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«Troppo scoperto. Vado un po’ più avanti». Si infila nel parco. Segue il saliscendi della strada. Quando trova un luogo che gli sembra abbastanza appartato, si ferma. Vicino al cancello di una villa sono parcheggiate due automobili. «Va bene qui, direi». «Perfetto!» esclama Charlie, annodandosi per bene al collo la sciarpa della Juve. «La tromba lasciala in macchina» consiglia Angelo. «Non la porto? non vogliamo festeggiare?». «Magari la prendiamo dopo» suggerisce Miranda. «Non ci fanno entrare allo stadio con una tromba» sentenzia il Mich. A volte si sente troppo ligio. Si infastidisce da solo. «Aj-mánka mapí lulì» sghignazza Charlie. «Se decidiamo che porto la tromba, porto la tromba e basta. Entro con la tromba al Pistoni e qui, che è come il Pistoni, l’hai detto tu, no? non me la fanno passare? Ci manca solo quello!». Alza le spalle, sbu∂a e s’incammina. «Dove vai?». «Non dobbiamo andare alla Grand Place?». «È di lì?». «Di lì, di qui, basta muoverci, chiediamo. Evitiamo solo le mandrie di inglesi, altrimenti mi tocca sistemarli». Se loro non sistemano noi, pensa Angelo. E dice: «Sì, ma tu non gridare viva Juve». «Noi siamo qui per Koetting» ricorda radioso Miranda. Ciascuno ha le sue ragioni. Anche la Grand Place ha le sue ragioni. «Se una volta nella vita vieni a Bruxelles, non vai a vedere la Grand Place?». Charlie è in vena di canzonature. «E vediamo ’sta cazzo di Grand Place, dài». 212 14 La Grand Place è un grande stadio, con una foresta di case alle spalle. Tutte ammassate, fanno ressa e impediscono di capire dove ti trovi, impediscono di vedere che cosa c’è oltre. Sembra che si azzu∑no o festeggino. Non puoi credere che a pochi metri si apra una radura. E invece all’improvviso appare. E prima di rendertene conto, sei dentro. Il viavai delle persone, a gruppi chiassosi, a coppie, a tribù, singole figure solitarie, turisti, cittadini frettolosi, giovani, vecchi, bambini tenuti per mano; un a∂ollamento in quell’angolo, un altro laggiù; mute di tifosi inglesi, con sciarpe, birre e schiamazzi; gli italiani festosi e invadenti; due poliziotti, quattro, cinque, soltanto cinque poliziotti; grida, cori, canzoni: non fai in tempo a registrarlo, e tutto per un attimo svanisce – il lungo attimo in cui, mentre entri, si manifesta la piazza. Più nessuno. Nessun altro la occupa, se non i tuoi occhi che avanzano rapidi e conquistano tutta l’apparizione, mentre lei, la piazza, conquista te. Le facciate dei palazzi sono spalti gremiti; le finestre sono gli occhi della storia, gli occhi dei secoli. Angelo, Charlie, il Mich e Miranda sono entrati da nord. «Che strada era quella?». 213 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto «Rue de la Colline». «Colline un cazzo! Era un fosso, non una strada» – un budello stretto e anonimo. Angelo ha fretta. Ogni sua azione è aspettativa, fiducia nella notte. Pensa ai colleghi d’u∑cio: racconterà loro della Grand Place, non della partita; la partita possono vederla alla televisione, ma questa piazza, questo stadio no; questa piazza, questo stadio sarà tutto nel suo racconto. Inventerà che ci è arrivato in R4, nessuno lo potrà smentire: ha attraversato la Grand Place in R4 come su una carrozza reale. E così pure la notte con Liliane: sarà tutta in quello che faranno, come si ameranno, come lui toccherà lei e come lei verrà, come lei si lascerà prendere – le piace essere tenuta per i fianchi, sa –, come lui dirà le cose, un po’ in italiano un po’ in francese, come lei si fingerà remissiva, come lui sarà potente, come lei svelerà il segreto del suo culo, perché questa volta glielo dà, sente che glielo dà, ne ha voglia anche lei, e quando gli o∂rirà il culo, sarà lui il sottomesso, e lei sarà la sua regina, altro che culo basso, Liliane… La notte sarà tutta in questa azione e desiderio, in questa consunzione, ed entrerà nel racconto che farà a Cavallo Pazzo. Altro che Siddharta, la sua storia è meglio di quella di Siddharta. La prossima settimana, un giorno che escono presto dall’ufficio e lo accompagna a casa, supera Colleretto, allunga fino al torrente e gli racconta la notte che questa notte farà. Con il racconto la riavvolge e la ripassa, così sarà compiuta. Charlie ha dimenticato di avere fame. Ha caldo, vorrebbe mettersi a torso nudo. Gira su sé stesso per raccogliere con un unico sguardo l’intera piazza. Ruota il volto e le spalle, infine sposta i piedi. Catapulta gli occhi sopra i tetti. Vorrebbe essere lassù. 