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RASSEGNA STAMPA
martedì 4 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
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L’ARCI SUI MEDIA
del 04/08/15, pag. 7
Rai, duello in Vigilanza sul nuovo cda
Marco Mele
ROMA
Antonio Campo Dall’Orto è in pole position diventare il nuovo direttore generale della Rai
mentre continua la trattativa sul presidente. La commissione di Vigilanza, oggi alle 14,
dovrà nominare, con voto limitato ad uno, sette dei nove consiglieri previsti dalla legge
Gasparri. I sette più votati dai 40 componenti della commissione bicamerale saranno i
nuovi consiglieri Rai. Bisognerà stare attenti ad eventuali pareggi (a quota quattro o cinque
voti) tra due o più candidati. Un’altra votazione della Vigilanza, nel giorno in cui la Camera
deve votare la fiducia, potrebbe far slittare i tempi dettati dal Governo, imperniati
sull’assemblea dei soci Rai, convocata mercoledì per comunicare il nome del nuovo
presidente, del consigliere nominato direttamente dall’azionista – quello che fa
maggioranza in cda – e, forse, anche del nuovo direttore generale.
In commissione di Vigilanza, intanto, è stata effettuata l’operazione di riequilibrio della
rappresentanza dei gruppi parlamentari. Hanno rinunciato a un commissario Forza Italia e
il Movimento Cinque Stelle, che scendono a sei e a cinque commissari, a favore di Gal e
dei Riformatori di Fitto. Aumenta quindi la frammentazione della Vigilanza: i gruppi
rappresentati da un solo commissario (Sel, Scelta Civica, Autonomie, Gal, Ala, Per l’Italia,
Misto. Fratelli d’Italia, Misto-Liguria e Lega Nord) dovranno convergere su candidati con
possibilità di successo.
Diverse personalità, intanto, si “sfilano” dalla corsa al vertice Rai, dichiarando di non
essere interessate: dopo Andrea Scrosati, di Sky, dopo il presidente dell’Enel, Patrizia
Grieco, dopo Franco Bassanini, ieri è stata la volta di Marinella Soldi, che dichiarato
l’intenzione di restare al vertice di Discovery Italia.
Campo Dall’Orto è manager televisivo e anche uomo di prodotto: questo fa ritenere che il
presidente debba avere requisiti diversi dai suoi. Questo porta da una parte molti a
individuare un giornalista autorevole e riconosciuto come al di sopra delle parti o
comunque una figura istituzionale, da Marcello Sorgi a Giulio Anselmi e Stefano Folli.
Dall’altra, c’è chi insiste sulla scelta di un tandem donna-uomo tra presidente e direttore
generale. Allora, in buona posizione c’è Antonella Mansi, presidente uscente della
Fondazione Monte Paschi di Siena e vicepresidente di Confindustria. Ma potrebbe
riemergere il nome di Luisa Todini.
Sul nome del presidente dovrà pronunciarsi la Vigilanza (prevista per giovedì ma si parla
anche di mercoledì sera) con una maggioranza di due terzi, quindi 27 voti su 40. Il Pd ne
ha sedici, quindi, visto che i Cinquestelle si sono tirati fuori da ogni intesa, sul presidente
dovranno convergere almeno i voti di Forza Italia e di altri singoli commissari. Tra i
consiglieri che saranno votati oggi dalla Vigilanza Carlo Freccero dovrebbe essere votato
dai Cinquestelle e da Sel. Tra i Pd ci sarà almeno una donna, forse Sara Bentivegna,
docente alla Sapienza. Crescono le quote di Stefano Balassone, grande esperienza di
televisione e di Rai.
Fuori dal Parlamento, diverse associazioni, dall’Arci a Legambiente, da MoveOn Italia a
Net Left, dall’Associazione Stampa Romana a Libertà e Giustizia, denunciano un
«passaggio frettoloso, a riforma incompiuta, senza pubblicità e trasparenza nei curricula
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dei candidati (previsti dalla riforma votata al Senato), escludendo dal processo riformatore
le parti sociali e i cittadini, che pagando il canone sono i veri azionisti della Rai».
Da Repubblica.it del 03/08/15 (Firenze)
Gara di solidarietà per salvare il piccolo
Diego
Raccolta di fondi per aiutare la famiglia del bambino di 3 anni volato
negli Stati Uniti per curarsi. E' colpito da una malattia neurologica
progressiva
di FEDERICO NOCENTINI
E' volato negli Stati Uniti con la sua famiglia, per giocare la partita più importante. Diego è
un bambino di 3 anni e mezzo, residente nel Comune unico di Castelfranco-Pian di Sco, in
provincia di Arezzo, colpito dalla sindrome di Leigh. Si tratta di una malattia neurologica
progressiva che interessa il sistema nervoso centrale, in particolare il tronco cerebrale e il
cervelletto. La malattia è causata dal cattivo funzionamento del metabolismo. In genere, si
manifesta in bambini di età compresa tra tre mesi e due anni, ma può insorgere anche più
tardi. I bambini colpiti presentano un progressivo ritardo dello sviluppo psicomotorio e
sintomi come la perdita di appetito, vomito, epilessia ed altri disturbi che, causano anche
difficoltà respiratorie e per i reni. Purtroppo per il momento non ci sono cure per guarire
completamente da questa malattia. Il miglioramento del piccolo consiste nel bloccare
l'avanzamento della malattia attraverso una cura sperimentale a base di un farmaco
somministrato per via orale, come spiegato Ilaria, la mamma di Diego, prima di partire per
questo lungo viaggio che lo terrà lontano da casa almeno per sei mesi.
Per aiutare il bambino e la famiglia nelle spese della cura e del soggiorno è partito un tamtam di solidarietà, un abbraccio ideale che dal Valdarno ha raggiunto i comuni della Città
metropolitana. In questi mesi sono state organizzate cene di finanziamento per Diego
nella frazione di Faella, a Castelfranco-Pian di Sco e i dipendenti del Comune hanno
raccolto soldi per la famiglia. Cene molto partecipate si sono svolte a Scandicci alle
"Bagnese" e a Sant'Angelo a Lecore durante la manifestazione "Giovedìamoci" promossa
dal circolo Sms.
E la corsa per Diego continua venerdì 7 agosto dalle 19 in poi a Donnini, frazione di
Reggello: il Circolo Arci Dario Renzi e la Pro-Loco del paese raccoglieranno soldi per le
cure al "Donnini Summer Festival" con serata musicale condotta dal dj Alex Tamburini
accompagnato dalla vocalist Medusa. Per saperne di più sul piccolo Diego si può
consultare il blog internet, all'indirizzo tuttiperdiego.org
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/08/03/news/gara_di_solidarieta_per_salvare_il_pi
ccolo_diego-120374554/
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ESTERI
del 04/08/15, pag. 6
Erdogan contro il Pkk, che reagisce Akp
divisa sul nuovo governo
Turchia. Obama: in Siria in difesa dei nostri ribelli
Giuseppe Acconcia
Barack Obama ha autorizzato attacchi aerei per difendere i ribelli siriani armati e
addestrati da Washington «sia se colpiti dall’esercito di Damasco sia dall’Isis». La
decisione potrebbe rafforzare il ruolo Usa nella guerra civile siriana. Lo scorso venerdì un
gruppo di ribelli, appoggiati dagli Usa, sono stati attaccati innescando il primo raid
statunitense in loro difesa.
Fin qui il Pentagono aveva escluso che il regime di al-Assad potesse attaccare i ribelli
direttamente sostenuti da Washington. Come se non bastasse, per l’agenzia di
monitoraggio indipendente Airwars, solo nei raid della coalizione internazionale (57 in Siria
e in Iraq) contro lo Stato islamico, sarebbero stati uccisi 459 civili che nulla avevano a che
fare con il conflitto.
La scorsa domenica, un velivolo dell’aviazione governativa è precipitato su un mercato
nella città nord-occidentale di Ariha, uccidendo 27 persone. La città, ora nelle mani dei
ribelli di Jaish al-Fateh, era una delle ultime roccaforti del governo nella provincia di
Idlib,conquistata dai jihadisti. I miliziani qaedisti di Jabat el-Nusra hanno rivendicato
l’attacco al velivolo.
Sul fronte turco-siriano, non si fermano gli attacchi a Pkk e Hdp, la formazione di sinistra
che ha avuto un insperato successo elettorale lo scorso 7 giugno entrando per la prima
volta in parlamento.
Dopo nove giorni di bombardamenti, due soldati turchi sono stati feriti in un’esplosione a
Diyarbakir. Dell’attacco è responsabile il partito di Ocalan. Poco prima i combattenti del
gruppo avevano attaccato la polizia turca a Sirnak. La strada che conduce alle province
orientali di Tunceli e Erzincan è stata chiusa. Intorno a Tunceli, Hozat, Mazgirt, Agri e
Nazimiye 14 aree sono state dichiarate zone militari, dopo l’uccisione di due soldati e il
ferimento di 30 in un attacco del Pkk della scorsa domenica.
Non solo, i quattro giudici che a gennaio avevano ordinato di fermare e perquisire i camion
dell’intelligence sul confine tra Turchia e Siria sono stati arrestati con l’accusa di tentare di
rovesciare il governo. Il tentativo dei giudici era di smascherare le politiche governative
che hanno favorito i jihadisti dello Stato islamico diretti in Siria o di ritorno in Turchia.
Questo episodio è l’ennesimo tentativo di far fallire i colloqui per la formazione di un
esecutivo di coalizione tra gli islamisti moderati di Akp e i kemalisti (Chp) di Kilicdaroglu. Il
politico ha accusato Erdogan di bloccare gli sforzi per la formazione di un governo AkpChp. Invece, secondo il leader kemalista, il premier in pectore Ahmet Davutoglu vorrebbe
davvero arrivare ad un accordo politico ma viene frenato dal presidente turco. Se entro
pochi giorni le divisioni politiche non dovessero essere superate si andrà ad elezioni
anticipate. Il rischio è un aumento dei consensi per Erdogan che ha puntato sul richiamo al
nazionalismo turco per accrescere i voti di Akp.
Ieri era il primo anniversario del grave genocidio contro i kurdi yazidi che hanno tentato di
fuggire dall’avanzata dell’Isis su Singal del 3 agosto 2014. Senza aiuto ternazionale,
vennero messi al riparo nelle montagne dai combattenti del Pkk, ora sotto attacco delle
autorità turche. Migliaia di giovani ragazze vennero rapite e vendute, alcune hanno
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preferito il suicidio. Da quel giorno nacquero le Unità di resistenza di Singal (Ybs) e si
rafforzò la lotta delle Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj) nel Kurdistan
siriano (Rojava). Il leader del governo autonomo del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani,
che ha fin qui mantenuto un atteggiamento ambiguo sui continui attacchi turchi contro Pkk
a Qandil, ha promesso che «chiunque coinvolto in questi crimini non sfuggirà alla giustizia
e alla punizione».
Anche sul fronte Iran sembra che la causa kurda stia guadagnando nuovo spazio. Il
ministero della Scienza ha dato il via libera all’apertura di un dipartimento di Lingua e
letteratura kurda nell’Università del Kurdistan. Sarà il primo programma universitario in
kurdo permesso dalla nascita della Repubblica islamica.
del 04/08/15, pag. 7
E Netanyahu ora scopre “il terrorismo
ebraico”
Israele/Territori Occupati. Il governo amico dei coloni sarebbe preso di
mira dai più estremisti che vorrebbero rovesciarlo, dicono i servizi di
sicurezza. Ma lo scetticismo è forte verso la "linea dura" annunciata
domenica dal primo ministro nei confronti degli ultranazionalisti
israeliani. L'Anp di Abu Mazen annuncia ricorso a Onu e Corte penale
internazionale
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Nei giorni scorsi il governo Netanyahu è stato contestato ai raduni di protesta contro i
coloni ebrei che hanno ucciso il piccolo Ali Dawabsha a Kfar Douma. Ed è stato criticato
anche alla commemorazione a Gerusalemme di Shira Banky, la 16enne accoltellata a
morte la scorsa settimana da un religioso ebreo durante la Gay Parade. Eppure l’esecutivo
di destra israeliano, aperto sostenitore della colonizzazione dei Territori palestinesi
occupati, figura ora tra le “vittime” di quanto è avvenuto negli ultimi cinque giorni. Secondo
i servizi di sicurezza israeliani (Shin Bet), gli attivisti del gruppo ebraico “Price Tag”
(Prezzo da pagare), intenderebbero rovesciare l’esecutivo, al fine di stabilire un nuovo
regime basato solo sulla legge ebraica. Anche per questa ragione Netanyahu domenica
ha deciso un atto di forza, annunciando che contro gli estremisti ebrei potrebbe essere
usata la “detenzione amministrativa”, una misura preventiva impiegata sino ad oggi contro
i palestinesi e che prevede il carcere senza processo.
I dubbi sulla serietà del provvedimento non mancano. «Voi credete che Bibi (Netanyahu)
demolirà le case delle famiglie delle persone che hanno compiuto l’attacco a Kfar Douma?
Andranno a richiedere i campioni del Dna di tutti i maschi della colonia (da cui provengono
gli assassini) come fanno con i palestinesi?», ha commentato con ironia il deputato arabo
israeliano Ahmed Tibi. Peraltro non si capisce come poche centinaia di fanatici – perchè
questo sarebbe il numero delle “mele marce” – potrebbero rovesciare il governo e
realizzare un colpo di stato. Infine, particolare non secondario, si sa da anni che una
corrente degli ultranazionalisti religiosi che popolano le colonie vagheggia l’instaurazione
di un Regno di Israele, fondato solo sulla legge ebraica.
Si vedrà cosa accadrà sul terreno. Al momento, riferisce l’associazione israeliana per i
diritti umani Yesh Din, è noto che appena l’1,9% delle denunce dei palestinesi contro gli
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attacchi dei coloni si è tramutato in rinvii a giudizio e in condanne. Senza dimenticare che
in questi giorni sul web si sono moltiplicate le proteste degli israeliani che contestano la
linea “dura” del governo verso la destra estrema e le correnti più oltranziste del movimento
dei coloni. Il capo dello stato Reuven Rivlin si è rivolto alla polizia affinchè indaghi sulle
minacce di morte espresse nei suoi confronti su Facebook dopo che aveva parlato di
«terrorismo ebraico», commentando l’uccisione di Ali Dawabsha e l’attacco al Gay Pride.
«Traditore puzzolente — ha scritto qualcuno — Farai una fine peggiore di Ariel Sharon
(rimasto in coma per anni a causa di un ictus, ndr)». Un altro si è augurato che emerga
presto un nuovo Yigal Amir, il responsabile dell’assassinio venti anni fa del premier
laburista Yitzhak Rabin. E che nulla sia cambiato da allora lo dice proprio la figlia di Rabin.
«Vedere sul web l’immagine di Rivlin con una kefiah araba mi ha rivoltato lo
stomaco…attenzione le parole possono uccidere», ha avvertito Dalia Rabin ai microfoni
della radio militare, ricordando il clima di odio e le accuse di tradimento rivolte al padre che
aveva osato restituire ai palestinesi piccole porzioni di Cisgiordania. Un’atmosfera alla
quale contribuì in qualche modo anche il capo dell’opposizione di destra, oggi primo
ministro, Benyamin Netanyahu. Tanto che la famiglia di Rabin si rifiutò di accettare le sue
condoglianze.
Comunque sia le rivelazioni sul “complotto” contro il governo fatte dai servizi segreti hanno
contribuito ad allentare le pressioni sul governo e a mettere il premier Netanyahu sotto una
luce più positiva, quindi in grado di contrastare l’Autorità nazionale palestinese e la
Giordania d’accordo ad inviare il testo di una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza
dell’Onu che chieda protezione internazionale per i civili sotto occupazione militare.
L’ambasciatore palestinese in Giordania, Atallah Khairi, ha spiegato al quotidiano al Ghad
che la mossa è una risposta al rogo doloso della casa di Kfar Douma in cui è morto Ali
Dawasba. Secondo i dati dell’Onu dall’inizio del 2015 sono stati almeno 120 gli attacchi dei
coloni israeliani contro i palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. L’Anp inoltre
starebbe riconsiderando gli accordi economici, amministrativi e di sicurezza con Israele, in
linea con una risoluzione approvata nei mesi scorsi dal Consiglio centrale palestinese ma
mai attuata dal presidente Abu Mazen. Infine si è appreso che il ministro degli esteri
dell’Anp Riyad al Malki è partito per Ginevra dove richiederà al Consiglio dei Diritti Umani
delle Nazioni Unite l’attuazione nei Territori palestinesi della Quarta Convenzione di
Ginevra che, adottata nel 1949, tutela i civili durante i conflitti armati e le occupazioni
militari.
