- Associazione 20 Maggio

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- Associazione 20 Maggio
Storie selezionate
Ottobre 2012
Autori del rapporto:
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Patrizio Di Nicola (coordinatore del
gruppo di ricerca), docente di Sistemi
Organizzativi
Complessi
presso
il
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca
Sociale – Sapienza Università di Roma.
Francesca della Ratta-Rinaldi, dottore di
ricerca in Metodologia delle Scienze Sociali
e Politiche, ricercatrice presso l’Istat e
membro del Collegio docente del dottorato
RASS – Ricerca Applicata alle Scienze
Sociali alla Sapienza Università di Roma.
Ludovica Ioppolo, dottore di ricerca in
Ricerca Applicata alle Scienze Sociali alla
Sapienza Università di Roma, lavora per
Libera. Associazioni, nomi e numeri
contro le mafie.
Simona Rosati, dottore di ricerca in
Scienze della Comunicazione alla Sapienza
Università di Roma e ricercatrice presso
l’Istat.
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ALCUNE STORIE ESEMPLARI
Di seguito sono presentate alcune delle storie che abbiamo analizzato. Scegliere tra le 470 storie che
gli intervistati ci hanno voluto affidare è stato piuttosto difficile. Per cercare di rappresentare al meglio
la varietà di condizioni narrate, la scelta è stata guidata da tre criteri: la possibilità di generalizzare la
storia, la presenza di alcune delle caratteristiche lessicali discusse nel precedente capitolo
(concentrazione di non, aggettivi negativi), e l’etereogeneità dei casi trattati in riferimento alle variabili
del questionario. Soprattutto riguardo alla condizione professionale abbiamo cercato di proporre le
storie rappresentative delle diverse professioni rilevate. Peraltro, la professione svolta è il criterio di
ordinamento delle storie, che vanno da quelle del gruppo 1 (imprenditori e dirigenti) a quelle del
gruppo 8 (professioni non qualificate. Gli interventi sul testo sono stati minimi e finalizzati alla
leggibilità della storia e a garantire l’anonimato dell’autore1.
992 – Uomo, 51 anni e più, diplomato coniugato o convivente, residente al Nord, ex imprenditore e direttore tecnico,
tra due anni vede il suo futuro: peggiore di ora
Sono un ex imprenditore nel campo edile/stradale. Avevo 150 dipendenti ed in azienda lavoravano
anche mia moglie e due figli. La mia era una media impresa che operava in tutto il Nord Italia, solo nel
campo dei lavori pubblici, e che per merito del sistema bancario (restrizione fidi) e grazie ai patti di
stabilità (mancati pagamenti) ha dovuto chiudere, perdendo tutti i beni personali. Tengo a precisare che
oltre a fare lavorare 150 dipendenti e la mia famiglia, avevo un indotto altrettanto importante di
artigiani. Fatturavo circa € 15.000.000,00 ed avevo già in programma lavori per due anni. Oggi sono
disoccupato a 52 anni, ed i miei figli di 22 e 25 anni lo sono altrettanto. Mia moglie fortunatamente ci
mantiene facendo la badante di mia madre e pertanto viviamo con la sua pensione. Nonostante per 30
anni ho aiutato tutti, oggi nessuno aiuta me e la mia famiglia. Non riusciamo a ripartire causa il nome
che portiamo (fallimento) e non troviamo nessuna collocazione nemmeno provvisoria almeno per i
figli. Sono ovviamente molto deluso e solo la mia caparbietà e determinazione spero mi aiuterà ad
uscirne. Oggi non riesco neppure a pagare alcune bollette di utenze, abbiamo fermato un’auto nel box
per risparmiare ed attendiamo che le cose migliorino mettendoci tutti i giorni a disposizione del
mercato, in qualsiasi campo.
112 – Uomo, da 31 a 40 anni, laureato, coniugato o convivente, residente all’estero, professionista/lavoratore in
proprio, antropologo, tra due anni vede il suo futuro: peggiore di ora
Io ho cominciato a lavorare tardi, e ho lavorato sempre saltuariamente mentre facevo l’università: ho
fatto il professore d’informatica quando avevo 18 anni, poi l’animatore nei campi scuola per bambini,
laboratori; ma vivevo con i miei genitori mentre studiavo. Per fare la tesi sono andato in America
Latina, e me lo sono pagato lavorando in biblioteca in facoltà; quando ho finito ho dovuto fare il
servizio civile, e nel frattempo lavoravo in un centro per adolescenti, che era una truffa (…). Tra lo
schifato e lo speranzoso, appena ho potuto sono emigrato: sono andato in Spagna, a Barcellona, come
tanti! era l’inizio del 2002 e io avevo 22 anni: appena dopo Genova.
A Barcellona ho fatto di tutto, pure il doppiatore per le macchine dei giochi d’azzardo! Traduttore,
cameriere, manovale in un’impresa di infrastrutture per i concerti, ma soprattutto scuole, laboratori,
comunità educative. Nel 2006 sono riuscito ad avere il mio primo lavoro da educatore: sempre contratti
temporali, anche se almeno erano contratti, rispetto a quello che facevo a Roma: coi contributi, e i
sussidi di disoccupazione. Tre o quattro anni fa ho cominciato a esplorare invece quello che sarebbe il
mio vero campo di lavoro, l’antropologia. Con degli amici abbiamo presentato una serie di progetti di
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Gli autori delle storie selezionate hanno espressamente autorizzato la pubblicazione integrale delle storie. Abbiamo in ogni
caso cercato di rendere meno espliciti possibili i riferimenti al contesto di lavoro al fine garantirne al massimo l’anonimato.
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ricerca, e abbiamo preso finanziamenti: viverci è difficilissimo, i soldi arrivano sempre un anno dopo il
lavoro, e sono sempre pochissimi (diciamo 500 euro al mese ), ma io ci sono riuscito a stare anche
abbastanza largo, sia perché ho arrotondato con i sussidi per la disoccupazione, sia perché ho fatto altri
lavori, come educatore o di nuovo manovale. Per starci ho dovuto vivere sempre e comunque al limite,
per alcune epoche abitando in case occupate, e cercando comunque sempre gli affitti più economici.
Però sono riuscito a mantenerci anche mio figlio! Tra poco mi pubblicheranno un libro da una ricerca:
non ho nessuna prospettiva di futuro, però sono contento di potermi sentire antropologo, e di non
essere rimasto bloccato in nessuna delle professioni che ho dovuto fare finora che non fosse la mia.
Vorrei tornare in Italia, ed avere un altro figlio... ma non sarà facile visto che la ricerca finisce l’anno
prossimo ...
445 – Donna, fino a 30 anni, titolo post laurea, coniugata o convivente, residente al Centro, dipendente a termine,
content editor, tra due anni vede il suo futuro: migliore di ora
Precario è lavorare 6 anni senza un contratto, ma doverlo fare per pagarsi l’affitto. Precario è
oscurare la tua vita, ma doverlo fare per poter studiare. Precario è non pretendere, perché altrimenti
non lavori più. Cameriera, in nero, per 6 anni. Content editor, a tempo determinato per 4 mesi. Content
editor (ancora) a tempo determinato (ancora), per 8 mesi. Il precariato è una condizione di vita. Perché
il lavoro nobilita l’uomo, o almeno dovrebbe, ma se la forma è quella di incerta durata, allora la vita
diviene precaria anche essa. Il precariato è uno stile di vita. Perché se sai che oggi lavori, domani non
so, devi basare le tue scelte, i tuoi bisogni, i tuoi desideri non in base a ciò che oggi hai, ma in base a
quello che domani potresti aver bisogno di avere. Il precariato è logorante, logora la stima di te stessa, la
fiducia in te stessa, la voglia di lottare, la voglia di costruire. Costruire in modalità precario vuol dire
scavare in riva al mare; non sai mai quando arriverà l’onda che cancellerà tutta la strada che hai fatto.
