anziché finanziare un futuro diverso, è stata dissipata o sequestrata da un ceto politico rapace. Come in molte altre nazioni emergenti, e non solo quelle, forse l’ordine delle priorità andrebbe modificato: costruire uno Stato di diritto e un’etica civile conta ancor più delle percentuali di aumento del Pil. Del 4/08/2015, pag. 30 A settant’anni dal giorno in cui l’atomica cancellò Hiroshima dalla faccia della Terra, il Paese vive il suo paradosso più radicale: celebra l’anniversario diviso tra voglia di riarmo e ripresa nucleare Ma i 11 superstiti non ci stanno: “Non vogliamo essere ridotti a testimoni di un rito ipocrita” I fantasmi del Giappone DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO VISETTI HIROSHIMA «UN GIORNO all’anno il mondo dissotterra i fantasmi di Hiroshima e di Nagasaki. Siamo alla settantesima volta. Questo rito sempre più stanco è invecchiato con me, colpevole di essere sopravvissuta e per questo senza il diritto di essere felice. Se guardo il Giappone di oggi devo ammettere che non è servito». Sueko Hada aveva otto anni quando “Little Boy” è esplosa in cielo 600 metri sopra la sua casa, uccidendo 140 mila persone. Ha perso i genitori e tre sorelle: schiacciata tra un muro e una colonna, si è salvata ed è rimasta sola. È una tra gli ultimi 60 mila hibakusha , i “colpiti”, invitati all’anniversario del 6 agosto nel Parco della Pace di Hiroshima, come statuine di un presepio vivente. «Ma io sono voluta venire prima — dice davanti allo scheletro della Cupola della vecchia camera di commercio — per non sentire i soliti discorsi sulla pace. Siamo transitati da un secolo all’altro, non riconosco nemmeno il luogo in cui ero nata. Da settant’anni tutti dicono “mai più”, ma agiscono per “un’altra volta”. Non voglio essere ridotta a testimone di una storica ipocrisia». Il pericolo c’è e oggi nessuno, come chi è stato risparmiato dalle atomiche sganciate casualmente su Hiroshima e su Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945, lo percepisce. La pace e il disarmo sono diventati temi così retorici e rituali, la finzione collettiva del dolore tanto oscena, che le vittime della guerra e dei suoi ordigni esplosivi non vogliono più sentirne parlare. Hanno la sensazione di essere feticci nelle mani dei politici e dei media, usati per dare una spazzolata di stagione alla coscienza, mentre l’orrore di “Enola Gay” e di “Bockscar” non spaventa più nessuno, i ricordi degli hibakusha sono ascoltati con noia e il pianeta non è mai stato così gonfio di conflitti e di armi nucleari. A settant’anni dai due bagliori dei B-29 che cancellarono due città e posero fine alla Seconda guerra mondiale, sulle commemorazioni giapponesi incombe però uno spettro ancora più sinistro. È quello del revisionismo, incoraggiato del governo nazionalista del premier Shinzo Abe. «Siamo stati distrutti — dice lo studente Tomohiko Okuda uscendo dal Museo della pace — e il mondo vorrebbe pure negarci per sempre il diritto di difenderci. Ma anche la sconfitta ha una scadenza». Tra le migliaia di “turisti della bomba” il sentimento della rivincita è prevalente. Si fotografano sorridenti davanti a monumenti e reliquie raccapriccianti, sfilano in battello tra i memoriali dell’A-Bomb e l’urna che conserva le ceneri di una popolazione, acquistano portachiavi “Fat Man”, timbri e finti pezzi di macerie, terminando il tour rafforzati nell’ossessione dell’ingiustizia patita. Tutto, a parte i sopravvissuti esasperati dal ruolo che li si costringe a replicare fino alla morte, è pensato del resto per imprimere nel visitatore il convincimento che le due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti siano state atrocità piovute dal nulla, estranee alla guerra che le ha precedute, alle invasioni, alle stragi e ai crimini commessi in Asia dal Giappone imperiale alleato della Germania nazista. Dopo settant’anni a Hiroshima e a Nagasaki, città-reliquia ricostruite per cancellare la responsabilità nazionale esibendo le colpe internazionali, non una foto, un documento, chiariscono il contesto dell’orrore di cui i giapponesi rimasero infine vittime. «Non è compito nostro — dice il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui — ricostruire la storia del Novecento e stabilire le percentuali della follia. Qui dobbiamo spiegare ciò che realmente accadde a partire dalle 8.15 del 6 agosto 1945, il “dopo” non ancora concluso. Il problema non è chi debba chiedere scusa a chi: è che i leader di oggi devono astenersi da azioni che suscitano diffidenza reciproca e fare qualcosa di concreto per rendere impossibile il 12 lancio di terza bomba al plutonio ». È il punto che toglie a questo settantesimo il velo irritante del finto pietismo sull’”inverno atomico”, rendendo decisivo l’anniversario. Non si può dire che vigilia e prospettiva siano incoraggianti. Shinzo Abe sta per far approvare l’abrogazione della Costituzione pacifista del 1946, investendo quanto mai prima nelle nuove «forze di autodifesa». Il Giappone subisce quella che il premier chiama «normalizzazione delle condizione militare nazionale», vissuta con un misto tra timore e vergogna. Il 10 agosto, a celebrazioni anti-atomiche concluse, il governo riaccenderà a Sendai il primo reattore nucleare, sui 53 chiusi nel 2011 dopo la fuga radioattiva a Fukushima.La corsa al riarmo e la ripresa atomica di Tokyo soffocano il ricordo pacifista e anti-atomico di Hiroshima e Nagasaki, spaccano in due il Paese, ma legittimano anche la domanda che agita il resto del mondo: quale Giappone prevarrà? «Il 15 agosto — dice Kazushi Kaneko, rappresentante dei sopravvissuti al colonnello Tibbets — ricorre l’anniversario della resa. Abe ha anticipato una dichiarazione storica: se avrà il coraggio di farla può essere il segnale destinato a cambiare le relazioni tra super-potenze, il congedo dall’era delle armi nucleari». Cina e Corea del Sud aspettano le scuse per massacri e invasioni, i nostalgici della destra di governo le scoraggiano, gli Stati Uniti preferiscono che la storia non venga chiarita troppo e che Tokyo sia piuttosto nelle condizioni di frenare da sola l’ascesa di Pechino. Commuoversi nei cimiteri- icona delle guerre è la prova di un residuo di umanità, ma il caso- Giappone dopo settant’anni conferma che la questioneHiro- shima è tutt’altro che risolta. L’imperatore Hirohito, grazie agli interessi Usa, non è stato mai processato, suo figlio Akihito continua a rappresentare l’unità nazionale e il leader nipponici onorano annualmente anche i 2,5 milioni di caduti dell’era Showa, sepolti nel tempio di Yasukuni assieme a 1068 criminali di guerra. La Cina, sfruttando amnesie e mancate assunzioni di responsabilità, il 3 settembre per la prima volta risponderà così celebrando non la fine della Seconda guerra mondiale, ma la «vittoria sull’invasore giapponese». Xi Jinping ha proclamato la data «festa nazionale», ha organizzato la sua prima parata militare in piazza Tiananmen e ha invitato tutti gli imbarazzati leader mondiali, compreso Shinzo Abe. «È la provocazione di un arrogante — dice Sathosi Yahagi, curatore del libro- appello No nukes Hiroshima- Nagasaki-Fukushima , firmato con 50 personalità giapponesi — non si può umiliare un popolo costringendolo dopo decenni a festeggiare la propria distruzione. Nemmeno Angela Merkel ha potuto partecipare alle celebrazioni di Putin a Mosca. Ma la realtà è che l’onestà storica di Tokyo non corrisponde a quella di Berlino e che un premier come Abe, finora estraneo ad azioni di riconciliazione, non potrebbe comunque presentarsi alla Cina». Mostre d’arte e concerti dirottano sui «luoghi dell’orrore» oltre due milioni di turisti, sedotti più dall’adrenalina delle polemiche che dal sedativo della memoria. A Hiroshima si attendono anche i ministri degli Esteri del G7 nipponico, il prossimo aprile, e molti sperano in una visita a sorpresa del presidente americano Barack Obama, prima della fine del mandato. L’agenzia della casa imperiale del Crisantemo ha diffuso per la prima volta la versione originale della controversa e incomprensibile resa radiofonica di Hirohito, definita «trasmissione della voce gioiello». Mezzo Giappone la interpreta come un tacito invito a guardare all’agosto 1945 con «spirito di verità ». L’altra metà sottolinea come il Tenno «la parola resa non l’ha mai pronunciata». «In fondo al cuore — dice l’ hibakusha Suzuko Numata sotto l’albero di ginkgo cresciuto sul luogo su cui sorgeva la sua casa, dietro l’ex ospedale Shima — il Giappone non ha mai smesso di combattere e non si è mai arreso alle condizioni di Potsdam. È a questa voglia di rivincita che il bellicoso neo-nazionalismo filo-atomico deve il suo successo: il nostro ultimo oltraggio, la nostra vera sconfitta». Hiroshima e Nagasaki dopo 70 anni restano condannate all’immagine di città della pace: mai come oggi però le loro vittime tradite sono costrette a respirare quel tanfo ustionante e offensivo di altre, interminabili guerre. 13 del 04/08/15, pag. 6 Un’Unione solo di carta e metallo Euro, l'ultima mitologia. Eppure queste monete ci parlano ancora e dunque, forse, per uscire, sul piano profondo, da questa crisi identitaria che rischia di travolgere le radici dalle quali doveva nascere l’albero nuovo delle cittadinanza europea, andrebbe ripensata la grafica dell’Euro, ripristinando i volti ed i simboli della comune avventura che concepirono i nostri visionari Padri Fondatori. Raffaele K. Salinari Che ruolo ha l’Euro — come moneta di metallo e di carta — nella crisi attuale dell’Unione Europea? Che significato riveste oggi per l’identità europea questa valuta che accomuna l’economia di ben 19 dei 28 Paesi comunitari? Per rispondere bisogna partire dall’originale significato di una moneta quando ancora esistevano le monete nazionali. Sin dai tempi antichi il conio di una moneta aveva alta valenza simbolica, sacro addirittura, prima che economica. Una moneta trasmetteva prima di tutto un significato legato all’auctoritas di chi la batteva, di chi, per la possibilità stessa di coniarla, trasponeva nella moneta la legittimità del suo potere temporale che, però, derivava direttamente da quello spirituale. Nel corso del tempo assistiamo ad una progressiva perdita dell’originale significato, con la conseguente trasformazione della moneta in semplice oggetto quantitativo, che abbandona via via tutti i significati e le ascendenze simboliche per trasformarsi in un puro strumento mercantilista, senza più trasmettere una idea forte, un significato profondo, ideale. Una facile osservazione a riguardo di questa degenerazione, che ha nell’Euro la sua forma attualmente più avanzata, può essere fatta osservando le monete antiche. Così possiamo vedere come presso i Celti i simboli raffigurati sulle monete metalliche trovano spiegazione solo se si conosce la simbologia druidica, il che implica un intervento di tipo magico di altissimo livello. In tempi meno remoti invece, ad esempio quelli dell’antico impero romano, non solo troviamo l’effige dell’imperatore, notoriamente figura semidivina, ma anche una serie di motti che, per così dire, sintetizzano una visione politica: la moneta come epitome di una visione del mondo. Questa modalità va avanti sino al Medio Evo e si spinge nel Nuovo Mondo sino all’attuale configurazione del dollaro statunitense, sul quale i simbolismi di tipo massonico, la piramide tronca con l’occhio onniveggente, si affiancano al motto stesso degli Stati Uniti: E pluiribus Unum, da molteplice all’uno, sintesi dell’unità nella diversità, mentre su tutti campeggia la fede nella missione trascendentale, nel destino stesso degli Usa: In God We Trust, crediamo in Dio; in altre parole, questa moneta è un veicolo della Sua volontà. Anche l’Europa pre-Euro aveva la stessa tipologia di moneta: come dimenticare la Lira post bellica con l’effige della Repubblica, splendida donna col capo cinto di spighe di grano, un richiamo a Cerere ed alla centralità della vita contadina, o il forgiatore che batteva sull’incudine delle cinquanta Lire nella sua posa da atleta greco, omaggio alla nuova civiltà