Neirone Natura Storia e Arte

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Neirone Natura Storia e Arte
COMUNE DI NEIRONE
Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria
Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Liguria
Raffaella Spinetta
NEIRONE
Natura Storia Arte
contributi di
Angela Acordon - Paola Cavaciocchi
Andrea Cevasco - Maria Di Dio
Roberto Ghelfi - Luciano Maggi
Roberto Maggi - Piera Melli
Stefano Montinari - Caterina Ottomano
Roberto Ricci - Cristina Sanguineti
Cura redazionale
Michela Bolioli
COMUNE DI
NEIRONE
PROVINCIA DI
GENOVA
COMUNITÀ MONTANA
FONTANABUONA
Autori
Angela Acordon, Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico della Liguria
Paola Cavaciocchi, Architetto
Andrea Cevasco, Dip.Te.Ris. - Università degli Studi di Genova
Maria Di Dio, Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria
Roberto Ghelfi, Architetto
Luciano Maggi, Architetto
Roberto Maggi, Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria
Piera Melli, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria
Stefano Montinari, Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria
Caterina Ottomano, DARFICLET, Università degli Studi di Genova
Roberto Ricci, ISCUM, Genova
Cristina Sanguineti, Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria
Raffaella Spinetta, Naturalista, Esperto in gestione dei beni naturali
Si ringraziano
Anna Panarello, Assessore alla Cultura della Provincia di Genova
Alessandro Repetto, Presidente della Provincia di Genova
Gianfranco Arata, Presidente della Comunità Montana Fontanabuona
Claudio Solari, Assessore alla Cultura della Comunità Montana Fontanabuona
Marzia Cataldi Gallo, Soprintendente per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico della Liguria
Maurizio Galletti, Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria
Giuseppina Spadea, Soprintendente per i Beni Archeologici della Liguria
Agnese Avena, Giacomo Baldaro, Sonia Balderi, Massimo Bartoletti, Remo Bernardello, Mauro Bianco,
Franco Boggero, Rosanna Bonito, Marco Campini, Santino Capurro, Rina Corsiglia, Rita Corsiglia, Vittorina
Corsiglia, Giorgio Costa, Marco Desiderio, Piero Donati, Daniela Frati, don Paolo Gaglioti, Salvatore Gentile,
mons. Francesco Isetti, Alessandra Molinari, Germano Mulazzani, don Mario Ostigoni, Anna Orlando,
Antonello Pandolfo, Nadia Pezzolo, Guido Rossi, Daniele Sanguineti, Elia Schiappacasse, don Mario Soldi,
Marina Sommaruga, Agostino Spinetta, Fabrizio Spinetta, Paola Traversone, Alessandra Toncini Cabella,
Daria Vinco, Gianluca Zanelli.
Un ringraziamento particolare al personale del Comune di Neirone per la preziosa e costante
collaborazione.
Ricerca d’archivio
Chiese di San Maurizio di Neirone e San Lorenzo di Roccatagliata: Angela Acordon, Cristina Sanguineti
Chiese di San Rocco di Ognio e San Marco d’Urri: Angela Acordon, Stefano Montinari
Archivio della Curia di Chiavari: Angela Acordon
Abbreviazioni
APSMN (FN): Archivio Parrocchiale chiesa di San Maurizio di Neirone (Fondo Neirone)
APSMN (FR): Archivio Parrocchiale chiesa di San Maurizio di Neirone (Fondo Roccatagliata)
APSRO: Archivio Parrocchiale chiesa di San Rocco di Ognio
APSMU: Archivio Parrocchiale chiesa di San Marco d’Urri
ACC: Archivio Curia di Chiavari
Impaginazione
Graziano Parodi
In copertina
Neirone, paesaggio invernale (foto Raffaella Spinetta)
Proprietà artistica e letteraria riservata
Vietata la riproduzione, anche parziale, senza espressa autorizzazione
Comune di Neirone, 2004
Dopo anni di ricerca e di ipotesi sul patrimonio naturalistico e storico-culturale di Neirone, si è reso
necessario scegliere un’equipe di studiosi per raccogliere, in un unico testo, non più supposizioni o il
“sentito dire” circa le caratteristiche ambientali e le datazioni storiche di chiese e di altri manufatti esistenti sul territorio neironese, ma cose certe, se pur con una ragionevole approssimazione, sulle peculiarità storico-naturalistiche del Comune di Neirone.
È pensando al domani che si sente il bisogno di lasciare alle generazioni future un qualcosa di scritto,
affinché l’era del computer non cancelli l’ingegno di quelle generazioni passate che con tanti sacrifici
hanno saputo trasmettere a noi opere così ben realizzate e conservate da stupire i migliori studiosi del
nostro tempo.
“Neirone Natura Storia Arte”: è con questo titolo che si è pensato di redigere un libro per far sapere
al lettore che cosa rappresenta oggi Neirone in riferimento all’ambiente, alla natura incontaminata che
avvolge quei nuclei abitati sparsi tanto caratteristici di un territorio montano che tanto ha dato a quella civiltà contadina che con laboriosità ha saputo preservare un habitat ricco di flora e di fauna di raro
pregio.
Se ci rifacciamo alla storia non vi è dubbio e si può facilmente constatare in oggi quanta importanza
abbia avuto Neirone nei secoli passati: dalla Tomba di Roccatagliata al Castello dei Fieschi, dal
Percorso Fliscano ai numerosi ponti rinascimentali che testimoniano le importanti vie di comunicazione dalle quali Neirone era attraversato.
Da evidenziare in particolare le chiese che, oltre a testimoniare la cristianità nei secoli dei Neironesi,
nel loro interno sono da considerarsi dei piccoli musei d’arte.
Si è ritenuto pertanto di raccogliere in un testo, impreziosito dalla conoscenza e dalla competenza
degli autori, tutte le bellezze naturali storiche e artistiche presenti sul territorio neironese, per lasciare ai posteri una testimonianza di come hanno saputo conservare questa nostra preziosità nei secoli i
nostri avi e perché questo serva da stimolo per le generazioni future.
Stefano Sudermania
Sindaco di Neirone
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Ancora una volta il territorio provinciale rivela caratteri e storia da vero protagonista culturale.
Il lavoro su “Neirone”, nel confermare la ricchezza artistica dei beni presenti sul territorio, ambisce tuttavia a presentare un quadro più complesso ed articolato, in cui trovano spazio non solo questo tipo di
risorse ma anche di altra natura: in particolare ambientali e storiche.
Il risultato è ora tra le mani del lettore, uno studio sistematico che spazia dalle querce secolari di
Montefinale agli itinerari fliscani, dagli strumenti della cultura contadina ai ponti in pietra della valle
di Neirone, con una sua indiscutibile coerenza interna; una serie di studi che, proprio per la visione
complessiva di cui fanno parte, evitano il rischio della disomogeneità e della frammentazione.
Tutto appare, invece, coerente in questo volume, risultato assicurato dal fatto che le singole voci, pur
trattando argomenti assai diversi tra loro, hanno saputo porsi anche il problema della prospettiva editoriale in cui andavano ad inserirsi.
Merito degli studiosi senza dubbio che, inoltre, hanno saputo conciliare le necessità della divulgazione con quelle del rispetto delle rispettive discipline storiche, artistiche o scientifiche.
A 2004 avviato questa opera si pone con una sua indiscutibile autorevolezza nel già affollato panorama editoriale delle pubblicazioni preparate per questo evento. Autorevolezza che deriva sia dalla specificità dei caratteri interni all’opera sia dal fatto che raramente si è potuto contare su guide di tale
spessore e ampiezza tematica.
Inoltre questa pubblicazione è una confortante conferma della necessità di studi di questo tipo e, di
riflesso, della validità delle iniziative avviate dalla Provincia di Genova con la stragrande maggioranza dei Comuni e delle Comunità Montane del territorio. La condivisione e l’elaborazione di tre grandi percorsi tematici sulla storia, sulla società, sull’arte e sull’economia è apparsa come una tappa quasi
obbligata per il 2004.
Un appuntamento in cui tutto il territorio provinciale ha la possibilità e l’occasione di presentare una
immagine significativa del proprio passato con la prospettiva, però, di una progettualità futura.
Le stesse linee teoriche che legano tra loro, come un filo invisibile, queste pagine su Neirone.
Alessandro Repetto
Presidente della Provincia di Genova
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La Fontanabuona ha saputo costruire, negli anni e nei secoli, davvero tanto; lo ha fatto al proprio
interno e (spesso) all’esterno con i suoi emigranti.
Sono passati in tanti, da queste parti: Genovesi, Fieschi, Armate Napoleoniche, Regnanti piemontesi e Garibaldini, qualcuno sostiene che sia transitata da qui perfino qualche frangia dell’esercito di
Annibale. E a dire il vero qualcuno se ne è anche andato con discreto successo, come il fondatore della
Bank of America o la madre di Frank Sinatra, per non dire di un certo Cristoforo Colombo.
Insomma, forse la grande storia ci ha solo sfiorati, ma certo non ci ha ignorati del tutto.
Ma la vera storia della Fontanabuona non è questa. La vera storia è quella della sua gente che ha vissuto di mestieri ingrati, di avarissima agricoltura e di duro lavoro per anni e anni, con tenacia e con
testardaggine, volendo restare sulla sua terra anche quando vi sarebbero state strade più facilmente
percorribili.
Sono loro che oggi, conquistato un discreto benessere, sentono il bisogno di valorizzare le vecchie tradizioni, perdute negli anni, scoprendo nel frattempo tutta una serie di peculiarità artistiche e culturali, che facevano parte della vita dei loro antenati.
La loro vera storia.
Non esiste Comune della Fontanabuona che non abbia un percorso di tal genere da riscoprire e, specialmente in quest’epoca di globalizzazione artificiosa dove le nostre radici diventano sempre più labili e confuse, è davvero indispensabile rivendicare in questa maniera la nostra identità, e farlo anche con
orgoglio.
Complimenti quindi all’Amministrazione di Neirone e ai bravissimi Autori.
Hanno saputo cogliere lo spirito dei suoi abitanti e, da valore locale, farlo diventare valore universale.
Gianfranco Arata
Presidente della Comunità Montana Fontanabuona
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Il nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, nel quale - oltre a normative minori o successive sono confluite, con aggiornamenti e variazioni, le due gloriose leggi di tutela del 1939 (quella per
le “cose” storico artistiche n. 1089 e quella per il “paesaggio” n. 1497), mentre scrivo in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, offre una interessante definizione di “tutela”, che dimostra quanto sia ormai matura per il legislatore la consapevolezza della necessità della conoscenza preventiva
ad ogni piano, programma, o intervento sul territorio: l’art. 3 recita infatti “la tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la
conservazione per fini di pubblica fruizione”. Ancora, l’art. 29 recita che l’attività di “conservazione
del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di
studio, prevenzione, manutenzione, restauro”. Inoltre, recependo gli indirizzi della Convenzione
europea sul paesaggio, all’art. 2 il Codice inquadra i “beni paesaggistici” nel “patrimonio culturale” ed
innova le norme precedenti definendoli beni “costituenti espressione dei valori storici, culturali,
morfologici ed estetici del territorio”.
Dunque, la legge dispone che l’attività conoscitiva faccia parte delle azioni stesse di tutela e di conservazione del patrimonio culturale. E sancisce che l’insieme dei valori del territorio è il patrimonio culturale di una comunità e che questo patrimonio deve essere protetto e conservato per la pubblica fruizione e godimento. Sembra ovvio, ma ovvio non è: basta guardarsi intorno e si vedranno
centinaia di esempi di beni culturali guastati da interventi inconsapevoli o scorci del nostro splendido Paese deturpati da opere o costruzioni realizzate senza che nessuno si ponesse il problema della
compatibilità di questi interventi con la bellezza e la storia del paesaggio, pregiudicando di fatto ed ora finalmente se ne ha qualche consapevolezza - la qualità della vita delle generazioni future.
Purtroppo, non valgono leggi, piani, regolamenti o uffici centralizzati di tutela (siano statali, siano
regionali, siano pure provinciali) ad ottenere qualità e “misura” degli interventi ed attenzione ai
valori insiti nel patrimonio di beni che le nostre generazioni hanno ereditato. Occorre che siano le
comunità locali stesse a farsi orgogliose e responsabili del proprio territorio, della propria storia, del
proprio patrimonio di cultura e natura, così da essere capaci di difenderlo come si difende quello
che fa parte di noi e che si ama.
Ecco, con evidenza questo volume sulla natura, la storia, l’arte di Neirone, che del patrimonio dei
valori di questo comune dell’entroterra ligure - che oggi conta meno di mille abitanti - ci offre una
lettura densa, approfondita, meticolosa ed entusiasmante per la varietà delle tematiche affrontate e
per la ricchezza dei risultati di studio raggiunti, è proprio nato così, diciamo con parole ormai datate, “dal basso”: la sua pubblicazione è stata tenacemente voluta dal suo Sindaco, ad essa hanno contribuito gli altri Enti locali interessati (Comunità montana, Provincia di Genova), alla sua realizzazione hanno lavorato molti studiosi e le Soprintendenze liguri con i loro specialisti, offrendo, tutti
insieme, l’esempio di un impegno importante, di sinergia istituzionale ma prima di tutto umana,
disciplinare, professionale, un impegno appassionato d’amore verso questo territorio e le centinaia
di generazioni che con la loro vita, lavoro, fede, l’hanno segnato e plasmato. Un impegno che ha una
finalità chiara, quella di offrire a chi oggi opera ed alle generazioni che verranno, certamente, tanti
dati di conoscenza, ma soprattutto un indirizzo ed un atteggiamento di metodo, che è quello di
lavorare a costruire il futuro in armonia e continuità con quanto la storia ci ha consegnato, accostandosi a quel bene prezioso che è il territorio con rispetto, attenzione e la capacità di valorizzarne gli aspetti peculiari e caratterizzanti, sulla base dello studio e della conoscenza, tenendo ben presente che solo in questo processo di cura e di attenzione di cui la comunità locale sia protagonista
sta la garanzia per la vita futura di queste terre e dei loro abitanti.
Genova, febbraio 2004
Liliana Pittarello
Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria
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INDICE
INTRODUZIONE - Raffaella Spinetta
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AMBIENTE E GEOGRAFIA
IL RUOLO DEI TERRITORI MONTANI IN LIGURIA - Raffaella Spinetta
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IL TERRITORIO - Raffaella Spinetta
Confini amministrativi
Confini geografici
Morfologia: una terra di colline e montagne
Idrografia: “da Siestri alla fiumana bella”
Il Clima
21
ASPETTI GEOLOGICI E GEOMORFOLOGICI
DEL TERRITORIO COMUNALE DI NEIRONE - Andrea Cevasco
Il quadro geologico
L’unità del Gottero
Le rocce ed il paesaggio
Fenomeni di dissesto
31
NATURA. IL MONDO DEI VIVENTI - Raffaella Spinetta
I Boschi: quanti e quali?
I prati e le fasce
Vegetazione e flora
La flora
Le querce secolari di Montefinale
La fauna
Fauna minore: conoscerla per non perderla
Il mondo nascosto
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IL PAESAGGIO - Raffaella Spinetta
Un mare dai monti
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GUIDA ALL’ITINERARIO DEI FEUDI FLISCANI
E ALLE PRINCIPALI VIE ESCURSIONISTICHE - Raffaella Spinetta
L’Itinerario dei feudi fliscani
Il sentiero delle querce
Il sentiero del M. Caucaso
Il sentiero didattico del M. Rocio, un percorso di confine
Da San Marco d’Urri al M. Lavagnola
81
PATRIMONIO STORICO - CULTURALE
NEIRONE: TERRITORIO, PAESAGGIO E CULTURA - Maria Di Dio
ALLE RADICI DELLE TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO - Roberto Maggi
CALVARI - CIAN DEI TENENTI E ISOLALUNGA: ASPETTI SEDIMENTOLOGICI
E MICROMORFOLOGICI DELLA SUCCESSIONE STRATIGRAFICA - Caterina Ottomano
IL TERRITORIO DI NEIRONE NELLA VAL FONTANABUONA - Roberto Ghelfi
Schema della struttura orografica del Tigullio
La fisionomia della valle
Aspetti del territorio di Neirone
La podesteria di Neirone
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NEIRONE E IL TERRITORIO DEI TIGULLII.
POPOLAMENTO E SVILUPPO FINO ALLE SOGLIE DEL MEDIOEVO - Piera Melli
119
I PONTI IN PIETRA NELLA VALLE DI NEIRONE
E LE PROBLEMATICHE LEGATE AD UNA LORO DATAZIONE - Paola Cavaciocchi
NOTA SUI MATERIALI DI ALCUNI PONTI IN PIETRA DELLA VALLE DI NEIRONE - Roberto Ricci
135
ANALISI PERCETTIVA DEL TERRITORIO COMUNALE DI NEIRONE - Luciano Maggi
163
NEIRONE. FASI COSTRUTTIVE ED INTERVENTI DI RESTAURO
DELLA CHIESA DI SAN MAURIZIO - Cristina Sanguineti
177
NEIRONE. NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO - Angela Acordon
189
ROCCATAGLIATA. NOTE SULLA CHIESA DI SAN LORENZO
E SUL SUO TERRITORIO - Cristina Sanguineti
203
ROCCATAGLIATA. NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO - Angela Acordon
213
CHIESA DI SAN ROCCO DI OGNIO. NOTIZIE STORICHE - Stefano Montinari
223
OGNIO. NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO - Angela Acordon
233
CHIESA DI SAN MARCO D’URRI. NOTIZIE STORICHE - Stefano Montinari
247
SAN MARCO D’URRI. NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO - Angela Acordon
257
BREVE STORIA DELL’OCCUPAZIONE UMANA - Stefano Montinari
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SOCIETÀ ED ECONOMIA
UN MONDO DI CONTADINI - Raffaella Spinetta
Il territorio agricolo comunale
Ronchi, seccatoi, carbonine
Valori ed attività da salvaguardare
Alcuni problemi da risolvere
Il caso della patata quarantina: territori e pratiche storiche
273
LE AMMINISTRAZIONI DAL DOPOGUERRA AD OGGI
279
ATTUALITÀ E POTENZIALITÀ FUTURE - Raffaella Spinetta
Cenni sull’uso del suolo dal dopoguerra ad oggi
Cronache d’epoca e immagini del passato
287
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
Raffaella Spinetta
Spesso si ricordano le persone per averci lasciato gioia, forza e speranza. Voglio dedicare, per questo, una panoramica su Neirone a
mio nonno, Giobatta Corsiglia di Orticeto, “Baciccia”, per la serenità e la grinta dei suoi gesti e per gli insegnamenti ricevuti.
Molte delle pagine di questo libro sono state scritte con l’entusiasmo giovanile e la riconoscenza di chi, come me, deve moltissimo alla
fatica e alla dignità di chi vive e lavora in queste strette e ricche colline di Liguria. Nessun sogno, infatti, è impossibile da realizzare se condiviso con chi ci ama.
Una terra di tradizioni e sviluppo merita studi e ricerche continui. Neirone, in particolare, comune montano della
Val Fontanabuona, sarà l’oggetto delle descrizioni e delle notizie che vi accompagneranno, durante le vostre escursioni e nelle giornate dedicate alla natura e al “risveglio” delle radici.
Il territorio della Val Fontanabuona presenta numerose montagne da esplorare. Le più alte sono il M. Ramaceto
(1345 m s.l.m.) e il M. Caucaso (1245 m s.l.m.). Mentre il M. Ramaceto abbraccia territori collocati nell’area
orientale della valle, il M. Caucaso, sito tra quattro comuni - Lorsica, Favale, Moconesi e Neirone - padroneggia
sui boschi e le aree abitate di gran parte del Comune di Neirone.
Al confine con il sito “M. Caucaso”, dal 1992 tra i siti di interesse naturalistico della Comunità Europea (S.I.C.
dir. Habitat 92/43/CEE), l’ambiente del territorio di Neirone spazia tra i vasti orizzonti della vetta del M.
Lavagnola e le vallecole umide del rio Urri, dei torrenti Neirone e Rissuello, un tempo regno delle anguille e di
numerose specie di anfibi, ma anche habitat ideale per la flora di pregio e di molte altre forme di vita illustrate nelle
pagine e nelle immagini di quest’opera. Ambiente e Territorio, ma anche Storia e Arte: vicende di popoli, civiltà
contadine e caste nobiliari genovesi.
Disseminati tra le colline dell’intera zona non mancano resti di prestigiosi castelli, operosi mulini, importanti ponti
e agglomerati rurali, accanto alle tracce della vita religiosa dell’intera popolazione “fontanina” dal Medioevo fino
ad oggi.
Questo ed altro è ciò che si sa e si può approfondire sulla realtà del Comune di Neirone.
L’insieme dei testi contenuti nell’opera si articola, per ragioni divulgative e didattiche, in tre sezioni, suddivise in
capitoli ricchi di immagini e spunti di riflessione, che trasformano ogni lettore nel protagonista di questo viaggio
sperimentale in uno dei comuni più ricchi di natura e di storia dell’intero entroterra ligure.
Il paesaggio di Neirone dal M. Spina (foto R. Spinetta).
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AMBIENTE E GEOGRAFIA
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Neirone nel contesto della Val Fontanabuona (su concessione di SAGEP, Libri & Comunicazione).
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IL RUOLO DEI TERRITORI MONTANI IN LIGURIA
Raffaella Spinetta
La Liguria è tuttora poco studiata dal punto di
vista del paesaggio. Ridotta ad un’esile striscia
tra montagna e litorale, ad essa si possono
attribuire sia aspetti del clima mediterraneo
che di quello centroeuropeo ed ha una struttura geologica diversificata, a cui si deve l’esistenza di oltre 3000 specie floristiche ed innumerevoli elementi faunistici di pregio. Pur
essendo nota soprattutto per il suo carattere
litorale, la Liguria presenta anche rilievi notevoli. Il M. Maggiorasca (1779 m), il M.
Gottero (1640 m) e il M. Antola (1597 m),
collocati nella fascia della faggeta, sono i siti
più amati da escursionisti e ricercatori che non
a caso visitano boschi e prati, consapevoli delle
bellezze ambientali e dell’aria di storia e di vita
che in essi si respira.
Le pendici delle Alpi Marittime, che in territorio ligure superano di poco i 2000 m, raggiungono la fascia subalpina. Questa straordinaria varietà di condizioni ci fa comprendere il
perché la Liguria, al terzultimo posto per
superficie tra le regioni italiane, è al primo
posto come ricchezza della flora. Questa è solo
una delle molteplici motivazioni che ci spingono a voler promuovere al massimo i territori
montani. Essi sono uno scrigno di sapere, un
insieme variopinto di forme di vita, il regno di
uomini semplici e saggi, e quindi un valore da
preservare compatibilmente allo sviluppo
umano.
A questo proposito, numerose leggi regionali
sono state elaborate e approvate allo scopo di
tutelare i territori montani e le comunità in
essi collocate. A prova di ciò, esistono la legge
sulla montagna, i piani di sviluppo rurale, le
leggi forestali, le leggi regionali sulla pianificazione dei Parchi Liguri, le norme a protezione
delle aree carsiche e le leggi sulla tutela della
flora, della fauna minore, nonché le normative
in materia di attività venatoria.
Esistono poi provvedimenti continuamente
aggiornati atti alla tutela e alla promozione del
turismo verde e del patrimonio rurale.
Il territorio della montagna mediterranea è un
patrimonio dei contadini che da sempre hanno
mantenuto in equilibrio dinamico boschi, rii,
fasce terrazzate, ma soprattutto è un dono
fatto a tutti gli uomini perché sensibilmente
possano conoscere, apprezzare e quindi tutelare realtà sociologiche e ambientali, arginando
il temuto abbandono della montagna.
Per limitare questa problematica sono stati
predisposti progetti di recupero di sentieri e
percorsi storici, stanziati finanziamenti ed
individuate aree dove intervenire per promuovere e valorizzare reperti storici e religiosi:
mulini, ponti, castelli, chiese e aree di importanza storica legati all’insediamento e alle attività dell’uomo.
Questo stesso libro è un mezzo per contribuire alla salvaguardia e tutela dei valori montani.
Orografia dell’alta valle del Neirone. Il M. Lavagnola e,
sullo sfondo, il Promontorio di Portofino
(foto R. Spinetta).
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IL TERRITORIO
Raffaella Spinetta
Confini amministrativi
Con una superficie di circa 30 kmq, il comprensorio del Comune di Neirone è costituito
da nove frazioni: Neirone, Roccatagliata,
Corsiglia, Giassina, Forcossino, Ognio, Acqua
di Ognio, San Marco d’Urri, Donega.
L’area si trova al limite nord-occidentale della
Val Fontanabuona e confina, tramite lo spartiacque del M. Lavagnola, con la Valle del
Trebbia. L’intero territorio confina a Sud Est
col Comune di Moconesi, da cui è separato dal
crinale dei Monti Spina (737 m), Rocio (852
m), Caucaso (1245 m). I Monti Caucaso e
Larnaia (1180 m) lo separano ad Est dai comuni di Favale e Lorsica. Il rio di Bocco e, più a
Nord, il M. Carmo (1036 m) dividono Neirone
dal Comune di Lorsica.
Scendendo verso Ovest, attraverso il crinale dei
Monti Carmo e Lavagnola (1118 m), i confini
mostrano a Nord Torriglia e la Val Trebbia e,
più a Ovest, parte dell’Alta Val Fontanabuona
con le limitrofe frazioni di Rossi, Tassorello,
Craviasco e Lagomarsino nel Comune di
Lumarzo.
A Sud, infine, l’area acquista un perimetro articolato e confina con i Comuni di Tribogna e
Moconesi.
Le nove frazioni del Comune sono tutte raggiungibili con mezzi di trasporto, molte sono
interessate dal passaggio degli autobus pubblici. Da Sud a Nord, in senso antiorario, le zone
abitate più note e caratteristiche del Comune
sono: Donega, Acqua di Ognio, Ognio,
Orticeto, Cerisola, Montefinale, Rosasco,
Carpeneto, Neirone, Cugno, Feia, Il Poggio,
Aia Zanello, Siestri, Bugne, Sciarre, Pian di
Terrile, Bassi, Lezzaruole, Bozzola, Cazarina e
Pian Croso.
Donega è un piccolo centro urbano nato sul
torrente Lavagna con poche case, alcuni centri
turistici, ristoranti e aree sportive attrezzate.
Ognio è nota per la chiesa dal grande campanile, per le festività del mese di agosto, per la
cucina tradizionale.
Orticeto è un’area ben esposta a solatio; ha case
a schiera e coltivi abbarbicati lungo un versante acclive.
Cerisola è un piccolo sito con pochi abitanti,
numerose case contadine, orti e frutteti.
Montefinale presenta due grandi querce secolari.
Rosasco è una zona ricca di mulini e corsi d’acqua, vicino alla quale si trova Carpeneto, un
centro agricolo limitrofo a Neirone.
Neirone è un centro urbano popolato, sede
municipale e area storico-ambientale di pregio
per la presenza di testimonianze del culto religioso e della rivolta partigiana.
Cugno e Feia sono due piccole aree rurali per la
maggior parte in abbandono, da cui iniziano le
vie secondarie dei sentieri più caratteristici dell’area.
Ripalata, Il Poggio e Aia Zanello sono tre suggestivi borghi di cui l’ultimo rappresenta un
ideale punto di visita per capire l’architettura
degli agglomerati rurali di alta montagna.
Spostandosi verso il M. Bocco (1090 m) e il M.
Carmo, troviamo l'insediamento di Giassina,
ridente area montana dove è tuttora praticato
l’allevamento tradizionale del bestiame e punto
nevralgico dell’Alta Via dei Monti Liguri, fornito anche di punto ristoro per gli escursionisti.
Più a Sud si incontrano Forcossino, Cugno
Bello e i più grandi e noti centri di
Roccatagliata e Le Corsiglie (usualmente noto
come Corsiglia).
Scendendo verso Ovest alle falde del M.
Lavagnola, si trovano Siestri, Bugne, Sciarre,
Pian di Terrile, Bassi.
Infine, ad Ovest, sui contrafforti dei Monti
Bragaglino (965 m), Perdono (909 m) e
Carpena (907 m) si trovano Lezzaruole,
Bozzola, Cazarina e Pian Croso.
All’estremità occidentale, al confine con
Tassorello (Comune di Lumarzo), è collocato
San Marco d’Urri, un centro montano da cui
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partono numerosi sentieri per il M. Lavagnola.
Scendendo ancora, a Sud Ovest, presso il M.
Cavello, ci sono alcuni piccoli agglomerati di
case (Case Cavello). Non va dimenticata l’area
di Acqua (nota come Acqua di Ognio), che
come dice il nome è collocata alla confluenza di
due corsi d’acqua: il rio Lumarzo e il torrente
Lavagna.
Confini geografici
Considerata la forma dell’area che è approssimativamente quella di un grande pentagono e
leggendo con occhio critico la carta topografica, si nota come l’intero perimetro comunale
sia condizionato dalla presenza di crinali, ripe
scoscese e, a valle, da corsi d’acqua di portate
variabili.
Più precisamente, da Meridione, in senso
antiorario, l’area di Neirone è delimitata a Sud
e a Est dal torrente Lavagna, dal lungo crinale
dei Monti Rocio (852 m) e Caucaso (1245 m),
in cui si colloca il Passo della Croce, sito di
notevole interesse storico e culturale collocato
a 834 m s.l.m., colorato in autunno da rosee
brughiere.
Sempre a Est, allontanandosi dal triplice di
confine prossimo alla vetta del M. Caucaso e
risalendo verso Settentrione, si incontrano il
Bricco della Guardia (1159 m), il Passo del
Gabba (1109 m), il crinale e la cima del M.
Larnaia (1180 m). Dal M. Larnaia la linea di
confine con il Comune di Lorsica fa una brusca piega e, lasciato lo spartiacque, coincide con
il Rio di Bocco, vicino ad un piccolo rudere,
chiamato Casa di Gialin. Da qui il rio di
Giassina conduce il confine sino al M. Carmo
(1038 m).
Un versante meridionale scosceso e accidentato separa a Nord il territorio comunale dalla
Val Trebbia: si tratta dello spartiacque dei
Monti Corsica (1082 m), presso il Passo del
Portello, Montaldo (1132 m) e Lavagnola
(1118 m).
Un appunto a parte merita questa zona: si tratta di un’area estremamente panoramica e strategica sotto il punto di vista ambientale e quindi storico. Si ricorda, anche per i camminatori
Antichi insediamenti a schiera presso Corsiglia (foto R. Spinetta).
- 22 -
meno esperti, che proprio presso il Passo del
Portello inizia il sentiero che porta alla vetta
del M. Lavagnola che, incontrato a circa tre
quarti del suo percorso l’itinerario europeo, termina al cippo piramidale del M. Lavagnola,
uno dei punti panoramici più suggestivi
dell’Appennino ligure.
A Ovest, lasciato il M. Lavagnola, il confine
taglia il M. Bragaglino (968 m). Tra il M.
Lavagnola e il M. Bragaglino si colloca la
“Stretta del Ciappusso”, area nota, come vedremo in seguito, per romantiche leggende popolari.
Dal Bragaglino sino al limite meridionale dell’area, il confine è segnato dal rio d’Urri che,
confluendo nel torrente Lavagnola, chiude a
Sud Ovest il pentagono dell’area comunale.
Morfologia: una terra di colline e montagne
La geomorfologia di un paesaggio descrive le
forme e gli aspetti della sua superficie e ne
segue l’evoluzione.
La “forma” di un territorio dipende, infatti,
dalla lunga storia evolutiva che lo ha plasmato
nel corso delle ere.
L’orogenesi, la natura delle rocce, il clima e, a
piccola scala, l’uso del suolo da parte degli esseri viventi (soprattutto l’uomo) sono le quattro
cause fondamentali da cui dipendono la presenza di crinali scoscesi, avvallamenti, altopiani, corsi d’acqua profondi e superficiali, forme
localizzate e paleofrane.
Le montagne dell’Appennino Ligure si sono
formate approssimativamente durante il
Cenozoico o Terziario, un’era della storia geologica durata da circa 65 a 1.5 - 2 milioni di
anni fa e alla quale si fa risalire l’Orogenesi
Alpina.
Le forme delle montagne dell’area nord-occidentale della Val Fontanabuona sono, come si
vedrà meglio in seguito, di natura sedimentaria
e metamorfica. Quindi si tratta di substrati
teneri e facilmente erodibili, se sedimentari, o
fragili e sfaldabili se metamorfici, come gli
argilloscisti del M. Spina e del Passo del
Portello.
L’orografia dell’area del Comune di Neirone
comprende vette di modesta quota.
Le più elevate sono quelle del M. Caucaso ad
Est, dei Monti Lavagnola, Montaldo, Corsica,
Carmo a Nord e ad Ovest.
Le scarpate più accidentate coincidono con l’area nord-occidentale, dove sono presenti rocce
metamorfiche e sedimentarie debolmente calcaree. I rilievi della parte orientale appaiono
più dolci, anche se più elevati come nel caso del
M. Caucaso (1245 m).
Il M. Caucaso, in particolare, ha i versanti più
scoscesi nel territorio comunale di Moconesi.
Esso è l’emergenza morfologica di una grande
piega coricata con la convessità rivolta in parte
nel territorio di Neirone e in parte verso i centri di Favale e Lorsica.
È per questo che Faggio Rotondo, Feia,
Corsiglia hanno pendii dolci, terrazzamenti e
avvallamenti.
La zona del M. Lavagnola, con substrato di
Il M. Lavagnola. Paesaggi in veste autunnale
(foto R. Spinetta).
- 23 -
argilloscisti e calcareniti, pertanto, si osserva
anche solo percorrendo la Strada Provinciale
che porta al Passo del Portello. Essa presenta
grandi dirupi (“rii” e “riassi”) e frane di grandi
dimensioni.
L’area centrale del territorio comunale, a Est
del M. Borghigiano (860 m) è piuttosto dolce e
così si mantiene sino a Ognio, Montefinale e
Orticeto, siti collocati su paleofrane fossili e
spesso “tristemente” dinamiche. Le paleofrane
si originano solitamente su terreni detritici,
detriti di falda e di frana. Si tratta di substrati
estremamente teneri e instabili soprattutto se
collocati su rocce madri con stratificazioni a
franapoggio.
Le aree più pianeggianti dell’intero territorio
sono San Marco d’Urri, Le Piane di Corsiglia,
Cugno, Faggio Rotondo che, come dimostrano
le carte geologiche, hanno substrati sedimentari e detritici.
La morfologia dell’area dipende per la parte
Il centro di Neirone (foto R. Spinetta).
più a Nord dal clima rigido e dal fenomeno del
crioclastismo (rottura delle rocce a causa del
ghiaccio) che, associato alla friabilità delle
rocce metamorfiche, concorre alla formazione
di frane e sbancamenti.
Idrografia: “da Siestri alla fiumana bella”
La piovosità elevata e la litologia tenera delle
Ardesie del M. Verzi e delle Arenarie del M.
Gottero hanno permesso la formazione di un
reticolo idrografico ramificato e ricco. I corsi
d’acqua hanno letti generalmente poco profondi, anche se nei rii di montagna sono frequenti
piccoli laghi di più di tre metri di profondità a
causa dell’erosione idrica da caduta tipica delle
cascate.
Le acque di sorgente sono spesso piene di
inquinanti e pertanto ospitano svariate forme
di vita, anche vulnerabili, soprattutto tra i
macroinvertebrati (es. il portasassi).
I corsi d’acqua principali del territorio raggiungono anche i 4-5 chilometri di lunghezza e
presentano cascatelle e massi erratici frequenti.
Ricordiamo, in questo contesto, il torrente di
Siestri che prende origine dal M. Lavagnola e
confluisce nel torrente Neirone all’altezza di
Le Mandrie ai contrafforti del M.
Borghigiano.
Dal M. Carmo sorge un altro rio temporaneo,
il rio del Cerrale. Esso, attraversate le terre scoscese di Sciarrè, Forcossino e Cugno Bello
entra a Roccatagliata dove segue le falde del M.
Borghigiano e giunge fino a Brugagli. In località Le Mandrie si unisce al torrente Siestri per
dare origine così al torrente Neirone, il corso
d’acqua più esteso e con portate maggiori dell’intero territorio comunale.
La portata è giustificata anche dal fatto che,
oltre alle acque del Siestri e del Cerrale, raggiungono il Neirone anche le fresche acque del
torrente Rissuello.
Il Rissuello ha un andamento estremamente
ramificato, prende origine dal M. Larnaia e
unendosi al rio di Cerrale presso Corsiglia, fa
confluire le sue acque nel Neirone.
All’estremo Ovest del Comune scorrono il rio
- 24 -
Corso del torrente Neirone presso Rosasco (foto R. Spinetta).
d’Urri e il torrente Lamanera, suo affluente.
Il rio d’Urri ha un decorso quasi verticale tra il
M. Pelato (Comune di Lumarzo) e il M.
Cavello (Comune di Neirone). È noto per i
suoi meandri stretti e le sue acque cristalline.
Note a parte meritano i torrenti Neirone e
Lavagna che confluiscono presso Gattorna al
triplice di confine tra i comuni di Moconesi,
Neirone e Tribogna.
Il Neirone è un corso ad idrografia regolare e
pressappoco verticale, fatta eccezione per uno
stretto meandro presso Gattorna.
Il corso d’acqua è noto storicamente per le
numerose centraline idroelettriche e per un
antico e panoramico acquedotto non lontano
dal borgo di Rosasco. Inoltre è uno dei siti
liguri più amati dai torrentisti, grazie alle sue
discese e ai paesaggi che il suo corso offre
soprattutto nelle zone di Neirone e Rosasco,
sede, peraltro, di uno storico mulino.
La quantità di torrenti e corsi d’acqua presenti
ha fatto nascere la storica esigenza di costruire
ponti, un pregio e una caratteristica tutta di
Neirone.
Il Clima
Il clima rappresenta lo stato medio di una vasta
porzione di atmosfera.
È pertanto discutibile descrivere il clima di un
territorio di poco più di 30 chilometri quadrati. Per questo ci limitiamo a riportare i dati
relativi alle precipitazioni idriche misurate
nelle stazioni di Neirone e di Ognio. La stazione di Neirone, munita di pluviometro registratore, è situata a quota 332 m s. l. m. alla sinistra
orografica del torrente Neirone. Essa non è più
in funzione, ma ha fornito dati sulle precipitazioni dal 1929 al 1981 con periodi di inattività
nel 1946, nel 1947 e nel 1980 da gennaio a febbraio. Per le temperature è stata mantenuta in
funzione dal 1967 al 1983 con intervalli di non
funzionamento nel 1980 (gennaio e febbraio),
nel 1982 (marzo, ottobre, novembre e dicembre) e nel 1983 (gennaio e da luglio a dicembre). La stazione di Ognio, provvista di un plu-
- 25 -
viometro comune, è posta a quota 400 m s. l. m.
presso la confluenza del torrente Lavagna con
il torrente Neirone. Anch’essa non è più operante. Ha fornito dati sulle piovosità dal 1921
al 1979, ma non tra il 1945 e il 1946. Non sono
stati forniti alcuni valori per quanto riguarda le
temperature. Dall’elaborazione dei dati forniti
dalle due stazioni sono scaturite le caratteristiche macroclimatiche della zona; le condizioni
climatiche non sono, tuttavia, omogenee su
tutto il territorio. Ciò è dovuto alla presenza di
fattori come la collocazione geografica, l’esposizione dei versanti, le diverse proprietà termiche dei litotipi esistenti e la differente natura
del terreno, parametri, questi, che condizionano il microclima piuttosto che le caratteristiche
generali del clima e dai quali dipende la coesistenza sul territorio di specie vegetali con
diverse esigenze climatiche.
In base ai dati pluviotermici registrati nella stazione di Neirone, si può affermare che ci troviamo di fronte ad un regime mediterraneo di
transizione.
Ci sono infatti due massimi di precipitazione
distinti nel tardo autunno e in primavera ed
una distribuzione delle temperature simile a
quella che caratterizza il regime mediterraneo
“tipico” dell’Italia meridionale, ma con un
periodo più breve di siccità con punte massime
di temperature nei mesi di luglio e agosto.
Il clima del territorio preso in esame si distingue, però, per un’elevata media delle precipitazioni e per temperature medie mensili relativa-
mente più basse, caratteristiche che si possono
evidenziare confrontando i regimi pluviometrici e termometrici di Neirone e di Genova,
anch’essa con un clima mediterraneo di transizione.
Anche dal calcolo degli indici climatici si ricava che il clima ha scarsi caratteri di mediterraneità con un forte tasso di umidità e segni di
una certa continentalità.
Proprio in base al diagramma ombrotermico
costruito grazie ai valori medi mensili delle
precipitazioni (P) e delle temperature con il
criterio di Bagnouls e Gaussen (P=2T), il clima
locale risulta di pertinenza della “Zona
Mesaxerica-Sottozona Ipomesaxerica”.
Tale collocazione è determinata dai dati di altre
stazioni, quali p. es. Reppia, Statale e Cassagna
in Val Graveglia, Cichero in Val Cicana e
Giacopiane in Val Penna. Tutte queste stazioni
sono caratterizzate dalla mancanza di veri
periodi secchi e sono tutte collocate sopra la
fascia altimetrica dei 200 m s. l. m.
L’elevata piovosità è dovuta alle depressioni che
hanno il loro centro di origine nel Golfo di
Genova.
I meteorologi dell’Università di Genova spiegano il fenomeno in questi termini come un
avanzamento di un fronte freddo da NW associato alla presenza di correnti meridionali calde che si
sviluppano sulla parte orientale del Mar Tirreno.
L’azione del fronte freddo sulla massa d’aria calda
si traduce in una rotazione ciclonica che obbliga le
masse d’aria calda situate sul lato orientale del
25
21,2
20
21,4
18,6
18,3
14,7
°C
15
14,6
11,2
10
9,9
8,6
6,6
13,25
7,0
6,9
5
0
Genn. Febbr. Marz.
Apr.
Magg. Giugn. Lugl.
Temperature medie mensili.
- 26 -
Ag.
Sett.
Ott.
Nov.
Dic.
Media
Mar Ligure e dell’Alto Tirreno a spostarsi verso
Nord. L’azione dell’orografia, per la configurazione degli Appennini intorno al Mar Ligure determina, per effetto del sottovento, una debole depressione che potenzia l’afflusso delle correnti meridionali verso il Golfo di Genova che diventa così il
centro d’incontro di due masse d’aria diverse,
caratteristica tipica di ogni ciclone.
La disposizione della Val Fontanabuona, parallela al mare, conferisce al clima caratteristiche
peculiari. Se nel complesso risulta, come è già
stato detto, piuttosto piovoso, esso subisce
chiaramente dei cambiamenti locali in funzione dell’altitudine e dell’esposizione dei versanti.
Si osserva che la zona più piovosa, in genere, è
quella dei versanti settentrionali e delle altitudini più elevate. I regimi delle precipitazioni
della stazione di Neirone e di quella di Ognio,
situate a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, sono già molto diversi.
Il crinale che comprende, nei suoi tratti principali, il M. Caucaso (1245 m), il Passo della
Croce (834 m) e il M. Rocio (852 m) costituisce, per il comprensorio, una barriera naturale
alla propagazione delle perturbazioni atmosferiche. Qui le correnti fredde provenienti da NE
ed in particolare dalla vicina Val d’Aveto
incontrano le correnti calde ed umide di SW
che si originano dal mare; la formazione di
questo fronte fa sì che si formino nebbie e
nubi. La maggior nebulosità si osserva proprio
nei pressi delle vette del M. Caucaso, in cui si
hanno durante l’anno abbondanti precipitazioni, anche nevose nei mesi di dicembre, gennaio
e talvolta febbraio. Le precipitazioni a carattere nevoso si verificano di norma a quote superiori ai 400 m. La neve è molto bagnata e quindi più pesante a causa dell’azione del vento di
mare. Per questo si scioglie rapidamente, ma
spesso causa, per la sua consistenza, danni alla
vegetazione: molti alberi si spezzano, soprattutto quelli con i rami più fragili.
Nelle zone poste ad altitudini inferiori le precipitazioni sono minori. Questa constatazione,
unita a quanto è già stato detto, ci consente di
parlare di “effetto sottovento”.
Infatti, in prossimità delle montagne le masse
d’aria sature di vapore acqueo salgono secondo
la direzione del vento. Man mano che sono
spinte verso la cima, a causa del gradiente adiabatico, avviene la condensazione e di conseguenza le precipitazioni nel versante sopravvento. Arrivata alla vetta la massa d’aria risulta
impoverita e per questo di solito si registrano
piogge meno abbondanti nel versante sottovento.
Per quanto riguarda la ventosità, i venti predominanti sono quelli che soffiano sul Tigullio,
tra ottobre e marzo quelli del quadrante settentrionale, mentre nel resto dell’anno può
sopraggiungere lo Scirocco che apporta,
soprattutto in estate, un discreto carico di umidità da Sud.
La ventosità risulta ridotta in quanto le montagne a Nord proteggono efficacemente gran
300
250
mm
200
150
100
50
0
Genn.
Febbr.
Marz.
Apr.
Magg.
Giugn.
Stazione di Ognio
Lugl.
Ag.
Stazione di Neirone
Piovosità medie registrate nelle due vecchie stazioni di Neirone e Ognio.
- 27 -
Sett.
Ott.
Nov.
Dic.
parte del territorio dai venti freddi e quelle a
Sud attenuano lo Scirocco e il Libeccio. In
autunno soffia spesso la Tramontana, che viene
avvertita maggiormente nei territori di Ognio e
Neirone, protetti da rilievi non molto elevati
che rappresentano una modesta barriera contro
i venti settentrionali. Sono frequenti, invece, le
brezze di pendio. Come succede, in genere,
nelle valli montane di giorno si hanno brezze di
valle che sono dirette verso l’alto, mentre di
notte l’aria a contatto con i pendii diventa più
pesante, scivola e si accumula nelle valli. Sono
questi venti locali che, pur non essendo molto
forti, possono condizionare la vegetazione dei
versanti più acclivi, rallentando la maturazione
dei suoli che spesso vengono in parte asportati.
La temperatura media annua si aggira intorno
ai 13, 25°C con massime in luglio/agosto. La
temperatura massima registrata dalla stazione
di Neirone è di 36.8°C e risale all’agosto del
1974. Le temperature minime sono tipiche dei
primi mesi invernali, anche se temperature
inferiori sono state osservate, ma non registrate, in anni successivi. Nel 1985 e nel 1996 la
colonnina di mercurio è scesa sotto gli 8°C,
provocando gravi danni agli uliveti.
Le escursioni termiche sono piuttosto ridotte:
non abbiamo misurazioni precise di quelle
giornaliere, ma esse sono di pochi gradi centigradi. Quelle medie annue sono circa di 14°C,
come si può constatare nell’istogramma. Esse
aumentano nell’area meno influenzata dall’effetto mitigante del mare, vale a dire nella zona
montana dove in estate, soprattutto nei punti
privi di vegetazione e con una rocciosità elevata, le temperature superano le medie mensili.
Analogamente, nei mesi invernali tali siti del
territorio hanno un microclima più rigido,
tanto che si verificano anche sporadiche nevicate.
La morfologia del territorio fa sì che si assista
anche al fenomeno dell’inversione termica. Le
La vetta del M. Caucaso all’alba, avvolta dalle nuvole
(foto R. Spinetta).
Denti di ghiaccio sulle balze rocciose del P.sso del Portello
(foto R. Spinetta).
- 28 -
freddare, infatti, più rapidamente dell’atmosfera; perciò la temperatura aumenta, invece di
diminuire, con la quota e si viene così a costituire un’inversione termica. Si riportano i diagrammi delle temperature e della piovosità
media del comprensorio comunale e il diagramma di Bagnouls e Gaussen che indica le
caratteristiche climatiche generali.
150
300
140
280
130
260
120
240
110
220
100
200
90
180
80
160
70
140
60
120
50
100
40
80
30
60
20
40
10
20
0
Genn.
Febbr.
Marz.
Apr.
Magg.
Giugn.
Temperature
Diagramma di Bagnouls e Gaussen.
- 29 -
Lugl.
Ag.
Precipitazioni
Sett.
Ott.
Nov.
0
Dic.
mm
°C
temperature, cioè, decrescono secondo il gradiente adiabatico, ma a valle, dove la ventosità
è scarsa, si possono registrare temperature più
basse che in quota.
Tale fenomeno si manifesta soprattutto in
autunno ed in inverno, quando le temperature
notturne si abbassano. Per effetto dell’emissione di radiazione notturna il suolo si può raf-
- 30 -
ASPETTI GEOLOGICI E GEOMORFOLOGICI
DEL TERRITORIO COMUNALE DI NEIRONE
Andrea Cevasco
Il quadro geologico
I terreni affioranti in Val Fontanabuona, seppure
eterogenei, ebbero origine all’interno di una porzione di un bacino sottomarino ubicato in posizione differente rispetto alla loro attuale localizzazione. Tale bacino, denominato LigurePiemontese, si originò durante il Giurassico
medio e superiore (185-160 m. a.) a causa di
movimenti fra la placca continentale europea e
quella africana; secondo recenti ricostruzioni
esso doveva avere un’estensione in larghezza non
superiore a 500-1000 km.
L’evoluzione della porzione del bacino oceanico,
denominata Dominio Ligure Interno1, nella
quale si depositarono i materiali che diedero origine alle rocce che, successivamente coinvolte
nella strutturazione della catena appenninica,
caratterizzano oggi l’areale di Neirone, è di fondamentale importanza.
Il fondo del bacino oceanico era costituito da
rocce derivanti da magmi a composizione basaltica originatisi da processi di fusione parziale del
mantello. In parte tali magmi solidificarono in
profondità dando origine a rocce ultrabasiche
(peridotiti) costituite in prevalenza da minerali
quali olivine e pirosseni. Durante processi di
interazione con acqua marina le olivine (silicati
di Fe e Mg) subirono trasformazioni che portarono alla formazione di minerali del serpentino,
componenti essenziali di rocce denominate serpentiniti. All’interno delle peridotiti solidificarono, sotto forma di lenti o di filoni, rocce magmatiche intrusive (gabbri) mentre una parte dei
fusi basaltici poteva raggiungere la superficie
attraverso fratture dando luogo a filoni e ad effusioni sottomarine.
Le rocce ora descritte, che vengono chiamate
“ofioliti” (rocce verdi), potremmo, ad esempio,
ritrovarle associate se potessimo esplorare le
attuali dorsali oceaniche. In Liguria le ofioliti,
espressione dell’antico fondale oceanico, sono
particolarmente diffuse sia nel genovesato che
nel Levante (Val Graveglia, zona del Bracco).
Alla fine del Giurassico (165-145 m. a. ca.) al
disopra delle ofioliti si depositarono fanghi di
natura silicea ed argillosa, costituiti in buona
parte da scheletri di microrganismi marini
(Radiolari e spicole di spugne), all’interno dei
quali si trovavano minerali di Fe e Mn portati in
soluzione dalle acque calde circolanti all’interno
delle fratture delle ofioliti. Le rocce originate da
tali sedimenti appaiono, oggi, finemente stratificate e vengono chiamate diaspri.
La sedimentazione delle cosiddette “coperture”
proseguì fino al Cretaceo superiore (84 m. a.
circa) con la deposizione di materiali di natura
calcarea (Calcari a Calpionelle) ed argillitica
(Argille a Palombini) in ambiente di mare
profondo non risentendo, la porzione in esame,
degli importanti eventi tettonici compressivi che
interessarono, invece, altri settori del Dominio
oceanico.
La fase di quiescenza ebbe termine con l’arrivo
delle “torbiditi” che diedero origine alle formazioni della Val Lavagna e del Gottero rispettivamente durante il Cretaceo superiore (84-66 m.
a.) ed il Cretaceo superiore - Paleocene (70-60
m. a. circa). La produzione di tali sedimenti di
natura terrigena, che oggi si possono rinvenire,
fra l’altro, nel territorio di Neirone, fu il risultato di processi erosivi che interessarono aree
emerse in progressivo sollevamento ed il loro
significato, sotto il profilo tettonico, indica
un’inversione di tendenza dei movimenti che, da
distensivi, diventarono compressivi. Le placche
continentali precedentemente separatesi tornarono così ad avvicinarsi comprimendo i materiali depositati all’interno del bacino che si era creato. I materiali progressivamente erosi in ambien-
1 Secondo la ricostruzione paleogeografica di Elter e Raggi (1965) il Dominio oceanico Ligure-Piemontese, durante il Cretaceo superiore, era costituito da un bacino suddiviso in due settori da un alto morfologico denominato “Ruga del Bracco”. Il termine Unità
Liguri Interne si riferisce alle unità situate, in origine, nel settore interno rispetto a tale dorsale.
- 31 -
te subaereo scivolarono lungo scarpate sottomarine accumulandosi, grazie a correnti dette “di
torbida”, sulle piane abissali. In questo modo si
formarono enormi spessori di materiali detritici,
chiamati flyschs, la cui deposizione ebbe termine, per quanto riguarda il Dominio Ligure
Interno, nel Paleocene. Le spinte tettoniche
compressive portarono alla graduale chiusura del
bacino costringendo i flyschs a sovrascorrere sui
sedimenti sottostanti. Essendo i flyschs, in questa fase, solo parzialmente diagenizzati, dal fronte di avanzamento si staccarono corpi rocciosi
coerenti ed ammassi incoerenti che andarono a
formare accumuli caotici.
La collisione fra i blocchi continentali avvenne,
con ogni probabilità, in tempi differenti da settore a settore a causa di probabili differenze di
estensione del Dominio oceanico. Si ritiene, in
ogni caso, che essa sia avvenuta in un lasso di
tempo di età compresa fra 100 e 60 m. a.
Senza entrare nell’esposizione dettagliata dei
complicati modelli volti alla ricostruzione dei
meccanismi e delle fasi che portarono alla scomparsa del bacino oceanico ed alla collisione fra i
blocchi continentali, peraltro oggetto di discussioni fra esperti in geodinamica, si vuole ricordare che nelle Unità Liguri Interne sono state riconosciute due fasi deformative preoligoceniche
(ossia più antiche di 36 m. a.) responsabili della
formazione di pieghe e sovrascorrimenti.
Durante la prima fase (precedente alla collisione) le stesse unità sarebbero state coinvolte in
una zona di subduzione mentre la seconda (con-
temporanea alla collisione) ne esprimerebbe la
risalita verso livelli strutturali superficiali.
Le Unità Liguri Interne furono successivamente
coinvolte nell’evoluzione strutturale appenninica
durante la quale parte della catena già formata
andò ad accavallarsi sul margine continentale
africano. Le fasi deformative, in questo caso,
avrebbero complicato ulteriormente l’edificio
strutturale appenninico e sarebbero terminate
nel Miocene superiore (8-12 m. a.) (R. KLIGFIELD, J. HUNZIKER, R. D. DALLMEYER,
S. SCHAMEL 1986).
Terminate le fasi compressive, a partire dal
Miocene superiore si venne ad instaurare un
regime di distensione crostale in relazione con
l’apertura del Tirreno settentrionale in probabile
connessione con una “rotazione” in senso antiorario della penisola italiana (G. GIGLIA 1974).
Secondo le teorie classiche la distensione avrebbe interessato dapprima la Toscana meridionale
per poi migrare progressivamente verso i restanti settori del versante tirrenico dell’Appennino
settentrionale. A questo evento è da riferire l’avvio di una intensa tettonica verticale, le cui
manifestazioni sarebbero proseguite in Liguria
fino al Quaternario, durante la quale si generarono una serie di strutture sulle quali si impostarono i lineamenti dell’attuale paesaggio. In altre
parole, sulle strutture plicative appenniniche si
sovrapposero sistemi di faglie a direzione
“appenninica” (NW-SE) ed “antiappenninica”
(NE-SW) che suddivisero gli areali in blocchi ad
evoluzione differenziata. L’influenza di tale
Fig. 1 Suddivisioni dell’Unità del Gottero proposte da diversi Autori (da Marini, 1993).
- 32 -
evento distensivo sulla morfologia attuale della
Liguria orientale fu di notevole importanza,
basti pensare alle direttrici che regolano, ad
esempio, elementi morfologici quali la linea di
costa, alcune fra le principali linee spartiacque
nonché parte dell’idrografia. La stessa Valle
Fontanabuona, allungata in senso “appenninico”
e parallela alla linea di costa fra Genova e
Chiavari, si è formata per intensa erosione lungo
linee di minor resistenza originate dalla tettonica distensiva recente. È naturale che lungo tali
linee l’azione erosiva da parte dei corsi d’acqua e
delle acque meteoriche si sia svolta con maggiore efficacia. Un’interessante proposta dell’evoluzione plio-quaternaria (5 m. a. - attuale) della
Val Fontanabuona è stata fornita da Brancucci e
Motta (1989). Gli autori, basandosi sull’analisi
dei rapporti reciproci fra le forme relitte osservabili (creste intrameandro, superficie dei terrazzi
fluviali, superficie delle vette), individuarono
otto stadi morfologici evolutivi attraverso i quali
si raggiunse l’attuale assetto: partendo dall’ipotesi dell’esistenza di una superficie di spianamento
ubicata alla quota delle attuali vette si svilupparono, in pratica, una serie di fasi di sollevamento
alternate ad altrettanti periodi di stabilità del
livello di base erosivo. Durante le fasi di sollevamento, abbassandosi il livello di base erosivo, il
percorso fluviale tendeva ad incassarsi mentre
durante i periodi di stabilità del livello di base il
corso d’acqua tendeva, deponendo materiale
solido, ad allargare il fondovalle.
È assai importante, dunque, l’osservazione della
morfologia attuale per la ricostruzione dei processi del passato. Partendo da semplici osservazioni “geomorfologiche” sulle forme dell’attuale
paesaggio anche l’occhio meno esperto sarà in
grado di cogliere aspetti di particolare interesse,
frutto delle grandi trasformazioni che, attraverso
un arco temporale di poco inferiore a 150 milioni di anni, hanno portato alla condizione attuale.
L’unità del Gottero
I terreni affioranti nel territorio comunale di
Neirone sono riconducibili all’Unità del
Gottero i cui aspetti litologici e stratigrafici
sono stati definiti, a partire dagli anni ’60, da
diversi autori.