Del 4/08/2015, pag. 6
La Borsa riapre dopo 35 giorni di stop forzato
e affonda del 16 per cento
È il peggior tracollo dal 1987.Maglia nera alla National Bank:-30%. Passi
avanti nelle trattative con la Troika, ma l’intesa è lontana e si studia un
nuovo prestito ponte
Riapertura con il botto (in negativo) per la Borsa di Atene. Il listino azionario ellenico ha
ripreso ieri le contrattazioni dopo cinque settimane di chiusura e - come prevedibile - è
finito subito ko. L’indice ha aperto in calo del 20% malgrado i limiti alle vendite imposti per
evitare un tracollo. Pochi minuti dopo l’inizio delle contrattazioni è arrivato a bruciare quasi
un quarto del suo valore prima di recuperare un po’ nel finale chiudendo con un ribasso
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del 16%, il peggior risultato dal 1987. La maglia nera di giornata è andata alle banche con
la National Bank of Greece in rosso del 30%, il limite massimo d’oscillazione consentito
dalle autorità di mercato. Dal 2008, l’anno in cui è iniziata la crisi, il mercato greco ha
perso l’85%. Il crollo era in parte annunciato. La Borsa aveva chiuso i battenti il 29 giugno,
il giorno in cui Atene era stata costretta a imporre durissimi controlli sui capitali per
arginare la fuga di liquidità dai conti correnti. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti:
c’è stato il referendum, è arrivato il compromesso con l’ex Troika che ha consentito di
evitare il default e di avviare i negoziati per un nuovo piano di aiuti da 86 miliardi.
L’economia però nel frattempo è andata a picco e le banche, che contano per buona parte
della capitalizzazione di listino, sono il settore messo peggio tanto che il piano di aiuti dei
creditori prevede per loro una ricapitalizzazione da 25 miliardi circa per evitare il crac. Tutti
fattori che hanno inciso sulla débacle di ieri e che ben difficilmente lasciano sperare in un
rialzo in tempi brevi. I dati economici, in effetti, continuano a confermare che il barometro
greco è sul brutto tempo fisso: l’attività del comparto manifatturiero - che conta circa per il
10% del Pil - è crollata ai livelli minimi degli ultimi 16 anni, prima che il paese entrasse
nell’euro. I controlli di capitale hanno mandato a picco anche l’indice di fiducia delle
imprese scivolato dal 90,7 a 81,3, valori che non si vedevano dai momenti difficilissimi del
2012. Solo un anno fa lo stesso indicatore viaggiava a quota 102.
Il rischio di Grexit, insomma, è tutt’altro che svanito, anche se proprio in queste ore si
iniziano a registrare i primi timidi progressi nei negoziati tra Atene e l’ex Troika. Ieri
sarebbe stato raggiunto un primo accordo di massima su uno dei punti più complessi: le
pensioni. Il governo di Alexis Tsipras avrebbe accettato i termini delle proposte di Ue, Bce
e Fmi ma senza renderli retroattivi. La riforma dunque partirebbe dal prossimo ottobre.
Il tempo per arrivare a un’intesa stringe: il 20 agosto scade un nuovo prestito da 3,5
miliardi della Bce e per sbloccare gli aiuti dell’ex Troika l’ok al compromesso deve arrivare
entro l’11-12 agosto, in modo da dare tempo ad alcuni Parlamenti, tra cui quelli di Atene e
di Berlino, di approvarlo. Già domani, non a caso, il ministro delle finanze Euclid
Tsakalotos si incontrerà con i massimi vertici di Ue, Bce e Fmi per un summit sulle
privatizzazioni e per fare una sorta di punto dopo i primi giorni di negoziati in grado di far
capire se e quando si arriverà a una sintesi finale. Nel caso i tempi si allunghino, i tecnici
di Bruxelles starebbero già valutando l’ipotesi di un prestito ponte per consentire alle
trattative di andare ai supplementari senza far scattare il default.
Si vedrà. La firma sull’accordo non sarà però la fine dei problemi per Tsipras, che subito
dopo aver ricevuto i primi aiuti finanziari dovrà affrontare il congresso di Syriza e puntellare
il suo governo, con l’ipotesi non proprio improbabile di scissione del suo partito e di
elezioni anticipate. La sua speranza è vincere nelle urne (oggi come oggi è ancora in testa
nei sondaggi) e di portare a casa in autunno una consistente ristrutturazione del debito.
Del 4/08/2015, pag. 6
Il controllo dei capitali sta asfissiando il
Paese il Pil 2015 crollerà del 4%
A giugno l’import di materie prime è sceso del 50% In queste condizioni
impossibile per le aziende fare business
IL RETROSCENA
ETTORE LIVINI
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MILANO. Le vigne ai piedi del Falakro e del Menikio, quest’anno, sono cariche d’uva come
non mai. Il sole sta facendo salire il livello di zucchero negli acini, il maltempo – facendo gli
scongiuri – ha risparmiato i filari nelle valli a nord di Kavala. I viticoltori ellenici però non
hanno nessuna voglia di festeggiare. La vendemmia 2015 è a rischio. E non per colpa di
grandine o peronospora ma a causa del nuovo nemico pubblico numero uno di tutto il
paese: i controlli di capitali. Il copione di questa nuova tragedia greca è uguale per tutti:
agricoltori e multinazionali, commercianti e pescatori. Sei mesi di estentuanti negoziati a
Bruxelles hanno messo in ginocchio le imprese e frenato i consumi. La stretta sulla
liquidità imposta dalla crisi e dal Governo il 29 giugno è stata però il colpo di grazia che ha
paralizzato il paese, senza risparmiare nessuno: i produttori di vino faticano a pagare i
fornitori esteri di bottiglie e tappi e molti non riceveranno in tempo le barrique in quercia in
cui invecchiare la produzione dell’anno. I delfini e il formichiere dello zoo di Atene
rischiano la pelle perché il gestore – che pure ha il conto in banca gonfio di liquidità – non
può a girare in Olanda e Germania i contanti necessari a sbloccare le sardine surgelate
per i cetacei e i vermi di cui va ghiotto il mammifero sudamericano. Centinaia di
pescherecci sono fermi perchè mancano i soldi per la benzina mentre tra il Pireo e le
frontiere di terra – calcola la Camera di Commercio – ci sono 4.500 container bloccati
perché i destinatari ellenici non riescono a pagare venditori che – vista la situazione –
pretendono pagamenti anticipati al 100%. La Grecia si sta fermando. E il risultato è
paradossale: il rischio di Grexit - archiviato in apparenza grazie al compromesso con Ue,
Bce e Fmi del 13 luglio - rischia di rientrare ora dalla finestra. E non per colpa dei falchi del
nord o di Wolfgang Schaeuble, ma per il micidiale mix tra le divisioni di Syriza, un
memorandum lacrime e sangue dif-ficilissimo (dicono tutti) da implementare e la realtà di
un’economia arrivata di nuovo - causa asfissia finanziaria - sull’orlo del crac.
I dati sullo stato di salute di Atene sono quelli di una Caporetto: a fine 2014 le agenzie di
rating prevedevano per il Pil di quest’anno una crescita del 2,5%. Oggi, dopo cinque
settimane di liquidità con il contagocce, la Ue ha rivisto al ribasso le stime aggiornandole a
una flessione tra il 2 e il 4%. La situazione si è avvitata a gran velocità con i controlli dei
capitali: le aziende possono pagare direttamente i loro fornitori esteri solo fino a un tetto
massimo di 50mila euro (appena alzato a 100mila). Per le operazioni oltre a questa cifra
serve l’autorizzazione del ministero delle Finanze.
Far funzionare il business dentro questi rigidissimi paletti è quasi impossibile: dei 3,5
miliardi di importazioni al mese necessari per tenere in vita la Grecia Spa, solo 500 milioni
sono disponibili oggi senza l’ok del governo. Accedere agli altri 3 miliardi è un terno al lotto
visto che lo Stato ne ha sbloccati in un mese solo 1,5. Le importazioni, per l’associazione
delle imprese elleniche, sono crollate del 50% a giugno. La metà delle aziende nazionali
ha lasciato a casa a luglio parte del personale per la mancanza di materie prime da
lavorare, quasi tutte stanno tentando disperatamente di aprire conti correnti all’estero per
aggirare la stretta alla liquidità. E un quarto di loro, secondo un drammatico studio appena
pubblicato dalla Endeavor, si è arresa e sta pensando di emigrare trasferendo il quartier
generale oltrefrontiera. I guai dei vignaioli del Nord e delle bestie dell’Attika Park di Atene
sono solo la punta dell’iceberg e il crollo della Borsa e dell’indice manifatturiero annunciati
ieri rischiano di essere solo l’anticamera di un disastro annunciato se non si libererà
rapidamente il paese dai lacciuoli dei controlli di capitale che rischiano di costare secondo
l’Ufficio pubblico di bilancio fino a 1,75 miliardi di Pil alla settimana. L’unica nota positiva
per l’economia della Grecia è la tenuta, almeno finora, del turismo, voce che vale da sola il
16% del Pil del paese. Tra gennaio e maggio gli arrivi sono cresciuti del 27% con entrate
dirette di 2,2 miliardi. Una goccia nell’oceano dei guai ellenici: «Il rischio di Grexit esiste
ancora - ha detto ieri il vicepremier Yannis Dragasakis -. Appena firmata l’intesa con i
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creditori e sbloccati gli 86 miliardi di aiuti potremo togliere i controlli ai capitali e ripartire». I
cittadini ellenici (e il formichiere dello zoo di Atene) si augurano abbia davvero ragione.
Del 4/08/2015, pag. 15
L’ascesa di Corbyn il rosso
Se il Labour diventa una Syriza in salsa
british
Il plauso di Boris Il sindaco di Londra
Boris Johnson: «E’ uomo di principi e di passioni»
LONDRA Che sul laburismo britannico spiri il vento di Syriza o di Podemos è stato Tony
Blair a capirlo per primo. Il vecchio e contestato premier finge da anni di essere fuori dalle
beghe del partito ma quando c’è di mezzo un passaggio delicato, come è la scelta del
nuovo leader dopo il crollo del timido Ed Miliband, non è il tipo che si lascia trascinare
nella contesa. Si butta a capofitto.
E allora, a metà luglio, quando i giochi sembravano volgere verso una disputa fra candidati
blairiani di stretta fede centrista (la moderata Liz Kendall) e candidati un po’ meno blairiani
ma non di esagerata deriva a sinistra (Andy Burnham e Yvette Cooper), Tony Blair,
parlando ai militanti laburisti, ha sparato a zero contro l’outsider che è Jeremy Corbyn: «Se
il vostro cuore è con Corbyn allora fatevi il trapianto». Raffinato politico, aveva già intuito
che la storia del centrosinistra britannico è a un punto di svolta.
Il guaio per Tony Blair è che ogni volta che parla, nonostante il fascino non smarrito, i
laburisti pronti a marciare in direzione opposta aumentano. E da luglio Jeremy Corbyn ha
cominciato a sbancare fra i 400 mila iscritti che sceglieranno chi sarà la guida del partito
nei prossimi cinque anni. Al punto che i sondaggi interni danno il sessantaseienne di
Chippenham, ex sindacalista nel settore pubblico, favoritissimo nella corsa.
Che sia un modo per allarmare gli incerti o che sia un modo di esorcizzare il pericolo
rosso, la realtà è che nel lessico inglese sono entrati due termini di ultimo conio:
«corbynmania» (copyright del Financial Times ) e «corbynisti» (copyright dell’ Observer )
che derivano da «corbynismo», la versione britannica di Syriza e Podemos. Il laburismo è
a rischio di una inaspettata mutazione. Jeremy Corbyn non è un violento parolaio. Ha
modi soft, è garbato. Non è neppure un pupazzo costruito dalle televisioni. Ha una storia
immacolata, che gli riconoscono persino i tory, ed è una storia di militanza al servizio della
causa. Soprattutto è uno che va controcorrente. Non ha paura a definire amici i palestinesi
di Hamas. È deputato da 32 anni, sempre eletto nella circoscrizione di Islington Nord, e dal
1997, da quando il laburismo ha sterzato al centro, ha votato 500 volte ai Comuni contro le
indicazioni del partito. Poi è un repubblicano a carati pieni. Guai a parlargli della regina. Un
eretico. Ma rispettato. Con un tale pedigree politico sarebbe scontato appiccicargli
l’etichetta di ultimo rudere del sinistrismo radicale e schematico, così schematico da
portarlo a dividersi dalla moglie perché lei voleva iscrivere i tre figli alle «grammar school»,
le scuole più selettive del Regno. Questi «vizi» di origine non li ha di certo cancellati. Ma li
ha corretti. Prima con la tranquilla coerenza che ha sempre sfoggiato. Poi, da ultimo,
sposando nuove tensioni sociali: il movimentismo ecologista e l’associazionismo del
volontariato.
E ne è nato, spontaneo, un laburismo simile ma non uguale a fenomeni come Syriza o
come Podemos. Con una carica di populismo gentile, il «corbynismo», che specie i giovani
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sottoscrivono. Il quotidiano conservatore Daily Telegraph ha riconosciuto: «È ben
sintonizzato con le nuove generazioni». Entrato senza favori nella competizione per la
leadership sta mietendo successi con un programma che fa accapponare la pelle ai
centristi: la rinazionalizzazione delle ferrovie e delle Poste (la Royal Mail), l’uscita dalla
Nato, più tasse per i ricchi, più spesa pubblica, camera dei Lord elettiva, scetticismo
europeo. Il bagaglio è pesantissimo però condiviso da molti laburisti. Tony Blair e i suoi
sono fuori dalla grazia di Dio. I moderati in fibrillazione. Ormai ci sono due partiti laburisti
incompatibili, tenuti assieme unicamente dalle convenienze elettorali: Syriza o Podemos
con bandiera britannica e gli eredi del New Labour blairiano che cercano di scongiurare la
mutazione. Jeremy Corbyn non è un fantasma, è un candidato forte. Lo apprezza il
popolarissimo sito internet per mamme Mumsnet : «È un uomo sexy». E lo apprezza il
sindaco di Londra, Boris Johnson, tory: «Corbyn emerge in un campo pieno di oscillanti
opportunisti. È uomo di principi e di passioni». Vinca o non vinca, onore delle armi .
Del 4/08/2015, pag. 14
L’inchiesta.
Era il primo del club dei “Brics”, i paesi emergenti Poi il ciclo
economico si è invertito: meno investimenti dall’estero, export di
petrolio in calo. E una classe dirigente rapace ha preso il sopravvento
La fine del modello Brasile così scandali e
recessione hanno fermato la corsa
FEDERICO RAMPINI
UN LIVELLO di popolarità dell’8% è il nuovo record mondiale tra le democrazie. È il
governo di Dilma Rousseff a detenere questo trofeo negativo. Checché ne dica lei, sono
davvero un numero esiguo i suoi concittadini che la giudicano all’altezza.
Se l’ordine regna (talvolta) in Brasile, secondo Amnesty International il prezzo è
intollerabile: 1.500 morti solo a Rio de Janeiro negli ultimi 5 anni, per i metodi violenti della
polizia militare. Come sembra lontana quella “bonifica virtuosa” delle favelas (le
baraccopoli di Rio) che fece notizia ai tempi di Luis Inacio Lula da Silva, il predecessore
della Rousseff. Ancora quattro anni fa, e con Lula già in pensione, The Economist alla
vigilia del viaggio di Obama in Brasile additò il paese come un modello per il Sud del
pianeta, esaltando le ingegnose politiche della sua socialdemocrazia, a cominciare dalla
“bolsa familia”, un sistema di sussidi alle madri per mantenere a scuola i ragazzi e
debellare il lavoro minorile.
Oggi, invece, sembra che dal Brasile arrivino solo notizie negative. Quando una delle più
grandi banche mondiali, la Hsbc anglo- cinese, decide di disfarsi della sua filiale di San
Paolo, il magazine americano di economia Forbes commenta lapidario: «Se una
multinazionale vuole rendere felici i suoi azionisti deve abbandonare il Brasile». Tutto gira
storto, mentre si avvicina l’anno delle Olimpiadi: 2016, sarà la prima volta per un paese
sudamericano, ma anche le grandi opere per i Giochi sono state un susseguirsi di
scandali, proteste, indagini per tangenti.
Imputare tutto il bene del passato a Lula e tutto il male alla Rousseff sarebbe ingiusto e
soprattutto inesatto. Le accuse di corruzione lambiscono l’entourage di ambedue i
presidenti, le loro storie sono inseparabili. Compagni di partito, carriere intrecciate: Dilma
fu a lungo braccio destro di Lula. Fu lui a proiettarla verso la sua successione. Il declino
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del Partito dei Lavoratori li coinvolge alla pari. Ieri è stato arrestato l’ex ministro Jose
Dirceu, che fu capo gabinetto di Lula. L’indagine che lo riguarda si riferisce a fatti accaduti
dal 2003 al 2005. Ma altre inchieste per corruzione si estendono alla campagna elettorale
della Rousseff nel 2014, riguardano i finanziamenti illeciti erogati da Petrobras per la sua
rielezione. Dietro la decadenza del modello brasiliano c’è anzitutto la fine di un ciclo
economico. È lontana l’epoca in cui il Brasile poteva vantarsi di essere la lettera iniziale
del club dei Brics (con Russia, India, Cina e Sudafrica), nonché una delle più dinamiche
economie emergenti. Ora la sua moneta, il real, è ai minimi da 12 anni sul dollaro. La
banca centrale ha dovuto aumentare per sei volte consecutive i tassi d’interesse, fino al
14,25%, nel tentativo di domare l’inflazione. Quest’anno si prevede una secca recessione,
col Pil in calo del 2,5%, dopo un anno di crescita zero. Solo la Russia va peggio, nel club
malconcio dei Brics. Per capire come si è spezzato il sogno brasiliano bisogna guardare
lontano. Verso le due economie più grandi del mondo: Stati Uniti e Cina. La politica
monetaria americana, con il “quantitative easing”, per cinque anni aveva generato una
liquidità immensa: 4.500 miliardi di dollari stampati dalla Federal Reserve per acquistare
bond, far circolare credito, rilanciare la crescita. Una parte di quei capitali sono straripati,
esondati, dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Ne hanno beneficiato paesi emergenti
come il Brasile, destinazione privilegiata di investimenti esteri. Ma la Fed, avendo
raggiunto il suo obiettivo, ha cessato di stampar moneta. L’alta marea si ritira. I capitali
abbandonano i paesi emergenti dove avevano alimentato speculazione e inflazione.