del lavoro? E la cornucopia portafortuna sulla moneta da una Lira, speculare al timone di una barca a remi? O, ancora, le varie monete cartacee con i volti delle figure più rappresentative della storia italica, e non solo italiana, da Dante a Volta, da Caravaggio a Verdi? Nelle altre nazioni europee la vicenda è simile e non vi è necessità di dilungarsi. Tutto questo per dire che la moneta racchiude, se pur in modo oramai residuale — ma non 14 scordiamo che i simboli agiscono su di noi e sulla nostra percezione del mondo anche quando di essi non siamo consapevoli — una valenza non solo quantitativa bensì anche qualitativa, cioè la capacità di veicolare e rappresentare una idea e dei valori non solo nel senso mercantile che oggi ha completamente contaminato questo termine, ma di livello spirituale. Ed eccoci allora all’Euro: nessun motto, nessuna effige di personaggi che possano essere rappresentanti di un passato che parla della visione di un domani comune, nessun monumento che amalgami le culture europee; solo ponti che finiscono nel nulla, archi metafisici che si stemperano nella nebbia, vetrate mute, portici inabitati. Permane un accenno ad un programma non certo ideale quanto ideologico, attraverso quella cartina muta che vede l’Europa estendersi dall’Atlantico agli Urali, escludendo beninteso la Turchia e le sponda Sud del Mediterraneo! Solo nelle monete– ancora loro! — troviamo imbalsamato un significato simbolico residuale, esattamente lo specchio del destino attuale di una Unione sempre più di facciata, e di carta, e sempre meno di sostanza, come le sue oramai svalutatissime monete sulle quali si ostinano a campeggiare ancora i vecchi miti fondatori: il ratto d’Europa, l’Aquila Germanica, l’Uomo Vitruviano; tutte però legate ad una singola nazione e non ad un progetto comune. Eppure queste monete ci parlano ancora e dunque, forse, per uscire, sul piano profondo, da questa crisi identitaria che rischia di travolgere le radici dalle quali doveva nascere l’albero nuovo delle cittadinanza europea, andrebbe ripensata la grafica dell’Euro, ripristinando i volti ed i simboli della comune avventura che concepirono i nostri visionari Padri Fondatori. del 04/08/15, pag. 7 «Sono stati torturati e giustiziati» Città del Messico. Manifestazioni in tutto il paese contro l'omicidio del giornalista e di quattro donne. Tre erano attiviste, una lavorava in una maquiladora. Migliaia i cadaveri e le persone scomparse sotto la presidenza Nieto Geraldina Colotti Che il Messico sia un paese ad altissimo rischio per chi denuncia o combatte il narco-stato che lo governa, è documentato dal numero dei morti e degli scomparsi: secondo cifre ufficiali, circa 25.700 persone risultano desaparecidas negli ultimi anni, in maggioranza durante l’amministrazione del presidente neoliberista Enrique Peña Nieto, iniziata nel 2012. Il brutale assassinio del fotoreporter Rubén Espinosa Becerril e di quattro donne che si trovavano con lui a Città del Messico sta però scuotendo il paese. I cinque sono stati torturati e infine uccisi con un colpo alla testa. I corpi delle donne – attiviste e una domestica diciottenne – presentavano anche segni di violenza sessuale. Al grido di “Adesso basta impunità” si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il paese. Attivisti e giornalisti sfilano con l’immagine del collega ucciso sovrapponendola al proprio viso. Dal 2000 a oggi sono stati assassinati 88 giornalisti. Con l’uccisione di Espinosa sale a 13 il numero di giornalisti eliminati nello stato di Veracruz – uno dei più pericolosi del paese -, governato da Javier Duarte. E tre risultano scomparsi. Il 2 luglio è stato scoperto il corpo di Juan Mendoza Delgado, direttore e fondatore del sito web di notizie da Veracruz, Escribiendo la Verdad. A Xalapa, 15 nello stato di Veracruz, il fotoreporter aveva lavorato per 8 anni, soprattutto per la rivista Proceso, in prima fila nel sostegno alle proteste sociali e sede di inchieste scomode per il potere. Lo stato di Veracruz sintetizza la crisi che attanaglia il paese, resa drammaticamente visibile dal problema dell’insicurezza. A Veracruz imperversa la lotta dei cartelli per il controllo delle vie del narcotraffico e quella per il controllo del traffico dei migranti. Le aggressioni ai giornalisti sono quotidiane. Anche il giornale El Heraldo de Córdoba è stato attaccato con bombe incendiarie. Per la sua attività, Espinosa aveva ricevuto ripetute minacce e si era rifugiato nella capitale, Città del Messico. Sabato, poiché risultava irreperibile, il gruppo di difesa della libertà di espressione Articolo 19 aveva chiesto alle autorità messicane di attivare il protocollo per localizzarlo. E così si è scoperto il corpo e quello delle altre quattro vittime nel Narvarte, un quartiere di classe media della capitale. Espinosa aveva iniziato a lavorare come fotografo di Javier Duarte quando questi era candidato a governatore del Veracruz. In seguito aveva però smesso di lavorare per le istituzioni pubbliche, rendendo sempre più visibile il suo impegno nella denuncia della violenza di stato contro i giornalisti. Scelse di documentare l’attività dei movimenti sociali. Nel novembre del 2012, mentre seguiva le proteste degli studenti contro il governatore Duarte per l’omicidio di un’altra corrispondente della rivista Proceso nel Veracruz, Regina Martinez, gli venne impedito di scattare le foto del pestaggio a uno studente da parte della polizia. Una persona gli si avvicinò e gli disse “Smetti di scattare foto sennò finisci come Regina”. Ruben però non smise di partecipare alle manifestazioni e di documentarle. Il 14 settembre del 2013, mentre fotografava il violento sgombero a un presidio di maestri e studenti universitari, a Xalapa, venne brutalmente aggredito insieme ad altri giornalisti, e gli fu sequestrato il materiale. Presentò numerose denunce, ma intanto era diventato sempre più scomodo per il governatore Duarte, che arrivò a comprare tutte le copie della rivista Proceso per una copertina di Espinosa, a lui sgradita. Nel giugno scorso, alla vigilia delle elezioni, documentò l’aggressione subita da otto studenti che furono aggrediti da un gruppo di incappucciati, probabilmente legati alla Sicurezza pubblica. Da allora cominciò ad accorgersi di essere seguito e il 9 giugno, dopo aver nuovamente denunciato la persecuzione di cui era vittima, fuggì nella capitale. Inutilmente. Intanto, in una delle 60 fosse comuni clandestine, rinvenute nel comune di Iguala, sono stati scoperti i cadaveri di 20 donne e 109 uomini. A Iguala, il 26 settembre dell’anno scorso, sono scomparsi i 43 studenti normalistas, a seguito di una feroce aggressione congiunta di polizia locale e narcotrafficanti. La loro ricerca, che continua grazie alla costante mobilitazione di famigliari e organizzazioni popolari, ha riportato all’attenzione del mondo l’entità del fenomeno delle scomparse, la responsabilità e le inadempienze del sistema politico che stritola il paese. Secondo le autorità del Guerrero (lo stato dove si trova Iguala), i cadaveri rinvenuti non sono quelli degli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa. Attivisti e famigliari dei normalistas continuano però a denunciare pressioni e intimidazioni da parte delle autorità, e chiedono che si cerchi nelle caserme militari, ove – secondo testimonianze — esistono prigioni clandestine e luoghi di tortura. Secondo Felipe de la Cruz, portavoce del comitato dei famigliari dei 43, le autorità messicane hanno offerto un risarcimento di oltre un milione di pesos (62 milioni di dollari) affinché cessino le ricerche. La proposta è però stata rispedita al mittente: “La vita dei nostri figli non ha prezzo”, hanno risposto i famigliari. E le manifestazioni continuano. Contro le privatizzazioni di Nieto, che 16 sta svendendo il paese alle grandi multinazionali si stanno mobilitando tutte le categorie. In prima fila, studenti e professori, vittime dei piani neoliberisti sulla scuola pubblica. In marcia anche infermieri, lavoratori e pensionati dell’Instituto Mexicano del Seguro Social. Pur sommerso dagli scandali che lo chiamano in causa anche a livello personale, Pena Nieto – ben sostenuto dai suoi padrini nordamericani – resta però aggrappato al potere. 17 INTERNI del 04/08/15, pag. 8 La riforma costituzionale. Renziani e minoranza del Pd ai ferri corti, accordo lontano - Il premier pronto a poche modifiche, poi sfiderà l’Aula Nuovo Senato, battaglia sull’articolo 2 Finocchiaro verso lo scontro con Grasso: sulla non elettività non si torna indietro ROMA Poche modifiche, ma solo se questo servirà a far rientrare almeno in buona parte il dissenso dei 25 senatori dem che hanno chiesto di reintrodurre l’elettività del nuovo Senato. Altrimenti si andrà alla sfida nell’Aula, e si vedrà chi vorrà tornare alle elezioni. L’alzarsi dei toni interni al Pd non fa cambiare idea a Matteo Renzi, che anche dal Giappone fa recapitare il suo messaggio: il cuore della riforma costituzionale è proprio l’abolizione del Senato eletto direttamente dai cittadini, con tanto di senatori a tempo pieno e con indennità propria. Su questo non si torna indietro. Si può trovare una forma di collegamento diretto tra cittadini e futuri senatori (ad esempio i futuri senatori potrebbero essere scelti tramite un listino ad hoc all’interno delle liste per l’elezione dei consigli regionali), e si può inserire questo principio in costituzione e non solo tramite la legge ordinaria che regolerà l’elezione indiretta del futuro Senato. Ma comunque deve restare formalmente l’elezione indiretta e la conseguente cancellazione dell’indennità per i senatori, che prenderanno solo lo stipendio da consiglieri regionali. Un punto imprescindibile per Renzi, che vuole presentare la riforma ai cittadini - al momento del referendum confermativo che si terrà nell’estate o nell’autunno del 2016 - anche come un passo avanti nella riduzione dei costi della politica. La scelta di rimandare a settembre il voto sulla riforma del Senato e del Titolo V per aspettare che stemperassero i toni e trovare così un accordo con la minoranza del Pd non sembra dunque aver dato buoni frutti. I due “partiti” che ormai compongono il Pd si fronteggiano con sempre più aggressività, e dopo un week end passato a parlare e commentare la «guerriglia» e il «Vietnam» minacciati dalla minoranza in Senato, è il leader di Area riformista Roberto Speranza a rilanciare: «Nel Pd le riforme le vogliono tutti e siamo tutti convinti che bisogna andare avanti. Ma gli aut aut sono irricevibili, non si può dire: o questa riforma o si consegna il Paese a Grillo - dice il giovane bersaniano, dimessosi a maggio da capogruppo alla Camera per non votare l’Italicum e la fiducia sull’Italicum -. Vietnam è una parola sbagliata che non dovrebbe avere nulla a che fare con la nostra discussione politica. Nessun Vietnam, ma neanche ordini dall’alto calati punto e basta. Renzi ha detto che politica e magistratura sono ambiti diversi. Bene, anche governo e Parlamento ambiti diversi. Se il Parlamento non è il passacarte della magistratura non deve esserlo neanche per il governo». Un dialogo tra sordi, insomma. Nel quale si inserisce anche la “copertura” data alla minoranza del Pd dal presidente del Senato Pietro Grasso quando durante la cerimonia del ventaglio svoltasi la scorsa settimana, quando ha fatto intendere che l’articolo 2 che riguarda la composizione e il modo di elezione del nuovo senato può essere modificato anche se approvato in copia pressoché conforme sia dal Senato che dalla Camera. Il governo e la maggioranza del Pd interpretano la questione come da regolamento e prassi parlamentare: l’articolo 2, essendo già stato approvato nella sua essenzialità dai due rami 18 del Parlamento, non può più essere toccato. E su questa linea è anche la presidente della Affari costituzionali Anna Finocchiaro, che giovedì tirerà le fila della discussione svoltasi finora in commissione (venerdì alle 13 scade il termine per la presentazione degli emendamenti, che saranno discussi e votati alla ripresa di