214 Perde l’equilibrio. Il Mich lo agguanta sotto l’ascella e gli impedisce di cadere. «Grazie» mormora Charlie sovrappensiero. La Grand Place gli ricorda lo stadio di Genova. «Sembra Marassi» dice. In e∂etti, pensa il Mich, lo stadio di Genova ha le curve impettite come palazzi a∂acciati sul campo da gioco. Per Charlie, è lo stadio più bello d’Italia. Il giorno della Befana era a Marassi a vedere Sampdoria-Juventus, quattordicesima di campionato, 1-1, gran gol di Michel Platini all’incrocio dei pali, poco dopo l’inizio; poi, nel secondo tempo, quel ba∂uto di Souness, che sembra uno dei Village People, che se il Liverpool non l’avesse venduto alla fine della scorsa stagione oggi sarebbe ancora il capitano degli inglesi e questa sera toccherebbe giocarci contro… beh, quel ba∂uto di Charlie Champagne, come lo chiamano, alla mezz’ora del secondo tempo prende la palla a metà campo, avanza e, più o meno dalla stessa posizione di Platini, segna. Non essendo però bravo come Platini, non centra il sette, infila Bodini con un tiro rasoterra che ha ancora il singhiozzo dopo essere finito in rete. A proposito di Bodini. «Secondo te, chi deve giocare in porta, Bodini o Tacconi?» chiede al Mich. «È uguale». «Bodini ha fatto tre anni la riserva di Zo∂ e adesso arriva quell’altro e gli frega il posto» commenta sarcastico. «Tacconi ha più personalità, è più portiere» dice il Mich. «Già, Bodini ha la faccia da terzino. E poi ha giocato la finale di Supercoppa. Questa tocca a Tacconi. È più pazzo e il Trap lo tiene sulle spine, non lo schiera per fargli sentire le briglie. È un po’ montato, ma dà sicurezza, la sua follia mi dà più sicurezza». Parla per trovarsi d’accordo con sé stesso. 215 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto Miranda rimane indietro, non segue i compagni nel centro della Grand Place. Si mantiene sulla destra, verso il colonnato. Vede il caos, vede la gente, vede due grossi gruppi di tifosi inglesi, un po’ cotti, un po’ abulici, un po’ euforici, vede un tappeto di lattine di birre. Immagina di essere in una grande piazza di paese. È qui che dovrebbero giocare la finale, pensa. this is anfield dice il cartello sopra l’uscita del tunnel. I giocatori lo toccano prima di entrare in campo. C’è un video che trasmettono ogni tanto nelle anteprime delle partite, all’ora del tè. Non si vedono le facce dei giocatori, anche se il filmato deve essere vecchio perché si riconoscono i capelli di Keegan. Alcuni sono sicuri di sé, battono entrambe le mani sulla placca rossa su cui sono impresse le lettere, qualcuno sfiora le parole con le dita o allunga il braccio a toccare lo stemma della squadra, altri battono la mano sul muro appena sotto. Tutti sembrano consapevoli di quelli che li hanno preceduti, delle partite giocate prima, di essere parte di una grande tradizione, e tracciano un disegno, come le mani dei pellegrini che consumano le pietre sacre. this is anfield c’è scritto, e via – fuori, una sfilza di maglie rosse sul verde brillante del campo, incontro al ruggito della folla. La stessa sensazione, uscire dal tunnel su per le gradinate del Kop per a∑orare nel mezzo della curva, che ondeggia e si muove come una cosa sola, cosicché negli attimi prima del fischio d’inizio l’esperienza dei giocatori e quella del pubblico coincidono. L’individuo si dissolve nella moltitudine, anche Keegan, anche Dalglish. Sente il rumore della folla. La strada è stretta, fa una parabola verso la piazza. Christy vede il sole di sbieco sui palazzi alti, 216 faville d’oro, la statua di un soldato con la lancia tesa di fronte a sé si arrampica sui tetti. Ci sono cupole e campanili, sopra di lui. Vede colonne d’oro nell’estremità superiore della piazza, dalla parte del Kop, vede un cocchio sfilare davanti a edifici grandiosi, sopra un’infilata di finestre intatte. I palazzi gli ricordano i libri illustrati per bambini – sarà per questo, pensa, che non li prende sul serio, che gli viene da sorridere, proprio come con gli autobus rossi e i taxi neri a Londra. Non come i palazzi sul lungofiume di Liverpool, che gli sembrano così solidi anche se cadono a pezzi. Ha qualcosa questa piazza che la fa assomigliare a una torta con la glassa, come fosse avvolta nello zucchero – con tutti quei mattoni, il vetro e l’oro – e potesse squagliarsi sotto la pioggia. Pensa a storie di bambini persi nei boschi, le ha sempre odiate, Hänsel e Gretel nella casetta della strega in mezzo alla foresta, nel mondo ci sono già abbastanza cose brutte senza doversene inventare altre. Non ha idea di come vada a finire quella storia, se i bambini riescano a scappare oppure no, ma teme il peggio. Non piove. Vede la folla adesso, superata la curva della stradina, tanti uomini ai margini della Grand Place. Tutto sommato sapeva abbastanza, e ha avuto abbastanza fortuna da farsi strada fino a qui. Si radunano in gruppi agli angoli della piazza, lungo i bordi, vicino agli edifici, lasciando una distesa di ciottoli nel mezzo. Un luogo racchiuso dalle facciate alte e piatte dei palazzi, che davvero brillano nella luce pomeridiana. Per un attimo Christy ha la sensazione che dietro a quelle facciate non ci sia niente, gli sembra di trovarsi sul set di un film, gli edifici sono scenografie di legno da selvaggio West, tirate su per la scena di John Wayne che ammazza gli indiani. 