In quanto alla Cina, il miracolo brasiliano deve molto al suo traino. Una battuta circolava ai
vertici del governo Lula negli anni d’oro della crescita: «Fortuna che i cinesi imparano a
mangiare anche il dessert». Una serie di cambiamenti portati dal benessere nella dieta
ancestrale dei cinesi — la scoperta del caffè, del cioccolato, del gelato — si rivelarono una
manna dal cielo per l’agricoltura brasiliana, una delle più produttive del mondo. Dalla soya
allo zucchero, l’export di derrate agro-alimentari generò un ciclo positivo dell’economia
brasiliana interdipendente con quello della Cina. Idem per le vendite di minerali, o di
petrolio: più andava forte la crescita cinese più trascinava quella brasiliana.
È vero che il Brasile ha saputo costruirsi un’economia differenziata e quindi più solida di
altre nazioni emergenti. Ha una robusta industria manifatturiera, con fiori all’occhiello come
Embraer, terzo produttore aeronautico mondiale dietro Airbus e Boeing. Non è un paese
da mono-cultura, né uno “Stato estrattivo” come la Russia o l’Arabia saudita. E tuttavia
quando viene meno un motore come la Cina, la cui crescita è in serio rallentamento, le
altre componenti dell’economia brasiliana non ce la fanno a compensare quel vuoto.
È significativo che gli ultimi scandali di corruzione ruotino spesso attorno a Petrobras.
Questo ente petrolifero di Stato avrebbe potuto rappresentare il futuro del Brasile, dopo le
scoperte di immensi giacimenti offshore. Ma da un anno è crollato il prezzo del petrolio,
vanificando tanti progetti. E la rendita accumulata con Petrobras, anziché finanziare un
futuro diverso, è stata dissipata o sequestrata da un ceto politico rapace. Come in molte
altre nazioni emergenti, e non solo quelle, forse l’ordine delle priorità andrebbe modificato:
costruire uno Stato di diritto e un’etica civile conta ancor più delle percentuali di aumento
del Pil.
Del 4/08/2015, pag. 30
A settant’anni dal giorno in cui l’atomica cancellò Hiroshima dalla faccia
della Terra, il Paese vive il suo paradosso più radicale: celebra
l’anniversario diviso tra voglia di riarmo e ripresa nucleare Ma i
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superstiti non ci stanno: “Non vogliamo essere ridotti a testimoni di un
rito ipocrita”
I fantasmi del Giappone
DAL NOSTRO INVIATO
GIAMPAOLO VISETTI
HIROSHIMA
«UN GIORNO all’anno il mondo dissotterra i fantasmi di Hiroshima e di Nagasaki. Siamo
alla settantesima volta. Questo rito sempre più stanco è invecchiato con me, colpevole di
essere sopravvissuta e per questo senza il diritto di essere felice. Se guardo il Giappone di
oggi devo ammettere che non è servito». Sueko Hada aveva otto anni quando “Little Boy”
è esplosa in cielo 600 metri sopra la sua casa, uccidendo 140 mila persone. Ha perso i
genitori e tre sorelle: schiacciata tra un muro e una colonna, si è salvata ed è rimasta sola.
È una tra gli ultimi 60 mila hibakusha , i “colpiti”, invitati all’anniversario del 6 agosto nel
Parco della Pace di Hiroshima, come statuine di un presepio vivente. «Ma io sono voluta
venire prima — dice davanti allo scheletro della Cupola della vecchia camera di
commercio — per non sentire i soliti discorsi sulla pace. Siamo transitati da un secolo
all’altro, non riconosco nemmeno il luogo in cui ero nata. Da settant’anni tutti dicono “mai
più”, ma agiscono per “un’altra volta”. Non voglio essere ridotta a testimone di una storica
ipocrisia». Il pericolo c’è e oggi nessuno, come chi è stato risparmiato dalle atomiche
sganciate casualmente su Hiroshima e su Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945, lo
percepisce. La pace e il disarmo sono diventati temi così retorici e rituali, la finzione
collettiva del dolore tanto oscena, che le vittime della guerra e dei suoi ordigni esplosivi
non vogliono più sentirne parlare. Hanno la sensazione di essere feticci nelle mani dei politici e dei media, usati per dare una spazzolata di stagione alla coscienza, mentre l’orrore
di “Enola Gay” e di “Bockscar” non spaventa più nessuno, i ricordi degli hibakusha sono
ascoltati con noia e il pianeta non è mai stato così gonfio di conflitti e di armi nucleari. A
settant’anni dai due bagliori dei B-29 che cancellarono due città e posero fine alla
Seconda guerra mondiale, sulle commemorazioni giapponesi incombe però uno spettro
ancora più sinistro. È quello del revisionismo, incoraggiato del governo nazionalista del
premier Shinzo Abe. «Siamo stati distrutti — dice lo studente Tomohiko Okuda uscendo
dal Museo della pace — e il mondo vorrebbe pure negarci per sempre il diritto di
difenderci. Ma anche la sconfitta ha una scadenza». Tra le migliaia di “turisti della bomba”
il sentimento della rivincita è prevalente. Si fotografano sorridenti davanti a monumenti e
reliquie raccapriccianti, sfilano in battello tra i memoriali dell’A-Bomb e l’urna che conserva
le ceneri di una popolazione, acquistano portachiavi “Fat Man”, timbri e finti pezzi di
macerie, terminando il tour rafforzati nell’ossessione dell’ingiustizia patita. Tutto, a parte i
sopravvissuti esasperati dal ruolo che li si costringe a replicare fino alla morte, è pensato
del resto per imprimere nel visitatore il convincimento che le due bombe atomiche
sganciate dagli Stati Uniti siano state atrocità piovute dal nulla, estranee alla guerra che le
ha precedute, alle invasioni, alle stragi e ai crimini commessi in Asia dal Giappone
imperiale alleato della Germania nazista.
Dopo settant’anni a Hiroshima e a Nagasaki, città-reliquia ricostruite per cancellare la
responsabilità nazionale esibendo le colpe internazionali, non una foto, un documento,
chiariscono il contesto dell’orrore di cui i giapponesi rimasero infine vittime. «Non è
compito nostro — dice il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui — ricostruire la storia del
Novecento e stabilire le percentuali della follia. Qui dobbiamo spiegare ciò che realmente
accadde a partire dalle 8.15 del 6 agosto 1945, il “dopo” non ancora concluso. Il problema
non è chi debba chiedere scusa a chi: è che i leader di oggi devono astenersi da azioni
che suscitano diffidenza reciproca e fare qualcosa di concreto per rendere impossibile il
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lancio di terza bomba al plutonio ». È il punto che toglie a questo settantesimo il velo
irritante del finto pietismo sull’”inverno atomico”, rendendo decisivo l’anniversario. Non si
può dire che vigilia e prospettiva siano incoraggianti. Shinzo Abe sta per far approvare
l’abrogazione della Costituzione pacifista del 1946, investendo quanto mai prima nelle
nuove «forze di autodifesa». Il Giappone subisce quella che il premier chiama
«normalizzazione delle condizione militare nazionale», vissuta con un misto tra timore e
vergogna. Il 10 agosto, a celebrazioni anti-atomiche concluse, il governo riaccenderà a
Sendai il primo reattore nucleare, sui 53 chiusi nel 2011 dopo la fuga radioattiva a
Fukushima.La corsa al riarmo e la ripresa atomica di Tokyo soffocano il ricordo pacifista e
anti-atomico di Hiroshima e Nagasaki, spaccano in due il Paese, ma legittimano anche la
domanda che agita il resto del mondo: quale Giappone prevarrà? «Il 15 agosto — dice
Kazushi Kaneko, rappresentante dei sopravvissuti al colonnello Tibbets — ricorre
l’anniversario della resa. Abe ha anticipato una dichiarazione storica: se avrà il coraggio di
farla può essere il segnale destinato a cambiare le relazioni tra super-potenze, il congedo
dall’era delle armi nucleari». Cina e Corea del Sud aspettano le scuse per massacri e
invasioni, i nostalgici della destra di governo le scoraggiano, gli Stati Uniti preferiscono che
la storia non venga chiarita troppo e che Tokyo sia piuttosto nelle condizioni di frenare da
sola l’ascesa di Pechino. Commuoversi nei cimiteri- icona delle guerre è la prova di un
residuo di umanità, ma il caso- Giappone dopo settant’anni conferma che la questioneHiro- shima è tutt’altro che risolta. L’imperatore Hirohito, grazie agli interessi Usa, non è
stato mai processato, suo figlio Akihito continua a rappresentare l’unità nazionale e il
leader nipponici onorano annualmente anche i 2,5 milioni di caduti dell’era Showa, sepolti
nel tempio di Yasukuni assieme a 1068 criminali di guerra. La Cina, sfruttando amnesie e
mancate assunzioni di responsabilità, il 3 settembre per la prima volta risponderà così
celebrando non la fine della Seconda guerra mondiale, ma la «vittoria sull’invasore
giapponese». Xi Jinping ha proclamato la data «festa nazionale», ha organizzato la sua
prima parata militare in piazza Tiananmen e ha invitato tutti gli imbarazzati leader
mondiali, compreso Shinzo Abe. «È la provocazione di un arrogante — dice Sathosi
Yahagi, curatore del libro- appello No nukes Hiroshima- Nagasaki-Fukushima , firmato con
50 personalità giapponesi — non si può umiliare un popolo costringendolo dopo decenni a
festeggiare la propria distruzione. Nemmeno Angela Merkel ha potuto partecipare alle
celebrazioni di Putin a Mosca. Ma la realtà è che l’onestà storica di Tokyo non corrisponde
a quella di Berlino e che un premier come Abe, finora estraneo ad azioni di riconciliazione,
non potrebbe comunque presentarsi alla Cina».
Mostre d’arte e concerti dirottano sui «luoghi dell’orrore» oltre due milioni di turisti, sedotti
più dall’adrenalina delle polemiche che dal sedativo della memoria. A Hiroshima si
attendono anche i ministri degli Esteri del G7 nipponico, il prossimo aprile, e molti sperano
in una visita a sorpresa del presidente americano Barack Obama, prima della fine del
mandato. L’agenzia della casa imperiale del Crisantemo ha diffuso per la prima volta la
versione originale della controversa e incomprensibile resa radiofonica di Hirohito, definita
«trasmissione della voce gioiello». Mezzo Giappone la interpreta come un tacito invito a
guardare all’agosto 1945 con «spirito di verità ». L’altra metà sottolinea come il Tenno «la
parola resa non l’ha mai pronunciata». «In fondo al cuore — dice l’ hibakusha Suzuko
Numata sotto l’albero di ginkgo cresciuto sul luogo su cui sorgeva la sua casa, dietro l’ex
ospedale Shima — il Giappone non ha mai smesso di combattere e non si è mai arreso
alle condizioni di Potsdam. È a questa voglia di rivincita che il bellicoso neo-nazionalismo
filo-atomico deve il suo successo: il nostro ultimo oltraggio, la nostra vera sconfitta».
Hiroshima e Nagasaki dopo 70 anni restano condannate all’immagine di città della pace:
mai come oggi però le loro vittime tradite sono costrette a respirare quel tanfo ustionante e
offensivo di altre, interminabili guerre.
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del 04/08/15, pag. 6
Un’Unione solo di carta e metallo
Euro, l'ultima mitologia. Eppure queste monete ci parlano ancora e
dunque, forse, per uscire, sul piano profondo, da questa crisi identitaria
che rischia di travolgere le radici dalle quali doveva nascere l’albero
nuovo delle cittadinanza europea, andrebbe ripensata la grafica
dell’Euro, ripristinando i volti ed i simboli della comune avventura che
concepirono i nostri visionari Padri Fondatori.
Raffaele K. Salinari
Che ruolo ha l’Euro — come moneta di metallo e di carta — nella crisi attuale dell’Unione
Europea? Che significato riveste oggi per l’identità europea questa valuta che accomuna
l’economia di ben 19 dei 28 Paesi comunitari? Per rispondere bisogna partire dall’originale
significato di una moneta quando ancora esistevano le monete nazionali. Sin dai tempi
antichi il conio di una moneta aveva alta valenza simbolica, sacro addirittura, prima che
economica.
Una moneta trasmetteva prima di tutto un significato legato all’auctoritas di chi la batteva,
di chi, per la possibilità stessa di coniarla, trasponeva nella moneta la legittimità del suo
potere temporale che, però, derivava direttamente da quello spirituale.
Nel corso del tempo assistiamo ad una progressiva perdita dell’originale significato, con la
conseguente trasformazione della moneta in semplice oggetto quantitativo, che
abbandona via via tutti i significati e le ascendenze simboliche per trasformarsi in un puro
strumento mercantilista, senza più trasmettere una idea forte, un significato profondo,
ideale. Una facile osservazione a riguardo di questa degenerazione, che ha nell’Euro la
sua forma attualmente più avanzata, può essere fatta osservando le monete antiche. Così
possiamo vedere come presso i Celti i simboli raffigurati sulle monete metalliche trovano
spiegazione solo se si conosce la simbologia druidica, il che implica un intervento di tipo
magico di altissimo livello. In tempi meno remoti invece, ad esempio quelli dell’antico
impero romano, non solo troviamo l’effige dell’imperatore, notoriamente figura semidivina,
ma anche una serie di motti che, per così dire, sintetizzano una visione politica: la moneta
come epitome di una visione del mondo. Questa modalità va avanti sino al Medio Evo e si
spinge nel Nuovo Mondo sino all’attuale configurazione del dollaro statunitense, sul quale i
simbolismi di tipo massonico, la piramide tronca con l’occhio onniveggente, si affiancano
al motto stesso degli Stati Uniti: E pluiribus Unum, da molteplice all’uno, sintesi dell’unità
nella diversità, mentre su tutti campeggia la fede nella missione trascendentale, nel
destino stesso degli Usa: In God We Trust, crediamo in Dio; in altre parole, questa moneta
è un veicolo della Sua volontà.
Anche l’Europa pre-Euro aveva la stessa tipologia di moneta: come dimenticare la Lira
post bellica con l’effige della Repubblica, splendida donna col capo cinto di spighe di
grano, un richiamo a Cerere ed alla centralità della vita contadina, o il forgiatore che
batteva sull’incudine delle cinquanta Lire nella sua posa da atleta greco, omaggio alla
nuova civiltà del lavoro? E la cornucopia portafortuna sulla moneta da una Lira, speculare
al timone di una barca a remi? O, ancora, le varie monete cartacee con i volti delle figure
più rappresentative della storia italica, e non solo italiana, da Dante a Volta, da Caravaggio
a Verdi? Nelle altre nazioni europee la vicenda è simile e non vi è necessità di dilungarsi.
Tutto questo per dire che la moneta racchiude, se pur in modo oramai residuale — ma non
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scordiamo che i simboli agiscono su di noi e sulla nostra percezione del mondo anche
quando di essi non siamo consapevoli — una valenza non solo quantitativa bensì anche
qualitativa, cioè la capacità di veicolare e rappresentare una idea e dei valori non solo nel
senso mercantile che oggi ha completamente contaminato questo termine, ma di livello
spirituale.
Ed eccoci allora all’Euro: nessun motto, nessuna effige di personaggi che possano essere
rappresentanti di un passato che parla della visione di un domani comune, nessun
monumento che amalgami le culture europee; solo ponti che finiscono nel nulla, archi
metafisici che si stemperano nella nebbia, vetrate mute, portici inabitati. Permane un
accenno ad un programma non certo ideale quanto ideologico, attraverso quella cartina
muta che vede l’Europa estendersi dall’Atlantico agli Urali, escludendo beninteso la
Turchia e le sponda Sud del Mediterraneo! Solo nelle monete– ancora loro! — troviamo
imbalsamato un significato simbolico residuale, esattamente lo specchio del destino
attuale di una Unione sempre più di facciata, e di carta, e sempre meno di sostanza, come
le sue oramai svalutatissime monete sulle quali si ostinano a campeggiare ancora i vecchi
miti fondatori: il ratto d’Europa, l’Aquila Germanica, l’Uomo Vitruviano; tutte però legate ad
una singola nazione e non ad un progetto comune.