È necessario mettere in evidenza che gran parte
di tale unità è costituita da formazioni argillitiche che, seppure relativamente disomogenee,
presentano tali e tante convergenze nonché
alternanze di facies da indurre i vari Autori, nel
corso degli anni, ad effettuare suddivisioni
complesse, non sempre soddisfacenti (fig. 1).
Per ragioni di semplicità e chiarezza, si evita di
entrare nel merito dei problemi specifici legati
alle interpretazioni proposte dai diversi autori.
Nell’area di interesse è possibile distinguere la
Formazione degli Scisti della Val Lavagna,
affiorante sulla maggior parte del territorio
comunale di Neirone, dalla sovrastante
Formazione delle Arenarie di M. Ramaceto
(anche denominate Arenarie di M. Gottero), gli
affioramenti della quale sono localizzati su aree
più ristrette (fig. 2).
Gli Scisti della Val Lavagna sono qui costituiti
da rocce eterogenee, in massima parte depositi
torbiditici siltoso arenacei, cioè sedimenti marini accumulati in ambiente di mare profondo
con velocità relativamente rapida (Scisti manganesiferi, Scisti zonati). Alla base della
sequenza sono presenti rocce emipelagitiche,
ovvero di natura argillosa depositate lentamente in ambiente marino profondo (Argilloscisti
con calcari “pseudopalombini”).
Le Arenarie di M. Ramaceto rappresentano
ancora depositi torbiditici di natura siltoso arenacea.
La Formazione degli Argilloscisti della Val
Lavagna
- Argilloscisti con calcari “pseudopalombini”
Sono costituiti in prevalenza da scisti argillosi
grigio scuri o verdolini con intercalazioni di calcari da silicei a marnosi attraverso una serie di
termini intermedi (pseudopalombini). Il colore
grigio scuro dei calcari, analogo a quello dei
colombi, ha fornito l’ispirazione per il nome
con il quale vengono identificati.
- 33 -
Affiorano nella bassa valle del T. Neirone e sono
visibili, ad esempio, lungo la strada che collega
Gattorna a Neirone in uno spaccato a circa 500
m dal suo inizio (fig. 3).
- Scisti manganesiferi
Sono costituiti da argilliti scure caratterizzate
da locali, intense, colorazioni in rosso ed in
M. Carmo
M. Lavagnola
M. Bocco
M. Larnaia
M. Bragaglino
Roccatagliata
M. Borghigiano
T. Rissuello
M. Cavello
T. di Neirone
Rio
d
’Ur
ri
M. Carpena
M. Caucaso
Neirone
M. Rocio
Ognio
Moconesi
Gattorna
0
1 Km
2 Km
LEGENDA
Depositi eluviali e colluviali
Detrito di falda, accumuli di frana
Arenarie del Gottero
Scisti della Val lavagna
{
Marnoscisti con arenarie calcaree e argilloscisti
Scisti zonati
Scisti manganesiferi
Argilloscisti con intercalazioni di calcare siliceo “pseudopalombino”
Fig. 2 Carta geologica schematica del territorio comunale di Neirone (da Casella e Terranova, 1963; modificato e ridisegnato).
- 34 -
Fig. 3 Argilloscisti con calcari “pseudopalombini” in prossimità di Gattorna (foto A. Cevasco).
Fig. 4 Scisti Zonati lungo il Torrente Neirone (foto A. Cevasco).
- 35 -
Fig. 5 Argilloscisti appartenenti alla Formazione delle Arenarie di M. Ramaceto lungo le pendici meridionali del M.
Borghigiano (foto A. Cevasco).
Fig. 6 Siltiti ed arenarie della Formazione delle Arenarie di M. Ramaceto lungo le pendici meridionali del M.
Borghigiano (foto A. Cevasco).
- 36 -
bruno scuro metallico che evidenziano la presenza di concentrazioni di ferro e di manganese
sotto forma di ossidi. Si tratta di depositi torbiditici pelitico-arenacei. Gli argilloscisti tendono
a suddividersi facilmente in scaglie e a dar luogo
a forme prismatiche.
Frequentemente è possibile osservarvi intercalazioni di arenarie quarzose assai compatte, di
colore marrone, dello spessore medio di 15-20
cm. Sono visibili nella bassa valle del T. Neirone
ed all’inizio della strada per Moconesi. Nell’alta
valle sono presenti lungo il crinale fra il Passo
del Gabba (1109 m) ed il M. Larnaia (1180 m)
del quale costituiscono la base.
- Scisti Zonati
Sono rappresentati da torbiditi pelitico arenacee costituite da strati sottili di siltiti, arenarie
fini, argilliti e marne che presentano la tipica
zonatura con colori che variano dal grigio al
nocciola; possono essere presenti, inoltre, intercalazioni di calcareniti, di quarzoareniti nonché
rade lenticelle calcaree.
Gli Scisti Zonati si rinvengono su vaste porzioni di territorio nel tratto medio della valle del T.
Neirone, nell’alta Val Cerrale e nella Valle del T.
Rissuello (F. CASELLA, R. TERRANOVA
1963). Gli affioramenti più significativi sono
situati presso Neirone (fig. 4) e oltre l’abitato
fino a Le Mandrie nonché lungo la strada
comunale per Roccatagliata fino alla quota di
507 m. A Roccatagliata, dove presentano una
facies debolmente marnosa, sono visibili in
prossimità del piazzale della chiesa. Altri affioramenti si trovano a N di Case Cannivelli e nel
tratto fra Aia di Zanello e Case Zanello.
La Formazione delle Arenarie di M. Ramaceto
Si tratta di depositi marini sedimentati rapidamente in lobi di conoide in ambiente di mare
profondo.
Sotto il profilo litologico, nell’area di interesse,
sono costituite da argilloscisti scuri, plumbei
(figg. 5-6), che si alternano ad intercalazioni
arenacee (F. CASELLA, R. TERRANOVA
1963). Le arenarie sono di tipo quarzoso-micaceo con cemento siliceo, a volte leggermente
argilloso, la granulometria è sempre fine o
media. Nelle arenarie sono spesso visibili fratture, in alcuni casi saldate da vene di quarzo,
dovute a sforzi di tensione mentre negli argilloscisti questi ultimi hanno portato alla suddivisione in scaglie e prismi sottili.
Le rocce in questione costituiscono l’ossatura
dei principali rilievi all’interno del territorio di
Neirone (M. Rocio, M. Borghigiano, M.
Càrpena, M. Cavello). Facilmente raggiungibili sono gli affioramenti sul T. Neirone, il primo
situato al disotto della cava posta sulla strada
circa 500 m a N di Gattorna ed il secondo posto
leggermente a N di quest’ultima, dove si possono osservare anche alcuni piegamenti subiti
durante le fasi orogenetiche.
Le rocce ed il paesaggio
L’aspetto paesaggistico è, solitamente, il frutto
dell’interazione fra la natura del substrato roccioso e gli agenti del modellamento. Le rocce,
in funzione della composizione mineralogica,
del modo di aggregazione dei costituenti, della
giacitura che presentano, offrono risposte differenti nei confronti degli agenti esogeni, quali ad
esempio l’azione delle acque o della gravità, che
tendono ad alterarle sia dal punto di vista chimico che fisico. In linea generale laddove affiorano rocce resistenti all’alterazione, e quindi
all’erosione, i rilievi tendono ad assumere forme
aspre e ad essere caratterizzati da ripide pareti e
valli profondamente incassate; in corrispondenza delle formazioni maggiormente alterabili, al
contrario, i paesaggi mostrano forme maggiormente addolcite.
Le rocce che affiorano nella Valle del T.
Neirone presentano una relativa omogeneità
sotto il profilo composizionale; esse, come visto,
sono costituite in prevalenza da litotipi di natura argillitica i quali, a causa dell’elevata alterabilità, dovrebbero dare origine a forme tendenzialmente addolcite. Al contrario la valle è
caratterizzata da una forte energia del rilievo
(fig. 7) e da notevoli dislivelli che possono rag-
- 37 -
giungere il migliaio di metri su aree ristrette.
Per spiegare tale, apparente, incongruenza è
necessario considerare anche il ruolo di altri
agenti modellatori, cosiddetti endogeni, fra i
quali l’attività tettonica, che assumono, nell’area
in questione, un ruolo di primaria importanza.
Sono state descritte le complesse vicende tettoniche che hanno portato all’assetto attuale; in
particolare si ricorda che i fenomeni orogenetici hanno dapprima “costruito” l’edificio appenninico, mentre gli eventi tettonici distensivi
recenti ne hanno determinato il successivo
smembramento. Tale opera è avvenuta attraverso una serie di piani di macrofratturazione ad
orientazione varia, denominati faglie, responsabili del ribassamento di determinate porzioni di
territorio e del contemporaneo rialzamento di
altre. Lungo tali piani, che rappresentano zone
di minor resistenza, si sono impostati i primitivi corsi d’acqua che hanno dato origine alle
incisioni vallive principali mentre al contorno si
trovano masse rocciose sollevate durante l’orogenesi appenninica che l’azione degli agenti
esogeni andrà, gradualmente nel tempo, a
demolire.
Fenomeni di dissesto
I dissesti mostrano, spesso, strette relazioni con
l’aspetto idrogeologico dell’area all’interno della
quale si verificano: nel caso del territorio del
Comune di Neirone è evidente, in primo luogo,
un recente ringiovanimento del reticolo idrografico (S. NOSENGO 1980). La peculiarità di
alcune caratteristiche geomorfologiche quali, ad
esempio, la presenza di valli sospese, di fenomeni di cattura fluviale, di aree ad erosione accelerata e, soprattutto nella zona media del bacino
del T. Neirone, di numerosi ed estesi corpi di
frana antichi, sembra confermare inequivocabilmente quanto sopra esposto (figg. 8-9).
L’area situata alla testata del bacino, estesa dal
M. Bragaglino al M. Corsica ed impostata su
rocce di natura argilloscistosa, è caratterizzata
da fenomeni di erosione accelerata che determinano un rapido arretramento della linea spartiacque; condizioni simili di accentuata erosio-
ne caratterizzano, seppure meno estesamente, le
pendici del M. Caucaso oltre la quota di 900 m,
impostate su rocce torbiditiche siltoso-arenacee.
Particolare importanza rivestono gli imponenti
accumuli detritici dovuti a frane antiche
(fig. 10) soprattutto per le strette relazioni con
gli insediamenti umani e l’utilizzo del territorio
nei secoli scorsi (G. BRANCUCCI, P. MAIFREDI, S. NOSENGO 1985). Tali accumuli si
rinvengono, generalmente, nelle parti mediane
ed inferiori dei versanti (in quanto legati alla
gravità) e spesso corrispondono a modificazioni
del suolo indotte in tempi storici dall’uomo per
uso agricolo, accompagnate da insediamenti che
si rinvengono solitamente nelle zone apicali dei
corpi franosi stessi. La scelta di tali siti è stata
condizionata da diversi fattori fra i quali indubbiamente la necessità, da parte dell’uomo, di
disporre di aree a debole pendenza dotate di
buona esposizione, di suolo utilizzabile per attività agricole e, non ultimo, di zone accessibili. È
ovvio che la scelta non poteva che orientarsi sui
versanti lungo i quali si venivano a trovare i
maggiori accumuli di frana. Il paziente lavoro di
terrazzamento di tali superfici attraverso la
costruzione di muri a secco per il contenimento
dei materiali sciolti rimaneggiati ha, in questo
caso, modificato profondamente la morfologia
dei versanti ed ha permesso di rallentarvi la
naturale attività erosiva. Vi è poi da considerare
che per l’approvvigionamento idrico venivano
sfruttate le manifestazioni idriche presenti sul
territorio ed era stato creato un complesso sistema che ne permetteva il trasferimento e la
distribuzione anche a notevole distanza. Si può
dunque affermare che esistesse un delicato ma
efficace equilibrio fra attività antropiche e condizioni di stabilità dei versanti. L’intervento
antropico sulla morfologia della valle è stato
assai rilevante e, secondo stime di massima,
avrebbe interessato circa il 34% del territorio (S.
NOSENGO 1980); gli abitati di Neirone,
Corsiglia ed Ognio, solo per citare i più importanti, si sono sviluppati su imponenti accumuli
detritici per le motivazioni già viste.
Le trasformazioni nei modi d’uso del suolo cui
- 38 -
si è assistito in tempi recenti, in questo caso
individuabili essenzialmente nell’abbandono
delle attività agro-silvo-pastorali, hanno avuto
conseguenze negative sulla stabilità dei versanti
in generale ma soprattutto in quelle zone già
caratterizzate da equilibrio precario come i citati accumuli di frane antiche. Si è, pertanto,
avuta un’accelerazione della dinamica evolutiva
di tali versanti, gli effetti della quale sono ben
evidenti ai giorni nostri e si manifestano attraverso condizioni di dissesto generalizzato nonché con l’innesco di nuovi fenomeni franosi.
Non è poi trascurabile, in tale contesto, il contributo idrico ad eventi di piena che possono
assumere proporzioni catastrofiche sul fondovalle.
L’incipiente instabilità delle coltri allo stato
attuale è causa di dissesto nei fabbricati, soprattutto di vecchia costruzione, a Neirone nonché
in alcuni tratti della viabilità primaria e secondaria (fig. 11); la notevole presenza di acque che
caratterizza le aree ai margini degli accumuli
detritici, la presenza di substrati di natura argilloscistosa nonché la loro alterabilità sono fatto-
ri che creano condizioni ottimali per il formarsi di movimenti lenti nel suolo, denominati
“creep”, che possono raggiungere dimensioni
notevoli come accade, ad esempio, nella zona di
Ognio (S. NOSENGO 1980).
In diversi casi (Rosasco, Forcossino, Carpeneto,
Cerisola) gli accumuli hanno, invece, raggiunto
condizioni di stabilità e non creano, allo stato
attuale, particolari problemi ai manufatti.
Gli eventi franosi verificatisi in seguito alle
consistenti piogge del novembre 2002, che
hanno interessato prevalentemente le coltri
detritiche superficiali nella bassa Val
Fontanabuona, hanno dimostrato che anche i
depositi caratterizzati da debole spessore possono costituire, in connessione con particolari ma
non improbabili condizioni meteorologiche, un
grave rischio per gli insediamenti antropici
nonché per la pubblica incolumità.
È, pertanto, fondamentale che anche in questa
valle, come del resto in tutto l’appennino ligure,
venga favorita la presenza dell’uomo per la sua
preziosa ed insostituibile opera di presidio
sul territorio.
Fig. 7 Panorama della Valle del Torrente Neirone (foto A. Cevasco).
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Fig. 8 Corpi di antiche frane caratterizzano l’areale di Corsiglia (foto A. Cevasco).
Fig. 9 Panorama di Neirone: anche in questo caso l’abitato si è sviluppato su materiali di accumulo di antiche frane
(foto A. Cevasco).
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Fig. 10 Esempio di materiale detritico di origine franosa; tali depositi sono caratterizzati dalla presenza di materiale
lapideo di varia dimensione (a spigoli vivi) in una matrice più fine, di natura limosa e/o argillosa (foto A. Cevasco).
Fig. 11 Fenomeni di dissesto lungo la viabilità secondaria (foto A. Cevasco).
- 41 -
- 42 -
NATURA
IL MONDO DEI VIVENTI
Raffaella Spinetta
I Boschi: quanti e quali?
I boschi si possono paragonare a cosmi di natura più o meno incontaminata, regni da censire,
studiare ed amare.
La Liguria è la regione più boscata d’Italia.
Essa è coperta da boschi naturali, colturali e
artificiali.
Per definire un bosco nel modo più oggettivo
possibile possiamo ricorrere alla legge. La legge
forestale regionale (L.R. 16/4/1984 n. 22) considera bosco “qualunque terreno coperto da
vegetazione forestale arborea e/o arbustiva, di
origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di
sviluppo, nonché il terreno temporaneamente
privo della preesistente vegetazione arborea e/o
arbustiva per cause naturali o per interventi dell’uomo”.
I boschi si distinguono per stratificazione e
struttura del soprassuolo, composizione floristica, tipo di governo e caratteristiche del suolo.
Ogni bosco va “letto” in base agli strati da cui è
composto: strato arboreo, arbustivo alto, arbustivo basso, erbaceo, muscinale e/o lichenico. Si
tratta di un ecosistema complesso dove le specie
si coordinano nello spazio anche per il fenomeno della concorrenza. Si ha concorrenza per la
luce tra le chiome degli alberi e per l’acqua tra le
radici.
Si è soliti parlare di soprassuolo arboreo e sottobosco; il primo è dato dall’insieme dei fusti e
delle chiome degli alberi che costituiscono il
bosco. Il soprassuolo può essere coetaneo, quindi spesso artificiale perché contiene esemplari
piantati nello stesso momento o periodo, o disetaneo, puro e naturale, dove le specie arboree,
arbustive ed erbacee cresciute hanno un età reciprocamente diversa.
Il sottobosco ha una miriade di specie erbacee e
muscinali e/o licheniche. Esso poggia sul suolo,
la “madre”, ed è il riferimento di crescita del
bosco.
Anche in questo caso, esistono diversi tipi di
suoli; essi sono in relazione prevalentemente col
clima in cui si sono generati, secondariamente
con la natura delle rocce in cui si sono sviluppati e con le caratteristiche della vegetazione.
La parte superficiale scura di molti tipi di suolo
è l’ “humus”, formato per azione di batteri e
muffe su resti vegetali.
I suoli dei boschi appenninici liguri hanno pH
intorno al valore percentuale, abbastanza acido.
Da studi effettuati nel 1998 (R. SPINETTA
1998) è emerso che i castagneti del versante Est
dei contrafforti del M. Caucaso hanno un suolo
con pH pari a 5, mentre i querceti di
Montefinale hanno suoli più acidi con un pH
inferiore di 4,5.
Le caratteristiche dei suoli dipendono, in gran
parte, anche dalla storia umana che li ha visti
evolvere e trasformarsi. La storia dei boschi
appenninici è stata travagliata ed è emblematica
per la notevole diversificazione dell’assetto paesaggistico attuale delle montagne del Tigullio.
Solo alcune notizie per far capire tutto ciò.
Dai carotaggi effettuati sul M. Borgo (Comune
di Tribogna) presso il cosiddetto “Castellaro di
Uscio” risultano testimonianze di popolazioni
dedite all’uso del bosco sin dal 1500 a.C.
Allevamento, cereali e alcune varietà di fave
venivano utilizzati per il sostentamento delle
genti di allora.
Al IX e al X secolo risalgono, invece, tracce di
vecchi terrazzamenti. I terrazzamenti più antichi sono però del XVI-XIV sec. a. C. (Castellari
di Zignago e Camogli).
Un’importante documentazione che ci fa capire
come veniva utilizzato il bosco dall’uomo preistorico ci viene da Prato Mollo, in Val Penna,
uno dei più ampi e meno profondi bacini intorbati dell’Appennino Ligure. Nel 1986, da indagini palinologiche, si è scoperto che il bosco primario (originario), dominato dall’abete bianco,
veniva diradato con tecniche che comprendevano l’uso del fuoco. Dai pollini si è scoperta,
infatti, l’esistenza di abete bianco, faggio e onta-
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1200-1300 m
Faggete e lembi di arbusteti con Erica camea eVaccinium mirtillus
E e NE
900-1000 m
Brughiere Praterie con Molinia coerulea
700-800 m
Cerrete con Sesleria autumnalis Castagneti
500-700 m
Pascoli e praterie a Sesleria autumnalis Castagneti
Ovili, qualche nucleo abitato
300 m
Schematizzazione della vegetazione nei versanti settentrionali e nelle stazioni ombrose (R. Spinetta 1998).
no. Gli uomini dell’Età del Rame (4000 anni fa)
attaccarono dunque massicciamente il bosco ad
abete bianco nelle zone sommitali allo scopo di
diradarlo per accrescere le aree di pascolo (transumanze).
Avvicinandosi poi… a passi da gigante al nostro
millennio, abbiamo soprattutto due emergenze
culturali da riscoprire: il seccatoio e la carbonina.
È, inoltre, interessante riscoprire la tecnica del
“ronco” per cui si rimanda ai successivi capitoli.
E dopo questo breve preambolo, che può essere
approfondito grazie alla nutrita bibliografia in
appendice, sembra opportuno riemergere nel
presente dell’ampio e variegato mantello di
verde che ricopre i rilievi e le colline del territorio comunale di Neirone.
Ma quanti boschi ci sono nel Comune di
Neirone? Non abbiamo dati specifici, ma si
osserva subito, anche da una generica visuale
dall’alto, la grande copertura di castagneti,
boschi misti, arbusteti alti ad erica arborea, faggete di crinale e persino grandi appezzamenti di
cerri nell’area del M. Spina e del M. Cavello,
dove sono presenti anche numerosi esemplari di
cerrosughera (Quercus crenata), un interessante
ibrido tra il cerro e la quercia da sughero.
Soffermiamo quindi la nostra attenzione sulla
qualità della copertura boschiva. Quali boschi?
In tutto l’Appennino la vegetazione forestale,
dal punto di vista fitogeografico, è stata divisa
dai tempi storici in:
- “Lauretum”
- “Castanetum”
- “Fagetum”
- “Picetum”
- “Alpinetum”
e cioè in boschi tipici e peculiari differenziati da
specie più termofile, sino a specie più adatte a
climi freddi umidi e secchi.
Nell’Appennino ligure orientale, alle esposizioni
e altitudini esistenti si trovano soprattutto
boschi e coperture appartenenti al Lauretum,
Castanetum e Fagetum.
Quindi, a seconda dell’altitudine e dell’esposizione che ad essa si combina, si possono distinguere:
- boschi di sclerofille sempreverdi o misti con
- 44 -
Boschi autunnali nell’alta valle del Neirone (foto R. Spinetta).
caducifoglie, ma con dominanza delle prime;
- boschi termofili e subtermofili di caducifoglie;
- boschi mesofili di caducifoglie.
Da quanto si osserva sul campo, si può affermare che l’esposizione dei versanti è, senza dubbio,
uno dei fattori ambientali e climatici fondamentali da cui dipende la distribuzione della vegetazione sul territorio.
Essendo la catena montuosa principale quasi
parallela alla costa, le differenze microclimatiche
tra i versanti esposti a Sud e quelli esposti a
Nord sono notevoli.
In generale, da quanto ricavato dagli studi fitosociologici (R. SPINETTA 1998), le classi
maggiormente rappresentate sul territorio sono
quelle degli Arrhenatherethea e dei FestucoBrometea, per quanto riguarda le formazioni
erbacee, quelle dei Querco-Fagetea e dei
Quercetea robori-petraea nelle formazioni arboree
ed arbustive. La classe dei Quercetea ilicis è presente con un numero relativamente alto di specie caratteristiche. Infine, sono ben rappresentate le classi la cui diffusione è influenzata dall’in-
tervento antropico. Di esse, quelle presenti col
maggior numero di specie sono le Chenopodietea,
Secalinetea, Onopordetea, Thero Brachypodietea,
soprattutto nella vegetazione dei vigneti.
Le numerose classi citate denominate con nomi
latini che altro non sono che l’espressione scientifica dei tipi principali di specie che formano
boschi ed aggruppamenti vegetali in zona,
dimostrano come il territorio possegga le caratteristiche climatiche e di suolo idonee a diverse
tipologie di vegetazione. Le classi fitosociologiche riscontrate sono, però, caratterizzate da un
numero più o meno elevato di specie nelle diverse stazioni a seconda dell’esposizione prevalente
dei versanti in cui esse si localizzano.
Si può pertanto schematizzare la distribuzione
altitudinale delle tipologie vegetali. Le osservazioni riguardano, in particolare, il versante settentrionale dei Monti Rocio e Spina e di una
limitata area del M. Caucaso e il versante sud
occidentale dei Monti Caucaso, Rocio, Cavello e
Spina.
Nell’intervallo altitudinale che va dai 150 m ai
- 45 -
Plantula di faggio (foto R. Spinetta).
1250 m sono stati osservati i seguenti ambienti
vegetazionali:
- Vegetazione idrofila degli ambienti umidi e
ripariali
Essa è stata riscontrata presso i ruscelli e là dove
si formano zone di ristagno d’acqua a diverse
altitudini, ma di preferenza nelle aree di fondovalle, in corrispondenza dei corsi d’acqua maggiori. In questo ambiente sono state rilevate
anche le classi Querco-Fagetea e Populeta albae.
- Vegetazione degli ambienti ruderali
È frequente in tutte le aree a forte influenza
antropica: ruderi di stalle e vecchi ovili, case
contadine abbandonate. Sebbene sia stata
riscontrata soprattutto nei versanti a solatio, si
hanno raggruppamenti vegetali di questo tipo
anche in aree più fresche esposte a Nord.
Mentre nelle stazioni meridionali si hanno associazioni vegetali di specie prevalentemente ter-
mofile, in quelle settentrionali si associano alle
termofile anche specie mesofile degli elementi
europeo-eurasiatico e paleotemperato.
- Vegetazione degli uliveti promiscui e dei castagneti
Gli uliveti sono stati impiantati nei versanti
meridionali ad altitudini comprese tra i 200 e i
500 m circa. I castagneti coltivati sia nelle aree
esposte a Meridione che a Settentrione, sono
più estesi nei versanti settentrionali, dove non
arrivano di solito ad altitudini superiori agli 800
m circa.
- Vegetazione dei querceti
I querceti sono distribuiti in numerose stazioni
sul territorio. Il loro massimo sviluppo si ha
nelle zone in cui l’esposizione e le condizioni del
suolo sono loro favorevoli. I querceti a roverella
si trovano ad altitudini massime di 500 m circa,
non formano mai popolamenti fitti e la vegeta-
- 46 -
Pruno spinoso (foto R. Spinetta).
zione che si sviluppa in essi è di solito costituita
da specie termofile o xerofile, in stazioni particolarmente aride. Le leccete si sviluppano ad
altitudini comprese tra i 200 e i 400 m circa
quasi esclusivamente nei versanti meridionali.
Non formano di solito popolamenti estesi. In
essi si sviluppa una vegetazione termofila ricca
di specie mediterranee e soprattutto dell’elemento stenomediterraneo, sebbene si ritrovino,
talvolta, specie europee ed eurasiatiche.
- Vegetazione delle lande alte e degli arbusteti
È un tipo di vegetazione che si sviluppa facilmente in una fascia altitudinale compresa tra i
200 m e i 700 m con una netta preferenza per i
versanti meridionali. Le lande alte ospitano
poche specie, solitamente termofile, mentre gli
arbusteti sono caratterizzati da una maggior ricchezza specifica.
- Vegetazione delle praterie submontane e montane
Sono molto diffuse le praterie a felce aquilina
(Pteridium aquilinum(, favorite dai frequenti
incendi registrati nella zona. Nelle stazioni
soleggiate, oltre ad esse, si possono osservare
estese praterie a paleo (Brachypodium pinnatum).
- Vegetazione delle lande basse a brugo (Calluna
vulgaris)
Le brughiere si diffondono nelle aree di crinale
in stazioni caratterizzate da elevata umidità
atmosferica. In esse crescono alcune specie igrofile. Nelle stazioni umide e fredde si hanno piccoli lembi di landa bassa ad Erica carnea.
- Vegetazione delle praterie “xerofile secche” e
stadio prenemorale della faggeta
Nell’intervallo altitudinale 900-1200 m, nei versanti volti a Meridione, si possono riscontrare
prati aridi caratterizzati da una vegetazione
“pioniera” data da specie frugali come festuca
(Festuca robustifolia) e piantaggine (Plantago ser-
- 47 -
Sorbo degli uccellatori (foto R. Spinetta).
pentina). Nelle aree esposte a Settentrione troviamo, invece, l’ambiente di faggeta presieduto
da arbusteti alti a sorbo (Sorbus aria), pioppo
(Populus tremula), lampone (Rubus idaeus) che
ne costituiscono la fase prenemorale.
Nel dettaglio nel comprensorio della Media ed
Alta Val Fontanabuona, grazie alla morfologia
del territorio e al suo clima mitigato, troviamo
entrambe le tipologie di bosco.
- Boschi di sclerofille sempreverdi
In alcune aree soleggiate, sugli spuntoni di roccia e nelle zone ad elevata pendenza dove i raggi
solari hanno una forte incidenza, si insediano
lembi di lecceta con estensioni massime di circa
500 mq. Le leccete più caratteristiche sono
situate sulla destra orografica del torrente
Neirone, a Neirone, in numerose stazioni tra gli
arbusteti che si incontrano sopra la strada
Gattorna-Neirone e a Ognio, nei pressi di
Cerisola. Solo in alcuni siti formano popolamenti fitti in cui non vivono che poche specie
mediterranee e dove gli arbusti di Erica arborea
hanno acquisito un portamento contorto in
cerca di luce.
Al contrario di quanto si osserva di solito nelle
estese leccete che si collocano nel piano basale
presso o non molto lontano dalla costa ligure
orientale (es. M. Rosa-Montallegro-Rapallo,
Portofino, Punta Manara, Cinque Terre), i lembi
di lecceta censiti in questo territorio possiedono
un buon numero di specie dello strato arbustivo
e quindi del sottobosco.
Nello strato arboreo, benché predomini per
abbondanza il leccio, sono presenti anche la
roverella, il frassino e raramente il castagno.
Allo strato arbustivo ed erbaceo appartiene un
minor numero di specie rispetto a quelle rilevate in altri aggruppamenti vegetali. Nello strato
arbustivo sono frequenti: Erica arborea, Quercus
ilex, Genista pilosa. Le specie erbacee che appartengono alle maggiori classi di frequenza sono,
invece, Rubia peregrina e Asplenium adianthumnigrum.
Oltre ad Erica arborea, è presente il viburno
- 48 -
Corniolo (foto R. Spinetta).
(Viburnum tinus), una specie sporadica sul territorio che può essere rinvenuta, con maggior probabilità, in questi raggruppamenti termofili.
Tra queste specie, molte sono mesofile e sciafile
(Hieracium racemosus ed Hieracium sylvaticum).
Prevalgono specie come: Rubia peregrina,
Asplenium adianthum nigrum, Viburnum tinus,
Carex distachya, Smilax aspera, Laurus nobilis,
Crataegus monogyna e Rubus ulmifolius.
In base a quanto constatato dai rilievi eseguiti,
dalle tabelle fitosociologiche e dagli spettri relativi, si può concludere che la lecceta rappresenta
nel territorio un caso limite di mediterraneità in
cui si associano numerose specie prettamente
mediterranee con altre a distribuzione europeaeurasiatica.
- Boschi termofili e subtermofili di caducifoglie
La vegetazione forestale spontanea meglio rappresentata nell’area in esame è quella delle cerrete.
La cerreta occupa una vasta parte del versante
orientale e nord orientale dei Monti Spina e
Rocio e parte del versante orientale e settentrionale del M. Cavello e della Fonda, dove in aree
limitrofe ci sono località note con toponimi
come “Seri” o ”Serrè”, a dimostrare che probabilmente un tempo quelle cerrete dovevano essere
piuttosto estese e conosciute.
Nei boschi sono presenti, oltre a Quercus cerris,
Fraxinus ornus e Castanea sativa, entrambe
caratterizzate da bassi valori di abbondanzadominanza. Nello strato arbustivo sono presenti
diverse specie. Le essenze arbustive che, nelle
tabelle, appartengono alle classi di frequenza più
elevate sono: Genista pilosa, Erica carnea, Erica
arborea e Quercus cerris. Lo strato erbaceo presenta molte specie con classe di frequenza alta
che possono pertanto essere considerate molto
fedeli rispetto a questo tipo di vegetazione. Tra
le specie erbacee, Oryzopsis miliacea e
Brachypodium pinnatum sono quelle con i valori
di abbondanza-dominanza più elevati.
Il fatto che si abbiano molte specie bulbose, tra
cui alcune maggiormente diffuse ad altitudini
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Coronilla (foto R. Spinetta).
Pioppo tremolo (foto R. Spinetta).
superiori, può far pensare che nei territori ricoperti dalle cerrete esaminate si abbiano durante
l’anno temperature leggermente minori ai valori
medi ricavati dalla stazione termopluviometrica
di Neirone. Ci sono, inoltre, specie subatlantiche
(Cytisus scoparius) e anfiatlantiche (Calluna vulgaris). Esse sono state spesso riscontrate nelle
aree di schiarita. Nel versante nord-orientale
sono presenti Vaccinium myrtillus, una specie circumboreale e Trifolium medium, una specie
eurasiatica; esse si adattano perfettamente al
microclima fresco e umido della cerreta. In base
a quanto osservato sul campo, mentre Trifolium
medium tende a formare popolamenti discontinui ai bordi del bosco e nelle aree in cui il suolo
possiede uno strato umifero e di lettiera ben sviluppati (il pH del suolo misurato in questo orizzonte è pari a 5), Vaccinium myrtillus si colloca
invece nelle radure boschive, dove talvolta risulta essere associato a Molinia coerulea. Lo strato
erbaceo, com’è già stato detto, è costituito per la
maggior parte da Oryzopsis miliacea, una specie
mediterranea la cui diffusione è legata all’influenza antropica. Nella cerreta di M. Cavello,
invece, accanto ad essa, nello strato erbaceo, troviamo Sesleria autumnalis, una specie a distribuzione S-E europea, igrofila, legata in altre aree
agli ambienti di faggeta. Infine, si può osservare
la presenza dell’elemento endemico a cui appartengono Digitalis micrantha e Festuca robustifolia.
Un’altra formazione vegetale, situata di preferenza nei versanti esposti a solatio e nelle aree
piuttosto acclivi, è il querceto a Quercus pubescens.
La roverella, a giudicare dagli alberi secolari
distribuiti sul territorio, è una specie arborea
caratteristica che si è ben adattata alle condizioni climatiche e alle proprietà dei suoli di questa
parte della Val Fontanabuona. Nonostante ciò,
la troviamo raramente in popolamenti “puri”;
più spesso forma con l’orniello, il leccio, il castagno e a volte il cerro boschi misti tipici di stazioni collocate su pendii soleggiati, dove il suolo
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Ginestra bitorzoluta (foto R. Spinetta).
è poco potente, ricco in argilla e con valori di pH
intorno ai 4,5, com’è stato ricavato da un campione prelevato in località Montefinale. Oppure
si associa all’Erica arborea a formare arbusteti
alti e fitti, che testimoniano in qualche caso i
ripetuti passaggi del fuoco nella zona. Talvolta la
pianta rimane sotto forma arbustiva a causa
delle parassitosi da cui è colpita. I principali
parassiti sono: Biorrhiza pallida (ImenotteriCinipoidei), le cui galle sembrano essere diffuse
soprattutto sulle piante più mature e
Mycrosphaera alphytoides, un oidio (Ordine
Erysiphales) che, a causa dell’elevata media
annua delle piogge e della conseguente umidità
atmosferica, si diffonde e si sviluppa facilmente
rallentando molto l’espansione dei querceti a
roverella. I boschi misti che si formano sono
distribuiti nelle stazioni secche e soleggiate dove
la pendenza oscilla tra 25 e 40°.
La struttura del manto vegetale è tipica di un
bosco misto. Abbiamo tutti gli strati: arboreo,
arbustivo, erbaceo e muscinale. Allo strato
muscinale appartengono anche alcune specie di
licheni. Lo strato erbaceo, infine, è quello con il
maggior numero di specie. I muschi e i licheni
non danno mai alti valori di copertura.
Nei boschi misti sono associate specie appartenenti a numerose classi fitosociologiche: QuercoFagetea, Festuco-Brometea, Quercetea ilicis,
Quercetea robori-petraea e Arrhenatheretea sono
quelle maggiormente rappresentate.
- Boschi mesofili di caducifoglie
Nei castagneti da frutto presi in esame, la vegetazione si distribuisce su tre strati: arboreo,
arbustivo, erbaceo. Lo strato arboreo è formato
da poche specie, tra cui Castanea sativa prevale
per abbondanza e dominanza sulle altre.
Nello strato arbustivo si hanno numerose specie.
Si tratta di specie sciafile o idrofile.
Le specie più frequenti sono: Festuca heterophylla, Luzula albida, Avenella flexuosa,
Brachypodium rupestre e Lathyrus montanus.
Tra le erbacee, le specie più frequenti sono:
Avenella flexuosa, Brachypodium rupestre, Luzula
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Sorbo montano (foto R. Spinetta).
albida e Festuca heterophylla.
Le specie mediterranee, invece, pur essendo
numerose, non formano popolamenti omogenei
o estesi.
La vegetazione dei castagneti è estremamente
eterogenea, a causa dell’influenza antropica.
Sono presenti, infatti, specie come: Luzula albida, Hedera elix, Physospermum cornubiense,
Anemone trifolia, Geranium purpureum, Tamus
communis, Hieracium racemosum, Rubus sp. Si
può notare anche la presenza di specie Rubia
peregrina ed Erica arborea; esse si collocano,
però, nelle schiarite e nelle aree marginali del
castagneto.
La pulitura dei castagneti prevede infatti la bruciatura delle sterpaglie e lo sfalcio, pratiche che
favoriscono il diffondersi di specie erbacee quali:
Anthoxanthum odoratum, Silene vulgaris, Holcus
lanatus, Vicia incana, Pteridium aquilinum.
L’esistenza di specie dei Plantaginetea majoris,
Chenopodietea, Onopordetea, Secalinetea, non
legate ai castagneti, può essere dovuta alla presenza di aree di calpestio che si creano soprat-
tutto in seguito all’azione dei cinghiali.
Nei boschi mesofili e freschi troviamo il maggiociondolo, il sambuco rosso, la ginestra pelosa,
il sambuco nero, il mirtillo, il sorbo montano, il
sorbo degli uccellatori, l’erica carnea, il pioppo
tremolo.
Nei boschi più esposti a Sud e quindi piuttosto
caldi crescono, invece, ginestre, salsapariglia,
erica arborea, sanguinella, pepe montano, biancospino e prugnolo.
Nel dettaglio, tutte queste specie hanno caratteristiche e proprietà diverse, ma adattamenti climatici ed ecologici simili.
Di seguito, si riportano alcune schede sintetiche
che descrivono gli arbusti più rappresentativi.
Il maggiociondolo (Laburnum anagyroides
Medicus). Viene detto anche avorniello o cantamaggio. Fiorisce da maggio a giugno ed ha
corolle d’un bel giallo vivo da cui poi si sviluppano legumi tristemente noti per la loro velenosità.
Simile al maggiociondolo comune, ma più adatto alle temperature più rigide, è il maggiocion-
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Maggiociondolo (foto R. Spinetta).
Sambuco nero (foto R. Spinetta).
dolo alpino (Laburnum alpinum) presente con
pochi esemplari. Si distingue dal primo a causa
dei rami glabrescenti e quindi più lisci. Ha, inoltre, una fioritura tardiva rispetto al primo. È
molto frequente nelle medie e alte quote del M.
Antola.
Il sambuco rosso (Sambucus racemosa). È un
arbusto voluminoso con bacche rosse in grappoli. Può essere velenoso e quindi, al contrario del
suo “parente” termofilo, il sambuco nero, non è
utilizzabile per sciroppi e marmellate. Vive con
pochi esemplari nei crinali delle montagne ai
confini settentrionali del territorio comunale.
Il mirtillo (Vaccinium myrtillus). È un vicino
parente dell’erica; ha infatti fiori a campanella
bianchi o rosati dalla cui metamorfosi derivano
succulente e nere bacche ricche di vitamine.
La ginestra pelosa o ginestra tubercolosa
(Genista pilosa, L). È un suffrutice dai fiori gialli e delicati. Vive nei prati montani e fiorisce da
maggio a luglio.
Il sorbo montano (Sorbus aria (L.) Crantz). È
detto anche farinaccio o rialto. È noto per le sue
foglie bianche e pelose nella pagina inferiore.
Ha petali color bianco latte e vive nei boschi freschi di latifoglie, soprattutto nei querceti e nelle
faggete.
Il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia L.).
Ha una fioritura abbondante da cui scaturiscono
a luglio dei frutti rossi vivacissimi.
Il pioppo tremolo (Populus tremula). È un alberello curioso con foglie rotondeggianti e seghettate disposte su rami flessibili che vibrano al
vento, come i salici, facendo ondeggiare (“tremare” e da qui deriva il nome della specie) le
foglie che sono color verde acqua e rigide. Se ne
trovano diversi popolamenti sul M. Caucaso, ma
non è raro trovarli lungo i margini dei boschi
umidi e degradati di tutto il territorio.
L’erica carnea (Erica carnea). Fa parte della
famiglia delle eriche a cui appartengono il brugo
e l’erica arborea. È più rara delle precedenti e
possiede fiorellini di un bel rosa vivace.
Viene anche chiamata erica carnicina o più
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Rosa canina (foto R. Spinetta).
Antichi pascoli e vie di comunicazione nell’area di
“Faggiorotondo” (foto R. Spinetta).
comunemente scopina. Fiorisce nei castagneti e
nelle aree altocollinari e montane da febbraio a
giugno.
Tra le innumerevoli specie che caratterizzano i
boschi termofili e quindi castagneti collinari,
querceti e boschi misti, ricordiamo le più appariscenti e caratteristiche del territorio: le ginestre, la salsapariglia, l’erica arborea, il brugo, la
sanguinella, il pepe montano, il biancospino, il
prugnolo, il cisto, la fusaria.
Le ginestre sono arbusti comuni con fiori gialli
e fitti. Sono presenti soprattutto nei boschi o
nelle lande ahimè frequentemente interessate da
incendi. Alcune hanno invece bei colori rosati:
sono le ononidi, rare e tipiche dei prati a pascolo e delle radure boschive ruderali. Tra le ginestre gialle presenti nelle boscaglie di Ognio,
Rosasco e Neirone ci sono di tanto in tanto fitte
boscaglie a citiso scopario (Cytisus scoparius (L.)
Link). Questa ginestra è comunissima nelle brughiere su terreni acidi ed erosi dagli incendi. In
Italia è presente un po’ ovunque, tranne in
Puglia.
Un'altra varietà di ginestre sono le coronille o
ciondolini. La coronilla a cornetta o dondolina è
nota per i suoi legumi penduli e incurvati, ha
rami flessuosi e fiori color giallo chiaro. Vive a
quasi ogni quota nell’Appennino ligure, da 0 a
1650 metri s.l.m. È una specie tenace e resistente. Un’altra ginestra, questa volta ricca di spine,
è lo sparzio spinoso (Calycotome spinosa). Si tratta di un arbusto tipico dei boschi degradati e
degli arbusteti dei terreni acidi. Il suo nome dialettale è “spinone”. È una delle essenze preferite
da conigli e lepri, viene respinta, invece, dagli
ungulati per le sue spine indigeste e pungenti.
L’ononide (Ononis spinosa L.) viene detta anche
borraga o arrestabue; ha una bella corolla roseovinosa e vive negli ambienti aridi.
La salsapariglia è un arbusto strisciante e spinoso. È un buon rampicante e, viste le fitte boscaglie intricate che forma, viene detto anche
“stracciabraghe”. Il nome scientifico è Smilax
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Il doronico austriaco nelle faggete del M. Lavagnola (foto R. Spinetta).
aspera. Ha bacche scurissime e possiede foglie
cuoriformi, lucide e persistenti e vive, coerentemente a queste sue caratteristiche, negli
ambienti aridi e mediterranei del comprensorio:
leccete, boscaglie a roverella, lande alte ad erica
arborea. La si trova frequentemente nei boschi
termofili di Montefinale.
L’erica arborea (Erica arborea L.). Nota in dialetto come brugo, è un arbusto comunissimo che
forma fitte lande alte soprattutto nei versanti
esposti a solatio e nelle aree interessate dal passaggio degli incendi.
Denominata anche “radica”, questa essenza è
stata utilizzata da sempre per la fabbricazione
delle pipe da tabacco. È una specie che tollera il
fuoco e difficilmente subisce rapida combustione. In gergo botanico viene definita specie “pirofila”. Nel mese della fioritura si ricopre di “campanelline” del colore della neve che rimangono
attaccate ai vestiti e ai capelli dei prodi escursionisti che si addentrano negli arbusteti.
Ricordiamo che esistono molti toponimi che
ricordano la grande diffusione di questa essenza
sul territorio: p. es. “Brugheira” è un grande
appezzamento boschivo ai confini tra Moconesi
e Neirone, ai contrafforti meridionali dei Monti
Rocio e Cavello.
Il brugo (Calluna vulgaris). È un suffrutice fitto
e alto fino a un metro. Ha vivaci fiorellini di
color roseo-vinoso, raramente più chiari. È
un’altra specie “pirofila”, cioè tollerante nei confronti degli incendi. Tipica delle brughiere nordiche, vive nell’Appennino nelle aree di crinale,
in prossimità dei fronti di confine delle masse
d’aria calda provenienti dal Golfo Ligure e quelle d’aria fredda d’oltre Appennino. È sempre più
diffusa nelle zone colpite da incendio.
La sanguinella o corniolo. Si trova in tutte le
aree temperate della penisola italiana, con due
specie diverse: il corniolo sanguinello (Cornus
sanguinea, L.) e il corniolo maschio (Cornus mas,
L.).
Le varietà che si ritrovano nei nostri boschi sono
del tutto spontanee. Il più comune è il sanguinello; il corniolo maschio ha bacche rosse e si
trova frequentemente nel bacino della Val
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Il croco napoletano (foto R. Spinetta).
Pratoline (foto R. Spinetta).
Trebbia.
Nei boschi misti del versante meridionale del
territorio di Neirone è più comune la sanguinella con drupe sferiche nere come porpora e rami
giovani arrossati da cui il nome della specie. Il
suo parente coltivato Aucuba Japonica, Thunb
non ha nessuna capacità di inselvatichire.
Il pepe montano (Daphne laureola, L.). Detto
anche dafne laurella o laureola, è un cespuglio
con corteccia grigio-rosea. Vive bene nei boschi
di castagno. Ha una drupa elissoide rosso-nerastra e fiori biancastri. È un genere protetto dalla
legge regionale. È velenosa come molti dei suoi
parenti montani tra cui la “terribile” camalea
(Daphne mezereum, L.), un tempo usata come
veleno: bastano infatti 8 delle sue bacche per
uccidere un uomo.
Il biancospino (Crataegus monogyna). Detto
anche biancospino comune o azaruolo selvatico
è un arbusto con corteccia compatta grigio aranciata. È tipico di cespuglieti e siepi di boschi
xerofili degradati. Fiorisce in aprile e maggio.
Ha le foglie profondamente incise.
Il prugnolo (Prunus spinosa, L.) o vegro, è un’altra rosacea, così come il biancospino. Ha fiori
bianchi e spesso isolati, lunghe spine e frutti sferici blu nerastri, usati localmente per aromatizzare grappe e liquori. Fiorisce in marzo-aprile
ed è piuttosto comune.
La fusaria o berretto da prete (Eounymus europaeus). È un arbusto con frutti rossastri piccoli e
legno con odore di mela. È comune nei boschi
europei soprattutto in querceti e castagneti.
Il cisto femmina (Cistus salvifolius). È un arbusto generalmente sempreverde con la corteccia
grigiastra e le foglie grinzose e verdi. I fiori sono
grandi, bianchi e con fondo giallo. Vive nelle
aree soleggiate e nei prati aridi. È noto in dialetto come “Custu martin”, in correlazione alla sua
fioritura che inizia a marzo.
I prati e le fasce
Nell’area di Corsiglia, Forcossino, Rie Russe e
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Eliantemo giallo (foto R. Spinetta).
Roccatagliata esistono numerose “fasce”, zone
ruderali, dette così dai contadini della Val
Fontanabuona.
Non solo l’alto comprensorio di Neirone possiede prati ricchi di tradizione e biodiversità, ma
anche l’area di valle e bassa collina: Donega,
Ognio, Orticeto, Montefinale, Rosasco.
Ma cosa è possibile incontrare in un ambiente
coltivato, oltre alle colture e all’indimenticabile
fatica e passione dei nostri nonni?
Ci sono forme di vita preziose per gli ecosistemi
prativi, vegetali e animali che vivono in un perfetto equilibrio dinamico.
I prati che troviamo nel territorio ligure derivano da pascoli che, a loro volta, sono frutto del
diradamento dei boschi.
Gli spazi ampi che si sono creati in passato tra le
boscaglie hanno ospitato dapprima le specie
eliofile, cioè amanti della luce del sole. Queste
sono state, in alcune situazioni, sostituite dalle
varietà colturali e gli spazi prativi sono divenuti
artificiosi spazi agrari.
Le aree lasciate a pascolo si sono arricchite di
specie arbustive: ginepro (Juniperus communis),
Prugnolo (Prunus spinosa), serpillo (Thymus
serpyllum).
Altre specie si sono diffuse grazie agli oli essenziali posseduti, come la menta (Mentha spp) o la
santoregia (Satureja spp); altre ancora, perché
velenose, hanno resistito al pascolo: ranuncoli,
euforbie, ipperici e alcune composite.
Ed è questa la composizione di molti pascoli di
quota dell’area del M. Caucaso, dove a maggio
immense distese di erba di San Giovanni
(Ippericum perforatum) ingialliscono le zone
limitrofe alla vetta.
Con l’evolversi delle abitudini agricole si sono
poi formati prati pingui, cioè con terreni molto
ricchi in nitrati, e prati falciati, dove i tagli tardivi hanno permesso la diffusione di erbe in
grado di ricrescere rapidamente. Ne sono un
esempio i prati a tarassaco e carota selvatica
distribuiti a lembi a Cerisola e Montefinale e, in
genere, su tutto l’Appennino.
I prati a croco che si scorgono, in autunno, presso Corsiglia e Roccatagliata, hanno subito nel
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Orchidea palermitana (foto R. Spinetta).
Campanula a foglie di pesco (foto R. Spinetta).
passato sia pascolo che sfalci. I crochi, i colchici
e le primule sono infatti specie con grande capacità rigenerative, grazie alla presenza di bulbi
(nei primi) e alla fioritura precoce, che comporta la formazione dei semi prima che avvenga il
primo taglio.
Le piante erbacee che troviamo nei prati sono
spesso graminacee, precorritrici delle varie cultivar di grano e foraggi vernini selezionati in agricoltura.
Tra le erbe presenti nei prati e nelle fasce citiamo, poiché comuni:
l’erba cornetta (Lotus corniculatus), il trifoglio
(Trifolium pratense), la borracina (Sedum rupestre), le orchidee (Orchis spp), il timo (Thymus
polytricus e T. serpillum), il falso tarassaco
(Leontodon hispidus), la sanguisorba (Sanguisorba
minor), le serapidi (Serapias spp.), i garofanini
dei prati (Dianthus carthusianorum e D. seguierii), l’erba lucciola (Luzula campestre), l’erba
medica (Medicago lupulina), il latiro montano
(Lathyrusus pratensis), la stachide (Stachys recta),
il vincetossico (Vincetoxicum hirundinaria).
I prati sono scrigni di vita e laboratori di biodiversità anche per la fauna.
Lepri, pispole, passeri, tipule, bombi, sirfidi,
solitari, licenidi, curculionidi, coccinelle, lumache, cimici, lepidotteri, cavallette, topi campagnoli … sono solo alcuni dei vivaci ospiti degli
ambienti prativi.
Vegetazione e flora
A questo punto del nostro percorso nella natura
del Comune di Neirone nasce l’esigenza di
distinguere la vegetazione dalla flora.
“Vegetazione” e “Flora” sono due termini usati in
gergo botanico nel descrivere il “verde” presente
in un’area, ma hanno due significati differenti.
Per vegetazione si intende la copertura di specie
presenti in un territorio: boschi, prati, pascoli
sono tipologie di vegetazione. Si parla, invece, di
flora quando elenchiamo l’insieme delle specie
(elenco floristico) che compongono una coper-
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Sassifraga (foto R. Spinetta).
Bocca di leone maggiore (foto R. Spinetta).
tura vegetale.
A questo proposito, può essere interessante
ricordare che le specie hanno un certo grado di
fedeltà al tipo di vegetazione a cui appartengono. Un esempio: nella faggeta del M. Lavagnola
troviamo il doronico di colonna, l’anemone
nemorosa, l’ontano bianco, il maggiociondolo.
Ebbene, nei boschi del Monte degli Abeti (Val
d’Aveto), nell’area del M. Antola e nelle faggete
del M. Beigua ci sono le stesse specie, legate, per
le loro esigenze climatiche ed edafiche, all’ambiente di faggeta.
Stessa correlazione si può fare per i boschi
mesofili di mezza quota, dove si trovano in simili condizioni ambientali le stesse specie tipiche
di determinate situazioni vegetali.
dell’area in esame, non le elenchiamo tutte,
bensì ne citiamo alcune, suddividendole in:
- Specie rare e degne di salvaguardia
- Specie endemiche o endemiti
- Relitti glaciali
- Relitti terziari
- Relitti serpentinicoli
Tutte queste sono considerate come essenze
vegetali particolarmente rare e appariscenti o
con una storia evolutiva particolare, come nel
caso dei relitti.
Tra le specie rare il comprensorio di Neirone
annovera diversi esemplari tra quelli in elenco
nella Legge Regionale 30 gennaio 1984 n. 9
(“Norme per la protezione della flora spontanea”).
Delle specie enunciate nella Tabella A esistono
nell’area l’aquilegia o amor nascosto (Aquilegia
spp.), il ciclamino (Cyclamen hederifolius), il
giglio di San Giovanni (Lilium bulbiferum, L.),
l’ofride (Ophris spp.).
Tutte queste specie, appartenendo alla tabella A
La flora
Nel territorio della Val Fontanabuona esistono
oltre 1000 specie floristiche censite o da censire.
Ovviamente, vista la complessità ambientale
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Bucaneve (foto R. Spinetta).
di suddetta legge, non possono essere raccolte,
né danneggiate perché sono in pericolo di estinzione nel territorio regionale.
Della tabella B (specie che non possono essere
raccolte perché con caratteristiche vegetali particolari: specie a cuscinetto) sono presenti la sassifraga e il semprevivo negli affioramenti di calcescisti del M. Lavagnola.
Infine, numerose sono le specie presenti contenute nella tabella C, per cui è consentita la raccolta straordinaria di non più di cinque esemplari al giorno a persona; ovviamente, nell’area le
specie dette sono talmente rare da consigliarne
la tutela integrale.
Le specie sono: arnica montana (Arnica montana, L.), dafne (Dafne laureola), dente di cane
(Erythronium dens-canis, L.), bucaneve
(Galanthus nivalis), genziana asclepiadea
(Gentiana asclepiadea), varie specie di orchidee
(Orchis spp), la scilla a due foglie (Scilla bifolia,
L.).
Quasi tutte queste specie sono officinali: la regina, in questo, è l’arnica, rarissima su tutto il ter-
ritorio della Val Fontanabuona, gialla e solare e
con due sole foglie opposte crassulescenti.
Anche l’asclepiade o genziana asclepiadea è una
specie officinale. Asclepio, da cui essa prende il
nome, era il dio greco della medicina.
Il dente di cane ha foglie leopardate e delicati
fiori rosa; rallegra le faggete e i boschi di cerro
all’inizio della primavera. Questa bulbosa ha
avuto usi curiosi in Liguria: le sue radici (bulbi)
erano usate da aromatizzanti per la preparazione
delle torte quando le nostre bisnonne … non
potevano acquistare essenze ed aromatizzanti al
supermercato.
Il pungitopo, infine, è una specie piuttosto diffusa nel territorio comunale. Noto per gli
addobbi e l’atmosfera natalizia è un importante
esempio di adattamento ecologico di una specie.
Le sue “foglie” verdi, in realtà, sono rami trasformati e ricchi di cloroplasti e clorofilla con
cui tutta la pianta, che vive in luoghi ombrosi,
riesce ad adempiere alla funzione clorofilliana
nonostante la carenza globale di luce del suo
ecosistema. Questi “rametti” simili a foglie si
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Campanula dei Medi (foto R. Spinetta).
chiamano “cladodi” e si arricchiscono di vivaci
bacche rosse da novembre a gennaio.
Tra le specie rare, non elencate nella legge regionale, citiamo l’agrifoglio (Ilex aquifolium); essenza tipica del periodo di Natale, che predilige i
climi caldi ed umidi e si rifugia, per questo, nelle
vallecole e nelle aree riparate ed umide dei
boschi.
Altre piante da ricordare sono: il gladiolo italico,
molto comune un tempo nei vigneti, la cefalantera (Cephalantera longifolia), un’orchidea bianca
con lunghe foglie che vive nei boschi misti, l’orchidea elleborina (Epipactis elleborine), la gimnadenia (Gymnadenia conospea), una delicata
orchidea tipica di uliveti e aree calde, l’orchidea
abortiva (Limodoruma abortivum), una pianta
saprofita, che vive quindi su piante morte o alla
base delle radici dei castagni e di altri alberi di
cui diventa parassita. Essa è facilmente riconoscibile perché priva di clorofilla.
Tra le orchidee, infine, non si possono dimenticare il viticcino (Spiranthes spiralis) e l’orchidea
piramidale (Anacamptys piramidalis), rara ma
frequente nei pascoli montani.
Le specie endemiche, o endemiti, sono essenze
rare perché con areali ristretti o localizzati. Tra
le specie endemiche tipiche dell’area di Neirone
esiste l’erba solferina, un endemismo alpicooccidentale. Viene detta anche erba dei pidocchi
poiché un tempo era usata come insettifuga o
insetticida. Ricordiamo anche, per la bellezza
delle sue corolle, l’orchidea palermitana (Orchis
patens), rara e quindi protetta, ma anche a distribuzione frammentaria. È veramente particolare
per le sue ali (la parte distale del fiore) rigate di
un segmento nero-verde.
Nelle bordure dei querceti e nei prati a sfalcio
più caldi e ventilati cresce la campanula media
(Campanula media), un subendemismo etruscoligure-provenzale con irradiazioni che raggiungono, a Nord, la Valle d’Aosta. Il suo nome deriva dalle sue origini: è la “campanula dei Medi”,
una popolazione dell’altopiano iraniano nordoccidentale.
Ed ecco una sorpresa! Nelle cenge erbose del M.
Caucaso vive il cavolo delle rupi; diffuso lungo il
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Cerrosughera (foto R. Spinetta).
Tussilagine (foto R. Spinetta).
litorale ligure, sale fino a quota 1.245 m proprio
in Val Fontanabuona. È un’entità subendemica a
gravitazione etrusco-ligure-provenzale. Non è
altro che il parente selvatico della varietà orticola.