217 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto Passa sotto una bandiera della Juventus a scacchi bianchi e neri – altrove, solo bandiere rosse. Tutti guardano l’acciottolato vuoto come se fosse il campo di calcio, come se i giocatori fossero pronti a entrare di corsa in quello spazio nel mezzo, sotto guglie, colonne e cocchi, davanti a una folla urlante in una piazza forse reale o forse no, bordata d’oro, nel cuore d’Europa. Il Mich è seduto sui gradini della Maison du Roi – un palazzo di Venezia, con tutti quei pizzi archi merletti pinnacoli colonne. Ospita il Musée de la Ville. Ci dovrebbe essere la Serenissima dentro, che è un museo di città. Ha il sole in faccia, strizza gli occhi. Sente la pelle che tira, un po’ brucia, si raggrinzisce intorno al naso e alle palpebre. Alla sua età, ha già un paio di canaloni profondi, non semplici rughe. Avrebbe bisogno di una crema – la Nivea che metteva suo padre dopo la barba, non metteva il dopobarba, si massaggiava collo e guance con la Nivea e alla fine, per pulirsi le dita, le passava sulla fronte. Si accorge di compiere un gesto che ha sempre visto fare a suo padre: ha il gomito poggiato sulla gamba, con l’indice e il pollice della destra si liscia le sopracciglia, dalla radice del naso alle tempie, il resto della mano protegge il viso dal sole. La posizione rannicchiata a∂atica il respiro. Ha bevuto una birra calda, adesso ha ancora più sete. Avrebbe bisogno di mezzo litro d’acqua. Avrebbe bisogno di un canale davanti ai suoi piedi, non l’acciottolato della Grand Place. Venezia è una nostalgia, pensa. Con tutta quell’acqua… Pensa al torrente: tre giorni fa si bagnava in Chiusella e ora è qui e non sa che cosa volere. Vorrebbe non desiderare di essere altrove, 218 per una volta, vorrebbe godersi quello che sta vivendo, quello che sta aspettando, godersi l’ora il minuto il luogo dove si trova, e la compagnia, i turisti, che escono dal Musée de la Ville e gli passano accanto, quasi lo urtano. Sono uguali ovunque i turisti, ovunque uguali le nostalgie. Anche la Maison du Roi è una nostalgia – arcigna. Non ha bisogno dell’acqua per esserlo. I visitatori sulle scale guardano con preoccupazione i giovani sulla piazza: sono mandrie, scolaresche in gita, sono ormoni impazziti e sedati. Omoni sono. Il Mich non li considera. Seduto in panchina, sta giocando un’altra partita. Dietro di lui, a voce alta, Angelo legge una targa. «Guarda qui» vorrebbe interessare gli amici. «Davanti a questo edificio furono decapitati il 5 giugno 1568, durante la ribellione contro l’autorità del re di Spagna Filippo II, i conti di Egmont e di Hornes, illustri vittime della repressione». «Viva i conti di Egmont e Hornes» esulta compiaciuto Miranda. Lo sentono fino in fondo alla piazza, anche oltre, la sua voce corre libera in tutte le direzioni, imbocca ogni pertugio, ogni fessura, ogni stradina laterale e la colora di entusiasmo. La Grand Place si blocca, arresta ogni attività, cerca la sorgente capace di distillare un suono così puro e melodioso: non sembra reale, forse è una allucinazione, una allucinazione sonora… Si convince che sia così e ritorna al suo da∂are, con questa massa di giovani, questa sensazione di incertezza e di paura: chissà cosa può succedere. Che cosa può succedere? Succede una partita succede, una partita di pallone, con i poliziotti che controllano, uno per angolo – pochi. Il giubilo di Miranda, dopo che la Grand Place ha ripreso il suo armeggiare, ha richiamato l’attenzione del Mich e di Charlie: 219 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto li ha riportati qui. Ora Angelo può leggere con più soddisfazione la targa sull’altra colonna della Maison du Roi: «L’11 dicembre 1789 i brussellesi cacciarono da qui l’armata di Giuseppe II… Hai capito?» osserva. «Nella lotta per l’indipendenza e la libertà, dice. Ma hai capito?». «Cosa?» fa Miranda. «Si dice brussellesi, leggi qui» indica la parola francese, bruxellois. «Gli abitanti di Bruxelles si chiamano brussellesi». Il tono è sorpreso e titubante. «Ah beh». Charlie si attacca al beh di Miranda. Lo ripete a cantilena, beh beh beh beh, sulla melodia dei coscritti, quella che il loro quintetto suona nei giorni di festa, quando le ragazze e i ragazzi a diciotto anni vanno di casa in casa, giorno e notte, a mangiare e a bere, trascinandosi dietro la musica, ehi musika, taka la kansún, e via al corteo per le strade del paese, sempre più assonnato e ubriaco, tutto il paese: «Girano i coscritti girano / e poi s’inciuccano e non pagano però / i coscritti cantano mille canzoni…». Tutto fatto con il beh beh beh beh… La voce di Charlie è una trombetta di carnevale. Ha una lattina di birra in mano, recuperata di fronte alla Chaloupe d’Or. Ci infila i mozziconi accesi. Da quando hanno parcheggiato all’Heysel, fuma una sigaretta dietro l’altra. Esamina i palazzi con sguardo professionale, punta i tetti: quello con la Fenice che risorge dalle ceneri; il municipio, proprio di fronte, con la torre e le guglie che sembrano di sabbia bagnata; l’edificio con un cavallo d’oro in cima che accenna un passo e potrebbe rovinare a terra con il suo cavaliere in groppa. Gli gira la testa. Quanto cazzo di oro hanno messo!, pensa. Essere qui è meglio che stare su un tetto in Valle d’Aosta. 