Eppure queste monete ci parlano ancora e dunque, forse, per uscire, sul piano profondo,
da questa crisi identitaria che rischia di travolgere le radici dalle quali doveva nascere
l’albero nuovo delle cittadinanza europea, andrebbe ripensata la grafica dell’Euro,
ripristinando i volti ed i simboli della comune avventura che concepirono i nostri visionari
Padri Fondatori.
del 04/08/15, pag. 7
«Sono stati torturati e giustiziati»
Città del Messico. Manifestazioni in tutto il paese contro l'omicidio del
giornalista e di quattro donne. Tre erano attiviste, una lavorava in una
maquiladora. Migliaia i cadaveri e le persone scomparse sotto la
presidenza Nieto
Geraldina Colotti
Che il Messico sia un paese ad altissimo rischio per chi denuncia o combatte il narco-stato
che lo governa, è documentato dal numero dei morti e degli scomparsi: secondo cifre
ufficiali, circa 25.700 persone risultano desaparecidas negli ultimi anni, in maggioranza
durante l’amministrazione del presidente neoliberista Enrique Peña Nieto, iniziata nel
2012.
Il brutale assassinio del fotoreporter Rubén Espinosa Becerril e di quattro donne che si
trovavano con lui a Città del Messico sta però scuotendo il paese. I cinque sono stati
torturati e infine uccisi con un colpo alla testa. I corpi delle donne – attiviste e una
domestica diciottenne – presentavano anche segni di violenza sessuale.
Al grido di “Adesso basta impunità” si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il paese.
Attivisti e giornalisti sfilano con l’immagine del collega ucciso sovrapponendola al proprio
viso. Dal 2000 a oggi sono stati assassinati 88 giornalisti. Con l’uccisione di Espinosa sale
a 13 il numero di giornalisti eliminati nello stato di Veracruz – uno dei più pericolosi del
paese -, governato da Javier Duarte.
E tre risultano scomparsi. Il 2 luglio è stato scoperto il corpo di Juan Mendoza Delgado,
direttore e fondatore del sito web di notizie da Veracruz, Escribiendo la Verdad. A Xalapa,
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nello stato di Veracruz, il fotoreporter aveva lavorato per 8 anni, soprattutto per la rivista
Proceso, in prima fila nel sostegno alle proteste sociali e sede di inchieste scomode per il
potere.
Lo stato di Veracruz sintetizza la crisi che attanaglia il paese, resa drammaticamente
visibile dal problema dell’insicurezza. A Veracruz imperversa la lotta dei cartelli per il
controllo delle vie del narcotraffico e quella per il controllo del traffico dei migranti. Le
aggressioni ai giornalisti sono quotidiane. Anche il giornale El Heraldo de Córdoba è stato
attaccato con bombe incendiarie.
Per la sua attività, Espinosa aveva ricevuto ripetute minacce e si era rifugiato nella
capitale, Città del Messico. Sabato, poiché risultava irreperibile, il gruppo di difesa della
libertà di espressione Articolo 19 aveva chiesto alle autorità messicane di attivare il
protocollo per localizzarlo. E così si è scoperto il corpo e quello delle altre quattro vittime
nel Narvarte, un quartiere di classe media della capitale.
Espinosa aveva iniziato a lavorare come fotografo di Javier Duarte quando questi era
candidato a governatore del Veracruz. In seguito aveva però smesso di lavorare per le
istituzioni pubbliche, rendendo sempre più visibile il suo impegno nella denuncia della
violenza di stato contro i giornalisti. Scelse di documentare l’attività dei movimenti sociali.
Nel novembre del 2012, mentre seguiva le proteste degli studenti contro il governatore
Duarte per l’omicidio di un’altra corrispondente della rivista Proceso nel Veracruz, Regina
Martinez, gli venne impedito di scattare le foto del pestaggio a uno studente da parte della
polizia.
Una persona gli si avvicinò e gli disse “Smetti di scattare foto sennò finisci come Regina”.
Ruben però non smise di partecipare alle manifestazioni e di documentarle. Il 14
settembre del 2013, mentre fotografava il violento sgombero a un presidio di maestri e
studenti universitari, a Xalapa, venne brutalmente aggredito insieme ad altri giornalisti, e
gli fu sequestrato il materiale.
Presentò numerose denunce, ma intanto era diventato sempre più scomodo per il
governatore Duarte, che arrivò a comprare tutte le copie della rivista Proceso per una
copertina di Espinosa, a lui sgradita.
Nel giugno scorso, alla vigilia delle elezioni, documentò l’aggressione subita da otto
studenti che furono aggrediti da un gruppo di incappucciati, probabilmente legati alla
Sicurezza pubblica. Da allora cominciò ad accorgersi di essere seguito e il 9 giugno, dopo
aver nuovamente denunciato la persecuzione di cui era vittima, fuggì nella capitale.
Inutilmente.
Intanto, in una delle 60 fosse comuni clandestine, rinvenute nel comune di Iguala, sono
stati scoperti i cadaveri di 20 donne e 109 uomini. A Iguala, il 26 settembre dell’anno
scorso, sono scomparsi i 43 studenti normalistas, a seguito di una feroce aggressione
congiunta di polizia locale e narcotrafficanti. La loro ricerca, che continua grazie alla
costante mobilitazione di famigliari e organizzazioni popolari, ha riportato all’attenzione del
mondo l’entità del fenomeno delle scomparse, la responsabilità e le inadempienze del
sistema politico che stritola il paese. Secondo le autorità del Guerrero (lo stato dove si
trova Iguala), i cadaveri rinvenuti non sono quelli degli studenti della Normal Rural di
Ayotzinapa. Attivisti e famigliari dei normalistas continuano però a denunciare pressioni e
intimidazioni da parte delle autorità, e chiedono che si cerchi nelle caserme militari, ove –
secondo testimonianze — esistono prigioni clandestine e luoghi di tortura.
Secondo Felipe de la Cruz, portavoce del comitato dei famigliari dei 43, le autorità
messicane hanno offerto un risarcimento di oltre un milione di pesos (62 milioni di dollari)
affinché cessino le ricerche.
La proposta è però stata rispedita al mittente: “La vita dei nostri figli non ha prezzo”, hanno
risposto i famigliari. E le manifestazioni continuano. Contro le privatizzazioni di Nieto, che
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sta svendendo il paese alle grandi multinazionali si stanno mobilitando tutte le categorie.
In prima fila, studenti e professori, vittime dei piani neoliberisti sulla scuola pubblica. In
marcia anche infermieri, lavoratori e pensionati dell’Instituto Mexicano del Seguro Social.
Pur sommerso dagli scandali che lo chiamano in causa anche a livello personale, Pena
Nieto – ben sostenuto dai suoi padrini nordamericani – resta però aggrappato al potere.
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INTERNI
del 04/08/15, pag. 8
La riforma costituzionale. Renziani e minoranza del Pd ai ferri corti,
accordo lontano - Il premier pronto a poche modifiche, poi sfiderà l’Aula
Nuovo Senato, battaglia sull’articolo 2
Finocchiaro verso lo scontro con Grasso: sulla non elettività non si
torna indietro
ROMA
Poche modifiche, ma solo se questo servirà a far rientrare almeno in buona parte il
dissenso dei 25 senatori dem che hanno chiesto di reintrodurre l’elettività del nuovo
Senato. Altrimenti si andrà alla sfida nell’Aula, e si vedrà chi vorrà tornare alle elezioni.
L’alzarsi dei toni interni al Pd non fa cambiare idea a Matteo Renzi, che anche dal
Giappone fa recapitare il suo messaggio: il cuore della riforma costituzionale è proprio
l’abolizione del Senato eletto direttamente dai cittadini, con tanto di senatori a tempo pieno
e con indennità propria. Su questo non si torna indietro. Si può trovare una forma di
collegamento diretto tra cittadini e futuri senatori (ad esempio i futuri senatori potrebbero
essere scelti tramite un listino ad hoc all’interno delle liste per l’elezione dei consigli
regionali), e si può inserire questo principio in costituzione e non solo tramite la legge
ordinaria che regolerà l’elezione indiretta del futuro Senato. Ma comunque deve restare
formalmente l’elezione indiretta e la conseguente cancellazione dell’indennità per i
senatori, che prenderanno solo lo stipendio da consiglieri regionali. Un punto
imprescindibile per Renzi, che vuole presentare la riforma ai cittadini - al momento del
referendum confermativo che si terrà nell’estate o nell’autunno del 2016 - anche come un
passo avanti nella riduzione dei costi della politica.
La scelta di rimandare a settembre il voto sulla riforma del Senato e del Titolo V per
aspettare che stemperassero i toni e trovare così un accordo con la minoranza del Pd non
sembra dunque aver dato buoni frutti. I due “partiti” che ormai compongono il Pd si
fronteggiano con sempre più aggressività, e dopo un week end passato a parlare e
commentare la «guerriglia» e il «Vietnam» minacciati dalla minoranza in Senato, è il
leader di Area riformista Roberto Speranza a rilanciare: «Nel Pd le riforme le vogliono tutti
e siamo tutti convinti che bisogna andare avanti. Ma gli aut aut sono irricevibili, non si può
dire: o questa riforma o si consegna il Paese a Grillo - dice il giovane bersaniano,
dimessosi a maggio da capogruppo alla Camera per non votare l’Italicum e la fiducia
sull’Italicum -. Vietnam è una parola sbagliata che non dovrebbe avere nulla a che fare
con la nostra discussione politica. Nessun Vietnam, ma neanche ordini dall’alto calati
punto e basta. Renzi ha detto che politica e magistratura sono ambiti diversi. Bene, anche
governo e Parlamento ambiti diversi. Se il Parlamento non è il passacarte della
magistratura non deve esserlo neanche per il governo».
Un dialogo tra sordi, insomma. Nel quale si inserisce anche la “copertura” data alla
minoranza del Pd dal presidente del Senato Pietro Grasso quando durante la cerimonia
del ventaglio svoltasi la scorsa settimana, quando ha fatto intendere che l’articolo 2 che
riguarda la composizione e il modo di elezione del nuovo senato può essere modificato
anche se approvato in copia pressoché conforme sia dal Senato che dalla Camera. Il
governo e la maggioranza del Pd interpretano la questione come da regolamento e prassi
parlamentare: l’articolo 2, essendo già stato approvato nella sua essenzialità dai due rami
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del Parlamento, non può più essere toccato. E su questa linea è anche la presidente della
Affari costituzionali Anna Finocchiaro, che giovedì tirerà le fila della discussione svoltasi
finora in commissione (venerdì alle 13 scade il termine per la presentazione degli
emendamenti, che saranno discussi e votati alla ripresa di settembre) con una posizione
contraria a quella del presidente Grasso: sulla non elettività del Senato, è il convincimento
di Finocchiaro, si sono già espresse le due Camere e ora non si può ricominciare da capo.
Tradotto: gli emendamento sull’articolo 2 che presenterà la minoranza del Pd saranno
dichiarati inammissibili. Con la conseguenza che alla ripresa di settembre, oltre allo
scontro all’interno del Pd, potremmo assistere anche a uno scontro istituzionale tra
presidenza del Senato e prima commissione.
Emilia Patta
Del 4/08/2015, pag. 1-29
IL PUNTO
La pentola a pressione
DUE FATTI nelle ultime ore, diversi fra loro eppure legati da un filo
sottile. Da un lato il ministro Orlando che a sorpresa apre all’abolizione
dell’immunità parlamentare.
STEFANO FOLLI
DALL’ALTRO il ventaglio dei nuovi nomi per il governo della Rai, che arrivano senza la
riforma promessa e fin qui non realizzata. Il primo testimonia di un governo che insegue
l’opinione pubblica cercando di richiamare gli indifferenti e di chiudere i varchi a grillini e
leghisti. Il secondo, la Rai, ha un sapore ambiguo. Ci ricorda che la priorità, ancora una
volta, è il controllo politico dell’azienda più che la sua efficienza. Ma così si resta prigionieri
di un passato che non passa e l’impronta riformatrice della nuova fase viene annacquata.
Non solo: sullo sfondo si avverte in Parlamento un disagio che cresce senza che se ne
intuiscano gli sbocchi. Un disagio che forse non tocca le nomine Rai per la semplice
ragione che sono state fatte con la bilancia, in modo da non scontentare i diversi segmenti
partitici. Vecchi e nuovi.
Tutto come ai tempi della fatidica Prima Repubblica? Non proprio. A parte il fatto che la
Rai degli anni d’oro produceva cultura e una visione del paese, è vero che il mondo di ieri
possedeva gli anticorpi. Quando il malessere politico superava la soglia di guardia, si
apriva la valvola di sicurezza: una crisi di governo volta a rimescolare i rapporti di forza e a
saldare qualche conto. Ma erano, appunto, altri tempi. Quasi sempre le crisi nascevano da
fratture fra le correnti del partito di maggioranza, la Dc. E di rado erano distruttive, il più
delle volte si ricomponevano con qualche scambio di poltrone. Soprattutto d’estate,
quando si invocava il “generale agosto” come calmiere delle tensioni. Se fossimo ancora
nella Prima Repubblica probabilmente avremmo già avuto una piccola crisi a seguito della
guerra fredda all’interno del Pd. Dimissioni del premier, inevitabile reincarico,
ridistribuzione del potere nel governo e dintorni. Poi tutti in vacanza. In fondo, anche oggi il
problema nasce dentro il partito di maggioranza, causato da una corrente organizzata che
si sente schiacciata dal leaderismo renziano e vuol far pesare i suoi voti decisivi al Senato.
La differenza è che oggi le crisi medio-piccole, quelle che una volta servivano a
riaggiustare i cocci, non sono più possibili. I fermenti politici non trovano sfogo e si
acuiscono come vapori dentro una pentola a pressione. Il governo resta formalmente in
carica, ma il premier viene sfiancato giorno dopo giorno. Cresce il rischio che alla fine il
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coperchio della pentola salti: e con esiti devastanti. Non a caso si parla fin troppo spesso
di elezioni anticipate come sbocco di una caduta che rischierebbe di essere troppo grave
per ricomporsi nella cornice della legislatura. Ma è ovvio che il voto non servirebbe a
nessuno, tranne che alle forze anti-sistema: ai Grillo e ai Salvini che sono sempre pronti a
trarre vantaggio — in modo del tutto legittimo, dal loro punto di vista — dalle convulsioni di
chi dovrebbe governare. Ecco spiegato perché il “generale agosto” è oggi meno efficace di
un trent’anni fa. Del resto, la spaccatura dentro il Pd sarà anche una questione di potere
non equamente diviso, con un premier-segretario un po’ troppo uomo solo al comando.
Tuttavia il campo di confronto scelto è drammatico. Non è la Rai, dove tutti più o meno
hanno in-teresse a un accomodamento. È la riforma della Costituzione e la fine del Senato
tradizionale. Un recinto dove è essenziale negoziare un accordo e al tempo stesso è molto
difficile individuarlo quando le posizioni si divaricano. La verità è che di fronte alla sfida
delle correnti, Renzi ha solo due strade. Una è impegnarsi allo spasimo per il
compromesso, pagando ai suoi avversari il prezzo necessario. E non è nel suo
temperamento farlo. L’altra è accelerare il passo sul resto dell’agenda. Ritrovare, se
possibile, lo spirito dei primi mesi: una riforma al mese, non importa se solo annunciata. Le
parole del ministro della Giustizia circa l’abolizione dell’immunità parlamentare lasciano
intendere che è questa la via imboccata. Per parlare al paese e tagliare l’erba sotto i piedi
dei Cinque Stelle. La Rai sarà il logico strumento di questa rincorsa.
del 04/08/15, pag. 1/15
Una partita da riaprire
Stefano Fassina
Il decalogo di Norma Rangeri propone scenari fertili per la discussione e l’iniziativa politica.
Sì, c’è vita a sinistra. Sono vive le donne e gli uomini spiaggiati dalla «cultura e
dall’economia dello scarto» denunciata da Papa Francesco, colpiti, da ultimo, dalle
“riforme” del mercato del lavoro, della scuola, delle regole della democrazia o affogati
dall’egoismo ottuso dei benestanti e dalla paura disperata dei penultimi. Così come sono
vive le donne e gli uomini, soprattutto i più giovani e più qualificati, costretti a svendere i
loro talenti o a emigrare.
Come dare voce all’universo degli invisibili abbandonati e dei pionieri senza opportunità?
Per rispondere, vogliamo costruire, ambiziosamente, un partito per la sfida del governo.
L’ambizione deve poggiare, innanzitutto, su un’analisi condivisa del tornante storico nel
quale siamo. Su queste pagine Revelli e Panagopoulos, Ferrero, Martone e Pizzuti
confermano una larga sintonia tra di noi. Vediamo il trionfo insostenibile del capitale sul
lavoro e l’euro-zona sulla rotta del Titanic. Inoltre, dopo la drammatica caduta delle
speranze coraggiosamente alimentate da Syriza e dal Governo Tsipras, è anche diventato
evidente a tutti che, nel quadro del mercantilismo liberista, la sinistra è senza spazio di
manovra. Nell’area della moneta unica, la democrazia e la politica sono prigionieri di Tina:
«There is no alternative». Pensiero unico e agenda unica. Oppure, l’apocalisse.