A quote inferiori, nei boschi d’alto fusto a castagno, crescono spesso in numerosi esemplari le
digitali bianche (Digitalis micrantha), endemismi italiani che sono noti per i fiori a campanula ritorta che attirano e intrappolano gli insetti
pronubi.
È molto diffusa nei boschi di Corsiglia e Feia.
Con le digitali, spesso fioriscono gli anemoni di
bosco o silvie. La sottospecie Anemone trifolia
ssp. trifolia è rara in Italia, tanto che nel 1998 è
stata segnalata sulla Carta della Flora (TAV. 7)
del Parco naturale Regionale dell’Aveto (M.
ZOTTI, R. BERNARDELLO, R. CANEPA,
R. SPINETTA 1998). La sua fioritura è delicata e vulnerabile: il nome “anemone", infatti, deriva da “anemos”, che in greco sta per “vento”.
I relitti glaciali sono un’altra grande categoria di
specie peculiari e ricche di storia. Sono “resti” di
ecosistemi antichi, che si svilupparono in periodi climatici freddi del Quaternario (da 700 mila
a 80 mila anni fa).
Con il cambiamento generale del clima, essi si
sono distribuiti di preferenza in zone particolarmente ventilate e fresche presso i siti di crinale o
nelle ricche e fredde aree collinari.
Il relitto glaciale più noto e diffuso
nell’Appennino ligure è la sassifraga paniculata
o sassifraga alpina. Essa appartiene ad un grosso
gruppo di specie che hanno fusti elevati, foglie
calcarizzate (assaggiandole, sanno di sale!), margine dentellato e infiorescenza ramosa solo in
alto.
La sassifraga che troviamo sul M. Caucaso, nell’area del Passo del Portello e sul M. Lavagnola,
vive in ambienti rocciosi ed ha fiori lattei. I suoi
ambienti di vita sono le rupi, gli sfatticci, le
ghiaie consolidate, i pascoli pietrosi, indifferentemente su substrati calcarei o silicei.
Una curiosità di questa pianta è quella di posse-
- 62 -
Primula (foto R. Spinetta).
dere petali finemente punteggiati di rosso, un
trabocchetto per confondere e attirare gli impollinatori.
Un altro relitto glaciale, anch’esso a fiori bianchi
(o raramente rosati) è l’antennaria dioica
(Antennaria dioica) o sempiterno di montagna,
diffusa sui crinali e nei pascoli montani
dell’Appennino. Essa appartiene alla grande
famiglia delle Composite. Ha radici a rizoma
legnoso e fusto eretto angoloso e foglioso fino in
alto. I capolini bianchi o rosa sono piccole infiorescenze formate da tanti piccoli fiori unisessuati (per questo è detta dioica, poiché ha capolini
femminili e capolini maschili). Essi sono spesso
portati su fascetti di due o dieci esemplari. I
petali sono arrossati negli esemplari femminili.
L’antennaria vive bene su suoli umificati acidi,
nei boschi di latifoglie e conifere, nei cespuglieti, nei pascoli subalpini ed alpini. È una specie
circumboreale.
Il clima nelle ere ha subito cambiamenti notevoli. Ci sono state ere in cui le temperature e le
umidità erano più elevate di quelle odierne. A
questi tempi geologici distanti e dimenticati
appartengono altre specie relittuali: i relitti terziari.
Queste specie termofile hanno i loro antenati
nel tardo Paleozoico (circa 345 milioni di anni
fa), tempo delle grandi foreste di Licopodi,
Equiseti e Lepidodendri.
Un ultimo insieme di relitti è quello dei relitti
serpentinicoli. Essi sono esemplari legati al tipo
di substrato su cui si sono diffusi ed evoluti i loro
antenati. Nell’area della Val Fontanabuona non
esistono serpentiniti: per questo, c’è solo una
specie, comunque classificata come serpentinicola non esclusiva, che avendo il suo areale
regionale maggiore nella Val d’Aveto, si trova in
alcuni siti anche nei pressi della Rocca
Cavallina, sopra alla località Faggio Rotondo.
Stiamo parlando della costolina appenninica
)Robertia taraxacoides), un piccolo “tarassaco
giallo” con le foglie frastagliate che vive tra le
arenarie e nelle aree rupestri del comprensorio.
Visti il clima e gli ambienti, particolarmente
adatti alla flora rupestre e delle aree umide,
- 63 -
Amor nascosto (foto R. Spinetta).
Genziana asclepiadea (foto R. Spinetta).
meritano una nota particolare le Felci o
Pteridofite.
Si tratta di piante antichissime dal punto di vista
evolutivo, che non hanno fiori e rami. Nelle
regioni tropicali hanno un portamento arboreo,
mentre nelle aree temperate, come quella ligure
montana, hanno un abito erbaceo, pur raggiungendo a volte anche i due metri di altezza. Il
fusto è spesso metamorfosato in un rizoma sotterraneo, per cui sono visibili solo le fronde
(erroneamente chiamate foglie). Quello che si
vede all’aria aperta si chiama sporofito e dà origine alle spore. Le spore sono spesso portate
nella pagina inferiore o ai margini delle fronde.
Le fronde sono spesso molto grandi e innervate,
anche se, a volte, sono piccolissime e divise,
come nel caso di alcune specie di asplenio.
Portano le spore in sporangi, spesso riuniti in
gruppi detti sori.
Sono conosciute come fossili a partire dal
Devoniano e Carbonifero.
Le vallecole del territorio comunale di Neirone
sono umide e spesso calde per l’esposizione dei
versanti. Le felci più comuni vivono lungo le
sponde dei torrenti, lungo i rii e i piccoli corsi
d’acqua.
Ci sono diverse specie di felci che vivono negli
interstizi delle pietre nei muretti a secco, altre
vivono sulle cortecce dei vecchi alberi.
Occorre curiosità per osservarle, ma sono molto
più diffuse di quanto si creda.
Tra le più comuni c’è la felce aquilina (i comuni
“frecci”), una pianta infestante che vive in
immense praterie ove ci sono frequenti casi di
incendio.
Diamo ora uno sguardo d’insieme alle felci più
particolari e caratteristiche del comprensorio.
Selaginella (Selaginella denticulata)
È una pianticella strisciante con fusti gracili e
prostrati e foglie laterali dentellate. La si trova di
solito negli uliveti, nei muri reggifascia. È un
relitto terziario, infatti ama rifugiarsi nelle piccole nicchie calde e umide dei muri e tra le pie-
- 64 -
Ciclamini a foglie d’edera (foto R. Spinetta).
tre. La selaginella ha in Liguria il suo limite settentrionale.
Equiseto (Equisetum, spp)
Detto anche coda di cavallo, è presente con
numerose specie. Le più comuni nel territorio
sono l’equiseto dei campi (Equisetum arvense,
L.) e l’equiseto massimo (Equisetum telmateja
Ehrh), entrambi con portamento verticale e con
tanti piccoli “rametti” distribuiti sul “tronco”
come ombrellini concentrici (verticilli).
Ogni rametto si divide in cilindri inseriti uno
nell’altro. Tutta la pianta è ricca di minerali di
quarzo (SiO2), in granuli. Per questo dà, al
tatto, una sensazione di ruvidezza; un tempo era
usata da strofinaccio per pentole e tegami in
rame.
Capelvenere (Adianthum capillus-veneris L.)
È il comune capelvenere che vive spontaneo
sulle rocce stillicidiose, nei pozzi, nelle cave
abbandonate e nelle sorgenti.
Ha una distribuzione ampia, in quanto lo si
trova dal litorale fino alle alte quote (da 0 a 1500
m). È curiosa la distribuzione dei sori lungo il
margine delle “foglioline”.
Questo è un segno di primitività; infatti, solitamente, i sori si trovano tra le nervature e ben
protetti nelle pagine inferiori delle fronde.
Pteride di Creta (Pteris cretica, L.)
È una specie relittuale che vive nelle rupi
ombrose e in muri tra i 100 e gli 800 metri di
quota. La foglia con lungo picciolo scuro è divisa in pinne lineari acute.
È molto rara, ma è ben presente in tutta l’area
della Val Fontanabuona. La si riscontra frequentemente negli ingressi di cave abbandonate,
lungo i torrenti e negli anfratti riparati delle
zone ombrose.
Asplenio tricomane (Asplenium tricomanes, L.)
È una delle felcette dei muri a secco; è molto
comune. Ha le foglie coriacee, verde scuro, pennato-composte con contorno lineare. Il suo
nome “tricomane” deriva dal greco “tricos”, cioè
- 65 -
le (L.) Hoffm)
È uno dei più rari ed eleganti abitanti di rupi e
muri. Le sue fronde sono ridotte a segmenti
lineari dentellati all’apice. La pagina inferiore è
di solito riccamente ricoperta di sori scuri.
Cedracca comune (Ceterach officinarum D.C.)
Vive in muri, rupi e macereti. È stata usata un
tempo nella farmacopea per le sue spore rinfrescanti; oggi si trova in molte aree terrazzate e
nelle rupi. Ha le foglie in rosetta densa, verdi e
coriacee di sopra, coperte da uno strato di squame brunastre dall’aspetto di peli lanosi nella
pagina inferiore.
Scolopendra comune (Phyllitis scolopendrium)
È un gigante tra le felci; infatti le sue fronde, che
sono lineari e spesse e con base a cuore, non
sono divise, ma larghe ben sei centimetri e lunghe anche mezzo metro. È una specie igrofila ed
ombrofila. Ama, quindi, l’umidità e l’ombra.
Vive, per questo, in boschi misti, pozzi e aree
stillicidiose soprattutto su substrati a scisti calcarei.
Gladiolo dei campi (foto R. Spinetta).
capello o filo. Infatti, dopo la perdita delle pinne
laterali, i rachidi (rametti su cui si inseriscono le
pinne) sembrano capelli.
Asplenio adianto nero (Asplenium adianthumnigrum)
È la felce più comune nei boschi termofili e
quindi nelle leccete e nelle boscaglie a roverella
e cerro. È una pianta con le fronde frastagliate,
cioè con le pinne completamente divise. Vive di
solito su substrati silicei. Molto simile, ma con le
foglie divise in tre setti e non in due, è l’asplenio
maggiore (Asplenium onopteris), tipico delle leccete. Entrambe le specie vivono dal livello del
mare sino a 1500-1700 metri di quota. In
Sicilia, per esempio, l’adianto nero si spinge sino
a 2.450 m di quota.
Asplenio lanceolato (Asplenium billotii)
Rarissimo in Italia, è presente in Liguria soprattutto in Val Graveglia ed in Val Fontanabuona.
Asplenio settentrionale (Asplenium septentriona-
Polipodio o falsa liquirizia
Sono due le specie più comuni appartenenti al
genere polipodio.
Il polipodio comune o volgare (Polypodium vulgare, L.), detto anche felce dolce, ha un profilo
tozzo e dimensioni ridotte. Assomiglia ad una
penna d’uccello.
Il polipodio sottile (Polypodium interjectum,
Shiras) ha, al contrario del primo, un profilo
triangolare; ha le foglie più sottili, le pinne quasi
sempre acute con il paio basale diretto in avanti.
Vive anch’esso in rupi e muri ombrosi.
Le querce secolari di Montefinale
I boschi misti in cui predomina la roverella sono
diffusi, anche se in modo frammentario, sul territorio. Le roverelle sono infatti specie molto
frugali e ben adattate al passaggio del fuoco. Per
questo le troviamo, spesso, anche associate
all’Erica arborea a formare fitti arbusteti.
Gli esemplari più antichi tra la flora arborea
sono alcune roverelle situate in località
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Selaginella denticolata (foto R. Spinetta).
Asplenio di Billotti (foto R. Spinetta).
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Felce dolce (foto R. Spinetta).
Montefinale, presso Ognio. Alcuni studi in
merito furono fatti dal Corpo Forestale di
Gattorna nel 1989. In quell’occasione fu individuata la presenza di attacchi di funghi del genere Fomes facilitati probabilmente da traumi o
errori di potatura che causarono l’infiltrazione
dell’acqua nel legno ed il diffondersi del micelio
fungino. Allora l’agronomo inviato dalla
Provincia di Genova, in occasione del censimento degli alberi di notevole interesse, non aveva
escluso che la pianta sarebbe potuta morire “nel
giro di qualche anno”. Per questo era stato consigliato un intervento di “dendrochirurgia”.
Grazie al Comando Forestale di Gattorna è
stato possibile, a distanza di 8 anni, stabilire,
benché con un buon margine di approssimazione, l’età di due delle querce secolari citate, fortunatamente ancora in vita.
Secondo quanto risulta dalla misurazione effettuata in data 28-9-1997, l’esemplare più grande
ha un’età compresa tra 280 e 310 anni.
La stima è stata fatta contando i cerchi su una
carota lunga un quinto del diametro complessiPteride di Creta (foto R. Spinetta).
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Roverella secolare a Montefinale (foto R. Spinetta).
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vo del tronco (130 cm).
I numerosi incendi che hanno interessato la
zona e le parassitosi che hanno colpito la pianta
hanno reso difficile una datazione più precisa.
Con un ipsometro è stata misurata l’altezza:
14.5 m. Questo esemplare è attaccato da Carie
bruna e da coleotteri lignicoli: Cerambix cerdo e
Corebus fasciato.
L’edera che ricopre la pianta, al momento sembra non comprometterne la sopravvivenza.
Il secondo esemplare ha uno sviluppo minore; è
alto 12 m ed ha un diametro di 105 cm. L’età
stimata analizzando i cerchi di circa un quarto
del diametro complessivo è di 240-260 anni.
In entrambi i casi ed in particolare nel primo
esemplare, la carota estratta ai fini della datazione sembra carbonizzata in alcuni punti. Secondo
la Guardia Forestale il fatto testimonia il passaggio di un grosso incendio in anni passati.
La fauna
L’insieme di tutti gli animali di ogni classe,
famiglia, genere e specie costituisce la fauna di
un luogo. Il complesso e variegato insieme di
forme di vita animale che vivono e si relazionano in un ecosistema garantisce ad ogni ambiente un alto tasso di biodiversità e una buona
capacità evolutiva.
La fauna, così come la flora, costituisce un
patrimonio di inestimabile valore per ogni territorio montano.
L’area di tutta la Val Fontanabuona si trova, per
la sua particolare conformazione, a metà tra il
mondo montano, quasi alpino, e quello mediterraneo. La fauna di un territorio, soprattutto
se in gran parte seminaturale, è talmente vasta
che è impossibile elencare tutte le specie, dal
più piccolo insetto al più grande mammifero.
Quindi, in questo contesto, che si pone come
uno spunto di ricerca e informazione, si presentano le specie più appariscenti, più rare o al
contrario più comuni dell’intera area; leggerete
di industriosi formicai, di grandi e grufolanti
cinghiali e di eleganti daini dai palchi palmati.
Per semplicità, dividiamo le specie animali in
classi d’appartenenza:
- Mammiferi
- Uccelli
- Anfibi
- Pesci
- Rettili
- Insetti
Tra i Mammiferi, gli esemplari di più grandi
dimensioni e di maggior impatto ambientale
sono il cinghiale (Sus scrofa), il daino (Dama
dama) e in zona di confine il capriolo (Capreolus
capreolus).
Il cinghiale fa parte della famiglia dei Suidi ed
è, perciò, un parente stretto del maiale. Ha una
lunghezza, dalla testa alla coda, che può arrivare a due metri; possiede una folta pelliccia ispida, dal grigio al nero, e un muso lungo e mobile.
I canini sono ben sviluppati e costituiscono
zanne lunghe fino a trenta centimetri nei grossi maschi. I giovani hanno strie chiare lungo il
corpo. Vive in Europa nei boschi decidui, ma
non ci sono esemplari in Gran Bretagna e
Scandinavia. Si nutre soprattutto di radici,
bulbi, ghiande, faggiole, ma a volte è carnivoro.
La varietà introdotta e sviluppatasi dal dopoguerra ad oggi è spesso frutto di discutibili
incroci con il maiale. I “porcastri” che si ottengono da questi ibridi sono simili al cinghiale,
ma hanno il naso meno dritto e più simile al
grugno del maiale. I porcastri sono dannosi per
i raccolti poiché scavano alla ricerca di tuberi e
ortaggi.
Il daino (Dama dama) è un ungulato arrivato da
più di un decennio nel territorio della Val
Fontanabuona. È un cervide alto fino a un
metro dal garrese. Presenta molte varietà di
colore, ma generalmente le parti superiori sono
giallo-rossastre con macchie bianche e parti
inferiori bianco-giallastre. In inverno è più grigio con macchiatura meno evidente. Il sottocoda ha un disegno bianco e nero molto vistoso, la
coda è lunga ed ha una stria nera mediana. Le
corna, che cambiano ogni anno dopo la caduta,
acquistano dimensioni o palchi secondari.
Hanno un ramo palmato e appiattito.
Vive bene nelle foreste decidue e miste con sottobosco e radure. È una specie a probabile ori-
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Salamandrina dagli occhiali (foto R. Bernardello).
gine mediterranea. Si nutre di erba, arbusti e
bacche. In inverno si ciba dei germogli e della
corteccia di alberi giovani.
Altri mammiferi particolari di dimensioni inferiori sono: mustelidi, carnivori, roditori e insettivori.
Tra i mustelidi ricordiamo la faina (Martes
foina) che mangia toporagni, uccelli e persino
rane e lucertole, ma anche bacche e frutta.
Spesso costruisce tane anche nelle stalle.
Altri mustelidi comuni sono la donnola
(Mustela nivalis) e il tasso (Meles meles). La
donnola è il carnivoro europeo più piccolo. È
bruno-rossastro sul dorso e bianco con qualche
segno brunastro sul petto. Il tasso è un grosso
mammifero che arriva alla lunghezza di 1
metro. Ha corpo massiccio e appiattito e un
muso lungo e affusolato. Il capo è curioso:
bianco con un’evidente striscia nera su ciascun
lato che passa attraverso gli occhi e arriva alle
piccole orecchie dalla punta bianca.
Frequentando, spesso, le siepi e le strade è una
specie molto vulnerabile agli incidenti stradali.
Tra i carnivori, il più comune è la volpe (Vulpes
vulpes), mentre si iniziano ad avvistare le tracce del lupo (Canis lupus) nell’area del M.
Caucaso ai confini con la Val d’Aveto.
Tra i roditori ricordiamo la lepre comune
(Lepus capensis), agile e snello parente del coniglio domestico, lo scoiattolo rosso (Sciurus vulgaris), ghiotto amante di semi, nocciole e germogli di albero, il ghiro (Glis glis), simile ad un
grosso topo campagnolo, ma con un vistoso
anello scuro intorno agli occhi ed una lunga
coda cespugliosa, il topo selvatico (Apodemus
sylvaticus), il topo domestico (Mus musculus), il
toporagno (Sorex araneus).
Per concludere questa rapida carrellata sui
macro e micromammiferi della zona ricordiamo alcuni insettivori come i pipistrelli e i
vespertilii, la talpa (Talpa europaea) e il riccio
(Erinaceus europaeus) che non è una specie
esclusivamente insettivora, mangiando, infatti,
anche frutta e funghi.
Una nota particolare sul riccio, un simpatico
animale che, come il tasso, subisce spesso inci-
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Ammasso di uova di rana rossa (foto R. Spinetta).
denti stradali. I suoi aculei marroni e neri con
punte bianche sono peli modificati. Dietro il
capo sono divisi da una stretta linea di separazione. Il muso, le parti inferiori e gli arti sono
coperti da peli morbidi. Il riccio è quasi completamente notturno, è molto rumoroso mentre
cerca il cibo e, se disturbato, si può arrotolare
su sé stesso formando una palla.
Tra gli uccelli, nei cieli e nei boschi dell’area
troviamo: rapaci diurni e notturni, anatidi,
ciconiformi, galliformi, limicoli, columbiformi,
coraciformi, piciformi, passeriformi, silvidi,
lanisi, fringillidi ed altri gruppi o famiglie
minori.
Se si pensa, comunque, che nidificano in
Europa circa 470 specie, inclusi i migratori che
in primavera giungono dall’Africa e che tutta la
Classe degli Uccelli comprende circa 9000 specie conosciute, sarà comprensibile se si descrivono, in questo contesto, solo le specie più
appariscenti o comuni.
La poiana (Buteo buteo) è simile ad una piccola
aquila, ma ha la coda arrotondata. Ha un piu-
maggio marrone, le ali sfrangiate ai bordi.
Nidifica su alberi e, più raramente, sporgenze
rocciose.
Il gheppio (Falcus tinunculus) è più piccolo
della poiana. È veloce e “nervoso” nel volo. Ha
le ali appuntite alle estremità. Si nutre di roditori e insetti.
La civetta (Athene noctua) è piccola e notturna.
Ha la testa appiattita e grandi "occhiali" bianchi intorno agli occhi. Non ha, al contrario del
gufo, ciuffi auricolari.
L’allocco (Strix aluco) è un rapace notturno con
occhi neri e forma tozza, può essere bruno o
grigio ed è molto comune.
Il barbagianni (Tyto alba) è diverso dall'allocco
perché ha la faccia a forma di cuore e una folta
piumatura. Ha un colore chiaro, anche se esistono forme dal petto scuro.
L’airone cinerino (Ardea cinerea) è il parente
"nostrano" della gru. È grigio chiaro e bianco;
caccia rimanendo immobile nell'acqua e facendo scattare il lungo collo chiaro.
Il fagiano (Phasianus colchicus) è un uccello
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Geometride su carpino (foto R. Spinetta).
piuttosto comune di origine asiatica. È una
specie cacciabile e per questo frutto di immissioni mirate da parte dell'uomo.
La pernice rossa (Alectoris rufa) è un galliforme
non molto comune, ma presente ancora nell'area del M. Caucaso. Ha becco e zampe rosse e
piumaggio colorato.
La beccaccia (Scolopax rusticola) è un limicolo
dal lungo becco e zampe sottili. Vive nelle aree
umide ed è ormai molto rara.
La tortora (Streptopelia turtor) è un columbiforme comunissimo, noto per il suo canto e
per la sua livrea. La si osserva posata sui fili
della luce soprattutto a primavera, periodo dei
richiami d'amore.
La ghiandaia (Garrulus glandarius) è un grosso
uccello che vive nei querceti, ma non solo, con
una zona bianca e azzurra tipica sulle ali. È una
specie molto attiva e rumorosa.
Il martin pescatore (Alcedo atthis) ha il dorso
verde e azzurro e le parti inferiori arancioni.
Vive nei torrentelli puliti dove si nutre di piccoli pesci.
L'upupa (Upupa epops) è detta anche "galletto
di marzo" per il suo ciuffo di penne sul capo. È
giallo scuro, molto appariscente: per questo,
nidifica in cavità nascoste negli alberi o nei
muri.
Il picchio verde (Picus viridis) è un grande picchio con il dorso verdastro ed il groppone giallo. Ha un volo ondulato. È bello da vedere e
piuttosto comune.
Il picchio rosso (Dendrocopos major) è il picchio
più diffuso in Europa. Il maschio ha la nuca ed
il sottocoda rossi. È solito incastrare le nocciole in fessure della corteccia e percuoterle col
becco per aprirle.
La capinera (Sylvia atricapilla). Ha un bel cappuccio, nero nel maschio e rosso nella femmina. Inizia col suo canto a febbraio ed è una
delle prime specie di piccoli uccelli a fare le sue
parate aeree d'amore in primavera.
L’averla minore (Larius collurio) è un uccello
insettivoro, tanto che ha il becco a uncino. Gli
occhi del maschio sono circondati da una
banda orizzontale nera, mentre le ali sono color
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nocciola. La femmina, meno appariscente,
nidifica su cespugli e piccoli alberi.
Il fringuello (Fringilla coelebs) è uno degli
esemplari più noti dell'avifauna locale. È un
granivoro molto colorato riconoscibile per la
barra alare ben evidente soprattutto allo scatto
del volo.
Gli Anfibi e i Rettili sono animali più primitivi
dei precedenti; sono piuttosto comuni su tutto il
territorio in relazione alle condizioni climatiche
generali e alla presenza di microambienti umidi
e a volte temperati come stagni, rii, cunette e
torrenti.
Tra gli Anfibi più diffusi ci sono la rana temporaria, la rana dalmatina (o agile) e il rospo.
Inoltre, ai confini con il comune di Favale, troviamo la salamandrina dagli occhiali.
La rana temporaria (Rana temporaria, L.) è una
specie presente in tutta Europa tranne che nelle
Alpi Apuane. È una rana rossa grande e robusta. Il maschio è più piccolo della femmina. In
tutti gli esemplari, le zampe sono relativamente
corte e, di norma, il tallone non arriva oltre il
muso. È più diffusa nel versante padano
dell’Appennino che in quello tirrenico.
La sua etologia è complessa: l’accoppiamento
avviene tra la fine di febbraio ed aprile, a seconda dell’altitudine, quando la neve inizia a sciogliersi.
Le uova tendono a rimanere sul fondo degli
specchi d’acqua e appaiono, nel complesso,
come formazioni gelatinose anche di alcuni
metri quadrati. È curioso notare come le uova,
rimaste all’asciutto e ricche di proteine, sono
spesso predate dalle formiche. La rana temporaria è tutelata dalla Legge Regionale 4/92.
La rana agile (Rana dalmatina) è una rana scura
distribuita nel versante tirrenico nell’area del
M. Caucaso. Essa depone uova in acque pressocché ferme e ricche di vegetazione dove c’è
ghiaia, sabbia e limo. Gli accoppiamenti iniziano nella seconda metà di febbraio. Una femmina depone fino a 2000 uova in masserelle sferiche che gonfiano una volta deposte in acqua. È
una specie molto facilmente adattabile.
Il rospo comune (Bufo bufo) è comunissimo in
Europa, Africa nord-occidentale, Asia settentrionale e temperata. È tipica la sua migrazione
locale nel periodo degli amori. Gli spostamenti
avvengono in primavera guidati da secrezioni
ormonali determinate, a loro volta, da cambiamenti di temperatura e umidità. In inverno i
rospi vanno in ibernazione.
Una nota particolare merita la salamandrina
dagli occhiali (Salamandrina terdigitata). Essa è
una piccola salamandra scura con le zampe, il
petto e il contorno occhi roseo-rosso.
È una specie endemica dell’Appennino italiano.
Vive nei boschi di latifoglie (castagno, carpino
bianco, faggio, ontano). È una specie terragnola reperibile allo scoperto solo in giornate di
pioggia o con elevata umidità. Si riescono ad
osservare gli individui per lo più di marzo e
maggio nei pressi dei siti riproduttivi (torrentelli, aree umide rocciose), conservati di anno in
anno.
La femmina depone fino a cinquanta uova che
aderiscono a rametti e steli d’erba che assumono così le sembianze di manicotti gelatinosi.
Più comune è, infine, la salamandra pezzata o
salamandra giallo-nera, riscontrabile nei boschi
dopo le piogge e comunque sempre nelle aree
piuttosto umide.
La salamandra è una specie ovovivipara che
partorisce fino a settanta larve. La fecondazione avviene in tempi molto diversi dall’accoppiamento.
Più evoluti e affrancati dall’ambiente acquatico
sono i Rettili. Numerose sono le specie che
vivono in questo territorio, tra le cenge rocciose, i boschi di latifoglie, nei corsi d’acqua.
Le specie più comuni sono: orbettino, ramarro,
lucertola muraiola, biacco, colubro di Esculapio,
natrice dal collare, vipera comune.
L’orbettino (Anguis fragilis) è un rettile innocuo
lungo e liscio perché ricoperto da scaglie piccole. È una specie ovovivipara che “partorisce” da
sei a dodici piccoli dopo una gestazione di circa
tre mesi. Si nutre di lombrichi e insetti. Il suo
peggior nemico è il fuoco.
Il ramarro (Lacerta viridis) è una specie tipicamente europea assente in Sardegna.
Quelli che normalmente si incontrano sono i
- 74 -
maschi colorati e aggressivi. A fine primavera
essi lottano ed è curioso notare come l’esemplare sconfitto, ritirandosi, lasci dei segni con le
zampe sul terreno.
La lucertola muraiola (Podarcis muralis) è onnipresente in Liguria. Va in letargo da novembre
a febbraio; anche in questo caso i maschi combattono violentemente.
Le uova sono deposte in buche sotto i sassi. È
una specie tipicamente insettivora.
Il biacco (Coluber viridiflavus) è una specie
cosmopolita capace di nuotare e arrampicarsi
sulle rocce. È abitudinario e territoriale, tanto
che occupa lo stesso rifugio per molti anni.
Il colubro di Esculapio, detto anche saettone
(Elaphe longissima) è la comune “biscia scura”;
ha un corpo lunghissimo e affusolato dal colore
omogeneo tra il marrone e il verde oliva. Vive
ovunque e anche vicino alle case di campagna.
Si nutre di piccoli uccelli, soprattutto nidiacei.
Si arrampica spesso lungo i tronchi degli alberi.
La natrice dal collare (Natrix natrix) è la comune biscia d’acqua. È una specie ovipara che ha la
sua piena attività tra marzo e novembre; in
inverno vive in aree riparate e non disdegna
vecchie stalle e cantine. Si nutre di anfibi, lucertole, uccelli, pesci e talvolta anche insetti. La
natrice scappa raramente se attaccata, a volte
getta il cibo addosso all’aggressore ed emette
anche odori nauseabondi, fino a fingersi morta.
Infine, la temuta vipera o “aspide” (Vipera aspis).
Essa vive di preferenza in piccole radure erbose
circondate da pietraie. Ad una temperatura di 2° C può anche morire, mentre vive benissimo a
29° C. I primi esemplari ad incontrarsi, nel
periodo febbraio-marzo, sono i maschi. Essa si
nutre di: roditori, lucertole, nidiacei e invertebrati. I suoi nemici sono: l’uomo, il cinghiale, il
tasso, il riccio, il biancone e il biacco. Solo l’1%
degli esemplari risulta letale per l’uomo.
Fauna minore: conoscerla per non perderla
La Legge Regionale 22 gennaio 1992 n. 4
“Tutela della Fauna minore” sottopone a tutela
le specie maggiormente minacciate e ne protegge gli habitat promuovendo studi e ricerche.
La fauna minore è l’insieme delle specie animali presenti nella regione con la sola esclusione dei vertebrati omeotermi (uccelli e mammiferi) e dei pesci.
Per correttezza ed informazione si elencano di
seguito le specie protette e che quindi, durante
le escursioni e le esplorazioni al mare o in montagna, si dovranno osservare con un “occhio di
riguardo”.
- Chiocciola (Helix pomatia, Helix aspersa);
- Formica rossa (Formica rufa);
- Gambero di fiume (Austropotamobius pallipes);
- Granchio di fiume (Potamon fluviatile);
- Salamandra pezzata (Salamandra salamandra);
- Salamandra dagli occhiali (Salamandra terdigitata);
- Tritone (Triturus sp.);
- Geotritone italiano (Speleomantes ambrosii);
- Ululone dal ventre giallo (Bombina variegata);
- Rospo comune (Bufo bufo);
- Rospo smeraldino (Bufo viridis);
- Pelodite punteggiato (Pelodytes punctatus);
- Raganella comune (Hyla arborea);
- Raganella mediterranea (Hyla meridionalis);
- Rana agile (Rana dalmatina);
- Rana greca (Rana italica);
- Rana temporaria (Rana temporararia);
- Rana verde minore (Rana esculenta);
- Tartaruga marina comune (Caretta caretta);
- Tartaruga franca (Chelonia mydas);
- Tartaruga liuto (Dermochelys coriacea);
- Tartaruga embricata (Eretmocheys imbricata);
- Testuggine d’acqua (Emys orbicularis);
- Geco comune (Tarentula mauritanica);
- Geco verrucoso (Hemydactilus turcicus);
- Tarantolino (Phyllodactylus europaeus);
- Lucertola ocellata (Lacerta lepida);
- Ramarro (Lacerta viridis);
- Lucertola muraiola (Podarcis muralis);
- Lucertola campestre (Podarcis sicula);
- Orbettino (Anguis fragilis);
- Luscengola (Chalcides chalcides);
- Biacco (Coluber viridiflavus);
- Saettone (Elaphe longissima);
- Colubro bilineateo (Elaphe scalaris);
- Colubro lacertino (Malpolon monspessulanus);
- Biscia d’acqua (Natrix natrix);
- 75 -
-
Biscia viperina (Natrix maura);
Biscia tassellata (Natrix tassellata);
Colubro liscio (Coronella austriaca);
Colubro di Riccioli (Coronella girondica).
Il mondo nascosto
In tutto il vasto “regno” degli animali pluricellulari, l’80% di tutte le specie hanno dimensioni ridotte. Alcune sono quasi invisibili, altre
sono grandi quanto un palmo di mano. Tutte
però hanno forme e adattamenti straordinari.
Ci sono per esempio animaletti che vivono nel
suolo. Un entomologo valutò che in uno strato
di superficie di venti centimetri quadrati in
un’area di prato c’erano circa 230 milioni di
animali.
In Europa esistono decine e decine di migliaia
di specie di insetti. Un “mondo nascosto” che
sarà bello scoprire lungo i sentieri con la discreta curiosità di una lente o semplicemente con
occhio pronto alla novità.
Tra le numerose specie presenti nei boschi e nei
prati del Comune di Neirone vi presentiamo le
più appariscenti.
Tra i prati e le boscaglie vivono creature affusolate e scure: si tratta dell'insetto stecco
(Bacillus rossii), un insetto dell'Ordine dei
Fasmidi simile ad un ramoscello e con potenti
mascelle per mangiare le foglie.
I fasmidi sono rarissimi in Italia, mentre sono
frequenti nelle regioni tropicali, dove hanno
forme e colori tanto mimetici da confondersi
con le foglie e i fiori della foresta.
Molto vicine ad essi dal punto di vista filogenetico, le mantidi (Mantis religiosa) sono ben
più comuni; hanno zampe anteriori raptatorie e
fortemente spinose. Sono molto mimetiche; la
femmina uccide il maschio subito dopo l'accoppiamento e depone le uova in "ooteche",
sorta di casette coloniali che in dialetto vengono chiamate "zerbeghe".
Simili alle mantidi, perché dotati di ali robuste,
sono i grilli (ord. Ortotteri). Oltre al rarissimo
grillo canterino (Gryllus campestris L.), ricordiamo il grillotalpa (Gryllotalpa gryllotalpa),
con le zampe anteriori corte e larghe, differen-
ziate come organo scavatore.
Uno sguardo particolare meritano le edipode
(Acrididae), che popolano, in estate, le sterrate
aride dei nostri monti. Si tratta di cavallette
scure e molto mimetiche, con doppio paio di
ali, uno scuro e protettivo, l'altro colorato e
strategico. L'edipoda può essere rossa
(Edipodea germanica) o azzurra (Edipodea coerulea). In entrambi i casi, gli esemplari sono
scuri in assenza di pericolo. Diventano appariscenti quasi come lampi di luce quando un
pericolo si avvicina loro. Spiegano velocemente
le ali inferiori e spiccano veloci e brevi voli.
Altro insetto comune e di grande "compagnia"
in estate è la cicala comune (Lyristes plebeius). Il
maschio ha sul "ventre" una sorta di tamburo
vibrante che serve da richiamo. Vive negli uliveti ed è perfettamente mimetica. Spesso è
posata sui tronchi. Infatti, essa si nutre della
linfa dell'ulivo fin dal suo stadio larvale.
Insetto molto "antico" dal punto di vista evolutivo ed elegante è la libellula.
Ci sono moltissime varietà di libellule lungo
l'Appennino, tanto che nella Riserva Naturale
Orientata delle Agoraie nel 2000 sono stati
fatti studi specifici da parte del Corpo
Forestale dello Stato ed altri sono in corso in
Italia.
Due sono, comunque, le forme diverse che possono avere le libellule: leggera e colorata come
la damigella (Agrion splendens) o rigida e superba come la libellula comune (Aeshna grandis),
detta anche "cavaocchi" in dialetto. Ha un fare
aggressivo con chi si avvicina ai posatoi (una
foglia, un apice di ramo, etc.) su cui trascorre la
maggior parte della sua vita da cacciatrice.
Tra gli insetti più noti ci sono le farfalle. Esse
si distinguono in diurne e notturne in base alla
forma delle antenne e ai colori.
Le farfalle diurne hanno solitamente antenne
clavate o filiformi con cui percepiscono essenze e ormoni, hanno ali colorate e spesso ingannevoli al predatore per la presenza di ocelli,
ossia occhi dipinti (l'esempio più noto è quello
della Vanessa io). Altre hanno le ali molto chiare: la cavolaia (Pieris sp.) è la prima a "farsi
vedere" a primavera ed è quasi totalmente
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bianca. Simili, ma più piccole e più scure sono
le galatee (Melanargia sp.), comunissime nell'area di Cabanne e Ventarola (Val d'Aveto).
Un'eccezione alla regola: una farfalla diurna
molto scura. Si tratta del silvano o camilla
(Limenitis camilla) che, con le ali chiuse sul
corpo, è marrone con una grande stria lattea
verticale. Numerose sono poi le farfalle di piccole dimensioni: l'esperia (Pyrgus malvae), il
silvano (Ochlodes venatus), la lucina (Hameorus
lucina), l'aurora della cardamine (Anthocharis
cardaminis) e le licene, tra cui l'argo bronzeo
(Licaena phlaeas) e l'argo azzurro (Polyommetus
icarus), detta anche Icaro.
E le farfalle notturne?
Sono diverse, hanno le antenne molto corte,
ma sviluppate. Tre le più belle farfalle che si
conoscano nel territorio c’è la pavonia o saturnia del pero (Saturnia pavonia L.). Essa ha
grandi ocelli sulle ali e dimensioni di un piccolo palmo di mano. Ci sono poi le sfingi o testa
di morto (Sphynx sp); tra di esse ricordiamo la
sfinge del ligustro e la sfinge "testa di morto",
grande come un piccolo scricciolo. Esistono
poi i bombici, parenti dei bachi da seta, farfalle vellutate e scure (il bombice della quercia è
marrone e giallo) che vivono sulle latifoglie.
Non si possono dimenticare le zigene, chiamate anche "preti". Le zigene (Zygaenidae) propriamente dette sono nere e rosse, hanno riflessi metallici e antenne a clava. La varietà più
nota è la zigena della filipendula )Zygaena filipendulae) con due paia di ali neroverde l'una e
rossa con il bordo nero l'altra. I "preti neri"
sono dette amate (Amatidi). La specie
Synthomis phegea è nera con punti bianchi,
comunissima in tutti i prati a sfalcio e nei
boschi.
Ultimo insetto che citiamo, conosciuto dai
pescatori e da tutti i curiosi frequentatori di
Argiope o ragno tigre (foto R. Spinetta).
ruscelli e fiumi, è il portasassi o frigana. Questi
esemplari, accomunati nel gruppo dei
Tricotteri, sono dei veri e propri ingegneri: allo
stadio larvale, infatti, si costruiscono astucci di
sassolini o di foglie (portalegni) a protezione
del corpo larvale.
Diversi dagli insetti, avendo otto zampe e origini più antiche sono gli scorpioni, i ragni e gli
acari.
Tra i ragni ricordiamo, per la complessa e
curiosa etologia, il ragno tessitore: l'argiope. La
specie Argiope fasciata costruisce la tela adornandola con una striscia di seta a zig-zag che
ne attraversa il centro. Ogni tela però ha un
segno diverso: un ragno egocentrico!
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IL PAESAGGIO
Raffaella Spinetta
Un mare dai monti
E per concludere questa parte prettamente
naturalistica, vi consigliamo di scegliere una
giornata tersa di ottobre-novembre, salire sulla
vetta del M. Lavagnola e fermarvi a guardare:
scoprirete... un mare di monti.
Dal M. Lavagnola (1118 m) non molto elevato,
ma con una posizione strategica, si vede quasi
l'intera Liguria, dal Golfo di Portofino alle Alpi
Marittime, in un arco di paesaggi e suggestioni.
Giunti al cippo piramidale in memoria delle
guerre austriache, la vista spazia ad Est sui
Monti Pegge (774 m), Lasagna (756 m),
Manico del Lume (801 m), Borgo (732 m),
Bello (713 m). Questa corona di rilievi nasconde il golfo di Portofino, di cui si vedono, però, il
monte ed il promontorio. Oltre il M. Bello, le
gobbe dei monti arrivano al M. Fasce attraverso il M. Tugio (677 m), presso Uscio, il M.
Becco (894 m), oltre Cornua, il M. Bado (911
m) ed il Monte Croce dei Fo' (975 m) vicino a
Bargagli e Traso. Il golfo di Genova non si
lascia vedere e ci "abbandona" per farci, invece,
scorgere le Alpi Marittime, uno sfondo ad
Ovest del M. Antola (1597 m), riconoscibile
per la forma regolare ed il crinale lungo.
Oltre le Alpi Marittime, le creste delle Cozie e
avanti, fino a quando la realtà sconfina con la
fantasia e ci lascia immaginare su quei monti
ghiacciai e nevai, mentre siamo seduti a pochi
chilometri dal mare.
Ad Est e in linea d'aria vicini a noi ci sono il M.
Caucaso (1245 m) con il M. Rocio (852 m)
subito accanto, il M. Ramaceto (1345 m) che
mostrano da lontano la loro morfologia e le
rocce sedimentarie di cui sono formati.
A Nord nelle giornate più terse si possono riconoscere il crinale a "panettone" del M. Aiona ed
il Maggiorasca (1899 m), la cima più alta
dell'Appennino Ligure.
Panoramica dal M. Lavagnola (foto R. Spinetta).
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GUIDA ALL’ITINERARIO DEI FEUDI FLISCANI
E ALLE PRINCIPALI VIE ESCURSIONISTICHE
Raffaella Spinetta
Sentieristica generale (su concessione di SAGEP, Libri & Comunicazione).
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Mappa dell’Itinerario dei Feudi Fliscani.
L’Itinerario dei feudi fliscani
dislivello in salita: 205 m
lunghezza: 20 km
Dati per l’escursionista
punto di partenza consigliato: chiesa di San
Giacomo a Gattorna
tempo di percorrenza in salita: ore 5
dislivello in salita: 928 m
lunghezza: 16 km
MTB: in parte
Dalla deviazione tra Neirone e Roccatagliata:
tempo di percorrenza in salita: ore 5
Percorrenza
Tre lettere, IFF, contrassegnano le tappe di
questo lungo percorso che da Gattorna giunge
fino a Torriglia.
L’Itinerario è dedicato ai Fieschi, conti di
Lavagna, che furono feudatari di Roccatagliata,
Torriglia e di numerosi altri siti appenninici.
Secondo l’Associazione Culturale “Colombo
Fontanabuona 2000” a cui, insieme alla
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Comunità Montana Fontanabuona, alla
Provincia di Genova e ai Comuni di Moconesi
e Neirone, si deve il recupero di questo percorso, l’itinerario avrebbe potuto essere denominato anche “Via Patrania”, in onore dell’antica
strada di fondovalle e della sua prosecuzione
montana verso Torriglia, o “Strada
dell’Avvocazia”, a ricordo di una particolare
istituzione medioevale a carattere amministrativo e fiscale, riferibile alla presenza nelle Pievi
di Recco, Camogli, Rapallo e Uscio del clero
milanese, qui rifugiatosi all’arrivo dei
Longobardi nell’anno 569 (Associazione
“Colombo Fontanabuona 2000” 1997).
L’IFF è stato suddiviso in trenta tappe, illustrate chiaramente dal relativo pieghevole, di cui
riportiamo i particolari funzionali alla descrizione.
Ogni tappa è raggiungibile a piedi e a volte con
i pullman di linea della Tigullio Trasporti da
Genova e da Chiavari o, per Gattorna, anche
con i pullman AMT in partenza da Genova.
L’Itinerario inizia a Gattorna nei pressi del
Cimitero comunale e a poche centinaia di
metri dalla confluenza del torrente Neirone
con il Lavagna. In quest’area si sente molto
l’influenza antropica. Esistono roveti e prati in
abbandono poco sopra la strada provinciale che
dalla chiesa di Gattorna porta a Neirone.
Nel tratto che da Gattorna conduce a Beo
Grande, il sentiero serpeggia stretto e ombroso,
fra boscaglie e rii, frequenti e saltuari smottamenti che rendono il percorso difficoltoso ma
gratificante per la frescura e la presenza, in
autunno, delle più belle e rigogliose fioriture di
ciclamino a foglie d’edera dell’intera Val
Fontanabuona.
Tutto il primo tratto individuato costeggia il
torrente Neirone. Nell’ambiente ripariale che si
crea si scorgono fronde di felce dolce, muschi,
licheni, funghi saprofiti e necrofili (amanti del
legno morto).
L’Itinerario è pressoché omogeneo sino a Beo
Grande (tappa 2); da qui si incontrano numerosi guadi. Siamo a 250 m s.l.m., una quota
modesta che consente, tuttavia, l’espansione di
specie eliofile e mediterranee amanti della luce.
Scale in ardesia sui muri reggi fascia, particolare della
cultura contadina lungo l’IFF (foto R. Spinetta).
È il regno dell’ontano, dalle radici coralline e
ricche di batteri per la sintesi dell’azoto.
Da Beo Grande si giunge lentamente, dopo
quasi duecento metri di cammino, al bivio per
una nota centrale elettrica (tappa 3), dove la
vista è impressionata da grandi opere idrauliche, piccoli laghetti e fronde di felci curiose e
particolari: la pteride di Creta.
I grossi massi erratici in arenaria testimoniano
tempi in cui la gravità e la forza delle acque
erosero le aree più alte dei Monti Bragaglino,
Carpena e Lavagnola, nel bacino idrografico
del torrente Neirone.
Si risale, quasi in piano, fino al bivio per
Carpeneto, area agricola di importanza storica
per la coltivazione della patata e per l’orticoltura locale, oltre che area tipica del carpino nero
(Ostrya carpinifolia) e del nocciolo. Nelle radure a fine febbraio spuntano bucaneve, primule e
crocchi, mentre le rocce stillicidiose ospitano,
in questi siti, le lunghe fronde della felce scolo-
- 83 -
pendria.
Siamo ormai prossimi a Neirone (tappe 5 e 6)
dove, in località Rosasco, si trova un bellissimo
mulino, conservato e gestito ancora con cura.
Lasciato Rosasco, si giunge alla piazza della
sede comunale. Vicino ad essa, oltre al palazzo
municipale che reca sulle pareti il dipinto del
castello fliscano, si trovano la chiesa e la statua
del soldato, simboli in contrasto ma ben rappresentativi dell’animo battagliero dei fontanini.
A questo punto, si sale lungo la scalinata in
cotto che fiancheggia la sede comunale per
attraversare poi fasce e coltivi. Si arriva dopo
un po’ a Bivio Crocetta (tappa 7), un’area fortemente antropizzata con qualche appezzamento di pineta a pino nero.
L’orografia appare pianeggiante. Tutta questa
zona a maggio è ricoperta da sporadiche, ma
appariscenti fioriture a ginestra.
In prossimità della diramazione per Corsiglia e
Roccatagliata, a più di 500 m di quota e a circa
un terzo del nostro percorso, si giunge ad una
località chiamata Cossu (tappa 8). È un regno
di confine tra castagneti e prati a sfalcio abbandonati dove si intrecciano vie arginate da lastre
d’ardesia a coltello e numerosi piccoli ponti,
testimoni del grande flusso di viandanti nel
passato. È molto significativo per la zona il
ritrovamento della cosiddetta Tomba di
Roccatagliata, una scatola mortuaria in ardesia
attualmente conservata presso il Museo
Archeologico di Pegli e databile al V-VI secolo
a. C. In questi sistemi ambientali vivono il cinghiale, la volpe, la faina e il tasso, che scava il
suo nido in ripari del bosco e spesso crea delle
vere e proprie aree per i suoi “rifiuti organici”
chiamate “latrine”. A maggio i prati di Cossu
fioriscono di fiordalisi, valeriana e carote selvatiche.
Da Cossu, il sentiero sale verso Roccatagliata,
area terrazzata di castagneti, al limite della loro
temperatura ottimale (tappe 9-10-11).
Il microclima delle boscaglie e delle rupi è
freddo e umido tanto che, da qui fino al Passo
del Portello, dove arriveremo solo dopo altre
tappe di rilievo storico e paesaggistico, fiori-
scono piante come la sassifraga e l’arabetta
alpina. L’uomo coltiva, nelle aree ruderali,
soprattutto legumi - come fave e piselli - e la
nota patata quarantina, promossa in queste
valli da Don Michele Dondero nel XVIII secolo.
A questo punto si segua con attenzione il tracciato del sentiero.
Dalla tappa 12 (Roncodonico), un ponte
“romano” ci invita al percorso. Si tratta del
ponte delle Ferriere, di straordinaria precisione
architettonica, che si fa risalire all’epoca romana. Ha un solo arco che sovrasta il rio del
Cerrale. Lungo gli argini e nel greto affiorano
argilloscisti e arenarie spesso in grandi massi.
Un regno di felci, anfibi e rettili. Tra i numerosi ricordiamo la coronella (o colubro di
Esculapio), un ofide veloce, scaltro e completamente inoffensivo. Tra le specie floristiche rare
protette ci sono la dafne laureola o pepe montano, il pungitopo, l’orchidea maculata e molti
arbusteti lianosi.
Le tappe 13, 14, 15 e 16 del sentiero sono punti
cruciali del percorso. Attraversiamo distese di
castagneti intercalati da lande ad erica arborea
all’interno della valle formata dal M.
Borghigiano ad Est e dai Monti Carpena e
Perdono ad Ovest, ricca di torrentelli e vallecole umide ideali per la vita delle felci.
I borghi che incontriamo da qui a poco sono
Isola e Bassi; ruderi, fienili, mulini sono i protagonisti quasi indisturbati di questi luoghi.
I fienili sono costruiti con modalità uniche:
assomigliano ai barchi della Val d’Aveto, ma
hanno tetti fissi in legno a spioventi molto
inclinati. Ciò ci dimostra che anni fa, quando
l’agricoltura era più sviluppata, le precipitazioni nevose erano molto più frequenti di oggi.
Lasciata la zona di Bassi, si giunge a 750 m di
quota, nel nucleo di Siestri. Siamo a metà del
percorso. Fermiamoci un bel po’ in questo
luogo di suggestione e ricordi: case in pietra a
vista, fontane, scale in pietra, pertiche fisse nei
muri, vitalba e rovi che ricoprono appezzamenti di terreno indisturbati.
Il versante nudo e aspro del M. Lavagnola spazia negli orizzonti di Siestri come un panetto-
- 84 -
ne crespato. Da qui si sale al M. Carmo, si tralascia il bivio per Sciarre e si prosegue lungo un
sentiero irto e non sempre facilmente percorribile a causa della florida vegetazione. Tra
boschi misti ad ontano e castagno, con qualche
lembo di robinia e tante aree a felce aquilina, si
prosegue fino a giungere sulla strada provinciale che conduce al Passo del Portello.
Percorrendo la strada asfaltata, si notano nelle
rocce stillicidiose cespi di sassifraga e, in inverno, lingue e denti di ghiaccio. A quota 1092 m
si giunge al Passo del Portello. Faggete, boschi
ad ontano bianco, diverso dal comune ontano
perché possiede foglie appuntite e non tronche,
cespuglieti e radure con fioriture a senecio giallo, ci accompagnano alla vetta del M.
Lavagnola.
Il M. Lavagnola è una vetta ragguardevole; i
suoi 1118 m di quota consentono di avere la
visuale su un panorama immenso ed ampi spazi
aerei in cui i rapaci e gli uccelli predatori possono cacciare con successo. Un esempio per
tutti è il corvo imperiale, un migratore che si
osserva a primavera inoltrata. Con un buon
paio di binocoli è possibile vedere nei particolari le penne del becco (simili a baffi). Il suo
canto è un verso strozzato, che per alcuni
aspetti sonori assomiglia al canto dell’anatra
selvatica.
Il percorso prosegue ridiscendendo la vetta del
monte. Seguendo le indicazioni al bivio Nord,
si incrocia il sentiero europeo e, lasciatolo, si
prosegue per Torriglia.
Si scende attraverso la faggeta e, tra radure a
brugo e ginestra, si hanno diversi punti panoramici su Torriglia, che ci appare, dall’alto,
come un accumulo colorato e ordinato di case.
La vegetazione diventa ombrofila e igrofila a
causa dei molti rii presenti: il rio Bagordo e il
fosso Laccetto ne sono solo due esempi.
Non solo la vegetazione, ma anche i toponimi
danno la prova della sovrabbondanza di acqua.
Vicino alla cappella di Sant Agostino c’è, infatti, Acquabuona, da cui si giunge al Castello di
Torriglia.
Il sentiero dei Feudi Fliscani ha fine nella
Piazza dei Fieschi.
Il sentiero delle querce
Dati per l’escursionista
Difficoltà: bassa
Segnavia: sfera piena rossa
Lunghezza: 3.5 km
Tempo di percorrenza: un’ora
Percorrenza
Il sentiero ha l’avvio nei pressi della Scuola
Media di Gattorna.
Esso appare, da subito, estremamente semplice
e gratificante. Prosegue tra coltivi, aree antropizzate e noccioleti e conduce sino ad Orticeto.
Da qui, attraverso un paesaggio diversificato, si
raggiunge la meta che fissiamo, per le emergenze botaniche che vi si trovano, a
Montefinale presso le grandi querce.
In prossimità di alcune case inizia il sentiero
che costeggia muretti a secco ricchi di felci e
selaginella. Tutto continua in piano, fino a raggiungere la località Vallecalda, dove il sentiero
si allarga e diventa una vera e propria mulattiera. Appezzamenti larghi e coltivati dove ci sono
numerosi noccioleti (Corylus avellana, L). È
questo l’ambiente del ghiro (Glys glys) e del
biacco (Coluber viridiflavus). Al limite del confine tra Moconesi e Neirone l’itinerario ci
porta a Crovaria, un borgo contadino con case
in pietra a vista, dove si pratica ancora l’allevamento tradizionale del bestiame. In queste aree
ruderali crescono specie come l’erba vetriola (la
comune “cannigiaia”), la pervinca, l’ortica dioica, la centaurea. Qui è facile incontrare il
ramarro e la lucertola muraiola, che depone le
sue uova sotto i sassi o in piccole buche nel
caldo terreno primaverile. I noccioleti lasciano
spazio a boscaglie di ontano e qualche robinia.
La mulattiera, dopo Crovaria, si addentra nei
boschi igrofili e, in prossimità di un piccolo
corso d’acqua, continua con un ponticello in
pietra, robusto e funzionale.
A quota 250 m, la piccola visuale offre una
grande varietà di specie floristiche: muschi,
felci, equiseti. Tra le rocce bagnate dall’acqua
corrente si possono incontrare la sassifraga
rotundifolia e la sassifraga a foglie di cuneo:
- 85 -
Sul Monte Caucaso (foto R. Spinetta).
due specie di uno stesso genere, considerate sia
un relitto glaciale che una specie in parte pioniera, poiché con le sue radici riesce a spezzare
le rocce e a vivere, quindi, in ambienti dove
solo le specie pioniere riescono ad insinuarsi.
Oltrepassato il ponticello, ci appaiono grandi
piane di patate e fave che si avvicendano con le
stagioni. Sono protette da accorgimenti contro
le incursioni notturne del cinghiale. Ancora
qualche centinaio di metri e il sentiero incontra la strada asfaltata; da qui si sale verso destra
e si giunge ad altre case: siamo ad Orticeto. A
livello di un tornante, il sentiero prosegue tra
case in pietra e alti muri a secco. È sufficiente
percorrerlo, attraversare un altro rio in prossimità di un canneto a canna comune (Arundo
donax), per trovarsi, poi, in alcuni campi e prati
a sfalcio dove crescono le erbe tipiche (carota
selvatica, crepide, pratoline) e molte graminacee.
Lasciati i prati e fatta una tappa quasi obbligata alla suggestiva cappelletta votiva, iniziano a
vedersi, nella loro maestosità, le due querce
secolari, colossi resistenti anche se non in perfetta salute. Si narra che queste querce siano
state salvate durante la seconda guerra mondiale e che abbiano regalato la loro ombra ai contadini durante le “pause pranzo”. Oggi le due
roverelle sono circondate da boscaglie, edera ed
erica arborea.
Avvicinandosi ad esse, siamo poco lontani da
Montefinale, dove i boschi sono formati da
querce (Quercus pubescens), erica arborea e felci.
Nel sottobosco vivono gli asparagi selvatici, la
felce dolce e l’asplenio. Non è raro incontrare
anche il viburno (Viburnus tinus), un arbusto
sempreverde prettamente mediterraneo detto
anche lentiggine o lauro-tino. La fioritura di
questa specie va da ottobre a marzo, quando le
foglie verdi e la corteccia verdastro-rossa contrasta con il bianco niveo dei fiori. Il lauro-tino
è un parente stretto del viburno domestico,
detto anche palla di neve, il cui nome scientifico è Viburnus opulus.
Sempre in questa ricca boscaglia a roverella
troviamo il caprifoglio (Lonicera caprifolia), il
- 86 -
verbasco o tabacco giallo e la campanula media.
Una specie comune in Val Fontanabuona è
inoltre l’aristolochia rotonda (Aristolochia
rotunda) con un fiore “a trombetta”, la cui
conformazione della corolla fa sì che gli insetti
pronubi vi rimangano intrappolati fino a
fecondazione avvenuta.
A questo punto, terminato questo breve sentiero, il camminatore più curioso può proseguire
fino a Rosasco attraverso l’abitato di Cerisola.
Tra Cerisola e Rosasco, infatti, ci sono querce
di piccole dimensioni e molto particolari: sono
le cerrosughere (Quercus crenata) che si individuano bene in inverno quando tutte le caducifoglie sono spoglie. La cerrosughera è, oltre al
leccio, l’unica quercia sempreverde della valle.
Oltre ad essere un sempreverde, essa ha un’altra caratteristica: ha una corteccia a tratti solcata e spugnosa, ricca di sughero, che rappresenta per la pianta una protezione, in quanto
impermeabile all’acqua, ai gas e resistente al
fuoco.
Concludiamo qui il nostro itinerario; chi volesse può proseguire verso il M. Lavagnola ricollegandosi all’IFF o al M. Caucaso, intercettando il bivio presso la sede municipale del
Comune di Neirone.