settembre) con una posizione contraria a quella del presidente Grasso: sulla non elettività del Senato, è il convincimento di Finocchiaro, si sono già espresse le due Camere e ora non si può ricominciare da capo. Tradotto: gli emendamento sull’articolo 2 che presenterà la minoranza del Pd saranno dichiarati inammissibili. Con la conseguenza che alla ripresa di settembre, oltre allo scontro all’interno del Pd, potremmo assistere anche a uno scontro istituzionale tra presidenza del Senato e prima commissione. Emilia Patta Del 4/08/2015, pag. 1-29 IL PUNTO La pentola a pressione DUE FATTI nelle ultime ore, diversi fra loro eppure legati da un filo sottile. Da un lato il ministro Orlando che a sorpresa apre all’abolizione dell’immunità parlamentare. STEFANO FOLLI DALL’ALTRO il ventaglio dei nuovi nomi per il governo della Rai, che arrivano senza la riforma promessa e fin qui non realizzata. Il primo testimonia di un governo che insegue l’opinione pubblica cercando di richiamare gli indifferenti e di chiudere i varchi a grillini e leghisti. Il secondo, la Rai, ha un sapore ambiguo. Ci ricorda che la priorità, ancora una volta, è il controllo politico dell’azienda più che la sua efficienza. Ma così si resta prigionieri di un passato che non passa e l’impronta riformatrice della nuova fase viene annacquata. Non solo: sullo sfondo si avverte in Parlamento un disagio che cresce senza che se ne intuiscano gli sbocchi. Un disagio che forse non tocca le nomine Rai per la semplice ragione che sono state fatte con la bilancia, in modo da non scontentare i diversi segmenti partitici. Vecchi e nuovi. Tutto come ai tempi della fatidica Prima Repubblica? Non proprio. A parte il fatto che la Rai degli anni d’oro produceva cultura e una visione del paese, è vero che il mondo di ieri possedeva gli anticorpi. Quando il malessere politico superava la soglia di guardia, si apriva la valvola di sicurezza: una crisi di governo volta a rimescolare i rapporti di forza e a saldare qualche conto. Ma erano, appunto, altri tempi. Quasi sempre le crisi nascevano da fratture fra le correnti del partito di maggioranza, la Dc. E di rado erano distruttive, il più delle volte si ricomponevano con qualche scambio di poltrone. Soprattutto d’estate, quando si invocava il “generale agosto” come calmiere delle tensioni. Se fossimo ancora nella Prima Repubblica probabilmente avremmo già avuto una piccola crisi a seguito della guerra fredda all’interno del Pd. Dimissioni del premier, inevitabile reincarico, ridistribuzione del potere nel governo e dintorni. Poi tutti in vacanza. In fondo, anche oggi il problema nasce dentro il partito di maggioranza, causato da una corrente organizzata che si sente schiacciata dal leaderismo renziano e vuol far pesare i suoi voti decisivi al Senato. La differenza è che oggi le crisi medio-piccole, quelle che una volta servivano a riaggiustare i cocci, non sono più possibili. I fermenti politici non trovano sfogo e si acuiscono come vapori dentro una pentola a pressione. Il governo resta formalmente in carica, ma il premier viene sfiancato giorno dopo giorno. Cresce il rischio che alla fine il 19 coperchio della pentola salti: e con esiti devastanti. Non a caso si parla fin troppo spesso di elezioni anticipate come sbocco di una caduta che rischierebbe di essere troppo grave per ricomporsi nella cornice della legislatura. Ma è ovvio che il voto non servirebbe a nessuno, tranne che alle forze anti-sistema: ai Grillo e ai Salvini che sono sempre pronti a trarre vantaggio — in modo del tutto legittimo, dal loro punto di vista — dalle convulsioni di chi dovrebbe governare. Ecco spiegato perché il “generale agosto” è oggi meno efficace di un trent’anni fa. Del resto, la spaccatura dentro il Pd sarà anche una questione di potere non equamente diviso, con un premier-segretario un po’ troppo uomo solo al comando. Tuttavia il campo di confronto scelto è drammatico. Non è la Rai, dove tutti più o meno hanno in-teresse a un accomodamento. È la riforma della Costituzione e la fine del Senato tradizionale. Un recinto dove è essenziale negoziare un accordo e al tempo stesso è molto difficile individuarlo quando le posizioni si divaricano. La verità è che di fronte alla sfida delle correnti, Renzi ha solo due strade. Una è impegnarsi allo spasimo per il compromesso, pagando ai suoi avversari il prezzo necessario. E non è nel suo temperamento farlo. L’altra è accelerare il passo sul resto dell’agenda. Ritrovare, se possibile, lo spirito dei primi mesi: una riforma al mese, non importa se solo annunciata. Le parole del ministro della Giustizia circa l’abolizione dell’immunità parlamentare lasciano intendere che è questa la via imboccata. Per parlare al paese e tagliare l’erba sotto i piedi dei Cinque Stelle. La Rai sarà il logico strumento di questa rincorsa. del 04/08/15, pag. 1/15 Una partita da riaprire Stefano Fassina Il decalogo di Norma Rangeri propone scenari fertili per la discussione e l’iniziativa politica. Sì, c’è vita a sinistra. Sono vive le donne e gli uomini spiaggiati dalla «cultura e dall’economia dello scarto» denunciata da Papa Francesco, colpiti, da ultimo, dalle “riforme” del mercato del lavoro, della scuola, delle regole della democrazia o affogati dall’egoismo ottuso dei benestanti e dalla paura disperata dei penultimi. Così come sono vive le donne e gli uomini, soprattutto i più giovani e più qualificati, costretti a svendere i loro talenti o a emigrare. Come dare voce all’universo degli invisibili abbandonati e dei pionieri senza opportunità? Per rispondere, vogliamo costruire, ambiziosamente, un partito per la sfida del governo. L’ambizione deve poggiare, innanzitutto, su un’analisi condivisa del tornante storico nel quale siamo. Su queste pagine Revelli e Panagopoulos, Ferrero, Martone e Pizzuti confermano una larga sintonia tra di noi. Vediamo il trionfo insostenibile del capitale sul lavoro e l’euro-zona sulla rotta del Titanic. Inoltre, dopo la drammatica caduta delle speranze coraggiosamente alimentate da Syriza e dal Governo Tsipras, è anche diventato evidente a tutti che, nel quadro del mercantilismo liberista, la sinistra è senza spazio di manovra. Nell’area della moneta unica, la democrazia e la politica sono prigionieri di Tina: «There is no alternative». Pensiero unico e agenda unica. Oppure, l’apocalisse. È, invece, oggetto di discussione la strada da percorrere per liberare il futuro. Da una parte, chi indica la strada della radicale correzione dei Trattati affinché l’euro, da fattore regressivo, diventi fattore progressivo. Dall’altra, chi, come il sottoscritto, ritiene che non vi siano le condizioni politiche per ribaltare i Trattati e individua il superamento concordato dell’euro come passaggio obbligato per salvare l’Unione europea e riaprire la partita della democrazia fondata sul lavoro. 20 Per avviare la costruzione di una forza politica ambiziosa, una comune carta di valori è insufficiente. Vanno fatti i conti con “l’europeismo reale”, come li abbiamo fatti, chi prima chi dopo, con il “socialismo reale”. Stavolta, non possiamo aspettare le schegge del Muro di Berlino. L’euro è stato un errore di prospettiva politica: nato per arginare lo svuotamento della sovranità nazionale e la svalutazione del lavoro determinati dai mercati globali deregolati, è diventato potente fattore di aggravamento dello squilibrio nei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Il dilemma «euro si/euro no» è la punta dell’iceberg. È da riscrivere l’intero impianto di marginalizzazione della politica contenuto nei Trattati, funzionali all’interesse nazionale tedesco. Ma invocare il coraggio delle élite per arrivare agli Stati Uniti d’Europa è retorica autoconsolatoria. Le condizioni politiche per le correzioni necessarie alla “costituzione” dell’euro-zona sono assenti per ragioni profonde: i caratteri morali e culturali dei popoli, gli interessi degli Stati nazionali e i rapporti di forza. La Germania lo incomincia a riconoscere: pur nel quadro di un approccio punitivo verso la Grecia, ha rotto il tabù dell’irreversibilità dell’euro. Il Ministro Schäuble, con il consenso della Cancelliera Merkel, all’Euro-summit del 12 Luglio scorso, propone una «Grexit assistita». Il German Council of the Economic Experts, qualche giorno fa, presenta l’euro-exit come soluzione sistemica in un rapporto ufficiale al governo di Berlino. Per arrivare al superamento concordato dell’euro e negoziare condizioni di atterraggio sostenibili e, così, porre le basi per salvare l’Unione europea e, con essa, le democrazie delle classi medie va costruita un’alleanza tra fronti nazionali guidati da forze progressiste, aperti alla destra costituzionale e “sovranista”, come realizzato da Syriza in Grecia con Anel. Su quali soggetti sociali e interessi economici far leva? Su quanti sono svalutati per competere nell’economia dell’export e su quanti subiscono il deficit cronico di domanda interna: il lavoro subordinato, dipendente privato e pubblico, o a Partita Iva, la micro impresa artigiana e commerciale, l’arcipelago delle professioni proletarizzate. Uniti, in un’alleanza sociale progressiva, con chi compete sull’innovazione e sulla qualità del lavoro. La coalizione della domanda interna per il lavoro di cittadinanza è il compito difficile del partito nazionale e popolare da costruire insieme. del 04/08/15, pag. 1/15 Un’alternativa euromediterranea è possibile Pasquale Voza L’importante invito di Norma Rangeri ad una discussione libera e schietta su un’altra sinistra possibile reclama implicitamente una correlata, radicale riflessione su un’altra Europa possibile (anche se – come ella dice – all’ordine del giorno non ci fosse la rivoluzione, ma «un’idea di riformismo di sinistra in grado di persuadere milioni di persone»). Ebbene, l’appello di Marco Revelli e Argiris Panagopulos a costruire «un soggetto politico dichiaratamente antiliberista dotato della forza per competere per il governo del paese in concorrenza con gli altri poli politici» non mi pare si faccia pienamente carico di questa esigenza di riflessione radicale. Tale riflessione non può non prendere le mosse dal carattere drammatico e sconcertante della vicenda greca. A ben guardare, Syriza, Tsipras, il popolo greco, vivendolo sulla propria pelle, hanno disvelato il carattere ferocemente totalitario dell’Unione Europea, il suo configurarsi come una vera e propria «gabbia d’ acciaio» (come è stato detto), rispetto 21 alla quale l’impotenza del governo greco, comunque la si declini, commuove e fa sgomento. Ciò, da un lato, pone l’esigenza di un processo di costruzione di una forte sinistra euromediterranea, dall’altro reclama la necessità di ri-pensare in radice la formagoverno nel tempo storico in cui l’unica forma che s’impone ineluttabilmente è invece quella della governance. Per inciso: se l’ordine dei problemi è questo, mi paiono insufficienti, troppo al di qua di tali problemi, alcuni passaggi ‘solari’, scontati, come, ad esempio, la critica («mai più!») ad una sinistra frutto di aggregazioni pattizie e politicistiche del passato (dall’Arcobaleno a Rivoluzione civile ecc); o come l’adozione di formule quali sinistra governativa o di governo, che, se avevano (o hanno) un senso tutto polemico-ideologico nel linguaggio vendoliano e di Sel per designare la distanza da una sinistra testimoniale, minoritaria, di opposizione ecc. ecc., fuori di quel linguaggio risultano futilmente prive di consistenza in relazione alla complessità inedita del problema del governo all’interno della gabbia d’acciaio europea, e in relazione – vorrei dire più in generale – a quella che Pierre Dardot e Christian Laval chiamano la «nuova ragione del mondo», cioè l’attuale razionalità neoliberista, dotata di una forza, di una pervasività bio-politica (cioè di governo profondo delle vite), e, per questa via, capace di reprimere, di contrastare in radice la possibilità stessa della costituzione politica della soggettività, dei soggetti dell’antagonismo e del conflitto. Un altro accenno: una discussione sul problema teorico-politico del governo oggi (anch’essa utile, a mio avviso, al percorso di riflessione e di proposte promosso dal manifesto e dalla sua direttora) dovrebbe misurarsi con la dialettica alto-basso, in cui tende a “trasfigurarsi” oggi la lotta di classe, e con quella che Laclau chiama la «ragione populista» (e che trova in America Latina delle peculiarissime declinazioni). Come è stato osservato (Benedetto Vecchi, il manifesto, 24 luglio 2015), Podemos in Spagna si pone il compito di «inventare politicamente il popolo» attraverso un dispositivo del governo, capace di svolgere una funzione “universale”. Insomma, sì, c’è vita a sinistra, soprattutto se la sinistra, lottando contro la condanna alla frammentazione, contribuendo a costruire processi e movimenti di lotta, vertenze, conflitti, rende almeno visibile un’alternativa alla gabbia del governo inteso come pura condanna a un governo nella gabbia. 