220 Si accende l’ultima Camel, posa la lattina, si sdraia e scruta la fetta di cielo incorniciata fra i palazzi. «Cosa fai?» chiede Miranda. Sa di dovergli dare soddisfazione. «Mi fumo una sigaretta in pace». Accavalla le caviglie e ripiega il braccio sotto la testa. «Non hai fatto altro che fumare» borbotta Angelo, seduto sugli scalini accanto al Mich. «Adesso le ho finite, ho lasciato in macchina il pacchetto nuovo. Devo comprarne un altro. Ma ci penso dopo, ora mi godo il cielo». Miranda alza gli occhi e guarda anche lui le nuvole. «Avrei voglia di fumarmene una». Mich sorprende tutti. «Quando ci muoviamo di qui, le compriamo» dice Charlie. «Ma prima ho una cosa da chiedervi: voi mi rispondete, poi rispondo anch’io, e ce ne possiamo andare». Gli sta ritornando la fame. Serra le labbra attorno al filtro, succhia la sua Camel e butta fuori la domanda: «Qual è il desiderio più forte? Cosa desideriamo per il nostro futuro? Dài, diciamo un desiderio, uno solo a testa. Comincia tu» indica Angelo. Angelo è pronto, di solito è lui che fa queste domande. Annuisce e sentenzia: «I desideri sono l’immagine che hai del futuro» – come a dare un titolo, una spiegazione all’intera faccenda e trovare un buon motivo per rispondere. Per un attimo entra di corsa dietro a Dalglish, pensa a come scatta sempre verso il Kop – gli porta fortuna, gli dà forza – e calcia rasoterra in porta. Lui che esce di corsa dal tunnel, anzi vola, è un sogno a occhi aperti che fa anche di notte. A volte è Dalglish, altre è il giocatore subito alle sue spalle, che corre in campo sulle 221 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto orme del campione. È sempre inghiottito dal rumore, dalla folla. Nel sonno si innalza al di sopra, vola, non corre, ma comunque sparisce, lascia sé stesso indietro, un oggetto lontano. Ora è in mezzo a una calca di corpi, una calca di uomini, incrocia sguardi stranieri, sente voci sconosciute, italiane. Si ricorda i giochi di carnevale, il martedì grasso, mischie di bande frementi, uomini e ragazzi che si spingono da una parte all’altra del paese, un groviglio di gambe e braccia, tra campi fangosi e selciati così duri da spaccare le ossa. È un’antica tradizione. Uno dei tanti giochi di palla banditi dai re inglesi nel corso degli anni. Ormai si fanno solo per ridere, per vedere il nome del paese sulle cartine, alla tv, Saxon e Norse, antiche rivali che consumano i propri riti inseguendo un pallone che si perde in una massa indistinta di corpi. Principi e primi ministri ne giocano una loro versione nell’Eton Wall Game, gli operai giocano la loro nelle cittadine del Derbyshire e della Northumbria. Altrove hanno il carnevale, quello di Rio, di New Orleans e così via, musica, danza e processioni, in Inghilterra ci sono giochi dove uomini e ragazzi si pestano in mezzo al fango fino a rintronarsi, fino a non distinguere più nemmeno il pallone, rompendosi la testa a vicenda, e poi qualcuno emerge con l’oggetto a brandelli sotto il braccio e si dà alla fuga, oppure la palla, come di propria volontà, schizza sopra l’intrico di corpi e vola per aria come una frittella, mentre braccia e mani si allungano per a∂errarla. Non si può calciare la palla. Passano anni senza che nessuno segni un gol. Questa è la piazza adatta per queste cose, pensa Christy. Da bambini facevano un gioco, nel piccolo cortile dietro la scuola elementare. Ricorda che un giorno, all’ora di pranzo, aveva partecipato tutta la scuola – i maestri guardavano indi∂erenti. Tommy Hoy aveva le stampelle per via di una rovinosa 222 acrobazia sulla bici, ne sventolava una per aria come un pirata in battaglia, una bambina della classe di Christy menava fendenti con un braccio ingessato – saranno stati venti per squadra, almeno sembrava, e non riesce a ricordare altre regole, a parte picchiarsi e cercare di segnare da una parte o dall’altra del cortile – e poi, la sua presa sulla palla, una vecchia palla da tennis spelacchiata e mangiucchiata da qualche cane, mentre si faceva strada in mezzo ai corpi, sotto, sopra, tutti gomiti e ginocchia, a difesa del piloncino di cemento che fungeva da meta. Ricorda come si era intrufolato nell’intreccio di braccia e gambe, strusciando contro la ghiaia per poi riemergere senza niente di rotto dall’altra parte, e scattare lasciandoseli tutti dietro. Come aveva saltato al volo la stampella di Tommy e con un ultimo sprint aveva scaraventato la palla contro il piloncino, fra urrà, grida di giubilo e pugni a tradimento. Era tornato a casa con Shaunie, ricorda, i pantaloni senza più ginocchia, pieno di lividi e sbucciature, felice. La mamma quella sera gli aveva rammendato i pantaloni seduta al tavolo della cucina, mentre canticchiava piano fra sé, con l’ago fra i denti. «La prossima volta, mettiti i calzoni corti» gli aveva detto, senza arrabbiarsi, almeno non sul serio, anzi sorrideva. Aveva nevicato, pensa, nevicato forte, fuori, sopra l’acqua, il vento spingeva una massa di nuvoloni grigi verso la terraferma. Di lì a poco, avevano perso interesse per quel genere di cose e avevano cominciato a giocare a calcio. Ripensa a lei seduta lì a cucire, con la teiera che bolliva, il tè pronto, l’orgoglio di quel gol nel bruciore delle sbucciature alle ginocchia. Non andava poi così male. Nuota attraverso la folla, un fiume di voci italiane. 