Ho 29 anni, e lavoro da 8 anni, non ho mai avuto un lavoro non precario, ed ho paura del lavoro non
precario. Ho paura dell’indeterminato, mi sembra un periodo troppo lungo, e così la mia generazione è
cresciuta, senza sapere cosa voglia dire la stabilità. (…)
859 – Donna, da 31 a 40 anni, titolo post laurea, nubile, residente al Centro, professionista/lavoratore in proprio,
giornalista free lance, tra due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Lavoro da otto anni e da otto anni ho la partita IVA. Ci sto anche abbastanza bene, io, con la partita
IVA. Ma il mio cliente principale la usa per farmi lavorare come l’ultimo dei suoi dipendenti e questo
non mi va giù. Da sette anni ho contratti di qualche mese e adesso, per esempio, non so se il prossimo
comincerà tra due settimane o tra tre mesi (…). Sono contratti molto malpagati, che descrivono un
lavoro diverso da quello che mi si chiede, che di fatto è totalizzante. I miei vicini di scrivania fanno più
o meno le stesse cose ma con contratti a tempo determinato quindi continui e con una lunga serie di
(quelli che a me appaiono insopportabili) privilegi: la mensa, la malattia, il sussidio di disoccupazione e
così via. Non solo: io vengo pagata due lire, con enormi ritardi e insensate gabelle (…). La mia idea,
però, è che ci sia un errore di fondo nel dibattito su quelli come me: la soluzione al problema delle
partite IVA forzate e dei liberi professionisti malpagati, malcontrattualizzati, mal utilizzati non è
necessariamente l’assunzione a vita. A me non interessa, per esempio, sarebbe la mia morte
professionale, per il tipo di cose strane che faccio. E poi da cittadina, l’idea di pagare un sacco di
stipendi statali in più a certi miei colleghi che hanno lo stesso contratto mio (più o meno) ma che sono
lì per ragioni politiche, di letto o di opportunità, mi mette i brividi. I contratti come il mio massacrano
quelli come me, ma sono anche il modo per pagare gente che altrimenti saresti costretto a far lavorare
davvero, altrimenti non sapresti come remunerare. Non voglio far morire Sansone con tutti i Filistei,
ma i tempi stanno cambiando e a metà del guado mi piace più chi guarda avanti di chi guarda indietro.
Insomma: quando ho cominciato a lavorare io c’erano già Internet, l’euro e la partita IVA. Va tutto
bene: ci sono abituata. Ho un bel lavoro, me lo sono scelto e me lo coccolo: ho tanti clienti anche se
tutti da pochi soldi. Ho la possibilità di lavorare per la (sedicente) più grande azienda culturale del paese.
Va bene, sto bene, sto molto bene. Va meno bene che non mi paghino per mesi, che mi diano due lire,
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che non sappia quando ricomincerò a lavorare e che per di più quando si parla di riforma del lavoro
senta dire che per smascherare le false partite IVA bisogna fare una indagine sui professionisti, invece
che sulle aziende. Il problema non è ontologico, mio o della partita IVA, è dell’Azienda che la usa così.
Preoccupazioni: invecchiare perdendo lavori. Vedo che ai miei colleghi anziani sta capitando. Bravissimi
professionisti carichi di esperienza alle soglie dell’indigenza, qualcuno si pente di aver fatto figli. E loro
sono quelli cresciuti nei ruggenti anni Ottanta. Delusioni: tutti ‘sti titoli di studio e ‘ste lusinghe, poi la
professione intellettuale la trattano da hobby anche i migliori.
1893 – Donna, da 31 a 40 anni, laureata, coniugata o convivente, residente al Nord, professionista/lavoratore in
proprio, redattore, tra due anni vede il suo futuro: peggiore di ora
Ho sempre saputo di essere una precaria, almeno dopo il mio ultimo contratto a tempo
indeterminato, conclusosi per fallimento dell’azienda. Ma la gravità e l’instabilità della mia situazione mi
si è presentata soprattutto quando sono rimasta incinta. La differenza di trattamento tra una maternità
precaria e una stabile sono così immense da non dormirci la notte per il nervoso. Lavoro nel settore
dell’editoria, con una finta partita Iva, a mio avviso la situazione contrattuale peggiore. Sono a casa da
quasi un anno per maternità, ma la mia scrivania è occupata da uno stagista non pagato. Tornerò solo
se il lavoro aumenterà, altrimenti i miei colleghi uomini e senza figli si divideranno il mio lavoro, più lo
stagista ad aiutare. (…) Sto soffrendo la mancanza della maternità facoltativa, delle ore di allattamento,
dei permessi per malattia del bimbo, l’insicurezza di ritrovare il mio lavoro e molto altro. Soprattutto
l’idea che non ho diritto al sussidio di disoccupazione mi distrugge, perché lo trovo completamente
ingiusto. Come se una partita IVA (costretta, oltretutto, con un solo cliente e l’obbligo di frequenza)
non potesse essere mai disoccupata. Una finta partita IVA non ha diritto a niente (assegni famigliare del
comune, tfr, cassa integrazione guadagni, sussidio di disoccupazione, eccetera), non vengono
considerate precarie e se ci penso veramente non ci dormo. Per il futuro non mi aspetto niente di
meglio, spero solo in più consapevolezza da parte dei miei colleghi. Io ho avuto dei contratti a tempo
indeterminato, quindi so che cosa ho perso e quali diritti ci negano, i miei colleghi neanche li
conoscono e accettano questa situazione assurda. La mia paura è che non si riesca mai a distinguere tra
vere e finte partite IVA e quindi di non riuscire ad accedere a quei pochi diritti che si stanno cercando
per i contratti precari. Ho paura che ci dimenticheranno perché la nostra è una situazione molto
complessa da capire a livello istituzionale.