È, invece, oggetto di discussione la strada da percorrere per liberare il futuro. Da una
parte, chi indica la strada della radicale correzione dei Trattati affinché l’euro, da fattore
regressivo, diventi fattore progressivo. Dall’altra, chi, come il sottoscritto, ritiene che non vi
siano le condizioni politiche per ribaltare i Trattati e individua il superamento concordato
dell’euro come passaggio obbligato per salvare l’Unione europea e riaprire la partita della
democrazia fondata sul lavoro.
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Per avviare la costruzione di una forza politica ambiziosa, una comune carta di valori è
insufficiente. Vanno fatti i conti con “l’europeismo reale”, come li abbiamo fatti, chi prima
chi dopo, con il “socialismo reale”. Stavolta, non possiamo aspettare le schegge del Muro
di Berlino. L’euro è stato un errore di prospettiva politica: nato per arginare lo svuotamento
della sovranità nazionale e la svalutazione del lavoro determinati dai mercati globali deregolati, è diventato potente fattore di aggravamento dello squilibrio nei rapporti di forza tra
capitale e lavoro.
Il dilemma «euro si/euro no» è la punta dell’iceberg. È da riscrivere l’intero impianto di
marginalizzazione della politica contenuto nei Trattati, funzionali all’interesse nazionale
tedesco. Ma invocare il coraggio delle élite per arrivare agli Stati Uniti d’Europa è retorica
autoconsolatoria. Le condizioni politiche per le correzioni necessarie alla “costituzione”
dell’euro-zona sono assenti per ragioni profonde: i caratteri morali e culturali dei popoli, gli
interessi degli Stati nazionali e i rapporti di forza. La Germania lo incomincia a riconoscere:
pur nel quadro di un approccio punitivo verso la Grecia, ha rotto il tabù dell’irreversibilità
dell’euro. Il Ministro Schäuble, con il consenso della Cancelliera Merkel, all’Euro-summit
del 12 Luglio scorso, propone una «Grexit assistita». Il German Council of the Economic
Experts, qualche giorno fa, presenta l’euro-exit come soluzione sistemica in un rapporto
ufficiale al governo di Berlino.
Per arrivare al superamento concordato dell’euro e negoziare condizioni di atterraggio
sostenibili e, così, porre le basi per salvare l’Unione europea e, con essa, le democrazie
delle classi medie va costruita un’alleanza tra fronti nazionali guidati da forze progressiste,
aperti alla destra costituzionale e “sovranista”, come realizzato da Syriza in Grecia con
Anel.
Su quali soggetti sociali e interessi economici far leva? Su quanti sono svalutati per
competere nell’economia dell’export e su quanti subiscono il deficit cronico di domanda
interna: il lavoro subordinato, dipendente privato e pubblico, o a Partita Iva, la micro
impresa artigiana e commerciale, l’arcipelago delle professioni proletarizzate. Uniti, in
un’alleanza sociale progressiva, con chi compete sull’innovazione e sulla qualità del
lavoro.
La coalizione della domanda interna per il lavoro di cittadinanza è il compito difficile del
partito nazionale e popolare da costruire insieme.
del 04/08/15, pag. 1/15
Un’alternativa euromediterranea è possibile
Pasquale Voza
L’importante invito di Norma Rangeri ad una discussione libera e schietta su un’altra
sinistra possibile reclama implicitamente una correlata, radicale riflessione su un’altra
Europa possibile (anche se – come ella dice – all’ordine del giorno non ci fosse la
rivoluzione, ma «un’idea di riformismo di sinistra in grado di persuadere milioni di
persone»). Ebbene, l’appello di Marco Revelli e Argiris Panagopulos a costruire «un
soggetto politico dichiaratamente antiliberista dotato della forza per competere per il
governo del paese in concorrenza con gli altri poli politici» non mi pare si faccia
pienamente carico di questa esigenza di riflessione radicale.
Tale riflessione non può non prendere le mosse dal carattere drammatico e sconcertante
della vicenda greca. A ben guardare, Syriza, Tsipras, il popolo greco, vivendolo sulla
propria pelle, hanno disvelato il carattere ferocemente totalitario dell’Unione Europea, il
suo configurarsi come una vera e propria «gabbia d’ acciaio» (come è stato detto), rispetto
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alla quale l’impotenza del governo greco, comunque la si declini, commuove e fa
sgomento. Ciò, da un lato, pone l’esigenza di un processo di costruzione di una forte
sinistra euromediterranea, dall’altro reclama la necessità di ri-pensare in radice la formagoverno nel tempo storico in cui l’unica forma che s’impone ineluttabilmente è invece
quella della governance.
Per inciso: se l’ordine dei problemi è questo, mi paiono insufficienti, troppo al di qua di tali
problemi, alcuni passaggi ‘solari’, scontati, come, ad esempio, la critica («mai più!») ad
una sinistra frutto di aggregazioni pattizie e politicistiche del passato (dall’Arcobaleno a
Rivoluzione civile ecc); o come l’adozione di formule quali sinistra governativa o di
governo, che, se avevano (o hanno) un senso tutto polemico-ideologico nel linguaggio
vendoliano e di Sel per designare la distanza da una sinistra testimoniale, minoritaria, di
opposizione ecc. ecc., fuori di quel linguaggio risultano futilmente prive di consistenza in
relazione alla complessità inedita del problema del governo all’interno della gabbia
d’acciaio europea, e in relazione – vorrei dire più in generale – a quella che Pierre Dardot
e Christian Laval chiamano la «nuova ragione del mondo», cioè l’attuale razionalità neoliberista, dotata di una forza, di una pervasività bio-politica (cioè di governo profondo delle
vite), e, per questa via, capace di reprimere, di contrastare in radice la possibilità stessa
della costituzione politica della soggettività, dei soggetti dell’antagonismo e del conflitto.
Un altro accenno: una discussione sul problema teorico-politico del governo oggi
(anch’essa utile, a mio avviso, al percorso di riflessione e di proposte promosso dal
manifesto e dalla sua direttora) dovrebbe misurarsi con la dialettica alto-basso, in cui
tende a “trasfigurarsi” oggi la lotta di classe, e con quella che Laclau chiama la «ragione
populista» (e che trova in America Latina delle peculiarissime declinazioni). Come è stato
osservato (Benedetto Vecchi, il manifesto, 24 luglio 2015), Podemos in Spagna si pone il
compito di «inventare politicamente il popolo» attraverso un dispositivo del governo,
capace di svolgere una funzione “universale”.
Insomma, sì, c’è vita a sinistra, soprattutto se la sinistra, lottando contro la condanna alla
frammentazione, contribuendo a costruire processi e movimenti di lotta, vertenze, conflitti,
rende almeno visibile un’alternativa alla gabbia del governo inteso come pura condanna a
un governo nella gabbia.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 4/08/2015, pag. 16
LA GIORNATA
“I pizzini arrivati in carrozza” Così funzionava
la rete creata da Messina Denaro
Trapani,tra gli 11 arrestati vecchi capi e giovani imprenditori Conti
svizzeri e una masseria come centro di comunicazione
Sembrano usciti da un romanzo di Andrea Camilleri gli uomini che proteggevano la
latitanza di Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi che sembra imprendibile dal 1993.
‘U zu Vitu coffa ,
l’anziano capomafia di Mazara Vito Gondola, e il giovane imprenditore Michele Terranova,
titolare di un caseificio molto apprezzato nel Trapanese. «Ci vediamo alla mannara», si
dicevano al telefono. «Ho una rinisca (una pecora,ndr ) buona — sussurrava uno —
quando vossia finisce di mungere la scannamu ». E l’altro chiedeva: «La ricotta è
pronta?». Era il segnale che i pizzini del latitante erano arrivati. ‘U zu Vitu coffa era il
custode delle comunicazioni di Messina Denaro. Questo dice l’ultima indagine di polizia e
carabinieri del Ros coordinata dai sostituti Paolo Guido, Carlo Marzella e dal procuratore
aggiunto Teresa Principato. Sono scattati undici arresti in provincia di Trapani. Ma non è
ancora chiaro da dove arrivassero i pizzini. Le intercettazioni dicono che ogni tanto
l’anziano padrino faceva quelle telefonate colorite. E il giovane imprenditore capiva che
doveva subito convocare una riunione nella sua masseria sperduta fra le campagne fra
Mazara e Salemi. Lì, Gondola nascondeva sotto un masso i pizzini e poi li consegnava a
un altro vecchio mafioso, Michele Gucciardi. Dicendogli: «Io ho tutto fra le mani, ma
dobbiamo stare attenti». E Gucciardi commentava: «Io me lo immaginavo che c’era
qualcosa in arrivo, con la stessa carrozza arrivaru ». Dal 2012, le indagini sulla primula
rossa di Cosa nostra si sono strette in quel lembo di terra attorno alla masseria.
Contrada Lippone, una distesa di terra brulla e sassi. I poliziotti delle squadre mobili di
Palermo e Trapani, con i colleghi dello Servizio centrale operativo, hanno cercato di
scoprire quale fosse la «carrozza» di cui sentivano nelle intercettazioni. E hanno registrato
con una potente telecamera sette incontri fra Gondola e Gucciardi. I pizzini di Messina
Denaro sarebbero arrivati il primo giugno 2012, poi il primo ottobre e il 27 novembre,
quindi il 29 giugno 2013. Segnali della via di ritorno sono stati registrati il 14 dicembre
2012, il 27 marzo e il 27 luglio 2013. Il latitante imponeva regole precise per i pizzini:
vanno distrutti subito dopo la lettura; e le risposte devono essere recapitate entro 15
giorni. Ma del contenuto dei pizzini continuiamo a non sapere nulla. Gli inquirenti hanno il
sospetto che quei biglietti possano essere andati in giro per l’Europa. Viaggiava molto un
fedelissimo di Gondola, l’imprenditore Mimmo Scimonelli. Si divideva fra il Vinitaly, per
presentare il suo consorzio di produttori e la Svizzera, dove aveva aperto alcuni conti. Lì,
sono stati fatti controlli. Fino all’anno scorso, Scimonelli faceva anche parte del consiglio
nazionale della Dc di Angelo Sandri. Il ministro della Giustizia si è congratulato con il
procuratore Lo Voi per l’indagine. Renzi su Facebook: «Avanti tutta per catturare il
latitante».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 4/08/2015, pag. 12
Migranti, ora Cameron sceglie la linea dura
ma è lite con la Francia
Carcere per chi ospita stranieri irregolari, tensioni alla frontiera Si
nasconde in una valigia:muore in Spagna un marocchino
VINCENZO NIGRO
LONDRA. La Gran Bretagna ha lanciato la sua caccia ai migranti irregolari, ma il vero
problema ce l’ha la Francia, che non riesce a gestire alcune migliaia di disperati al confine
di Calais. A Londra il governo Cameron ha proposto una legge che verrà varata (forse) nei
prossimi mesi: permette ai proprietari di casa di sfrattare senza attendere l’ordine del
giudice gli inquilini clandestini, e punisce anche con 5 anni di carcere i proprietari di
abitazioni che li ospitano consapevolmente. Una misura dura ma nei fatti inutile, perché i
migranti, quando arrivano si presentano quasi sempre alle autorità per chiedere asilo ed
essere assistiti secondo le leggi del Regno. E al massimo si fanno ospitare dai parenti che
li attendono. Il vero problema in queste ore per il governo è invece la fila di migliaia di
camion che occupano le strade verso l’Eurotunnel e verso i porti per la Francia, rallentati
in dagli scioperi dei traghettatori francesi. Un imbuto che sta bloccando i traffici
commerciali, ma che in pochi giorni molte linee di trasporti hanno bypassato scegliendo
altri punti di imbarco. Tutti problemi amplificati dalla stampa popolare e di destra e dai
politici xenofobi. Ieri il Daily Telegraph ha pubblicato un ampio servizio su alcuni immigrati
spediti a un centro di assistenza a Londra in taxi al prezzo di 140 sterline «a spese del
contribuente». E mentre altri giornali invocano l’utilizzo dei gurkha, i soldati asiatici
dell’esercito britannico, il lavoro più concreto lo sta facendo la ministra dell’Interno Theresa
May col suo collega francese: rafforzare le recinzioni alla partenza di Calais, raddoppiare il
personale e gli strumenti di sorveglianza. Chi non ha imbarazzo a denunziare il clima di
allarmismo esagerato è il ministro dell’Immigrazione svedese Morgan Johansson, uno dei
paesi in Europa che ha dimostrato non solo apertura, ma anche la massima capacità di
gestire e integrare in maniera ordinata gli immigrati. La Svezia accetta 1200 migranti alla
settimana, ha detto il ministro, e voi siete in crisi per poche centinaia in un mese, «dovete
fare molto di più per gestire il fenomeno». E la Germania proprio ieri ha fatto sapere che
nel 2014 ha toccato il record di quasi 11 milioni di residenti con un passato “migratorio”.
Un problema collaterale, ma assai delicato, è il crescente clima di fastidio per gli stranieri.
Partiti come l’Ukip e altri gruppi nazionalisti dopo aver fatto apertamente campagna contro
polacchi e romeni adesso indicano tutti i “migranti” dell’Unione europea come pericolosi
profittatori del welfare britannico. Nel frattempo si continua a morire per inseguire il sogno
di una fuga dal proprio paese. Come è accaduto ieri a un giovane marocchino di 27 anni
che ha tentato di entrare in Spagna chiuso in una valigia. Il ragazzo però è morto soffocato
poco prima di arrivare sulla costa spagnola. L’allarme è stato lanciato dal fratello, arrestato
dalla polizia.
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Del 4/08/2015, pag. 12
Manganelli e gas urticante: la “guerra” infinita
tra poliziotti e disperati
IL REPORTAGE
DAL NOSTRO INVIATO
DANIELE MASTROGIACOMO
CALAIS
HA GLI occhi rossi. Il viso pieno di macchie. Se le gratta. Ma gli amici, i connazionali,
sudanesi e etiopi, lo rimproverano. «Lascia perdere, non ti toccare». Arriva una ragazza,
Lucille, volontaria di una ong. È un’infermiera. «Ecco, prendi questa. Passala sulla faccia».
Salan, 30 anni, ingegnere informatico oggi immigrato, esegue l’ordine. Si spalma la crema
sulle macchie che rischiano di diventare piaghe. Si calma, respira piano. «Gas - dice con
un filo di voce - gas urticante. Ce lo sparano addosso». Chi gli sta attorno annuisce.
Mehemet, 28 anni, commerciante del Darfur, rifugiato in attesa di un permesso che non
arriva mai, ci mostra le mani: «Hanno colpito anche me. Ho alzato le braccia per
proteggermi il viso. Lui non ci è riuscito». È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo
borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l’entrata dell’Eutotunnel. La gente
non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia
all’uomo. La luce, a queste latitudini, d’estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il
sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti
metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati.
Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro
giorni che la grande fuga verso l’Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e
Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare
clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola.
Ci hanno provato in 1700 domenica, 1200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima.
I “flic”, i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. «Con il buio facciamo le
prime incursioni », racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai
colleghi. «Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i
documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non
hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare ». La legge, nella
guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l’assalto al tunnel
della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso. Gracchia la radio, c’è ordine di muoversi.
L’atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le
protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta
spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall’ingresso
verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano
canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano
storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono
dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall’inizio
dell’anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano
saltati in corsa, dalle macchine sull’autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi
apparsi dal nulla. Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di
terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno
cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti
hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i
bambini. Dall’altra parte i poliziotti attendono l’ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano,
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la bomboletta nell’altra. Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e
veloci, che corrono a serpentina e con la forza d’urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli
agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas
urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al
volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedono davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si
accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c’è
dietro. Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di
imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli
scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria.
Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non
demordono. All’alba arriva l’ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri
sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito
da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già
nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li
fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il
traffico è interrotto. Ci vorrà l’intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa.
Domani si ricomincia.
Del 4/08/2015, pag. 18
Il migrante soffocato dentro una valigia
Marocchino, 27 anni, voleva entrare in Spagna nel bagagliaio dell’auto
del fratello. Altri sbarchi in Italia
Si era nascosto in una valigia, convinto di poter superare i controlli e arrivare in Spagna,
per poi proseguire verso la Francia. Invece N.M., giovane marocchino di 27 anni, è morto
soffocato nella stiva di un traghetto che da Melilla, enclave spagnola sulla costa orientale
del Marocco, lo portava nella città andalusa di Almeria. Il fratello A.M., 34 anni, che aveva
disperatamente cercato di rianimarlo, ancora sotto choc, è stato arrestato con l’accusa di
omicidio colposo. Solo a maggio scorso un bambino di 8 anni, Abou, era stato trovato
nascosto in un bagaglio — e salvato — a Ceuta, l’altra cittadina spagnola in territorio
marocchino: il suo profilo accoccolato rilevato dallo scanner a raggi X aveva commosso
l’Europa. Il piccolo, che tentava di raggiungere il padre immigrato, il cui stipendio era
troppo basso per ottenere il ricongiungimento familiare, aveva così ottenuto un permesso
di soggiorno temporaneo. Stavolta, però, non c’è stato nessun lieto fine.