Il sentiero del M. Caucaso
Dati per l’escursionista
tempo di percorrenza in salita: 2 ore e mezza
dislivello in salita: 777 m
lunghezza: 7 km
segnavia: losanga gialla piena
Percorrenza
Il percorso prende il via dalla sede municipale
del Comune di Neirone. Lungo la scala che
porta al centro storico si leggono chiaramente i
segnavia dei sentieri che da qui prendono inizio. Le tappe principali dell’itinerario sono le
case di Faggio Rotondo (952 m) e la Rocca
Cavallina (1077 m) fino a giungere in vetta a m
1245 presso la cappelletta votiva del M.
Caucaso.
Il primo tratto, che da Neirone sale fino a Feia,
La cappelletta votiva del M. Caucaso (foto R. Spinetta).
è spesso coperto da fitta vegetazione stagionale, quindi è consigliabile attrezzarsi adeguatamente con scarponi e pantaloni lunghi.
L’intero itinerario attraversa lembi di castagneti, campi coltivati e vigneti a volte in abbandono. Una specie sinantropica frequente in questa
area è la clematide o erba flammula comune,
una specie parente del ranuncolo, con fiori
bianchi e frutti piumosi. È detta comunemente
“liana”.
Si arriva da qui alla zona di Feia, un’area coltivata dove trionfano le fioriture di tarassaco e
silene fumaria, dai colori delicati e semplici.
Dopo Feia, percorso un tratto di sterrata, si
giunge al bivio per Faggio Rotondo. Da qui si
sale, lungo felceti e aree percorse dal fuoco, ai
prati ad alte erbe di Faggio Rotondo. In questi
ambienti vivono il brugo, l’asfodelo e la festuca
a foglie robuste, una graminacea endemica
dell’Appennino.
I prati pingui ospitano, invece, molinia, verbaschi, orchidee, ortiche e false ortiche che si
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“Paesaggi a strisce” nel sentiero didattico M. Rocio-M. Spina (foto R. Spinetta).
avvicendano nella fioritura dalla primavera
all’estate dando sempre un tocco di colore a
questa zona già ricca di storia.
Ricordo, a questo proposito, il sito di Case
Faggio Rotondo dove un ormai leggendario
personaggio, Carlin l’eremita, trascorse gran
parte della propria esistenza.
Nella casa-stalla a pianta circolare, affiancata
da una fontana e da un abbeveratoio, ci si può
riparare in caso di pioggia. Vicino all’intera
costruzione si può osservare un vecchio ed
ombroso nocciolo, sotto il quale ogni anno si
ristorano molti amanti della montagna.
Da qui si sale attraverso numerosi prati lungo
l’antica mulattiera, tratto della via del sale,
delimitata da resti di muretti in pietra che servivano a direzionare gli animali da soma.
Ed ecco comparire, al limite della faggeta, una
roccia che sembra sospesa tra il cielo e la terra:
è la roccia cavallina, “Pria caalin-a”, un’emergenza geologica in arenaria rimasta in loco
dopo l’erosione selettiva a cui sono state sottoposte, nel corso dei secoli, le Arenarie del
Gottero, intercalate da argilliti. Le argilliti, più
tenere, tendono, infatti, ad essere erose più in
fretta e lasciano, raramente, dei massi di grandi dimensioni, sospesi, appunto, come una
sorta di “fungo senza gambo”.
Si entra, dopo la tappa a “Pria caalin-a”, in faggeta. La faggeta è stata per secoli una risorsa,
sia per il legname che per l’olio. In alta montagna, i frutti del faggio (le faggiole) venivano
infatti lavorati per estrarne una sostanza oleosa
usata per il condimento dei cibi.
Il sentiero si fa stretto e irto e, lentamente,
lascia intravvedere il tetto della cappelletta del
M. Caucaso.
Ancora una salita e siamo arrivati. Nella prateria cacuminale che circonda la cappelletta si
scorgono brughiere a mirtillo nero ed erbe officinali e terapeutiche come l’ipperico e l’erba
solferina.
In queste aree arse dal vento vivono la lepre e la
pernice rossa.
La vetta del M. Caucaso, oltre ad essere degna
di nota per essere compresa nei siti di interesse
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naturalistico comunitario, è importante dal
punto di vista storico. Essa, infatti, fu un luogo
nevralgico della lotta partigiana e un’area di
avvistamento, come dimostra la piccola trincea
che si trova poco sotto la chiesetta.
Il sentiero didattico del M. Rocio, un percorso di
confine
Dati per l’escursionista
dislivello in salita: 25 m
distanza: 1.5 km
tempo di percorrenza: 1 ora
difficoltà: nessuna
Percorrenza
Questo sentiero è un itinerario di mezza quota,
non segnato, ma ben tracciato e facilmente percorribile. È “di confine” perché attraversa il
confine amministrativo tra i Comuni di
Neirone e Moconesi, ma anche perché è a metà
tra due mondi: quello dei cavatori d’ardesia e
quello dei pastori e contadini.
Infatti, mentre il M. Rocio a mezza quota presenta cave abbandonate, teleferiche e accumuli
d’acqua in prossimità delle stesse, il M. Spina,
a cui il sentiero ci condurrà, è un mondo fatto
di cerrete da legno, pascoli, campi e prati a sfalcio, vecchi casoni, fienili e castagneti secolari.
Giunti con l’auto presso la cappella di San
Rocco, attraverso la strada sterrata che inizia a
Moconesi Alto dalla località Serra, si inizia un
percorso di mezza montagna, il cui principio è
posto poco sopra alla chiesetta di San Rocco.
Di qui si procede in un versante roccioso esposto a Sud e ricco di affioramenti di arenaria e
argilloscisti. Il primo impatto è fortemente
panoramico. Da qui si vede tutta la Val
Fontanabuona occidentale: Ferrada, Terrarossa
e Moconesi sono i nuclei che si individuano
meglio, sullo sfondo si scorge il lungo crinale
del M. Lasagna, che arriva sino al M. Croce di
Fo’.
Ci lasciamo alle spalle l’elegante sagoma del
M. Caucaso e parte del M. Ramaceto. Molte
sono le cave che, da qui, si scorgono e che
segnano profondamente i versanti a vista dei
Il dente di cane, esemplare della flora
protetta sul M. Spina (foto R. Spinetta).
Monti Mezzano e Albareto.
Continuiamo tra i sassi “scroscianti” di roccia
sedimentaria. Tra i nostri passi, si notano con
orecchio sensibile gli svolazzamenti repentini e
luminosi dell’edipodea germanica, una cavalletta scura tipica degli ambienti montani siccitosi. La vegetazione predominante in quest’area sono la felceta e la boscaglia a Robinia pseudoacacia, nel cui sottobosco vivono gli sparvieri: non i rapaci, bensì i loro omonimi vegetali,
piccole composite di un bel giallo acceso
(Hieracium sp.). Diffusi sono anche l’elicriso, il
cisto, il brugo, l’erica carnea.
Vaste praterie a paleo nascondono, ma senza
riuscirci del tutto, i ruderi di vecchi casoni sulla
destra e poi, proseguendo ancora, si giunge a
Case Rovereto, ancora nel Comune di
Moconesi, un piccolo nucleo con case e ovili
ancora ben conservati che ospita un ciliegio
secolare che, ad aprile, spicca per la sua fioritura. In questa area anticamente abitata si rifu-
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Sentiero tra i faggi dal Portello sino in vetta (foto R. Spinetta).
giano volpi, topi campagnoli, cinghiali, serpenti come il biacco. Vista la presenza di alberi da
frutto o siepi, questo è un luogo ideale per l’osservazione dei passeriformi e dei silvidi: le
capinere, da febbraio a marzo, rallegrano il
paesaggio con il loro canto sonoro e insistente.
È sufficiente un po’ di silenzio per assaporarne
le melodie. I pascoli lasciano spazio ad una cerreta fresca. Il cerro, che può raggiungere grandi dimensioni, dà buon legname da opera e da
carbone. Ciò è la testimonianza che questa
copertura di cerri è artificiale.
Le ghiande del cerro, al contrario di quanto
accade nella rovere e nella roverella, hanno una
capsula di copertura “riccioluta” e spinosa.
Nella cerreta del M. Spina vivono specie rare o
di pregio come la scilla bifolia e la genziana
asclepiadea, oltre all’anemone e al dente di
cane.
Usciti dalla cerreta, ricomincia la prateria a
felce aquilina; un buon osservatore invernale
scorgerà una cerrosughera, ossia un’elegante
quercia sempreverde con la corteccia crostosa
per la presenza di sughero.
In vetta al M. Spina è possibile vedere Neirone,
completamente immerso nel verde. Si notano i
rilievi di confine con la Val Trebbia, primo tra
tutti il M. Lavagnola. In queste praterie montane, a quota modesta, crescono le orchidee
sambucine e vivono molte specie di carici dei
prati, erbe di piccole dimensioni con le “spighette” piumose formate da tante piccole botticelle addensate su steli flessibili.
Sotto ad una piccola centrale fotovoltaica si
vede Case Spina, un caratteristico borgo contadino, con accanto alcuni castagni secolari.
Da San Marco d’Urri al M. Lavagnola
Dati per l’escursionista
tempo di percorrenza in salita: 3 ore
dislivello in salita: 632 m
difficoltà: media
distanza: 9.5 km circa
Percorrenza
San Marco d’Urri è una frazione montana nella
valle del rio Urri. Oltre che per la chiesa, que-
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Il Cippo del Monte Lavagnola (foto R. Spinetta).
sta zona è nota per le vie di percorrenza tra le
case, spesso lastricate in ardesia, stretti carruggi simili a quelli di Aia Zanello, Forcossino,
Orticeto.
Per raggiungere San Marco è sufficiente prendere il bivio sulla sinistra della chiesa di Ognio,
sia che si arrivi da Neirone che da Gattorna.
Giunti a San Marco, si lascia la strada asfaltata
e si continua con una sterrata, sino ad una località detta “Lezzaruola”, il cui nome è ancora
una volta riferito alla presenza di ciliegi selvatici.
Salendo si giunge a “Ria Teccia”. L’ambiente in
cui ci troviamo appare selvaggio: castagni in
degrado per il cancro della corteccia (Endothia
parassitica), ontani, erbe alte di epilobio e
bidente (una composita dai semi biforcuti che
si attaccano sovente ai vestiti). Molte sono le
tracce del cinghiale che, in cerca di radici, ara il
terreno e talvolta infanga i tronchi per liberarsi
dai parassiti. Tra il bosco i canti del merlo, un
migratore che trova riparo tra arbusti di pruno
e ciliegio.
I boschi di San Marco più di altri sono popola-
ti dal picchio verde, che si nutre degli ospiti dei
numerosi formicai del sottobosco e dei tronchi.
È particolare il suo canto, che sembra una
squillante risata.
Proseguendo, il percorso diventa difficoltoso e,
in prossimità di Ria Teccia, si sale, lasciandosi
sulla destra un gruppo di case con portici in
pietra e legno.
Ma cos’è Ria Teccia?
Un dirupo letteralmente formato da rocce sedimentarie e argilloscisti calcarei.
È detta “teccia” forse perché scura; da sotto
appare davvero grigia e spesso umida, tanto che
il microclima che si crea in questo piccolo ecosistema favorisce la presenza di specie idrofile.
Dopo qualche tempo, la boscaglia lascia spazio
all’ampia visuale del sentiero di mezza montagna e così si prosegue fino al M. Perdono.
Il M. Perdono, alto 909 metri, è un rilievo con
due versanti molto diversi; la parte ad Ovest è
piuttosto dolce, quella ad Est invece è scoscesa
e forma con il M. Borghigiano la valle del torrente di Siestri.
Dal M. Perdono si prosegue quasi in piano
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Lavagnola. Scorcio a Sud Est (foto R. Spinetta).
seguendo il versante; a tratti il sentiero risulta
spesso riccamente vegetato, anche da felci e
rovi. Il substrato sedimentario con argilla giustifica la presenza di acqua in alcuni tratti del
percorso. Nelle zone umide e fangose è facile
trovare gli insogli del cinghiale.
Dove si aprono alcune schiarite, le rocce arenacee mostrano la loro componente calcarea. Esse
sono più tenere e chiare delle rocce “sabbiose”
del M. Caucaso, tant’è vero che si possono
individuare puntuali fenomeni di microcarsismo.
Sulle rocce crescono, negli stessi ambienti, sassifraghe e santoregie: un prodigio bioclimatico!
La sassifraga è, infatti, un relitto glaciale, mentre la santoregia bianca è un’essenza mediterranea dei climi secchi. È un portento la natura!
Riesce a far convivere creature con esigenze
talmente diverse che è, a volte, difficile darsi
una spiegazione.
A 500 metri di cammino dal M. Perdono si
giunge alla località Campusso, un’area pianeg-
giante a 920 metri di quota, adibita un tempo a
balli e feste pratensi. Da qui si ha un’estesa
panoramica sulla fortezza naturale che formano davanti a noi i Monti Lavagnola, Montaldo,
Corsica e Carmo.
Da Campusso, si può scendere ai Bassi di
Neirone per arrivare a Siestri; noi consigliamo
di proseguire, come da segnavia, verso la stretta del Ciappusso, nota per una romantica e
struggente storia d’amore del passato.
Il percorso prosegue fino a quota 1090 m alla
destra del Poggio della Casa. Siamo al triplice
di confine tra i Comuni di Lumarzo, Neirone e
Torriglia. Da qui, a 400 metri di distanza circa,
arriveremo alla cima del M. Lavagnola.
Il sentiero sale e si tiene sulla sinistra delle
cenge rocciose del massiccio argilloscistico.
Percorriamo il confine amministrativo col
Comune di Torriglia. Da qui al limite con una
piccola faggeta appenninica, le praterie “cacuminali” sembrano fatte apposta per permetterci di sedere, riposare e ammirare incantati l’immenso panorama che spazia dall’Appennino
Ligure alle Alpi Marittime e lascia vedere nelle
giornate terse anche il golfo ligure con, in bella
vista, la lingua di terra del Promontorio di
Portofino.
Nella faggeta del M. Lavagnola crescono specie
floristiche di pregio, tra cui il doronico, l’anemone a tre foglie, le orchidee sambucina e
maculata ed altre essenze pregiate.
Da qui, all’inizio dell’estate, è possibile sentire
la voce goffa del corvo imperiale ed il canto del
rondone montano e del balestruccio, una rondine con il portacoda bianco e la coda, in contrasto, scura e precisa nelle forme.
Dal M. Lavagnola si può scendere ancora a
Lezzaruole o, e noi lo consigliamo, procedere
fino al M. Carmo e da qui scendere a Siestri
attraverso l’IFF, solo se prima vi siete ben
organizzati con le auto. Da Siestri a San Marco
d’Urri è, infatti, impossibile arrivare se non
dopo ore e ore di strada a piedi.
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PATRIMONIO STORICO-CULTURALE
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NEIRONE
TERRITORIO, PAESAGGIO E CULTURA
Maria Di Dio
Una valle secondaria che si inerpica
nell’Appennino ligure e si articola in contorti
compluvi torrentizi, una cornice di monti coperti da boschi punteggiati saltuariamente da grappoli di edifici a prevalente carattere rurale.
È il territorio di Neirone. Simile a gran parte di
quello del resto della Liguria, almeno quello dell’entroterra, ma certamente caratterizzato in
modo univoco dal particolare rapporto tra quella data natura (quella particolare morfologia tettonica, quel particolare tipo di substrato geologico, quelle particolari condizioni climatiche che
favoriscono alcune specie vegetali piuttosto che
altre, ecc.) e le specifiche, mutevoli, esigenze di
coloro che vi si sono insediati nel tempo, dalla
più remota antichità ad oggi. Interi cicli di storia civile, qui come in qualsiasi altro territorio,
hanno lasciato letteralmente traccia sul terreno.
Infatti, incessantemente trasformato, il territorio
conserva sempre “memoria” del fare umano sotto
i diversi aspetti idro-geo-morfologici, naturalistici, urbanistici, architettonici, ecc.; così esso
stesso diventa un eccezionale bene culturale,
forse il più completo, anche se difficilmente
viene recepito, e quindi rispettato, come tale.
L’effetto della correlazione tra ambiente naturale e attività umane determina la lenta e inesorabile configurazione del territorio nella sua accezione paesistica, in ultima analisi culturale, se
non addirittura artistica allorché, attraverso l’opera intellettuale di artisti (pittori, scrittori ecc.),
vengono recepite e quindi espresse interpretazioni estetiche del territorio stesso.
Anche nel comprensorio di Neirone, come in
ogni altro sito, ancor oggi possiamo individuare,
sovrapposte, le tracce lasciate dalle epoche passate, di cui ci corre la responsabilità morale di
garantire la trasmissione a coloro che ci succederanno.
A questo proposito però occorre tener presente
che sino a quando il rapporto di forza tra uomo
e territorio si è mantenuto costante (in epoca
pre-industriale) non si sono verificati grandi
sconvolgimenti ambientali: l'uomo aveva a
disposizione strumenti naturali per risolvere
problemi circoscritti. I materiali locali (tipi
diversi di terre, di pietre, di legname, ecc.) condizionavano in modo determinante l’adozione
dei tipi di strutture necessarie a soddisfare i
bisogni primari, come ripararsi, difendersi, svolgere attività produttive e di scambio, e così soluzioni simili a problemi comuni determinavano
ambienti territoriali e urbani originali, profondamente radicati nel luogo specifico.
Conseguentemente, anche interventi paesisticamente molto rilevanti, come la costruzione di
castelli, ville, acquedotti ecc., in quanto condizionati da tecnologie radicate nello stesso territorio interessato, comportavano impatti magari
forti ma sempre integrati. In tale contesto il rapporto tra uomo e il suo territorio non era conflittuale, non era necessaria una presa di coscienza del problema ambientale, che invece si è resa
necessaria con l’avvento della Rivoluzione
Industriale: il progressivo affrancamento dell'uomo dai secolari limiti tecnologici (consentito
dall’uso del ferro, dell’acciaio e del cemento
armato), lo sviluppo dei trasporti (che ha reso
possibile scambiare in breve tempo una grande
quantità di informazioni e conoscenze tra Paesi
anche molto lontani), hanno ampliato enormemente la scelta di modelli “possibili”. In parole
semplici, se fino al Settecento a nessun notabile
del luogo poteva venire in mente di costruirsi
un’abitazione a forma di pagoda cinese perché
non solo non aveva a disposizione i materiali e la
tecnica necessari ma addirittura forse ignorava la
stessa esistenza di tale “tipo”, oggi il progettista
locale può attingere ad un repertorio sconfinato,
ed in genere finisce per elaborare la sua opera su
archetipi ormai diffusi a livello mondiale, tanto
che l’opera, una volta realizzata, sta al paesaggio
circostante come potrebbe stare in qualsiasi altro
situato magari in un continente diverso! Così,
anche nel migliore dei casi, quando è recepita la
necessità di rapportarsi con l’ambiente circo-
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stante, riesce sempre più difficile individuare e
quindi adottare elementi caratterizzanti validi.
Per questo motivo, nel momento in cui in un
determinato luogo si possono utilizzare tecnologie e repertori diffusi a livello addirittura mondiale ed è quindi possibile realizzare “tutto” a
prescindere da qualsiasi limitazione oggettiva,
diventa indispensabile dotarsi di una coscienza
critica (cioè di capacità di analisi e di sintesi) per
compiere con cognizione di causa le scelte
necessarie per evitare compromissioni che in tali
condizioni possono essere irreparabili.
Ed in effetti oggi il dibattito culturale nel suo
evolversi (e nei vari ambiti: critico, giuridico,
ecc.) tende a recuperare scientemente gli esiti
garantiti dalla coscienza spontanea (presente in
epoche in cui il rapporto tra uomo e natura non
aveva connotazioni conflittuali e consentiva di
perseguire il massimo rendimento con il minimo
impiego di risorse).
Per realizzare questo obiettivo è indispensabile
sviluppare la capacità di “leggere” e “capire” il
territorio stesso nella sua complessità e nelle sue
leggi formative, in modo da trarre da questa
“conoscenza” le indicazioni per operare le indispensabili trasformazioni rispettando le preesistenze, inserendosi coerentemente nel contesto e
così scongiurare innovazioni stravolgenti.
Come già accennato, le innumerevoli forme di
connotazione del paesaggio (forestale, agrario,
antropico, ecc.) si possono ricondurre tutte
all'interferenza reciproca tra risorse naturali di
un determinato ambito territoriale (le più varie)
e le necessità primarie dell'uomo (alimentarsi e
ripararsi) simili nel tempo e nello spazio. Ciò
determina tipologie d'uso del territorio simili e
ricorrenti nelle situazioni più diverse: la tipologia edilizia è condizionata sia dal tipo di economia civile (come ad esempio le case “a corte” in
ambiti rurali o le case “a schiera” in ambiti mercantili), sia dal materiale a disposizione da cui
derivano i diversi sistemi statici (elastico se
basato sull’uso del legno, o plastico se basato sull’uso della pietra o dei mattoni); la formazione
degli insediamenti è in genere sviluppata su
testate di promontorio sempre più protese verso
valle, in cerca di siti di scambio (mercati) sempre
più baricentrici, lungo percorsi prima preesistenti agli abitati e poi dipendenti da questi stessi; la penetrazione e l'uso del territorio è organizzata mediante percorsi di crinale o percorsi di
fondovalle a seconda del grado di capacità tecnologica raggiunta, via via gerarchizzati da un
massimo di serialità ad un massimo di organicità, a seconda delle situazioni orografiche particolari.
Tali percorsi restano comunque compresenti,
tanto da giustificare la creazione di percorsi di
contro crinale e diagonali quali vere e proprie
scorciatoie e da consentire anche un recupero
“specialistico” dei percorsi desueti, come ad
esempio oggi quelli di crinale, che comunque
continuano ad essere utilizzati come percorsi
escursionistici.
In altri termini, una società poco “tecnologica”
in genere si garantisce il massimo controllo del
territorio utilizzando un percorso tracciato in
corrispondenza del crinale principale, che normalmente non richiede opere d’arte significative
(ponti, muri di sostegno, gallerie, ecc.). Allorché
si instaurano i primi insediamenti stabili o semistabili, tale percorso è in grado di collegare tra
loro tutti i percorsi che da esso si dipartono
sfruttando i vari crinali secondari. Con il progredire della tecnologia, si formano in genere
delle “scorciatoie” a valle dei percorsi di crinale
più alti, che possiamo chiamare percorsi di controcrinale, sino a quando le capacità costruttive
più evolute consentono la bonifica e lo sfruttamento dei più remunerativi terreni di fondovalle, mediante percorsi sempre più specialistici,
che in genere collegano sempre più agevolmente gli agglomerati urbani più importanti, cioè i
mercati più frequentati, quelli dotati di un bacino d’utenza più vasto.
Tuttavia, ogni volta che si conquista una “frontiera” (un territorio meno scosceso, un approvvigionamento idrico più comodo, ecc.) si perdono
alcune facoltà precedenti (orizzonti più vasti,
collegamenti più immediati, ecc.) e per gradi si
passa da una civiltà che ha per confini i compluvi e quindi i corsi d’acqua ad un’altra che, viceversa, ha per confini i displuvi, le cime più
impervie.
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Soprattutto si cambia “punto di vista”, cioè
metodo di lettura, del territorio con la conseguenza di non cogliere più alcuni dei segni sempre presenti su questo e di rischiare di cancellarli.
Tornando a Neirone, oggi è difficile capire le
ragioni stesse della sua collocazione in posizione
così decentrata e della sua conformazione a piccoli nuclei apparentemente indipendenti se pure
gerarchizzati (capoluogo, frazioni, edifici sparsi,
ecc.); è difficile capire come mai tra i boschi, in
posizioni apparentemente casuali, esistono ponti
in pietra certamente impegnativi dal punto di
vista costruttivo, tanto da far escludere decisamente l’ipotesi della loro realizzazione nell’ambito di una viabilità solamente locale. Solo ricorrendo alla lettura del territorio e ricordando la
sua storia civile, come proposto in questo stesso
volume, è possibile individuare quelle ragioni,
che derivano da un sistema economico e sociale
diverso da quello attuale ma che tuttavia indicano chiaramente la vocazione intrinseca di quel
territorio, da cui non si può prescindere se si
intende operare in continuità con le preesistenze, nel rispetto del territorio stesso e della sua
storia, e quindi evitare esiti negativi sotto il profilo paesistico se non, addirittura, anche di quello economico.
Si comprende che il territorio di Neirone possiede vocazioni che oggi possono essere recuperate e valorizzate nell’ambito di iniziative specialistiche (agricoltura di tipo tradizionale, sviluppabile con il recupero di metodologie “ecologiche”; artigianato qualificato; turismo del
“verde”; escursionismo sportivo e culturale;
ecc.), piuttosto che mortificate o addirittura
stravolte da tentativi di omologazione con
modelli di sviluppo socio-economico tipici di
ambiti culturali diversi (se non da agricoltura
intensiva, comunque impossibile nella situazione orografica locale, da impianto di capannoni
industriali sovradimensionati, o da costruzione
di insediamenti turistici, magari giustificati da
impianti sportivi o attrazioni turistiche realizzate ad hoc, ecc.).
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ALLE RADICI DELLE TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO
Roberto Maggi
La fotografia riportata nella fig. 1 è emblematica
della lunga durata dei processi di trasformazione
del territorio - e di conseguenza della loro accezione visiva: il paesaggio - attuati dai gruppi
umani antichi, in questo caso così antichi da
essere convenzionalmente - quanto impropriamente - definiti “preistorici”. L’attributo di essere vissuti “prima della Storia” assegnato ai gruppi umani pre-letterati è di origine alto-ottocentesca, quando il binomio razzismo-imperialismo
propagandava i popoli illetterati quali popoli
senza storia. L’etnologia da una parte e l’archeologia dall’altra hanno successivamente messo in
chiaro, rispettivamente, che i popoli illetterati e
quelli preletterati hanno una storia, ciascuno la
propria, nelle varie accezioni sociale, tecnologica,
artistica, territoriale. Forse non è un caso che in
un paese con scarse possibilità coloniali come
l’Italia, intorno al 1860 venisse coniato un termine diverso: Paletnologia (studio comparato delle
culture dei gruppi umani fossili), che ancora
sopravvive quale materia di insegnamento universitario. Tuttavia l’inglese Prehistory, il francese
Prehistoire ed i loro equivalenti hanno espugnato
il linguaggio anche di quelle culture che inizialmente respinsero tali termini. Paradossalmente
l'approccio primitivista insito nel termine stesso
è oggi assai più diffuso in Italia che negli ambiti
anglosassone e francese che lo avevano coniato:
quante volte capita di leggere “uomo primitivo” a
proposito di un neolitico! E quante volte i neolitici vengono considerati individui di scarse capacità, in grado a malapena di sopravvivere in un
ambiente ostile. Si tratta della riproposizione
estensiva e più o meno inconsapevole del concetto di “barbari”. Nei contesti di maggiore esercizio dell’antropologia e della museografia scientifica è maggiormente diffusa la consapevolezza
che i neolitici (e altre società preletterate) avevano accumulato profonde conoscenze delle risorse
e grandi capacità manipolatorie dell'ambiente, le
cui espressioni sono state così massicce e numerose da essere pervenute con molti casi esemplari fino a noi.
L’uso corretto del termine "uomo primitivo" è
Fig. 1 Veduta della parete superiore della serie stratigrafica di Calvari – Cian dei Tenenti appena esposta dallo scavatore in occasione della costruzione di una casa. In primo
piano il suolo sepolto 1 (di colore scuro) ed un sottostante
strato con molte pietre. Un altro suolo sepolto si intravede appena coperto dal detrito (foto R. Maggi).
quello evolutivo, per indicare le specie umane più
antiche, fisicamente (e geneticamente) diverse da
noi: Neandertal e precedenti. Per inciso, si noti
che anche i comportamenti delle specie precedenti la nostra erano orientati alla trasformazione dell’ambiente. Si discute se l’ Homo Erectus di
1.5 milioni di anni fa (dotato di volume cefalico
inferiore a 1000 cm3), fosse in grado di articolare
parole, ma è quasi certo che gestisse il fuoco, vale
a dire la capacità di intervenire sull'ambiente con
mezzi chimici. A partire dalla affermazione della
nostra specie (centomila anni fa in Africa, quarantamila in Europa) non possiamo parlare che
di uomo moderno. “Primitivo” è improprio anche
se usato per enfatizzare carenza di capacità e di
saperi. Senza scomodare coloro che undicimila
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anni fa in Medio-Oriente selezionarono cereali e
legumi naturali fino a renderli coltivabili, ottenendo specie domestiche geneticamente diverse
da quelle selvatiche d’origine, ricordo che prima
di ricorrere ai metalli, asce, accette e zappe venivano armate con taglienti fatti con pietre accuratamente e sapientemente selezionate in funzione
degli usi cui erano destinate. I neolitici liguri e
quelli del basso Piemonte si approvvigionavano
sistematicamente di materia prima nelle spiagge
fossili terziarie, dove fra milioni sapevano individuare i rari ciottoli di eclogite e di omfacitite,
tecnologicamente i migliori per realizzare
taglienti efficaci e duraturi, in grado di tagliare
alberi, lavorare il legno, zappare, uccidere. La
superiore qualità delle metaofioliti di alta pressione (questo è il termine geologico formazionale odierno) della Liguria e del Piemonte, dimostrata dalla scienza moderna, era ben nota anche
nel Neolitico, come dimostra la loro esportazione in gran parte d’Europa. Certamente i neolitici indicavano tali rocce con un nome diverso,
forse perduto, e certamente non usavano il
microscopio. Eppure essi selezionavano le pietre
giuste con un margine di errore minimo. In quel
laboratorio che è il territorio, provando e riprovando, avevano raggiunto dei saperi assai efficienti, poi diventati inutili a seguito della introduzione dei metalli. Saperi che solo dopo millenni la scienza moderna è in grado di riacquisire
parzialmente, ad opera di pochi scienziati.
La differenza fra le conoscenze di una popolazione moderna e di una neolitica di pari entità,
più che la quantità, concerne probabilmente la
strutturazione dei saperi, che tra i neolitici erano
diffusi orizzontalmente, fra noi no. Oggi, per
riconoscere un ciottolo di eclogite si ricorre al
petrografo, il quale avrà probabilmente bisogno
anche di un microscopio e di altri metodi analitici; questo perché i metodi empirici a suo tempo
elaborati dai neolitici non fanno più parte del
patrimonio delle conoscenze diffuse.
La storia dei popoli preletterati è scritta nei sedimenti del territorio da loro usato, in segni sulle
rocce, nei loro utensili, nelle loro ossa, nelle ossa
degli animali con cui sono venuti a contatto, e via
dicendo.
Una costante nella storia di tutte le specie, dunque di tutto il genere umano, è l’attitudine a trasformare l’ambiente. Se l’acquisizione della
postura eretta (sei o più milioni di anni fa)
discende dalla storia naturale, la prima caratteristica riconoscibile come culturale, perciò umana,
perciò storica, registrata 2.5-3 milioni di anni fa,
è una emblematica prova di trasformazione fisica dell’ambiente, consistente nella modificazione
di alcuni sassi opportunamente selezionati, per
renderli appuntiti. Seguiranno la capacità di
modificazione chimica (il fuoco) e, undicimila
anni fa, la capacità di modificazione biologica,
con la creazione di specie vegetali e animali
addomesticate, per le pratiche di agricoltura e di
allevamento.
La fotografia riportata nella fig. 1 coglie una
splendida pagina di storia della gestione del territorio appena portata alla luce da una ruspa in
un fondovalle appenninico. In primo piano si
riconosce uno strato scuro, che verso l’alto diventa più chiaro con tonalità del rosso, poi brunogiallastro, per tornare infine al colore bruno scuro
del suolo attuale. Al di sotto dello strato scuro
sepolto si riconosce chiaramente uno strato con
abbondanti pietre minute e medie, e, sotto di
esso, si intravede un ulteriore strato scuro, in gran
parte coperto da detrito. I due strati scuri sepolti
corrispondono ad altrettanti suoli antichi: lo si
intuisce osservando la similitudine di aspetto con
il suolo attuale ed è dimostrato dalla analisi
micromorfologica in sezione sottile condotta
dalla geoarcheologa Caterina Ottomano1. Il
suolo sepolto 2, quello più profondo, osservato al
microscopio, rileva la presenza di frequenti
minuti frustuli di carbone di legna a spigoli arrotondati e relitti di suoli bruni forestali. Ciò indica che un bosco che si trovava sul vicino versante è stato diradato con l’uso sistematico del
fuoco, fino ad innescare un processo di erosione
del suolo forestale, i cui relitti sono stati trasportati a valle dalle acque di superficie e da altri
agenti. È seguita una fase di stabilità che ha con-
1 Vedi appendice e relazione inedita presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria. Lo studio è stato effettuato nel
contesto di un intervento di archeologia preventiva di urgenza eseguito in occasione di lavori edilizi.
- 100 -
sentito il riaddensamento del bosco e la formazione del suolo che intravediamo in basso nella
foto. Però l’attività di trasformazione del versante è continuata (o è ben presto ripresa) ed ha prodotto effetti in qualche caso localmente molto
forti, come testimoniato dallo strato pietroso. Si
tratta infatti di un deposito torrentizio che indica come l’azione del disboscamento e di trasformazione dei suoli sia stata così vasta ed incisiva
da apportare modifiche al reticolo idrico superficiale.
Lo strato scuro immediatamente soprastante,
che chiameremo suolo sepolto 1, osservato al
microscopio, rivela caratteristiche analoghe. Esso
racconta la seguente storia: l’acme trasformativa
prima citata (il deposito torrentizio) è stata
seguita da un periodo di stasi, che ha portato alla
ricrescita del bosco sui versanti. Ben presto, però,
il fuoco è tornato a disboscare e, indirettamente,
a causare colluvi; sul materiale depositato a valle
è poi cresciuta la vegetazione e si è formato un
nuovo suolo.
Gli strati superiori testimoniano l’applicazione
di pratiche diverse dalle precedenti, con la messa
in coltura più graduale e forse più diffusa,
senz’altro più stabile e continua, che si riflette
nell’apporto di colluvi più fini e più omogenei,
fino alla formazione del suolo tuttora utilizzato.
La datazione radiocarbonica di un campione dei
frustuli di carbone di legna prelevati dal suolo
sepolto 1 (quello più recente) è 3820 +/- 50 (Beta
118951) da oggi in cronologia non calibrata (fra
2450 e 2060 avanti Cristo in cronologia calibrata). Ciò colloca il disboscamento che ha innescato la formazione del suolo sepolto 1 tra la fine
dell’Età del Rame e l’inizio dell’ Età del Bronzo.
È l’epoca della diffusione della metallurgia, della
costruzione di palafitte sulle numerose zone
umide della pianura padana. Per quanto attiene
alle tecniche di uso dei suoli la letteratura paletnologica enfatizza la diffusione dell’aratro, mentre poco troverete sul fuoco controllato, il quale,
come vediamo qui, è stato in realtà strumento di
profonde trasformazioni, tanto più evidenti nelle
zone montane.
Il suolo sepolto 2 testimonia pratiche analoghe,
certamente più antiche, ma purtroppo non è
stato ancora datato. Il rinvenimento in entrambi
i suoli di minuti frammenti di ceramica fluitati
indica che l’abitato non doveva trovarsi lontano.
In posizione intermedia fra il suolo sepolto 1 ed
il suolo attuale si rinvengono frammenti di laterizi di età romana. È interessante osservare che le
tracce archeologiche delle trasformazioni del
suolo di età romana denotano un impatto molto
inferiore rispetto all’Età del Bronzo.
Ho scritto prima che questa foto è stata scattata
in un fondovalle appenninico. Per la precisione ci
troviamo a Calvari (San Colombano-Ge) in
località Cian dei Tenenti, in Val Lavagna, nel cui
bacino imbrifero si trova gran parte del territorio
di Neirone (vedi R. GHELFI in questo volume).
Una sequenza analoga è stata studiata in località
Isolalunga, presso Monleone di Cicagna, ancor
più vicino a Neirone. Anche qui abbiamo due
suoli sepolti principali, che presentano caratteristiche del tutto simili a quelle di Calvari. Qui è
stato datato il suolo più profondo, che ha fornito
la misura 6610 +/- 50 BP2 (Beta 118956). Si
tratta di una datazione di grande interesse, che fa
risalire il disboscamento responsabile della formazione del suolo 2 addirittura al Neolitico
Antico, cioè ai primi secoli della diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento in Italia settentrionale e centrale. Il suolo 1 di Isolalunga presenta caratteri molto simili a quello di Calvari 1,
compresi piccolissimi frammenti fluitati di ceramica.
Le due sequenze risultano perciò sostanzialmente uguali per più di un aspetto. Si può ritenere
che entrambi i suoli 2 siano neolitici e che
entrambi i suoli 1 siano dell’Età del Rame/inizio
dell’Età del Bronzo.
Considerata l’occasionalità con cui sono state
rinvenute queste tracce archeologiche, è estremamente probabile che il territorio conservi, e/o
abbia conservato, molti altri resti analoghi. In
altre parole è plausibile che le pratiche testimoniate dai depositi di Calvari e Isolalunga abbiano
avuto larga applicazione sul territorio. L’uso este-
2 Nella cronologia radiocarbonica la sigla BP indica la misura fornita dal laboratorio in anni prima del 1950 (= da oggi ) senza calibrazione. La sigla BC indica gli anni Before Christ (avanti Cristo), detti anche calendarici, ottenuti con taratura attraverso le curve di calibrazione.
- 101 -
so delle pratiche di disboscamento sembra
doversi riferire alla costruzione di prati-pascolo
più o meno densamente alberati, che avrebbe
interessato larghe porzioni di territorio.
Se la datazione del suolo sepolto 1 di Calvari fornisce un riferimento cronologico recente ma probabilmente non terminale di applicazione della
pratica, la data dello strato 2 di Isolalunga indica
che la pratica era in uso al tempo della prima
introduzione degli animali domestici (in Liguria
e in tutta l’Italia centrale e settentrionale non
prima del 6800/6900 BP) o poco dopo.
La ciclicità dei processi osservati suggerisce che i
gruppi umani neolitici e dell’Età del Rame avessero pieno controllo dell’intero sistema e non
soltanto di questa o quella tecnica di disboscamento piuttosto che di coltivazione. I suoli
dimostrano che la pressione di disboscamento di
una determinata porzione di territorio veniva
sospesa in un momento in cui il cambiamento
dei modi di gestione sarebbe stato ancora in
grado di produrre la riformazione di una copertura forestale. Si potrebbe immaginare una sorta
di rotazione fra pascoli alberati e bosco, articolata in periodi lunghi alcuni secoli, con tutto quel
che ne consegue dal punto di vista antropologico
per quel che concerne la trasmissione del sapere
ed i rapporti fra gruppi contigui. Anche se non
mancano esempi di comunità che svolgono lavori a vantaggio delle generazioni future, i dati
sono insufficienti per sostenere che sia stato elaborato un progetto di così ampio respiro. In attesa di conseguire dati specifici conviene prudentemente considerare che il progetto territoriale
mirasse a ritorni in tempi brevi.
Varie indicazioni suggeriscono che nei primi
secoli del Neolitico i gruppi umani, ancora
numericamente ridotti, concentravano la loro
attività prevalentemente presso le coste, nei territori costieri, nei fondovalle e nel basso e medio
versante. Soltanto nel tardo Neolitico (poco
prima del 4000 a.C.) si rinvengono evidenti tracce di impatto alle quote sopra i 1000 metri. La
costruzione di pascoli e le trasformazioni del
suolo e della vegetazione di montagna assumono
caratteri macroscopici durante la successiva Età
del Rame (R. MAGGI, R. NISBET 1991; R.
MAGGI 2000). È emblematico il caso del
Monte Aiona. Sui suoi alti versanti e sulle zone
perisommitali, tra il 3000 ed il 2400 avanti
Cristo l’attività antropica, utilizzando il solito
strumento del fuoco controllato, ridusse l’abetina
a favore degli spazi erbosi e della colonizzazione
del faggio, mentre i materiali fini movimentati
dell’erosione in tal modo innescata andavano ad
impermeabilizzare i sedimenti ghiaiosi di una
vasta conca ubicata a circa 1400 metri di quota.
Ciò creava le condizioni necessarie per la formazione di un acquitrino, nel quale gli animali al
pascolo potevano abbeverarsi e dove ha cominciato ad accumularsi la torba che oggi costituisce
il ben noto bacino intorbato di Prato Mollo
(Borzonasca) (M. A. COURTY, P. GOLDBERG, R. I. MACPHAIL 1989; R. MAGGI
2000). È evidente l’ampio respiro del progetto di
uso delle risorse ambientali, che ha avuto pieno
successo nell’aumentare la “carrying capacity” (la
capacità di alimentare più persone) del territorio
interessato, come dimostrato dal forte aumento
del numero di siti. L’altrettanto forte, anzi certamente maggiore, cambiamento del paesaggio
montano (dall’abetina al prato pascolo alberato a
faggio/faggeta più o meno aperta, la formazione
di zone umide, la traslazione di migliaia di metri
cubi di suolo) è un corollario del progetto di attivazione e utilizzo delle risorse attuato dalla
società tardoneolitica.
Sull’area sommitale del Monte Aiona sono stati
rinvenuti numerosi manufatti di pietra scheggiata, fra cui una dozzina di punte di freccia “a
peduncolo e alette” del tipo in uso nell’Età del
Rame (3600-2200 a.C.), nelle due varianti “utilitaria” e “rituale” (G. LEONARDI, S. ARNABOLDI 1998).
I gruppi dell’Età del Rame hanno dunque
profondamente modificato il territorio, hanno
svolto battute di caccia, hanno - probabilmente deposto offerte presso la vetta del Monte.
Se la ricerca archeologica è perfettamente in
grado di dimostrare la cronologia e l'intensità
delle trasformazioni del territorio, non riesce ad
essere altrettanto precisa per quanto attiene la
descrizione della percezione visiva, cioè del paesaggio, del territorio manipolato. Il paesaggio è
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largamente determinato dalle pratiche di gestione del territorio. L'insieme delle pratiche
dell'Età moderna è il risultato della millenaria
evoluzione dialettica delle componenti in gioco
(risorse territoriali, demografia, bisogni, soluzioni adottate). Alcune delle pratiche moderne
hanno origini antiche; penso alla scalvatura, l'approvvigionamento di foraggio fogliare introdotto
dai neolitici, o al terrazzamento introdotto
nell'Età del Bronzo. Tuttavia esse hanno subito
profonde modificazioni nel corso del tempo e
parallelamente è cambiato l'esito paesaggistico
della loro applicazione: i terrazzamenti dell'Età
del Bronzo conservatisi e recentemente riportati
alla luce al Castellaro di Uscio hanno un aspetto
decisamente diverso dai terrazzamenti moderni.
Altre forme di trasformazione sono esclusivamente moderne; altre ancora si sono estinte. È
difficile dare un volto ai suoli sepolti. Essi testimoniano l'uso sistematico del fuoco, l'elevata
componente organica indica correlazioni con la
gestione degli erbivori, ma i gesti, i saperi, le pratiche impiegate sono forse scomparsi. È difficile
immaginare un paesaggio che ci è visivamente
ignoto. Le prime relazioni pervenute in Europa
sul territorio degli attuali Stati Uniti orientali
non menzionavano le locali coltivazioni di zucche e girasole. Le pratiche dell’agricoltura nordamericana elaborate a partire dal 2500 a.C. da
gruppi che vivevano in uno stadio tecnologico di
tipo neolitico erano sconosciute agli europei, i
quali semplicemente … non videro ciò che non
conoscevano.
Ci troviamo in una situazione analoga quando
cerchiamo di osservare il paesaggio del passato.
Abbiamo però il vantaggio di essere consci della
nostra ignoranza.
Neirone
Alcune punte di freccia simili a quelle del Monte
Aiona sono state rinvenute nel territorio di
Neirone, attorno a Corsiglia e presso la località
Castellaro (N. CAMPANA 1998), circa un chilometro a Est di Roccatagliata. Abbiamo perciò
un segnale pervenutoci da gruppi umani di cultura analoga a quelli di Borzonasca e della
Fontanabuona, anzi probabilmente si tratta dello
stesso gruppo umano di cui abbiamo letto ampie
tracce a Calvari ed a Isolalunga. Ci si può pertanto attendere che attività analoghe a quelle
testimoniate in Val Lavagna ed a Prato Mollo
siano state applicate al territorio di Neirone.
Nessuna indagine o semplice prospezione è stata
finora condotta nei bassi versanti e presso i fondovalle; mentre l’unica prospezione condotta in
zona sommitale ha riservato una sorpresa assai
interessante. Il sito indagato è una piccola
depressione chiamata “Pozza dell’orso” (fig. 3)
ubicata pochi metri a Ovest del crinale che dal
Passo del Gabba (m 1109) porta al Monte
Caucaso (m 1245), dove Bruno Valli aveva raccolto alcune schegge di diaspro indicatrici di
attività umana preromana3. Una serie di sondaggi a mano, tramite una semplice trivella ad avvitamento, ha individuato una sequenza stratigrafica di quattro unità, di cui due contenenti frustuli di carbone di legna. È stato recentemente
datato presso il Laboratorio Beta di Miami
(Università della Florida) un frustulo di carbone
di legna proveniente dal livello carbonioso più
profondo. La misura 7150 +/- 40 BP (identificativo di laboratorio: Beta - 177066), corretta con
la calibrazione a doppia deviazione standard,
corrisponde (col 95% di probabilità) all’intervallo compreso fra 6060 e 5980 BC (avanti Cristo).
Questa data precede di circa un secolo la comparsa delle prime conclamate forme di allevamento e agricoltura sulle coste della Provenza e
del Finalese, di due secoli la neolitizzazione del
resto dell’Italia settentrionale e forse di ancor più
quella delle zone montane.
Per capire se i frustuli di carbone di legna individuati dalle trivellazioni derivano dalla accensione
di focolari o da pratiche di gestione della vegetazione è necessario estendere l’indagine applicando le metodologie di rito (scavo stratigrafico,
analisi micromorfologica, antracologica, palinologica). L’osservazione che il livello carbonioso si
estende su quasi tutta l’area testata suggerisce la
3 Colgo l’occasione per ringraziare Bruno Valli per la consueta sollecitudine con cui segnala alla Soprintendenza per i Beni
Archeologici i risultati delle sue ricerche di superficie.
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Fig. 2 Localizzazione di siti e reperti sporadici citati nel testo. Nel territorio di Neirone: Pozza dell’Orso (93), tra
Corsiglia e Roccatagliata (96), Castellaro di Roccatagliata (97), Rumagè (98), Corsiglia loc. Tabini (100). In Val Lavagna:
Calvari- Cian dei Tenenti (426), Isolalunga (397).
I numeri tra parentesi sono quelli dell’Archivio Topografico dell’Archeologia del Tigullio, in corso di elaborazione presso il Museo Archeologico di Chiavari (elaborazione N. Campana).
possibilità che esso sia riferibile ad una pratica di
incendio della copertura vegetale. Se ciò verrà
confermato da future indagini, il sito di Pozza
dell’Orso contribuirebbe ad aprire una nuova
pagina sulla storia dell’ambiente in Italia.
A differenza di quanto rilevato ad esempio in
Inghilterra, dove sono più di cento i siti di accertato uso sistematico del fuoco per il controllo
della vegetazione da parte dei gruppi mesolitici (i
raccoglitori-cacciatori postglaciali che precedettero gli allevatori-agricoltori neolitici), la documentazione archeologica italiana è molto carente sul tema. Ricerche condotte da Lanfredo
Castelletti (L. CASTELLETTI 1983) e altri
studiosi suggeriscono anzi che i cacciatori mesolitici avessero un impatto trascurabile sui boschi
della fascia più alta. Va sottolineato che i dati si
riferiscono all’alta montagna alpina e
dell’Appennino tosco-emiliano, attorno o al di
sopra del limite superiore del bosco, che risulta
essere stata utilizzata per battute di caccia (prevalentemente allo stambecco). Battute svolte da
piccoli gruppi che si assentavano per brevi periodi dai campi base posti più in basso. D’altro
canto, la documentazione archeologica sui modi
di uso del territorio da parte dei mesolitici alle
quote più basse è insoddisfacente, anche se non
mancano alcune indicazioni sulla probabilità che
la manipolazione delle risorse vegetali fosse
tutt’altro che trascurabile, almeno per quanto
riguarda l’Appennino ( J. J. LOWE, C. DAVITE, D. MORENO, R. MAGGI 1995; R.
MAGGI, F. NEGRINO 1994). La Pozza
dell’Orso può conservare una testimonianza del
fatto che, come in Inghilterra, in Australia e
molte altre parti del mondo, la copertura vegeta-
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Fig. 3 Monte Caucaso – Pozza dell’Orso (foto R. Maggi).
le dell’Appennino veniva trattata col fuoco ben
prima dell’introduzione dell’allevamento, o
meglio di forme di allevamento le cui tracce
siamo in grado di riconoscere.
Passato e presente
Concludo questa breve rassegna osservando che
le attività rurali moderne, medievali e romane,
lungi dal colonizzare un ambiente naturale, si
sono confrontate con un territorio già ampiamente manipolato nel corso dei millenni con la
applicazione di pratiche estese ed incisive, che
hanno comportato cambiamenti talora radicali
della copertura vegetale e la traslocazione di
milioni di metri cubi di quella componente fluida del paesaggio che è il suolo. Mentre in Egitto
sorgevano le prime piramidi, qui da noi gruppi
umani che parlavano una lingua diversa ma
dotati individualmente delle stesse capacità, non
urbanizzati, socialmente poco stratificati, si
cimentavano nella difficile addomesticazione di
un territorio montuoso, elaborando specifici
metodi di gestione delle risorse.
Nell’attuale periodo di abbandono delle campagne, un territorio reduce da millenni di profonde manipolazioni subisce un processo di “rinaturalizzazione” spontaneo, non governato, i cui
esiti talora disastrosi sono sotto gli occhi di tutti:
in primo luogo frane, alluvioni, incendi. Il fuoco
in particolare, dopo essere stato per ottomila
anni sapiente strumento per la generazione di
risorse e per la costruzione del paesaggio, è
diventato agente distruttivo, soprattutto se usato
come strumento generatore di poco limpidi
affari.
Lo studio dei metodi e delle tecniche applicate
in epoche durante le quali lo stesso territorio
presentava una densità di popolamento paragonabile a quella che si sta per conseguire, potrebbe non essere un mero esercizio intellettuale.
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CALVARI - CIAN DEI TENENTI E ISOLALUNGA
ASPETTI SEDIMENTOLOGICI E MICROMORFOLOGICI
DELLA SUCCESSIONE STRATIGRAFICA
Caterina Ottomano
La micromorfologia
L'analisi dei suoli in sezione sottile (micromorfologia),
viene eseguita al microscopio su blocchi indisturbati di
terreno provenienti da suoli, sedimenti, livelli archeologici. Dal momento che questi terreni sono nella grande maggioranza incoerenti, è necessario consolidare i
blocchi in laboratorio mediante impregnazione con
apposite resine epossidiche. L'impregnazione viene eseguita sotto vuoto in modo che la resina, fatta cadere
goccia a goccia, riempia gradualmente la porosità. Una
volta consolidato il campione viene montato su un
vetrino e tagliato sino a raggiungere lo spessore di 20
microns. La micromorfologia rappresenta un prezioso
strumento sia per la comprensione della genesi dei
depositi archeologici che per la ricostruzione degli
ambienti del passato.
L’analisi microscopica ha permesso di raccogliere una
serie di indizi utilissimi per l’interpretazione ambientale dei suoli sepolti di Calvari ed Isolalunga.
Un suolo è definito come un corpo tridimensionale che
si origina sulle terre emerse per alterazione di una roccia o un sedimento. Le acque che circolano nel terreno o
nella roccia e l’attività biologica modificano i materiali di partenza sino a renderli irriconoscibili.
La formazione dei suoli o pedogenesi è fortemente
influenzata da una serie di fattori ambientali quali
clima, vegetazione, topografia, nonchè dal tempo di
esposizione. I suoli sepolti, quindi, forniscono una serie
di utilissime informazioni riguardo le condizioni
ambientali che esistevano nell’area al momento della
loro formazione; durante la pedogenesi, infatti, si formano le figure pedologiche, che forniscono utilissime
informazioni a questo riguardo.
Grazie alla micromorfologia è stato possibile accertare
che i depositi corrispondenti all’US 6, che contengono
anche piccoli carboni, hanno origine colluviale. I carboni sono la conseguenza di incendi della vegetazione (sterpi, ceppaie) effettuati molto probabilmente
allo scopo di aprire radure nella foresta al pascolo, alla
coltivazione e all’insediamento. Le pratiche di disboscamento, come è noto, innescano erosioni accelerate dei
suoli lungo il versante che vengono risedimentati più a
valle sotto forma di depositi colluviali (R.I.
MACPHAIL 1992).
Una figura pedologica importante, visibile solo a scala
microscopica, sono i rivestimenti argillosi, sottili pellicole contenute all’interno dei pori del sedimento originate durante il processo di formazione del suolo
(pedogenesi). Perchè i rivestimenti argillosi si formino
è necessaria la presenza di una densa copertura vegetale; essi testimoniano dunque che, dopo la deposizione
dei colluvi, un nuovo bosco ebbe a ricoprire l’area e
dovette permanere per un periodo piuttosto lungo,
tanto da consentire la formazione di un suolo forestale.
Un’altra figura pedologica presente nel suolo di
Calvari (US 6) sono i rivestimenti laminati, che sono
sovrapposti a quelli argillosi e indicano che, ancora più
tardi, la copertura vegetale venne disturbata più volte
anche se non drasticamente ed infine, rimossa definitivamente.
Quest’ultima fase è segnata dalla presenza nel suolo
dei rivestimenti grossolani (dusty coatings) legati a
superfici denudate o comunque ricoperte da scarsa
vegetazione che potrebbero essere state adibite a pascolo.
Il suolo superiore della sequenza di Calvari, corrispondente all’US 4, è sviluppato su depositi di versante contenenti carboni uniformemente dispersi nella
massa di fondo, e frequenti pedorelitti e frammenti di
rivestimenti argillosi provenienti dal rimaneggiamento di suoli forestali. I rivestimenti grossolani che
foderano le pareti di alcuni pori (“agricutans”) sono
messi in relazione, alla stessa maniera con attività
agricole che si svolgevano sulla superficie.
I suoli di Calvari, corrispondenti alle UUSS 6 e 4,
trovano corrispondenza, dal punto di vista micromorfologico, con i due suoli sepolti di Isolalunga, il più
profondo dei quali è datato al Neolitico antico.
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Isolalunga - Suolo 1. Microfotografia x 100.
La porosità (15%) è costituita in prevalenza da camere del diametro massimo delle ghiaie minute e da subordinati canali e planes minuti.
La microstruttura è a camere.
La frazione grossolana è costituita da ghiaie minute, da subarrotondate ed arrotondate che comprendono: granuli di siltiti e arenarie fini della formazione di Val Lavagna, rarissimi granuli di quarzo policristallino, frequenti carboni dispersi
nella matrice, generalmente subarrotondati, frequenti relitti di suoli bruni.
La frazione fine è costituita da limi argillosi bruno scuri; la b-fabric è indifferenziata, localmente reticolata.
Il rapporto C/F è 40/60.
Le figure pedologiche sono rappresentate da:
• comuni rivestimenti argillosi limpidi, presenti sia nella matrice che sulle pareti dei pori di piccole dimensioni.
• frequenti rivestimenti laminati, caratterizzati dall’alternanza di lamine di argilla e di limo.
• comuni rivestimenti grossolani sia sovrapposti ai rivestimenti argillosi che esclusivi; questi rivestimenti foderano le
pareti dei pori di dimensioni maggiori (microfotografia C. Ottomano).
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IL TERRITORIO DI NEIRONE NELLA VAL FONTANABUONA
Roberto Ghelfi
Il territorio di Neirone si estende lungo la valle
del torrente omonimo ed è delimitato dai crinali secondari che discendono dai monti
Lavagnola e Caucaso, entrambi collocati sulla
dorsale appenninica.
Il Caucaso, che eleva la sua mole articolata fino
a 1243 metri sul livello del mare, è un acrocoro
generante più dorsali; le più lunghe, esposte
verso sud, conducono a Gattorna, nodo di fondovalle collocato in prossimità dell’incrocio
della Val Neirone con la Val Lavagna, ed a
Monleone, posto presso la confluenza del
Torrente Malvaro, non lontano da Cicagna,
antico nodo di attraversamento in direzione del
Tigullio. Fra le due dorsali s'incunea il territorio di Moconesi strutturato su percorsi di mezzacosta che allineano piccoli nuclei insediati.
Schema della struttura orografica del Tigullio
Dai contrafforti del Caucaso, si distacca ancora,
verso settentrione, la dorsale minore che delimita il cantone alto della Val Neirone dominato dal promontorio di Roccatagliata, nodo strategico per il controllo dei passi appenninici che
si aprono verso la Val Trebbia ed il territorio
piacentino (fig. 1). Il passo più importante,
quello del Portello, permette di raggiungere,
dopo pochi chilometri, la direttrice di fondovalle.
La configurazione morfologica della dorsale
principale, particolarmente sinuosa in corrispondenza del Monte Caucaso e del Monte
Ramaceto, fa sì che l’alta Val d’Aveto si presti
per essere utilizzata come naturale rettifica del
tracciato longitudinale della Catena appenninica: l’alta Val Neirone ed in particolare il sistema
di Roccatagliata, sono naturalmente collegati
anche con questo sistema vallivo che scambia
direttamente con la Lunigiana e l’estremo
levante ligure attraverso l’alta Val di Taro.
A differenza delle altre valli della
Fontanabuona, quindi, la Valle del Neirone è
l’unica che permette di utilizzare contempora-
neamente le direttrici della Trebbia e
dell’Aveto. D’altra parte le vicende tormentate
del castello di Roccatagliata, antico possesso del
Vescovo di Genova poi degli Advocati, quindi
dei Fieschi ed infine ancora di Genova, posto a
controllo delle strade del Portello e di
Barbagelata, sembrano confermarlo.
La fisionomia della valle
La fisionomia della valle (fig. 2), dedotta dalla
fotointerpretazione e dalla Carta tecnica regionale, è messa in risalto dalla distribuzione dei
tessuti agricoli, organizzati su terrazzi che
seguono l’andamento delle curve di livello, e
dalla presenza del bosco, che diventa sempre più
rado in corrispondenza delle dorsali montuose,
occupate da estese praterie.