140 – Donna, fino a 30 anni, laureata, nubile, residente al Nord, collaboratrice, ricercatrice, tra due anni vede il suo
futuro: peggiore di ora
A trent’anni non è facile. Non è facile lasciar passare, far finta di niente. Perché siamo in quell’età in
cui non tutto è ancora svanito, siamo ancora sulla scia dei grandi ideali tardo-adolescenziali e abbiamo
malinconia di quei sogni che man mano diventano utopie. Non ci sentiamo ancora totalmente battuti e
quel lumicino di speranza di cambiare il mondo non ci ha ancora abbandonato. Forse il nostro disagio è
solo generazionale. Ma non credo (…) A trent’anni non è più tanto facile andare all’estero. (…) A
trent’anni non è facile sentire il peso della precarietà. Per quei mille motivi che troppi politici fingono di
capire o di non capire a seconda di come tira il vento. Perché loro non hanno trent’anni, e non sono
precari. Essere in perenne affitto perché non sai tra sei mesi dove finirai, prendere mobili Ikea perché
tanto non ha senso che durino più di due anni, non sentirsi sicuri nel legarsi ad una persona, casa mutui
figli che non rientrano nel tuo vocabolario, come puoi capirlo se non sei un trentenne precario? Non
puoi, esattamente come io non posso capire i 10 minuti di pausa visto che non-lavoro in catena di
montaggio. Non è facile non essere capiti. Non è facile sentire che la tua precarietà a volte è considerata
un privilegio, e che quel pezzo di carta che maschera un lavoro subordinato ti fa sentire in colpa, perché
c’è chi invece non ha nemmeno quello, o perché c’è chi è precario ma lo è più di te, o è pagato peggio,
o è al quinto contratto mentre tu sei appena al primo. Non è facile nemmeno lamentarsi, in questa
condizione. A trent’anni non è facile accorgersi che questa precarietà ti è talmente entrata nelle vene al
punto che non avere straordinari pagati, ferie e malattie non ti sembra una cosa strana. Che avere un
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contratto di lavoro autonomo e poi stare alle direttive del capo come fossi un dipendente ma senza
averne i diritti e le garanzie non ti sembra una cosa illegale. A trent’anni capita che ti senti addirittura
grato al tuo capo per darti così tanto lavoro, così tanta fiducia, perché questo forse è un segno che gli
piaci, e che se stai zitto e buono e lavori anche fino a mezzanotte, allora magari quando scade il
contratto te lo rinnova. E ringrazi. Non è facile accorgersi di questo e sentirsi un idiota, a trent’anni. A
trent’anni non è facile rendersi conto che se neppure i diritti guadagnati in anni di lotte possono essere
mantenuti, con quale forza tu, che non hai nemmeno un sindacato, potrai rivendicare i tuoi? Non è
facile accettare che non è di Marchionne la colpa, che lui fa il suo lavoro di manager, che consiste nel
fare profitti per gli azionisti. Che a lui non è richiesto di essere eticamente responsabile, ma che è lo
Stato che dovrebbe garantire equità e giustizia sociale. Ma non lo fa, perché pure lo Stato ha deciso di
comportarsi da manager. E pensate sia facile a trent’anni vivere precari sotto le direttive di un capo
manager cercando il riconoscimento dei tuoi diritti da uno stato manager? A trent’anni non è facile non
essere rappresentati da nessuna parte politica. (…) Non è facile essere tanti ma soli, a trent’anni.
717 – Donna, da 31 a 40 anni, titolo post laurea, nubile, residente al Nord, dipendente a termine, insegnante, tra
due anni vede il suo futuro: peggiore di ora
Precarietà è ansia, è privazione della libertà di scelta, è mancanza e senso di vuoto. Precario non è
solo l’aggettivo qualificante il lavoro. Per chi come me non ha un lavoro stabile, l’aggettivo precario
qualifica tutto ciò che ci circonda. E allora diventa precaria la vita perché non sai fino a quando potrai
contare sullo stipendio, non sai fino a quando avrai possibilità di pagarti l’affitto, non sai fino a quando
potrai fare a meno di accettare aiuto dai tuoi genitori. E allora precaria diventa la tua crescita, e ti ritrovi
ogni tanto a ritornare figlia anche a trentun anni. Precarie diventano le possibilità di fare una vacanza, di
viaggiare anche low cost, non solo per motivi economici ma anche pratici. Chi è precario non accumula
ferie, non riesce ad organizzarsi a lungo termine. Si vive l’immediato, il futuro sparisce schiacciato dalle
necessità imminenti... oppure quando ci pensi diventa così lontano, quasi impossibile da concepire.
Credo che farò una bella carriera precaria nella scuola. Sarò sempre un’insegnante di passaggio e mi
toccherà cambiare colleghi, alunni, scuole e di tanto in tanto aspettare a casa in attesa che qualcuno si
ammali o decida di allargare la propria famiglia. E a nulla servirà aver prestato al meglio il mio lavoro, i
complimenti dei genitori e il dispiacere degli alunni che devo lasciare. Precaria è la stabilità interiore,
perché ci sono giorni in cui l’incertezza diventa qualcosa che senti fisicamente nello stomaco e tra le
costole quando respiri. Precario, a pesarci è l’etimologia della parola che la rende così infame. Precario
cioè ottenuto per preghiera, concesso temporaneamente. Io non voglio pregare nessuno, né avere
concessioni. Io voglio meritarmi il lavoro, che tra l’altro amo, ma che, ultimamente, invece di essere la
mia passione sta diventando un tormento.
817 – Donna, da 31 a 40 anni, diploma, separata, residente al Nord, dipendente a termine, insegnante, tra due anni
vede il suo futuro: più o meno uguale
Sono una docente precaria della scuola dell’infanzia, in possesso di 2 abilitazioni, per non parlare
dell’abilitazione all’insegnamento alla scuola primaria tramite il concorso ordinario del 1995. Ho 40 anni
e lavoro da 16 nella scuola dell’infanzia con contratto a tempo determinato: ho lavorato per 10 anni
nelle scuole comunali emiliane e quando, stanca di una vita fatta di sacrifici (998 euro di stipendio, un
affitto da pagare di 550 euro ed un figlio da crescere da sola ...), ho deciso di trasferirmi in Lombardia,
dove le possibilità di essere assunta a tempo indeterminato nella scuola statale erano, nel 2006,
sicuramente alte!
Mi avventuro, quindi, in un trasferimento e trasloco, cambiando vita e ambiente e facendoli
cambiare anche a mio figlio ... ho iniziato a lavorare da subito con incarichi annuali, agognando il posto
fisso ... e oggi sono ancora qui a collezionare punteggio, ad andare contro la mia etica, iscrivendomi a
quei corsi di perfezionamento che per anni ho criticato, ma vedendomi superare nelle graduatorie
permanenti da persone che erano anche di 50 posizioni dopo me, ho deciso, quest’anno di farlo
anch’io. Mi chiedo ancora il senso di ciò che ho fatto, prima di tutto perché a livello professionale, il
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corso non mi ha dato nulla e poi perché questa la ritengo una guerra tra poveri, poiché quando tutte
avremmo raggiunto i 10 punti valutabili per titoli, ci ritroveremo alla situazione di prima, con la
differenza di non avere più in tasca i 2.200 euro spesi per i “tre-puntifici”. La cosa che mi rattrista è che
dò anima e corpo per il mio lavoro, spendo tanto del mio tempo libero per organizzare, programmare,
preparare attività per i miei bambini, i bambini che quest’anno seguo, ai quali mi affeziono, che si
affezionano a me, con i quali instauro un rapporto importante, positivo, di fiducia, bambini che il
prossimo anno non so se vedrò ancora, perché dovrò aspettare le convocazioni di agosto prossimo per
sapere quale sarà il mio destino, quale sarà il destino dei miei bambini... Da 16 anni lo stesso patema, la
medesima sofferenza, per me, per loro... per non parlare dell’aspetto economico, perché se sono
fortunata e riesco a trovare l’incarico al 31 agosto, non mi lamento neanche tanto, nonostante la fatica
di arrivare a fine mese, con le solite spese di affitto e varie per la casa e per il figlio, ma se mi capita un
incarico al 30 giugno, non ho scampo: 800 euro circa di disoccupazione per luglio ed agosto... coi quali
naturalmente non riesco neanche a pagare le spese... e tristemente, mi è capitato di ricorrere a prestiti da
familiari o addirittura, per pagare delle bollette, l’estate scorsa ho dovuto fare un finanziamento. E non
vi dico di quando ho dovuto comprare auto (una 600, mica il macchinone!), naturalmente con
finanziamento, ma la finanziaria, visto il mio contratto a tempo determinato non mi concedeva il
prestito, e anche in questo caso ho dovuto rivolgermi ai miei affinché mi facessero da garanti. Potrei
raccontare per ore ed ore delle difficoltà a cui ogni giorno, da 16 anni, mi sono trovata di fronte ... e se
penso che la parola futuro, non fa più parte dei miei pensieri, che vivo solo dell’oggi, che non posso
fare progetti, non posso farne per mio figlio, che studia alle superiori, che vorrebbe laurearsi, che
dovremmo ancora e ancora rimboccarci le maniche per raggiungere i nostri obiettivi, per vivere la
quotidianità dignitosamente... mi spaventa un po’, mi stanca un po’, ma che altro fare se non stringere i
denti, continuare a fare rinunce e cercare comunque qualcosa che ti regali un sorriso, perché la serenità
forse l’avrò quando andrò di ruolo.