I due fratelli marocchini si erano imbarcati domenica pomeriggio verso le tre a Melilla: il
maggiore, che ha passaporto francese, aveva un regolare biglietto. Il più giovane, secondo
le prime ricostruzioni, non aveva invece il visto per l’ingresso nei Paesi dell’Unione
Europea: per evitare i controlli (la polizia al confine ispeziona documenti e abitacoli con
l’aiuto dei cani antidroga) si era nascosto in una valigia nel bagagliaio della sua auto. E lì è
rimasto durante il tragitto in nave che dura circa cinque ore e mezza.
Durante la navigazione i passeggeri non possono raggiungere il garage delle auto e il
34enne è riuscito a tornare alla macchina solo venti minuti prima dell’attracco: è stato
allora che si è reso conto che qualcosa non andava e ha chiamato immediatamente aiuto
per soccorrere il fratello. Il personale di bordo ha cercato di rianimarlo, ma ormai era
troppo tardi. «Dopo così tante ore chiuso là dentro e con così tanto caldo è morto per
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asfissia — ha raccontato un testimone al quotidiano spagnolo El Pais —. Aveva anche
sintomi di disidratazione» . La temperatura nella stiva era di almeno 32 gradi.
«Il medico non ha potuto fare nulla», hanno riferito gli inquirenti. Sono almeno duemila i
profughi e migranti morti, secondo le stime, solo da gennaio nel tentativo di entrare in
Europa attraversando il Mar Mediterraneo. Ieri sono stati 86 i migranti salvati dalla
Guardia di Finanza su un barcone al largo delle coste di Crotone, mentre a Palermo è
sbarcata una nave di «Medici senza frontiere» che trasportava 529 persone soccorse nel
Canale di Sicilia e 5 corpi senza vita. Altri 396 migranti sono arrivati a Reggio Calabria e
349 a Trapani a bordo di due navi della Marina militare.
Del 4/08/2015, pag. 12
Passano i vivi, passano i morti
La cecità dell’Europa - Muri e caccia all’uomo: l’inutilità della ferocia da
copertina
di Furio Colombo
Hanno trovato un uomo morto in una valigia. È accaduto in una dogana spagnola dove
eseguendo i soliti controlli con la consueta diffidente efficienza, hanno trovato il corpo di
un uomo che era entrato vivo nella valigia. Certo che è assurdo, ma la speranza, in tempo
di guerra, è sempre assurda. Avrà saputo della notizia del bambino arrivato vivo. E
comunque ha deciso, come accade nei momenti di disperazione, che non aveva scelta e
che era meglio provare.
Ora cambiamo scena, come se fosse un documentario. Anzi dividiamo la scena. Di qua
resta il cadavere dell’uomo morto in valigia nel disperato tentativo di passare un confine
europeo. Di là vediamo due uomini ben vestiti, autorevoli, tranquilli, che discutono di quel
cadavere. Beh, non proprio lui, ma uno vale l’altro. Siamo alla conferenza stampa del
primo ministro inglese e del presidente francese. Ci dicono che, spiacenti, in modo
assoluto nei loro Paesi non si passa. Come prova, l’autorevole personaggio inglese ci offre
scene di caccia al profugo lungo tutto il percorso che porta alla Manica. Di suo, il capo di
tutti i francesi esibisce la sua parte di inseguimento, la bravura con cui i suoi scovano chi
ce l’ha quasi fatta, e gli accampati sugli scogli di Ventimiglia, che vengano o no dalla Siria
e siano o no scampati alle stragi del Califfato. Torniamo all’uomo morto nella valigia. D’ora
in poi è un simbolo, sia Cameron che Hollande, sia Junker, presidente d’Europa, che
ciascun capo di Stato e di governo europeo, potrebbero farne l’immagine esemplare da
collocare sulla bandiera d’Europa, al centro del cerchio di stelle. Tutte splendono di
paurosa, ottusa incapacità di capire ciò che sta succedendo nel mondo, un Q. I. politico
più o meno al livello di Salvini, Le Pen e Orban.
L’Italia, costretta dal mare e da persone come il sindaco di Lampedusa, continua a salvare
e ad accogliere. Intanto però, con diversi sentimenti, il ministro Pinotti prepara la guerra e
non si stanca di elencare le armi, gli equipaggi, le truppe che saranno impiegati. La
signora Pinotti dovrebbe entrare nella inquadratura del film in cui Cameron e Hollande
spiegano che da loro non si passa né vivi né morti. Ma i morti passano, come dimostra
l’uomo della valigia, come dimostrano le migliaia e migliaia di morti nel Mediterraneo. E
passano i vivi, se ne sono passati centomila alle frontiere chiuse dell’Ungheria, che infatti
vuole fabbricare un muro. Ti dicono che è un grave problema umano e i politici non
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possono cedere, non tocca a loro risolverlo. Ma sono ciechi. E non vedono la grave,
immediata emergenza politica. Richiederebbe leader che, a parte il Papa, non esistono.
Del 4/08/2015, pag. 13
Lotti: “Migranti a lavoro esperienza positiva, i
Comuni ci pensino”
Stavolta a dirlo è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti, durante
un sopralluogo: “Credo che sia un’esperienza lodevole, che in questo caso ha fatto il
Comune di Firenze e che potrebbero fare altre amministrazioni“. L’esperienza è quella di
impiegare i migranti nei servizi di pubblica utilità.
E il riferimento è al caso delle opere di pulizia e manutenzione che alcuni migranti hanno
prestato durante e dopo il nubifragio che sabato scorso si è scatenato su Firenze. “I
migranti – ha detto Lotti durante un sopralluogo per valutare i danni del maltempo – sono
ospitati nei nostri centri d’accoglienza, e se ci sono delle occasioni nelle quali possono
dare una mano nelle comunità che le ospitano non c’è niente di male, anzi”.
Fare di necessità virtù, insomma. Se non fosse che la proposta di Lotti ricorda quella che,
a maggio, aveva avanzato il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Scatenando molte
polemiche. “Dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare che permette
di far lavorare gratis i migranti – aveva detto Alfano prima del vertice sull’immigrazione –
Invece di lasciarli senza fare nulla, che li facciano lavorare”. Una dichiarazione che aveva
suscitato la reazione dello stesso leader della Lega, Matteo Salvini. Per l’occasione, aveva
definito Alfano uno schiavista, pagato per evitare che i migranti arrivassero in Italia e non
per sfruttarli.
Del 4/08/2015, pag. 14
Dalla vigna al cimitero: Paola, morta per 27
euro
Nessuna indagine né proteste per il decesso avvenuto in silenzio il 13
luglio
di Tiziana Colluto
Sveglia alle due di notte, subito al ritrovo con le colleghe. Una chiacchiera e poi un altro
po’ di sonno, per altre due ore, sui sedili scomodi di quel pulmino, a risalire la Puglia, nel
buio fitto e nel caldo che già affatica il respiro, nonostante la luna, in quest’estate di fuoco.
Deve averli ripercorsi tutti, Paola, con la mente, quei 157 chilometri, quando la fitta le ha
morso il petto e per lei è finita così, alle otto del mattino di un lunedì qualunque: a 49 anni,
sotto un tendone di plastica, a spulciare grappoli d’uva, in un’azienda di Andria, in Puglia.
Uscita di casa bracciante e tornata cadavere dai suoi tre figli, nel Tarantino. Morte
naturale. “O forse qualcosa di più, perché lei è stata stroncata dalla fatica”, denuncia la
Flai Cgil regionale.
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Negli occhi della Puglia agricola c’è ancora la morte di Mohamed, 47 anni, anche lui
bracciante, anche per lui un infarto a rubare la vita, sotto al sole che non concede
clemenza. Dal Sudan ai campi di pomodori a Nardò, in provincia di Lecce. Omicidio
colposo, in questo caso, secondo la Procura, che il giorno dopo il decesso, il 23 luglio
scorso, ha deciso di aprire un fascicolo, mettendo sotto inchiesta tre persone: la
responsabile dell’azienda, suo marito e il presunto caporale.
Per Paola Clemente non c’è stata alcuna indagine. Né un’autopsia. È per questo che il
sindacato ha deciso di raccontare, a quasi un mese dalla sua morte, avvenuta il 13 luglio
scorso. “È diventata subito un fantasma, senza che la notizia trapelasse per settimane –
dice Giuseppe Deleonardis, segretario regionale Flai -. Sembra che in ospedale la donna
non sia mai arrivata. Il carro funebre l’ha portata direttamente dal campo alla cella
frigorifera del cimitero. È stata sepolta il giorno dopo, con il nulla osta del magistrato di
turno. Il pm non si è recato sul posto perché, stando a quanto riferisce la polizia di Andria,
il parere del medico legale è che si sia trattato di una morte naturale, forse un malore per il
caldo eccessivo”.
Nessuna protesta, nessuna denuncia. È il silenzio che mette a tacere la fatica di massa
delle donne che a migliaia di spostano dalle province di Taranto e di Brindisi verso il
Metapontino o il nord Barese. Seimila, ogni notte, solo da Grottaglie e dintorni.
È da lì che veniva anche Paola, da San Giorgio Jonico, costola di Taranto, dell’Ilva,
dell’arsenale militare. Stando a quanto riferito dalle compagne, non stava bene da giorni.
Eppure, era lì, su e giù per chilometri assieme ad altre seicento colleghe dello stesso
paese. Era abituata lei a questa vita. Da 15 anni ci aveva fatto il callo con le sveglie
impossibili, da maggio a novembre. Anche loro, i figli, avevano preso confidenza. L’ultimo
aveva sei anni quando l’andirivieni è cominciato.
Negli ultimi tempi, l’affanno è cresciuto sotto i tendoni installati per ammodernare gli
impianti e ritardare la maturazione dell’uva. Ad Andria, nell’azienda agricola di contrada
Zagaria, il 13 luglio era il tempo dell’acinellatura: scartare gli acini piccoli che impediscono
agli altri di crescere, diradarli per fare belli i grappoli da destinare alle tavole. Si era alle
battute finali, poi, dopo la pausa di un paio di settimane, a fine luglio sarebbe già
cominciata la raccolta e la sistemazione nelle cassette. Per altre 40 mila donne pugliesi è
iniziata. Per Paola è finita lì, schiantata dalla fatica, a 40 gradi. Per 27 euro a giornata.
Tanto viene pagato quello che è uno dei lavori più duri in agricoltura, nonostante le buste
paga da 52 euro al giorno. “Minimo sette le ore di attività – spiega Assunta Urselli, Flai Cgil
Taranto – ma quando bisogna riempire i tir non si torna a casa prima del tardo pomeriggio.
Da quell’orario, per legge, dovrebbero essere defalcate le ore di viaggio, almeno un paio
d’andata e altrettante di ritorno. Sul posto, poi, dovrebbero essere consentite sosta e
refrigerio, turnazione del personale. Ma stiamo parlando del nulla”.
Il contratto, che pure Paola aveva, è rimasto un pezzo di carta: assunta per il tramite di
un’agenzia interinale, avrebbe pagato anche quello che le spettava gratis e che l’azienda
avrebbe dovuto mettere a disposizione, il servizio di trasporto. Dai cinque ai dieci euro al
giorno, da consegnare all’autista dell’autobus. Così contratta per tutte l’intermediario a cui
gli imprenditori si rivolgono e che fornisce i nomi delle braccianti alle società di
somministrazione della manodopera. Un caporalato, solo vestito un po’ più di nuovo.
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WELFARE E SOCIETA’
del 04/08/15, pag. 2
«Sud sconosciuto per Renzi»
Intervista. «Il Mezzogiorno non è mai stato al centro dell'attenzione del
governo Renzi, né nelle grandi né nelle piccole cose – afferma
Gianfranco Viesti - Al sud sono stati tagliati gli investimenti per
finanziare le defiscalizzazioni del Jobs Act». Dal rapporto Svimez
all'università e alla spending review sulla Sanità: un dialogo a tutto
campo con uno dei maggiori esperti in economia meridionale
Roberto Ciccarelli
Per Gianfranco Viesti, docente di economia applicata all’Università di Bari, la reazione del
presidente del consiglio Renzi sul Sud («Basta con i piagnistei, l’Italia è ripartita») è
inappropriata. «Un presidente del consiglio deve sapere analizzare la realtà del suo paese
e riconoscere le difficoltà dove ci sono – afferma — Se prendiamo i dati della Svimez dal
2000 al 2014 tutto il paese cresce meno della Grecia e il Sud fa molto peggio negli ultimi
cinque anni. Non c’è una parte che sta male e una che sta bene. In Italia c’è una parte più
debole in un paese tutto debole».
Qual è il bilancio dell’azione del governo Renzi sul Sud?
Non è stato mai al centro della sua attenzione, né nelle grandi né nelle piccole cose. Non
voglio assumere una posizione preconcetta, però l’analisi di Renzi non mi convince:non è
tutto un problema di semplificazioni, privatizzazioni e riduzioni fiscali. Intendiamoci le
semplificazione sono molto importanti. Se potessimo tagliare un po’ le tasse sul lavoro,
non quelle sulla prima casa, sarebbe una buona cosa. Ma i problemi di fondo non stanno
lì, ma in una crescita della produttività troppo modesta; nella dinamica molto contenuta
degli investimenti pubblici e privati; nell’insufficiente sforzo dell’innovazione; in un cambio
di passo dell’economia dopo l’euro che c’è stato, ma a macchie. L’Italia ha un’economia
forte, ma dall’inizio del secolo non cresce più. Purtroppo per noi da prima dell’austerità che
le ha dato un colpo terribile. Segni di cattivi risultati si vedevano anche prima.
Venerdì il Pd si riunisce, sono stati annunciati 80 miliardi di investimenti e sembra
che saranno sbloccati i fondi al Sud per la coesione territoriale. Che fine faranno,
visto che manca un ministero?
Questa è una delle cose che più mi dispiacciono di Renzi. Dall’inizio ha ritenuto che
questo tema non meritasse un ministero ma un sottosegretario forte, ma
straordinariamente impegnato, come Del Rio. Del Rio poi è diventato ministro delle
infrastrutture e Renzi si è dimenticato di assegnare la delega a qualcun altro.
Forse andrà al sottosegretario alla presidenza del Consiglio De Vincenti?
Magari ce l’avesse, è persona molto capace anche se anche lui iper-impegnato. La delega
ce l’ha Renzi. Non è che una persona risolve tutto, però servirebbe un politico a tempo
pieno, soprattutto di questi tempi, per gestire le risorse e tenere il fiato sul collo dei
soggetti attuatori come fece Fabrizio Barca da ministro della coesione territoriale con le
ferrovie.
Nello «Sblocca Italia» Renzi promuove investimenti per autostrade e trivellazioni.
Che tipo di sviluppo sta progettando?
Sulle trivellazioni sono perplesso: trovo ragionevole la protesta di molte comunità perché
sembra una decisione che cala dall’alto e in alcuni casi si scontra con l’opposizione
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sociale sull’Adriatico o in Basilicata. Ma ammettiamo che vi sia una cultura radicalmente
contraria in maniera esagerata e che alcuni interventi si debbano fare come il contestato
gasdotto Tap. Certo non è il massimo dell’astuzia farlo arrivare su una spiaggia. Renzi ha
una cultura leaderistica ed è convinto che il problema dell’Italia sia la mancanza di
qualcuno che decide. Non sono d’accordo, uno che prende le decisioni ci vuole, ma dopo
che ha creato consenso nei territori e con i cittadini. Capisco che possiamo avere avuto un
eccesso di rallentamenti, ma la cultura del commissario che arriva e decide non è giusta
democraticamente e non credo che porterà a molti risultati.
In quali settori sono necessari gli investimenti?
Nelle opere di trasporto, nelle ferrovie e nei porti, nell’intermodalità e nelle aree urbane più
che nei nuovi assi stradali, con qualche eccezione. Bisogna capire che le cose importanti
non sono i fondi europei o le misure speciali, ma la scuola, la sanità, l’ambiente, l’ordine
pubblico, cioè politiche pubbliche ordinarie di sufficiente dimensione e di buona qualità.
Questo governo ha molto la cultura del singolo progetto.Credo che questra cultura non sia
sufficiente senza una visione della direzione da prendere. Però certamente non guasta.
Prendiamo Pompei, Bagnoli e Taranto. I risultati sono molto alterni. A quanto ne so, a
Pompei hanno fatto qualcosa, Bagnoli è ferma, Taranto ci sono stati i primi incontri. Mi
piacerebbe che su questa cultura prendesse impegni più precisi. Riconosco che questa
idea del progetto con un nome ha aspetti positivi, individua chiaramente un oggetto di
intervento, può produrre risultati che si vedono. Il renzismo è in parte andato incontro ad
una reazione comprensibile rispetto agli eccessi di programmi senza progetti precisi. Però,
in questa italia, in questo momento, senza una visione i progetti sono benvenuti, ma non
bastano.