La parte alta del bacino, delimitata dal crinale
appenninico, è dominata dal lungo promontorio, terrazzato fino alle quote alte, che s’incunea
tra le valli dei Torrenti Rissuello e Beo, sul quale
si distende l’insediamento di Roccatagliata, con
l’antico castello, costruito sul nodo delle due
percorrenze, provenienti l’una dal crinale di
Barbagelata o di Costa Finale e l’altra da
Torriglia. Tutto ciò conferma il profondo legame che si stabilisce fra i territori d’oltregiogo e
quelli della marina, accomunati dallo stesso
spartiacque appenninico.
Da Torriglia, nodo strategico posto sul culmine
delle dorsali che dividono le valli Trebbia,
Scrivia e Bisagno, si può accedere direttamente
al sistema di Neirone anche attraverso la valle
del Torrente Sestri, che confluisce nelle acque
del Torrente Rissuello ai piedi del Monte
Borghigliano a valle di Roccatagliata. Questo
percorso può essere alternativo a quello che da
Roccatagliata risale la valle del Torrente Beo.
La distribuzione dei tessuti agricoli è strettamente legata alla dislocazione degli insediamenti, anzi, il loro addensarsi o diradarsi è sintomo dell’estensione o della potenza dell’insediamento stesso: lo abbiamo già notato a
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Roccatagliata ed ora lo constatiamo nuovamente per Neirone, punto di scambio fra le direttrici trasversali della valle secondaria e quelle longitudinali della valle principale. Mentre le
prime collegano la costa con l’entroterra padano, ossia il mare e la montagna, le seconde si
legano con Genova e Chiavari animando tutto
il versante sinistro del Torrente Lavagna. Si
noterà come la presenza dell’asse vallivo, caratterizzato dai tessuti a pettine tipici delle aree
alluvionali, condizioni anche l’addensarsi degli
appoderamenti a fasce che modellano tutti i
promontori bassi delle dorsali provenienti
dall’Appennino.
A sud est, il complesso del Monte Caucaso con
le sue praterie delimita con forza il sistema di
Neirone: le strutture terrazzate di mezzacosta
non risalgono le dorsali come accade per il
complesso orografico della sponda opposta,
incastellato attorno alla Rocca di Cavello che
segnava il confine fra il Capitanato di Recco e
la Podesteria di Neirone. Il comprensorio del
Caucaso presenta aspetti più arcaici essendo un
contrafforte della catena appenninica che si
protende verso il mare e si affaccia al di sopra
del promontorio di Portofino. Attorno ad esso
si sono organizzate le comunità di Favale,
Montegrifo, Moconesi e Corsiglia, posta fra
Neirone e Roccatagliata, dove il paesaggio dei
prati appenninici si trasforma gradualmente,
arricchendosi di nuove colture1.
Neirone, divenuto nel secolo XVI sede del
Podestà (G. CASALIS 1849, ad vocem) si trova
nel punto dove la valle, stretta ed incassata, si
chiude contro la costa di Castagnola, che divide
il cantone alto del bacino imbrifero da quello
basso. Percorrendo la strada moderna si percepisce fisicamente questo cambio di quota e di
paesaggio, segnalato dai tornanti che separano
Neirone da Corsiglia, piccolo abitato posto
sulla strada di mezzacosta alta che conduce a
Roccatagliata ed al passo del Portello.
La posizione di Neirone, con il complesso
monumentale della chiesa parrocchiale dedicata
a San Maurizio già noto nel 1147, è tipica delle
situazioni di chiusa e di attraversamento di un
sistema vallivo: di chiusa per i motivi sopra
esposti e di attraversamento perché collega le
strade di mezzacosta che scendono verso la
Valle del Torrente Lavagna l’una in direzione di
Gattorna e l’altra in direzione di Ognio; la
prima, dopo aver attraversato il corso d’acqua
può risalire il crinale di Uscio, collegarsi con il
sistema del promontorio di Portofino e la Valle
di Recco, la seconda attraverso Lumarzo può
raggiungere la Valle del Bisagno e Genova.
Le funzioni che la Valle di Neirone svolge nel
sistema della Liguria di levante sono principalmente le seguenti:
a) collegare Genova con i sistemi dell’oltregiogo, utilizzando la direzione Ognio, Val Bisagno;
b) collegare direttamente la costa con i territori
dell’Appennino, vantando anche una certa
autonomia nei confronti del capoluogo regionale, utilizzando gli scali propri, collocati all’origine delle principali direttrici trasversali che collegano l’interno e la Riviera in questo settore
del Levante genovese: l’asse del crinale di
Portofino con il porto di San Fruttuoso di
Capodimonte, oppure l’asse vallivo di Recco
naturalmente allineato con quello di Neirone.
La presenza di Genova attira i percorsi in direzione della città, ragione per cui sono chiamate
in causa tutte le strade che conducono alla piana
del Bisagno, compatibilmente con il carattere
aspro della morfologia dei luoghi, sempre presente e condizionante la civiltà delle popolazioni liguri. Questi tracciati sono utilizzati anche
dalla capitale per controllare, attraverso il
castello di Roccatagliata, i passi appenninici.
Non che quelli dell’alta Val Neirone fossero
particolarmente cruciali per Genova che ne
possedeva altri più diretti e più comodi - si
pensi alla struttura dei percorsi di mezzacosta
che risalgono il Bisagno in direzione di
Torriglia - ma perché quelli, proprio per la particolare configurazione dei luoghi, potevano
legarsi direttamente alle direttrici trasversali2 di
crinale o di valle che caratterizzano il territorio
ligure di Levante. In altre parole, un’entità poli-
1 Per un interessante confronto sulle tematiche dello sviluppo territoriale del comprensorio del Tigullio si veda O. GARBARINO
2000.
2 Si dicono trasversali tutte le direzioni perpendicolari alla costa. Si veda A. GIANNINI, R. GHELFI 1980.
- 110 -
tica o commerciale che avesse avuto intenzione
di sviluppare un proprio sistema, indipendente
dal capoluogo, avrebbe potuto, utilizzando gli
scali del promontorio di Portofino o di ReccoCamogli, dirottare su di sé parte dei flussi commerciali diretti al capoluogo.
Basti ricordare la vicenda del contrabbando del
sale di cui il Vinzoni si occupò a più riprese nel
corso delle sue missioni (R. GHELFI 2002, pp.
46-50).
La struttura del Levante ligure non può essere
distinta dalla massa montuosa, che si eleva al di
sopra del corridoio delle valli parallele alla
costa; questa, articolata in lunghe dorsali contrapposte alla prevalente direzione appenninica,
è attraversata da una serie di mulattiere che, in
senso longitudinale, scendono da Tortona a
Luni collegando le estremità di un comprensorio alternativo alla Riviera. Lungo queste direttrici i mulattieri che trasportavano il sale riuscivano ad eludere il controllo genovese, principalmente imperniato sulla costa, ed attraversando
il territorio dei feudi del Principe Doria vendevano il sale in Val Bisagno, in Val Polcevera, nei
territori di Tortona e di Novi. Sotto il profilo
territoriale la Valle di Neirone3 poteva essere
utilizzata anche per scambi di questo tipo data
la facilità dei collegamenti con i Feudi Imperiali
che si estendevano alle Valli della Trebbia e
dell’Aveto. Si comprende, pertanto, la preoccupazione di Genova di ridurre sotto il proprio
controllo un territorio come questo, potenziale
concorrente o, quanto meno, elemento di
disturbo nella sua organizzazione territoriale. Si
vedano le ripetute occupazioni e distruzioni del
castello fliscano ed il mantenimento della
Podesteria di Roccatagliata e di Neirone, compresa fra i capitanati di Recco e di Rapallo, confinante con i territori di Torriglia e di Santo
Stefano d’Aveto del Principe Doria.
Aspetti del territorio di Neirone
La tavola seguente (fig. 3) illustra attraverso
quattro disegni altrettanti aspetti del territorio4
in esame, proponendo la consueta scansione per
crinali, strutture di mezzacosta, fondovalle e
costa, utile per distinguere gli elementi territoriali che si riconoscono analizzando la cartografia ufficiale5.
Lo studio dei crinali evidenzia la struttura dei
nodi alti del territorio, ossia gli scambi fra la
direttrice principale – longitudinale - e quelle
secondarie – trasversali - deputate al collegamento del sistema alpino con quello appenninico attraverso la Pianura padana. La rivierasca
del Ticino, facente capo a Pavia, prende origine
dal comprensorio del lago di Como. Dopo aver
attraversato il Po, in corrispondenza di Broni o
Stadella, mediante il crinale dell’Antola raggiunge l’Appennino in corrispondenza del nodo
B del disegno 3a, corrispondente al Monte
Lavagnola, radice del crinale che forma la sponda destra del bacino territoriale di Neirone. Il
nodo A segna il distacco del crinale che conduce alla dorsale costiera D, la quale, nel nodo E,
scende con un ramo in direzione di Portofino.
Se proviamo a collegare questi nodi secondo
una direzione trasversale osserviamo che la Val
Fontanabuona è sollecitata principalmente nel
nodo B/C corrispondente a Gattorna, promontorio insediato a controllo della confluenza e
dell’attraversamento diretto ad Uscio/Portofino
o di Genova attraverso il Monte Fascie o
Bavari. Lo stesso nodo è sollecitato anche dalla
dorsale discendente dal Monte Caucaso sulla
quale s’innesta la direttrice minore dello spartiacque Trebbia/Aveto. Concludendo, il bacino
di Neirone/Roccatagliata è interessato fin dall’origine dai percorsi diretti verso il promontorio di Portofino e dei suoi approdi.
Se i crinali rappresentano la struttura fondamentale del più antico sistema viario di un territorio, le strutture di mezzacosta, evidenziate
con colore verde, indicano la forza della capacità insediativa. Allo scarto dei crinali principali, sulla linea delle risorgive collinari, l’uomo
costruisce le sue abitazioni. Sono riparate dai
bordi del promontorio, e sono sufficientemente
distanti dai percorsi di crinale o di valle longi-
3 Anche se non sono state condotte indagini precise in questo senso.
4 La scansione per fasi riprende le intuizioni contenute in A. GIANNINI, R. GHELFI 1980.
5 Per redigere le immagini è stato utilizzato il Foglio 83 Rapallo della Carta d’Italia in scala 1/10000 dell’I.G.M.
- 111 -
tudinale, utilizzati principalmente per gli spostamenti più veloci. Si disegna dapprima una
trama analitica che, seguendo fedelmente le
isoipse, ben rappresenta la fisionomia della
stanzialità collinare. Nel disegno 3b possiamo
notare come i tracciati più sottili seguano l’andamento delle valli minori costiere, formando la
fitta trama che sostiene l’organizzazione poderale, mentre il bacino di Neirone è interessato
da sistemi analitici di mezzacosta, che animano
principalmente il cantone alto di Roccatagliata;
questi sono più discontinui nel resto della valle,
dove continua a prevalere la percorrenza di crinale. Con il potenziamento dei nodi, ossia con
la formazione della struttura gerarchica dei centri abitati, si selezionano collegamenti più rapidi e sintetici, indicati nel disegno con un tratto
più evidente. Prendono corpo i percorsi 4 per
Costa di Lavagnola o Valle di Sestri in direzione dell’oltregiogo ed i percorsi 2 e 3 in direzione di Genova.
La struttura di mezzacosta sposta gradualmente verso il fondovalle le modalità d’uso del territorio. Il disegno 3c illustra questo momento
evidenziando, assieme all’armatura primaria
delle percorrenze collinari, anche le maggiori
direttrici vallive longitudinali, in rosso, facenti
capo ai centri territoriali dominanti. Il più
importante di questi, Genova, annoda la viabilità costiera e quella interna parallela ad essa,
che percorre le Valli del Lavagna e del Bisagno,
formando una sorta di corridoio destinato a
separare, in certi momenti storici, il sistema
costiero da quello appenninico. I crinali relativi,
anch’essi paralleli, possono formare due entità
distinte, l’una appoggiata al nodo di Portofino e
l’altra alle alte valli degli affluenti di sinistra del
Lavagna, fra cui Roccatagliata, come se il
mondo del comprensorio appenninico, molto
esteso a settentrione, premesse verso il mare ed
appoggiasse il suo piede ai contrafforti estremi
delle dorsali trasversali. Dall’altra parte, il bordo
litoraneo faceva sentire il suo peso economico e
culturale specializzando gli antichi approdi
come punti di contatto fra popolazioni collinari e genti straniere che percorrevano il mare.
Questo rapporto fra costa ed interno, nei
momenti in cui Genova tende all’unificazione
regionale, prende corpo attraverso l’organizzazione dei percorsi di fondovalle trasversale che
collegano i due sistemi. Allora la Valle di
Neirone/Roccatagliata trova il suo naturale raccordo con la Vallata di Recco attraverso il passo
di Uscio.
Lo specializzarsi sempre maggiore della fascia
costiera, disegno 3d, che sostituisce l’antico
percorso marittimo prima con la strada rotabile, poi con la ferrovia e quindi con l’autostrada,
ripropone l’immagine di un ambiente organizzato per grandi nodi urbani, dove il territorio
collinare è subordinato ad un ruolo secondario a
causa dello scompenso ambientale che tutti
conosciamo.
La Podesteria di Neirone
La Podesteria è stata rappresentata più volte da
Matteo Vinzoni. Quella contenuta nell’Atlante
dei Domini del 1773 (fig. 4), contiene una
descrizione che permette di rilevare alcuni dati.
Il territorio, che la Repubblica di Genova aveva
acquistato nel 1433 per lire seimila da Nicolò ed
Antonio Fieschi, era governato da un podestà
eletto dalla Repubblica che risiedeva in Neirone
e si estendeva anche a cavallo dell’Appennino,
incuneandosi nei territori dei Doria. Nella Val
Fontanabuona, la Podesteria comprendeva
all’interno della sua giurisdizione anche alcune
terre collocate sulla sponda destra del torrente
Lavagna (M. VINZONI 1955). Le strade che
risalivano la valle in direzione dell’Appennino e
che, giunte a Barbagelata, scendevano a
Montebruno in Val Trebbia oppure in Val
d’Aveto, erano dotate di opere d’arte necessarie
per poter attraversare i torrenti. “Compongono
detta Podesteria li seguenti luoghi, et
Adiacenze, parte situate in Fontanabuona, e
parte sull’Appennino, cioè: In Fontanabuona.
Cornega, Delialo, Ferrada, Limarso, Serra. In
Val Lavagna. Garzi, Gattorna, Terrarossa.
Sull’Appennino. Barbagelata, Corsica, San
Marco D’Uri, Neirone Residenza del Podestà,
Roccatagliata Capo del Feudo, Sestri, Terrile.
Di là dall’Appennino. San Brilla, Cà di Beneto,
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Casinetta, Costa Finale, Pian della Chiesa,
Poggiasso, Ravinello.”
Si possono ancora oggi individuare alcuni ponti
ben conservati lungo le mulattiere che formavano il tessuto connettivo del territorio collinare;
esse non seguivano l’odierno tracciato carrabile,
ma utilizzavano il fondovalle del Neirone percorrendone la rivierasca, sempre più elevata
rispetto al corso d’acqua che corre incassato fra
le rocce, guadagnando la rapidità dei collegamenti.
I ponti (vedi il contributo di Paola Cavaciocchi,
in questo volume) sono collocati principalmente lungo la direttrice proveniente da Genova e
diretta, attraverso Neirone, a Roccatagliata ed al
Monte Lavagnola lungo la valle del Torrente
Sestri. La vitalità di questo percorso, oggi sostituito nell’ultimo tratto dalla strada carrozzabile
che conduce al passo del Portello, deve essere
ricercata nel collegamento più diretto con
Torriglia che tale tracciato permetteva.
- 113 -
SCHEMA DEL TERRITORIO DELLA VAL FONTANABUONA E DI NEIRONE
Fig. 1 I nodi di crinale in rosso sono collegati alle direttrici provenienti dall’Oltrepò Pavese e dalla rivierasca del Ticino.
La Valle di Neirone, per la sua diretta connessione con il crinale di Portofino, è strettamente interessata alle vicende
dell’oltregiogo. Da qui l’interesse per questo territorio da parte delle potenti famiglie genovesi.
- 114 -
IL TERRITORIO DI NEIRONE - I tessuti agricoli
Fig. 2 La tessitura fondiaria della Valle di Neirone è caratterizzata dalla tipica organizzazione ligure a fasce. Si notano
concentrazioni di tessuti nell’alta valle ed è molto evidente il sistema cha circonda Roccatagliata capofeudo dei Fieschi;
accanto al nucleo potente costruito sul promontorio si individuano situazioni minori, ma continue, di insediamento e
tessuto proprio sulle pendici della dorsale appenninica.
Il sistema di Corsiglia chiude - apre l’alta valle ad una quota più elevata di Neirone, centro della media valle e nodo dei
percorsi di mezzacosta bassa.
I boschi delimitano i tessuti della valle principale che formano una fascia continua a ridosso del fiume. Nei tratti di golena si formano tessuti lineari regolari di bonifica.
- 115 -
TAVOLA COMPARATIVA DELLA FORMAZIONE DEL TERRITORIO DI NEIRONE
Fig. 3a IL TERRITORIO DI NEIRONE
Crinali
TERRITORIO COMUNALE
TERRITORIO DELLA PODESTERIA
1 - Crinale appenninico
2 - Crinale dell’Antola
3 - Crinale dell’Aveto
4 - Crinale costiero - Genova/Chiavari
5 - Crinale del monte di Portofino
a - Collegamento fra crinale appenninico e crinale costiero
Fig. 3b IL TERRITORIO DI NEIRONE
Strutture di mezzacosta
TERRITORIO COMUNALE
TERRITORIO DELLA PODESTERIA
1 - Sistemi di mezzacosta analitica
2 - Mezzacosta per Genova attraverso Uscio
3 - Mezzacosta Neirone - Lumarzo - Bargagli
4 - Mezzacosta Neirone - Torriglia per costa di Lavagnola
5 - Mezzacosta del Bisagno per Val Trebbia
Fig. 3 Il territorio di Neirone secondo la suddivisione per crinali, strutture di mezzacosta, fondovalle e costa.
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Fig. 3c IL TERRITORIO DI NEIRONE
Fondovalle
TERRITORIO COMUNALE
TERRITORIO DELLA PODESTERIA
Fondovalle principale
Fondovalle secondario
Mezzacosta analitica
Mezzacosta sintetica
Fig. 3d IL TERRITORIO DI NEIRONE
Fondovalle trasversale e longitudinale
TERRITORIO COMUNALE
TERRITORIO DELLA PODESTERIA
1 - Percorso trasversale Recco - Roccatagliata
2 - Fondovalle longitudinale Entella - Bisagno
3 - Fondovalle Laccio - Scrivia
4 - Valle Trebbia
5 - Strada rivierasca
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IL TERRITORIO DI NEIRONE - La podesteria
Fig. 4 La podesteria di Neirone e Roccatagliata dai tipi dell’Atlante vinzoniano del 1773.
- 118 -
NEIRONE E IL TERRITORIO DEI TIGULLII
POPOLAMENTO E SVILUPPO FINO ALLE SOGLIE DEL MEDIOEVO
Piera Melli
Fig. 1 Carta del popolamento della Liguria centro- orientale nell'età del Ferro (P. Melli, realizzazione grafica L.Tomasi).
Le vicende del territorio di Neirone nella protostoria vanno lette nel più vasto quadro dello
sviluppo del sistema territoriale costituito dalla
valle Fontanabuona e dal perimetro costiero del
golfo del Tigullio con il promontorio di
Portofino. È opinione concorde che tale territorio, in cui il Comune è inserito, coincida con
l'area occupata in antico dalla tribù ligure dei
Tigullii1, di cui ci sono pervenute, come vedremo oltre, menzioni indirette delle fonti romane.
La conformazione fisica del comprensorio2,
intersecato da numerosi rivi che si immettevano
nel sistema idrografico principale formato dal
Lavagna-Entella, che sfocia tra Chiavari e
Lavagna, ha da sempre favorito l'insediamento
umano, per la fertilità delle terre e la ricchezza
di acque, che si accompagnano ad una morfologia molto varia, ottimale sia per l'allevamento,
sia per differenti tipi di colture e lo sfruttamento boschivo (fig. 1). La zona era inoltre ricca di
giacimenti di minerali3, in particolare cupriferi,
che furono sfruttati almeno a partire dall'età del
Rame e alimentarono nell'età del Ferro un fiorente artigianato.
La catena montuosa che delimita a nord la val
Fontanabuona, con vette che superano in qualche caso i 1000 metri di altitudine, è attraversata da numerosi passi, che mettevano in comunicazione con la Pianura padana4.
Anche se la documentazione archeologica
1 G. MENNELLA 1989.
2 Cfr., in questo volume, il contributo di Roberto Ghelfi.
3 R. MAGGI, M. DEL SOLDATO, S. PINTUS 1986.
4 Cfr. il contributo di R.Ghelfi, fig. 1.
- 119 -
Fig. 2 Neirone. Sezione della tomba (da N. Morelli 1901).
attuale è relativamente scarsa, per il periodo in
esame, sembra opportuno riesaminarla alla luce
dei dati desunti da altre fonti, per tentare di
tracciare un quadro ragionevolmente accettabile, anche se con molte lacune, del popolamento
del comprensorio nei secoli che vanno dalla
prima età del Ferro al tardoantico.
Per la prima età del Ferro l'insediamento
meglio conosciuto è l'emporio di Chiavari5, di
cui è stata messa in luce l'imponente necropoli
composta di tombe a cassetta in lastre di pietra,
che costituiscono il più antico esempio della
forma di sepoltura caratteristico della cultura
ligure, racchiuse isolatamente o a gruppi entro
recinti di lastre di ardesia. L'articolazione dei
recinti e le composizioni dei corredi segnalano
l'esistenza di una società evoluta, composta da
differenti ceti sociali. Il rito praticato era invariabilmente quello della cremazione indiretta: i
corpi dei defunti, accuratamente abbigliati,
venivano consumati su un rogo funebre, con
parte del corredo. Le ceneri erano successivamente raccolte e deposte nella tomba entro urne
di ceramica, fabbricate per l'occasione o importate, con altro vasellame necessario al rituale
funebre (recipienti per libagioni) e gli oggetti
posseduti in vita dall'estinto, emblematici del
sesso e del censo, armi per gli uomini, monili,
strumenti per la tessitura per le donne.
Anche se non può essere assunta a totale esemplificazione della cultura materiale dei Liguri
della prima età del Ferro, per la selezione cui
erano sottoposti gli oggetti destinati ai corredi
funebri, la presenza di elementi culturali allogeni e la stessa natura emporiale del centro, la
necropoli di Chiavari offre un prezioso archivio
conoscitivo per l'elaborazione di analisi statistiche sull'articolazione della compagine sociale,
gli usi funerari, le tecniche artigianali e le abitudini di quella popolazione, strumenti utili per
l'interpretazione anche di ritrovamenti più lacunosi e sporadici.
Lo studio dei copiosi materiali della necropoli
ha portato a ritenere che l'evidente prosperità
del centro fosse legata allo sfruttamento delle
miniere di rame del territorio, come quella di
Libiola ed alla posizione sul mare, che favorì
stretti contatti con le correnti commerciali
marittime dirette verso i mercati della Francia
meridionale, in particolare con gli Etruschi.
L’ambiente costiero a oriente del promontorio di
Portofino, in corrispondenza di Chiavari6 presentava, in epoca protostorica, una facies di tipo
lagunare, con probabile presenza di una barra o
di piccole dune e aree acquitrinose all’interno.
Non è quindi da scartare, pur in assenza di prove
dirette, l'ipotesi che un'altra attività remunerativa fosse costituita, come è documentato per il
medioevo, dal commercio del sale7, particolarmente ricercato nell'antichità per la conservazione dei cibi.
L'attività bronzistica è segnalata da numerosi
manufatti (borchie, fibule, dischi pettorali, ganci
di cintura, pendagli e catenelle, bracciali) in
buona parte probabilmente prodotti in loco,
mentre un gran numero di oggetti di importazione permette di ricostruire la rete dei contatti
del centro costiero, che riceveva ed imitava prodotti dell'Etruria meridionale e dell'area pisano
versiliese (ad esempio buccheri8), dove il centro
emergente di Pisa andava estendendo la sua
influenza commerciale. Un altro flusso di traffi-
5 La bibliografia aggiornata sulla necropoli di Chiavari in: P. MELLI 1994; R. MAGGI, G. LEONARDI, A. C. SALTINI 1998.
6 Cfr. la ricostruzione dell’evoluzione della linea di costa nella zona di Chiavari: M. DEL SOLDATO 1988, spec. pp.20-26, tavv.1-3.
7 P. MELLI 1996, p.109.
8 P. MELLI 1993.
- 120 -
Fig. 3 Neirone. Corredo della tomba ricomposto
(da N. Morelli 1901).
ci era incanalato verso l'entroterra, in direzione
delle popolazioni insediate nella Pianura padana, specialmente la civiltà di Golasecca, fiorita
nel bacino del Ticino, che a sua volta fungeva da
tramite per gli scambi con i territori transalpini9.
Lungo uno degli itinerari che collegavano la
costa ligure con il Piemonte è stato identificato,
in località Fornaci di Rapallo, un sepolcreto10 di
tombe a cassetta, forse con recinti, di cui si conserva attualmente solo parte di un corredo databile all'inizio del VI secolo a.C. La necropoli è
posta a poca distanza dall'altura denominata
Castellaro, dove probabilmente era ubicato un
insediamento coevo, in una posizione strategica
a controllo della foce del fiume Boate dove si
incrociavano due importanti itinerari terrestri,
uno longitudinale, che metteva in comunicazione la costa con la Val Fontanabuona, attraverso
il passo della Crocetta ed un percorso più tardi
ricalcato dalla strata medievale, di probabile origine romana, che attraversava la località
Sant’Anna per dirigersi verso Bana e Ruta di
Camogli, aggirando il rilievo del monte di
Portofino.
La Val Fontanabuona, a sua volta, costituiva un
territorio di cerniera, connesso a Levante con il
sistema Val Trebbia-Val d’Aveto, tramite per
l’Emilia occidentale, e verso nord ovest in direzione del Piemonte, attraverso la Valle Scrivia.
Lungo quest’ultimo asse, dove sorgeranno nel V
sec. a. C. molti insediamenti liguri11, è possibile
riconoscere un itinerario distributivo di prodotti del commercio etrusco marittimo, ed in particolare buccheri, che con la mediazione di un
centro costiero come Chiavari e successivamente del porto di Genova, attivo dalla fine del VIIinizio del VI a.C.12, raggiungevano siti del
Piemonte meridionale13.
Con l'abbandono del centro di Chiavari e la crescente importanza acquisita dall'emporio di
Genova, divenuto, dalla fine del VI secolo a.C.,
sede di un nucleo di emigrati di origine etrusca,
che commerciavano con i mercati della Liguria
interna e dell'area di Golasecca14, l'economia del
comprensorio tigullino dovette gravitare preferibilmente nell'orbita dell'importante centro portuale.
È proprio a partire dal V secolo che si verificò,
analogamente a quanto constatato nel resto della
regione15, una più intensa occupazione del territorio rivierasco, dove sono attestati insediamenti sia affacciati sul mare, sia nell'interno.
Come è meglio documentato per altre aree della
Liguria costiera, in particolare nella vicina
Lunigiana16, si può ipotizzare un modello inse-
9 R. DE MARINIS 1998.
10 P. MELLI 1996.
11 M. VENTURINO GAMBARI 1987; M. VENTURINO GAMBARI, B. TRAVERSONE, A. CATTANEO CASSANO 1996.
12 Per le recenti scoperte nell'area portuale di Genova: P. MELLI in corso di stampa b, con bibliografia prec.
13 Principali contributi sui rapporti tra i centri liguri del Piemonte e gli Etruschi: F. M. GAMBARI, G.COLONNA 1986; F. M.
GAMBARI 1989. La questione è ripresa, da ultimo, in M. BONAMICI 1995, p. 29 e segg.
14 M. MILANESE 1987; M. MILANESE 1996; P. MELLI in corso di stampa b.
15 P. MELLI in corso di stampa a.
16 G. MASSARI 1981; A. MAGGIANI 1985.
- 121 -
Fig. 4 Neirone. Il corredo.
diativo caratterizzato da piccoli abitati rurali
sparsi, composti da pochi nuclei famigliari,
secondo un'articolazione più tardi descritta
dalle fonti romane17, in vici e castella, i primi,
ubicati su pendii a mezzacosta o in fondovalle,
legati alla produzione agricola, i castellari con
funzioni di controllo territoriale, in alcuni
periodi probabilmente anche per difesa ed
arroccamento.
Altri nuclei abitati sorgevano su alture costiere,
a controllo di foci di fiumi o piccole insenature,
dove probabilmente approdavano le imbarcazioni impiegate in commerci di piccolo cabotaggio, che redistribuivano la mercanzie confluite nei porti maggiori, in particolare a
Genova.
Tale occupazione capillare del territorio consentiva un’economia integrata ed autosufficien-
te di comprensorio.
Segnali della distribuzione del popolamento
sono principalmente offerti dall'ubicazione di
sepolture, impiantate su spianate a mezza costa.
La sepoltura nota come "tomba di
Roccatagliata"18 (figg. 2-6) fu rinvenuta nel
1892 in località Cozze, nella frazione di
Corsiglia di Neirone, dal rev. Dondero. Passò
quindi nella collezione Morelli che fu depositata presso il Museo Geologico della regia
Università di Genova e fu infine acquistata dal
Comune di Genova nel 1909.
Secondo il primo editore19 la struttura consisteva in un sepolcro a cassa litica formata da sei
lastre. Nell'immagine che ci è pervenuta (fig. 2),
non sappiamo quanto fedele, sopra la lastra che
fungeva da coperchio figurano numerose pietre,
forse residuo di un tumulo, analogamente ad
17 Strabo V 2, 1; Liv. XXXV 3, 6; 21, 10; XXXIX 32, 12.
18 N. MORELLI 1901, pp. 24-25, 31, 34 tav. III, 11; IV, 1-4; VII, 6; VIII, 6; O. MONTELIUS 1904, p. 771, tavv. 163, 7,11,13; 164,
7; L. BANTI 1937, p. 160, tav. VIII, b-f; A. M. PASTORINO 1994.
19 N. MORELLI 1901, p. 24; tav. III, 11; IV, 1-4; VI, 1-2; VII, 6; VIII, 6.
- 122 -
Fig. 5 Neirone. Corredo della tomba. Ceramiche.
altri esempi documentati nell'estrema Liguria
di Levante ed in Versilia20.
Il cinerario conteneva, come riferisce Morelli,
resti combusti "d'uomo adulto"21, che andarono
dispersi. La fibula fu rinvenuta entro l'ossuario.
1) Olla (fig. 5,1)
Labbro distinto, appena estroflesso, collo verticale, corpo ovoide, piede a tacco.
Impasto di colore tendente al grigio. Superfici
levigate a stecca. Ricomposta da frammenti.
h cm 20; diam max cm 19,5.
2) Ciotola (fig. 5,2)
Labbro distinto da un solco, spalla verticale,
vasca troncoconica, piede ad anello con orlo
distinto appena estroflesso. Fascia a doppio zig
zag continuo inciso sulla spalla.
Impasto di colore tendente al grigio, ingubbiatura nera. Ricomposta da frammenti, una lacuna al labbro.
h cm 8,8.
3) Bicchiere (fig. 5,3)
Labbro distinto, collo conico distinto, corpo
globulare, fondo incavato. Due solchi asimmetrici da tornio sul collo.
Impasto depurato rosso/grigio. Tornito.
h cm 10,7.
4) Fibula in bronzo (fig. 6,4)
Arco a forma asimmetrica con sezione a losanga, globetto cilindrico all'estremità, molla a un
giro, staffa allungata.
Forma ricomponibile da quattro frammenti.
Lungh max cons cm 9,4.
5) Coltello in ferro (fig. 6,5)
Profilo diritto, lama a un solo taglio.
Ricomposto da tre frammenti, parzialmente
mutilo.
Lungh del framm. maggiore cm 23,7; lungh
max ricostruibile cm 29,5; sez max cm 2,8.
6) Elemento in ferro (fig. 6,6)
Cavo, con margini rientranti.
h cm 2,5; lungh cm 4,9; spess lamina cm 0,3.
7) Elemento in ferro (fig. 6,7)
Frammento di lamina con due borchie quadrate. Forse pertinente al fodero.
cm 7,5 x 2,5; spessore lamina cm 0,1.
8) Cuspide di lancia (fig. 6,8)
Lama fogliata. Mutila in punta, concrezionata.
Lungh max cons cm 13; diam max cannone cm
1,6.
9) Puntale di lancia (fig. 6,9)
lungh max cons cm 6,5; diam max cannone
cm 1.
20 L. BANTI 1937, p. 26; G. MASSARI 1981, p. 88.
21 N. MORELLI 1901, p. 24.
- 123 -
Fig. 6 Neirone. Materiali metallici del corredo (disegno E. Armetta).
10-11) Due frammenti di armille in ferro (fig.
6,10-11).
Pertinenti probabilmente allo stesso esemplare,
a capi sovrapposti.
Verga a sezione circolare, quadrata all'estremità.
Mutile, molto concrezionate.
diam cm 7, 6 e 8; diam max verga cm 0,8.
Le ceramiche erano foggiate in terre reperibili
nel territorio circostante22.
La forma dell'olla si colloca nella tradizione di
un tipo diffuso in ambito ligure, già presente
nella necropoli di Chiavari 23 e ripreso a
Savignone24.
Anche la scodella rientra nel repertorio ligure,
sia per la forma, largamente attestata e di lunga
tradizione, anche in centri della Liguria interna25, sia per la tipica decorazione a zigzag continuo doppio26. Nella necropoli di Genova com-
22 T. MANNONI 1972.
23 N. LAMBOGLIA 1960, fig. 60, tavv. 4 B, 2 A.
24 L. BANTI 1937, p. 159, n. 1,1, tav. VII, c.
25 Cfr., indicativamente: M. VENTURINO GAMBARI 1988, tav. XVIII, 6 (Villa del Foro); F. M. GAMBARI , M. VENTURINO GAMBARI 1987, fig. 15,5 (Dernice); fig. 19,4 (Serravalle); M. VENTURINO GAMBARI, B. TRAVERSONE, A. CATTANEO CASSANO 1996, tav. XV,4 (Libarna).
26 L. BERNABÒ BREA 1946, fig. 2, nn. 4, 6 ,7 (Rossiglione).
- 124 -
Fig. 7 Castellaro di Uscio. Ceramiche. 1-3) olle di produzione locale; 4) bicchiere in impasto buccheroide; 5) kylix a
vernice nera ; 6) orlo di anfora etrusca.
pare, con forma del piede semplificata ad anello semplice, in due esemplari27, di cui uno in
corredo ben datato nella prima metà del IV
secolo a.C.
Il bicchiere sembra essere un'elaborazione
(locale?) di una forma tipica delle fasi della
prima età del Ferro della cultura di Golasecca,
di cui riprende il corpo globulare ed il fondo
incavato28. Il successo della tipologia del bicchiere globulare si riscontra anche nella Liguria
interna dove compare, con varianti più carenate, in redazioni sia di impasto fine, sia in bucchero padano29. Stretti confronti per l'esemplare di Neirone sono offerti da bicchieri a Genova
e dal castellaro di Uscio in impasto buccheroide30 (fig. 7,4).
27 T. 16, inv. 82 (inedita), T. 112, inv. 56547 in un corredo della prima metà del IV secolo a.C. (L. BERNABÒ BREA, G. CHIAPPELLA 1952, p. 182, fig. 22).
28 Cfr., indicativamente: R. PERONI 1975, tavv. XIX, 3; XXIII, 5; XXIV, 5; G. BAGNASCO 1988, tav. V, 3; VIII, 4.
29 F. M. GAMBARI 1993, fig. 2.
30 Genova: M. MILANESE 1987, fig. 98, n. 565; Uscio: P. MELLI 1993, p. 124, fig. 12.
- 125 -
La fibula rientra nel tipo Certosa, forma Ter z̆an
X a31, largamente diffuso in ambito golasecchiano e atestino, a Spina e Bologna, ma presente
anche in altri siti della Liguria centrale32. Anche
i bracciali in verga di ferro sono attestati con più
frequenza nella parte occidentale dell'Italia settentrionale: le armille spiraliformi in ferro
fanno parte di una famiglia tipologica attestata
già dal VII secolo a.C.33.
La spada confronta con tipologie di ambito celtico34.
Si può concludere che la sepoltura appartenesse
ad un individuo di sesso maschile, connotato
dalle armi, che lo segnalano come guerriero,
secondo un costume sempre rispettato nelle
tombe liguri.
Pur rientrando a pieno titolo nella cultura ligure il corredo, databile alla fine del V secolo a.C.,
sembra debitore di influssi dell'area padana
centro occidentale, alla quale del resto il territorio era collegato da percorsi.
Oltre alla tomba di Neirone, sono noti da testimonianze di eruditi locali altri rinvenimenti,
che, pur con la cautela che si impone nell'utilizzare notizie non suffragate da prove materiali,
offrono sufficienti spunti di verosimiglianza.
Secondo la notizia riferita da un erudito locale35, fra Corsiglia e Roccatagliata venne in luce
alla fine dell'Ottocento un vaso definito etrusco, che sarebbe stato esposto nel 1892 alla
mostra Colombiana di Genova36 e andò successivamente disperso. Purtroppo nel catalogo
della mostra il vaso non è specificamente menzionato. Pur in assenza di ulteriori dati, merita
tuttavia osservare che sia l'epoca, sia la zona del
rinvenimento coincidono approssimativamente
con quelle della sepoltura sopra descritta.
Nel 1932, in comune di Lumarzo, in località
Colletta, a circa quattrocento metri da
Tassorello in un'area pianeggiante nei pressi
della chiesetta di San Martino del Vento, furono rinvenute, alla profondità di circa 50 cm dal
piano di campagna, due tombe a cassetta litica,
che contenevano, secondo testimoni oculari, tre
vasi di impasto ciascuna37. La collina che domina la zona, fra Tasso e Craviasco, è chiamata
Castelà.
I toponimi Castellaro sono abbastanza numerosi in Fontanabuona (fig. 1): alcune delle alture
con questa denominazione hanno restituito
materiali in giacitura secondaria che ne documentano la frequentazione in epoca protostorica.
L'insediamento indagato più estesamente, noto
anche come castellaro di Uscio38, è ubicato sul
monte Borgo, a m 721 slm, in posizione strategica alla confluenza di tre crinali, con buona
visibilità a controllo del passo della Spinarola.
Il sito si trova al centro di una rete di percorsi39
che uniscono a Ponente il Genovesato con
l’Emilia occidentale attraverso la Fontanabuona
e il sistema Val Trebbia-Val d'Aveto e verso
Nord la costa del Tigullio con il Piemonte
attraverso la Valle Scrivia.
Lo scavo ha restituito evidenza della rioccupazione nel V secolo a.C. di un sito già abitato
nell'età del Bronzo: gli antichi terrazzamenti
intagliati nel versante furono ampliati per ottenere maggiori spazi pianeggianti ed i muri di
fascia utilizzati come basamento di capanne con
alzato a graticcio intonacato con argilla e copertura straminea sostenuta da pali in legno di carpino. Nella parte indagata si è potuto accertare
che gli spazi erano articolati per funzioni: la terrazza inferiore ospitava la capanna, su quella
mediana trovavano posto un focolare e numerose macine e macinelli in pietra, per la preparazione e la cottura dei cibi, mentre la maggior
parte delle anfore e dei dolia era concentrata in
un solo punto del versante, forse a testimoniare
31 B. TER Z̆AN 1977, p. 331.
32 Cfr. la carta di distribuzione: B. TER Z̆AN 1977, fig. 35.
33 I. DAMIANI, A. MAGGIANI, E. PELLEGRINI, A. C. SALTINI, A. SERGES 1992, pp. 156-157.
34 L. KRUTA POPPI 1986, p. 42, fig. 4.
35 R. LEVERONI 1912, p. 22; F. SENA 1981, p. 36.
36 Nel catalogo della mostra il vaso non è menzionato: V. POGGI, L. A. CERVETTO, G. B. VILLA 1892.
37 F. SENA 1981, pp. 37-38.
38 R. MAGGI (a cura di) 1990.
39 P. MELLI 1990. Per la prima età del Ferro cfr. P. MELLI 1996.
- 126 -
l'esistenza di un deposito di derrate alimentari o
dispensa. Fra le macine in uso nel primo periodo abitativo dell'età del Ferro si segnala un'esemplare di ignimbrite, una roccia originaria
delle Alpi Marittime, a oriente del Bormida,
caratterizzata da una granulometria particolarmente idonea alla macinatura dei cereali.
Non sembra corretto interpretare la frequentazione del castellaro di Uscio, almeno per il
periodo più antico di occupazione (V-IV secolo
a.C.), come saltuaria tappa su percorsi di transumanza, dal momento che restano varie prove
di uno stanziamento continuato nel tempo con
attività diversificate, che garantivano una relativa autosufficienza. È peraltro probabile che il
castellaro fosse interdipendente da altri agglomerati stabili posti in posizione più favorevole,
in fondovalle o a mezza costa e venisse abitato
stagionalmente seguendo i cicli dell'agricoltura.
Il consumo di cereali e di ghiande documenta
attività agricole e di raccolta boschiva.
Le forme e decorazioni dei vasi40 (fig.7), foggiati prevalentemente con argilloscisti presenti nel
territorio, ma anche importati da altri siti della
Liguria occidentale, mostrano una discreta
varietà, indicandone un utilizzo diversificato;
l'occupazione da parte di uno o più nuclei famigliari stanziali è suggerita anche da attrezzi per
la filatura e la tessitura come fusaiole e pesi da
telaio, attività notoriamente riservate alle
donne, la cui presenza sul castellaro è segnalata
anche da perline di vetro colorato e vaghi da
collana in ambra. Tra i non rari oggetti metallici, frammenti di armi e strumenti, accessori di
abbigliamento (fibule), figurano anche due
pezzi in piombo: una piccola mano, forse portafortuna o votiva e un oggetto troncoconico
interpretato come fusaiola o peso, nonché vari
residui di colatura che testimoniano una attività
di fusione in loco. I materiali di importazione,
anfore che contenevano il vino prodotto in
Etruria, nelle forme41 diffuse tra la fine del VI e
la prima metà del IV secolo a. C., vasi potori a
vernice nera di tradizione attica suggeriscono
contatti prolungati con un centro costiero, forse
la stessa Genova o qualche scalo intermedio con
funzioni di redistribuzione, e dimostrano che il
gruppo insediato sul castellaro disponeva di un
surplus di produzione disponibile per lo scambio con prodotti del commercio marittimo
venuti da lontano. Pare interessante sottolineare che le anfore etrusche sono, in Liguria, relativamente rare42.
Tra gli approdi identificati come attivi in questo
periodo figura Camogli43, che dispone di un'insenatura protetta dal promontorio del monte
Castellaro di Uscio, estrema propaggine occidentale del massiccio del Monte di Portofino.
In posizione ottimale per la visibilità sul porto è
stato messo in luce un insediamento protetto da
muri, di origine preistorica, che presentava una
fase di vita risalente al V-IV sec. a. C. Tra il
materiale raccolto figurano contenitori da trasporto e vasellame di provenienza etrusca e
massaliota, che testimoniano come l'approdo
costituisse una tappa sulle rotte marittime commerciali da e verso Genova e probabilmente dei
traffici di piccolo cabotaggio. Anche sul
Castellaro di Zoagli, frequentato nella seconda
età del Ferro, sono stati raccolti frammenti di
ceramiche tirreniche44.
L’esistenza di percorsi commerciali che attraversavano la Fontanabuona è segnalata da ceramica di importazione rinvenuta nel castellaro di
Uscio e negli insediamenti delle valli del Ceno
e del Taro, in Emilia, come a Bedonia45, con
confronti a Genova.
Dopo il crollo dell'edificio per incendio ed un
periodo di abbandono, ebbe luogo una più sporadica frequentazione tra III e I sec. a. C.,
durante la quale furono importate sul castellaro
ceramiche a vernice nera ed anfore di produzione tirrenica.
Tra le attività produttive che caratterizzarono il
40 P. MELLI, E. STARNINI 1990.
41 Forme Py 4 e Py 4a: P. MELLI, E. STARNINI 1990, pp. 273-275, fig. 162.
42 Cfr. la cartina di distribuzione in: P. MELLI in corso di stampa a.
43 M. MILANESE 1984 (con bibliografia prec.).
44 T. MANNONI 1972, p. 19.
45 P. MELLI 1983. Per il popolamento del Piacentino nell'età del Ferro: P. SARONIO 1999.
- 127 -
territorio sembra aver svolto un ruolo rilevante
la fabbricazione di ceramiche in terre di gabbro,
prodotte nel Tigullio già nell’età del Bronzo46,
che registrano una diffusione circumlocale, ma
sono state rinvenute anche in altri insediamenti della regione come Savona47. Le argille gabbriche, localizzate in Liguria con maggiore
estensione tra il Bracco e la media Valle del
Vara, offrono caratteristiche di resistenza agli
sbalzi termici e capacità di immagazzinare calore superiori ad altre terre48. Poiché nei siti dell'età del Ferro ligure le ceramiche venivano realizzate con più frequenza con terre prelevate
localmente, è ragionevole supporre che i vasi
foggiati in argille gabbriche rinvenuti lontano
dal luogo di produzione servissero al confezionamento e al trasporto di prodotti alimentari,
che, come testimonia lo storico Strabone49,
affluivano da tutta la regione nel porto di
Genova per essere commerciate e forse in parte
per servire al consumo locale, poiché, come
dimostrano le ricerche archeologiche50, l'importante centro portuale dipendeva dall'esterno per
gli approvvigionamenti.
A partire dal II secolo a.C. ebbe luogo anche
nella Fontanabuona, come in altre aree limitrofe51 un'occupazione della fascia costiera e pedecollinare con insediamenti rurali, fattorie e piccoli vici, individuati fin dagli anni ’70 a seguito
di ricerche di superficie e scoperte fortuite52, che
sfruttavano le risorse agricole del territorio e si
approvvigionavano di merci e prodotti tirrenici
smistati dai principali centri costieri. Poiché gli
elementi più vistosi e frequenti degli affioramenti dei depositi archeologici erano costituiti
da grandi tegole ad alette, i siti individuati furono inizialmente denominati "stazioni a tegoloni" ed attribuiti ad epoca tardoantica, ma recenti approfondimenti permettono di ampliarne
l'arco cronologico di occupazione.
Caratteristiche comuni agli insediamenti noti
sono la localizzazione su ripiani di mezzacosta e
l'altitudine, compresa fra 200 e 600 metri. Aree
preferenziali di sfruttamento erano i dorsi di
paleofrane, formate da terreni sciolti a matrice
argillosa, per le loro caratteristiche di fertilità e
abbondanza di acque, come documentato anche
per altre regioni53.
Tale modello di distribuzione insediativa a piccoli nuclei sparsi, che permane tuttora nell'attuale popolamento della valle, e riscontrabile,
per l'epoca romana e tardoantica, anche nella
Liguria orientale e in Versilia54, fu favorito dalla
pacificazione del territorio, conclusa intorno al
155-154 a.C., dopo l'aspro conflitto che aveva
contrapposto la maggior parte delle tribù liguri
all'invasore romano. Non sono restate tracce
archeologiche delle conseguenze della guerra
nella Fontanabuona e nelle valli contermini, che
furono probabilmente risparmiate, per la loro
posizione appartata e non significativa a fini
strategici.
Occasioni di verifica archeologica sono state
offerte da due abitati rurali, a Statale55 (comune
di Ne) in Val Graveglia e Porciletto56 (comune
di Mezzanego) in Valle Sturla.
Il sito di Porciletto, ubicato su una antica frana
quiescente esposta a sud, in un’area già frequentata nelle età del Bronzo e del Ferro, fu occupato in epoca tardorepubblicana e durò in uso, con
46 Per l'utilizzazione nell'età del Bronzo cfr. principalmente: B. D’AMBROSIO 1988, pp.71-72 (Chiavari ); R. MAGGI 1990 (a cura
di), pp. 255-256, fig.153, 2 (Uscio). Per l'età del Ferro: B. D'AMBROSIO 1988, pp. 72-73 (Chiavari); P. MELLI 1996 (Rapallo); T.
MANNONI 1972 (Traso, Zoagli, Monte Dragnone); M. MILANESE 1987, pp. 317-320 (Genova); P. MELLI 1990, p. 295 (Uscio).
47 M. MILANESE 2001, p.19.
48 T. MANNONI 1974, p.190.
49 Strabo IV 6, 1; 6, 2; V 1, 3.
50 M. MILANESE 1987, passim.
51 C. DELANO SMITH, D. GADD, N. MILLS, B. WARD PERKINS 1986; S. MENCHELLI 1990; E. GIANNICHEDDA (a
cura di) 1998; L. GAMBARO 1999.
52 F. SENA 1981, pp. 31-39; T. MANNONI 1985, pp. 260-61; L. GAMBARO 1999, passim.
53 P. L. DALL’AGLIO 2000.
54 L. GAMBARO 1999, pp. 125-126 e passim; P. MELLI in corso di stampa a. Per la Versilia cfr. S. MENCHELLI 1990.
55 Il sito di Statale è stato oggetto di campagne di scavo dirette da Giuseppina Spadea. Per una notizia sui rinvenimenti, al momento
inediti, ma illustrati nell’esposizione archeologica di Cicagna, cfr. L. GAMBARO 1999, p. 101.
56 P. MELLI, F. BULGARELLI, M. R. FERRARIS, C. OTTOMANO, G. PARODI, E. TORRE in corso di stampa.
- 128 -
numerose trasformazioni, almeno fino al V
secolo. Nella prima fase di vita il pendio fu
rimodellato con terrazzamenti, sui quali trovarono posto edifici con muri in pietra scistosa
locale e copertura di laterizi, con lastricato
esterno. All’interno di uno degli ambienti si
trovava un focolare delimitato da tegole infisse
di coltello.
Come è chiaramente visibile nelle sezioni della
collina e nell'andamento dei muri antichi, normale a quello degli attuali terrazzi, la trasformazione della fisionomia del versante, operata in
quell'occasione e forse seguita ad interventi più
limitati di età pre e protostorica, ha condizionato l'aspetto dei luoghi e perdura nell'attuale
assetto.
Il momento di massima frequentazione pare
coincidere con l’epoca imperiale (secc. I-III d.
C.) quando l’economia dell’insediamento, probabilmente una fattoria, sembra connotata da
varie attività, che garantivano una relativa prosperità ed autosufficienza. Alla coltivazione di
vite (documentata da carboni) e probabilmente
di cereali, il cui utilizzo alimentare è suggerito
dalla presenza di numerose macine e macinelli
in pietra57, si affiancavano altre attività sia
domestiche, come la filatura e la tessitura, sia
artigianali più specializzate, come la realizzazione di oggetti metallici, segnalata da numerose scorie. I laterizi, tegole, coppi e mattoni,
erano fabbricati con terre prelevate nel territorio circostante.
L’approvvigionamento alimentare era integrato
da importazioni di salse di pesce, vino e olio
prodotti in Africa e in Spagna e distribuiti, così
come il vasellame fine da mensa (ceramiche e
vetri), parimenti attestato, dalla rete commerciale marittima. Le derrate alimentari erano
conservate entro dolia (grandi recipienti ceramici da dispensa), di cui sono stati rinvenuti
abbondanti frammenti ed anfore riciclate, chiuse da coperchi di recupero, ricavati ritagliando
in forma discoidale pezzi di ceramica.
Il centro di Porciletto era perciò in contatto con
uno o più porti ed approdi costieri che provvedevano alla redistribuzione delle mercanzie e
Fig. 8 Mezzanego, loc.Porciletto. Gemma in diaspro con
Bonus Eventus (ingrandimento).
disponeva delle capacità di acquisto necessarie.
Alcune monete di età imperiale, una gemma in
diaspro (fig. 8) e lo stesso utilizzo del vasellame
fine importato sottolineano il tenore di vita
degli abitanti, volto non solo alla semplice sussistenza. È ragionevole arguire che l'insediamento rurale producesse derrate alimentari
destinate alla commercializzazione.
L'ossatura del nuovo sistema di aggregazione
dovette essere costituita dalla viabilità tracciata
dai romani, che probabilmente ricalcava più
antichi percorsi.
Molti studiosi sono ormai concordi nel ritenere
probabile l'esistenza di un collegamento stradale tra Luni e Genova almeno dagli inizi del II
secolo a.C., che avrebbe garantito, anche nei
mesi invernali e in caso di burrasca, per le esigenze della guerra e la trasmissione di notizie, il
collegamento fra le due principali basi navali
della Liguria orientale sotto il controllo romano, come sembrano sottintendere le fonti storiche, che descrivono episodi delle guerre. In particolare Livio ricorda la spedizione del 197 a.C.
contro le tribù liguri dell’interno, comandata
57 Una delle macine, in leucitite, risulta importata da area campano-laziale.
- 129 -
Fig. 9 Carta del popolamento della Liguria centro- orientale in epoca romana e tardoantica (P. Melli, realizz. grafica L.Tomasi).
dal console Q. Minucio Rufo, che raggiunse
Genova risalendo la costa tirrenica58, e lo sfortunato viaggio del pretore L. Bebio59, che nel
189 a.C., partito da Roma via terra per raggiungere la Spagna Ulterior, di cui era stato
nominato governatore, fu massacrato con la sua
scorta dalle popolazioni liguri, probabilmente le
bellicose tribù del Ponente.
Questo primo tracciato stradale di impianto
romano in territorio ligure viene identificato da
alcuni studiosi60 con la via Aurelia nova, del 200
a.C., che avrebbe costituito un prolungamento
verso occidente della via Aurelia vetus, realizzata nel 241 a.C.
Tra il 115 e il 109 a.C., secondo la testimonianza di Strabone61, il console M. Emilio Scauro
fece costruire un tracciato stradale, che da lui
prese nome (via Aemilia Scauri), da Luni a Vado
e Dertona. Nonostante alcune difformità di
interpretazione del sintetico passo straboniano62, che non menziona Genova tra le tappe del
percorso, la critica recente è concorde nel ritenere che la via raggiungesse Genova ricalcando
e forse rettificando i tratti stradali già esistenti,
e proseguisse per Vada Sabatia per poi piegare
verso l'interno.
Pur in assenza di resti materiali come ponti o
infrastrutture sicuramente riferibili ad età
romana, il percorso della strada può essere prudentemente ricostruito63 sulla base delle caratteristiche orografiche del territorio e di vari ritrovamenti. Per la zona in esame si ritiene che la
strada, proveniente da Luni con un percorso
interno, dal passo del Bracco piegasse verso il
58 Liv. XXXII, 29,5.
59 Liv. XXXVII 57, 1-2.
60 F. COARELLI 1987, p. 23; S. LUSUARDI SIENA, M. P. ROSSIGNANI 1985, pp. 23-29.
61 Strabo V 1,11.
62 Cfr. la discussione in F. BULGARELLI, P. MELLI in corso di stampa.
63 Per la ricostruzione del tratto Luni- Genova cfr., da ultimo, L. GERVASINI 2001b; L. GAMBARO 2001; L. GAMBARO, L.
GERVASINI in corso di stampa, con riferimenti bibliografici.
- 130 -
mare correndo quindi parallela e più vicina alla
costa, con un itinerario probabilmente in gran
parte ricalcato dalla attuale via Aurelia, che
conserva nel nome, esteso a tutto il territorio
regionale, il ricordo dell'antico cammino. Tratti
superstiti della strada sono stati individuati,
secondo alcuni autori64, nella zona di Rapallo.
La distribuzione e la natura dei rinvenimenti
nell'entroterra segnalano peraltro l'esistenza di
una rete di itinerari che solcavano il territorio,
tra i quali era ancora attivo il percorso di crinale sulla dorsale appenninica parallela alla costa,
lungo il quale sono stati identificati vari siti
(fig. 9).
Con maggiore cautela va invece considerata una
serie di urnette cinerarie in marmo decorate ed
iscritte, di età romana, reimpiegate nelle chiese
del territorio65, che sono state citate a conferma
dei tracciati stradali e di un consistente popolamento. Almeno per alcune di esse è infatti provata una provenienza da Roma66 ed in generale
resta forte il sospetto che la loro presenza in
edifici di culto sia da ricollegare al commercio
delle reliquie che ebbe un notevole impulso dal
medioevo fino all'Ottocento. Ad una provenienza locale, anche se non necessariamente di
età romana, parrebbero da ricollegare l'urna
dedicata ad un Caius Sextilius Spectatus, conservata nella chiesa di San Pietro di Rovereto, in
comune di Zoagli, che sarebbe stata messa in
luce poco distante dalla chiesa in località ai Suè,
secondo alcuni studiosi da identificarsi con il
luogo di tappa ad Solaria, citato (fig. 11) nella
Tabula Peutingeriana, carta stradale da viaggio,
che si ritiene redatta per uso militare tra III e
IV secolo e del cinerario di San Martino di
Polanesi presso Recco67, che la tradizione vuole
rinvenuto nel corso di lavori agricoli in località
La Tenuta. Non è peraltro dimostrabile, in
assenza di dati certi circa i contesti di rinvenimento68, che le urnette, databili tra II e III seco-
Fig. 10 Santa Margherita. Ara sepolcrale in marmo.
lo d.C., si trovassero già in antico nei luoghi
dove furono raccolte.
Più convincente ai fini di una ricostruzione del
popolamento del territorio in età romana pare
invece l'ara sepolcrale in marmo lunense
(fig.10) rinvenuta a Santa Margherita69.
Ricerche di carattere linguistico permettono di
integrare ed in alcuni casi confermare i dati
archeologici: l'analisi delle tipologie dei toponimi prediali70 ovvero fondiari romani, che designavano a catasto le unità rurali, notoriamente
formati dal nome del primo possessore del
fondo (es.: fundus Sorilianus, da Sorilius =
Sorlana, presso Lavagna), ha consentito di individuare, anche nell'area del Tigullio (fig. 9), la
persistenza di nomi che si possono far risalire
ad origine romana, in alcuni casi anteriormente
64 L. CIMASCHI 1953; G. MENNELLA 1989, p. 184, nota 30. Un commento sul tracciato nella zona di Rapallo in: A. BALLARDINI 1994, p. 23 e segg.