223 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto «Io scriverei un racconto su quelli lì». La dichiarazione di Angelo è solenne. Quelli lì sono un gruppo di inglesi che bivaccano di fronte alla Chaloupe d’Or. Ogni tanto improvvisano una corsa o un canto, e bevono. «Sono hooligans?» chiede Miranda. «Direi di sì» risponde il Mich. «Sì, sono hooligans» garantisce Charlie. «Non sono tanto bestiali» osserva Miranda. «E lo intitolerei I perdigiorno del calcio» prosegue Angelo. «Sarebbe il tuo desiderio per il futuro? un racconto sugli hooligans?». Charlie è sconcertato. Guarda in cagnesco gli inglesi. Se fosse su un campo di calcio sghembo come quello di Drusacco e non in un salotto, ma che dico salotto, non in un salone delle feste come questo, come la Grand Place di Bruxelles, il più aristocratico stadio di calcio al mondo, attaccherebbe briga. Non gli interessa veramente quello che ha da dire Angelo sui desideri. Gli interessa spiattellare il suo, di desiderio. «Sì e no» risponde Angelo. Ha il tono del professore che si rivolge agli allievi in gita. «Quello che voglio fare è scrivere un libro. Mi sto allenando con i manuali, che sono già dei libri, non dei romanzi, ma dei libri. Sai, devi scegliere le parole giuste. In azienda ti danno le specifiche tecniche del prodotto e tu devi tradurle in italiano, così chi compra capisce qualcosa. Devi scegliere le frasi, spiegare il funzionamento. Insomma, non è un romanzo, ma devi saper scrivere. Sono contento, è un lavoro che mi piace. Ma tempo un paio d’anni scrivo un libro. Il mio desiderio è scrivere un libro. Senza peli sulla lingua. Bisogna essere onesti, quando scrivi, essere sinceri. Come Bukowski, sincero e libero come Bukowski, che è un’anima candida, perché nell’abiezione, nel sesso, nel godimento, nel prendersi tutto quello che la 224 vita o∂re, c’è il candore». Trionfante, si alza di scatto e si sgranchisce le gambe. Charlie e Miranda non hanno mai sentito nominare Bukowski. Il Mich lo sente nominare da Angelo ogni volta che parlano di libri, ma non l’ha mai letto. Cent’anni di solitudine, Hemingway, Hesse e Bukowski sono la biblioteca di Angelo, tutti scoperti dopo essere entrato in Olivetti grazie a Cavallo Pazzo. Respira a pieni polmoni, scende gli ultimi scalini, infila le mani in tasca come la domenica in piazza dopo la messa e si rivolge a Charlie con un sorriso che potrebbe essere di sfida: «E tu?». «Il mio desiderio?». «Sì». «L’ho chiesto prima a voi». «Io non lo so, devo pensarci» sussurra Miranda. «Dicci il tuo». «Il cuoco» spara Charlie, che non aspettava altro. «È un desiderio il cuoco?» interviene Angelo. «È il mio. Se non mettessi lose, che mi piace, mi piace stare sui tetti, mi piace il lavoro fisico, non come l’Ingegné, eh?» sorride e strizza l’occhio al Mich. «Se non facessi tetti, farei il cuoco. Anzi, un giorno lo faccio». «Ti vedo bene come cuoco» osserva il Mich. «La cucina del Tiger, che te ne pare? Oppure: A tavola con il Tiger. I prelibati piatti del Tiger. Tiger i piatti della tradizione…». Con la mano scolpisce le insegne nell’aria. «Hai intenzione di continuare?» lo stoppa il Tiger, senza cambiare tono e senza muoversi da terra, scavalla solo le caviglie. «No». Alza le braccia in segno di resa. «A me piace far da mangiare per gli altri e inventare piatti. La mia zuppa di iucche, per esempio». 225 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto «Buona». «Come la faccio io, ancora di più». Eccolo, il Tiger, pensa il Mich. «Come la faccio io non la fa nessuno, perché so dove andarle a prendere, quando è stagione, e so cosa metterci dentro per dare più gusto. Non sono solo iucche, sono iucche come le faccio io». «Erba» sminuisce Miranda. E poi, con voce squillante: «A me non mi piace cucinare, è una cosa da femmine». «Ma va un po’, falabrák» ribatte Charlie. «I più grandi cuochi del mondo sono maschi!». «A casa mia ha sempre cucinato mia nonna». «Non quelli che fanno da mangiare a casa, quelli che hanno i ristoranti, dico. I grandi cuochi sono tutti maschi». «In valle da noi, no. Al Bar del Centro a Vico c’è la Nadia. A Trausella c’è Anita…». «È la migliore» commenta Angelo. «Devi esserle simpatico, se vuoi essere servito, però è la migliore». «A Fondo, alla Trattoria del Ponte, è la moglie che cucina, lui serve solo ai tavoli» continua Miranda. «Alle Miniere no, alle Miniere sono i due fratelli. E all’Hotel Dora c’era il Leo, quello col cappellino e il sigaro, che adesso lavora all’Albergo del Sole». «E poi c’era la Mimi all’Americano, vi ricordate?» interviene il Mich. L’immagine della Mimi è l’apparizione di una mongolfiera. Tutti a ricordarla, con la bocca aperta, piena di acquolina e di stupore: Ah, la Mimi! Da un paio d’anni ha ceduto l’Americano e ha lasciato il paese, ma quell’immensa