22 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 4/08/2015, pag. 16 LA GIORNATA “I pizzini arrivati in carrozza” Così funzionava la rete creata da Messina Denaro Trapani,tra gli 11 arrestati vecchi capi e giovani imprenditori Conti svizzeri e una masseria come centro di comunicazione Sembrano usciti da un romanzo di Andrea Camilleri gli uomini che proteggevano la latitanza di Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi che sembra imprendibile dal 1993. ‘U zu Vitu coffa , l’anziano capomafia di Mazara Vito Gondola, e il giovane imprenditore Michele Terranova, titolare di un caseificio molto apprezzato nel Trapanese. «Ci vediamo alla mannara», si dicevano al telefono. «Ho una rinisca (una pecora,ndr ) buona — sussurrava uno — quando vossia finisce di mungere la scannamu ». E l’altro chiedeva: «La ricotta è pronta?». Era il segnale che i pizzini del latitante erano arrivati. ‘U zu Vitu coffa era il custode delle comunicazioni di Messina Denaro. Questo dice l’ultima indagine di polizia e carabinieri del Ros coordinata dai sostituti Paolo Guido, Carlo Marzella e dal procuratore aggiunto Teresa Principato. Sono scattati undici arresti in provincia di Trapani. Ma non è ancora chiaro da dove arrivassero i pizzini. Le intercettazioni dicono che ogni tanto l’anziano padrino faceva quelle telefonate colorite. E il giovane imprenditore capiva che doveva subito convocare una riunione nella sua masseria sperduta fra le campagne fra Mazara e Salemi. Lì, Gondola nascondeva sotto un masso i pizzini e poi li consegnava a un altro vecchio mafioso, Michele Gucciardi. Dicendogli: «Io ho tutto fra le mani, ma dobbiamo stare attenti». E Gucciardi commentava: «Io me lo immaginavo che c’era qualcosa in arrivo, con la stessa carrozza arrivaru ». Dal 2012, le indagini sulla primula rossa di Cosa nostra si sono strette in quel lembo di terra attorno alla masseria. Contrada Lippone, una distesa di terra brulla e sassi. I poliziotti delle squadre mobili di Palermo e Trapani, con i colleghi dello Servizio centrale operativo, hanno cercato di scoprire quale fosse la «carrozza» di cui sentivano nelle intercettazioni. E hanno registrato con una potente telecamera sette incontri fra Gondola e Gucciardi. I pizzini di Messina Denaro sarebbero arrivati il primo giugno 2012, poi il primo ottobre e il 27 novembre, quindi il 29 giugno 2013. Segnali della via di ritorno sono stati registrati il 14 dicembre 2012, il 27 marzo e il 27 luglio 2013. Il latitante imponeva regole precise per i pizzini: vanno distrutti subito dopo la lettura; e le risposte devono essere recapitate entro 15 giorni. Ma del contenuto dei pizzini continuiamo a non sapere nulla. Gli inquirenti hanno il sospetto che quei biglietti possano essere andati in giro per l’Europa. Viaggiava molto un fedelissimo di Gondola, l’imprenditore Mimmo Scimonelli. Si divideva fra il Vinitaly, per presentare il suo consorzio di produttori e la Svizzera, dove aveva aperto alcuni conti. Lì, sono stati fatti controlli. Fino all’anno scorso, Scimonelli faceva anche parte del consiglio nazionale della Dc di Angelo Sandri. Il ministro della Giustizia si è congratulato con il procuratore Lo Voi per l’indagine. Renzi su Facebook: «Avanti tutta per catturare il latitante». 23 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 4/08/2015, pag. 12 Migranti, ora Cameron sceglie la linea dura ma è lite con la Francia Carcere per chi ospita stranieri irregolari, tensioni alla frontiera Si nasconde in una valigia:muore in Spagna un marocchino VINCENZO NIGRO LONDRA. La Gran Bretagna ha lanciato la sua caccia ai migranti irregolari, ma il vero problema ce l’ha la Francia, che non riesce a gestire alcune migliaia di disperati al confine di Calais. A Londra il governo Cameron ha proposto una legge che verrà varata (forse) nei prossimi mesi: permette ai proprietari di casa di sfrattare senza attendere l’ordine del giudice gli inquilini clandestini, e punisce anche con 5 anni di carcere i proprietari di abitazioni che li ospitano consapevolmente. Una misura dura ma nei fatti inutile, perché i migranti, quando arrivano si presentano quasi sempre alle autorità per chiedere asilo ed essere assistiti secondo le leggi del Regno. E al massimo si fanno ospitare dai parenti che li attendono. Il vero problema in queste ore per il governo è invece la fila di migliaia di camion che occupano le strade verso l’Eurotunnel e verso i porti per la Francia, rallentati in dagli scioperi dei traghettatori francesi. Un imbuto che sta bloccando i traffici commerciali, ma che in pochi giorni molte linee di trasporti hanno bypassato scegliendo altri punti di imbarco. Tutti problemi amplificati dalla stampa popolare e di destra e dai politici xenofobi. Ieri il Daily Telegraph ha pubblicato un ampio servizio su alcuni immigrati spediti a un centro di assistenza a Londra in taxi al prezzo di 140 sterline «a spese del contribuente». E mentre altri giornali invocano l’utilizzo dei gurkha, i soldati asiatici dell’esercito britannico, il lavoro più concreto lo sta facendo la ministra dell’Interno Theresa May col suo collega francese: rafforzare le recinzioni alla partenza di Calais, raddoppiare il personale e gli strumenti di sorveglianza. Chi non ha imbarazzo a denunziare il clima di allarmismo esagerato è il ministro dell’Immigrazione svedese Morgan Johansson, uno dei paesi in Europa che ha dimostrato non solo apertura, ma anche la massima capacità di gestire e integrare in maniera ordinata gli immigrati. La Svezia accetta 1200 migranti alla settimana, ha detto il ministro, e voi siete in crisi per poche centinaia in un mese, «dovete fare molto di più per gestire il fenomeno». E la Germania proprio ieri ha fatto sapere che nel 2014 ha toccato il record di quasi 11 milioni di residenti con un passato “migratorio”. Un problema collaterale, ma assai delicato, è il crescente clima di fastidio per gli stranieri. Partiti come l’Ukip e altri gruppi nazionalisti dopo aver fatto apertamente campagna contro polacchi e romeni adesso indicano tutti i “migranti” dell’Unione europea come pericolosi profittatori del welfare britannico. Nel frattempo si continua a morire per inseguire il sogno di una fuga dal proprio paese. Come è accaduto ieri a un giovane marocchino di 27 anni che ha tentato di entrare in Spagna chiuso in una valigia. Il ragazzo però è morto soffocato poco prima di arrivare sulla costa spagnola. L’allarme è stato lanciato dal fratello, arrestato dalla polizia. 24 Del 4/08/2015, pag. 12 Manganelli e gas urticante: la “guerra” infinita tra poliziotti e disperati IL REPORTAGE DAL NOSTRO INVIATO DANIELE MASTROGIACOMO CALAIS HA GLI occhi rossi. Il viso pieno di macchie. Se le gratta. Ma gli amici, i connazionali, sudanesi e etiopi, lo rimproverano. «Lascia perdere, non ti toccare». Arriva una ragazza, Lucille, volontaria di una ong. È un’infermiera. «Ecco, prendi questa. Passala sulla faccia». Salan, 30 anni, ingegnere informatico oggi immigrato, esegue l’ordine. Si spalma la crema sulle macchie che rischiano di diventare piaghe. Si calma, respira piano. «Gas - dice con un filo di voce - gas urticante. Ce lo sparano addosso». Chi gli sta attorno annuisce. Mehemet, 28 anni, commerciante del Darfur, rifugiato in attesa di un permesso che non arriva mai, ci mostra le mani: «Hanno colpito anche me. Ho alzato le braccia per proteggermi il viso. Lui non ci è riuscito». È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l’entrata dell’Eutotunnel. La gente non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia all’uomo. La luce, a queste latitudini, d’estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati. Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro giorni che la grande fuga verso l’Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola. Ci hanno provato in 1700 domenica, 1200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima. I “flic”, i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. «Con il buio facciamo le prime incursioni », racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai colleghi. «Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare ». La legge, nella guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l’assalto al tunnel della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso. Gracchia la radio, c’è ordine di muoversi. L’atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall’ingresso verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall’inizio dell’anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano saltati in corsa, dalle macchine sull’autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi apparsi dal nulla. Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i bambini. Dall’altra parte i poliziotti attendono l’ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano, 25 la bomboletta nell’altra. Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e veloci, che corrono a serpentina e con la forza d’urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedono davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c’è dietro. Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria. Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non demordono. All’alba arriva l’ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il traffico è interrotto. Ci vorrà l’intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa. Domani si ricomincia. Del 4/08/2015, pag. 18 Il migrante soffocato dentro una valigia Marocchino, 27 anni, voleva entrare in Spagna nel bagagliaio dell’auto del fratello. Altri sbarchi in Italia Si era nascosto in una valigia, convinto di poter superare i controlli e arrivare in Spagna, per poi proseguire verso la Francia. Invece N.M., giovane marocchino di 27 anni, è morto soffocato nella stiva di un traghetto che da Melilla, enclave spagnola sulla costa orientale del Marocco, lo portava nella città andalusa di Almeria. Il fratello A.M., 34 anni, che aveva disperatamente cercato di rianimarlo, ancora sotto choc, è stato arrestato con l’accusa di omicidio colposo. Solo a maggio scorso un bambino di 8 anni, Abou, era stato trovato nascosto in un bagaglio — e salvato — a Ceuta, l’altra cittadina spagnola in territorio marocchino: il suo profilo accoccolato rilevato dallo scanner a raggi X aveva commosso l’Europa. Il piccolo, che tentava di raggiungere il padre immigrato, il cui stipendio era troppo basso per ottenere il ricongiungimento familiare, aveva così ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo. Stavolta, però, non c’è stato nessun lieto fine. I due fratelli marocchini si erano imbarcati domenica pomeriggio verso le tre a Melilla: il maggiore, che ha passaporto francese, aveva un regolare biglietto. Il più giovane, secondo le prime ricostruzioni, non aveva invece il visto per l’ingresso nei Paesi dell’Unione Europea: per evitare i controlli (la polizia al confine ispeziona documenti e abitacoli con l’aiuto dei cani antidroga) si era nascosto in una valigia nel bagagliaio della sua auto. E lì è rimasto durante il tragitto in nave che dura circa cinque ore e mezza. Durante la navigazione i passeggeri non possono raggiungere il garage delle