65 L. CIMASCHI 1963.
66 G. MENNELLA 1980, p. 94.
67 CIL V 7743; L. CIMASCHI 1963, pp. 106-108; G. MENNELLA 1987, p. 233.
68 F. BULGARELLI 2001.
69 CIL V 7741; L. CIMASCHI 1963, pp. 108-112; G. MENNELLA 1987, p. 232.
70 G. PETRACCO SICARDI 1988. Per la localizzazione cfr. anche qui fig. 9.
- 131 -
Fig. 11 La Liguria costiera in un particolare della Tabula peutingeriana.
all’epoca imperiale. È interessante notare che in
alcuni di questi siti, come Testana (Avegno), il
cui nome deriva dal gentilizio Testius, o
Cisiano, presso Bargagli, da Caesilius, ricerche
di superficie o ritrovamenti occasionali hanno
restituito materiali archeologici di epoca romana, che ne documentano la frequentazione.
Altri toponimi prediali romani, ormai non più
in uso, ricorrono in atti notarili e documenti
medievali71, ampliando il dossier: nella zona in
esame sono stati individuati Austana nella valle
di Lavagna, Biduanum presso Rapallo,
Cominianum presso Chiavari.
Non va inoltre sottovalutata, pur in assenza di
prove archeologiche, l'interessante segnalazione72 dell'esistenza, sul monte di Verzi, in corrispondenza di un incrocio di sentieri con la via
di Crinale, di un "cippo" o pietra fitta artificialmente squadrata, che ricorda nella struttura i
cippi73 riferibili alla terminatio tracciata nel 117
a.C. in Val Polcevera, a seguito dell'emanazione
della Sententia Minuciorum tramandataci dalla
Tavola del Polcevera. Non è inverosimile ipotizzare che, analogamente a quanto riscontrato in
Val Polcevera, in un clima di rinnovato popolamento, i confini delle terre pubbliche e dell'ager
compascuus, dove era possibile far pascolare liberamente il bestiame e raccogliere legname, fossero chiaramente ed inequivocabilmente delimitati.
Il nome della tribù dei Tigullii ci è noto dalle
fonti geografiche e dagli itinerari stradali e
marittimi di epoca romana74 e compare citato in
un'epigrafe del II secolo d.C. rinvenuta a
Chellah, in Marocco75, la romana Sala Colonia,
dedicata ad un L. Minicius Pulcher, prefetto di
un'unità di cavalleria originario del territorio
dei Tigullii.
L'esame comparato delle fonti76 ha suggerito
che in età imperiale il territorio dei Tigullii
ricadesse sotto la giurisdizione di Genua, ed
occupasse una vasta area che comprendeva la
71 G. PETRACCO SICARDI 1988, p. 47.
72 O. GARBARINO 1999, fig. 3.
73 M. PASQUINUCCI 1998, fig. p. 217, con bibliografia prec. a nota 11.
74 Tolomeo Geogr. III, 2-4; Plinio, Nat.Hist. III, 5-7; Pomponio Mela, Chorogr. ,II, 4.
75 G. MENNELLA 1989, figg. 3-5.
76 Per il quale rimando alla puntuale analisi di G. MENNELLA 1989, con ampia bibliografia di riferimento.
- 132 -
fascia costiera all'incirca tra Bogliasco e le
Cinque Terre, con ampie porzioni dell'entroterra, di cui forse in origine faceva parte, almeno
fino ad epoca repubblicana, anche il territorio
di Varese Ligure e dell'alta Valle del Taro.
L'esatta identificazione delle località menzionate nei testi antichi e raffigurate nella Tabula
Peutingeriana (fig. 11), ha formato oggetto di
numerosi tentativi esegetici77. Mentre sembra
pacifica la coincidenza con Sestri Levante di
Segesta Tigulliorum, citata come approdo (positio) nell'Itinerario Marittimo78, meno sicura è
l'ubicazione del centro di Tigullia, che Tolomeo
colloca ad oriente del fiume Entella, citata nella
Tabula Alimentaria di Veleia (6,69) come possesso dei coloni Lucenses79. Altre località di
tappa menzionate negli itinerari erano, procedendo da levante, Bodetia (Passo del Bracco),
Monilia (Moneglia), Tegulata (Lavagna?),
Solaria (Zoagli/Rovereto), Portus Delphini
(Portofino), Ricina (Recco).
Fin dagli anni '70 recuperi sporadici e ricerche
di superficie hanno portato all'identificazione
nell'area del Tigullio di una rete di siti di epoca
romana confermando la vitalità, almeno da età
tardorepubblicana, della maggior parte degli
insediamenti sopra citati, che la natura casuale
dei rinvenimenti non consente di connotare con
maggiore precisione, ma che potevano corrispondere ad impianti agricoli, nuclei vicani, stazioni di tappa stradali (mansiones) o scali marittimi, mentre pare assodata l'assenza di centri a
carattere urbano.
Tra i siti che hanno restituito maggiori informazioni figura Recco80, dove sono stati identificati vari insediamenti di fondovalle e sulle alture che coronano l'attuale abitato. Pur in assenza
di scavi sistematici, i materiali raccolti sembrano dimostrare una frequentazione dei luoghi a
partire dalla tarda età del Ferro fino ad epoca
imperiale, con maggiore intensità per il periodo
tardorepubblicano. Anche per Portofino, vari
avvistamenti di campi di frammenti ceramici
sottomarini, in particolare nello spazio portuale81 e in corrispondenza di Punta Chiappa82 ne
confermano il ruolo di porto ricordato dal toponimo antico, suggerendo anche la presenza di
relitti di navi romane nei fondali circostanti83.
Di particolare rilevanza per la definizione della
fisionomia e del censo della popolazione tigullina di età imperiale pare l'iscrizione di Sala
sopra citata perché conserva memoria dell'unico esponente dell'ordine equestre sinora noto
nel territorio dei Tigullii.
Con l'epoca tardoantica l'occupazione del territorio divenne più estesa. Alcuni insediamenti
già noti per il periodo precedente mostrano una
continuità d’uso, mentre altri furono impiantati
ex novo oppure rioccuparono località già abitate in età imperiale, in coincidenza con un analogo fenomeno di ripopolamento registrato
nell'Appennino ligure e toscano84, che si crede
motivato dall'incipiente crisi alimentare abbattutasi sull'impero. Nonostante la semplicità, per
non dire povertà, dei modi dell'abitare, la presenza in tali insediamenti rurali di quantità
apprezzabili di vasellame e contenitori da trasporto di importazione costituisce lo specchio
di un'economia non autarchica, ma con buone
capacità di acquisto e presuppone inoltre l'efficienza della rete stradale.
A Porciletto, dopo il crollo e la spoliazione degli
edifici preesistenti, durati in uso a lungo, nel IV
sec. d. C. fu effettuato un generale spianamento dell’area con riporti di terreno, forse a scopo
di bonifica. Furono quindi erette nuove strutture con muri in pietre solo rozzamente sgrossate
e piani in battuto e una capanna su pali di
77 U. FORMENTINI 1949; L. CIMASCHI 1953; U. FORMENTINI 1955; G. PETRACCO SICARDI 1981, pp. 14-15, con analisi dei toponimi alle pp. 71-72; 75-76.
78 ITIN. MAR. 501-502.
79 G. MENNELLA 1989.
80 P. MELLI 1990, p. 292 (con bibliografia prec.).
81 Navigia 1983, p. 43.
82 Navigia 1983, p. 43, n. 57; A. J. PARKER 1992, p. 347.
83 Recenti campagne di scavo subacqueo della Soprintendenza, dirette da G. P. Martino, hanno messo in luce copioso materiale, riferibile ad un relitto, anche nei fondali di San Michele di Pagana.
84 Cfr. L. GAMBARO 1994, spec. pp. 141-143, con bibliografia di confronto.
- 133 -
Fig. 12 Mezzanego, loc.Porciletto. Fondo di capanna di epoca tardoantica.
legno, con fondo ribassato (fig.12), poi distrutta da un incendio. Anche nella fase tardoantica
sono documentate importazioni marittime di
derrate alimentari e ceramiche da mensa
(anfore di produzione iberica e africana e piatti in terra sigillata africana) che a quell'epoca
ancora confluivano nei principali porti, e relazioni commerciali con i mercati della
Lunigiana, esemplificate da recipienti da fuoco
e da dispensa, prevalentemente prodotti in
ambito pisano-lunense, e ceramica invetriata.
Per la ricostruzione dell’ambiente naturale e
delle risorse alimentari e produttive del sito, si
è accertato, per l’epoca tardoantica, l’utilizzo
di una grande varietà di specie legnose del
bosco misto di caducifoglie che costituiva
l’ambiente circostante, con qualche unità
anche dal piano montano (faggio e abete bian-
co) e, per uso alimentare, la presenza di vite,
segale, nocciolo e castagno, prodotti che, come
è stato rilevato per altri contesti85, sembrano,
ad eccezione della vite, più adatti ad un'economia di sussistenza, piuttosto che essere destinati alla commercializzazione.
L'introduzione del castagno, che fino
all'Ottocento costituì una fondamentale risorsa
alimentare
per
le
popolazioni
dell'Appennino, è stata sinora attribuita ad
iniziativa dei romani, a partire dal I secolo
d.C.86, ma recenti ricerche87 offrono elementi
di novità suggerendo che l'avvio della coltivazione del castagno in Fontanabuona risalga ad
un periodo precedente.
85 T. MANNONI 1985, p. 262.
86 Sulla diffusione del castagno v.: L. CASTELLETTI, E. CASTIGLIONI 1991, pp. 183-184; E. GIANNICHEDDA 1998 (a cura
di), pp. 202-204.
87 R. MAGGI in corso di stampa.
Le foto sono dell’Archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria tranne la fig. 5 (Archivio fotografico Comune
di Genova, Museo Civico di Archeologia Ligure).
- 134 -
I PONTI IN PIETRA NELLA VALLE DI NEIRONE
E LE PROBLEMATICHE LEGATE AD UNA LORO DATAZIONE
Paola Cavaciocchi
Il territorio comunale di Neirone è costituito da
una profonda valle (fig. 2) con un sistema oroidrografico complesso. I torrenti scorrono ad una
quota compresa tra i 670 e i 206 m s.l.m., mentre i monti circostanti hanno un’altezza compresa tra i 1090 m del M. Bocco e gli 840 m s.l.m.
del M. Borghigiano. Numerosi rivi e tre torrenti, il Torrente Sestri, il Torrente Rissuello, il
Torrente Serré, originano il Torrente Neirone
che confluisce a valle nel Torrente Lavagna, il
corso principale della Valle Fontanabuona.
Questi solcano il territorio dividendolo in vallecole e rendendo i collegamenti delle stesse assai
difficoltosi. È sicuramente questo uno dei motivi della presenza di così numerosi ponti sul territorio comunale (fig. 3) e in tutte le valli perpendicolari al Lavagna (G. BENISCELLI PIEROVADO 1974), oltre al fatto di “congiungere
gli opposti e rendere possibile il passaggio, la
conoscenza” (F. DANI 1998, p. 7).
In particolare, per quanto riguarda la Valle del
Neirone, i ponti in pietra ad un’unica arcata, che
permettono il collegamento delle numerose frazioni, si differenziano in lunghezza proprio in
base al corso d’acqua attraversato. I rivi sono
oltrepassati da ponti di piccole dimensioni ponticelli in Località Montefinale (schede 1 e 2,
figg. 13, 14), ponticelli in Località San Marco
d’Urri (schede 3 e 4, figg. 15, 16), ponticello in
Località Rosasco (scheda 5, fig. 17), ponticello
in Località Molino (scheda 7, fig. 19), ponticello in Località Roccatagliata (scheda 10, fig. 22),
ponticello in Località Isole (scheda 11, fig. 23),
ponticello in Località Bassi (scheda 12, fig. 24),
ponticelli in Località Canivelli (schede 13 e 14,
figg. 25, 26), ponticello in Località Feia (scheda
15, fig. 27) -, mentre i torrenti da ponti sempre
ad un’unica arcata ma di dimensioni maggiori e
con delle particolarità costruttive che denunciano la pericolosità di questi corsi d’acqua a regime torrentizio - ponte in Località Molino (scheda 6, fig. 18), ponte delle Ferriere in Località
Fig. 1 Una suggestiva immagine del ponte delle Ferriere in località Roncodonico (foto A. Botto).
- 135 -
Roncodonico (scheda 8, fig. 20), ponte in
Località Roccatagliata (scheda 9, fig. 21) -. La
loro localizzazione sul territorio ha garantito in
passato e garantisce ancora oggi il raggiungimento di tutti i siti abitabili e l’avvicinamento ai
territori confinanti extra regione per uno sviluppo economico tutt’ora attivo. La costruzione di
alcuni di essi ha reso più facile il raggiungimento del paese di Roccatagliata per arrivare nella
Val Trebbia e sconfinare, poi, in Piemonte, in
Lombardia e in Emilia-Romagna. Il ponticello
in Località Molino, il ponte delle Ferriere in
Località Roncodonico hanno migliorato il percorso, attualmente denominato dei Feudi
Fliscani, che collegava Gattorna con Torriglia
passando per Neirone, mentre l’ascesa a
Roccatagliata, un tempo fortezza longobarda di
proprietà della diocesi milanese e genovese, era
garantita dal ponte in Località Roccatagliata.
L’analisi che segue si pone come obbiettivo la
descrizione qualitativa e quantitativa delle caratteristiche costruttive e delle tecniche murarie e il
confronto con quelle medievali in Liguria che
sono state catalogate ed a cui è stata assegnata
una datazione certa (T. MANNONI 1994, pp.
7-18). I dati così raccolti sono sintetizzati nelle
schede che seguono.
I ponticelli hanno caratteristiche costruttive
simili: si presentano tutti con un’unica arcata, un
arco a sesto ribassato, la cui luce media è di c.a.
m 6.00, l’altezza dall’intradosso all’alveo di c.a.
m 3.00 e la larghezza di c.a. m 2.50. I piedritti
sono di dimensioni ridotte e fondati direttamente sulla roccia opportunamente adattata e livellata quando necessario (fig. 4). La tecnica costruttiva adottata per l’edificazione della volta è consistita nella realizzazione di una centina lignea
fissa (fig. 5), che appoggia direttamente nell’alveo: infatti, all’imposta della volta non sono presenti né riseghe, né cuscinetti d’imposta necessari per la centina sospesa (C. F. GIULIANI 1990,
pp. 100, 101; C. TORRE 2003, pp. 25-36). Gli
archi di testa (C. TORRE 2003, p. 352) sono
realizzati con conci di pietra larghi mediamente
m 0.60 e spessi m 0.10, alcuni presentano una
forma a cuneo per meglio adattarsi all’andamento dell’arcata, altri fuoriescono dal filo superiore
per aumentare l’unione con i muri di testa
(fig. 6), ma nessuno presenta lavorazioni delle
superfici in vista.
Del corpo della volta (C. TORRE 2003, pp.
352-354), ovvero dell’arcata intermedia compre-
Fig. 2 Ripresa fotografica della Valle di Neirone (foto P. Cavaciocchi).
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12
14
13
11
10
9
15
8
4
3
6
7
5
2
1
Fig. 3 Cartografia I.G.M. in scala 1:25.000 in cui è evidenziata la localizzazione dei ponti nel territorio comunale di
Neirone. I numeri si riferiscono alle schede che seguono il presente testo.
sa tra i due archi di testa, è visibile solo la superficie dell’imbotte. Per alcuni è difficoltosa la
distinzione tra i conci delle arcate laterali e quella centrale (fig. 7). Nel ponticello in Località
Bassi (scheda 12, fig. 24) è possibile distinguere
le tre arcate poiché la posa sembra essere stata
eseguita a secco mentre sul ponticello in Località
Montefinale (scheda 2, fig. 14) è ancora leggibile il segno del tavolato ligneo utilizzato per raccordare le centine.
Il muro di coronamento (C. TORRE 2003, p.
332), ovvero il parapetto, è leggibile nella sua
altezza originale, circa m 0.60, nel solo ponticello in Località Molino (scheda 7, fig. 19), in cui è
possibile anche osservare il piano di finitura
dello stesso, lastre di pietra posate per il lato di
maggiori dimensioni.
La pavimentazione della via portata (C. TORRE
2003, p. 333) è purtroppo illeggibile in quasi
tutti i ponticelli osservati, come le rampe di
accesso, che sono state alterate dalla loro dismissione. Solo il ponticello in Località Molino
(scheda 7, fig. 19) è utilizzato per il passaggio
pedonale, infatti è ancora leggibile la pavimenta-
- 137 -
Fig. 4 Ponticello in Località Montefinale. Piedritto sulla sponda destra orografica. La volta è impostata direttamente
sulla roccia (foto P. Cavaciocchi).
zione originale e gli accessi sono di dimensioni
maggiori rispetto al percorso attiguo ad esso (fig.
8).
Per tutti i ponticelli, la tecnica muraria (R.
PARENTI 1988, pp. 280-340; C. MONTAGNI 1990, pp. 15-24) utilizzata è a corsi suborizzontali e paralleli con materiale lapideo di
forma irregolare, a bozze sdoppiate e a blocchi
sfaldati nei piedritti, mentre nei muri di testa
ovvero di coronamento la forma irregolare dei
blocchi si serve di molte zeppe orizzontali-verticali, per realizzare i piani di posa.
Per quanto riguarda invece i ponti sui torrenti,
quelli in Località Molino (scheda 6, fig. 18) e in
Località Roncodonico (scheda 8, fig. 20), denominato delle Ferriere, hanno mantenuto pressoché inalterate le loro caratteristiche costruttive,
mentre quello in Località Roccatagliata (scheda
9, fig. 21) è divenuto un ponte carrabile, perdendo tutta la via portata originale.
I ponti si presentano con un’unica arcata di
forma geometrica ad arco di sesto ribassato, la
cui luce misura mediamente m 14.00, l’altezza
dall’intradosso all’alveo c.a. m 7.00 e la larghezza c.a. m 3.00.
I piedritti (fig. 9), alti più di m 3.50 e larghi più
di m 3.00, sono fondati anch’essi sulla viva roccia, sfruttando in vario modo le asperità presenti. I piedritti dei primi due mantengono memoria del sistema di imposta delle armature a sbalzo. Essi sono interrotti da tre grosse mensole di
forma pressoché cubica senz’altro allo scopo sia
di appoggiare le impalcature per la costruzione
dei piedritti stessi, sia di offrire opportuni sostegni alla centina lignea sospesa (C. F. GIULIANI
1990, pp. 100, 101) della grande volta (fig. 5).
Inoltre i piedritti del ponte delle Ferriere
(scheda 8, fig. 20) terminano con un cuscinetto
d’imposta (fig. 10) abbastanza pronunciato,
necessario anch’esso alla posa della centina. Tra il
piano superiore dei mensoloni e il piano di
imposta della volta esiste uno spazio in cui era
collocato il dispositivo di disarmo della volta
necessario per promuovere la discesa graduale e
- 138 -
Fig. 5 Nel disegno sono rappresentati i tipi di centine utilizzati nella costruzione di strutture voltate.
uniforme di tutta l’armatura.
Le volte presentano archi di testa con caratteristiche tali da dimostrare una conoscenza profonda da parte degli antichi costruttori dei metodi
di edificazione di un ponte. Il ponte in Località
Molino (scheda 6, fig. 18) e quello in Località
Roccatagliata (scheda 9, fig. 21) hanno conci in
pietra di larghezza di m 0.80 e spessore c.a. di m
0.10/0.12. Lo spessore dei giunti nel primo è
ridottissimo. Per ovviare alla principale causa dei
grandi abbassamenti delle volte i costruttori realizzavano giunti sottili e vi colavano poca malta
fluida che aveva solo la funzione di colmare gli
inevitabili vani tra un concio e l’altro. Ma l’adozione di giunti sottili e conci portati praticamente a contatto tra loro esigeva che il tamburo di
posa fosse assolutamente immobile, ossia occorreva una centina molto rigida, in modo da evitare quei movimenti che avrebbero prodotto sbrecciature e distacchi tra i conci. La necessità di
giunti molto sottili implicava altissimi costi per
la necessaria precisione del taglio dei conci.
Il ponte in Località Molino (scheda 6, fig. 18),
infatti, presenta dei conci squadrati sui due lati
in vista e lavorati sulle due superfici, quella frontale e quella inferiore (fig. 11) con lo scalpello,
mentre gli altri due sembrerebbero non aver
subito alcuna lavorazione superficiale.
Nel ponte in Località Molino (scheda 6, fig. 18)
la distinguibilità tra i conci delle arcate di testa e
l’arcata intermedia dimostra la non perfetta coesione tra le arcate e il corpo centrale ovvero l’imbotte che è stato costruito con lo stesso materiale ma non è stato immorsato perfettamente.
Le volte di tutti e tre i ponti, comunque, sono
state realizzate in muratura mista, pietra da
taglio per i conci delle arcate di testa e pietrame
per il corpo della volta. Gli elementi notevoli
della volta erano in genere costruiti con materiale più resistente di maggiore pezzatura e tagliato
con più precisione. Le altre parti del corpo potevano essere risolte con muratura meno costosa,
- 139 -
Fig. 6 Ponticello in Località Roccatagliata. Arcata di testa sul fronte verso monte. I conci utilizzati per realizzare l’arco
hanno forma a cuneo e alcuni fuoriescono in larghezza (foto P. Cavaciocchi).
Fig. 7 Ponticello in Località Molino. Superficie dell’imbotte compresa tra gli archi di testa (foto P. Cavaciocchi).
Fig. 8 Ponticello in Località Molino. Gli accessi hanno
mantenuto la loro funzione poiché il ponticello è ancora
pedonabile (foto P. Cavaciocchi).
- 140 -
Fig. 9 Ponte in Località Molino. Piedritto sulla sponda
destra orografica (foto P. Cavaciocchi).
più leggera e tale da ridurre il carico gravante sui
piedritti, pietrame di minor pezzatura con spessi
giunti di malta. Occorreva dunque contenere il
rischio di scorrimenti tra le parti della struttura
aventi diverse caratteristiche di rigidità, in particolare tra le armille ed il corpo della volta e tra la
parte d’imbotte e quella di estradosso dell’arcata
intermedia.
Per fare questo si adottavano dispositivi di ancoraggio della muratura come nel caso del ponte in
Località Molino (scheda 6, fig. 18) dove vi sono
due bolzoni a vista sulle armille. La presenza di
questi sottintende due catene di metallo, cioè
due lunghe barre di ferro a sezione circolare o
rettangolare, disposte sui lati di posa tra i filari.
Queste terminavano all’estremità con un’asola
detta testa di chiave in cui si infilava il bolzone,
ossia una spranga di ferro orientata in direzione
normale al letto e la cui larghezza abbracciava
più filari. Dopo la loro posa in opera venivano
assoggettate ad una tensione sufficiente ad esaurire gli assestamenti dei contrasti e dei giunti e
Fig. 10 Ponte di Ferriere in Località Roncodonico.
Mensoloni necessari per la posa della centina a sbalzo. Al
di sopra dei mensoloni si può notare la presenza del cuscinetto d’imposta realizzato con materiale litico posato per
il lato maggiore e sporgente dal piano superiore del piedritto. L’imposta della volta è rientrante e forma sul cuscinetto una risega con funzioni sia costruttive che estetiche
(foto P. Cavaciocchi).
ad assicurare un’immediata efficacia al bisogno.
Queste chiavi da volta, collocate a trattenere gli
opposti archi di testa, sono tipiche di molti ponti
pre-ottocenteschi, e quindi possono essere degli
indicatori cronologici. Due ipotesi possono essere avanzate: la prima è che il ponte sia stato
costruito ex novo, oppure, ed è la più plausibile,
che il ponte tra 1600 e 1700 sia stato consolidato, poiché era uso in questo periodo utilizzare
questi provvedimenti. Lo studio della tecnica
costruttiva del bolzone in vista potrebbe aiutarci
a definire il periodo di consolidamento del
ponte.
La tecnica costruttiva adottata per realizzare i
piedritti e i muri di testa ovvero i muri andatori
consiste nella posa per corsi sub-orizzontali di
materiale litico di dimensioni decrescenti proce-
- 141 -
Fig. 11 Ponte in Località Molino. Particolare dei conci in pietra dell’arcata di testa in cui sono visibili ad occhio nudo la
squadratura sui lati a vista e la lavorazione della superficie frontale e inferiore (foto P. Cavaciocchi).
dendo dal basso verso l’alto con giunti di malta
irregolari ma di buona qualità; molte zeppe orizzontali e talvolta verticali riempiono i vuoti
lasciati dalla irregolarità dei blocchi lapidei.
Questi terminano con un parapetto di altezza
pari a m 0.80/0.85, ma con finiture differenti:
nel ponte in Località Molino (scheda 6, fig. 18),
dopo un intervento di restauro, il parapetto si
chiude con la posa di lastre di pietra posate sul
lato di dimensioni maggiori, mentre il ponte in
Località Roncodonico (scheda 8, fig. 20) presenta blocchi di pietra posti di coltello sul lato di
minori dimensioni.
La pavimentazione della via portata nei due
ponti si presenta differente. Sezionando virtualmente entrambi i ponti longitudinalmente il
profilo si presenta secondo una livellata inclinata, cioè a schiena d’asino, mentre il profilo trasversale della carreggiata, sul ponte delle Ferriere
in Località Roncodonico (scheda 8, fig. 20),
risulta concavo con una cunetta disposta sull’asse longitudinale. Questa particolarità costruttiva
differenzia le due pavimentazioni: la prima è rea-
lizzata con blocchetti di materiale lapideo di
forma allungata posti di coltello, la seconda è
realizzata con blocchetti di forma parallelepipeda posati in piano rispetto alla cunetta centrale e
per corsi orizzontali normali alla direzione dei
muri di coronamento. I parapetti di entrambi i
ponti seguono il profilo a schiena d’asino della
via portata.
In ultimo c’è da segnalare la presenza di muri
d’argine a monte dei piedritti dei ponti, realizzati in muratura (fig. 12) o sfruttando costoni di
roccia affiorante.
Lo studio della tecnica muraria adottata per la
loro costruzione è avvenuto analizzando un campione di muratura per ogni ponte di m 0.96 x
0.96. Il loro confronto ha evidenziato l’uso di
blocchi irregolari di materiale lapideo di varie
dimensioni non squadrato e posato per corsi
sub-orizzontali e in qualche caso paralleli. I
vuoti lasciati tra un blocco e l’altro sono stati
chiusi con zeppe tabulari orizzontali e verticali e
tendenzialmente le dimensioni dei blocchi
decrescono dal basso verso l’alto. In molti casi
- 142 -
Fig. 12 Ponte delle Ferriere in Località Roncodonico. Muro d’argine sulla sponda destra orografica realizzato con una
struttura muraria composta da blocchi di materiale lapideo di varie dimensioni, non squadrato ma posato per corsi suborizzontali e zeppe tabulari orizzontali e verticali per regolarizzare i piani di posa o per colmare i vuoti tra un blocco e l’altro (foto P. Cavaciocchi).
per regolarizzare il piano di posa è stato usato
materiale posato per il lato di maggiori dimensioni. Il materiale litico, proveniente dall’abbattimento di affioramenti rocciosi circostanti il
luogo di costruzione, appartiene alle rocce sedimentarie. Quasi tutta la muratura analizzata
possiede giunti di malta molto tenace e di
dimensioni che variano dai cm 2 ai cm 5, ma solo
nei ponti in Località Molino (scheda 6, fig. 18)
e in Località Roncodonico (scheda 8, fig. 20) i
piedritti presentano giunti abbondanti e spatolati.
Da questa prima analisi di tipo qualitativo la tecnica muraria utilizzata si dice “alla moderna” (S.
BERGAMO, M. A. FIORUCCI, M. ROSSI
DERUBEIS 2000, p. 97), costituita da conci
irregolari con giunti molto spessi e propria dei
secoli XV e XVI, appartenente a un’epoca in cui
la lavorazione delle pietre non era più accurata
come nel Medioevo. Per quanto riguarda i giunti di malta spatolati, questa particolare tecnica è
stata riscontrata dal Lamboglia in costruzioni
come il Battistero di Albenga (V sec. d.C.). La
malta che lega i vari conci lapidei si allarga dalla
esclusiva positura cementizia verso i conci stessi
spalmandosi su di loro e assumendo, quindi, un
ruolo oscillante tra legante e intonaco, in quanto
nasconde parzialmente alla vista il muro sottostante. Tale tecnica, spesso definita con il termine improprio di “falsa cortina”, trovò applicazione per un periodo piuttosto lungo: infatti se ne
possono rintracciare esempi sino al XII sec. (C.
MONTAGNI 1990, pp. 21, 22).
Se consideriamo il fatto che la “rivoluzione delle
tecniche edilizie” subentrò nelle campagne solo
duecento anni più tardi rispetto agli ambienti
cittadini (I. FERRANDO, T. MANNONI
1988, p. 13), si può affermare ragionevolmente
che la costruzione dei ponticelli e dei ponti risalirebbe ai secoli XV-XVI.
L’uso di questa tecnica muraria, comunque, non
è sufficiente a stabilire una datazione sicura: “Il
- 143 -
tipo di muratura impiegato dipende in primo
luogo, per ogni singolo periodo, dall’ambiente
socio-economico che lo produce in quanto esso
determina delle scelte; ma dopo di ciò il tipo di
tessitura del muro dipende in parte dalle capacità
esecutive dei costruttori, siano esse in adeguamento ad una tradizione, o a schemi importati, o
persino originali, ed in parte dai caratteri tecnici
dei materiali scelti.“ “È evidente l’impossibilità
di utilizzare da sola la tipologia delle tecniche
murarie come elemento di datazione delle
costruzioni medievali. Già esistono forti limitazioni territoriali e di ambiente culturale per la
cronologia delle murature dei monumenti, ma
l’analisi ovviamente si complica quando si prendono in considerazione le costruzioni comuni.”
(T. MANNONI 1994, p. 15).
“Ad ogni latitudine il medioevo aveva ereditato
la imponente rete stradale dei romani. Molto era
andato distrutto da eventi bellici e da mancanza
di manutenzione, ma molto ancora sopravviveva.
Ponti solidi, in pietra, in muratura, resistenti e,
grazie alla perizia e ai buoni calcoli degli architetti e degli ingegneri, atti a sfidare i tempi. Era
il grande risultato di ogni realizzazione architettonica romana; e nel caso particolare dei ponti,
che nel medioevo apparivano quasi come elementi del paesaggio naturale. Il successo era
dipeso sul piano politico dall’unitarietà del
dominio su cui lo stato aveva potuto esercitare
una intensa, lunga e coordinata politica di lavori
pubblici volta a rendere efficiente, per scopi civili e militari, una rete di collegamenti tra le località più lontane; sul piano tecnico in massima
parte dalla disponibilità pressoché illimitata di
materiale da costruzione e di manodopera. Nel
medioevo la frantumazione politica, l’inimicizia
reciproca fra stati confinanti, le scarse disponibilità finanziarie, la limitatezza ed il costo elevatissimo dei migliori materiali da costruzione e
quello più alto della forza lavoro, portò a una
totale mancanza di motivazioni mentali verso la
cultura della comunicazione. Si sviluppò la cultura dell’isolamento. I ponti, perciò, anche quando furono quelli romani restaurati, sembrano in
generale mutare funzione, trasformandosi in elementi, non tanto di facilitazione, quanto di controllo della viabilità. Il “ risveglio” europeo dei
secoli XI-XII, la riacquistata mobilità, magari
anche nelle forme aggressive della crociata e dei
fenomeni annessi, stimolava fame di strade e di
ponti. Ovunque e per varie motivazioni fu avvertito l’impulso verso la realizzazione di nuovi
manufatti, che rompessero l’isolamento e l’irraggiungibilità delle contrade, aprissero nuovi percorsi alla strada del popolamento, del commercio
e dei traffici. Antichi ponti furono più sollecitamente restaurati, nuovi furono realizzati” (F.
DANI 1998, pp. 76-77).
Si può dire però che fino al tardo medioevo i
ponti ad archi in muratura seguirono in genere
modelli romani senza essere così ben costruiti,
né d’altra parte raggiungere le dimensioni di luce
e portata dei ponti romani. La principale innovazione rispetto alla tecnologia costruttiva romana fu l’arco di profilo ribassato. La ragione di
questa forma geometrica era quella di mantenere il livello stradale il più basso possibile (F.
DANI 1998, pp. 14-15).
Per una datazione dei ponticelli e dei ponti nella
Valle di Neirone il lavoro da svolgere è ancora
molto, ma esistono caratteri, quali la tecnica
muraria, la forma geometrica dell’arco, i conci
delle arcate di testa, il profilo longitudinale e trasversale, la via portata e le fonti documentarie
che, se confrontati con un numero maggiore di
ponti, presenti nel territorio della Val
Fontanabuona, potrebbero portare a individuare
un periodo di costruzione più preciso.
Un ringraziamento particolare a Giuseppe Cavaciocchi per avermi
aiutato ad un primo rilevamento dimensionale dei ponti e ad Aurora
Cagnana e Piera Melli per i preziosi consigli.
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Scheda 1 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Montefinale sul Fosso di Monte Finale, localizzato lungo la strada pedonale
che dalla Località Cravaria sale ad Orticeto
Il ponticello, posto a Sud-Ovest di Neirone, è situato lungo un percorso pedonale che dal fondo valle del Torrente
Lavagna, passando per la località di Cravaria, sale verso il versante che collega la Valle d'Urri con la Valle di Neirone,
sino a raggiungere il paese di Orticeto.
Il sentiero giunge al ponticello con una dimensione prossima alla sua larghezza ca. mt. 1,47, e i due parapetti larghi
ca. mt. 0,31, in parte integri, proseguono oltre il ponticello definendo gli accessi al ponte sia a monte che a valle.
L'arcata, la cui luce misura ca. mt. 2,90, si presenta a sesto ribassato e ad un solo ordine di conci la cui lunghezza
media è di ca. mt. 0,54 e la cui larghezza media è di ca. mt. 0,10. La malta di allettamento dei conci dell'arcata è stata
spatolata sui conci stessi, uniformando il loro aspetto, ma il materiale lapideo utilizzato sembra sbozzato. La muratura verticale realizzata con lo stesso materiale è stata ricoperta da uno strato di muschio e licheni a causa dell'ambiente umido, ma sembrerebbe costituita anch'essa con corsi sbozzati sub-orizzontali di dimensioni regolari.
Gli archi di testa si impostano su due piedritti di dimensioni ridottissime, fondati direttamente sulla roccia affiorante. Sull'intradosso del ponticello sono ancora visibili i segni lasciati dalle tavole utilizzate per l'unione delle centine
necessarie per costruire il ponte. La mancanza di riseghe all'imposta dell'arcata fa ipotizzare l'uso di centine lignee
fisse a terra.
Il ponticello si trova in buone condizioni, soltanto i parapetti in alcuni punti sono mancanti di alcuni corsi di materiale lapideo a causa dell'insinuarsi tra i giunti della vegetazione infestante.
Bibliografia: inedito.
Fig. 13 Ponticello in Località Montefinale. Fronte verso valle (foto A. Botto).
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Scheda 2 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Montefinale sul Fosso di Monte Finale, localizzato lungo la strada comunale
Ognio - Neirone
Il ponticello, situato a Sud-Ovest di Neirone, attualmente posizionato a monte della strada carrabile ha una sola arcata la cui luce misura ca. mt. 3,00 e la cui freccia ca. mt. 1,25.
L'arco a sesto ribassato è fondato, sulla sponda orografica destra direttamente sulla roccia, mentre, su quella sinistra,
su un piedritto che si adegua alla roccia sottostante. La tecnica costruttiva adottata è consistita nella posa di una centina lignea fissa a terra, di cui è rimasta memoria sulla superficie intradossale, infatti sono ancora visibili i segni delle
tavole lignee.
L'arco di testata su entrambi i fronti è costituito da un solo ordine di conci in materiale lapideo la cui lunghezza
media misura ca. mt. 0,50 e la cui larghezza media ca.mt. 0,10. Il paramento murario è realizzato con materiale lapideo di forma irregolare con corsi sub-orizzontali e moltissime zeppe orizzontali di scarto.
I parapetti col passare del tempo sono in parte crollati a causa dell'insinuarsi tra i giunti di arbusti di dimensioni tali
da ridurre la malta di allettamento, così come la carreggiata, la cui larghezza è di ca. mt. 1,49, che a causa della crescita incontrollata della vegetazione non è più visibile.
Bibliografia: inedito.
Fig. 14 Ponticello in località Montefinale. Fronte verso valle (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 3 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località San Marco d'Urri sul Fosso della Chiesa, localizzato lungo la strada comunale San Marco d'Urri - Boscaglia
Il ponticello posto a Nord-Ovest di Neirone, in posizione elevata rispetto all'attuale strada carrabile, scavalca con la
sua arcata a tutto sesto un fosso profondo e stretto, infatti la luce misura ca. mt. 1,60 e la freccia ca. mt. 0,80.
Le arcate di testa a un solo ordine di conci sono impostate su due piedritti che formano una piccola risega all'interno in corrispondenza dell'imposta dell'arcata. Questo particolare costruttivo potrebbe indicare l'uso di una centina
lignea a sbalzo per la costruzione dell'arcata. I conci di lunghezza pari a ca. mt. 0,25 e di larghezza variabile sono
posati in modo da fuoriuscire dal profilo superiore e ammorsarsi alla muratura. Tale particolarità è legata semplicemente alla posa di materiale lapideo rintracciato nelle vicinanze del fossato senza nessuna lavorazione particolare ma
sfruttando quello a disposizione.
In questo modo è stata realizzata tutta la muratura del ponticello e sul fronte a valle oltre alla tecnica della posa per
corsi sub-orizzontali è presente anche quella per corsi sub-verticali, rintracciabile in moltissime altre murature di contenimento della zona, probabilmente per ovviare alla ridotta resistenza del materiale lapideo a disposizione agli sforzi di compressione sui piani paralleli.
La struttura del ponticello è in buone condizioni mentre la carreggiata, larga ca. mt.1,95, attualmente è sormontata
sul fronte a valle da una ringhiera in ferro.
Bibliografia: inedito.
Fig. 15 Ponticello in Località San Marco d'Urri. Fronte verso valle (foto A. Botto).
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Scheda 4 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località San Marco d'Urri sul Torrente d'Urri, localizzato lungo la strada comunale
San Marco d'Urri - Boscaglia, sul confine con il Comune di Lumarzo
Il ponticello, situato a Nord-Ovest di Neirone, è stato allargato in epoca recente verso monte creando due piedritti
in muratura sormontati da travetti in precompresso e aumentando così la carreggiata. La larghezza originale misurata all'intradosso è di ca. mt. 2,25.
L'arcata ha una luce di ca. mt. 6,55 e poggia sulla sponda orografica destra su un basso piedritto, mentre su quella
sinistra è fondata direttamente sulla roccia, in posizione più elevata. L'unico ordine di conci si presenta formato da
materiale lapideo di forma regolare le cui dimensioni in lunghezza sono di ca. mt. 0,55 e in larghezza variano tra mt.
0,12/0,15. I giunti spatolati dei conci dell'arcata e il muschio e i licheni rendono le arcate uniformi, come l'intradosso dell'arcata, anch'esso ricoperto da uno strato di malta in cui sono riconoscibili i segni del tavolato delle centine
lignee utilizzate per la sua costruzione.
La carreggiata ha perduto completamente i parapetti riducendosi notevolmente l'altezza della muratura superiore alla
ghiera. Purtroppo per questo motivo dall'estradosso del ponte percola dell'acqua all'intradosso facendo staccare lo
strato di malta e causando un degrado dei giunti di allettamento.
Inoltre la presenza di arbusti all'interno della muratura di rinfianco ha causato la caduta di corsi di materiale lapideo
dal piano verticale facendo perdere l'orizzontalità ai corsi superiori.
Bibliografia: inedito.
Fig. 16 Ponticello in Località San Marco d'Urri. Fronte verso valle (foto A. Botto).
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Scheda 5 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Rosasco su un affluente destro del Torrente Neirone, localizzato lungo la
strada comunale Ognio-Neirone
Il ponticello localizzato a Sud-Ovest di Neirone nel versante di collegamento della Valle d'Urri con la Valle di
Neirone presenta delle caratteristiche costruttive che ritroveremo nei ponti in Località Molino e Località
Roncodonico.
A questo ponticello è stato costruito in aderenza verso valle un ponte in C.A. che ha contribuito ad allargare la sede
stradale carrabile. Il fronte verso monte quindi è visibile mentre il fronte verso valle è stato completamente obliterato dal nuovo intervento. L'arcata ha una luce pari a ca. mt. 3,00, mentre la freccia è di ca. mt. 1,90, particolare piuttosto anomalo che geometricamente lo riconduce ad un arco a sesto rialzato. La fondazione dei piedritti avviene ad
altezze differenti a causa della presenza sulla sponda orografica sinistra di un banco di roccia, il piedritto di destra è
alto ca. mt. 1,70. Un altro particolare costruttivo che ritroveremo soltanto nei ponti sopra citati, è la presenza di mensoloni all'imposta dell'arcata, lunghi ca. mt. 0,30 e alti ca. mt. 0,16. Due dei quattro mensoloni, che si trovano su ogni
piedritto, sono localizzati proprio ai loro estremi. Questo fa sì che si possa apprezzare di quanto si ammorsano nella
muratura laterale: circa il doppio della loro larghezza.
La presenza dei mensoloni e il segno delle tavole sull'intradosso dell'arcata porta ad ipotizzare l'uso di centine lignee
a sbalzo per la costruzione del ponticello anch'esso su un fossato piuttosto profondo e ricco d'acqua.
La ghiera dell'arcata verso monte possiede conci in materiale lapideo di dimensioni piuttosto regolari la cui lunghezza
misura ca. mt. 0,45 e la larghezza ca. mt. 0,15; anche in questo caso i giunti di allettamento tra un concio e l'altro
sono spatolati.
Il ponticello è in perfette condizioni strutturali, pur mancando tutta la carreggiata nascosta dalla copertura attuale.
Bibliografia: inedito.
Fig. 17 Ponticello in Località Rosasco. Fronte verso monte (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 6 Neirone, Provincia di Genova
Ponte in Località Molino sul Torrente Neirone, localizzato lungo la strada comunale OgnioNeirone
Il ponte, situato a Ovest di Neirone, è localizzato attualmente a monte del nuovo viadotto carrabile. La costruzione
di questo e l'erezione di un muro al termine della rampa di accesso verso Neirone lo rendono inutilizzabile per il passaggio pedonale, anche se le sue condizioni statiche lo permetterebbero. L'arco, la cui luce misura ca. mt.17,00 e la
freccia ca. mt. 4,50, è fondato su due piedritti alti ca. mt. 3,46. Su entrambi, sotto l'imposta dell'arcata, sono presenti tre mensoloni (lunghezza ca.mt. 0,50, altezza ca.mt.0,20) per parte, posizionati due all'estremità e il terzo al centro. Ogni mensola aveva il compito di sostenere una centina lignea che, raccordata con le altre da un manto di tavole, avrebbe costituito il sistema costruttivo dell'arcata. Gli archi di testa su entrambi i fronti sono a un solo ordine di
conci (vedi Nota di R. Ricci in questo volume) stretti e lunghi ed è possibile osservare sulle due facce in vista la lavorazione a scalpello. Inoltre sono visibili due bolzoni di ferro posati successivamente alla costruzione del ponte con il
compito di tenere unite le due arcate con la parte centrale dell'arco. Infatti sull'intradosso ancora oggi si possono
apprezzare le fessure esistenti tra le parti. L'arco a sesto ribassato e la sezione longitudinale a "schiena d'asino" erano
gli espedienti usati dai costruttori per raccordare la via portata (carreggiata) con gli accessi esistenti. Queste tipologie costruttive permettevano di oltrepassare alvei di notevoli dimensioni, pur mantenendo gli accessi originali e senza
ostruire l'alveo con pile. La tecnica muraria utilizzata si può distinguere in due tipologie tessiturali: i piedritti sono
realizzati con corsi di materiale lapideo sbozzato la cui lunghezza è di ca. mt.0,75 e di altezza pari a ca.mt.0,50, decrescenti salendo verso l'imposta dell'arco, mentre la muratura di rinfianco, pur seguendo l'andamento della livellata
inclinata è a corsi sub-orizzontali di dimensioni decrescenti verso il parapetto con molte zeppe orizzontali che vanno
a colmare i vuoti lasciati dalla irregolarità dei blocchi lapidei. La carreggiata misura ca.mt. 2,36 e il parapetto dopo
gli ultimi lavori di manutenzione è alto ca. mt. 0,85 e largo ca. mt. 0,35.
Bibliografia: F. SENA 1981, p. 120.
Fig. 18 Ponte in Località Molino. Fronte verso valle (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 7 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Molino sul Beo du Pian da Pelo, localizzato lungo la strada comunale pedonale Ciosa-Rosasco
Il ponticello, localizzato a Sud di Neirone, è ancora utilizzato come passaggio pedonale; un tempo serviva per raggiungere Corsiglia e Roccatagliata e proseguire verso il Passo della Scoffera, attualmente serve a raggiungere un gruppo di case e un mulino non più funzionante, che si trovano lungo il sentiero che lo attraversa.
L'arcata, a sesto ribassato, la cui luce misura ca. mt. 6,20 e la cui freccia ca. mt. 1,70, è impostata su due piedritti di
altezza pari a ca. mt. 1,40, direttamente fondati sulla roccia. Gli archi di testa sono sottolineati su entrambi i fronti
da un solo ordine di conci (vedi Nota di R. Ricci, in questo volume) appena sbozzati.
La tessitura della muratura di rinfianco è realizzata a corsi sub-orizzontali e paralleli di materiale lapideo di forma
irregolare. I parapetti, la cui altezza misura ca. mt. 0,60 e la cui larghezza è pari a mt. 0,39, terminano superiormente con lastre di materiale litico poste orizzontalmente e proseguono oltre la via portata definendo gli accessi al ponte.
La carreggiata larga ca. mt. 2,00 è ricoperta dalla vegetazione cresciuta tra i giunti della pavimentazione, ma si riconosce ancora la posa di ciottoli conficcati per il lato più lungo.
Bibliografia: inedito.
Fig. 19 Ponticello in Località Molino (sul percorso dei Feudi Fliscani). Fronte verso valle (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 8 Neirone, Provincia di Genova
Ponte delle Ferriere in Località Roncodonico sul Torrente Serre, localizzato lungo la strada comunale
pedonale Neirone-Bassi-Le Piane
Il ponte delle Ferriere, situato a Nord di Neirone, prima dell'avvento della strada carrabile, rappresentava il collegamento più veloce con il versante Nord-Est della Valle del Torrente Siestri.
L'arco a sesto ribassato, la cui luce misura ca. mt.10,80 e la cui freccia misura ca. mt. 3,48, è fondato su due piedritti la cui altezza è di ca. mt.3,80. Questi presentano tre mensole (lunghezza ca.mt.0,30, altezza ca.mt.0,12) a ca. mt.
2,40sx./2,90dx. da terra, dove, come abbiamo già visto in precedenza, venivano impostate le centine lignee a sbalzo
per il getto dell'arcata. A differenza però degli altri ponti, tra il piano terminale dei piedritti e il piano d'imposta dell'arco c'è una cornice sporgente di ca.mt. 0,15 e alta ca. mt.0,08 che mette in risalto il punto d'intersezione. L'arcata
è sottolineata da un solo ordine di conci le cui dimensioni medie sono ca. mt. 0,60 di lunghezza e ca. mt. 0,22 di larghezza, appena sbozzati e non lavorati ricoperti in parte dalla spatolatura dei giunti. La muratura superiore e di rinfianco è a corsi sub-orizzontali e paralleli alla pendenza della sezione longitudinale anch'essa a "schiena d'asino". Il
materiale litico utilizzato di dimensioni decrescenti procedendo dal basso verso l'alto, è stato allettato con giunti di
malta irregolari. Molte zeppe orizzontali di piccole dimensioni riempiono i vuoti lasciati dalla forma irregolare dei
blocchi lapidei. Una particolarità costruttiva esplicativa della accuratezza con cui è stato realizzato il ponte è il profilo della sezione trasversale che è in pendenza, su entrambi i lati della carreggiata, verso il centro della stessa, per raccogliere l'acqua piovana al centro e portarla agli accessi, grazie anche alla sezione longitudinale a schiena d'asino. La
carreggiata di larghezza pari a ca. mt. 2,14 è delimitata da parapetti di altezza pari a ca. mt. 0,80 e larghezza pari a
ca. mt. 0,34 che terminano con una fila di blocchi di materiale lapideo posto in verticale. Le condizioni statiche del
ponte, a causa di una frana che interessa la sponda orografica sinistra, sono precarie poiché una rotazione in atto ha
portato fuori piombo la muratura di rinfianco verso valle.
Bibliografia: inedito.
Fig. 20 Ponte delle Ferriere in Località Roncodonico (sul percorso dei Feudi Fliscani). Fronte verso valle (foto P.
Cavaciocchi).
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Scheda 9 Neirone, Provincia di Genova
Ponte in Località Roccatagliata sul Torrente Rissuello, localizzato lungo la strada comunale
Neirone - Le Piane
Il ponte, situato a Nord-Est di Neirone, attualmente è carrabile ma in passato era il punto di passaggio del sentiero
per l'ascesa al paese di Roccatagliata.
L'arcata a sesto ribassato è impostata su due piedritti e un solo ordine di conci (vedi Nota di R. Ricci, in questo volume) sottolinea i fronti a valle e a monte del ponte.
La carreggiata attuale, la cui larghezza è di ca.mt. 3,00, ha stravolto completamente la geometria dell'estradosso ma
in una foto pubblicata da F. Sena è visibile la via portata originale realizzata anch'essa a schiena d'asino come i ponti
in Località Molino e Roncodonico.
Il ponte, nonostante il passaggio di veicoli, dal punto di vista strutturale è in buone condizioni, soltanto la muratura
a monte è stata intaccata dalla posa di tubi metallici.
Bibliografia: F. SENA 1988, p. 15.
Fig. 21 Ponte in Località Roccatagliata (sul percorso dei Feudi Fliscani). Fronte verso valle (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 10 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Roccatagliata sul Beo della Ciosa, localizzato lungo la strada comunale
Neirone - Le Piane
Il ponticello, localizzato a Nord-Est di Neirone, è stato sostituito per il passaggio carrabile dal Ponte Rosati costruito nel 1972 a monte dello stesso.
L'arcata a sesto ribassato, la cui luce misura ca. mt. 8,00 e la cui freccia misura ca. mt. 1,92, è impostata su due piedritti la cui altezza è di ca. mt. 0,77 p. dx e di ca. mt. 0,25 p. sx., mentre la larghezza è di ca. mt. 2,60.
Le arcate di testa, a un solo ordine di conci, risultano realizzate con materiale litico appena sbozzato posato con
pochissima malta di allettamento. Alcuni conci (vedi Nota di R. Ricci, in questo volume), in prossimità delle chiavi
di volta, hanno una forma a cuneo, mentre altri fuoriescono dal profilo superiore per ammorsarsi nella muratura.
La muratura è realizzata con materiale lapideo a spacco e sfaldato, in alcuni casi appena sbozzato, posato a corsi suborizzontali e paralleli, in alcuni punti sdoppiati, con giunti di malta irregolari e molte zeppe orizzontali per riempire
i vuoti lasciati dalla irregolarità dei blocchi lapidei.
La carreggiata, la cui larghezza è di ca. mt. 2,60, ha perso completamente i parapetti e la pavimentazione è ricoperta da uno strato uniforme di vegetazione; nonostante questo le strutture verticali sono ancora integre.
Bibliografia: inedito.
Fig. 22 Ponticello in Località Roccatagliata. Fronte verso valle (foto P. Cavaciocchi).
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Scheda 11 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Isole sul Rio Luega, localizzato lungo la strada comunale pedonale Neirone Bassi - Le Piane
Il ponticello, posto a Nord-Est di Neirone, localizzato nella vallecola che si diparte sulla sinistra della Valle di Neirone
è particolarmente significativo in quanto possiede dei caratteri costruttivi che abbiamo riscontrato solo nei ponti in
Località Molino e in Località Roncodonico. L'arcata, a un solo ordine di conci, ha una luce di ca. mt. 3,00 e una freccia di ca. mt. 2,00. L'arco a sesto rialzato si imposta direttamente sulla roccia affiorante nell'alveo e poiché la distanza degli accessi da quest'ultimo è minima, la sezione longitudinale è stata realizzata a schiena d'asino. Questa scelta
veniva compiuta quando gli accessi erano prossimi ad un'alveo con una portata d'acqua notevole. Quindi i costruttori, per fare in modo che una piena improvvisa potesse defluire liberamente, realizzarono un'arcata di freccia maggiore e, per raccordarla con gli accessi, costruirono una sezione a livellata inclinata. La tecnica muraria utilizzata è consistita nella posa di conci, la cui lunghezza è ca. mt. 0,34 e la cui larghezza ca. mt. 0,10/0,12, di forma regolare appena sbozzati con l'inserimento di conci a forma di cuneo per forzare e migliorare i contatti in chiave, alla sommità delle
arcate di testa, mentre nei parapetti la muratura è stata realizzata con schegge tabulari di dimensioni ridotte posate
per corsi sub-orizzontali. La malta di allettamento, usata in quantità inferiore, permette sia la leggibilità delle ghiere
sia dell'intradosso in cui è possibile distinguere la posa del materiale lapideo per la realizzazione dell'arcata. La costruzione dei parapetti, di larghezza pari a ca. mt. 0,35, riprende la livellata inclinata della sezione e tecnicamente l'ultimo corso di coronamento del muretto è realizzato posando schegge di materiale lapideo in verticale ammorsate con
la muratura inferiore, come si può osservare nel punto di massima altezza del parapetto verso valle, che misura
ca. mt. 0,66. Proprio su quest'ultimo si può osservare la cura con cui è stata realizzata la parte terminale del muretto
di coronamento. La carreggiata, le cui dimensioni sono di ca. mt. 2,00, è ancora in buono stato, mentre i parapetti
sono in parte crollati compromettendo la muratura sottostante.
Bibliografia: inedito.
Fig. 23 Ponticello in Località Isole. Fronte verso monte (foto A. Botto).
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Scheda 12 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Bassi sul Torrente Siestri, localizzato lungo la strada comunale Neirone - Le
Piane
Il ponticello, localizzato a Nord-Est di Neirone su una stretta gola, è stato affiancato verso valle da un nuovo ponte
carrabile, perdendo la sua funzione principale.
L'arcata, a sesto ribassato, si imposta direttamente su due costoni di roccia a strapiombo sul torrente ed è sottolineata da un solo ordine di conci. Questi, di forma stretta e allungata, sembrano essere stati realizzati sfaldando materiale lapideo per piani paralleli.
La tessitura muraria verticale è realizzata per corsi sub-orizzontali di materiale litico spaccato la cui posa sembra essere stata realizzata a secco o con terra.
La vegetazione ha ricoperto completamente il manufatto, nascondendolo e procurando alla muratura seri danni strutturali. Molti arbusti insinuandosi tra i giunti hanno causato il crollo e lo spostamento di molti blocchi di materiale
lapideo rendendolo più debole e permettendo il percolamento continuo di acqua dall'estradosso verso l'intradosso.
Bibliografia: F. SENA 1988, p. 17.
Fig. 24 Ponticello in Località Bassi.
Fronte verso valle (foto A. Botto).
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Scheda 13 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Canivelli sul Beo delle Munaie, localizzato lungo la strada provinciale
Neirone - Roccatagliata - Portello - Torriglia
Il ponticello, localizzato a Nord-Est di Neirone, costituiva e costituisce un punto di passaggio della pedonale che sale
verso Torriglia.
La profondità del Beo è tale che il ponticello possiede due piedritti alti ca. mt. 1,80 su cui si imposta un'arcata a sesto
ribassato, la cui luce misura ca. mt. 1,62 e la cui freccia è alta ca. mt. 0,33.
I conci delle arcate hanno una lunghezza pari a ca. mt. 0,38 e una larghezza pari a ca. mt. 0,08/0,10: più che un'arcata la si potrebbe definire una piattabanda realizzata in materiale lapideo di forma regolare lungo e stretto. La muratura di rinfianco è costituita da corsi dello stesso materiale e delle stesse dimensioni dei conci, posati per corsi suborizzontali. La malta di allettamento è inesistente e la posa è avvenuta probabilmente a secco o con terra.
La particolarità costruttiva più curiosa è la realizzazione dei parapetti con scheggioni di materiale lapideo posati in
verticale di dimensioni differenti al di sopra della piattabanda. La carreggiata di larghezza pari a ca. mt. 1,60 si presenta delimitata lateralmente da queste schegge la cui larghezza è pari a ca. mt. 0,40.
Il ponticello è in ottime condizioni e non presenta fenomeni di degrado.
Bibliografia: inedito.
Fig. 25 Ponticello in Località Canivelli. Fronte verso valle (foto A. Botto).
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Scheda 14 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Canivelli sul Beo del Pozzetto, localizzato lungo la strada provinciale
Neirone - Roccatagliata - Portello - Torriglia
Il ponticello situato in località Canivelli a Nord-Est di Neirone, poco più avanti del ponticello sul Beo delle Munaie,
ha caratteristiche costruttive simili.
L'arcata, le cui dimensioni sono pari a ca. mt. 1,62 di luce e mt. 0,80 di freccia, si imposta su due piedritti alti, verso
valle, ca. mt. 1,50 fondati sulla roccia delle sponde. L'arco descritto è a tutto sesto e si imposta sui piedritti arretrandosi di ca. mt. 0,10 in modo da formare una risega per parte, probabilmente necessaria per la posa delle centine lignee
a sbalzo.
I conci utilizzati per la ghiera sono delle schegge lunghe ca. mt. 0,40 e larghe ca. mt. 0,05/0,07 di forma regolare,
posate completamente a secco, come si può osservare all'intradosso dove la caduta di alcuni scheggioni nella parte
centrale dell'arcata conferma la mancanza totale di malta di allettamento.