540 – Donna, da 41 a 50 anni, titolo post laurea, coniugata o convivente, residente al Nord, collaboratrice,
consulente comunicazione, tra due anni vede il suo futuro: migliore di ora
Dopo 15 anni di lavoro con incarichi di crescente responsabilità nell’editoria e nell’e-commerce,
nella primavera 2011 mi sono trovata a spasso, 3 misere mensilità come buonuscita, due figli e
fortunatamente un marito dipendente. Lo spirito d’iniziativa non mi manca e dopo pochissimo ho
iniziato a collaborare con vari ex datori di lavoro: peccato che, pur pagate pochissimo e quindi non
sufficienti per vivere, le collaborazioni mi hanno fatto perdere contributo di disoccupazione: della serie:
cerchi di darti da fare per trovare nuovo lavoro e ti puniscono. Ora collaboro con università e istituti di
formazione professionale: anche in questo caso incarichi di spessore: docenza, progettazione,
organizzazione e conduzione eventi ma totale precarietà, pagamenti con frequenza difficilmente
compatibile con vita quotidiana e necessità alimentari e uno stipendio che (sommando tutte le
collaborazioni e consulenze) che è 1/3 di quello precedente. Insomma: parecchie soddisfazioni dal
punto di vista lavorativo ma la preoccupazione costante di non sapere se riuscirò a reggere il ritmo, cosa
farò se mi ammalo, come devo districarmi tra contratti vari, fisco, contributi, pensione, assicurazioni
private, cosa sarà del mio futuro e che certezze potrò dare alle mie figlie. Quello che sto cercando di
fare è fare rete: organizzare momenti di riflessione su un mondo del lavoro che cambia, impegnarmi nel
progettare corsi di formazione professionale che aiutino un po’ chi sta cercando di entrare nel mondo
del lavoro e chi, come me, si sta reinventando un futuro... alla fine sono convinta che la cosa
fondamentale sia non essere e non sentirsi soli di fronte alle difficoltà di un mondo in subbuglio, che
dobbiamo cercare di cambiare... e nei momenti di scoraggiamento ricordare i nostri nonni che durante
le guerre mondiali, malgrado tutto, hanno vissuto, amato, fatto figli, riso e ballato …
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595 – Donna, da 31 a 40 anni, laureata, coniugata o convivente, residente al Nord, disoccupata, istruttore tecnico
geometra, tra due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Ho 33 anni e lavoro da quando ne avevo 16. Sempre precaria. L’unico momento in cui mi sono
sentita stabile è stato durante un contratto di tre anni. Per il resto mi arrabatto con prestazioni
occasionali e se mi capita un lavoro a progetto faccio festa. La mia fortuna è avere un marito che ha un
tempo indeterminato. Mi piacerebbe sentirmi indipendente ma la realtà è che da sola farei la fame. La
fame l’ho fatta per un anno e mezzo. Più o meno riuscivo a prendere circa 400 € al mese, anche se mi
pagavano anche con 6 mesi di ritardo. Con quei soldi dovevo pagare il posto letto in doppia, le bollette
e la macchina per continuare a lavorare. Mangiavo pasta in bianco. Per un anno e mezzo. Altri momenti
da ricordare... era il 2004, avevo l’ennesima prestazione occasionale e non mi ricordo perché ebbi
bisogno di rivolgermi al sindacato. La risposta fu di non lamentarmi perché tanto era un lavoro a tempo
e presto sarebbe finito. Nel 2008, sempre prestazioni occasionali... in quel caso si trattava di una
scorrettezza visto che lavoravo lì da 6 mesi insieme ad altre 20 persone messe come me. Vado a
protestare perché volevo almeno un contratto a progetto e mi minacciano di cacciarmi. Io, ingenua,
vado dal sindacato per sapere come fare a cambiare contratto. Il risultato è stato che il contratto l’hanno
cambiato (agli altri), io sono stata cacciata. e poi mi fermo qui perché se no mi rovino la giornata.
190 – Donna, da 31 a 40 anni, titolo post laurea, coniugata o convivente, residente al Centro, collaboratrice,
correttrice di bozze, tra due anni vede il suo futuro: non sa
La mia è una storia precaria. Perché fa ancora notizia? Ero correttrice di bozze per un’agenzia
editoriale che è stata investita appieno dal terremoto della crisi e che ha dovuto tagliare i collaboratori
(eravamo due) e da dicembre sono rimasta senza lavoro. Fino a che, e questa è la mia grande
soddisfazione, non sono stata di recente richiamata dall’azienda che nel frattempo ha cambiato
gestione, ha cambiato padrone, e che si sta rialzando dallo scossone economico cercando di
implementare il lavoro. Soddisfatta di un nuovo contratto a progetto, così, di anno in anno, di dicembre
in dicembre. Ma non mi lamento, voglio essere una voce fuori dal coro. Io credo che si debba lavorare,
e che si debba farlo bene. La precarietà è un valore, se per favore le cambiamo una volta per tutte
questo nome che continua ad attribuirle un valore negativo. Sono flessibile, sono disposta a cambiare,
voglio lavorare in posti dove posso imparare qualcosa di nuovo, voglio continuare la ma formazione,
voglio anche correre il rischio di sbagliare, di gettarmi in progetti che solo l’esperienza farà sì che non
siano infruttuosi. Ho 35 anni, e di lavori ne ho fatti a decine. Da tutti ho imparato tanto, persino dal
fare la commessa ho imparato qualcosa che mi torna utile nella vita di tutti i giorni (…). Io voglio avere
la possibilità di continuare a essere flessibile nel mio percorso di vita e di lavoro, perché non voglio
dover ringraziare nessun Dio se un’azienda un giorno mi offrirà un posto fisso, un cartellino, una
sicurezza.