Sembra che il Sud sia stato destinato al turismo. È sostenibile un’economia votata
all’intrattenimento?
Certamente no. Un’economia europea a medio reddito deve crescere con tutta la gamma
delle attività economiche e tra queste la più importante è l’industria intesa in senso ampio.
Per me industria è anche Google e Blabla car. Nel Mezzogiorno c’è ancora un bel pezzo di
industria, nonostante la crisi. Troppo poca, meno di prima, ma incommensurabile rispetto
a quella greca, con tutto il rispetto per i nostri vicini. Aeronautica, automobile,
agroalimentare, un pezzettino di made in Italy, presenze molto preziose da rilanciare con
un termine non renziano, che invece a me piace, di politica industriale. Ciò detto, il turismo
non è il diavolo. Al sud deve crescere, facendo però attenzione a non farlo diventare come
quello nella Spagna del sud. Lo si può fare attraverso la de-stagionalizzazione, i beni
culturali, il cibo, la natura e l’aumento delle presenze straniere che sono in enorme
crescita negli ultimi due anni grazie ai voli low cost a Napoli, Catania e Bari.
I contributi nel jobs act sono utili per fare crescere l’occupazione in questi contesti?
Non ne sono entusiasta. Il Jobs Act è una scelta politica che sposta il potere contrattuale
verso i datori di lavoro e lo toglie ai lavoratori. La defiscalizzazione è una politica molto
costosa. Ma se uno vuole buttare i soldi lo fa adesso visto che l’occupazione è molto
bassa. Visto da sud non è stata una grande scelta: i soldi sono stati presi da risorse
destinate al sud. In più si tratta di una misura identica su tutto il territorio nazionale e
difficilmente genererà incrementi occupazionali nelle regioni più deboli. Le imprese non
assumono perché non c’è domanda, non perché le regole sul mercato del lavoro sono
vincolanti. Negli ultimi 20 anni l’Italia è radicalmente cambiata e le parti sociali sono state
molto flessibili accettando contratti di tutti i tipi.
Di recente si è occupato del sistema universitario. Dopo la scuola, il governo
sembra intenzionato a intervenire di nuovo sugli atenei. Con quale approccio,
secondo lei?
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La cosa che mi lascia esterrefatto è che la politica berlusconiana sul merito e valutazioneè
stata proseguita negli stessi dientuici termini dal governo Monti, Letta e poi da quello renzi
sullì’università.
Come se lo spiega?
C’è un disegno implicito di riogranizzazione del sistema universitario ispirato
all’orientamentio selettivo che secondo me è profondamente sbagliato. Ci vorrebbe invece
un raffforzamento qualitativo. A sud ci sono università che funzionano male. Loro dicono
che bisogna chiuderle, io dico che bisogna migliorarle.
Da dove nasce questo orientamento sull’università?
La mia è un’ipotesi interpretativa. Abbiamo classi dirigenti che hanno perso la fiducia
nell’Italia e si curano di alcuni pezzettini, sperando che ce la facciano. Per questo
intervenire a Sud è così interessante. Significa credere in un sistema nazionale che piano
piano si rafforza. Non ho particolare fiducia in questo governo, ma l’italia è in grande
movimento e non bisogna perdere la speranza. Non si tratta di sparare a zero nè essere
conservatori. L’Italia prima di Renzi non era una meraviglia. Se non ci piace quello che sta
facendo, bisogna cambiarla diversamente, non difendere solo l’esistente.
Secondo lei che tipo di atteggiamento bisogna avere a sinistra rispetto alla
spending review?
Io credo che non dobbiamo rifiutare la parola efficienza, ma dobbiamo discutere qual è il
senso delle operazioni che si fanno. C’è una spending review di destra e una di sinistra.
Quella di destra riduce il più possibile l’intervento pubblico. Quella di sinistra aumenta il più
possibile l’efficacia dell’intervento pubblico, anche risparmiando, che non fa male.
La spending review di Renzi che taglierà 2,3 miliardi nel 2016 è di destra o di
sinistra?
Ho molte perplessità sulla coppia Gutgeld-Perotti che la sta facendo. Li vedo troppo
centrati sull’ottenimento di risparmi per potere tagliare le tasse. È una posizione del tutto
ragionevole che definirei un pochino di destra. La spending review dovrebbe essere molto
più incentrata sull’intervento sulla qualità. Se si taglia la spesa sanitaria a prescindere
dalle condizioni materiali non è detto che miglioro la salute delle persone ma la peggioro.
Nel sud si consumano troppi farmaci perché c’è una bassa scolarità e una minore cultura
della salute, per questo la spesa farmaceutica pro capite è più alta. Un governo
riformatore dovrebbe aumentare la qualità media degli ospedali partendo da quelli che ce
l’hanno più bassa.
È quello che stanno facendo Gutgeld e Perotti?
Al momento non mi risulta..
del 04/08/15, pag. 3
Niente sviluppo senza ricerca
Dati Istat. Produttività in calo tra il 1995 e il 2014 a causa della mancata
innovazione. La competitività del sistema Italia è andata via via
deteriorandosi a cominciare già dal periodo precedente alla crisi
economica. La ministra Federica Guidi annuncia un piano governativo
da 80 miliardi per investimenti sulle infrastrutture
Marta Fana
Tra le questioni economiche spesso dibattute per spiegare il declino italiano è possibile
annoverare quello della scarsa produttività, cioè la capacità del lavoro e dei beni capitali,
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ma soprattutto del modo in cui questi due fattori si combinano attraverso la tecnologia e
l’organizzazione dei processi di generare valore aggiunto. Per far luce sulle dinamiche
della produttività è possibile utilizzare gli indicatori relativi al periodo tra 1995 e 2014,
pubblicati ieri dall’Istat. L’evidenza più rilevante mostra che in Italia durante l’intero arco di
tempo considerato, la produttività totale dei fattori, cioè «la crescita del valore aggiunto
attribuibile al progresso tecnico e ai miglioramenti nella conoscenza e nei processi
produttivi» è diminuita di circa lo 0.3% annuo.
Certo, tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana ha subito cambiamenti strutturali,
dall’introduzione dell’euro alla crisi economica dal 2008, ma risalendo nel tempo le
statistiche ufficiali, è indubbio che il declino italiano ha radici ben più lontane, che con
caratteristiche e problemi simili risalgono a prima del 1995. È soprattutto il periodo pre-crisi
(2003–2009) quello che maggiormente spiega la dinamica italiana in cui nonostante
l’aumento, seppure in proporzioni diverse, delle ore lavorate e di beni capitali (mezzi,
macchinari, ecc..) nella produzione, il tasso di crescita del reddito complessivo prodotto da
questi è risultato negativo (-0,9% in media all’anno).
Tra il 2009–2014 la produttività totale dei fattori ha mostrato invece un aumento medio
positivo seppure esiguo (+0.4%). Questo non è dipeso da un atteggiamento anticiclico
della politica economica (più investimenti in settori strategici e in innovazione) ma da una
riduzione dell’impiego dei fattori (soprattutto del lavoro) superiore al crollo del valore
aggiunto. È così che la competitività del sistema Italia è andata via via deteriorandosi.
Purtroppo le ricette adottate hanno palesemente fallito, mostrando la palese inefficacia
degli strumenti (svalutazione salariale e defiscalizzazione svincolata per le imprese) prima
ancora che degli obiettivi.
Nessuno si è invece preoccupato degli investimenti in innovazione di processi e prodotti,
ma anche in formazione di capitale umano. In proporzione al Pil, gli investimenti pubblici in
ricerca e sviluppo in Italia sono circa la metà di quelli francesi, e quasi un terzo di quelli
tedeschi. Ancora più pronunciato è il divario nel confronto tra settori privati.
L’azione di governo, piegandosi incondizionatamente all’austerità, non soltanto ha
abbandonato l’obiettivo di ridurre una volta per tutte gli squilibri con gli altri paesi europei,
ma ha rinunciato soprattutto alla questione nazionale per eccellenza, quella del divario tra
Nord e Sud Italia, che si ripercuote sull’intero paese. Gli ultimi dati del rapporto Svimez
confermano la drammaticità del dualismo italiano.
Tornando ai dati sulla produttività, se al Centro-Nord tra il 2008 e il 2013 questa è
diminuita dello 0.8%, nel Mezzogiorno la riduzione è pari al 2.9%. Il crollo degli
investimenti che ha caratterizzato l’Italia, è stato di gran lunga più marcato nel Meridione
con una riduzione rispettivamente del 24.6% al Nord e del 53.4% al Sud.
Ancora una volta, questa è una politica che risale alla crisi dei primi anni Novanta e non a
quella del 2008: tra il 1991 e il 2008, gli investimenti pubblici al Sud passano da 10000
milioni a 4000 milioni di euro, mentre al Nord essi aumentano da 12 mila a 16 mila milioni
di euro. Ma si sa, non è solo la quantità di risorse a determinare incrementi di produttività
ma occorre una visione di sviluppo dell’intero sistema che non può che essere diretto
dall’intervento pubblico.
Per questo, gli annunci del governo, da ultimo quello della ministra dello Sviluppo
economico Federica Guidi, di destinare 80 miliardi per investimenti in infrastrutture e
relegare il ruolo dello Stato a quello di facilitatore per le imprese appaiono quanto mai
preoccupanti. Non è rinviabile un intervento pubblico che sia sistemico, ovvero destini le
proprie risorse (comprese quelle per infrastrutture) in virtù di obiettivi industriali definiti,
assumendone direttamente il controllo ed evitando la svendita ai capitali esteri di quel che
rimane dell’industria italiana.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 4/08/2015, pag. 14
Obama: il cambiamento climatico minaccia
alla sicurezza nazionale
Il piano per ridurre le emissioni del 32%. E cita papa Francesco: obbligo
morale
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK
«Lo so, i miei avversari tenteranno di fare a pezzi questo piano: hanno cominciato ad
attaccarlo prima ancora di sapere cosa c’era dentro. Dicono che abbiamo dichiarato
guerra al carbone, che l’energia costerà di più, anche se in realtà la gente risparmierà.
Che perderemo occupazione, anche se lo sviluppo delle fonti alternative creerà molti posti
di lavoro in più. Ma noi abbiamo l’obbligo morale di intervenire sui mutamenti climatici,
come sostiene anche papa Francesco nella sua enciclica. E siamo l’ultima generazione in
grado di farlo: non ci possiamo tirare indietro».
Più che l’annuncio di un passo storico — il varo del piano ambientale più impegnativo mai
adottato dagli Stati Uniti — il discorso di Barack Obama, ieri alla Casa Bianca, ha avuto il
sapore di una difesa preventiva: una blindatura dagli attacchi dei repubblicani, degli Stati
carboniferi e delle società che consumano molta energia. Non solo, per Obama i
cambiamenti climatici «rappresentano un rischio immediato per la sicurezza nazionale».
Una preoccupazione comprensibile, quella del presidente americano, visto che prima
ancora del varo del piano il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, aveva già
invitato tutto gli Stati americani a boicottarlo. Cosa che molti governatori — praticamente
tutti quelli conservatori — sono decisi a fare: partiranno raffiche di ricorsi davanti ai
tribunali e alla fine toccherà alla Corte Suprema pronunciarsi. Ma ci vorranno anni. Anni di
dispute, come per la sanità. Obama ieri si è mostrato fiducioso, forse perché in passato la
Corte Suprema ha già riconosciuto il diritto dell’Epa, l’Agenzia federale per l’ambiente, di
fissare limiti d’inquinamento vincolanti per gli Stati. Fiducioso, ma anche consapevole che
la battaglia sarà durissima. Comincerà subito: che nel primo dibattito televisivo,
dopodomani sera, i maggiori candidati repubblicani alla Casa Bianca faranno sicuramente
a gara nel denigrare il piano del presidente. Ma Obama non ha alternative e ha scelto di
agire ora anche perché spera di poter svolgere un ruolo-guida alla conferenza mondiale
sull’ambiente che si svolgerà nel prossimo dicembre a Parigi: «Sono già stati presi
impegni per la riduzione delle emissioni che scaldano l’atmosfera dai Paese oggi
producono il 70 per cento di questi agenti inquinanti: non possiamo tirarci indietro. È
questo uno dei momenti nei quali il mondo ha bisogno della nostra leadership. Siamo il
Paese che fin qui ha fatto di più contro il global warming e il nostro piano può diventare un
modello anche per altri» . Nella sua offensiva della persuasione, Obama ha anche
sottolineato che la ribellione contro il piano riguarda un numero ridotto di amministrazioni e
aziende: «Più di mille sindaci di città americane hanno già preso impegni precisi contro
l’inquinamento mentre molti produttori di elettricità stanno già modernizzando i loro
impianti ed eliminando le centrali a carbone, soprattutto quelle più obsolete. E diversi
grandi gruppi come General Motors, Wal-Mart e Ups stanno facendo scelte energetiche
compatibili con quelle del piano del governo» .
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Tutto molto ragionevole, in apparenza, ma questo non impedisce al senatore repubblicano
Marco Rubio di definire il «Clean Power Plan» della Casa Bianca «irresponsabile ed
eccessivo», mentre per il governatore del Wisconsin, Scott Walker, anche lui a caccia
della nomination repubblicana, quello di Obama è un intervento che costerà agli americani
molti posti di lavoro e un aumento del costo dell’elettricità. «La vostra bolletta salirà di 30
dollari al mese, una catastrofe», si azzarda a prevedere Marco Rubio, mentre secondo un
altro senatore della destra radicale, il texano Ted Cruz, i conti della manovra energetica di
Obama non tornano. Solo Jeb Bush, pur bocciando Obama, mostra un atteggiamento più
pacato nei confronti del piano. Che non convince anche molti esperti ed osservatori
indipendenti, ma per motivi opposti rispetto agli argomenti dei repubblicani: per le
organizzazioni ambientaliste, che pure sostengono il piano, quello di Obama è un passo
avanti che non basta ad arrestare il degrado dell’atmosfera.
Alcuni esperti notano, poi, che gli obiettivi fissati dal piano al traguardo del 2030 (meno
32% di gas-serra rispetto al 2005) sono già stati conseguiti per oltre metà. Grazie alla
nostra azione, sostiene Obama che cita gli incentivi governativi che hanno moltiplicato la
produzione di energia solare ed eolica e le norme che obbligano le case automobilistiche a
produrre veicoli che consumano meno. Grazie al mercato replicano gli analisti che
attribuiscono i progressi soprattutto allo sfruttamento dello shale gas, molto meno
inquinante del carbone, e ai mutamenti dell’economia, con molte produzioni industriali
inquinanti trasferite all’estero .
Massimo Gaggi
Del 4/08/2015, pag. 1-29
L’ultima eredità contro le lobby
MAURIZIO RICCI
IL VERO salto di qualità Obama e la politica americana sul clima lo avevano già compiuto
nel novembre scorso, quando Stati Uniti e Cina avevano preso insieme un solenne
impegno a contrastare con misure concrete il riscaldamento globale. Erano i due Paesi
che producono la maggior quantità dell’anidride carbonica che alimenta l’effetto serra.
Erano entrambi nel 2009 alla tormentata conferenza mondiale di Copenhagen.
E IN quell’occasione, di fatto, avevano svuotato la possibilità di un accordo globale che
rinnovasse gli impegni di tutti per contrastare il cambiamento climatico. Ora, insieme,
formulavano un impegno che, poi, nei mesi scorsi, hanno provveduto a quantificare nel
dettaglio. Molti critici ritengono quegli impegni insufficienti. Ma hanno spianato la strada ad
un accordo nella nuova conferenza globale che si terrà, a dicembre, a Parigi.
Quantificato l’impegno, ieri Obama ha precisato gli strumenti con cui intende rispettarlo. Al
di là di qualche aggiustamento su date e scadenze, le misure sono, più o meno, quelle
attese: una spinta decisa alle rinnovabili, soprattutto sole e vento, una porta aperta al
nucleare (che buona parte d’Europa non apprezzerà, ma che in America, dove le centrali
atomiche sono comuni, era inevitabile), un freno ai combustibili fossili e, in particolare, al
carbone, con forme che lasciano intravedere un mercato delle emissioni, simile a quello
già esistente in Europa. Ma il messaggio politico che le accompagna è nuovo nella sua
precisione, nella sua insistenza e nella sua forza. Obama sa che incontrerà resistenze e
opposizioni durissime, al Congresso, nei parlamenti statali, nel Paese. Probabilmente,
l’opinione pubblica, in maggioranza, è con lui, ha capito, dopo i disastri degli uragani come
Katrina e Sandy, davanti alla drammatica siccità che piega la California, di fronte anche a
prese di posizione, come l’enciclica di papa Francesco, i rischi del cambiamento climatico,
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ma, negli Stati Uniti, la maggioranza dell’opinione pubblica non va necessariamente a
votare. Al contrario, si mobiliteranno lobby potenti. L’esperienza dice che chi ha più soldi
da spendere nella campagna elettorale, ha più possibilità di vincere le elezioni. E, adesso,
il New York Times ha rivelato in questi giorni che poco più di 400 persone, in America,
hanno fornito metà dei finanziamenti giunti finora ai candidati delle prossime presidenziali.