La tecnica utilizzata per realizzare la muratura di rinfianco è di due tipi: la muratura dei piedritti è di corsi di materiale lapideo di altezza doppia rispetto ai conci della ghiera e posati sub-orizzontalmente con molte zeppe per mantenere l'orizzontalità, mentre la muratura che sostiene gli accessi è realizzata con lo stesso materiale ma posto in verticale, con solo un passaggio per lo scarico dell'acqua raccolta a monte della muratura.
I parapetti sono completamente mancanti ad eccezione di uno scheggione sul fronte a monte, posato in verticale, che
segna la carreggiata di dimensioni uguali al sentiero pedonale di arrivo e di partenza. Ai lati di quest'ultimo sono posti
a distanze irregolari gli stessi scheggioni, usati forse per segnalare il sentiero.
Bibliografia: inedito.
Fig. 26 Ponticello in Località Canivelli. Fronte verso valle
(foto A. Botto).
- 158 -
Scheda 15 Neirone, Provincia di Genova
Ponticello in Località Feia sul Beo Onetti, localizzato lungo la strada comunale Corsiglia - Località
Stinetti
Il ponticello, localizzato a Nord-Est di Neirone sul versante che si affaccia sulla sponda orografica sinistra del
Torrente Rissuello, scavalca un Beo molto profondo. I piedritti infatti si fondano su imponenti banchi di roccia che
garantiscono una buona stabilità al ponte stesso.
L'arcata, a un solo ordine di conci, ha una luce di ca. mt. 4,94 e una freccia di ca. mt. 1,82. Il suo arco a sesto ribassato si imposta sui piedritti formando una leggera risega su entrambi i lati per accogliere le centine lignee utilizzate
per la sua costruzione.
I conci di lunghezza pari a ca. mt. 0,43 e larghezza mt. 0,12/0,15 sono stati posati con terra, come la muratura di
rinfianco in cui è stato utilizzato del materiale lapideo di dimensioni simili, cioè blocchi semplicemente sbozzati
posati per corsi sub-orizzontali con molte zeppe tabulari per ripristinare il piano di posa. Anche in questo caso è stata
utilizzata terra per l'allettamento dei corsi.
Attualmente l'intradosso dell'arcata, sulla sponda orografica sinistra, ha ceduto al di sopra delle reni, spinto probabilmente dalla forza dell'acqua insinuatasi dall'estradosso, con conseguenti rischi per la stabilità del ponte.
Bibliografia: inedito.
Fig. 27 Ponticello in Località Feia. Fronte verso valle (foto A. Botto).
- 159 -
NOTA SUI MATERIALI DI ALCUNI PONTI IN PIETRA DELLA VALLE DI NEIRONE
Roberto Ricci
Sono stati sottoposti a studio archeometrico quattro
ponti situati nel territorio comunale di Neirone (indicati nelle schede come 6, 7, 9, 10) per determinare la
natura dei materiali litici e litoidi impiegati, nel quadro degli studi per risalire con maggiore precisione possibile all’epoca di costruzione dei manufatti. Lo studio
archeometrico dei manufatti ha comportato le seguenti
operazioni: osservazione dei materiali litici impiegati
per la costruzione dei paramenti e delle volte degli archi,
prelievo di campioni della malta di allettamento degli
stessi su cui eseguire analisi mineralogico-petrografiche e
tessiturali al microscopio ottico per determinarne la
composizione.
Il ponte in Località Molino (scheda 6) presenta una
volta dell’arco, a sesto ribassato, piuttosto omogenea
costituita da “schiappe” lavorate in argilloscisto o arenoscisto con spessore cm 13-17, lunghezza cm 82-84, larghezza cm 37-59. I paramenti murari sono in conci
degli stessi litotipi, ma più irregolari e talvolta ricavati
da ciottoli. La malta prelevata tra gli elementi dell’arco presenta un legante di calce bianca, un rapporto clasti/matrice medio ed un aggregato scarsamente classato,
con sfericità bassa ed arrotondamento compreso tra l’angoloso ed il subangoloso, costituito da argilloscisti, arenarie e quarzo. L’aggregato evidenzia caratteristiche
mineralogico-petrografiche e tessiturali tipiche di una
sabbia dei torrenti locali.
Il ponticello in Località Molino (scheda 7) presenta una
volta dell’arco, a sesto ribassato, piuttosto omogenea
costituita da “schiappe” lavorate in argilloscisto con spessore cm 13-17, lunghezza cm 82-84, larghezza cm 3759. I paramenti murari sono in conci degli stessi litotipi, ma più irregolari e talvolta ricavati da ciottoli. La
malta prelevata tra gli elementi dell’arco presenta un
legante di calce bianca, un rapporto clasti/matrice medio
ed un aggregato scarsamente classato, con sfericità bassa
ed arrotondamento compreso tra l’angoloso ed il subangoloso, costituito da argilloscisti, arenarie e quarzo.
Malta di allettamento (10X) della volta del ponticello in Località Roccatagliata (scheda 10).
- 160 -
L’aggregato evidenzia caratteristiche mineralogicopetrografiche e tessiturali tipiche di una sabbia dei torrenti locali.
Il ponte in Località Roccatagliata (scheda 9) presenta
una volta dell’arco, a sesto ribassato, molto omogenea
costituita da “schiappe” lavorate in argilloscisto o arenoscisto con spessore cm 10-11, lunghezza cm 51-55, larghezza cm 38-45. I paramenti murari sono in conci
degli stessi litotipi, ma più irregolari. La malta prelevata tra gli elementi dell’arco presenta un legante di calce
bianca, un rapporto clasti/matrice medio ed un aggregato scarsamente classato, con sfericità bassa ed arrotondamento compreso tra l’angoloso ed il subangoloso, costituito da argilloscisti, arenarie e quarzo. L’aggregato
evidenzia caratteristiche mineralogico-petrografiche e
tessiturali tipiche di una sabbia dei torrenti locali.
Il ponticello in Località Roccatagliata (scheda 10) presenta una volta dell’arco, a sesto ribassato, piuttosto
omogenea costituita da “schiappe” lavorate in argilloscisto o arenoscisto con spessore cm 10-12, lunghezza cm
53-74, larghezza cm 51-74. I paramenti murari sono
in conci degli stessi litotipi, ma più irregolari e talvolta
ricavati da ciottoli. La malta prelevata tra gli elementi
dell’arco presenta un legante di calce bianca, un rapporto clasti/matrice medio ed un aggregato scarsamente
classato, con sfericità bassa ed arrotondamento compreso
tra l’angoloso ed il subangoloso, costituito da argilloscisti, arenarie e quarzo. L’aggregato evidenzia caratteristiche mineralogico-petrografiche e tessiturali tipiche di
una sabbia dei torrenti locali.
In base alla descrizione sopra riportata ed alle osservazioni dirette possibili, appare evidente una notevole
omogeneità nella tecnica edilizia dei quattro ponti, a
parte alcune piccole differenze, legate soprattutto alle
vicende che ognuno dei ponti ha subito dopo la sua
costruzione. In particolare le volte degli archi sono tutte
costituite da “schiappe” lavorate di ottima qualità in
pietra locale, unite con malta con legante di calce bianca ed aggregato di sabbia locale.
- 161 -
- 162 -
ANALISI PERCETTIVA DEL TERRITORIO COMUNALE DI NEIRONE
Luciano Maggi
CONTENUTI DELLE ELABORAZIONI
INQUADRAMENTO TERRITORIALE:
ASSI E POLI
INQUADRAMENTO TERRITORIALE:
MORFOLOGIA
Il territorio dal punto di vista viario risulta racchiuso
da un “triangolo” costituito dai principali assi stradali (Val di Trebbia, Val Fontanabuona, Passo della
Scoglina); solo l’asse della strada n. 225 di Val
Fontanabuona interseca il territorio comunale direttamente nella estrema parte meridionale. Ne deriva,
soprattutto per le aree settentrionali, un’esclusione
dalle direttrici principali. L’attraversamento NordSud è assicurato dall’antico tracciato che collegava
per la via più breve il piacentino al mare. A livello territoriale questo tracciato è sempre più in disuso dopo
la realizzazione post-bellica della parallela direttrice
del passo della Scoglina. Per quanto riguarda le polarità esse si concentrano sull’asse della Val
Fontanabuona (centri abitati di Cicagna, Moconesi e
Gattorna), più rari sono i poli al di là della dorsale
appenninica, che tuttavia costituiscono una attrazione per la parte nord del territorio comunale (centri
abitati di Torriglia e Montebruno).
Il territorio del Comune di Neirone risulta, ad una
prima lettura, in generale omogeneo, caratterizzato
da una morfologia corrugata ed aspra.
I crinali principali che delimitano il territorio scendono dalla dorsale appenninica in senso perpendicolare rispetto all’asse della Val Fontanabuona formando un compluvio principale che costituisce il bacino
idrografico del torrente Neirone.
La forma planimetrica caratteristica a cuneo del territorio comunale deriva dalla particolare tettonica
della parte terminale dell’Alta Val Fontanabuona.
polo/centro principale strada comunale
crinali principali
asse di comunicazione
(principale/secondario)
fiumi e torrenti
principali
- 163 -
MORFOLOGIA:
FIUMI E CRINALI – INSEDIAMENTI
PERCORSI:
STRADE E SENTIERI
In questa fase è stato realizzato uno studio di dettaglio del territorio comunale: attraverso l’individuazione del reticolo idrografico e dei crinali si sono evidenziati i principali versanti.
Per quanto riguarda gli insediamenti si nota nella
parte alta del territorio una modalità di insediamento
di piccoli nuclei di crinale con valenza storicoambientale. Nella parte bassa, invece, la disposizione
prevalente degli insediamenti è di mezzacosta.
Una particolare cura è stata posta nell’analizzare la
struttura viaria nel territorio comunale che si presenta assai fitta ed articolata. Tale struttura è determinata dalla morfologia. Sono tuttora evidenti due matrici viarie:
-quella storica, ormai in gran parte in disuso ed
abbandonata, che dimostra lo sfruttamento intensivo
di gran parte del territorio ai fini agricoli come, ad
esempio, la coltivazione del bosco in epoca pre-industriale;
-quella “moderna” costituita dalle attuali strade carrabili (principali e secondarie) che in parte si sovrappone alla matrice storica (vedere, ad esempio, l’ex strada
mulattiera, poi carrettiera ed oggi provinciale, di
attraversamento nord-sud).
In particolare si vuole richiamare l’attenzione su
quella parte della matrice storica costituita dai sentieri, sia quelli ancora aperti ed in uso, sia quelli ormai
in disuso od in grave stato di abbandono, non più
evidenti sulle carte tematiche regionali e di cui abbiamo ripreso il tracciato dalle planimetrie catastali.
Questo come testimonianza storica, ma soprattutto,
per suggerire una proposta di recupero e riuso ai fini
del mantenimento idrogeologico e vegetazionale del
territorio.
crinali
nucleo di mezzacosta
(principale/secondario)
strada statale
strada provinciale
fiumi e torrenti
nucleo di crinale
(principale/secondario)
strada comunale
principale
- 164 -
strada comunale
secondaria
sentiero in uso
sentiero in disuso
USO DEL SUOLO
NEGATIVITA’ ALLA FRUIZIONE
INSEDIATIVA
Le elaborazioni sono state eseguite attraverso la
conoscenza diretta del territorio ed utilizzando la
carta tecnica regionale e l’ortofotocarta. Questo ha
consentito una precisa puntualizzazione dell’uso
anche storico del territorio. In particolare sono state
messe in evidenza le zone di bosco anticamente coltivate ed oggi in parziale disuso, nonché i prati solo in
parte ancora utilizzati come pascoli. Per quanto
riguarda la zona agricola notiamo che è, oggi, limitata intorno ai nuclei insediati in quanto in epoca industriale e nel periodo delle emigrazioni vi è stato un
progressivo abbandono delle fasce coltivate ai margini dei boschi. Proprio in queste aree marginali di formazione relativamente “moderna” si sono rilevati i
più gravi fenomeni di degrado sia vegetazionale che
idrogeologico. Questo ha consentito di suggerire alla
nuova pianificazione un recupero dell’insediamento
sparso ad uso agricolo più esteso e con particolare
attenzione alle modalità di accesso in funzione del
recupero delle antiche matrici di percorrenza.
I fattori di negatività considerati sono i seguenti:
-esposizione dei versanti (nord, nord-est, nord-ovest)
-uso del suolo (bosco fitto).
A questi fattori si è sovrapposta la previsione del
piano territoriale di coordinamento paesistico regionale (assetto insediativo) del regime normativo ANIMA. Dalla somma di tutti questi dati si sono evidenziate le zone di alta e media negatività alla funzione
insediativa.
bosco fitto
prati
esposizione (N, N-E, N-O)
bosco
bosco coltivato
ANI-MA (P.T.C.P.)
alta negatività
gerbido/roccia affiorante
agricolo
bosco fitto
media negatività
- 165 -
AMBITI TERRITORIALI OMOGENEI
Dalla verifica delle situazioni in atto è discesa l’identificazione di ambiti con diversi caratteri di
antropizzazione, proprie caratteristiche di organicità
e specifiche potenzialità di sviluppo, come rappresentati nella cartografica seguente.
Area di interesse
naturalistico forestale
Tale analisi è stata effettuata in occasione della redazione del Livello Puntuale del Piano Paesistico del
Comune di Neirone (collaboratori: arch. Giulia
Borzone, arch. Gianluca Solari).
Le elaborazioni sono iniziate da una lettura geografica dell’ambito territoriale cui il Comune di
Neirone appartiene. La lettura è stata approfondita
dal punto di vista storico nell’analisi di alcuni elementi che hanno avuto e conservano maggiore
influenza nelle trasformazioni subite dal territorio
(accessibilità, classificazione dei percorsi, frammentazione del particellare catastale, uso del suolo).
A livello insediativo lo studio ha portato a riconoscere all’interno del territorio comunale zone territoriali omogenee sulle quali far valere diverse norme
paesistiche.
Nuclei insediati
Area di collina terrazzata o Nuclei storici con particolari
non ad insediamento sparso emergenze storiche da tutelare
Area di collina terrazzata o Fascia di lungofiume
non ad insediamenti diffusi
- 166 -
DESCRIZIONE DEGLI AMBITI OMOGENEI
1 - AREA DI INTERESSE NATURALISTICO E
FORESTALE
Sono zone prevalentemente boscate con presenza di
gerbido e roccia affiorante soprattutto in corrispondenza delle aree cacuminali del sistema montuoso più
importante; comprende anche zone di prateria e
ridotti lembi di coltivo sui versanti.
Queste aree, soprattutto verso e sui più importanti
crinali spartiacque, sono dotate di una grande panoramicità.
La vegetazione boschiva dell’ambito è dominata dal
bosco misto mesofilo.
2 - AREA DI COLLINA, TERRAZZATA E
NON, AD INSEDIAMENTO SPARSO
Questo ambito comprende la più vasta parte del territorio comunale storicamente insediato con residenze connesse alla conduzione dei fondi agricoli.
Le schede analitiche allegate riferite agli insediamenti di GIASSINA, BUGNE, IL POGGIO, AIA DI
ZANELLO, ISOLA, BRUGAGLI, CERESA, S.
MARCO D’URRI, BOSSOLA, CAZZANIGA,
CERISOLA e BESCALUPO mettono in evidenza
il loro carattere frammentato anche se in gran parte
sono comunque collegati da assi stradali secondari.
L’ubicazione dell’insediamento è, quindi, strettamente correlata alla matrice agricola del territorio, in
posizione dominante rispetto ai campi coltivati. Si
tratta quindi di insediamenti di crinale o mezzacosta,
disposti talvolta con il fronte principale parallelo alla
linea di massima pendenza e talvolta ortogonalmente
ad essa.
3 - AREA DI COLLINA, TERRAZZATA E
NON, AD INSEDIAMENTI DIFFUSI
È costituita dalla fascia collinare del sistema agricolo
in prossimità dei nuclei abitati storicamente caratterizzati da un coltura non solo di sussistenza.
Gli insediamenti hanno un impianto generalmente
edificato lungo una matrice di percorrenza in modo
lineare o a nucleo. Eventuali impianti a carattere
sparso sono dovuti ad una edificazione recente non
sempre in linea con le potenzialità di sviluppo dell’insediamento.
I percorsi “matrice” di tali insediamenti sono tutti
situati su importanti strade di comunicazione locale,
quindi intorno ad essi si era storicamente sviluppato
un commercio di prodotti agricoli.
In tutti i nuclei insediati compresi nell’ambito territoriale in questione permane tuttora leggibile una
forte connotazione agricola.
4 - NUCLEI INSEDIATI
Trattasi di impianti edificati prevalentemente su
matrici di percorrenza secondo impianti lineari od a
nucleo.
Di tutti i nuclei è stata effettuata una lettura dell’impianto edilizio ed urbanistico comprendente, oltre
che lo studio tipologico degli edifici, le caratteristiche
delle abitazioni e la valutazione del degrado del patrimonio edilizio, anche l’analisi dello schema organizzativo dell’insediamento (vedi esempio per il nucleo
insediato di LEZZARUOLE).
5 – NUCLEI STORICI CON PARTICOLARI
EMERGENZE STORICHE DA TUTELARE
Trattasi di nuclei insediati, generalmente di crinale,
molto antichi che conservano le più importanti caratteristiche tipologiche originarie. Lo stato di conservazione dei manufatti è, comunque, generalmente
carente.
Di tutti i nuclei è stata effettuata una lettura dell’impianto edilizio ed urbanistico comprendente, oltre
che lo studio tipologico degli edifici, le caratteristiche
delle abitazioni e la valutazione del degrado del patrimonio edilizio, anche l’analisi dello schema organizzativo dell’insediamento.
6 – FASCIA DI LUNGOFIUME
L’estremo lembo sud del territorio comunale, prima
della formazione dell’asse stradale di fondovalle oggi
assai trafficato, era maggiormente interagente con il
fiume, anche se non ha mai avuto una valenza agricola per la forte acclività che vi si riscontra, ad eccezione di alcune zone a carattere prevalentemente golenale.
Oggi la zona è gravemente compromessa, soprattutto nei caratteri naturalistici, da questo asse viario che
però in parte rivaluta la zona per possibili impianti
infrastrutturali.
In particolare l’area di Donega, già oggi, si
presenta come un possibile polo sia nei confronti del
territorio comunale di Neirone che dell’Alta Val
Fontanabuona.
- 167 -
1 - Area di interesse naturalistico e forestale
Estratto Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico, Regione Liguria (P.T.C.P.).
Assetto insediativo del territorio comunale di Neirone: coni di ripresa fotografica.
Foto 1.1
Foto 1.2a
Foto 1.2b
- 168 -
1.1: Versante meridionale di Ognio
1.2a: Versante a Ponente del torrente Neirone
1.2b: Versante a Ponente del torrente Neirone
1.3: Piana di Corsiglia e retrostante versante
a Ponente del torrente Neirone
1.4: Piana di Corsiglia e retrostanti versanti
settentrionali (Giassina)
1.5: Versante a Levante del torrente d’Urri
1.6: Versante settentrionale di Ognio
1.7: Versante a Levante del torrente Neirone
zona ANI-MA P.T.C.P., Regione Liguria
Area Non Insediata Regime Mantenimento
Foto 1.3
Foto 1.4
Foto 1.5
Foto 1.6
Foto 1.7
- 169 -
2 - Area di collina, terrazzata e non, ad insediamento sparso
2A) LOCALITÀ IL POGGIO
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
2A.1: Veduta fotografica
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
intonaco
* pietra
affrescate
persiane
avvolgibili
* assenti
edifici a 3 piani
edifici di pregio
da recuperare
edifici a 2 piani
edifici non di pregio
ruderi
2A.2: Analisi tipologica
2A.3: Analisi stato manutentivo edifici
2B) LOCALITÀ BRUGAGLI
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
2B.1: Veduta fotografica
edifici a 3 piani
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
* pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici di pregio
da recuperare
edifici a 2 piani
2B.2: Analisi tipologica
2B.3: Analisi stato manutentivo edifici
- 170 -
3 - Area di collina, terrazzata e non, ad insediamenti diffusi
3A) LOCALITÀ CARPENETO
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
3A.1: Veduta fotografica
edifici a 3 piani
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici di pregio da recuperare
edifici di pregio recuperati
edifici a 2 piani
edifici non di pregio recuperati o nuovi
edifici non di pregio, ruderi
3A.2: Analisi tipologica
3A.3: Analisi stato manutentivo edifici
3B) LOCALITÀ ROSASCO
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
3B.1: Veduta fotografica
edifici a 3 piani
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici di pregio da recuperare
edifici di pregio recuperati
edifici non di pregio recuperati o nuovi
edifici non di pregio, ruderi
3B.2: Analisi tipologica
3B.3: Analisi stato manutentivo edifici
- 171 -
4 - Nuclei insediati
4A) LOCALITÀ CORSIGLIA
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
4A.1: Veduta fotografica
4A.2: Analisi tipologica
tegole in cemento
*tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici a 5 piani
edifici di pregio da recuperare
edifici a 4 piani
edifici di pregio recuperati
edifici a 3 piani
edifici non di pregio recuperati/nuovi
edifici a 2 piani
edifici non di pregio, non recuperati
edifici a 1 piano
4B) LOCALITÀ NEIRONE
4A.3: Analisi stato manutentivo
edifici
edifici non di pregio, ruderi
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
4B.1: Veduta fotografica
4B.2: Analisi tipologica
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici a 4 piani
edifici di pregio da recuperare
edifici a 3 piani
edifici di pregio recuperati
edifici a 2 piani
edifici non di pregio recuperati o nuovi
edifici a 1 piano
edifici non di pregio, ruderi
4B.3: Analisi stato manutentivo edifici
- 172 -
5 - Nuclei storici con particolari emergenze storiche da tutelare
5A) LOCALITÀ SIESTRI
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
5A.1: Veduta fotografica
edifici a 3 piani
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
intonaco
* pietra
affrescate
persiane
avvolgibili
* assenti
edifici di pregio
da recuperare
edifici a 2 piani
5A.2: Analisi tipologica
5A.3: Analisi stato manutentivo edifici
4B) LOCALITÀ SCIARRÈ
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
5B.1: Veduta fotografica
5B.2: Analisi tipologica
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
intonaco
* pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici a 3 piani
edifici di pregio
da recuperare
edifici a 2 piani
edifici non di pregio
ruderi
5B.3: Analisi stato manutentivo edifici
- 173 -
5C) LOCALITÀ FORCOSSINO
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
5C.1: Veduta fotografica
edifici a 3 piani
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
intonaco
* pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici di pregio da recuperare
edifici di pregio recuperati
edifici a 2 piani
5C.2: Analisi tipologica
edifici non di pregio, ruderi
5C.3: Analisi stato manutentivo edifici
5D) LOCALITÀ ROCCATAGLIATA
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
5D.1: Veduta fotografica
5D.2: Analisi tipologica
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
avvolgibili
assenti
edifici a 4 piani
edifici di pregio da recuperare
edifici a 3 piani
edifici di pregio recuperati
edifici a 2 piani
edifici non di pregio recuperati o nuovi
edifici a 1 piano
edifici non di pregio, ruderi
5D.3: Analisi stato manutentivo edifici
- 174 -
6 - Fascia di lungofiume
6A) LOCALITÀ ACQUA DI OGNIO
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
6A.1: Veduta fotografica
tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
*avvolgibili
assenti
edifici a 6 piani
edifici a 3 piani
edifici a 2 piani
edifici a 1 piano
6A.2: Analisi tipologica
6B) LOCALITÀ DONEGA
FINITURE DEGLI EDIFICI (* prevalenza nel nucleo)
TETTI:
PROSPETTI:
SERRAMENTI:
6B.1: Veduta fotografica
*tegole in cemento
tegole alla marsigliese
lastre di eternit
* elementi in pietra o ardesia
altro
*intonaco
pietra
affrescate
*persiane
*avvolgibili
assenti
edifici a 6 piani
edifici a 5 piani
edifici a 4 piani
edifici a 3 piani
edifici a 2 piano
6B.2: Analisi tipologica
- 175 -
7 - Analisi dello schema organizzativo dell'insediamento
ESEMPIO: NUCLEO INSEDIATO DI LEZZARUOLE
Veduta fotografica
Veduta fotografica
linea di crinale
linea di compluvio
percorrenze principali
Schema organizzativo dell’insediamento
Stato di fatto esistente
Prescrizioni per nuova edificazione
impianto edificato
lungo matrice di percorrenza
assente
presente in parte
presente
impianto edificato
lungo matrice di percorrenza
ammesso
ammesso a condizioni
non ammesso
impianto edificato
disposto a nucleo
assente
presente in parte
presente
impianto edificato
disposto a nucleo
ammesso
ammesso a condizioni
non ammesso
impianto edificato
a carattere sparso
assente
presente in parte
presente
impianto edificato
a carattere sparso
ammesso
ammesso a condizioni
non ammesso
- 176 -
NEIRONE
FASI COSTRUTTIVE ED INTERVENTI DI RESTAURO
DELLA CHIESA DI SAN MAURIZIO
Cristina Sanguineti
Fig. 1 Neirone, chiesa di San Maurizio: pianta, scala 1:200 (elaborazione grafica R. Eseguiti)
Intitolazione degli altari: 1 - San Maurizio; 2 - SS. Crocifisso; 3 - N. S. di Lourdes (già dei SS. Bernardo, Gio Batta e
Bonaventura; già di San Biagio); 4 - Sant’Antonio da Padova; 5 - SS. Rosario.
La data d’origine ed il luogo della chiesa antica
di Neirone, probabilmente poco più che una
cappella, ci sono ignoti.
Se il più remoto documento attualmente conservato espressamente riferito alla chiesa originaria, un inventario risalente al 15931, è testimone di una certa, pur modesta, consistenza di
beni mobili e quindi di un’origine non recente
della chiesa, conferma ci giunge anche da alcuni pagamenti per lavori all’edificio stesso che
per la loro natura artistico-ornamentale indicano l’appartenenza ad una fase già avanzata della
sua storia: interventi vari di una certa consistenza ed in particolare opere da “stucadore” e da
“scopelino” registrate fra il 1612 ed il 1614, cui
fanno seguito spese per nuovi arredi2.
Ulteriore conferma - e di una storia addirittura
plurisecolare - ci giunge da un documento
notarile ove viene citato il “minister ecclesie S.
Mauritii de Neirono” in base al quale è attestata l’esistenza sul territorio di un edificio di culto
almeno a far data dal 13233.
A seguito delle opere decorative e di finitura
sopra menzionate, la chiesa doveva aver assunto
una certa dignità anche architettonica quando,
fra il 1646 ed il 1649, fu esonerata dalla sottomissione a quella di Uscio, investita del titolo di
Arcipretura e costituita in Vicariato, con giurisdizione sulla circoscrizione territoriale corrispondente alle tre parrocchie di Ognio,
1 ACC, fasc. 82, Inventario dei Beni Mobili ed Immobili della Chiesa di San Maurizio di Neirone.
2 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro. Libro della Santissima Vergine del Rosario, anni 1612, 1613, 1614. Le spese da “stucadore” e da
“scopelino” ammontano, per il solo anno 1612, a circa 251 lire.
3 A. e M. REMONDINI, 1890, pp. 275 e 281. Il documento indicato dai Remondini è citato come appartenente agli atti del notaio
Leonardo de Garibaldo, “protocollo, pagina 9”.
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Gattorna e Urri e, successivamente, di
Roccatagliata che a sua volta fu costituita in
Rettoria e succursale di Neirone4.
La tradizione storiografica già risalente al 1750,
ribadita nella bibliografia di riferimento di
epoca successiva, vuole che della investitura
onorifica fosse promotore ed autore una personalità di eccellenza nel panorama sociale dell’epoca, il cardinale Stefano Durazzo già arcivescovo di Genova5.
I Remondini fanno risalire proprio al momento
di tale investitura di prestigio l’emergere dell’esigenza di dotare la comunità di Neirone di una
nuova e più capiente chiesa. La circostanza causale, che si accompagna al “fervore” dei fedeli per
l’opera citato nei documenti che a tutt’oggi si
conservano6, si intreccia probabilmente con un
saldo delle nascite positivo o quantomeno attestato su valori consistenti, forse esso stesso all’origine della decisione di conferire alla chiesa una
intitolazione di preminenza.
Nel 1656, quindi nello stretto giro di un lustro
circa, nonostante la scarsità di mezzi della locale
comunità che sempre si autodefiniva “villa poverissima”7, si manifestò fattivamente la volontà di
dare principio alla “fabbrica della nuova chiesa
parrocchiale di Neirone”. È il primo arciprete, il
sacerdote Paolo Gardella, a dare inizio al dovuto
scambio di missive con l’Arcidiocesi di Genova
ai fini di ottenere tutte le autorizzazioni del caso.
Assai indicativo della volontà di vedere l’opera
conclusa quanto prima è il fatto che nella corrispondenza intercorsa con l’autorità ecclesiastica
si richieda anche la necessaria dispensa in previsione, già dal principio, “di travagliare li giorni
festivi occorrendo il bisogno”8.
La costruzione, per la quale si scelse un luogo
immediatamente a valle dell’abitato ed affacciato
longitudinalmente verso il promontorio prospiciente, significò la soppressione dell’antica chie-
sa.
Quella della quale qui tenteremo di tracciare la
storia, per quanto i documenti superstiti ce lo
consentono, è quindi la chiesa di origine seicentesca che, pur successivamente trasformata per
completamenti edilizi ed ornamentazioni, corrisponde all’edificio attuale.
Considerando che si optò per una costruzione ex
novo in luogo affatto diverso, anche se non sappiamo quanto discosto da quello della chiesa primitiva, è presumibile che la chiesa originaria si
trovasse in posizione tale da non consentire alcun
ampliamento, operazione altrimenti certamente
più agevole e meno dispendiosa. Non è pertanto
da escludere che di tale chiesa o cappella primitiva permangano brani murari, forse celati entro
qualche esempio di edilizia del borgo.
Su consiglio del “maestro ingegniere” il 10 marzo
1659 dunque, “essendo scarsi li siti”, quale terreno ove fondare la nuova chiesa si decide di prendere un “chioso” di proprietà dell’arciprete e si
stabilisce che “per questo il popolo darà tanto
bosco castagnativo che renderà il frutto di ciò
che occuparà la nuova chiesa”, al fine “di non dar
danno in l’avvenire all’Arciprete”.
Lo spoglio dei documenti che riguardano direttamente la vicenda costruttiva o ne fanno soltanto cenno fa trasparire da un lato la realtà di un’economia di sussistenza, basata in gran parte sugli
introiti delle terre castagnative, e dall’altro la
volontà di una costruzione totalmente partecipata, tutta interna alla comunità, sia per impegno
diretto di uomini e materiali che per onere di
spesa. Ciò che emerge evidente, da parte dei
superiori ecclesiastici, è la preoccupazione per il
finanziamento dell’opera. Per l’assenso alla
costruzione risulta certamente determinante quel
“havendo il Popolo promesso di comprare tanta
(terra) per la valuta di essa”9, con cui si chiarisce
che, almeno per l’acquisizione del terreno trami-
4 A. e M. REMONDINI, 1890, p. 272.
5 ACC, fasc. 82, , Visitatio Ecclesiae Vicariatis Sancti Mauritiis de Neirone, 1750, 5 luglio ; A. e M. REMONDINI, 1890, pp. 275-276.
I Remondini tuttavia non citano quale fonte il documento relativo alla visita apostolica, bensì un documento indiretto, il testo dello
“storico della Liguria Sacra vol. 2 pag. 149”.
6 ACC, fasc. 82, 1659, 7 maggio.
7 Ivi, 1698, supplica di Angelo Gardella arciprete di San Maurizio di Neirone.
8 Ivi, 1659, 7 maggio, lettera dell’arciprete Paolo Gardella. Cfr. nota 13.
9 Ivi, 1659, 18 aprile.
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te permuta, all’amministrazione centrale della
Diocesi non è richiesto contributo alcuno.
La benedizione della prima pietra avviene nel
maggio del 1659 per mano dell’arciprete Paolo
Gardella, ma i lavori sono in realtà già stati intrapresi il mese precedente con l’impegno di “nettare li fondi”10 e con l’arrivo delle prime forniture
di materiali11, cui solo dopo fa seguito l’ottemperanza all’obbligo di far periziare la terra12.
Sappiamo che nella costruzione è coinvolto un
“mastro ingegniere”, ma i documenti (mere
citazioni, mentre nessun disegno ci risulta pervenuto) oltre a non riportarne il nome, nulla ci
dicono circa l’architettura della chiesa, il rapporto originario fra la sua forma e le sue dimensioni e come queste vengano giudicate proporzionate alla quantità di fedeli di allora. A meno
forse di un qualche semplice schema progettuale di riferimento, tutto fa supporre dunque un
farsi del disegno della fabbrica direttamente in
opera, secondo un approccio che porta il “fervore” con il quale la popolazione mette mano
all’intervento13 a concretizzarsi nella delimitazione e copertura di uno spazio ad aula unica,
essenziale e, in principio, privo di campanile.
Nonostante le intenzioni, i lavori si protraggono a lungo. Solo nel 1663 si mette mano alla
facciata14, mentre al 1672 risale la sistemazione
dell’area del coro15. Ancora una volta di entrambe le opere si ha solo notizia e non è possibile
identificare la natura e la consistenza degli
interventi.
Del resto, a dispetto dell’impegno profuso,
ancora a fine secolo la chiesa doveva apparire
niente più che una semplice scatola muraria
non conclusa ed al contempo risultava già interessata da fenomeni di degrado, priva com’era di
infissi alle bucature delle finestre e con la copertura che cominciava già ad accusare problemi di
infiltrazioni d’acqua16. Nel 1698 l’arciprete
denuncia che il contributo volontario della
popolazione non è sufficiente a pagare i materiali e, chiedendo ai superiori il permesso di
vendere un pezzo di terra per finanziare la prosecuzione dei lavori, scrive di aver “principiato a
far fare il campanile sudetto et accomodar gli
tetti con la contribuzione del proprio e qualche
cosa preso da quelli medesimi popoli, ma per
esser villa poverissima, resterebbe imposibillitato a terminar l’opera sudetta”.
Di tenore e contenuto simili è la relazione che
viene redatta nello stesso periodo dal reverendo
rettore di San Lorenzo di Roccatagliata, incaricato dall’Arcidiocesi di Genova17 nella persona
del vicario generale, di compiere un sopralluogo
per verificare consistenza e necessità delle opere
eseguite e da realizzarsi: “detta chiesa sono
molti anni che è stata fabbricata. Nell’anno
1672 fu agiustato il suo coro. Il resto è ancora
da stabilire. Ha molte finestre chiuse di tavole
che pare una cabanna foresta. Il tetto è ancora
godibile, ma fra pochi anni ha bisogno di rinovazione, per le chiappe in bona parte infracidite. Il campanile al presente resta instabilito la
metà per scarsezza di dannaro, e la massaria per
questo, si dice, resta in debito di somma rilevante.”
Con l’autorizzazione all’alienazione della porzione di terra18 dobbiamo immaginare che entro
la fine del Seicento od il primo scorcio del
10 Ibidem.
11 Ibidem: “habbiamo condotto la prima calcina fatta, che arriverà a mine duecento, et mercordì prossimo si darà fuoco ad un’altra cioè
speriamo mediante l’agiuto divino debba essere assai più”.
12 ACC, fasc. 82, 1659, 29 aprile. Estimatori sono Bartolomeo Schiappacasse q. Pietro, Gio Antonio Caramella q. Lorenzo e Antonio
De Cava, i quali valutano che possa “rendere £ 3 l’anno di frutto”. Testimonianza del valore periziato viene resa al podestà e notaro di
Roccatagliata, il magnifico Antonio Maria Micone.
13 Ivi, 1659, 7 maggio. Paolo Gardella arciprete chiede di poter benedire la prima pietra e licenza “di travagliare li giorni festivi occorrendo il bisogno”. Dice che inizierà il lunedì successivo “havendo pronta tutta la masseria”.
14 APSMN (FN), Libro delle castagne l’anno 1638. Nell’anno 1663 figurano diverse spese “alli maestri da muro per imboccare la facciata della chiesa”. Gli importi appaiono tuttavia modesti.
15 ACC, fasc. 82, 1698, supplica di Angelo Gardella arciprete di San Maurizio di Neirone.
16 Ibidem. L’arciprete spiega che la chiesa esistente versa in uno stato tale, e “particolarmente in tempo di pioggia”, che è impossibile
“potervisi fermare li popoli (…) perché senza campanile e li pioveva da tetti in ogni parte”.
17 ACC, fasc. 82, 1698, 25 ottobre.
18 Ivi, 1698, 4 dicembre. Il Vicario Generale Giuseppe Abbas Guerra autorizza l’alienazione del pezzo di terra purché la vendita
avvenga a prezzo non minore di scudi trentadue “a libris quatruor pro singulo”. Dalla citata relazione del parroco di San Lorenzo si
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Settecento la chiesa potesse vantare finalmente
anche la presenza di un campanile, considerando che già nel decennio precedente, fra il 1685
ed il 1693, si erano anticipate somme per far
fabbricare una campana19.
È quasi certamente alla fine lavori relativa al
campanile e ad alcuni altri non meglio specificati interventi decorativi interni che si riferisce
l’epigrafe datata 1711 riportata dagli storiografi Remondini: “Questa chiesa è stata fabbricata
l’anno MDCLVIII in tempo delli RR.
Arcipreti Paolo Gardella ed Angelo Tommaso
Gardella e ristorata in tempo del R. Paolo
Gardella ognuno di questo loco. L.n. (loco
natio) an. 1711”20.
La prima decade del Settecento vede quindi la
sostanziale conclusione nella definizione dell’architettura della chiesa. Interventi puntuali,
anche di rilievo, vengono eseguiti nel 1730, in
cui risulta la costruzione della cappella di
Sant’Antonio e Santa Lucia21, e nel 1743, con la
costruzione dell’altare maggiore dedicato a San
Maurizio e della relativa balaustrata22, ma per
tutto il resto del secolo nella storia edilizia della
chiesa non è dato registrare alcuna innovazione
degna di nota.
In occasione della visita apostolica commissionata a Giovanni Bernardo Taccone, canonico
della Metropolitana di San Lorenzo, da monsignor Giuseppe Saporiti, arcivescovo di Genova,
il 5 luglio del 175023 la chiesa, che presenta lo
stesso impianto attuale ad ampia navata unica,
viene descritta come dotata internamente di
pareti eleganti e di una cornice in gesso ornata
di figure, cinque altari, tre porte, dieci finestre
vetrate, delle quali – si dice – una suddivisa in
tre si trova sopra la porta, di un decoroso coro
ligneo con stalli e di un campanile di struttura
elegante al quale si accede dall’interno della
chiesa tramite una porta posta in cornu evangeli, ossia sul lato sinistro dell’aula per chi guarda
verso l’altar maggiore. La torre campanaria, il
cui elevato corrisponde internamente a cinque
piani in tavole lignee collegati da scale anch’esse di legno, è dotata di quattro campane che, si
tiene a sottolineare nel documento, non sono
state comperate ma realizzate appositamente e
risultano ben sostenute da una struttura di travi
e tavole.
Dopo il periodo di esercizio settecentesco, che
nel 1770 vede già un primo intervento di “ristorazione” dedicato alla facciata del quale purtroppo manca documentazione sia descrittiva
che grafica24, con l’Ottocento, di pari passo con
l’ampliamento della dotazione di arredi mobili,
si dispiega la vera e propria storia dei “restauri”.
I lavori più urgenti, di cui emerge la necessità
intorno agli anni quaranta del secolo, riguardano il campanile “minacciante rovina”, il pavimento “ammontichiato ed irregolare”25 e,
soprattutto, il tetto cui si mette mano pressoché
continuativamente fino a tutto il secolo successivo.
Diversi sono i modi attraverso i quali la
Fabbriceria – organismo che risulta amministrare la chiesa sino al 1937, quando viene sop-
apprende che “la terra per cui si è suplicato è lontana dalla chiesa un miglio, è arborata di diversi alberi di castagne , ma pochi frutiferi
e vecchi e folti d’immondizia. Con loro respectivamente giuramento Antonio Guar.e q. Battista e Gio Batta pure Guar.e dicono essere il suo valore lire 120. Ho riconosciuto i libri (…). Tra i beni della chiesa resto informato essere il minor danno che si possi dare alienandolo”. La stessa terra, nella supplica dell’arciprete di San Maurizio, era valutata “di reddito di £ 4 in 5 l’anno del quale ne ha il compratore per scuti 30 da £ 4”.
19 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro…, 1685, 18 ottobre “spesa della fattura della campana”; ibidem, 1693, 2 febbraio, spese “per
legna per la campana”. Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
20 A. e M. REMONDINI, 1890, p. 276. I Remondini riferiscono che la scritta si trova dipinta sul soffitto della chiesa, ai piedi dell’affresco rappresentante il martirio di San Maurizio (per detto affresco cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio …, in questo volume) ed è riportata dal “P. Paganetti, Supplemento, MS. vol. 1, pag. 164”.
21 ACC, fasc. 82, ove risulta la raccolta di fondi per finanziare la cappella.
22 A. e M. REMONDINI, 1890, p. 277. I Remondini riportano il testo della lapide marmorea posta dietro l’altare maggiore: “1743,
10 giugno. In tempo de R.o Paolo Gardella Arc. Di detto loco e massari Benedetto Schiappacasse e B.o Pasturino”. Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio …, in questo volume.
23 ACC, fasc. 82, Visitatio Ecclesia …1750, 5 luglio .
24 A. e M. REMONDINI, 1890, p. 276. I Remondini testimoniano di una “scritta a pennello” nel cornicione della facciata del seguente contenuto: “Restaurata an. Domini MDCCLXX archipresbitero Francisco M.a Cassinelli”.
25 APSMN (FN), Libro contiene le Deliberazioni della Fabbriceria di S. Maurizio di Neirone incominciato l’anno 1836, 1847, 3 ottobre.
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presso per decreto ministeriale e sostituito, per
decreto vescovile, da un “Consiglio
Amministrativo parrocchiale”26 – tenta a più
riprese di recuperare i fondi necessari per far
fronte agli interventi. Più volte si delibera di
“far perseguire i debitori della chiesa”27 e nel
1850 si impone una obbligazione di pagamento
a tutti coloro che vorranno tenere una sedia
all’interno, pena lo sgombero nel giro di otto
giorni28. Ma a distanza di vent’anni la
Fabbriceria giudica che, “sendosi introdotto l’abuso in questa chiesa d’accomodarvi quaranta o
cinquanta sedie a disturbo ed impaccio dei concorrenti”, per ciascuna di esse si dovranno corrispondere due lire annue29. Nel 1882 il parroco
Felice Cereghino scrive all’arcivescovo di
Genova in merito a dispendiosi lavori necessari
per il restauro della chiesa e della canonica e,
sostenendo che la popolazione non è “abbastanza assuefatta a fare sacrifici straordinari per la
chiesa”, oltre a chiedere un sostegno finanziario
diretto domanda il permesso di vendere oggetti
vari - rotti e in oro, si dice - per un valore totale corrispondente a 120 lire. Del resto la parziale vendita di gioielli in oro donati alla chiesa era
già stata messa in pratica nel 1879 per finanziare gli interventi connessi alla realizzazione dell’organo, come si dirà in seguito. Questa stessa
costosa nuova opera porterà anche alla proposta
di “nomina di cinque fabbriceri aggiunti in
America affinchè procurino delle offerte”30. Il
comitato dei parrocchiani residenti in America
risulta da allora effettivamente attivo e nel 1894
si dice pronto a versare la somma di duecento
lire per collocare la croce sul campanile, caduta
sei anni prima31. Nel 1904, con formula più
moderna, risulta la delibera di fare un mutuo
per la liquidazione dei debiti contratti in occa-
sione dei lavori eseguiti per la celebrazione del
sedicesimo centenario di San Maurizio32. Nel
1906 per finanziare i lavori alla chiesa la formula adottata è quella di richiedere sussidi al
“Regio Economato de Benefizi vacanti”33.
Il primo intervento ottocentesco di “restauro”
del quale i parrocchiani sentono la necessità
risale al 1837, quando la Fabbriceria delibera a
pieni voti “di chiamare muratori che imbianchissero tutta quanta la chiesa” ed intervenissero sugli stucchi che si presentano “nereggianti e
sporchi dalla polvere”34. Nel corso della medesima seduta viene inoltre approvata una miglioria
funzionale relativa all’apertura di una nuova
porta a sinistra dell’altar maggiore per agevolare l’entrata e l’uscita dalla chiesa “come pure
levar di mezzo la soggezione ed il passaggio
continuo dalla sagrestia”.
Non è certo tuttavia se i lavori di “imbiancatura” vengano effettivamente eseguiti, dal
momento che ancora a distanza di circa
vent’anni, in occasione della visita dell’arcivescovo, nel 1856, fra il novero delle opere necessarie a celebrare degnamente l’evento si delibera nuovamente di imbiancare la chiesa35. Un
intervento certo in tal senso, risultando agli atti
della Fabbriceria i puntuali pagamenti per forniture e manodopera, viene realizzato invece nel
periodo 1869-187136. Degna di nota a tal proposito la registrazione anche della minima spesa
per “due viaggi da Cicagna con litri cinque latte
per mescolarlo colla calce per l’imbiancatura
della chiesa”.
Nella storia della chiesa occorre quindi evidenziare che l’interno è sempre stato caratterizzato
da pareti bianche. Il colore e la decorazione dei
prospetti interni erano demandati, in occasioni
particolari, alla collocazione di tessuti di pregio.
26 APSMN (FN), Delibere 1895-1971.
27 APSMN (FN), Libro contiene …, 1847, 3 ottobre; ed ancora ivi, 1855, 9 aprile.
28 Ivi, 1850, 6 gennaio.
29 Ivi, 1870, 3 aprile.
30 Ivi, 1880, 11 ottobre.
31 Ivi, 1894, 1 luglio.
32 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1904, 2 ottobre.
33 Ivi, 1906, prima domenica di gennaio.
34 APSMN (FN), Libro contiene …, 1837, 16 maggio.
35 Ivi, 1856, 20 aprile.
36 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti della Fabbriceria di Neirone. 1849. Anzi libro presentemente destinato per il reddito e spesa
della Fabbriceria, anni 1869-1870-1871.
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Fig. 2 Neirone, chiesa di San Maurizio: veduta dell’interno verso l’altare maggiore (foto R. Palmisani).
Secondo queste stesse modalità di gusto, già nel
1838, al fine di “rendere la chiesa più bella”, era
stato deciso di predisporre a tutte le finestre e
alla porta maggiore una serie di tendine, complete di fiocchi realizzati con “cordone di bambaccio” attaccati alle trappe di ferro37. Conferma
di come tale costume fosse ancora in uso a fine
secolo deriva dalla considerazione che quando,
nel 1892, in occasione della delibera di apposizione lungo il perimetro interno della chiesa di
uno zoccolo di marmo bardiglio dal momento
che “lo stabilimento in calce è ormai rovinato in
ogni sua parte”, il parroco propone di collocare
sullo zoccolo stesso anche “una striscia di ferro
coi relativi attacchi a ganci per fermarvi il
damasco”38.
Ma un intervento decorativo di grandi proporzioni, che cambia radicalmente l’immagine
interna della chiesa, viene deciso di lì a pochi
anni, nel 1895, contestualmente alla decisione
di procedere alla costruzione degli scanni lignei
del coro, realizzata per 935 lire, fornitura del
materiale esclusa, da Gio Batta Gardella di
Roccatagliata39.
L’ “ornato da farsi alla chiesa” interessa dapprima soltanto la grande volta – intervento eseguito per mano e su disegni originali, non conservati, del pittore Gio Batta Ghigliotti, al prezzo
di lire 1100, e dell’ornatista Filippo Termi – ma
a lavori iniziati si delibera anche di intervenire
sulle pareti e sugli altari e di decorare questi e le
lesene a finto marmo. Infatti – mentre risulta
anche una spesa di 189 lire per “indoratura di
frontone e cornice”40 – all’ornatista Termi, per
un onorario di 800 lire, viene commissionato
non solo “che orni tutto il volto della chiesa,
escluso quello del coro già ultimato” ma anche
che “tinga il cornicione a stucco, cantoria, cassa
dell’organo, altari e muri laterali, antiporte, le
lesene però e gli altari a marmo”41. Anche in
questo caso la fornitura di tutto il materiale
(impalcature, biacca, olio, vernice e calce) è a
carico della Fabbriceria.
Il finto marmo dell’ornatista Termi è destinato
tuttavia a restare in opera per soli vent’anni
circa, dal momento che nel 1913 su proposta
del parroco e dopo animata discussione dei fabbricieri si giunge alla determinazione di affidare allo stuccatore Antonio Meroni di Chiavari,
per il prezzo di lire tre al metro quadrato, l’incarico di “lucidare a stucco tutte le lesene ed
altre parti dei muri della chiesa”42. L’intervento
che così definito potrebbe sembrare di semplice
manutenzione e “restauro” risulta invece di totale rifacimento, poiché si specifica che la
Fabbriceria, oltre a “preparare i ponti, la calce,
l’arena”, dovrà “scrostare le lesene”. Nella stessa
seduta, sempre su proposta del parroco e dopo
37 APSMN (FN), Libro contiene …, 1838, 26 giugno.
38 Ivi, 1892, 2 ottobre. Lo zoccolo viene eseguito dal marmorario Giocondo Lucchesi, che fornisce anche un “tavolo in marmo”;
APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anno 1893, trimestri terzo e quarto.
39 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1895, 7 aprile.
40 APSMN (FN), Libro di cassa dal 1895 al 1974, 1895, primo semestre.
41 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1895, 7 luglio.
42 Ivi, 1913, 5 gennaio.
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simile animata discussione, i fabbricieri deliberano inoltre di “indorare tutta la chiesa eccezione fatta dei due altari del Santissimo Crocifisso
e di Sant’Antonio di Padova” e di affidare il
lavoro all’indoratore Agostino Castagnino di
Chiavari per la somma di cinquemilaseicento
lire. Si specifica che “l’indoratura deve essere
fatta a trateggi, di oro fino, a tutti gli stucchi, e
nel soffitto del Sancta Sanctorum e del corpo
della chiesa devono essere indorati tutti gli
sfondi degli attuali ornati”. L’indoratore deve
inoltre “completare e riparare gli stucchi guasti”.
Nel 1845 si decide di provvedere al restauro del
campanile “prima che venga l’autunnale stagione”43. Anche in questo caso tuttavia sembra che
non si sia dato seguito alcuno al proposito,
tanto che a distanza di cinque anni, nel 1850,
l’intervento, sia interno che esterno, viene giudicato più che mai urgente “perché più oltre trascurando tal ristoro reca danno alla chiesa coi
pezzi che spontaneamente cadono”44. Sulla base
della perizia dei lavori da eseguire redatta dal
capomastro Giuseppe Carbone viene allora
immediatamente indetta un’asta secondo il
metodo del minor offerente. Risulta aggiudicatario il capomastro genovese Gio Batta Fassoni
della parrocchia di San Vincenzo, che si offre di
eseguire il lavoro per 2010 lire genovesi contro
le 2295 preventivate e si impegna ad ultimarlo
entro un anno a far data dal 5 agosto, giorno
dell’asta e della contestuale consegna del cantiere45. Dal compenso, da erogarsi in tre rate (ad
esecuzione di un terzo dell’intervento, di due
terzi e del collaudo), verranno dedotti tutti
“quei lavori o corpi che la popolazione potrà
fare”46. Dal punto di vista esecutivo l’intervento
viene definito di “ristaurazione” e, oltre al dovu-
to impegno ad eseguirlo a regola d’arte, si stabilisce che “sarà perfettamente conservato l’ordine attuale del campanile meno che si voglia
diminuire qualche poco la membratura, ma che
non possa sformare l’ordine”47. I lavori, per i
quali si asporta sabbia dal vicino fiume, differentemente da quanto previsto si protraggono
dal 1851 al 1854 ed oltre e risultano concomitanti alla rifusione delle campane48. In particolare, nel 1855, la Fabbriceria constata che il
tratto di campanile che si eleva al di sopra del
tetto della chiesa risulta “scrostato e annerito” e
che “porta umidità nella chiesa piovendosi dal
capo a piedi” e decide pertanto di reperire i
fondi per far fronte alla ulteriore spesa49.
Nel 1884 la Fabbriceria delibera di “rinnovare la
croce nella camminata del campanile, rimovendo quella che vi è attualmente e che minaccia di
cadere con grave pericolo dei passanti nella sottostante strada non solo ma con evidente pericolo che sia rovinata la copertura del campanile
e della chiesa”50. Nonostante l’urgenza non è
chiaro se l’intervento sia stato eseguito subito o,
in caso affermativo, se si sia trattato di una semplice operazione di emergenza non risolutiva,
dal momento che ingenti spese per “ristoro alla
palla del campanile” e per “fattura di croce pel
campanile e cancello al battistero” risultano
effettuate dieci anni più tardi51.
Sappiamo inoltre che a metà Ottocento il campanile è già dotato da tempo di orologio, risultando un intervento di manutenzione pagato al
fabbro ferraio di Gattorna52. Lo stesso fabbro,
con spesa rilevante, verrà nuovamente contattato pochi anni dopo per la “aggiustatura dell’orologio”, ed in questo caso ne verrà effettuata
anche la “collaudazione” da parte dell’orologiaio
di Uscio53, finché nel 1865 si delibera che “tro-
43 APSMN (FN), Libro contiene …, 1845, 6 luglio.
44 Ivi, 1850, 7 luglio.
45 Ivi, 1850, 5 agosto.
46 Ibidem.
47 Ibidem.
48 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anni 1851-54. Per quanto interessa le campane cfr. A. ACORDON, Neirone. Note
sul patrimonio …, in questo volume.
49 APSMN (FN), Libro contiene …, 1855, 9 aprile.
50 Ivi, 1884, 14 luglio.
51 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anni 1894-1895.
52 Ivi, anni 1851-54.
53 Ivi, periodo finanziario da 1860, 31 marzo a 1861, 31 marzo.
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vandosi sul campanile un orologio vecchio, frusto ed irregolare per riclamo della popolazione
necessiterebbe cambiarlo in nuovo cioè vendere
per lire italiane cento il vecchio e comprare un
nuovo per lire ugualmente italiane trecentosettantacinque”54.
Nel corso dell’Ottocento la finitura in lastre
d’ardesia del tetto della chiesa è oggetto dapprima di una serie di interventi puntuali di manutenzione, quindi di un progressivo rifacimento
completo per parti: una falda, l’altra, il coro. Per
l’intervento di manutenzione del 1848 interessante le coperture di chiesa e sacrestia55 le ardesie necessarie, nella non rilevante quantità di
due cannelle, vengono acquistate a Moconesi56.
Spese per il tetto della chiesa risultano ancora
nel periodo 1851-5457 ed in particolare nel
185258. Altro intervento urgente, ma ancora
nell’ordine della semplice manutenzione puntuale, viene deliberato nel 1855, con l’acquisto
di tre cassette di chiappe d’ardesia per il tetto
“rovinato dalla pioggia”59. E di nuovo qualche
mese più tardi, la “riattazione del tetto della
chiesa” rientra fra le “deliberazioni urgentissime” da assumere60. Determinante per una risoluzione radicale del problema risulta l’annunciata visita dell’arcivescovo in vista della quale si
programma a breve scadenza una serie di interventi, fra i quali quello di “coprire l’altra metà
del tetto della chiesa”61. Conseguentemente, fra
l’anno finanziario 1855-56 ed il successivo
1856-57 si registrano acquisti di chiappe di
ardesia dal fornitore Michele Dondero ed altre
da Pian de Preti, mentre notevoli quantitativi di
calce allo stesso scopo vengono trasportati dai
mulattieri Rosasco di Gattorna e Pescetto di
Avegno e per conto del capo maestro muratore
Giovanni Seredi si provvede ad acquistare da
Angelo Gardella 26 lire di chiodi62. A distanza
di circa quindici anni, nel 1871, si decide infine
di completare l’intervento acquistando “le ardesie per coprire in nuovo il tetto del coro della
chiesa rovinato totalmente che spande acqua”63
e la fornitura proviene ancora dal “chiappaiolo
di Moconesi”64. Ma, nel corso dello stesso intervento, ci si rende conto che vanno deliberate
altre spese poiché risulta già necessario “coprire
altra parte dei tetti della chiesa, della casa parrocchiale e quello sopra la Sacristia”65. Agli atti
risultano allora le ingenti forniture di “ardesie
comprate da Salvatore Guarnieri e soci”66.
Tuttavia, la necessità di interventi alle coperture è continua, tanto che di nuovo, nel 1888,
“viene deliberato di riparare la Chiesa dall’acqua che vi penetra da diversi abbaini rotti tanto
in facciata come nel tetto”67 e nel 1907 la
Fabbriceria “propone anzitutto una riparazione
al tetto della chiesa” – sembra in questo caso
anche strutturale – “che va in alcuni punti
abbassandosi e caddero diversi abbaini”68.
Correlata all’intervento sulle coperture deliberato nel 1888, considerato il tipo di degrado
riscontrato, è senz’altro la decisione nell’aprile
di quello stesso anno di procedere al restauro
della facciata. Considerato lo stato in cui versano “i cornicioni, le imposte delle finestre, l’im-
54 APSMN (FN), Libro contiene …, 1865, 8 gennaio.
55 APSMN (FN), Libro contiene …, 1848, 1 ottobre.
56 APSMN (FN), Rendiconto attivo e passivo della Fabbriceria di Neirone dall’anno 1848, 2 aprile fino all’anno 1839, 9 marzo, sta in
Libro contiene …, 1848, 19 novembre.
57 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, periodo finanziario 1851-1854.
58 APSMN (FN), Libro contiene …, 1852, 28 aprile; ivi, 1852, 7 luglio.
59 Ivi, 1855, 7 gennaio.
60 Ivi, 1855, 1 aprile; ivi, 1855, 9 aprile.
61 APSMN (FN), Libro contiene …, 1856, 20 aprile. La visita dell’arcivescovo avviene effettivamente fra il 1857 ed il 1858, come
risulta in APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anno finanziario 1857, 30 marzo, a 1858, 30 marzo, in cui si legge: “Per il
verbale della sacra visita pastorale con l’autenticazione delle varie reliquie lire 9”.
62 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anni 1855-1856 e 1856-1857.