978 – Donna, da 41 a 50 anni, laureata, separata, residente nel Mezzogiorno, dipendente a termine, assistente
amministrativo scuola, tra due anni vede il suo futuro: non sa
Ho 43 anni, ho un figlio di 14 anni, una Laurea in filosofia conseguita con 110 e lode nel 1995, abito
in Sardegna. Ho fatto vari lavori sempre a tempo determinato, ho avuto diverse supplenze come
insegnante, poi, dopo anni di supplenze temporanee sono riuscita ad inserirmi nelle graduatorie
provinciali come assistente amministrativo. Dal 2001 ad oggi ho percorso ogni mattina chilometri e
chilometri di strada per raggiungere scuole in luoghi sempre molto lontani dal mio paese. Quando,
come tanti altri miei colleghi speravo di arrivare ad avere un contratto a tempo indeterminato, il
ministero della Pubblica Istruzione ha iniziato a tagliare, ad accorpare gli istituti e a ridurre i posti e
soprattutto ha sbloccato il famoso concorso sulla mobilità, che ha consentito a tanti ex collaboratori
scolastici diplomati di passare di ruolo, lasciando senza posto molti di noi. Certamente, è legittimo
aspirare alla progressione di carriera ma nessuno si occupa della nostra situazione. Per anni abbiamo
svolto questo lavoro ed ora dobbiamo riprendere ad accettare le supplenze brevi. Ogni anno a
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settembre veniamo convocati dall’Ufficio scolastico provinciale e dopo ore di estenuante attesa non
sempre otteniamo una nomina. Seguono le nomine dei presidi, per i posti che restano senza copertura,
ma ogni anno scolastico presenta novità ed incertezze sempre crescenti. Il paradosso di questa
situazione è che alla fine riusciamo a lavorare tutti ma in luoghi sempre differenti, in condizioni sempre
più precarie. Possibile che sia così difficile riuscire a stabilizzare il personale amministrativo delle
scuole?
460 – Uomo, da 31 a 40 anni, titolo post laurea, celibe, residente al Nord, collaboratore, operatore di teatro sociale,
tra due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Mi sono laureato nel 2002 in filosofia, con la specializzazione in comunicazioni sociali, sezione
spettacolo. Dopo un anno di servizio civile obbligatorio sono entrato nel mondo del lavoro
cominciando a fare l’animatore teatrale in progetti all’interno delle scuole. Mi sono quindi specializzato
nel teatro sociale e ho cominciato a condurre laboratori teatrali con persone disabili presso cooperative
sociali o associazioni di volontariato e Onlus varie, lavorando anche come educatore nei centri estivi
delle scuole elementari. Dal 2008 ho anche un contratto a tempo indeterminato part-time come
educatore, che però mi fa percepire solo circa 400 euro al mese, le altre entrate restano legate a contratti
e impieghi del tutto precari. Credo di avere oggettivamente sperimentato tutte le forme di contratto
possibili e immaginabili: contratto a progetto (la più frequente), contratto a tempo determinato (una
sola occasione come educatore di pre/post scuola), collaborazione occasionale con ritenuta d’acconto
(svariate volte) e ho spesso dovuto mantenere più regimi contrattuali in contemporanea, con
conseguente dispersione dei versamenti contributivi che allo stato attuale non ho idea a quanto
ammontino. Le mie preoccupazioni più gravi sono legate al fatto che ora ho quasi 37 anni, un mutuo da
pagare (ottenuto grazie alla co-intestazione del mutuo stesso con mio padre che è pensionato), una vita
da costruire (da single), un mercato del sociale in crisi per i forti tagli praticati dallo stato in questi anni.
Per questo non vedo prospettive per arrivare a percepire un reddito stabile, perlomeno dignitoso. La
cosa che mi fa più rabbia è che per svolgere il mio lavoro adeguatamente è richiesta una qualifica alta,
perché occuparsi della valorizzazione e della crescita espressiva delle persone disabili o di giovani in
difficoltà non è un lavoro alla portata di tutti e richiede molto impegno e spesso anche tempo non
retribuito. Le soddisfazioni mi sono sempre e soltanto venute da ciò che ho fatto, dagli spettacoli
realizzati, dal sorriso e dall’energia dei ragazzi con cui ho lavorato e dalla convinzione di aver acquisito
con l’esperienza delle capacità importanti, ma nell’ultimo periodo la continua mancanza di
riconoscimento economico adeguato a ciò che faccio mi sta demotivando e mi sta anche togliendo
quell’entusiasmo, quella carica e quella convinzione necessari per fare bene il mio lavoro.
618 – Uomo, da 31 a 40 anni, laureato, celibe, residente nel Mezzogiorno, collaboratore, operatore di call-center, tra
due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Stanno calpestando la mia DIGNITÀ. questa parola sembra ormai essere diventata desueta, inutile e
priva di ogni significato. Per me ancora ha molta importanza, anche se il nostro sistema politico e
sociale, hanno definitivamente calpestato la DIGNITÀ di molti italiani. Sono un lavoratore precario.
Ho 38 anni, vivo a Palermo. Dopo aver studiato per parecchi anni in ambito artistico ero riuscito a
coronare il mio sogno di aprire un’attività in proprio e gestire un’agenzia pubblicitaria. Dopo i primi
anni dalla crisi economica, a causa di parecchie vicissitudini, sono stato costretto a chiudere la mia
attività e ritrovarmi a lavorare in un call-center per una grande azienda di telecomunicazioni. Sono
passati 5 anni e 3 mesi, prima come interinale poi con un contratto di lavoro a progetto un contratto
che dal mio punto di vista è illegale perché viene rinnovato ormai da più di 5 anni, nonostante non
esista un “progetto”, con rinnovi che variano da 1 a 3 mesi. Il guadagno è minimo, veniamo pagati a
“contatto telefonico”. Questo tipo di contratto non offre la minima possibilità di avere un’aspettativa
per il futuro. Non godrò mai di una pensione, non avrò mai un TFR, non potrò mai organizzare una
vacanza estiva dopo anno di lavoro stressante, se mi ammalo non guadagno, ma la cosa peggiore che
non potrò mai immaginare di prendere una casa in affitto, figuriamoci se potessi mai pensare di averne
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una tutta mia richiedendo un mutuo. Ho 38 anni, vivo ancora con mia madre, con quello che guadagno
(nonostante le mie 6/8 ore di lavoro al giorno spesso senza giorno libero) non posso neanche
contribuire alle spese familiari. In poche parole, questo sistema mi ha tolto la possibilità di essere
autonomo e indipendente. La mia DIGNITÀ di persona, di uomo, all’interno di questa società è
assolutamente calpestata costantemente da chi permette che si possa ancora lavorare a queste
condizioni. Le alternative in Sicilia non esistono. Mi chiedo spesso che fine abbia fatto l’articolo 1 della
Costituzione Italiana «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», mi chiedo spesso che
fine abbia fatto l’«equità sociale» tanto auspicata dal nuovo Governo tecnico, mi chiedo spesso che fine
faremo se continueremo in questo modo, mi chiedo spesso che fine abbia fatto la DIGNITÀ di questo
Stato che sta portando gli italiani alla povertà culturale ed economica.