balena spiaggiata sul sofà nel retro del bar ora è un rimpianto e una nostalgia. Era il segnalibro della loro infanzia e adolescenza. Si animava soltanto 226 quando doveva cucinare, allora sembrava un polipo con mille braccia e gambe incredibilmente atletiche. Reggeva la cucina fino all’una di notte, alle due, andava e veniva, friggeva, girava e rigirava, impastava, condiva, aggiungeva sapori e mescolava di nuovo, ci metteva tanto di quel burro, tanto di quel formaggio… Charlie si scuote e si fionda sul Mich: «Ho capito, il tuo desiderio era di farti la Mimi». Bon, il Mich è sistemato. Poi scarta e chiede a Miranda: «E invece il tuo?». Silenzio. Gli amici si preparano a un’attesa di qualche minuto, prima di poter ascoltare il solito tartaglio di risposta. Ma inaspettatamente Miranda lascia cadere ogni esitazione. L’ha pronto da un pezzo, il suo desiderio: «Essere Gianni, non essere io» deglutisce. La frase suona come un gong – un frastuono nelle orecchie del Mich, di Angelo e Charlie. Potrebbe continuare, vorrebbe, ma Charlie entra a valanga e gli toglie la parola: «Ah certo, guadagna bene Gianni, anch’io vorrei essere lui e guadagnare quanto guadagna lui. Però un altro desiderio più importante dei soldi ce l’ho: ti do i soldi che vuoi, ti lascio lo stipendio di Koetting per potermi fare tutte le donne del mondo, tutte, anche le racchie e le vecchie, anche le nonnine, per farle contente». Non si fermerebbe, se la voce di Angelo non sopravanzasse la sua con autorità e, rivolta al Mich, chiedesse: «E tu, il tuo desiderio?». Chi è in grado di bloccare Charlie in azione? Approfitta dei secondi in cui il Mich cerca fra i pensieri un desiderio spendibile e si ributta a capofitto: «Lui è già a posto, il suo futuro ha il tappeto rosso, fa l’ingegnere, mica deve lavorare, è già tutto programmato, si laurea e va nello studio di Ricono, è quello il suo futuro, non ha bisogno di desiderare». È di buonumore. «Adesso 227 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto ho fame» annuncia. Balza in piedi e va a scompigliare con le mani i capelli del Mich. «Ah, il mio ingegnere… Non il mio ingegnere, il mio portiere! Ti preferisco portiere. Rimarrai per sempre il mio portiere». «Eh già» commenta Miranda. Sa che non esiste per sempre. «Eh già» ripete il Mich. Non è più portiere da un pezzo. «Andiamo» ordina Charlie. «Se non metto qualcosa sotto i denti, muoio». «Prima dicci il tuo desiderio, Mich. L’abbiamo detto tutti, tocca a te» insiste Angelo. Anche il Mich lascia gli scalini. Stava guardando un nonno con un bambino per mano. Entrambi sotto il braccio tengono un pallone di plastica: bianco e nero, il nonno; rosso giallo e nero, il bambino – vedono gli inglesi e cambiano direzione. Il Mich sposta lo sguardo sugli amici. Li fa aspettare. Si volta verso la Maison du Roi e dice: «Che noi siamo come Egmont e Hornes?». «Chi sono Egmont e Hornes?» chiede Charlie. «I ribelli contro il re di Spagna. Voglio che fra vent’anni o fra cinquanta scrivano che noi siamo stati qui: mettono una targa per qualcosa che faremo, dove si dice che il 29 maggio 1985 Angelo Peraglie, Mario Morello, Carlo Charlie Tiger Stura e Domenico Dezzotti sono passati di qui, davanti a questo edificio». «Ma loro sono morti, li hanno ammazzati» fa notare Miranda. «Anche noi fra cinquant’anni saremo morti» ribatte Charlie. «Parla per te» ride Angelo. «Se ci ribelliamo, non moriamo. Mai. Dobbiamo ribellarci per non morire». «E quando la facciamo quest’azione memorabile che ci mettono la targa?» chiede Charlie. 228 «Quando capita, capita. E però qui, nella Grand Place, ricorderanno che siamo passati noi». Ah, vabbè, così non vale, pensa Angelo. «Anche adesso? Possiamo farla anche adesso?» si intriga Charlie. Il Mich alza le spalle. Non è il caso, pensa. Miranda lo incoraggia: «Sì, anche adesso». Conosce l’amico, sa che è inarrestabile. «Vale la mia per tutti, allora» stabilisce Charlie. Solleva la gamba, spinge in fuori il culo, poggia una mano sulla chiappa sinistra, accenna ad allargarla e scoreggia. «Ma no, Cristo santo!» sbotta Angelo e si volta. Miranda ghigna. Il Mich torna a cercare con gli occhi il nonno e il bambino. Non è andato sempre tutto male, non dovrebbe a∂ogare in pensieri così. Pensa ai pantani fangosi, alle sabbie mobili, quando la marea si ritira verso il mare aperto e ci si sente risucchiare – anche nei giorni più soleggiati e calmi – oppure quando l’acqua risale all’improvviso fra te e la terraferma e si resta intrappolati, arenati, stretti in una morsa. Bisogna stare attenti, è questo che ha rischiato, pensa Christy, di trovarsi intrappolato, di perdersi senza possibilità di ritorno. Si guarda dall’esterno, quasi si vedesse dall’alto del Kop o da una di queste logge dorate. È stato un bambino felice, non c’è dubbio, un bambino cresciuto ai bordi della città, sul bordo del mare, con la famiglia intorno. A casa non ci pensa mai, come se pensare al passato lo facesse stare peggio, con tutto quello che è successo dopo. Che le cose siano cambiate è altrettanto