auto e il 34enne è riuscito a tornare alla macchina solo venti minuti prima dell’attracco: è stato allora che si è reso conto che qualcosa non andava e ha chiamato immediatamente aiuto per soccorrere il fratello. Il personale di bordo ha cercato di rianimarlo, ma ormai era troppo tardi. «Dopo così tante ore chiuso là dentro e con così tanto caldo è morto per 26 asfissia — ha raccontato un testimone al quotidiano spagnolo El Pais —. Aveva anche sintomi di disidratazione» . La temperatura nella stiva era di almeno 32 gradi. «Il medico non ha potuto fare nulla», hanno riferito gli inquirenti. Sono almeno duemila i profughi e migranti morti, secondo le stime, solo da gennaio nel tentativo di entrare in Europa attraversando il Mar Mediterraneo. Ieri sono stati 86 i migranti salvati dalla Guardia di Finanza su un barcone al largo delle coste di Crotone, mentre a Palermo è sbarcata una nave di «Medici senza frontiere» che trasportava 529 persone soccorse nel Canale di Sicilia e 5 corpi senza vita. Altri 396 migranti sono arrivati a Reggio Calabria e 349 a Trapani a bordo di due navi della Marina militare. Del 4/08/2015, pag. 12 Passano i vivi, passano i morti La cecità dell’Europa - Muri e caccia all’uomo: l’inutilità della ferocia da copertina di Furio Colombo Hanno trovato un uomo morto in una valigia. È accaduto in una dogana spagnola dove eseguendo i soliti controlli con la consueta diffidente efficienza, hanno trovato il corpo di un uomo che era entrato vivo nella valigia. Certo che è assurdo, ma la speranza, in tempo di guerra, è sempre assurda. Avrà saputo della notizia del bambino arrivato vivo. E comunque ha deciso, come accade nei momenti di disperazione, che non aveva scelta e che era meglio provare. Ora cambiamo scena, come se fosse un documentario. Anzi dividiamo la scena. Di qua resta il cadavere dell’uomo morto in valigia nel disperato tentativo di passare un confine europeo. Di là vediamo due uomini ben vestiti, autorevoli, tranquilli, che discutono di quel cadavere. Beh, non proprio lui, ma uno vale l’altro. Siamo alla conferenza stampa del primo ministro inglese e del presidente francese. Ci dicono che, spiacenti, in modo assoluto nei loro Paesi non si passa. Come prova, l’autorevole personaggio inglese ci offre scene di caccia al profugo lungo tutto il percorso che porta alla Manica. Di suo, il capo di tutti i francesi esibisce la sua parte di inseguimento, la bravura con cui i suoi scovano chi ce l’ha quasi fatta, e gli accampati sugli scogli di Ventimiglia, che vengano o no dalla Siria e siano o no scampati alle stragi del Califfato. Torniamo all’uomo morto nella valigia. D’ora in poi è un simbolo, sia Cameron che Hollande, sia Junker, presidente d’Europa, che ciascun capo di Stato e di governo europeo, potrebbero farne l’immagine esemplare da collocare sulla bandiera d’Europa, al centro del cerchio di stelle. Tutte splendono di paurosa, ottusa incapacità di capire ciò che sta succedendo nel mondo, un Q. I. politico più o meno al livello di Salvini, Le Pen e Orban. L’Italia, costretta dal mare e da persone come il sindaco di Lampedusa, continua a salvare e ad accogliere. Intanto però, con diversi sentimenti, il ministro Pinotti prepara la guerra e non si stanca di elencare le armi, gli equipaggi, le truppe che saranno impiegati. La signora Pinotti dovrebbe entrare nella inquadratura del film in cui Cameron e Hollande spiegano che da loro non si passa né vivi né morti. Ma i morti passano, come dimostra l’uomo della valigia, come dimostrano le migliaia e migliaia di morti nel Mediterraneo. E passano i vivi, se ne sono passati centomila alle frontiere chiuse dell’Ungheria, che infatti vuole fabbricare un muro. Ti dicono che è un grave problema umano e i politici non 27 possono cedere, non tocca a loro risolverlo. Ma sono ciechi. E non vedono la grave, immediata emergenza politica. Richiederebbe leader che, a parte il Papa, non esistono. Del 4/08/2015, pag. 13 Lotti: “Migranti a lavoro esperienza positiva, i Comuni ci pensino” Stavolta a dirlo è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti, durante un sopralluogo: “Credo che sia un’esperienza lodevole, che in questo caso ha fatto il Comune di Firenze e che potrebbero fare altre amministrazioni“. L’esperienza è quella di impiegare i migranti nei servizi di pubblica utilità. E il riferimento è al caso delle opere di pulizia e manutenzione che alcuni migranti hanno prestato durante e dopo il nubifragio che sabato scorso si è scatenato su Firenze. “I migranti – ha detto Lotti durante un sopralluogo per valutare i danni del maltempo – sono ospitati nei nostri centri d’accoglienza, e se ci sono delle occasioni nelle quali possono dare una mano nelle comunità che le ospitano non c’è niente di male, anzi”. Fare di necessità virtù, insomma. Se non fosse che la proposta di Lotti ricorda quella che, a maggio, aveva avanzato il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Scatenando molte polemiche. “Dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti – aveva detto Alfano prima del vertice sull’immigrazione – Invece di lasciarli senza fare nulla, che li facciano lavorare”. Una dichiarazione che aveva suscitato la reazione dello stesso leader della Lega, Matteo Salvini. Per l’occasione, aveva definito Alfano uno schiavista, pagato per evitare che i migranti arrivassero in Italia e non per sfruttarli. Del 4/08/2015, pag. 14 Dalla vigna al cimitero: Paola, morta per 27 euro Nessuna indagine né proteste per il decesso avvenuto in silenzio il 13 luglio di Tiziana Colluto Sveglia alle due di notte, subito al ritrovo con le colleghe. Una chiacchiera e poi un altro po’ di sonno, per altre due ore, sui sedili scomodi di quel pulmino, a risalire la Puglia, nel buio fitto e nel caldo che già affatica il respiro, nonostante la luna, in quest’estate di fuoco. Deve averli ripercorsi tutti, Paola, con la mente, quei 157 chilometri, quando la fitta le ha morso il petto e per lei è finita così, alle otto del mattino di un lunedì qualunque: a 49 anni, sotto un tendone di plastica, a spulciare grappoli d’uva, in un’azienda di Andria, in Puglia. Uscita di casa bracciante e tornata cadavere dai suoi tre figli, nel Tarantino. Morte naturale. “O forse qualcosa di più, perché lei è stata stroncata dalla fatica”, denuncia la Flai Cgil regionale. 28 Negli occhi della Puglia agricola c’è ancora la morte di Mohamed, 47 anni, anche lui bracciante, anche per lui un infarto a rubare la vita, sotto al sole che non concede clemenza. Dal Sudan ai campi di pomodori a Nardò, in provincia di Lecce. Omicidio colposo, in questo caso, secondo la Procura, che il giorno dopo il decesso, il 23 luglio scorso, ha deciso di aprire un fascicolo, mettendo sotto inchiesta tre persone: la responsabile dell’azienda, suo marito e il presunto caporale. Per Paola Clemente non c’è stata alcuna indagine. Né un’autopsia. È per questo che il sindacato ha deciso di raccontare, a quasi un mese dalla sua morte, avvenuta il 13 luglio scorso. “È diventata subito un fantasma, senza che la notizia trapelasse per settimane – dice Giuseppe Deleonardis, segretario regionale Flai -. Sembra che in ospedale la donna non sia mai arrivata. Il carro funebre l’ha portata direttamente dal campo alla cella frigorifera del cimitero. È stata sepolta il giorno dopo, con il nulla osta del magistrato di turno. Il pm non si è recato sul posto perché, stando a quanto riferisce la polizia di Andria, il parere del medico legale è che si sia trattato di una morte naturale, forse un malore per il caldo eccessivo”. Nessuna protesta, nessuna denuncia. È il silenzio che mette a tacere la fatica di massa delle donne che a migliaia di spostano dalle province di Taranto e di Brindisi verso il Metapontino o il nord Barese. Seimila, ogni notte, solo da Grottaglie e dintorni. È da lì che veniva anche Paola, da San Giorgio Jonico, costola di Taranto, dell’Ilva, dell’arsenale militare. Stando a quanto riferito dalle compagne, non stava bene da giorni. Eppure, era lì, su e giù per chilometri assieme ad altre seicento colleghe dello stesso paese. Era abituata lei a questa vita. Da 15 anni ci aveva fatto il callo con le sveglie impossibili, da maggio a novembre. Anche loro, i figli, avevano preso confidenza. L’ultimo aveva sei anni quando l’andirivieni è cominciato. Negli ultimi tempi, l’affanno è cresciuto sotto i tendoni installati per ammodernare gli impianti e ritardare la maturazione dell’uva. Ad Andria, nell’azienda agricola di contrada Zagaria, il 13 luglio era il tempo dell’acinellatura: scartare gli acini piccoli che impediscono agli altri di crescere, diradarli per fare belli i grappoli da destinare alle tavole. Si era alle battute finali, poi, dopo la pausa di un paio di settimane, a fine luglio sarebbe già cominciata la raccolta e la sistemazione nelle cassette. Per altre 40 mila donne pugliesi è iniziata. Per Paola è finita lì, schiantata dalla fatica, a 40 gradi. Per 27 euro a giornata. Tanto viene pagato quello che è uno dei lavori più duri in agricoltura, nonostante le buste paga da 52 euro al giorno. “Minimo sette le ore di attività – spiega Assunta Urselli, Flai Cgil Taranto – ma quando bisogna riempire i tir non si torna a casa prima del tardo pomeriggio. Da quell’orario, per legge, dovrebbero essere defalcate le ore di viaggio, almeno un paio d’andata e altrettante di ritorno. Sul posto, poi, dovrebbero essere consentite sosta e refrigerio, turnazione del personale. Ma stiamo parlando del nulla”. Il contratto, che pure Paola aveva, è rimasto un pezzo di carta: assunta per il tramite di un’agenzia interinale, avrebbe pagato anche quello che le spettava gratis e che l’azienda avrebbe dovuto mettere a disposizione, il servizio di trasporto. Dai cinque ai dieci euro al giorno, da consegnare all’autista dell’autobus. Così contratta per tutte l’intermediario a cui gli imprenditori si rivolgono e che fornisce i nomi delle braccianti alle società di somministrazione della manodopera. Un caporalato, solo vestito un po’ più di nuovo. 29 WELFARE E SOCIETA’ del 04/08/15, pag. 2 «Sud sconosciuto per Renzi» Intervista. «Il Mezzogiorno non è mai stato al centro dell'attenzione del governo Renzi, né nelle grandi né nelle piccole cose – afferma Gianfranco Viesti - Al sud sono stati tagliati gli investimenti per finanziare le defiscalizzazioni del Jobs Act». Dal rapporto Svimez all'università e alla spending review sulla Sanità: un dialogo a tutto campo con uno dei maggiori esperti in economia meridionale Roberto Ciccarelli Per Gianfranco Viesti, docente di economia applicata all’Università di Bari, la reazione del presidente del consiglio Renzi sul Sud («Basta con i piagnistei, l’Italia è ripartita») è inappropriata. «Un presidente del consiglio deve sapere analizzare la realtà del suo paese e riconoscere le difficoltà dove ci sono – afferma — Se prendiamo i dati della Svimez dal 2000 al 2014 tutto il paese cresce meno della Grecia e il Sud fa molto peggio negli ultimi cinque anni. Non c’è una parte che sta male e una che sta bene. In Italia c’è una parte più debole in un paese tutto debole». Qual è il bilancio dell’azione del governo Renzi sul Sud? Non è stato mai al centro della sua attenzione, né nelle grandi né nelle piccole cose. Non voglio assumere una posizione preconcetta, però l’analisi di Renzi non mi convince:non è tutto un problema di semplificazioni, privatizzazioni e riduzioni fiscali. Intendiamoci le semplificazione sono molto importanti. Se potessimo tagliare un po’ le tasse sul lavoro, non quelle sulla prima casa, sarebbe una buona cosa. Ma i problemi di fondo non stanno lì, ma in una crescita della produttività troppo modesta; nella dinamica molto contenuta degli investimenti pubblici e privati; nell’insufficiente sforzo dell’innovazione; in un cambio di passo dell’economia dopo l’euro che c’è stato, ma a macchie. L’Italia ha un’economia forte, ma dall’inizio del secolo non cresce più. Purtroppo per noi da prima dell’austerità che le ha dato un colpo terribile. Segni di cattivi risultati si vedevano anche prima. Venerdì il Pd