1146 – Uomo, da 31 a 40 anni, diplomato, coniugato, residente al Centro, collaboratore, assistente educativo, tra
due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Classe 1977, ho iniziato a lavorare per pagarmi gli studi, nel 1997 saltuariamente e a nero fino a
quando sono diventato collaboratore a progetto full-time nel 2003. Dal 2004 lavoro “stabilmente" con
un contratto di collaborazione a progetto, 36 ore settimanali, come assistente educativo in una scuola
secondaria di primo grado romana. Attività collaterali per sbarcare il lunario sono da sempre inerenti
alla scuola: centri estivi, ludoteche, pre-scuola, dopo-scuola. Dal 2005 iscritto al Nidil Cgil, dal 2006
RSA per lo stesso. La precarietà che vivo, anzi che viviamo, visto che sono sposato con una ragazza
anche lei collaboratrice a progetto, non è diversa da quella che in tanti raccontano... arranchiamo,
sopravviviamo con dignità e orgoglio ma senza sicurezze (malattia, infortunio, maternità, TFR e
pensione) e senza possibilità di risparmio. Questo implica instabilità e amplifica le insicurezze, per
quanto abituato dalla vita, spesso anche se orgoglioso del proprio percorso, mi viene voglia di portare la
famiglia a Berlino a fare il cameriere o il barista e stare sereno, sapendo che un qualsiasi brutto
imprevisto non ti vedrà lasciato solo.
2034 – Uomo, fino a 30 anni, diplomato, celibe, residente al Nord, professionista/lavoratore in proprio, venditore di
mobili, tra due anni vede il suo futuro: peggiore di ora
Venditore di mobili con contratto di associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro. Pur
guadagnando solo a provvigione (zero euro di fisso) sono assoggettato a degli orari di negozio da
lavoratore dipendente, compresi tutti i sabati e le domeniche, a volte fino alle 22 senza straordinari
pagati né pranzi o cene pagate. Rilievi e misure a casa del cliente con rimborso spese di soli 10 euro. Al
termine di tre diversi contratti di un anno per tre diversi datori di lavoro, il mio contratto non è stato
rinnovato nonostante l’apparente intenzione dei miei titolari di mantenermi in organico. Aspettativa per
il futuro nessuna, spero solo di avere il coraggio di tentare una esperienza all’estero prima di
soccombere. Le mie paure sono certezze, nei mesi di lavoro cerco di mettere da parte i soldi che mi
servono per pagarmi i successivi mesi di disoccupazione. La mia generazione (1983) vive sulle spalle dei
genitori, il problema è che i nostri figli non potranno vivere sulle spalle dei loro genitori, come faranno?
È o non è egoistico mettere al mondo in questa Italia un figlio? La precarietà è l’unico modo di vivere
che io abbia mai conosciuto. Si vive di rinunce, espedienti, ci si rimette continuamente in gioco per
rimanere a galla, la dignità è un valore in cui nel mondo del lavoro non bisogna più credere.
1277 – Uomo, da 31 a 40 anni, licenza media, celibe, residente al Centro, disoccupato, autista mezzi pesanti, tra
due anni vede il suo futuro: più o meno uguale
Dopo aver chiuso la mia ditta di autotrasporti a settembre del 2011 ho iniziato a cercare lavoro.
Come impiegato impossibile, solo stagisti appena laureati, assunti come apprendisti e licenziati dopo un
anno (l’ultima ditta per cui ho lavorato ne ha cambiato 6 in 6 anni). Come autista ho trovato solo false
cooperative che, invece di assumere, proponevano affiliazioni e contratti a 5 euro l’ora per guidare un
autoarticolato, dieci ore al giorno. Multe per mancato rispetto degli orari di guida a mio carico
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ovviamente e se, dopo dodici o tredici ore si tornava in ditta stremati ma con una consegna mancata, si
stava a casa anche per una settimana, senza paga ovviamente, niente ferie o permessi, niente malattia, si
deve implorare il responsabile di farti lavorare sennò a fine mese non si arriva neanche a mille euro per
60 ore di lavoro a settimana!
1339 – Donna, da 31 a 40 anni, licenza media, separata, occupata stabile - esodata, operaia tessile, tra due anni
vede il suo futuro: più o meno uguale
Io ora sono un’esodata, delusa arrabbiata, non credo più a nulla e a nessuno, uscita dal lavoro (tessile
dopo avere dato tutto ciò che hanno chiesto, flessibilità, straordinari, disponibilità ogni qualvolta
necessitava) nel 2006 con Cigs a zero ore poi mobilità e alla fine pensione, invece hanno cambiato di
nuovo le regole (è già la terza volta). Ora non sono né carne ne pesce, anzi devo pagare un anno di
contributi per accedere alla tanto sognata pensione, soldi zero, poi con tutte le tasse e aumenti per fare
fronte dovrei andare a fare la escort (non sono capace e non sono più giovane, scusate la battuta
amara). Ho iniziato il lavoro in nero a 10 anni, in laboratori alimentari, nella stalla a mungere le mucche,
mondina, poi finalmente lavoro in regola laboratorio tessile ed infine alla Sergio Tacchini dove ho
svolto la mansione di operaia e orgogliosa di esserlo fino in fondo. Conosciuto il mondo del sindacato
Cgil (esperienza bellissima ma sopratutto positiva) lotte, conquiste, ideali veri e condivisi. Ora sono
preoccupata, zero lavoro, perso tutto ciò che abbiamo conquistato, e vedo nero per i nostri giovani, in
alcune realtà siamo tornati così indietro che tutto ciò mi fa tanta paura. Posso essere sincera? Anche il
mondo sindacale si è allontanato dai lavoratori, la classe dirigente sta seduta troppo in alto per recepire
la vera difficoltà del vivere quotidiano del lavoratore chiunque esso sia e di tutte le categorie anche dei
pensionati e disabili, famiglie costrette a fare fronte a delle richieste difficili (devi essere parente,
infermiere, dottore, badante, autista e pagare pagare pagare). Ma quello che mi preoccupa tanto è la
mancanza del lavoro e di ideali che i nostri figli hanno davanti. Non so se leggerete queste mie righe
(non essendo una precaria) e se mai lo farete scusatemi per il mio modo di esprimermi molto
elementare.
1799 – Donna, da 31 a 40 anni, licenza media, nubile, residente al Nord, occupata stabile, operaia, tra due anni
vede il suo futuro: peggiore di ora
Non sono ancora una precaria propriamente detta. Ma mi sento precaria perché dopo aver
consumato casse integrazioni varie, so che in autunno perderò il lavoro che faccio da 15 anni, salvo
imprevisti. Un lavoro che non mi è mai piaciuto particolarmente, ma che mi ha permesso di
mantenermi indipendente, sempre al limite, ma senza che mai mi mancasse l’essenziale. Faccio l’operaia
generica perché non ho titolo di studio, e so cosa mi aspetta girato l’angolo: non c’è più il lavoro che
permette di vivere, a maggior ragione per chi non ha potuto studiare, ma a dire il vero da quello che
sento raccontare non so nemmeno se fa molta differenza. Le mie paure sono legate al fatto di non
potermi più permettere l’indipendenza, quindi nella pratica di non riuscire a pagare affitto e bollette
(all’auto per fortuna ho già rinunciato molti anni fa), di non riuscire a sostenere spese mediche, il
dentista in particolare ma l’età avanza e potrebbe anche arrivare altro. Finora sono riuscita a dare una
mano a mio padre, che è invalido e non riesce a vivere con la sua pensione, credo che non potrò più
farlo e temo che questo peggiorerà le sue condizioni di salute. Nei periodi di cassa integrazione
guadagni ho cercato disperatamente formazione, perché so che questo sarà un mio ulteriore limite
quando ripiomberò nel “mercato” ma non ne ho trovata di possibile perché non potevo garantire
frequenza (perché a singhiozzo lavoro ed essendo turnista non ho orari regolari) oppure perché era a
pagamento o rivolta a categorie diverse dalla mia. Non ho aspettative ma mi auguro di riuscire a
mantenere la casa perché la mia indipendenza era l’unico risultato che mi tenevo stretto.