indubbio. Un veleno si è insinuato. Forse Anne ha ragione sulla roba che viene giù dalla centrale di 229 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto Sellafield; gocciolante sul paese dalle bocche dei governanti; respirata da suo padre fin dentro i polmoni. Spesso pensa che dovrebbe sentirsi più arrabbiato, anziché limitarsi a incassare, ma è abbastanza grande da sapere che la rabbia assume tante forme e spesso è silenziosa, ti lavora piano dall’interno, ti deforma e corrode fino a non lasciare praticamente niente di quello che c’era prima. È anche sicuro di poter fermare questa cosa, ancora di più grazie a questo viaggio, che non avrebbe mai pensato di fare da solo e invece eccolo qui, roba da matti. Si insinua piano fra la gente in piazza, da qualche parte suona una trombetta, qualcuno risponde in italiano mentre dall’angolo superiore della piazza si sente il grido «Li-ver-pool». Immagina sé stesso fra molti anni, magari di nuovo qui, per un’altra finale. È con suo figlio, gli posa una mano sulla spalla come ricorda che faceva suo padre con lui e lo guida attraverso la folla. Il ragazzo gli ricorda che hanno promesso di portare un regalo alla mamma, la moglie di Christy. È un sollievo riuscire ad avere pensieri del genere, in mezzo al chiacchiericcio di voci italiane. A casa cerca di non pensare mai, né a sé stesso, né al futuro, pensa solo ad andare avanti passo dopo passo. Mostra a suo figlio la piazza, la folla, sempre con la mano sulla spalla. «Ci sono già stato, qui,» gli dirà «prima che tu nascessi, prima di conoscere tua madre». Vivono davanti al mare, vanno allo stadio quando la squadra gioca in casa e a qualche trasferta ogni tanto. Non riesce a immaginare la faccia di sua moglie né di suo figlio, ma sente la loro presenza. Ha un lavoro, anche se non sa quale. Tutte le sere passeggiano sul lungomare con un gelato o un thermos di tè, a seconda della stagione, e guardano le barche sopra l’acqua. Il fatto di immaginare il futuro come la sua infanzia non lo preoccupa, 230 anzi è più facile aggrapparcisi. È pervaso da un senso di immensa speranza, di cambio della marea, dalla considerazione che se non sempre è andato tutto male l’avvenire potrebbe essere migliore. Si stanno per muovere. Accanto a loro, due ragazzini in pantaloni corti calzettoni e maglietta rossa giocano a rincorrersi. Più in là, due inglesi a torso nudo si passano una lattina di birra come fosse un pallone. Un altro cerca di palleggiare con una bottiglia. «Giochiamo anche noi» propone Charlie. Si avvicina agli inglesi e prende una lattina vuota. «Schiusmi» dice – non se ne accorgono nemmeno. «Passa» grida Miranda. «Passa». Angelo si muove all’ala. Comincia a corricchiare sul posto. Finge di disorientare e sbilanciare il suo marcatore. Fra problemi di equilibrio e piedi da stopper, Charlie non controlla bene la lattina – come pallone è sgradevole, chiassoso. «Passa, passa» invoca Miranda. Non sarà molto capace a giocare, ma è bello, aggraziato, ha le movenze da campione. Per questo, durante le loro partite, la maggior parte del pubblico, anche gli uomini, lo ammira. In qualche modo Charlie gli fa arrivare la lattina. Con la coda dell’occhio Miranda vede lo scatto di Angelo. Si inventa di prima intenzione un passaggio perfetto – chi ha detto che non è molto capace a giocare? –, una traiettoria miracolosa. Angelo esegue uno stop a seguire e corre corre corre, in tre metri corre come se divorasse tutto il campo, tutta la Grand Place. Guarda il portiere e guarda la palla, guarda il portiere e guarda la palla, guarda il portiere e tira a colpo sicuro. 231 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto La targa che metteranno sulla Maison du Roi è per come Stura, Morello, Peraglie giocano la loro partita, la memorabile partita del 29 maggio sull’acciottolato della Grand Place – e anche Dezzotti. Domenico Dezzotti in porta vola. Magari uno spettatore distratto o inesperto non se ne accorge, lo vede fermo, con i piedi a terra, leggermente piegato sulle gambe, proteso in avanti, ma Domenico Dezzotti vola. Allunga le braccia e vola. Arriva al sette, agguanta il pallone, lo blocca, cade a terra e si rialza portandolo al petto. Lo stadio esulta, è un boato di ammirazione. Charlie applaude. Angelo è incredulo. Miranda gli grida bravo con il suo acuto migliore e si smarca per ricominciare l’azione: «Passa, passa». Il Mich respira. Studia la posizione dei compagni. Controlla gli avversari. Sulla sinistra, in disparte, nota un biondino alto, la zazzera sul collo, la pelle bianca che il sole può soltanto arrossare. Gli sembra spaesato – un po’ come lui. Forse la distanza da Charlie non è tranquillizzante, ma il Mich confida nel suo stopper e gli lancia il pallone. Tutta la loro innocenza viaggia con quel pallone. Charlie è euforico e a∂annato. Tenta un colpo al volo, uno stop, un controllo in movimento – tutto insieme. Risultato: perde l’equilibrio e svirgola la lattina. Prima di scivolare a terra, riesce ugualmente a calciarla. Il pallone scodinzola sferraglia e