si riunisce, sono stati annunciati 80 miliardi di investimenti e sembra che saranno sbloccati i fondi al Sud per la coesione territoriale. Che fine faranno, visto che manca un ministero? Questa è una delle cose che più mi dispiacciono di Renzi. Dall’inizio ha ritenuto che questo tema non meritasse un ministero ma un sottosegretario forte, ma straordinariamente impegnato, come Del Rio. Del Rio poi è diventato ministro delle infrastrutture e Renzi si è dimenticato di assegnare la delega a qualcun altro. Forse andrà al sottosegretario alla presidenza del Consiglio De Vincenti? Magari ce l’avesse, è persona molto capace anche se anche lui iper-impegnato. La delega ce l’ha Renzi. Non è che una persona risolve tutto, però servirebbe un politico a tempo pieno, soprattutto di questi tempi, per gestire le risorse e tenere il fiato sul collo dei soggetti attuatori come fece Fabrizio Barca da ministro della coesione territoriale con le ferrovie. Nello «Sblocca Italia» Renzi promuove investimenti per autostrade e trivellazioni. Che tipo di sviluppo sta progettando? Sulle trivellazioni sono perplesso: trovo ragionevole la protesta di molte comunità perché sembra una decisione che cala dall’alto e in alcuni casi si scontra con l’opposizione 30 sociale sull’Adriatico o in Basilicata. Ma ammettiamo che vi sia una cultura radicalmente contraria in maniera esagerata e che alcuni interventi si debbano fare come il contestato gasdotto Tap. Certo non è il massimo dell’astuzia farlo arrivare su una spiaggia. Renzi ha una cultura leaderistica ed è convinto che il problema dell’Italia sia la mancanza di qualcuno che decide. Non sono d’accordo, uno che prende le decisioni ci vuole, ma dopo che ha creato consenso nei territori e con i cittadini. Capisco che possiamo avere avuto un eccesso di rallentamenti, ma la cultura del commissario che arriva e decide non è giusta democraticamente e non credo che porterà a molti risultati. In quali settori sono necessari gli investimenti? Nelle opere di trasporto, nelle ferrovie e nei porti, nell’intermodalità e nelle aree urbane più che nei nuovi assi stradali, con qualche eccezione. Bisogna capire che le cose importanti non sono i fondi europei o le misure speciali, ma la scuola, la sanità, l’ambiente, l’ordine pubblico, cioè politiche pubbliche ordinarie di sufficiente dimensione e di buona qualità. Questo governo ha molto la cultura del singolo progetto.Credo che questra cultura non sia sufficiente senza una visione della direzione da prendere. Però certamente non guasta. Prendiamo Pompei, Bagnoli e Taranto. I risultati sono molto alterni. A quanto ne so, a Pompei hanno fatto qualcosa, Bagnoli è ferma, Taranto ci sono stati i primi incontri. Mi piacerebbe che su questa cultura prendesse impegni più precisi. Riconosco che questa idea del progetto con un nome ha aspetti positivi, individua chiaramente un oggetto di intervento, può produrre risultati che si vedono. Il renzismo è in parte andato incontro ad una reazione comprensibile rispetto agli eccessi di programmi senza progetti precisi. Però, in questa italia, in questo momento, senza una visione i progetti sono benvenuti, ma non bastano. Sembra che il Sud sia stato destinato al turismo. È sostenibile un’economia votata all’intrattenimento? Certamente no. Un’economia europea a medio reddito deve crescere con tutta la gamma delle attività economiche e tra queste la più importante è l’industria intesa in senso ampio. Per me industria è anche Google e Blabla car. Nel Mezzogiorno c’è ancora un bel pezzo di industria, nonostante la crisi. Troppo poca, meno di prima, ma incommensurabile rispetto a quella greca, con tutto il rispetto per i nostri vicini. Aeronautica, automobile, agroalimentare, un pezzettino di made in Italy, presenze molto preziose da rilanciare con un termine non renziano, che invece a me piace, di politica industriale. Ciò detto, il turismo non è il diavolo. Al sud deve crescere, facendo però attenzione a non farlo diventare come quello nella Spagna del sud. Lo si può fare attraverso la de-stagionalizzazione, i beni culturali, il cibo, la natura e l’aumento delle presenze straniere che sono in enorme crescita negli ultimi due anni grazie ai voli low cost a Napoli, Catania e Bari. I contributi nel jobs act sono utili per fare crescere l’occupazione in questi contesti? Non ne sono entusiasta. Il Jobs Act è una scelta politica che sposta il potere contrattuale verso i datori di lavoro e lo toglie ai lavoratori. La defiscalizzazione è una politica molto costosa. Ma se uno vuole buttare i soldi lo fa adesso visto che l’occupazione è molto bassa. Visto da sud non è stata una grande scelta: i soldi sono stati presi da risorse destinate al sud. In più si tratta di una misura identica su tutto il territorio nazionale e difficilmente genererà incrementi occupazionali nelle regioni più deboli. Le imprese non assumono perché non c’è domanda, non perché le regole sul mercato del lavoro sono vincolanti. Negli ultimi 20 anni l’Italia è radicalmente cambiata e le parti sociali sono state molto flessibili accettando contratti di tutti i tipi. Di recente si è occupato del sistema universitario. Dopo la scuola, il governo sembra intenzionato a intervenire di nuovo sugli atenei. Con quale approccio, secondo lei? 31 La cosa che mi lascia esterrefatto è che la politica berlusconiana sul merito e valutazioneè stata proseguita negli stessi dientuici termini dal governo Monti, Letta e poi da quello renzi sullì’università. Come se lo spiega? C’è un disegno implicito di riogranizzazione del sistema universitario ispirato all’orientamentio selettivo che secondo me è profondamente sbagliato. Ci vorrebbe invece un raffforzamento qualitativo. A sud ci sono università che funzionano male. Loro dicono che bisogna chiuderle, io dico che bisogna migliorarle. Da dove nasce questo orientamento sull’università? La mia è un’ipotesi interpretativa. Abbiamo classi dirigenti che hanno perso la fiducia nell’Italia e si curano di alcuni pezzettini, sperando che ce la facciano. Per questo intervenire a Sud è così interessante. Significa credere in un sistema nazionale che piano piano si rafforza. Non ho particolare fiducia in questo governo, ma l’italia è in grande movimento e non bisogna perdere la speranza. Non si tratta di sparare a zero nè essere conservatori. L’Italia prima di Renzi non era una meraviglia. Se non ci piace quello che sta facendo, bisogna cambiarla diversamente, non difendere solo l’esistente. Secondo lei che tipo di atteggiamento bisogna avere a sinistra rispetto alla spending review? Io credo che non dobbiamo rifiutare la parola efficienza, ma dobbiamo discutere qual è il senso delle operazioni che si fanno. C’è una spending review di destra e una di sinistra. Quella di destra riduce il più possibile l’intervento pubblico. Quella di sinistra aumenta il più possibile l’efficacia dell’intervento pubblico, anche risparmiando, che non fa male. La spending review di Renzi che taglierà 2,3 miliardi nel 2016 è di destra o di sinistra? Ho molte perplessità sulla coppia Gutgeld-Perotti che la sta facendo. Li vedo troppo centrati sull’ottenimento di risparmi per potere tagliare le tasse. È una posizione del tutto ragionevole che definirei un pochino di destra. La spending review dovrebbe essere molto più incentrata sull’intervento sulla qualità. Se si taglia la spesa sanitaria a prescindere dalle condizioni materiali non è detto che miglioro la salute delle persone ma la peggioro. Nel sud si consumano troppi farmaci perché c’è una bassa scolarità e una minore cultura della salute, per questo la spesa farmaceutica pro capite è più alta. Un governo riformatore dovrebbe aumentare la qualità media degli ospedali partendo da quelli che ce l’hanno più bassa. È quello che stanno facendo Gutgeld e Perotti? Al momento non mi risulta.. del 04/08/15, pag. 3 Niente sviluppo senza ricerca Dati Istat. Produttività in calo tra il 1995 e il 2014 a causa della mancata innovazione. La competitività del sistema Italia è andata via via deteriorandosi a cominciare già dal periodo precedente alla crisi economica. La ministra Federica Guidi annuncia un piano governativo da 80 miliardi per investimenti sulle infrastrutture Marta Fana Tra le questioni economiche spesso dibattute per spiegare il declino italiano è possibile annoverare quello della scarsa produttività, cioè la capacità del lavoro e dei beni capitali, 32 ma soprattutto del modo in cui questi due fattori si combinano attraverso la tecnologia e l’organizzazione dei processi di generare valore aggiunto. Per far luce sulle dinamiche della produttività è possibile utilizzare gli indicatori relativi al periodo tra 1995 e 2014, pubblicati ieri dall’Istat. L’evidenza più rilevante mostra che in Italia durante l’intero arco di tempo considerato, la produttività totale dei fattori, cioè «la crescita del valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico e ai miglioramenti nella conoscenza e nei processi produttivi» è diminuita di circa lo 0.3% annuo. Certo, tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana ha subito cambiamenti strutturali, dall’introduzione dell’euro alla crisi economica dal 2008, ma risalendo nel tempo le statistiche ufficiali, è indubbio che il declino italiano ha radici ben più lontane, che con caratteristiche e problemi simili risalgono a prima del 1995. È soprattutto il periodo pre-crisi (2003–2009) quello che maggiormente spiega la dinamica italiana in cui nonostante l’aumento, seppure in proporzioni diverse, delle ore lavorate e di beni capitali (mezzi, macchinari, ecc..) nella produzione, il tasso di crescita del reddito complessivo prodotto da questi è risultato negativo (-0,9% in media all’anno). Tra il 2009–2014 la produttività totale dei fattori ha mostrato invece un aumento medio positivo seppure esiguo (+0.4%). Questo non è dipeso da un atteggiamento anticiclico della politica economica (più investimenti in settori strategici e in innovazione) ma da una riduzione dell’impiego dei fattori (soprattutto del lavoro) superiore al crollo del valore aggiunto. È così che la competitività del sistema Italia è andata via via deteriorandosi. Purtroppo le ricette adottate hanno palesemente fallito, mostrando la palese inefficacia degli strumenti (svalutazione salariale e defiscalizzazione svincolata per le imprese) prima ancora che degli obiettivi. Nessuno si è invece preoccupato degli investimenti in innovazione di processi e prodotti, ma anche in formazione di capitale umano. In proporzione al Pil, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo in Italia sono circa la metà di quelli francesi, e quasi un terzo di quelli tedeschi. Ancora più pronunciato è il divario nel confronto tra settori privati. L’azione di governo, piegandosi incondizionatamente all’austerità, non soltanto ha abbandonato l’obiettivo di ridurre una volta per tutte gli squilibri con gli altri paesi europei, ma ha rinunciato soprattutto alla questione nazionale per eccellenza, quella del divario tra Nord e Sud Italia, che si ripercuote sull’intero paese. Gli ultimi dati del rapporto Svimez confermano la drammaticità del dualismo italiano. Tornando ai dati sulla produttività, se al Centro-Nord tra il 2008 e il 2013 questa è diminuita dello 0.8%, nel Mezzogiorno la riduzione è pari al 2.9%. Il crollo degli investimenti che ha caratterizzato l’Italia, è stato di gran lunga più marcato nel Meridione con una riduzione rispettivamente del 24.6% al Nord e del 53.4% al Sud. Ancora una volta, questa è una politica che risale alla crisi dei primi anni Novanta e non a quella del 2008: tra il 1991 e il 2008, gli investimenti pubblici al Sud passano da 10000 milioni a 4000 milioni di euro, mentre al Nord essi aumentano da 12 mila a 16 mila milioni di euro. Ma si sa, non è solo la quantità di risorse a determinare incrementi di produttività ma occorre una visione di sviluppo dell’intero sistema che non può che essere diretto dall’intervento pubblico. Per questo, gli annunci del governo, da ultimo quello della ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, di destinare 80 miliardi per investimenti in infrastrutture e relegare il ruolo dello Stato a quello di facilitatore per le imprese appaiono quanto mai preoccupanti. Non è rinviabile un intervento pubblico che sia sistemico, ovvero destini le proprie risorse (comprese quelle per infrastrutture) in virtù di obiettivi industriali definiti, assumendone direttamente il controllo ed evitando la svendita ai capitali esteri di quel che rimane dell’industria italiana. 