Ben pochi, fra queste 400 persone, condividono l’entusiasmo di Obama per la lotta
all’effetto serra. In questo senso, il presidente consegna a Hillary — o a chi sarà il
candidato democratico — un frutto avvelenato che chi spera di succedergli dovrà essere
assai abile a gestire. Ma, non avendo più nulla da chiedere agli elettori, Obama se lo può
permettere. Come (quasi) tutti i presidenti al secondo mandato, Obama si preoccupa
dell’eredità politica che lascia. Nei primi quattro anni ha regalato all’America una riforma
sanitaria che sembrava irraggiungibile e che, invece, ha superato sia la prova dei fatti, che
quella dei giudici. Ora, punta a fare del clima un’altra sua eredità e questa scelta è, da
sola, un potente messaggio politico. Ma, facendo cosa sua la battaglia in America sul
clima, Obama finisce inevitabilmente per fare cosa sua anche la battaglia mondiale e la
conferenza di Parigi. Anche nella scelta delle parole che hanno accompagnato, ieri,
l’annuncio delle misure decise dalla Casa Bianca emerge questa volontà di assumere la
leadership delle iniziative mondiali. Il successo della conferenza di Parigi sarà il successo
o l’insuccesso storico di Obama. Non era scontato: la posta in gioco a dicembre si alza.
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INFORMAZIONE
Del 4/08/2015, pag. 6
Battaglia sui nomi per la Rai, oggi si vota
Campo Dall’Orto verso la poltrona di dg
Salgono le quotazioni di Bernabè per la presidenza. I Cinque Stelle
puntano su Freccero in cda
ROMA L’unico punto fermo riguarda la casella più importante. Salvo sorprese dell’ultima
ora — sempre possibili, come insegna la storia di quel romanzo d’appendice chiamato
nomine Rai — sulla poltrona di direttore generale della televisione pubblica dovrebbe
sedersi Antonio Campo Dall’Orto, fondatore di Mtv. Tutti gli altri nomi — a poche ore dalla
prima seduta della Vigilanza chiamata a votare il nuovo consiglio d’amministrazione —
continuano a ballare. Anche se per la presidenza viene dato in crescita il nome di Franco
Bernabè. Alcuni punti fermi ci sono, però.
Il Movimento 5 Stelle ha sciolto la riserva e, dopo aver preso la guida della stessa
commissione di Vigilanza, ha deciso di entrare anche nella stanza dei bottoni di Viale
Mazzini. La loro lista comprende cinque persone, fino a ieri sera c’era ancora Milena
Gabanelli (che ha declinato). Al primo posto, e con grande distacco sugli inseguitori, c’è
l’ex direttore di Rai2 e autore televisivo Carlo Freccero. A seguire ci sono Stefano Rodotà,
che sembrava scartato ma nelle ultime ore ha recuperato quota, il giornalista Riccardo
Iacona e l’ex parlamentare per l’Italia dei valori Elio Lannutti, ora alla guida
dell’associazione dei consumatori Adusbef. Forza Italia ha ripetuto il suo no all’ipotesi di
Luisa Todini, che era già stata nel cda in quota azzurra ma adesso viene considerata
vicina a Matteo Renzi. Il partito è orientato a sostenere Arturo Diaconale, giornalista,
presidente del Parco nazionale del Gran Sasso. Ma non è da escludere la conferma di
Antonio Pilati. La galassia centrista potrebbe concentrare i suoi sforzi su Paolo Ruffini,
l’ex direttore di Raitre che adesso guida Tv2000, la televisione della Cei, la Conferenza
episcopale italiana. Per il Partito democratico continuano a girare diverse ipotesi. Come
candidati graditi alla minoranza, è in rialzo il nome di Stefano Balassone, tra gli esperti
consultati per la riforma del servizio pubblico. Ma resta in lizza anche quello di Sara
Bentivegna, professoressa di Comunicazione politica all’Università La Sapienza di Roma.
Sempre in quota pd nelle ultime ore si sono rafforzati due nomi che sarebbero due ritorni.
Il primo è quello di Nino Rizzo Nervo, che conosce bene il mondo Rai sia come giornalista
sia come componente del consiglio d’amministrazione. E che potrebbe avere anche il
ruolo di consigliere anziano, cioè guidare il cda fino all’elezione formale del suo nuovo
presidente. Il secondo ritorno sarebbe quello di Giorgio Van Straten, anche lui già nel cda
tra il 2009 e il 2012 e da sempre considerato molto vicino a Walter Veltroni. Ha appena
cominciato il suo incarico di direttore dell’Istituto di cultura italiano di New York ma questo
non sarebbe considerato un impedimento. La riunione di ieri sera del Pd non ha consentito
di chiudere il cerchio. Ma ha dovuto prendere atto del fatto che forse non sarà possibile
garantire la parità di genere, cioè lo stesso numero di uomini e donne nel consiglio.
Restano ancora in lizza tutte le ipotesi circolate negli ultimi giorni, da Giovanni Minoli a
Marcello Sorgi fino a Giulio Anselmi. Tra autocandidature e nomi messi in circolo solo per
essere bruciati la lista dei papabili, scherzano in queste ore a Viale Mazzini, coincide più o
meno con l’elenco del telefono di Roma. Ieri sera è anche circolata una lista di undici
persone, tutti uomini, che salvo poche eccezioni non sembra avere molte probabilità di
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successo. Nell’elenco ci sono Roberto Amen, giornalista Rai, Sebastiano Roccaro,
direttore dell’Istituto superiore di giornalismo della Sicilia, e altri ancora come Leonardo
Bianchi, Dario Galli e Giovanni Galoppi, oltre ai più noti Freccero e Minoli. Le uniche vere
certezze arrivano da chi si chiama ufficialmente fuori: come Marco Follini, Andrea
Purgatori. Come anche Bruno Vespa, che alla presidenza aveva già detto no nel 2001.
Lorenzo Salvia
del 04/08/15, pag. 7
L’agenda. Il rinnovo del «servizio pubblico» entro il 6 maggio 2016 per
dieci anni
Fra i primi nodi i poteri dei vertici e la
concessione in scadenza
Saranno tre anni molto intensi per il nuovo vertice Rai. Che dovrà adeguare strategie e
politiche non solo rispetto ai cambiamenti in atto nel mercato digitale, che incidono sia
sull’offerta sia sulla domanda di televisione.
Tra qualche mese, se e quando il disegno di legge approvato la scorsa settimana al
Senato diverrà legge, cambierà l’equilibrio dei poteri interni al vertice. Dalla prossima
settimana, a vertice completato, forse già da venerdì, il direttore generale - con ogni
probabilità Antonio Campo Dall’Orto - avrà, per nominare i dirigenti di primo e secondo
livello, compresi i direttori di rete, newsroom e testate, oltre che i vicedirettori generali, solo
un potere di proposta. Sarà il Cda a dover approvare o meno le sue proposte.
Da quando sarà approvata la nuova legge, invece, le nomine diverranno competenza del
direttore generale, che avrà le funzioni dell’amministratore delegato definite dalla nuova
legge. Il direttore generale dovrà sentire obbligatoriamente il Cda solo per quelle editoriali.
Non è un parere vincolante, tranne che per i direttori di testata se espresso dai due terzi
dei nove consiglieri (se la legge non sarà modificata alla Camera). Riuscirà il nuovo vertice
Rai ad avere continuità di azione con questa modifica, in corso d’opera, delle fonti di
nomina e, in ultima istanza, dei poteri interni? Non avrà senso, ad esempio, che il Cda, in
base allo statuto aziendale, rilasci una delega al presidente, come quella ricevuta da Anna
Maria Tarantola, che permette di nominare i dirigenti, esclusi quelli editoriali e siglare i
contratti oltre i 2,5 milioni. Tali competenze, infatti, passeranno al direttore generale (per i
contratti sino a 10 milioni) al momento dell’approvazione della nuova legge.
Un altro “passaggio a Nord Ovest” importante sarà la scadenza della concessione di
servizio pubblico alla Rai, che andrà rinnovata entro il 6 maggio 2016, per dieci anni. Le
emittenti televisive locali ambiscono, non da oggi, a ricevere una quota del canone, mentre
sembra uscita dall’orizzonte del governo un’assegnazione o una gara per il servizio
pubblico tra diversi soggetti. Lì, però, il vertice avrà il suo vero mandato e saprà se
l’azienda pubblica manterrà l’attuale perimetro editoriale e occupazionale. Decisivo, per il
futuro della Rai, sarà la decisione sulle fonti finanziarie, a cominciare dalla riforma del
canone. La relativa delega al Governo è stata bocciata al Senato. Matteo Renzi non ha
escluso di poter intervenire con la legge di Stabilità. Da due anni il canone è fermo a
113,50 euro e la Rai ha ricevuto 150 milioni in meno nel 2014 su quanto riversato dal
Tesoro e riceverà 80 milioni in meno dal 2015 in poi. L’esercizio 2015 non presenta
difficoltà insormontabili, ma quello 2016, il primo interamente sotto la responsabilità del
nuovo vertice, rischia di avere delle criticità: le Olimpiadi sono state già acquisite ma la Rai
deve ancora acquistare gli Europei di Calcio. Una perdita sui 150 milioni potrebbe essere
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una chiusura “accettabile” (a parte eventuali introiti straordinari, come quelli di RaiWay sul
bilancio 2014 o di tagli sui costi). La pubblicità è stabile, ma non sembra promettere
incrementi significativi. Un problema è costituito dalla debolezza del magazzino diritti
cinema, soprattutto per Rai2 e Rai3 (Rai1 ha quasi tutta la fiction). Al contrario del
passato, la Rai oggi sfrutta, con i canali digitali, al 100% i diritti acquisiti, che cominciano a
scarseggiare. La riduzione di questi canali, però, oltre a mettere a rischio un 6-7% di
audience (quando arrivano pericolosi concorrenti, come Sky e Discovery ai numeri 8 e 9
del telecomando), non permette di ammortizzare e valorizzare il costo dei diritti, quindi ne
indebolirebbe l’acquisto. La partita dei grandi eventi, per la Rai, è spesso a perdere: i loro
costi sono più elevati degli introiti supplementari che garantiscono.
Torniamo ai cambiamenti di sistema: ad ottobre arriva Netflix, con la sua offerta di film e
serie a basso prezzo (sette-otto euro al mese nei principali mercati europei), la Prime Tv di
Amazon scalda i motori, Mediaset, in un comunicato stampa, si è definita a sua volta una
società Ott (over-the-top) che diffonde i contenuti su tutte le piattaforme, Internet incluso. Il
mercato è ancora nazionale, ma sempre più condizionato dall’estero: uno dei compiti che il
Governo intende assegnare alla Rai, come ha già scritto nel documento che ha
“accompagnato” il disegno di legge sulla governance, è quella di riconquistare posizioni
sui mercati europei e mondiali con prodotti nazionali,a partire dalla fiction.
Vi sarà anche da gestire, in questi tre anni, l’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali,
dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di televisori e decoder. La nuova qualità
dell’immagine costringerà la Rai e gli altri broadcaster a rivedere formati e linguaggi.
L’informazione, ad esempio, avrà a disposizione i dettagli di una singola immagine. La
fiction dovrà adottare “campi” più cinematografici.
Marco Mele
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 4/08/2015, pag. 11
«Più controlli, tolleranza zero Chiuderemo
tutti i locali che non rispettano la legge»
Il ministro: ci si può divertire fino all’alba senza droga e alcol
ROMA Ministro Angelino Alfano, lei crede davvero che chiudere le discoteche serva
a fermare lo spaccio di stupefacenti?
«Non si tratta di risolvere il problema dello spaccio, ma di impedire che i locali notturni
diventino vere e proprie centrali per l’approvvigionamento di sostanze proibite».
Dunque conferma la linea dura?
«Continueremo a prendere provvedimenti severi in materia di prevenzione e repressione,
ma su un punto voglio essere chiaro: non esiste linea dura contro le discoteche, ma contro
la vendita e la cessione di droga nelle discoteche. Fino a che i locali rimangono luoghi di
divertimento, i gestori possono contare sulla collaborazione delle forze dell’ordine. Ma
contro lo sballo che uccide adotteremo la tolleranza zero. Non possiamo rimanere a
guardare i ragazzi distruggersi il cervello e rischiare la vita. Se non addirittura perderla».
Vuol dire che disporrete la chiusura di altri locali?
«Agiremo contro coloro che non rispettano la legge».
Il provvedimento di sequestro del Cocoricò è scattato dopo la morte di Lamberto
Lucaccioni, un giovane di appena 16 anni. Non si poteva intervenire prima?
«Questa sarà materia di ricorso».
Lei parla di prevenzione. Che cosa state facendo?
«Io ritengo che i controlli a tappeto nei locali dove più alto è il rischio di spaccio siano la
strategia più efficace. Sono le questure a decidere le modalità operative. Ho emanato
direttive affinché vengano effettuati il maggior numero di interventi per verificare le condizioni dei conducenti. Se vogliamo ottenere risultati, abbiamo bisogno della
collaborazione di tutti».
A chi si sta rivolgendo?
«Ai cittadini, soprattutto ai genitori. Il numero verde attivato per le segnalazioni relative alle
scuole ha avuto un successo inaspettato. Contiamo di poter raggiungere lo stesso
obiettivo in questo settore».
I gestori del Cocoricò lamentano un danno di oltre due milioni di euro causati dalla
chiusura di quattro mesi.
«Voglio essere chiaro nei confronti di chi fa impresa nel settore dell’intrattenimento: noi
puntiamo alla collaborazione con loro perché riteniamo che la prevenzione aiuti il loro
business. Credo che di fronte alla morte di un giovane di 16 anni per droga in una
discoteca, oltre alla perdita per il Paese ci sia un grave danno proprio per l’immagine di chi
gestisce i locali».
Dicono che la sanzione è troppo severa.
«Abbiamo il dovere di seguire la linea dura».
Anche Matteo Salvini fa questo commento.
«Non mi dica così altrimenti mi chiedo dove ho sbagliato».
Sui social network si è scatenata la polemica. Molti dicono che allora dovreste
chiudere le autostrade per prevenire gli incidenti stradali oppure gli stadi per
fermare la violenza. Che cosa risponde?
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«Quella delle strade mi sembra una boutade , per quanto riguarda gli stadi vorrei ricordare
che di fronte a episodi di violenza imponiamo le “porte chiuse” oppure il divieto di
trasferta».
Ma in discoteca non si rischia di arrivare al proibizionismo?
«Esattamente il contrario: lo spaccio in Italia è fuorilegge. Non possiamo consentire che ci
siano zone franche. Noi siamo interessati a mantenere gli spazi del divertimento e dello
sport bilanciando le misure da adottare con meno invasività possibile. Ma al centro della
nostra attenzione c’è la vita delle persone».
I gestori del Cocoricò dicono di aver avuto la stessa preoccupazione. Non ci crede?
«Voglio dirlo con grande chiarezza: c’è una dimensione ancor più insopportabile che è
quella riguardante i minorenni. Non possiamo consentire di lasciare aperti luoghi in cui a
drogarsi e ubriacarsi siano ragazzini che hanno meno di 18 anni».
Che cosa risponde a chi dice che chiudendo i locali i giovani continueranno a
sballarsi altrove?
«Per ogni mondo in cui si annida la criminalità noi facciamo misure adeguate. Non ci
interessa generalizzare. Le leggi sono uguali per tutti, le misure e gli strumenti si
differenziano in base ai settori di intervento. In materia di prevenzione devono essere
modulati in maniera da essere efficaci».
I gestori del Cocoricò propongono il Daspo per spacciatori e consumatori abituali.
«Non mi sembra una cattiva idea, terrò conto di questo suggerimento all’interno del
disegno di legge sulla sicurezza urbana. In ogni caso voglio ribadire che il provvedimento
di chiusura ha una natura amministrativa, non ha intento punitivo contro il proprietario o
l’impresa di gestione».
Però loro lamentano la perdita del posto di lavoro per circa 200 persone.
«Messa così sembra un derby tra l’applicazione della legge e i livelli occupazionali. Il
questore di Rimini era tenuto ad applicare le leggi e lo ha fatto in maniera egregia dopo
aver approfondito ogni aspetto della vicenda».
Annunciano ricorso al Tar. Questo vi preoccupa?
«No, anzi conferma che si tratta di una sanzione amministrativa. I giudici valutino
serenamente e noi prenderemo atto della loro decisione».
Alcuni esponenti del suo partito l’Ncd si sono mostrati in disaccordo con il provvedimento.
Era una critica a lei?
«Chi rappresenta istanze del territorio è particolarmente attento alla esigenze
occupazionali e imprenditoriali. Noi pensiamo di salvaguardare l’impresa
dell’intrattenimento tenendo lontano pusher e droga e riaffermando che ci si può divertire
fino all’alba anche senza impasticcarsi o ubriacarsi di superalcolici» .
[email protected]
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