fracassa lontano, non dove voleva indirizzarlo. Christy alza la testa al suono di una lattina sul selciato, il suono dei ragazzi e dei loro sogni lungo strade interminabili. Lattine e 232 sassi si trasformano in palloni; strade e sterrati in grandi arene. Si trova a metà della piazza, in pendenza, emerge dalla calca di persone sul bordo del campo da gioco. Non sa dove sta andando ma vuole dare l’impressione di sì, più o meno in cima alla piazza, verso le bandiere del Liverpool. E poi gli arriva la lattina, proprio davanti, come un passaggio perfettamente calibrato. I migliori giocano a testa alta, dettano il tempo. Suo padre glielo ripete da sempre, sulle ampie file del Kop, nelle tristi luci di Prenton Park, sotto il riverbero del televisore. Lui lo ripeterà a suo figlio. Certe cose restano vere anche se le ripeti all’infinito. Dà un tocco alla lattina scostandola col piede, alza la testa. Gli italiani giocano di fronte ai gradini, osservano la parabola della lattina che hanno tirato. Dietro di loro, c’è un arco scuro come lo specchio di una porta. Ragazzi della sua stessa età, a quanto vede, e poi, più su, un gruppo più nutrito di tifosi del Liverpool con le facce pallide. Centinaia di occhi su di lui. Uno degli italiani lo invita a giocare, non è sicuro ma si apre comunque per ricevere la lattina con il sinistro, come Alan Kennedy al rigore dell’anno scorso. È una cosa stupida, lo sa, è anche pericoloso, le scarpe non fanno presa e per un attimo ha paura di finire con il culo a terra davanti a tanta gente che per ora lo guarda solo di sguincio, è pericoloso attirare troppo l’attenzione, ma appena la tocca lo sa, appena la colpisce con il collo della vecchia scarpa di cuoio marrone un po’ troppo piccola e sformata, come le scarpe che la nonna mette la domenica, sa di avere fatto la scelta giusta. È un uomo che dà calci a una lattina in scarpe di cuoio, lui. La lattina gira e sbatacchia sulla piazza. Qualcuno esulta, Christy ne è sicuro. Incrocia lo sguardo del portiere. Il portiere, Christy non riesce a pensarlo che così, teneva la lattina stretta al petto, come per 233 Anthony Cartwright, Gian Luca Favetto Il giorno perduto proteggere il pallone negli ultimi istanti della partita. Quasi si aspetta che si rannicchi sulla palla per prendere tempo, come Zo∂ alla finale dei mondiali. Qualcuno ride in direzione di uno degli italiani che è scivolato e ora si tira su, sorride, cerca di non sembrare troppo mortificato, troppo fuori dal gioco. Ma sono risate calde, non ostili. C’è un senso di teatralità nell’aria. Mentre incrociano gli sguardi, Christy sa che la lattina tornerà da lui, lo sguardo dell’altro è amichevole e allegro, e il suo, spera, non di sfida. Non come quelli che raccoglie quando cammina per le strade, a casa, per esempio quello della madre di Shaunie – lo ha capito adesso – di disprezzo, disagio. Percepisce un momento di amicizia fra lui e lo sconosciuto, sente la vergogna sparire, dissiparsi come nebbia al sole, e alza la testa. Il mondo non deve per forza rimanere sempre uguale. Fa un cenno e segue la parabola del lancio, morbido quasi, e la lattina rotola di nuovo davanti a lui. La calcia, stavolta al volo, verso i tifosi del Liverpool che adesso esultano, esultano davvero, mentre la lattina rotola brillando in una selva di gambe e lui segue il tiro sulla salita. Alza il pollice verso il portiere riccioluto dalla faccia simpatica, già mezzo voltato verso i suoi amici, quello che era caduto scuote ancora la testa, Christy si ritrova nella calca, la lattina, la partita, finite chissà dove. Vede Shaunie di vedetta con un bicchiere in mano, nella Grand Place, proprio come si erano detti, si sente You’ll Never Walk Alone e il coro «Liverpool, Liverpool», poi un boato più scandito in italiano. Shaunie sta con Ken e Barry sotto una loggia d’oro, accanto a un poliziotto bambino dall’aria smarrita, con un muscolo che gli si contrae sulla guancia mentre cerca di mantenersi impettito e marziale. C’è un solo poliziotto in ogni angolo, Christy se ne rende conto adesso, dalla sua prospettiva si vede bene l’intera 234 piazza, centinaia di uomini che bevono e ridono in una città che non è la loro. «Ehi, che cazzo di ingresso, Christy!». Si gode l’espressione di Shaunie, mentre Barry gli passa il cartoccio delle patatine. «È ovunque, il ragazzo» dice Barry. Anche Ken scuote la testa a braccia conserte, e ride. Christy si chiede sinceramente se questo non sia il momento più bello della sua vita, il momento in cui una pienezza di promesse lo aspetta. «Come sei messo, poi, col biglietto, ragazzo?» dice Barry fra una patatina e l’altra, ma vengono distratti da qualcosa che cade, vola, la parabola di una bottiglia dall’altra parte della piazza e un rumore di vetri infranti. Poi di nuovo, e qualcosa si sposta dentro di loro, un cambio d’umore che attraversa la folla come una raffica sul mare. Il muscolo sulla guancia del poliziotto ha un movimento involontario. Ken indica con il capo una buia stradina laterale, un altro tunnel, e spariscono. 235