33 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 4/08/2015, pag. 14 Obama: il cambiamento climatico minaccia alla sicurezza nazionale Il piano per ridurre le emissioni del 32%. E cita papa Francesco: obbligo morale DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Lo so, i miei avversari tenteranno di fare a pezzi questo piano: hanno cominciato ad attaccarlo prima ancora di sapere cosa c’era dentro. Dicono che abbiamo dichiarato guerra al carbone, che l’energia costerà di più, anche se in realtà la gente risparmierà. Che perderemo occupazione, anche se lo sviluppo delle fonti alternative creerà molti posti di lavoro in più. Ma noi abbiamo l’obbligo morale di intervenire sui mutamenti climatici, come sostiene anche papa Francesco nella sua enciclica. E siamo l’ultima generazione in grado di farlo: non ci possiamo tirare indietro». Più che l’annuncio di un passo storico — il varo del piano ambientale più impegnativo mai adottato dagli Stati Uniti — il discorso di Barack Obama, ieri alla Casa Bianca, ha avuto il sapore di una difesa preventiva: una blindatura dagli attacchi dei repubblicani, degli Stati carboniferi e delle società che consumano molta energia. Non solo, per Obama i cambiamenti climatici «rappresentano un rischio immediato per la sicurezza nazionale». Una preoccupazione comprensibile, quella del presidente americano, visto che prima ancora del varo del piano il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, aveva già invitato tutto gli Stati americani a boicottarlo. Cosa che molti governatori — praticamente tutti quelli conservatori — sono decisi a fare: partiranno raffiche di ricorsi davanti ai tribunali e alla fine toccherà alla Corte Suprema pronunciarsi. Ma ci vorranno anni. Anni di dispute, come per la sanità. Obama ieri si è mostrato fiducioso, forse perché in passato la Corte Suprema ha già riconosciuto il diritto dell’Epa, l’Agenzia federale per l’ambiente, di fissare limiti d’inquinamento vincolanti per gli Stati. Fiducioso, ma anche consapevole che la battaglia sarà durissima. Comincerà subito: che nel primo dibattito televisivo, dopodomani sera, i maggiori candidati repubblicani alla Casa Bianca faranno sicuramente a gara nel denigrare il piano del presidente. Ma Obama non ha alternative e ha scelto di agire ora anche perché spera di poter svolgere un ruolo-guida alla conferenza mondiale sull’ambiente che si svolgerà nel prossimo dicembre a Parigi: «Sono già stati presi impegni per la riduzione delle emissioni che scaldano l’atmosfera dai Paese oggi producono il 70 per cento di questi agenti inquinanti: non possiamo tirarci indietro. È questo uno dei momenti nei quali il mondo ha bisogno della nostra leadership. Siamo il Paese che fin qui ha fatto di più contro il global warming e il nostro piano può diventare un modello anche per altri» . Nella sua offensiva della persuasione, Obama ha anche sottolineato che la ribellione contro il piano riguarda un numero ridotto di amministrazioni e aziende: «Più di mille sindaci di città americane hanno già preso impegni precisi contro l’inquinamento mentre molti produttori di elettricità stanno già modernizzando i loro impianti ed eliminando le centrali a carbone, soprattutto quelle più obsolete. E diversi grandi gruppi come General Motors, Wal-Mart e Ups stanno facendo scelte energetiche compatibili con quelle del piano del governo» . 34 Tutto molto ragionevole, in apparenza, ma questo non impedisce al senatore repubblicano Marco Rubio di definire il «Clean Power Plan» della Casa Bianca «irresponsabile ed eccessivo», mentre per il governatore del Wisconsin, Scott Walker, anche lui a caccia della nomination repubblicana, quello di Obama è un intervento che costerà agli americani molti posti di lavoro e un aumento del costo dell’elettricità. «La vostra bolletta salirà di 30 dollari al mese, una catastrofe», si azzarda a prevedere Marco Rubio, mentre secondo un altro senatore della destra radicale, il texano Ted Cruz, i conti della manovra energetica di Obama non tornano. Solo Jeb Bush, pur bocciando Obama, mostra un atteggiamento più pacato nei confronti del piano. Che non convince anche molti esperti ed osservatori indipendenti, ma per motivi opposti rispetto agli argomenti dei repubblicani: per le organizzazioni ambientaliste, che pure sostengono il piano, quello di Obama è un passo avanti che non basta ad arrestare il degrado dell’atmosfera. Alcuni esperti notano, poi, che gli obiettivi fissati dal piano al traguardo del 2030 (meno 32% di gas-serra rispetto al 2005) sono già stati conseguiti per oltre metà. Grazie alla nostra azione, sostiene Obama che cita gli incentivi governativi che hanno moltiplicato la produzione di energia solare ed eolica e le norme che obbligano le case automobilistiche a produrre veicoli che consumano meno. Grazie al mercato replicano gli analisti che attribuiscono i progressi soprattutto allo sfruttamento dello shale gas, molto meno inquinante del carbone, e ai mutamenti dell’economia, con molte produzioni industriali inquinanti trasferite all’estero . Massimo Gaggi Del 4/08/2015, pag. 1-29 L’ultima eredità contro le lobby MAURIZIO RICCI IL VERO salto di qualità Obama e la politica americana sul clima lo avevano già compiuto nel novembre scorso, quando Stati Uniti e Cina avevano preso insieme un solenne impegno a contrastare con misure concrete il riscaldamento globale. Erano i due Paesi che producono la maggior quantità dell’anidride carbonica che alimenta l’effetto serra. Erano entrambi nel 2009 alla tormentata conferenza mondiale di Copenhagen. E IN quell’occasione, di fatto, avevano svuotato la possibilità di un accordo globale che rinnovasse gli impegni di tutti per contrastare il cambiamento climatico. Ora, insieme, formulavano un impegno che, poi, nei mesi scorsi, hanno provveduto a quantificare nel dettaglio. Molti critici ritengono quegli impegni insufficienti. Ma hanno spianato la strada ad un accordo nella nuova conferenza globale che si terrà, a dicembre, a Parigi. Quantificato l’impegno, ieri Obama ha precisato gli strumenti con cui intende rispettarlo. Al di là di qualche aggiustamento su date e scadenze, le misure sono, più o meno, quelle attese: una spinta decisa alle rinnovabili, soprattutto sole e vento, una porta aperta al nucleare (che buona parte d’Europa non apprezzerà, ma che in America, dove le centrali atomiche sono comuni, era inevitabile), un freno ai combustibili fossili e, in particolare, al carbone, con forme che lasciano intravedere un mercato delle emissioni, simile a quello già esistente in Europa. Ma il messaggio politico che le accompagna è nuovo nella sua precisione, nella sua insistenza e nella sua forza. Obama sa che incontrerà resistenze e opposizioni durissime, al Congresso, nei parlamenti statali, nel Paese. Probabilmente, l’opinione pubblica, in maggioranza, è con lui, ha capito, dopo i disastri degli uragani come Katrina e Sandy, davanti alla drammatica siccità che piega la California, di fronte anche a prese di posizione, come l’enciclica di papa Francesco, i rischi del cambiamento climatico, 35 ma, negli Stati Uniti, la maggioranza dell’opinione pubblica non va necessariamente a votare. Al contrario, si mobiliteranno lobby potenti. L’esperienza dice che chi ha più soldi da spendere nella campagna elettorale, ha più possibilità di vincere le elezioni. E, adesso, il New York Times ha rivelato in questi giorni che poco più di 400 persone, in America, hanno fornito metà dei finanziamenti giunti finora ai candidati delle prossime presidenziali. Ben pochi, fra queste 400 persone, condividono l’entusiasmo di Obama per la lotta all’effetto serra. In questo senso, il presidente consegna a Hillary — o a chi sarà il candidato democratico — un frutto avvelenato che chi spera di succedergli dovrà essere assai abile a gestire. Ma, non avendo più nulla da chiedere agli elettori, Obama se lo può permettere. Come (quasi) tutti i presidenti al secondo mandato, Obama si preoccupa dell’eredità politica che lascia. Nei primi quattro anni ha regalato all’America una riforma sanitaria che sembrava irraggiungibile e che, invece, ha superato sia la prova dei fatti, che quella dei giudici. Ora, punta a fare del clima un’altra sua eredità e questa scelta è, da sola, un potente messaggio politico. Ma, facendo cosa sua la battaglia in America sul clima, Obama finisce inevitabilmente per fare cosa sua anche la battaglia mondiale e la conferenza di Parigi. Anche nella scelta delle parole che hanno accompagnato, ieri, l’annuncio delle misure decise dalla Casa Bianca emerge questa volontà di assumere la leadership delle iniziative mondiali. Il successo della conferenza di Parigi sarà il successo o l’insuccesso storico di Obama. Non era scontato: la posta in gioco a dicembre si alza. 36 INFORMAZIONE Del 4/08/2015, pag. 6 Battaglia sui nomi per la Rai, oggi si vota Campo Dall’Orto verso la poltrona di dg Salgono le quotazioni di Bernabè per la presidenza. I Cinque Stelle puntano su Freccero in cda ROMA L’unico punto fermo riguarda la casella più importante. Salvo sorprese dell’ultima ora — sempre possibili, come insegna la storia di quel romanzo d’appendice chiamato nomine Rai — sulla poltrona di direttore generale della televisione pubblica dovrebbe sedersi Antonio Campo Dall’Orto, fondatore di Mtv. Tutti gli altri nomi — a poche ore dalla prima seduta della Vigilanza chiamata a votare il nuovo consiglio d’amministrazione — continuano a ballare. Anche se per la presidenza viene dato in crescita il nome di Franco Bernabè. Alcuni punti fermi ci sono, però. Il Movimento 5 Stelle ha sciolto la riserva e, dopo aver preso la guida della stessa commissione di Vigilanza, ha deciso di entrare anche nella stanza dei bottoni di Viale Mazzini. La loro lista comprende cinque persone, fino a ieri sera c’era ancora Milena Gabanelli (che ha declinato). Al primo posto, e con grande distacco sugli inseguitori, c’è l’ex direttore di Rai2 e autore televisivo Carlo Freccero. A seguire ci sono Stefano Rodotà, che sembrava scartato ma nelle ultime ore ha recuperato quota, il giornalista Riccardo Iacona e l’ex parlamentare per l’Italia dei valori Elio Lannutti, ora alla guida dell’associazione dei consumatori Adusbef. Forza Italia ha ripetuto il suo no all’ipotesi di Luisa Todini, che era già stata nel cda in quota azzurra ma adesso viene considerata vicina a Matteo Renzi. Il partito è orientato a sostenere Arturo Diaconale, giornalista, presidente del Parco nazionale del Gran Sasso. Ma non è da escludere la conferma di Antonio Pilati. La galassia centrista potrebbe concentrare i suoi sforzi su Paolo Ruffini, l’ex direttore di Raitre che adesso guida Tv2000, la televisione della Cei, la Conferenza episcopale italiana. Per il Partito democratico continuano a girare diverse ipotesi. Come candidati graditi alla minoranza, è in rialzo il nome di Stefano Balassone, tra gli esperti consultati per la riforma del servizio pubblico. Ma resta in lizza anche quello di Sara Bentivegna, professoressa di Comunicazione politica all’Università La Sapienza di Roma. Sempre in quota pd nelle ultime ore si sono rafforzati due nomi che sarebbero due ritorni. Il primo è quello di Nino Rizzo Nervo, che conosce bene il mondo Rai sia come giornalista sia come componente del consiglio d’amministrazione. E che potrebbe avere anche il ruolo di consigliere anziano, cioè guidare il cda fino all’elezione formale del suo nuovo presidente. Il secondo ritorno sarebbe quello di Giorgio Van Straten, anche lui già nel cda tra il 2009 e il 2012 e da sempre considerato molto vicino