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918 – Donna, da 41 a 50 anni, , licenza media, vedova, residente nel Mezzogiorno, disoccupata, addetta alle
pulizie, tra due anni vede il suo futuro: non sa
Sono una donna di 45 anni diventata vedova a 40, ho due figlie a carico e un affitto di casa di €
300.00 al mese. Percepisco una pensione di reversibilità di 350.00 € al mese. Lavoravo sino a due mesi
fa con una cooperativa di pulizie che forniva servizi ad una Asl di Bari. Alcuni miei colleghi sono stati
stabilizzati dalla stessa Asl, cioè quelli che hanno lavorato sino al 31 dicembre 2009, altri come me, che
hanno lavorato dal 2010 in poi sono stati mandati via. Le domande che sorgono spontanee sono tante
ed inutile qui proporle, si intuiscono facilmente. Non cerco tutele, anche se secondo me ci sono i
presupposti per chiederle, in Italia non si è mai pensato a questa categoria di cittadini: vedova e figli a
carico, ma io cerco solo lavoro!
1469 – Uomo, da 41 a 50 anni, diplomato, coniugato, residente nel Mezzogiorno, disoccupato, collaboratore
scolastico, tra due anni vede il suo futuro: non sa
Sono precario della scuola, sono un collaboratore scolastico. 5 anni fa abitavo in Inghilterra,
lavoravo alle poste inglesi, avevo una casa, i miei figli, una bambina di 10 anni e un bambino di 13 che
andavano ad una scuola bellissima, mia moglie lavorava part-time in una casa di riposo. Insomma stavo
benissimo. Poi un giorno mio padre mi telefona e mi dice che un suo amico gli aveva detto che ero in
una graduatoria e che se tornavo in Italia lavoravo sicuro. Così sono venuto in Italia per vedere di cosa
si trattava. Sono andato a Caserta all’Ufficio scolastico provinciale. Qui mi hanno detto che dovevo
stare a lavorare già da sette anni. Sono ritornato in Inghilterra per parlarne con mia moglie e dopo vari
dubbi abbiamo deciso di cogliere questa opportunità di ritornare in patria e così ho venduto la casa e
sono ritornato in Italia. Il primo anno ho avuto un contratto annuale, anche il secondo anno ho avuto
un contratto annuale, ma poi è arrivata la Gelmini che mi ha rovinato la vita. Terzo anno supplenze,
quarto anno poche supplenze e quest’anno scolastico ho fatto la bellezza di 7 giorni di supplenze. Con
una moglie, disoccupata anche lei, e con due figli da crescere, vedo solo nero. Vorrei che la Gelmini
vivesse come me.
484 – Donna, da 41 a 50 anni, laureata, coniugato, residente nel Mezzogiorno, inattiva, attrice, tra due anni vede il
suo futuro: non sa
Io sono una attrice diplomata in una scuola d’arte con una serie di esperienze nel settore artistico.
Sono anche laureata in filosofia. sono l’amica a cui tutti chiedono consigli, in una città come Barletta
diventi una specie di personaggio pubblico, in tutti i sensi. Tutti ti sorridono, pochi credono in te, a
parte i tuoi genitori che sanno quanto credi nell’arte, quanto hai sudato quanto ti va vivere.. e poi per
loro, alla fine mi sono pure laureata, per farli contenti. Il futuro a me è stato negato, lo so. La questione
artistica è molto più difficile, è forse il precariato più debole quello sottovalutato, perché in Italia non
esiste cultura a riguardo, soprattutto al Sud. Se fai uno spettacolo, sempre a nero. Ci vuole pure fortuna
a rientrare nei circuiti dei cosiddetti teatri pubblici (ma anche lì c’è tanto da dire rispetto alle dinamiche
e ai giochi sporchi), qualcuno facilmente ti dice "ma dai fai quello che ti piace, ti diverti..." e questo vuol
dire non avere assicurazioni, non avere contributi, non avere garanzie di una paga minima, decorosa. In
tutti gli spazi e spesso proprio in quelli pubblici, devi elemosinare il tuo compenso lavorativo… Devi
fare mille telefonate perché ti venga effettuato un pagamento. Quando ti va bene il contrattino te lo
fanno una volta concluso il lavoro, quando devi dire ok. Altrimenti se dici di no, niente soldi… Ho 34
anni, vivo con i miei genitori quasi anziani, con una pensione minima. La cosa è semplice, ed è un po’
quello che i miei compaesani cercano di dirmi e cioè.. trova un altro lavoro.. smetti di pensare che
l’attore sia un lavoro, quelli più gentili, non mi dicono vai a fare la lavapiatti, mi dicono potresti fare
l’insegnate di filosofia, come se le scuole stessero aspettando proprio me.. io mi chiedo se è sbagliato
avere una fede, qualcosa in cui credi o se è una questione anche legata a questo sistema a questa Italia a
questo Sud. Spesso sono i centri sociali gli spazi occupati le associazioni a credere in te a sostenerti, ma
non si può campare con un corso di danze popolari, con un laboratorio di teatro.. con le tue
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autoproduzioni o con la speranza che le compagnie ufficiali (poveracci anche loro) si ricordano che il
paese scoppia di risorse culturali.. io non so se avrò mai una famiglia per esempio, perché ho sposato la
causa della mia vita dovrei diventare una altra persona se non dedicassi tutto il tempo al teatro, morirei
lentamente come questa città omologata e omologante vuole, ed io non sono la figlia di nessuno tutto
quello che ho fatto l’ho sudato, lavando i cessi, stando in cucina, stando al bar .... insomma facendo
quelli che sono considerati lavori, perché preparare uno spettacolo, lavorare con la poesia, lavorare con
i bimbi, con gli adolescenti e insegnarli che esiste una via e si chiama arte.. beh questo per l’Italia per il
Sud per Barletta non è lavoro e quindi non è nemmeno precariato.
789 – Uomo, fino a 30 anni, laureato, celibe, residente all’estero, dottorando, tra due anni vede il suo futuro:
peggiore di ora
Mi sono laureato in astronomia all’Università di XXX un anno fa. Ho avuto la fortuna di vincere una
borsa di studio della durata di 10 mesi nell’aprile 2011 (circa 1000 euro al mese netti) in Inaf. Nel
settembre-ottobre del 2011 ho sostenuto una serie di esami di ammissione a scuole di dottorato per
vincere un posto senza borsa (quindi non retribuito) all’università di Padova. In Italia non È stato
possibile trovare dei finanziamenti e quindi, per poter continuare il dottorato, mi sono trasferito a
Nizza in Francia dove lavoro all’Observatoire de la Côte d’Azur con un contratto da 6 mesi all’interno
di un progetto di ricerca di rilevanza internazionale (mille euro al mese ). Le prospettive future: altri sei
mesi qui a Nizza. L’unica possibilità di continuare il dottorato è vincere una borsa dell’ESO (European
Southern Observatory), che prevede lo spostamento in Germania. Oppure, vincere un altro dottorato,
questa volta in Francia. Mi ritengo fortunato rispetto ad altri colleghi e amici. Resta comunque il fatto
che una persona con una laurea specialistica in Italia non conta poi tanto e ritengo sia sottopagata. In
Europa lo stipendio medio di un dottorando, va dai 1400 ai 1600 euro, non c’è l’Inps che ti fa sparire i
soldi con la gestione separata, non c’è Irap. Le spese mediche sono pagate e ci sono aiuti per gli affitti
fintanto che si è studenti (diminuiscono per chi ha più di 26 anni ma non spariscono). La
preoccupazione principale è quella di non riuscire ad avere una stabilità economica che mi permetta di
comprare casa e mettere su famiglia in Italia. È assurdo che lo stato abbia investito nella mia istruzione
e adesso non voglia tenermi in Italia.