a Walter Veltroni. Ha appena cominciato il suo incarico di direttore dell’Istituto di cultura italiano di New York ma questo non sarebbe considerato un impedimento. La riunione di ieri sera del Pd non ha consentito di chiudere il cerchio. Ma ha dovuto prendere atto del fatto che forse non sarà possibile garantire la parità di genere, cioè lo stesso numero di uomini e donne nel consiglio. Restano ancora in lizza tutte le ipotesi circolate negli ultimi giorni, da Giovanni Minoli a Marcello Sorgi fino a Giulio Anselmi. Tra autocandidature e nomi messi in circolo solo per essere bruciati la lista dei papabili, scherzano in queste ore a Viale Mazzini, coincide più o meno con l’elenco del telefono di Roma. Ieri sera è anche circolata una lista di undici persone, tutti uomini, che salvo poche eccezioni non sembra avere molte probabilità di 37 successo. Nell’elenco ci sono Roberto Amen, giornalista Rai, Sebastiano Roccaro, direttore dell’Istituto superiore di giornalismo della Sicilia, e altri ancora come Leonardo Bianchi, Dario Galli e Giovanni Galoppi, oltre ai più noti Freccero e Minoli. Le uniche vere certezze arrivano da chi si chiama ufficialmente fuori: come Marco Follini, Andrea Purgatori. Come anche Bruno Vespa, che alla presidenza aveva già detto no nel 2001. Lorenzo Salvia del 04/08/15, pag. 7 L’agenda. Il rinnovo del «servizio pubblico» entro il 6 maggio 2016 per dieci anni Fra i primi nodi i poteri dei vertici e la concessione in scadenza Saranno tre anni molto intensi per il nuovo vertice Rai. Che dovrà adeguare strategie e politiche non solo rispetto ai cambiamenti in atto nel mercato digitale, che incidono sia sull’offerta sia sulla domanda di televisione. Tra qualche mese, se e quando il disegno di legge approvato la scorsa settimana al Senato diverrà legge, cambierà l’equilibrio dei poteri interni al vertice. Dalla prossima settimana, a vertice completato, forse già da venerdì, il direttore generale - con ogni probabilità Antonio Campo Dall’Orto - avrà, per nominare i dirigenti di primo e secondo livello, compresi i direttori di rete, newsroom e testate, oltre che i vicedirettori generali, solo un potere di proposta. Sarà il Cda a dover approvare o meno le sue proposte. Da quando sarà approvata la nuova legge, invece, le nomine diverranno competenza del direttore generale, che avrà le funzioni dell’amministratore delegato definite dalla nuova legge. Il direttore generale dovrà sentire obbligatoriamente il Cda solo per quelle editoriali. Non è un parere vincolante, tranne che per i direttori di testata se espresso dai due terzi dei nove consiglieri (se la legge non sarà modificata alla Camera). Riuscirà il nuovo vertice Rai ad avere continuità di azione con questa modifica, in corso d’opera, delle fonti di nomina e, in ultima istanza, dei poteri interni? Non avrà senso, ad esempio, che il Cda, in base allo statuto aziendale, rilasci una delega al presidente, come quella ricevuta da Anna Maria Tarantola, che permette di nominare i dirigenti, esclusi quelli editoriali e siglare i contratti oltre i 2,5 milioni. Tali competenze, infatti, passeranno al direttore generale (per i contratti sino a 10 milioni) al momento dell’approvazione della nuova legge. Un altro “passaggio a Nord Ovest” importante sarà la scadenza della concessione di servizio pubblico alla Rai, che andrà rinnovata entro il 6 maggio 2016, per dieci anni. Le emittenti televisive locali ambiscono, non da oggi, a ricevere una quota del canone, mentre sembra uscita dall’orizzonte del governo un’assegnazione o una gara per il servizio pubblico tra diversi soggetti. Lì, però, il vertice avrà il suo vero mandato e saprà se l’azienda pubblica manterrà l’attuale perimetro editoriale e occupazionale. Decisivo, per il futuro della Rai, sarà la decisione sulle fonti finanziarie, a cominciare dalla riforma del canone. La relativa delega al Governo è stata bocciata al Senato. Matteo Renzi non ha escluso di poter intervenire con la legge di Stabilità. Da due anni il canone è fermo a 113,50 euro e la Rai ha ricevuto 150 milioni in meno nel 2014 su quanto riversato dal Tesoro e riceverà 80 milioni in meno dal 2015 in poi. L’esercizio 2015 non presenta difficoltà insormontabili, ma quello 2016, il primo interamente sotto la responsabilità del nuovo vertice, rischia di avere delle criticità: le Olimpiadi sono state già acquisite ma la Rai deve ancora acquistare gli Europei di Calcio. Una perdita sui 150 milioni potrebbe essere 38 una chiusura “accettabile” (a parte eventuali introiti straordinari, come quelli di RaiWay sul bilancio 2014 o di tagli sui costi). La pubblicità è stabile, ma non sembra promettere incrementi significativi. Un problema è costituito dalla debolezza del magazzino diritti cinema, soprattutto per Rai2 e Rai3 (Rai1 ha quasi tutta la fiction). Al contrario del passato, la Rai oggi sfrutta, con i canali digitali, al 100% i diritti acquisiti, che cominciano a scarseggiare. La riduzione di questi canali, però, oltre a mettere a rischio un 6-7% di audience (quando arrivano pericolosi concorrenti, come Sky e Discovery ai numeri 8 e 9 del telecomando), non permette di ammortizzare e valorizzare il costo dei diritti, quindi ne indebolirebbe l’acquisto. La partita dei grandi eventi, per la Rai, è spesso a perdere: i loro costi sono più elevati degli introiti supplementari che garantiscono. Torniamo ai cambiamenti di sistema: ad ottobre arriva Netflix, con la sua offerta di film e serie a basso prezzo (sette-otto euro al mese nei principali mercati europei), la Prime Tv di Amazon scalda i motori, Mediaset, in un comunicato stampa, si è definita a sua volta una società Ott (over-the-top) che diffonde i contenuti su tutte le piattaforme, Internet incluso. Il mercato è ancora nazionale, ma sempre più condizionato dall’estero: uno dei compiti che il Governo intende assegnare alla Rai, come ha già scritto nel documento che ha “accompagnato” il disegno di legge sulla governance, è quella di riconquistare posizioni sui mercati europei e mondiali con prodotti nazionali,a partire dalla fiction. Vi sarà anche da gestire, in questi tre anni, l’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali, dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di televisori e decoder. La nuova qualità dell’immagine costringerà la Rai e gli altri broadcaster a rivedere formati e linguaggi. L’informazione, ad esempio, avrà a disposizione i dettagli di una singola immagine. La fiction dovrà adottare “campi” più cinematografici. Marco Mele 39 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI Del 4/08/2015, pag. 11 «Più controlli, tolleranza zero Chiuderemo tutti i locali che non rispettano la legge» Il ministro: ci si può divertire fino all’alba senza droga e alcol ROMA Ministro Angelino Alfano, lei crede davvero che chiudere le discoteche serva a fermare lo spaccio di stupefacenti? «Non si tratta di risolvere il problema dello spaccio, ma di impedire che i locali notturni diventino vere e proprie centrali per l’approvvigionamento di sostanze proibite». Dunque conferma la linea dura? «Continueremo a prendere provvedimenti severi in materia di prevenzione e repressione, ma su un punto voglio essere chiaro: non esiste linea dura contro le discoteche, ma contro la vendita e la cessione di droga nelle discoteche. Fino a che i locali rimangono luoghi di divertimento, i gestori possono contare sulla collaborazione delle forze dell’ordine. Ma contro lo sballo che uccide adotteremo la tolleranza zero. Non possiamo rimanere a guardare i ragazzi distruggersi il cervello e rischiare la vita. Se non addirittura perderla». Vuol dire che disporrete la chiusura di altri locali? «Agiremo contro coloro che non rispettano la legge». Il provvedimento di sequestro del Cocoricò è scattato dopo la morte di Lamberto Lucaccioni, un giovane di appena 16 anni. Non si poteva intervenire prima? «Questa sarà materia di ricorso». Lei parla di prevenzione. Che cosa state facendo? «Io ritengo che i controlli a tappeto nei locali dove più alto è il rischio di spaccio siano la strategia più efficace. Sono le questure a decidere le modalità operative. Ho emanato direttive affinché vengano effettuati il maggior numero di interventi per verificare le condizioni dei conducenti. Se vogliamo ottenere risultati, abbiamo bisogno della collaborazione di tutti». A chi si sta rivolgendo? «Ai cittadini, soprattutto ai genitori. Il numero verde attivato per le segnalazioni relative alle scuole ha avuto un successo inaspettato. Contiamo di poter raggiungere lo stesso obiettivo in questo settore». I gestori del Cocoricò lamentano un danno di oltre due milioni di euro causati dalla chiusura di quattro mesi. «Voglio essere chiaro nei confronti di chi fa impresa nel settore dell’intrattenimento: noi puntiamo alla collaborazione con loro perché riteniamo che la prevenzione aiuti il loro business. Credo che di fronte alla morte di un giovane di 16 anni per droga in una discoteca, oltre alla perdita per il Paese ci sia un grave danno proprio per l’immagine di chi gestisce i locali». Dicono che la sanzione è troppo severa. «Abbiamo il dovere di seguire la linea dura». Anche Matteo Salvini fa questo commento. «Non mi dica così altrimenti mi chiedo dove ho sbagliato». Sui social network si è scatenata la polemica. Molti dicono che allora dovreste chiudere le autostrade per prevenire gli incidenti stradali oppure gli stadi per fermare la violenza. Che cosa risponde? 40 «Quella delle strade mi sembra una boutade , per quanto riguarda gli stadi vorrei ricordare che di fronte a episodi di violenza imponiamo le “porte chiuse” oppure il divieto di trasferta». Ma in discoteca non si rischia di arrivare al proibizionismo? «Esattamente il contrario: lo spaccio in Italia è fuorilegge. Non possiamo consentire che ci siano zone franche. Noi siamo interessati a mantenere gli spazi del divertimento e dello sport bilanciando le misure da adottare con meno invasività possibile. Ma al centro della nostra attenzione c’è la vita delle persone». I gestori del Cocoricò dicono di aver avuto la stessa preoccupazione. Non ci crede? «Voglio dirlo con grande chiarezza: c’è una dimensione ancor più insopportabile che è quella riguardante i minorenni. Non possiamo consentire di lasciare aperti luoghi in cui a drogarsi e ubriacarsi siano ragazzini che hanno meno di 18 anni». Che cosa risponde a chi dice che chiudendo i locali i giovani continueranno a sballarsi altrove? «Per ogni mondo in cui si annida la criminalità noi facciamo misure adeguate. Non ci interessa generalizzare. Le leggi sono uguali per tutti, le misure e gli strumenti si differenziano in base ai settori di intervento. In materia di prevenzione devono essere modulati in maniera da essere efficaci». I gestori del Cocoricò propongono il Daspo per spacciatori e consumatori abituali. «Non mi sembra una cattiva idea, terrò conto di questo suggerimento all’interno del disegno di legge sulla sicurezza urbana. In ogni caso voglio ribadire che il provvedimento di chiusura ha una natura amministrativa, non ha intento punitivo contro il proprietario o l’impresa di gestione». Però loro lamentano la perdita del posto di lavoro per circa 200 persone. «Messa così sembra un derby tra l’applicazione della legge e i livelli occupazionali. Il questore di Rimini era tenuto ad applicare le leggi e lo ha fatto in maniera egregia dopo aver approfondito ogni aspetto della vicenda». Annunciano ricorso al Tar. Questo vi preoccupa? «No, anzi conferma che si tratta di una sanzione amministrativa. I giudici valutino serenamente e noi prenderemo atto della loro decisione». Alcuni esponenti del suo partito l’Ncd si sono mostrati in disaccordo con il provvedimento. Era una critica a lei? «Chi rappresenta istanze del territorio è particolarmente attento alla esigenze occupazionali e imprenditoriali. Noi pensiamo di salvaguardare l’impresa dell’intrattenimento tenendo lontano pusher e droga e riaffermando che ci si può divertire fino all’alba anche senza impasticcarsi o ubriacarsi di superalcolici» . [email protected] 41