789 – Uomo, da 31 a 40 anni, diplomato, coniugato, residente al Centro, socio di cooperativa, tra due anni vede il
suo futuro: non sa
La precarietà per me? È una condizione stabile in bilico sull’ignoto. È da quando ho interrotto gli
studi, a 20 anni, che vivo la precarietà con una simbiosi fantascientifica. I primi tempi ho provato vari
lavori partendo dalle cooperative interinali nell’interland milanese, ma tutti erano basati sullo
sfruttamento dell’individuo a basso costo. Questi lavori sono tutti finiti con il licenziamento a volte da
parte del datore di lavoro a volta da parte mia. Ho cominciato quindi, in attesa di altre occupazioni, a
fare volontariato nel sociale con le cooperative sociali, appunto. Mi sono occupato inizialmente di
minori e poi ho avuto la possibilità di formarmi anche in altri ambiti: disabilità, anziani eccetera, ma
anche con il sociale a Milano non si quagliava molto. Erano gli anni - i ‘90- in cui quando facevi un
corso regionale per il sociale con accreditamento, l’anno dopo veniva declassato o non più riconosciuto.
Lasciai tutto anche perché le entrate erano nettamente inferiori alle uscite. Così sono migrato nella
capitale. Sempre come operatore sociale. Roma mi ha permesso di salire in graduatoria fino ad un
livello di povertà quasi accettabile. Parliamo di 700 mila lire al mese al massimo con accreditamento
dello stipendio dopo 3 mesi. Tipo che a marzo mi davano lo stipendio di gennaio (…). Dopo un po’ un
brutto incidente mi trasforma in utente di me stesso diventando così per la società un disabile –
handicappato – diversamente abile – abilmente diverso -portatore di invalidità e quanto altro si possa
inventare. Ma io non demordo: faccio il mio percorso riabilitativo tornando all’ovile milanese e ritorno
in Centro Italia, questa volta in Umbria nella città di Terni. Mi offro come operatore sociale delle solite
cooperative succhia sangue del sociale ma vedo che nulla cambia. Allora passo la barricata della prima
linea e mi metto al servizio delle associazioni delle famiglie di persone con disabilità. Lavoro un po’ di
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più: parliamo di 350/400 €. ma alle famiglie quanto gli si può chiedere ancora? Allora sono diventato
nel tempo quello che si chiama "animatore di reti associative", Stipendiato quando c’erano i soldi da
servizi provinciali di volontariato. Finché poi la piccola svolta è arrivata ma è stato un enorme flop in
cui sono tutt’ora incastrato: assunto senza stipendio. È un progetto di finanziamento per cooperative
sociali di tipo b, in cui sono garantite e sostenute le assunzioni a persone svantaggiate socialmente come
le persone con disabilità. La cooperativa si configura come agenzia di comunicazione sociale con vari
settori di produzione multimediale. Divento quindi anche operatore video e montatore video nonché
organizzatore di eventi. Il punto di forza era una signora la quale si occupava da anni di produzioni
documentaristiche e montaggi video professionali. Dopo la firma degli atti e la contrattualizzazione del
sottoscritto la signora si lamenta del fatto che io sia stato assunto prima di lei, in quanto lei è una
professionista e senza problemi ci abbandona. La situazione rimane con: un socio lavoratore disabile
con un contratto di 250 € al mese (sempre io), un socio contabile disabile (volontario) e basta. Da
allora ci siamo formati da soli provando a bucare il tessuto di servizi del territorio ma senza risultati
evidenti. Per i primi 5 anni siamo stati indaffarati a non affondare ma il debito contratto per mancanza
di utenze ha creato una stasi da non credere: vivo da 7 anni assunto ma senza stipendio effettivo in
quanto io come lavoratore e la mia cooperativa siamo in simbiosi: se mi licenzio la cooperativa chiude e
ci ricadrebbe addosso il debito creatosi via via negli anni ma se non mi licenzio il debito continua a
crescere. Raramente troviamo bandi e progetti a cui partecipare ma è tutto finalizzato e controllato al
tempo stesso ad un sistema di potere locale che fagocita anche gli spiccioli.
1900 – Donna, fino a 30 anni, laureata, nubile, residente al Nord, disoccupata, tra due anni vede il suo futuro:
migliore di ora
Difficile parlare di precarietà, è una parola di cui abbiamo abusato molto negli ultimi periodi.
L’abbiamo associata a una condizione, abbiamo cercato di vederne i lati positivi, l’abbiamo maledetta. I
protagonisti siamo noi, trentenni o giù di lì, persone in transito dalla gioventù al mondo adulto. Un’età
difficile, insomma. Ma anche bella. Avere trent’anni è bellissimo perché hai ancora le energie di un
ragazzo ma stai già pensando con la testa di un adulto. Purtroppo questa bella sensazione dura poco,
quando la realtà ci sbatte in faccia che avere trent’anni ed essere precari è dura, molto dura. Ma veniamo
a me. Ho ventinove anni e sì, sono precaria. O meglio, al momento sono in cerca di lavoro, ma mi
sento precaria dentro. Un precariato esistenziale. Sto cercando di capire dove direzionare la mia vita, ma
colloqui andati in fumo e proposte contrattuali al limite della legalità mi portano a essere delusa,
frustrata, a volte persino apatica. Questa condizione mi fa sentire colpevole, nei confronti di una
generazione, quella dei miei genitori, che non merita certo di sentirsi in obbligo di sostenermi. Mi alzo
la mattina e penso che devo dare un senso alla mia giornata, e ripenso al fatto che ho trent’anni e
l’energia non si è ancora esaurita e dove la convoglio allora? Mi sento di sprecare tempo e mi sento
paralizzata. Non voglio diventare arida. Futuro: non c’è il futuro, c’è il presente. Ma difficile è essere
positivi quando anche il presente ti manca da sotto i piedi. Senti che stai cadendo, e non trovi appigli.
Non so di cosa ho paura, forse perché non ci voglio pensare. Ho smesso di farmi troppe aspettative,
perché il più delle volte sono rimasta delusa. Ma siccome sono tutto e il contrario di tutto, penso anche
che la precarietà mi ha dato una certa forza d’animo nel provare, nel tentare, nel propormi, nel cercare.
Insomma questo periodo di instabilità ed inquietudine è stato una molla per interrogarmi davvero su
cosa voglio fare e soprattutto chi voglio essere. Precarietà = ispirazione. Questa per me è la precarietà.
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