63 APSMN (FN), Libro contiene …, 1871, 1 ottobre.
64 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anni 1871-1875.
65 APSMN (FN), Libro contiene …, 1873, 6 luglio.
66 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anno 1876.
67 APSMN (FN), Libro contiene …, 1888, 1 gennaio.
68 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1907, 1a domenica di ottobre.
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pianto della croce, gli stucchi”, la Fabbriceria è
orientata ad un intervento di tipo radicale, valutando che “la riparazione deliberata in gennaio
sarebbe troppo poca in relazione alle spese di
pontatura” e dà quindi incarico al “Sig.
Cavagnaro Giuseppe della parrocchia di Verzi”
di redigere un vero e proprio progetto69. La
redazione di detto progetto – per il quale i
documenti segnalano anche l’elaborazione di un
disegno “di ordine dorico coll’ovolo nei capitelli, e ovolo e dentello nel cornicione”, purtroppo
non conservato fra gli atti – impegna tre mesi
circa e prevede una serie di importanti modifiche: “alzamento della facciata di circa centimetri 80, lisene portate in ordine architettonico coi
relativi cornicioni, alzamento di due cornicioni,
assottigliamento delle due lisene nella parte
superiore, due vasi sui lati del cornicione inferiore, ristoro generale, rinzaffatura tirata a stucco lustrato”70. La somma richiesta per eseguire il
lavoro è di lire 1200 riducibili a 1050, “ultima
richiesta”, si dice, e l’inciso fa pensare ad una
serrata trattativa sul prezzo e – forse – alla redazione di progetti alternativi. Lo sconto è giudicato effettuabile qualora la Fabbriceria, che
approva a voti unanimi, “provveda tutto il
necessario materiale, cioè legnami, corda,
marmo, stucco, etc.”. In corso d’opera, a seguito
di una consistente donazione, si decide di
“sostituire le invetriate presenti” – forse quella
suddivisa in tre esistente sopra la porta citata
nel corso della visita apostolica dell’arcivescovo
del 1750 – “con altra rottonda”71 che viene
“provvista
dal
Signor
Savio
Pietro
d’Alessandria”72. Nel 1895 la Fabbriceria propone quindi di inserire due chiavi all’interno della
muratura della facciata “per impedire le crepature che in essa si manifestano”73.
Per quanto riguarda gli interni della chiesa,
oltre ai già citati interventi di “imbiancatura”
deliberati a partire dal 1837 e di successiva
decorazione, nella prima metà dello stesso secolo si registra la perentoria ma non eseguita delibera del 1847 di “arrichire d’un pavimento cosidetto alla veneziana, come che di maggior durata, di bellezza non comune e di minor dispendio” da eseguirsi prima della seconda domenica
di luglio del 1848 in cui ricorrerà il centenario
della donazione della reliquia di San Vittorio74
posta nella cappella del Rosario. Nonostante le
grandiose intenzioni, si passa in realtà alla ben
più modesta decisione dello stesso luglio 1848,
a meno di due settimane dai festeggiamenti, di
ripiegare invece soltanto su “alcuni ristori nei
luoghi più guasti”75, finché nel 1855 viene proposto di realizzare un pavimento in marmo in
luogo di “un altro d’ardesie (che) si consumerebbe ben presto”76. Per istruire le fasi operative
dell’intervento viene istituita una apposita commissione che dovrà anche produrre un disegno
– non conservato – del pavimento in base al
quale il Consiglio di Fabbriceria congiuntamente alla popolazione possa effettuare una
scelta77. Per la realizzazione della nuova opera
viene giudicata necessaria la considerevole cifra
di 1200 lire nuove, da pagarsi in sei rate in sei
anni. L’intervento è dunque particolarmente
oneroso e ancora nel 1863-64, a distanza in
realtà di quasi dieci anni, risulta che i parrocchiani delle diverse comunità afferenti si siano
tassati78. Condotti dal marmoraio Benedetto
Copello, i lavori si protraggono del resto più del
previsto, fino a tutto il marzo 1866, quando per la
“collaudazione del pavimento” viene chiamato
“maestro Leopoldo”79, persona di fiducia forse
coincidente con quello stesso “muratore Leopoldo
69 APSMN (FN), Libro contiene …, 1888, 1 aprile.
70 Ivi, 1888, 1 luglio.
71 Ivi, 1888, 7 ottobre.
72 Ivi, 1890, 5 gennaio.
73 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1895, 1a domenica di ottobre.
74 APSMN (FN), Libro contiene …, 1847, 3 ottobre.
75 Ivi, 1848, 2 luglio.
76 Ivi, 1855, 9 aprile.
77 Ibidem.
78 APSMN (FN), Libro delle fondazioni e crediti …, anni 1863-1864. Vengono riportati i nomi della Borgata Banchella; Borgate
Borgo, Costa, Caroggio, Bagli e Rivalli; i quartieri Rosasco e Cerisola; le località Carpeneto, Castarina, Cerriate.
79 Ivi, spese 1865 a tutto marzo 1866.
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Sartorio” al quale pochi anni dopo vengono pagate “sedici giornate impiegate nei ristori della chiesa e consumo di penelli e colori”80.
Ulteriori spese per marmi vengono effettuate
fra il 1861 ed il 1862, in cui per la consistente
cifra di centoventicique lire si procede al pagamento del “fabbricante in marmo per il scalino
in marmo della porta maggiore della chiesa,
vasca dell’acqua benedetta, mensa ossia tavoletta in Sancta Sanctorum non compreso il piedistallo e per i marmi della costruzione del fonte
battesimale”81.
Fra i dati curiosi occorre segnalare che nel breve
spazio di quindici anni, fra il 1855 ed il 1870,
nella muratura perimetrale della chiesa viene
aperta e chiusa una nuova porta, detta “di
Carpeneto” probabilmente ad indicare il versante geografico di affaccio, quello sud, della
parete muraria su cui si trovava82. Quale spaccato di realtà sociale e di costume, risulta interessante a questo proposito leggere le motivazioni
che inducono a deliberarne la chiusura: la porta
viene giudicata “di gran danno della chiesa pel
consumo della cera, per essere di grande disturbo per i Reverendi Predicatori tanto quaresimalisti quanto ordinari pel motivo che la popolazione in occasione delle Sacre Funzioni suole
appostarsi sulla porta medesima e formare d’antemurale, come è d’esperienza, perché il popolo
più non possa accedere in chiesa, che infine il
maggiore disturbo meno minore sarebbe quello
che i male viventi in questi tempi di pocha religione, passeggiando per la piazza della chiesa di
fronte al pulpito colla porta aperta sarebbe per
tutto ciò di gravissimo danno.” In sostituzione
di detta porta si decide di “aprirne una nuova
nel Battistero vecchio sendovi già la imposta
intenzione degl’antenati di questa parrocchia”.
Nel 1876, a seguito di una donazione espressamente dedicata allo scopo, si inizia a ragionare
sull’ipotesi di “far costrurre un organo pella
Chiesa cui tanto ne abbisogna per eseguire a
Gloria di Dio le Sacre Funzioni”83. Dal punto di
vista edilizio l’innovazione comporta la costruzione, in controfacciata, di una cantoria. A questo scopo tre anni più tardi si decide di “vendere i gioielli, anelli, collane d’oro offerti alla
Madonna del Rosario per far costruire l’orchestra e si fa abbattere il pino di competenza della
mensa parrocchiale per usarne il legname”84 e,
nel 1881, avutane la licenza dal Monsignor
Vicario, si procede effettivamente alla vendita85.
Chiamati “periti nell’arte dei falegnami e intagliatori” si decide che per l’insieme verrà scelto
un “disegno ricco ed elegante”86 ed intanto si
delibera la costruzione della “scala che dal piano
della chiesa mette sulla cantoria”87.
Nel 1899 viene decisa la realizzazione di un
nuovo altare intitolato alla Madonna di
Lourdes, benedetto già nel dicembre dello stesso anno88, e nel 1909, con il concorso finanziario dello stesso arciprete e della Fabbriceria, si
procede alla costruzione dell’altare della
Madonna del Rosario89.
Nel 1901 si stanziano i fondi per “mettere alle
tre porte della chiesa delle liste di ferro per fortificarle e renderle sicure contro gli attentati dei
ladri”90.
Per quanto riguarda le vetrate della chiesa, oltre
ad un intervento di manutenzione eseguito nel
184891, nel 1913 e nel 1958 si registrano due
innovazioni nell’area del coro92. Nel primo caso,
contestuale al rifacimento degli stucchi lucidi
interni e alla doratura degli ornati, la
80 Ivi, anni 1869, 1870, 1871.
81 Ivi, anno finanziario 1861, 30 marzo, a 1862, 30 marzo.
82 Ivi, anno finanziario 1855-1856; ivi, anno finanziario 1856-1857; APSMN (FN), Libro contiene …, 1870, 3 aprile.
83 Ivi, 1876, 2 gennaio. Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio …, in questo volume.
84 APSMN (FN), Libro contiene …, 1879, prima domenica di gennaio.
85 Ivi, 1881, 2 ottobre. Per la realizzazione della cantoria vengono inoltre utilizzate le 549 lire ricevute dagli eredi di Felice De Barbieri.
86 Ivi, 1882, 2 luglio.
87 Ivi, 1883, 1 aprile.
88 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1899, 1 ottobre; ACC, fasc. 82.
89 APSMN (FN), Libro di cassa dal 1895 al 1974, anno 1909.
90 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1901, 6 ottobre.
91 APSMN (FN), Libro contiene …, 1848, 1 ottobre.
92 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1913, 6 luglio; ivi, 1958, 16 gennaio.
- 186 -
Fabbriceria accetta la proposta dell’arciprete
che “si offre di fare la spesa necessaria sia di
telaio di ferro sia di vetri incisi a colori per il
cambiamento delle due finestre del coro cambiandone anche la forma, purchè la fabbriceria
proveda per il colocamento a posto”. Nel secondo caso, nella ricorrenza del centenario, si decide di far eseguire dal professor Raffaello
Albertella delle vetrate artistiche per i due finestroni del coro.
Dalla metà dell’Ottocento si perviene inoltre ad
una definizione degli spazi esterni di pertinenza della chiesa. Se i muri di cinta del piazzale
risalgono al periodo 1851-1852, nel 1865 si
delibera di intervenire sulle scale della piazza,
decidendo di “comprare alcuni scalini nuovi per
ridurle in pristinum”, nonché sugli stessi muri,
che risultano da “ristorare con ardesie e calce”93.
Circa quindici anni dopo, nel 1881, la
Fabbriceria delibera quindi l’ampliamento degli
spazi esterni di pertinenza, prevedendo “la dilatazione dell’attuale piazza della chiesa dal lato
orientale cominciando dal portico della villa e
andando verso la canonica fino al beudo e di là
dirizzandosi verso sud al cimitero facendo la
nuova strada in direzione della porta del cimite-
ro e ristorando i sedili, scale e muricciuoli che
resterebbero ancora al proprio posto”94. Nel
1904, in previsione di una solenne celebrazione
del sedicesimo centenario di San Maurizio, si
procede al “riattamento” della piazza95, che vede,
nel corso dell’anno successivo, anche la realizzazione di “due pilastrini in pietra ai lati della
nuova scala dinanzi alla facciata della chiesa”
pensati “a compimento di essa”96. I muri saranno poi ancora soggetti a riparazione circa sessanta anni dopo, nel 1914, mentre una seconda
serie di opere di manutenzione verrà realizzata
nel 1933.
Fra gli interventi di rilievo effettuati alla chiesa
nel corso del Novecento, oltre a quelli già citati
relativi alle lesene interne ed alla doratura degli
stucchi, va segnalata, nel 1928, l’introduzione
dell’impianto di luce elettrica97.
Recentemente la chiesa ha visto un intervento
manutentivo generale ai prospetti laterali, alle
coperture ed al campanile, mentre attualmente
è la facciata, dopo gli interventi del 1770 e quelli del 1888, ad essere interessata da un restauro,
intervento ammesso al contributo finanziario
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
93 APSMN (FN), Libro contiene …, 1865, 1 ottobre.
94 Ivi, 1881, 16 gennaio.
95 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1904, 3 gennaio.
96 Ivi, 1905, seconda domenica di luglio.
97 Ivi, 1928, 1 aprile.
- 187 -
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NEIRONE
NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO
Angela Acordon
Fig.1 Anonimo lapicida del secolo XIV, lastra in ardesia raffigurante l’Agnus Dei.
Se si eccettua la lastra in ardesia recante un
rilievo con l’immagine dell’Agnus Dei (fig. 1),
murata nella parete esterna della casa canonica
e assegnabile a un ignoto lapicida del XIV secolo, non resta altra testimonianza delle opere già
appartenute all’antica chiesa di San Maurizio di
Neirone, sostituita dopo il 1658 dall’edificio
attuale1. Le notizie di varie spese restituite dallo
spoglio dell’archivio parrocchiale relativamente
all’acquisto di un ambone2, di un damasco per
fare un paramento per l’altare del Rosario3, di
legno di noce per costruire le panche4, nonché
l’uscita di 9,7 lire “per fare accomodare da Batta
Bacigalupo l’ostensorio vecchio”5 e di lire 32,2
“per fattura della campana”6, non trovano alcuna rispondenza nelle opere ancora conservate in
chiesa.
Qualche dubbio potrebbe sorgere per “l’ancona
della Concettione” menzionata in una nota di
spesa dell’11 novembre 16417, ma la tela attualmente collocata sulla parete di fondo del coro,
raffigurante per l’appunto l’Immacolata
Concezione fra i Santi Lucia, Sebastiano,
Maurizio e Pietro martire di Verona (fig. 2), quest’ultimo riconoscibile per l’abito domenicano e
per il largo coltello conficcato in testa, è certa-
1 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ed interventi di restauro della Chiesa di San Maurizio, in questo volume.
2 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro. Libro della Santiss.a Vergine del Rosario, 1614, 23 gennaio.
3 Ivi, 1616, 29 marzo, 29 aprile.
4 APSMN (FN), Libro delle castagne l’anno 1638, 1639, 29 dicembre.
5 Ivi, 1653.
6 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro…, 1685, 18 ottobre. Il 2 febbraio 1693 è segnalata una spesa di 2 lire “per legname delle campane”.
7 L’importo di lire 2 fa pensare che si sia trattato di un piccolo intervento, cfr. APSMN (FN), Libro delle castagne… .
- 189 -
Fig. 2 Anonimo pittore ligure della seconda metà del
secolo XVII, Immacolata Concezione fra i Santi Lucia,
Sebastiano, Maurizio e Pietro martire (particolare).
mente opera più tarda, che, soprattutto nella
magra stesura pittorica e nel movimento ondulato del panneggio, manifesta la recezione a
livello popolare del linguaggio dei maestri
genovesi della seconda metà del Seicento, in
primis di Domenico Piola.
Appartiene invece all’inizio del XVII secolo la
pala raffigurante la Madonna col Bambino fra i
Santi Giorgio, Bernardo, Giovanni Battista e
Bonaventura sullo sfondo di una città ineccepibilmente individuata come Genova dalla
Lanterna8 (fig. 3). Il fatto che nel piccolo e
squisito brano paesistico non vi sia alcun cenno
alla cinta muraria decretata dal Senato nel 1626
e condotta a termine nel 1633 fa pensare che il
dipinto sia stato eseguito in un periodo precedente a meno che il suo autore non fosse disinteressato alla fedele riproduzione della realtà.
Tuttavia, stilisticamente, l’opera trova collocazione proprio nella cultura pittorica genovese di
tendenza naturalistica, che ha il suo momento
di più felice sviluppo pressappoco dall’inizio del
terzo alla fine del quarto decennio del XVII
secolo. Il suo autore risente infatti dello stile di
Giovanni Carlone, Giulio Benso, Domenico
Fiasella, Giovanni Andrea De Ferrari e Luciano
Borzone, artisti che svolsero un ruolo guida in
quel particolare momento della pittura genovese seicentesca, ma la tela risulta di difficile
attribuzione per il confluire in essa di elementi
tipici del linguaggio di tutti i pittori sopracitati.
Nella visita pastorale del 5 luglio 1750, il
dipinto si trova sull’altare di San Bernardo9 e
viene descritto come “Icona representans dictum Sanctum et divos Jo Baptam, et
Bonaventuram”, omettendo la menzione di San
Giorgio. Ai fini della datazione dell’opera è
interessante notare che, ad eccezione di
Bonaventura, riconoscibile per l’abito francescano ma stranamente effigiato con l’aspersorio
in mano10, i personaggi presenti nella tela siano
i santi protettori di Genova e che la Madonna,
elevata a Regina della città nel 1637, non venga
rappresentata con gli attributi della corona e
dello scettro, con i quali gli artisti ricordavano
nelle loro opere tale evento. Ciò induce a ipotizzare un’esecuzione della tela certamente
8 Il dipinto, scomparso dalla chiesa dopo il 1977 in circostanze poco chiare e mai denunciate, è stato recentemente presentato a un’asta veneziana della Semenzato (Importanti dipinti antichi. Semenzato Casa d’Aste, 16 aprile 2000) e segnalato da chi scrive ai Carabinieri
del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale per il suo recupero.
9 ACC, fasc. 82. L’altare di San Bernardo è stato tristemente sostituito dalla grotta della Madonna della Guardia nel 1899, cfr. più
avanti nel testo e C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
10 L’aspersorio non appartiene infatti agli attributi di San Bonaventura, ma il fatto che il personaggio effigiato sia identificato con tale
santo in un’antica visita pastorale avvalora, in assenza di proposte più convincenti, tale ipotesi.
- 190 -
Fig. 3 Anonimo pittore ligure della prima metà del XVII
secolo, Madonna col Bambino fra i Santi Giorgio, Bernardo,
Giovanni Battista e Bonaventura.
prima del 1637, ma la sua datazione può essere
ulteriomente precisata. La presenza di San
Bernardo consente infatti di proporre un sicuro
post quem per la realizzazione dell’opera nel
1625, anno in cui il monaco venne assunto fra i
santi patroni della città di Genova. L’evento
doveva celebrare la fine dell’assedio dei Savoia,
avvenuto alla vigilia della festa del santo, celebrata il 20 agosto. Se a questa considerazione
aggiungiamo quanto già detto sull’erezione
delle mura, non pare troppo azzardato avanzare
una datazione fra il 1625 e il 1627, momento in
cui la costruzione della cinta difensiva subì
un’interruzione durata fino al 1629 e spostare
eventualmente l’ante quem non oltre il 1633,
quando la grande opera fu conclusa.
L’analisi della visita pastorale di Mons.
Saporiti11 e dell’inventario del 7 maggio 175112
delinea la prima metà del XVIII secolo come un
momento di grande fervore innovativo particolarmente importante per la costituzione del
Fig. 4 Francesco Campora, Gesù Bambino appare a
Sant’Antonio.
patrimonio artistico della chiesa di San
Maurizio. In tali documenti sono infatti citate
le opere più significative, che rappresentano
ancor oggi il vanto dell’Arcipretura e la cui esecuzione può essere fatta risalire, anche per
motivi stilistici, ai primi cinquant’anni del
Settecento.
Grazie a una lapide13 murata nella parete destra
della prima cappella a sinistra, intitolata a
Sant’Antonio, è possibile riferire con precisione
al 1719 l’erezione dell’altare marmoreo14 e, con
poco margine di errore, l’esecuzione della tela
(fig. 4) che lo adorna, entrambi voluti dal nobile Paolo Bastia. Sul basamento della colonna a
destra è ben visibile la scritta “CAMPORA”
seguita dal numero “17”, prime due cifre dell’ormai non più interamente leggibile data15.
Opera dunque giovanile di Francesco Campora
11 ACC, fasc. 82.
12 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro… .
13 La lapide è stata trascritta da Angelo e Marcello Remondini (1890, p. 277).
14 Sulla costruzione della cappella, cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
15 Il rinvenimento della pala, resa nota su mia segnalazione da Daniele Sanguineti (in Il Museo..., 2003, pp. 46-47, scheda n. 19), spetta a Lauro Magnani, che assieme ad altri giovani storici dell’arte curò nel 1977 la catalogazione ministeriale della chiesa su incarico dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Liguria (scheda OA n. 07/00011448).
- 191 -
Fig. 5 Felice Solaro?, Altare maggiore.
(Genova 1693–1753) raffigurante Gesù
Bambino che appare a Sant’Antonio, la tela, pur
nel permanere di elementi e tratti tipologici
desunti dal suo primo maestro Giuseppe
Palmieri, rivela la successiva e più importante
formazione dell’artista nell’alveo dell’ordinato e
composto procedere di Domenico Parodi, mettendo tuttavia già in luce, nel risentito e macchiato luminismo, la non trascurabile esperienza condotta a Napoli nell’ambito della bottega
di Francesco Solimena16.
Una lapide murata nella parte retrostante attesta che l’altar maggiore (fig. 5) fu consacrato il
10 giugno 1743 al tempo dell’Arciprete Paolo
Gardella
e
dei
Massari
Benedetto
Schiappacasse e Bernardo Pasturino17.
Realizzato in marmi vari e di forme eleganti e
armoniose, ornato al centro del paliotto da un
medaglione marmoreo recante l’immagine del
santo titolare Maurizio, l’altare presenta caratteristiche alquanto simili a quelle di San Rocco
di Ognio, opera documentata del marmoraro
genovese Felice Solaro18, probabile autore, poco
dopo il 1750, anche dell’altar maggiore di San
Lorenzo di Roccatagliata19, alla descrizione dei
quali si rimanda per una più ampia trattazione
di questa interessante personalità attiva almeno
fra gli anni quaranta e gli anni novanta del
XVIII secolo e informata delle soluzioni del più
noto Francesco Schiaffino e della sua bottega.
Attestato in chiesa almeno dal 29 marzo 161620,
il culto verso la Madonna del Rosario condusse
16 Su Francesco Campora, cfr. D. SANGUINETI 1997, II, pp. 279-306 e ID., in E. GAVAZZA, L. MAGNANI 2000, pp. 423-424.
17 La lapide è stata trascritta da Angelo e Marcello Remondini (1890, p. 277).
18 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
19 Cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
20 Ricordo che in questa data è registrata la spesa di lire 29,18 per l’acquisto di un damasco per fare un paramento per l’altare di Nostra
Signora del Rosario, cfr. APSMN (FN), 1602 adì primo genaro… .
- 192 -
alla commissione della splendida statua lignea
(fig. 6), menzionata per la prima volta nella visita pastorale del 7 luglio 175021 e fortunatamente ancora conservata nella nicchia dell’omonimo altare. Caratterizzata da un’eleganza leziosa
e da un’interpretazione timida e discreta dei
sentimenti, l’opera ci è pervenuta miracolosamente illesa da precedenti interventi di restauro, fatto che consente un pieno e incondizionato apprezzamento della sua squisita fattura stilistica22. L’evidente dipendenza dai modi di
Anton Maria Maragliano e i puntuali confronti
possibili con altre opere del medesimo autore
invitano ad attribuire la statua all’ancor poco
noto Giovanni Maragliano (1701-1777), nipote del famoso scultore e fortunato erede della
sua bottega. Esecutore talvolta in sua vece di
opere commissionate allo zio, Giovanni ne
seguì le orme utilizzandone spesso i modelli,
ma il suo stile si distingue per una grazia delicata e raffinatissima, che conferisce alle sue
opere un’impronta assolutamente personale e
unica nel panorama della scultura lignea ligure
della metà del XVIII secolo. Il raffronto con la
Madonna Immacolata dell’Oratorio di Santa
Maria della Foce di Cassana e con quella della
chiesa di San Martino a Velva, opera estrema di
Giovanni terminata infatti dai suoi collaboratori tra 1777 e 177823, palesa stringenti affinità
nella trattazione dei mossi panneggi, nelle mani
dalle dita affilate e allungatissime, nei volti conclusi da un mento terminante con un piccolo
rigonfiamento e animati da occhi minuti e
appena dischiusi.
La statua è circondata dai canonici quindici
Misteri del Rosario, pagati 150 lire nel 18911892 al signor Antola24, forse da identificare col
non altrimenti noto pittore Antolo, che nel
1859 eseguì un gonfalone per la chiesa di San
Fig. 6 Giovanni Maragliano, Madonna del Rosario.
Marco d’Urri25, ma il confronto stilistico è reso
impossibile dalla perdita della suddetta opera.
Sotto la nuova serie di Misteri permangono in
larga parte le scenette originali, dipinte ad
affresco da un ignoto pittore di estrazione
popolare in un momento certamente coevo
all’esecuzione della statua.
L’11 novembre 1751, quando ne venne redatto
l’inventario, la parrocchia di San Maurizio si era
dunque dotata delle sue opere più prestigiose
rispondendo con fervore a un’esigenza di rinnovamento, inquadrabile nella prima metà del
21 ACC, fasc. 82.
22 Un intervento sull’opera, tuttavia molto discreto e rispettoso, avvenne nel 1895-96 ad opera di Giovanni Battista Ghigliotti, cfr.
APSMN (FN), Libro senza titolo (Libro di cassa dal 1880 al 1918, di seguito citato come Libro di cassa dal 1880). Il pittore, che doveva avere specifiche attitudini in merito, come dimostra l’intervento su una statua lignea della chiesa di Santa Maria delle Nasche in
Valle Sturla (cfr. M. A. CAMPANELLA 1980, pp. 54-55) sarà poco dopo chiamato a eseguire anche il restauro di una tela non specificata, cfr. Libro di cassa dal 1895 al 1974, 1897-1898. Fortemente aggredita dall’umidità e da insetti xilofagi la Madonna del Rosario è
stata inclusa nel programma ministeriale di restauro per l’anno 2003 (Perizia n. 11/2003; laboratorio di restauro EsseDi, Pietrasanta).
23 Su queste opere, cfr. D. SANGUINETI (1998 c, pp. 63-67), primo studioso a tentare una ricostruzione del percorso di Giovanni
Maragliano.
24 APSMN (FN), Libro dei conti della Fabbriceria di Neirone 1849.
25 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
- 193 -
Fig. 7 Anonimo scultore genovese della prima metà del
XVIII secolo, Cristo crocifisso.
Settecento, alla quale non è attualmente possibile dare spiegazione. Oltre alle opere fin qui
analizzate, il documento segnala infatti l’esistenza di una notevole copia di paramenti e
suppellettili liturgiche, di una statuetta in legno
raffigurante San Marcellino, di tre quadri ovali
rappresentanti rispettivamente Santa Caterina
da Genova, San Luigi Gonzaga e San Giovanni
Nepomuceno, di vari baldacchini per le processioni e di un sopracielo per l’altar maggiore,
tutte opere non pervenuteci26.
Si è invece probabilmente conservato il “crocifisso all’altar maggiore” (fig. 7), ma non la sua
croce, sostituita in uno dei vari restauri ai quali
l’oggetto fu sottoposto nel corso del tempo e il
più importante dei quali sembra essere stato
quello, effettuato nel 1894-1895, che interessò
anche la scultura27. La patina moderna conferi-
ta al Crocifisso dalla ridipintura e da una parziale rigessatura impedisce l’analisi di quanto resta
del sottostante originale, ma la struttura
morfologica e l’accuratezza nella resa dei particolari, soprattutto del sottile profilo e dei
capelli attentamente indagati, sostanziano l’ipotesi cronologica di una realizzazione dell’opera nei primi decenni del XVIII secolo.
Di fattura alquanto recente è invece il Crocifisso
in gesso policromo ubicato sull’omonimo altare, il terzo sulla destra, che non può essere pertanto identificato con quello citato nella medesima collocazione negli inventari del 1751 e del
20 novembre 176828.
Fra le opere di suppellettile ecclesiastica elencate nell’inventario del 175129 si ritrovano un
“turribile e navetta d’ottone”, ossia un turibolo
con la sua navicella, entrambi non più citati
nell’inventario del 1768, che peraltro menziona
fra i beni della chiesa “un terribile d’argento
fino con sua navicella e cucchiaio ed aspersorio”30. La decisione di sostituire il vecchio turibolo e la vecchia navicella in ottone con i due
oggetti realizzati nel più pregiato argento, per
di più definito “fino”, ricade dunque nelle
intenzioni di svecchiamento e impreziosimento del proprio patrimonio manifestate dalla
Fabbriceria nella prima metà del XVIII secolo.
La presenza del marchio “Torretta”, inequivocabile attestazione dell’esecuzione da parte di
un argentiere genovese, nonché per così dire
“garanzia di qualità”, seguito dalla data 1762,
non lascia dubbi sul riferimento della navicella
(fig. 8) e del turibolo (fig. 9) al dato inventariale del 1768. Realizzati con una notevole perizia
tecnica, riscontrabile nella finezza del modellato, nella tipologia e nell’elegante decorazione,
costituita, secondo il gusto settecentesco, dal
morbido accartocciarsi di viluppi fogliacei, la
navicella e il turibolo si inseriscono a pieno
titolo nella più alta produzione genovese di
26 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro... .
27 APSMN (FN), Libro dei conti… . L’intervento del 1894-1895 venne a costare 25 lire. La deliberazione di sostituire la croce risale al
12 giugno 1837 (cfr. Libro contiene le Deliberazioni della Fabbriceria di S. Maurizio di Neirone incominciato l’anno 1836), ma l’operazione ebbe corso solo il 21 maggio 1848, quando il falegname Luigi Schiappacasse di Francesco venne pagato 60 lire comprensive tuttavia anche di altri lavori, cfr. Rendiconto Attivo, e Passivo della Fabbriceria di Neirone dall’anno 1848, 2 aprile fino all’anno 1839, 9 marzo.
28 APSMN (FN), 1602 adì primo genaro… .
29 Ibidem.
30 Ibidem.
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Fig. 8 Anonimo argentiere genovese, navicella, Torretta
1762.
Fig. 9 Anonimo argentiere genovese, turibolo, Torretta
1762.
suppellettile ecclesiastica31.
Nel corso del XIX secolo la Fabbriceria concentra la sua attenzione soprattutto sull’edificio32 non tralasciando tuttavia alcuni acquisti
importanti, come l’apparato dell’altar maggiore, realizzato fra il 1836 e il 183833 e solo in
minima parte conservato.
Si incomincia inoltre a prendere in considerazione l’opportunità di far rifondere le “tre campane rotte stanti sul campanile”34, la cui realizzazione avverrà tuttavia più avanti. Dall’analisi
del Libro dei Conti risulta infatti che le campane vennero fuse sul posto fra il 1851 e il 1854
come si evince dalle spese per la fattura del
forno e dal trasporto del maschio per la formazione degli strumenti da Recco a Neirone. La
questione non si chiude lì e nella riunione della
Fabbriceria del 28 settembre 185235 viene espo-
sta dettagliatamente la lunga vicenda della
rifusione delle tre campane rotte da parte dei
“signori ora fu Gio Batta e Giuseppe fratelli
Picasso fonditori di Avegno”, che si erano
impegnati a rifonderle gratuitamente qualora
non fossero state eseguite a regola d’arte.
Essendosi la circostanza presentata, i
Fabbricieri non saldarono a Giuseppe Picasso
il conto delle campane “perché non concertano
e non sono regolari essendo disuguale la campana maggiore nello spessore di un police, e
più; che offritosi il Fondatore rifonderle quando lo voglia la popolazione e che essendosi
accettata l’offerta dalla Fabbricieria si deliberò
verbalmente dal Consiglio suddetto di rifonderle unitamente alla quarta per assicurarsi di
un più regolare concerto, mediante però la corresponsione al Fondatore di lire nuove ottanta
31 Al fine di impedirne l’illecita sottrazione, la navicella e il turibolo, come gli altri oggetti di suppellettile ecclesiastica, sono stati trasferiti in un luogo più sicuro.
32 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
33 APSMN (FN), Libro contiene..., 1836, 31 luglio e 1838, 6 maggio.
34 Ivi, 1845, 6 luglio.
35 APSMN (FN), Libro contiene… .
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per la rifondita di una quarta campana, che non
era stato obbligato”36. Il concerto attuale, intonato in mi bemolle, è composto da quattro
campane di epoca diversa. La terza, la più antica e in sol, risulta essere una fusione di
“Francesco Picasso F.” del 186637; la seconda e la
quarta, in fa e in la bemolle, sono opera di un
altro Francesco Picasso e recano la data 1893; la
campana maggiore, in mi bemolle e ultima per
realizzazione, risale al 1917 ed è nuovamente
firmata da Francesco Picasso di Recco, mentre
alla stessa data i documenti d’archivio riportano
pagamenti a Enrico Picasso38.
Fra gli altri lavori eseguiti nel corso del XIX
secolo è opportuno segnalare l’acquisto dei perduti paliotti dell’altar maggiore e di San
Vittorio, la più importante reliquia dal 1748
conservata in chiesa, realizzati per la parte
lignea dall’indoratore Parodi e per il decoro tessile dal ricamatore Francesco Podestà39.
Alla data 1877 il Libro dei conti segnala invece
una spesa di 41,40 lire per il pulpito, credo da
riconoscere in quello ancora presente in chiesa,
e di 1,76 lire per il “ritiro del Gonfalone da
Genova”, quasi certamente da identificare con
quello raffigurante da un lato San Maurizio e
dall’altro la Madonna del Rosario e San
Domenico, eseguito a olio su tela dal pittore
Giovanni Battista Panario, già attivo assieme al
padre Santo per la chiesa di Ognio40. A giudicare dalla quietanza conservata nell’archivio parrocchiale di San Maurizio lo stendardo fu
donato alla chiesa da Teresa Gardella, che il 16
maggio 1877 consegnò all’artista 120 franchi41.
A Giovanni Battista Panario, celebrato come il
padre per l’icastica purezza delle sue opere di
tematica sacra e con sfondo votivo, come quadretti da devozione o appunto stendardi, si
rivolge poco dopo anche la Confraternita del
Santissimo Rosario per l’esecuzione di un gonfalone a due facce rappresentante sul recto la
Madonna del Rosario e sul verso un memento
mori simboleggiato da uno scheletro, che incede
in un cimitero con una falce. Per l’opera, perduta e il cui acquisto fu deliberato il 20 gennaio
188142, Panario ricevette un acconto di 20 franchi, come risulta da una ricevuta del 1° febbraio
188143 e ulteriori 60 lire a saldo44.
Inizia nel 186345 la lunga questione relativa
all’organo e alla cantoria. Il 4 gennaio di quell’anno “si offre occasione” di comprare “uno
strumento di 14 registri in buonissimo stato”, la
popolazione spinge a fare un buon contratto e la
Fabbriceria accetta che alcuni vadano a vederlo
e, se è in buone condizioni, lo comprino.
L’affare non dovette concludersi se il 2 gennaio
187646 il signor Andrea Carlo Dondero promette un dono pecuniario alla Fabbriceria obbligandola però a far costruire l’organo entro due
anni. Anche quest’occasione non sembra esser
stata colta se nel 1879 si decide di vendere i
gioielli e gli ori offerti alla Madonna del
Rosario per far costruire l’orchestra e di far
abbattere il pino parrocchiale per usarne il
legname47 e l’11 ottobre del 1880 la Fabbriceria
propone la nomina di cinque Fabbricieri fra gli
emigrati in America al fine di procurare offerte
per fare l’organo e per vari lavori d’ornamento
36 Ibidem.
37 La sigla “F.” distingueva due campanari omonimi. Ringrazio Giorgio Costa per la comunicazione e per i dati sulle campane attuali.
38 APSMN (FN), Libro dei conti…, 1917, 2°-3° trimestre; 1918, 2°-3° trimestre, cfr. APSMN (FN), Bilanci consuntivi della Fabbriceria
di S. Maurizio di Neirone dall’anno 1913, 1918, 2° semestre. I documenti dell’archivio riportano parecchie altre volte notizie su fusioni
di campane non corrispondenti a quelle attuali, ma non ritengo utile riferirle in questa sede.
39 APSMN (FN), Libro dei conti…, 1855-1856; 1857-1858. Nel 1861-1863 Parodi esegue anche due candelieri per 26,5 lire.
40 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio…, in questo volume. Scomparso dalla chiesa dopo il 1977, lo stendardo è stato
recuperato, su mia segnalazione, dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale della Liguria.
41 “Genova, li 16 maggio 1877. Io sottoscritto ricevo dalla Sig.ra Teresa Gardella la somma di franchi centoventi in pagamento d’avere eseguito un stendardo a due visi rap.nte da una parte Nostra Signora del SS. Rosario con San Domenico e da l’altra parte S.
Maurizio dipinto all’olio sulla tela che in fede dico 120 franchi. Gio Batta Panario”. Cfr. APSMN (FN), foglio sparso.
42 APSMN (FN), Libro confraternita del Rosario dal 1880 - 19 settembre - fino al 1916.
43 APSMN (FN), foglio sparso conservato nel Libro confraternita… .
44 APSMN (FN), Libro di cassa dal 1880.
45 APSMN (FN), Libro contiene…, 4 gennaio.
46 Ibidem.
47 Ibidem.
- 196 -
della chiesa48. Il 2 ottobre dell’anno successivo,
il parroco e Angelo Olcese vengono incaricati
di vendere l’oro rotto e di comperare il legno
per la costruzione dell’orchestra49, mentre il 2
luglio del 1882 vengono deliberate le spese per
l’incassamento dell’organo e della cantoria,
opera per la cui realizzazione si chiamano a
confronto periti nell’arte dei falegnami e degli
intagliatori. La gara dovrà svolgersi rapidamente ed entro Novembre i lavori dovranno essere
ultimati per poter subito dopo procedere alla
costruzione dell’organo50. Il risultato della contesa premia un certo Angelo Scamuzzi, che
riceve i primi pagamenti per la costruzione dell’orchestra nel 188251 e il cui conto viene saldato nel 1883-188452.
Contemporaneamente inizia la contrattazione
con l’organaro Felice Paoli, invitato a recarsi a
Neirone per stabilire le condizioni del lavoro53.
Il 7 gennaio 1883 Felice Paoli riceve 1000 lire
come prima rata per la costruzione dell’organo54, ma il successivo primo luglio l’Arciprete
viene autorizzato dalla Fabbriceria a procedere,
prima amichevolmente e poi per via legale, contro di lui “onde compellerlo ad eseguire l’organo secondo il contratto” firmato nel Novembre
188255. La controversia dovette essere tempora-
neamente sanata in quanto il Libro dei conti
riporta uscite relative al pagamento dell’organaro56 e alla registrazione del contratto a Rapallo57,
ma il 27 aprile 1884 si decide di adire le vie
legali contro Felice Paoli per costringerlo a terminare i lavori58 e il 5 luglio del 1885, constatato il fallimento delle vie amichevoli con i fratelli Felice ed Emilio Paoli, se ne delibera la convocazione dinanzi al pretore di Cicagna per
obbligarli a prestar fede al proprio impegno o
rescindere il contratto59. Felice Paoli viene così
diffidato dal proseguire il lavoro di costruzione
dell’organo60, per la cui ultimazione viene incaricato suo zio Lorenzo61. Per ironia della sorte,
lo strumento che provocò tanti problemi alla
Fabbriceria non esiste più, essendo stato ricostruito nel 1929-1930 dalla Ditta Parodi-Marin
di Genova Bolzaneto62.
L’intensa attività della fine del XIX secolo è
attestata da altre commissioni e abbellimenti
della chiesa. A seguito di una donazione a ciò
finalizzata, nel 1888 si decide di sostituire la
vetrata della facciata63. Eseguita da Pietro Savio
di Alessandria sulla base di un contratto approvato il 6 gennaio 188964, la vetrata, pagata all’artista nel 1889-189065, si collega ai lavori della
facciata66 e alla costruzione della grotta e dell’al-
48 Ibidem.
49 Ibidem .
50. Ibidem. Per la costruzione della cantoria e l’incassamento dell’organo si delibera di usare 549 lire italiane avute dagli eredi del defunto Felice De Barbieri.
51 In questo anno Scamuzzi riceve 550 lire in più rate, cfr. APSMN (FN), Libro contiene… .
52 APSMN (FN), Libro dei conti…, 1883-1884, 2°-3° trimestre.
53 APSMN (FN), Libro contiene ..., 1882, 30 ottobre.
54 Ivi. L’acconto versato a Paoli risulta anche dal Libro dei conti…, 1882-1883, 4° trimestre.
55 APSMN (FN), Libro contiene…, 1883, 1 luglio.
56 L’organaro, del quale non è specificato il nome, riceve altre 560 lire di acconto, cfr. APSMN (FN), Libro dei conti…, 1883-1884, 4°
trimestre.
57 Libro dei conti…, 1884, 1° trimestre.
58 Ivi.
59 APSMN (FN), Libro contiene... .
60 APSMN (FN), foglio sparso, 23 ottobre 1885, Atto di diffida del procuratore Giuseppe Bacigalupo di Genova.
61 APSMN (FN), Libro contiene…, 1886, 3 gennaio. Il saldo a Lorenzo Paoli avviene nel 1886-1887, 4° trimestre, cfr. APSMN (FN),
Libro dei conti…, 1884, 1° trimestre.
62 Nel 1929 la ditta ricevette un acconto di 6.000 lire, nel 1930 altre 19.800, cfr. APSMN (FN), Libro di cassa dal 1895 al 1974, 1929,
4° trimestre, 1930, 2°-3° trimestre. Sull’organo cfr. anche F. MACERA, D. MERELLO, D. MINETTI 2000, p. 131.
63 APSMN (FN), Libro contiene…. 1888, 7 ottobre.
64 Ivi, 1889, 6 gennaio.
65 Libro dei conti… . Il pagamento, ammontante a lire 283, avvenne con un certo ritardo rispetto alla consegna del lavoro, come si può
dedurre dalla riunione della Fabbriceria del 5 gennaio 1890, nella quale si prende atto di non aver ancora liquidato alcuni debiti, fra cui
appunto quello della vetrata, cfr. APSMN (FN), Libro contiene… .
66 Sui lavori della facciata, cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
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Fig. 10 Giovanni Battista Ghigliotti, particolare della decorazione ad affresco raffigurante il Martirio di San Maurizio.
tare della Madonna di Lourdes, benedetti il 22
dicembre 188967.
Nel quadro del generale rinnovamento della
chiesa nel 1894 si delibera di acquistare un
nuovo baldacchino68, ancora conservato sull’altar maggiore, giunto a Neirone l’anno successivo69 e completato da sei aste fatte eseguire dall’indoratore Luigi Carpi70 e di sistemare il cancello del battistero71, opera, quest’ultima, di fattura ottocentesca, ma attorno alla cui commis-
sione o acquisto non è alcuna traccia nell’archivio parrocchiale.
L’atto più significativo di questo particolare
momento è certamente la commissione della
decorazione ad affresco della chiesa con Storie
di San Maurizio (figg. 10, 11) all’ornatista
Filippo Termi e a Giovanni Battista Ghigliotti,
già attivo con la stessa funzione nella chiesa di
Ognio72. Il 7 aprile 1895 si delibera di accettare
i disegni presentati da Ghigliotti stabilendo un
67 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume. L’altare fu fornito da un certo Giocondo Luchesi, cfr.
APSMN (FN), Libro di cassa ..., 1819-1900, 4° trimestre.
68 APSMN (FN), Libro contiene…, 1894, 1 gennaio.
69 APSMN (FN), Libro di cassa…, 1895, 1° semestre.
70 Ivi, 1895, 2° semestre. Luigi Carpi esegue altri lavori per la chiesa di San Maurizio: nel 1899-1900 riceve 400 lire per l’apparato e
l’indoratura dell’altar maggiore (Libro di cassa...), l’11 ottobre 1901 gli vengono ordinati otto fanali dalla Confraternita del Rosario
(Libro Confraternita...), pagatigli 713 lire nel 1902-1903 assieme al saldo di 80 lire per la croce (Libro di cassa dal 1880 ), nel 1902 fornisce alla chiesa due leggii per 17 lire (Libro di cassa...) e nel 1906 riceve ben 500 lire per candelieri e altri lavori non specificati (Libro
di cassa...). L’artigiano fu attivo anche per le chiese di Roccatagliata (cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note..., in questo volume) e
San Marco d’Urri (cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note..., in questo volume).
71 APSMN (FN), Libro contiene…, 1894, 1 luglio. La spesa per il cancello è inserita nei conti del 1894-1895, Libro dei conti… .
72 Sul pittore e sul suo intervento nella chiesa di Ognio, cfr. A. ACORDON, Ognio. Note…, in questo volume . Firmati e datati 1895
sul riquadro raffigurante San Maurizio che si rifiuta di adorare gli idoli di fronte all’Imperatore Massimino Erculeo, gli affreschi dovettero
sostituire una decorazione più antica, nella quale Angelo e Marcello Remondini avevano letto, nel 1890, un’altra iscrizione e la data
1711 (cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive..., in questo volume).
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Fig. 11 Giovanni Battista Ghigliotti, particolare della decorazione ad affresco raffigurante San Sebastiano.
compenso di 1.100 lire e si rimane in attesa di
esaminare la proposta che invierà l’ornatista,
accogliendo nel frattempo l’offerta di Giovanni
Battista Gardella di Roccatagliata, già autore di
quelli della chiesa di San Lorenzo73, relativa
all’esecuzione degli scanni del coro74. Dopo
averne accettato la proposta il 7 luglio 189575, la
Fabbriceria salda il proprio debito di lire 800 a
Filippo Termi nel 189576, risolvendo in due rate
il rapporto con Ghigliotti77.
Gli ultimi lavori eseguiti per la chiesa nel XIX
secolo sono le statue della Madonna e di
Bernadetta per la grotta di Nostra Signora di
Lourdes, opera di un certo Alessandro Sappia78,
e le quattro grandi sculture in gesso raffiguranti San Pietro, San Paolo, San Giovanni e San
Giuseppe, pagate nel 1899-1900 a Medardo
Borelli, autore anche della grotta di Nostra
Signora di Lourdes79, delle tre cornici dei quadri del presbiterio 80 e di varie opere per
73 Cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio…, in questo volume .
74 “Si procede all’asta bandita oggi stesso e si stabilisce di accettare l’offerta fatta da Gardella Gio Batta di Roccatagliata di costrurre i
detti scanni su disegno stabilito e capitolato debitamente firmati in lire 935 a che però la fabbriceria provveda tutto il legname occorrente”, cfr. APSMN (FN), Delibere 1895-1971.
75 “Si delibera a voti unanimi di approvare (...) quanto in antecedenza si era stabilito col signor Termi Filippo ornatista, accettandone
i disegni, e fissandogli come onorario lire 800 a che orni tutto il volto della chiesa, escluso quello del coro già ultimato, tinga il cornicione a stucco, cantoria, cassa dell’organo, altari e muri laterali, antiporte, le lesene però e gli altari a marmo; a patto però che la fabbriceria faccia le impalcature, provveda biacca, olio, vernice e calce”, cfr. APSMN (FN), Delibere 1895-1971.
76 Nel 1897 Filippo Termi verrà chiamato a eseguire alcuni ritocchi per una cifra di 20 lire, cfr. APSMN (FN), Libro di cassa… .
77 APSMN (FN), Libro di cassa…, 1895, 1° e 2° semestre. Sulla decorazione della chiesa, cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
78 Cfr. APSMN (FN), Libro di cassa… .
79 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ..., in questo volume.
80 Cfr. APSMN (FN), Libro di cassa…, 1899-1900, 4° trimestre e 1912.
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Fig. 12 Luigi Agretti, Cena in Emmaus.
Roccatagliata81.
Per quanto attiene al patrimonio storico artistico, gli interventi più appariscenti del secolo
scorso sono le già menzionate campane del
1937, l’organo della Ditta Parodi-Marin del
1929-1930 e la risistemazione dell’area presbiteriale. In esecuzione di una delibera del 2
luglio 191182, Medardo Borelli viene come già
detto incaricato di costruire le grandi cornici
con angioletti ed elementi vegetali in stucco83
intorno al dipinto raffigurante l’Immacolata
Concezione e Santi e ai lati del Sancta Sanctorum,
queste ultime destinate ad accogliere le grandi
tele (figg. 12, 13) affidate a Luigi Agretti (La
Spezia, 1877-1937) per un corrispettivo di 800
lire e con l’obbligo di consegnarle entro il 30
giugno del 191384. Secondo quanto precisato dai
Fabbricieri, che ne esaminarono i bozzetti, le
due tele rappresentano “due soggetti storici
della SS. Eucarestia”, ossia la Cena in Emmaus
(fig. 12) e il meno noto episodio di Elia e
l’Angelo (fig. 13). Le due tele costituiscono una
buona testimonianza dello spirito dell’artista
spezzino: alla connotazione orientaleggiante
delle due opere (si osservi in particolare il brano
paesistico sullo sfondo della Cena in Emmaus),
che ha paralleli anche nella pittura napoletana
di Domenico Morelli, si unisce una particolare
sensibilità verso le novità dello stile Liberty,
come attesta soprattutto il fluido volteggio dell’elegante figura angelica85.
Gli ultimi lavori di un certo rilievo riguardano
81 Cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio…, in questo volume .
82 Le tre cornici costarono 750 lire, cfr. APSMN (FN), Delibere 1895-1971.
83 Cfr. APSMN (FN), Libro di cassa…, 1912.
84 Cfr. APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1912, 6 ottobre. Il pittore viene in effetti pagato nel 1913 (cfr. APSMN (FN), Libro di
cassa…, 3°-4° trimestre), ma riceve soltanto 780 lire.
85 Su Luigi Agretti, cfr. E. GIOVANDO 1992, pp. 73-74 e E. ACERBI 1992, pp. 725-830, in part. pp. 775-776.
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Fig. 13 Luigi Agretti, Elia e l’Angelo.
la vetrata del coro, raffigurante un angelo o una
donna con la croce, allusiva alla Fede, da identificare con quella eseguita nel 1938 da
Cristiano Joig di Torino su commissione di
Emilia Gardella86 e l’esecuzione di due finestroni del coro da parte di Raffaele Albertella nel
1958 in occasione del terzo centenario dell’erezione della chiesa87.
86 APSMN (FN), Libro di cassa…, 1938, 2°-3° trimestre; Bilanci consuntivi della Fabbriceria..., 1938-1939. L’opera venne a costare
5.630 lire.
87 APSMN (FN), Delibere 1895-1971, 1958, 16 gennaio e Libro di cassa..., 1958. Le due vetrate costarono 275.000 lire. Sull’artista cfr.
V. PARROCO 1983 vol. 1, p. 809.
Le foto sono dell’Archivio della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Liguria (Daria Vinco)
tranne le figure 8 e 9 (Fabio Piumetti).
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ROCCATAGLIATA
NOTE SULLA CHIESA DI SAN LORENZO
E SUL SUO TERRITORIO
Cristina Sanguineti
Fig. 1 Roccatagliata, chiesa di San Lorenzo: pianta, scala 1:200 (elaborazione grafica R. Eseguiti)
Intitolazione degli altari: 1 - San Lorenzo; 2 - SS. Crocifisso; 3 - SS. Rosario; 4 - San Michele; 5 - Carmine.
L’assenza di una serie cronologicamente completa di fonti documentarie e la disomogeneità
ed incompletezza di quelle conservate lascia
nell’ombra parte della storia edilizia delle due
chiese di San Lorenzo, quella attuale di origine
seicentesca e soprattutto quella antica non più
esistente.
Una lapide che si è conservata in loco e risulta
trascritta dai Remondini nel volume nono della
loro opera sulle parrocchie dell’Arcidiocesi
genovese attesta l’esistenza di un edificio di
culto, forse una cappella, almeno a far data dal
13281, che gli stessi storici dicono “atterrata” nel
momento in cui nel 1648 si intraprese la costruzione della nuova chiesa2.
Fra la decisione del cardinale Luca Fieschi e del
podestà di Roccatagliata Facinus Blancus sotto
i cui auspici nella prima metà del secolo XIV fu
costruita la chiesa originaria e quella del cardinale Stefano Durazzo, che nel 1646, conferendole titolo di parrocchia indipendente all’interno dell’Arcipretura di San Maurizio di Neirone3
diede impulso alla costruzione della nuova fabbrica, corrono dunque tre secoli.
In antico il territorio aveva posizione di preminenza strategica e amministrativa rispetto a
quello afferente alla chiesa di Neirone, in considerazione sia della presenza di un castello – del
quale oggi resta poco più che il sedime – di proprietà prima degli Advocati e quindi dei Doria,
passato poi ai Fieschi, e da questi venduto alla
Repubblica di Genova nel 1433, sia in quanto
sede del podestà4, ma in epoca moderna si vede
via via declassato a ruolo secondario rispetto al
1 A. e M. REMONDINI 1890, pp. 285-286: “MCCCXXVIII. De mense augusti ecclexia facta fuit in honorem beati sancti Laurencii
misericordia et gracia revendissimi patris et domini nostri domini Luce de Flisco cardinalis dominus Facinus Blancus Lavanie comes
et potestas Rochataliate hoc opus fecit laborari Manfredus de Aste me fecit.”
2 Ivi, p. 287.
3 Ibidem.
4 Cfr. F. SENA 1981.
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Fig. 2 Roccatagliata, chiesa di San Lorenzo:
prospetto principale (foto R. Palmisani).
territorio di Neirone capoluogo, che conta su
una più utile collocazione geografica alla confluenza delle strade fra Genova e Recco.
Proprio la costruzione della nuova chiesa seicentesca dà la misura di un cambio di registro
nella gerarchia fra i due abitati e può essere
assunta a simbolo del definitivo predominio
amministrativo della comunità di Neirone su
quella di Roccatagliata.
Quando si intraprende l’edificazione della
nuova chiesa – si noti, per dar giusto merito
all’orgoglio campanilistico, più di dieci anni
prima rispetto a quella di Neirone –
Roccatagliata sembra essere ancora sede del
podestà-notaio5, ma le stesse motivazioni che
ne hanno determinato la costituzione in parrocchia a sé stante danno conto della sua futura
emarginazione ed estrema difficoltà di mantenimento: San Lorenzo è infatti resa indipendente “attenta montuositate … dictarum villarum Roccataliatae e Crosigliae”6 ossia, in ultima
analisi, in considerazione delle difficili comunicazioni che la relegano, fra l’altro, ad un’economia agricola di sussistenza in cui risulta pressochè impraticabile lo stesso commercio dei prodotti. Situato alla quota di circa 600 metri, l’abitato di Roccatagliata vedrà la costruzione
della strada carrozzabile solo fra il 1952 ed il
1957, e sino a quel momento i trasporti a dorso
di mulo avranno quale non ultima conseguenza
quella dell’aggravio delle spese di fornitura dei
materiali edili, come risulta dai lavori intrapresi
nel 1924 di cui si dirà in seguito.
L’atto con cui la chiesa di San Lorenzo di
Roccatagliata viene costituita in parrocchia è
registrato il 28 agosto 1646 dal notaio Gio
Batta Badaracco, cancelliere della Curia
Arcivescovile7. L’epoca precisa di costruzione
della nuova chiesa tuttavia non è del tutto chiara. Se i Remondini la datano al 1648, ossia due
anni dopo il decreto costitutivo, in realtà risulta
che già dal 5 dello stesso agosto 1646 la “massaria” aveva registrato una serie di spese per
“l’incaminamento della nuova parrocchia”, fra
cui la contrattazione del “cavo d’ovra di
Torriglia” che viene pagato “ per haver designato la chiesa”8, mentre il medesimo giorno gli
abitanti di Roccatagliata e di Crosiglia9 risultano essersi riuniti in assemblea con lo scopo di
nominare una commissione di quattro persone,
due per borgo, con l’incarico specifico di
“soprintendere alla fabbrica della chiesa”10.
Ciò evidenzierebbe, contrariamente a quanto
indicato dai Remondini, una volontà immediata di metter mano ad una nuova costruzione.
Tuttavia le spese per interventi a carattere edilizio registrate di lì a qualche mese si riferiscono
5 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 286.
6 Ivi, p. 287.
7 APSMN (FR), 1646. Libro della massaria S. Lorenzo di Roccatagliata, 1646, 28 agosto.
8 Ivi , 1646, 5 agosto.
9 Il nome della frazione viene così indicato nel documento, in luogo dell’attuale Corsiglia.
10 APSMN (FR), 1646. Libro della massaria…, 1646, 5 agosto. Le persone elette risultano, Giovanni Pensa q. Luigi e Battino Gardella
q. Rocco per Roccatagliata e Rolando Bastia q. Andrea e Bartolomeo Gardella q. Giovanni per Crosiglia.
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soltanto alla fornitura di tredici rubbi di “calcina” acquistata da maestro Bartolomeo
Schiappacasse a soldi 5 il rubbo ed al pagamento dei “due mazzacani maestro Pantalino e maestro Battista di Fontanabuona che hanno ristorato la chiesa in cinque giorni a soldi 24 il giorno” e testimoniano quindi della decisione di
ripiego di effettuare inizialmente semplici lavori di adeguamento o manutenzione alla chiesa
originaria11.
L’intenzione sembra comunque essere quella di
procedere quanto prima alla nuova costruzione,
tanto che l’anno seguente una commissione
composta dal rettore e dal massaro Paulino
Pensa si reca a Genova per chiedere alle autorità
civili il finanziamento di cento scudi “per spender nella nova fabbrica di nostra Chiesa”12.
Ed in ogni caso è significativo che la costruzione, come già anticipato, venga effettivamente
intrapresa ben dieci anni prima rispetto a quel
1659 in cui la chiesa di Neirone sceglie il sito
della nuova fabbrica13.
Non conosciamo in dettaglio lo svolgersi dei
lavori, dal momento che purtroppo non si è
conservato il “libro giornale della fabbrica” con
la registrazione delle quantità delle forniture e
delle spese di manodopera citato nei documenti. Sappiamo soltanto che nell’agosto del 1652
in occasione della festa di San Lorenzo la chiesa riceve la benedizione. A quest’epoca la fabbrica doveva essere conclusa nelle sue linee
essenziali14 anche se, ad esempio, restava da
sistemare ancora il battistero, che arriva via
mare di lì a poco e quindi viene trasportato a
Roccatagliata da Recco15. Nel 1655 “Mastro
Andrea e compagni mazzacani hanno finito di
murar” e per saldare il debito si procede sia ad
una missione a Genova “per veder se si poteva
haver denari dall’Eminentissimo” sia ad una
forma di autotassazione della popolazione: 11
soldi per “fuocho”, che portano a raccogliere
ventisette lire16.
Similmente a quanto è documentato nel 1672
per la chiesa di San Maurizio di Neirone, anche
in questo caso sembra di poter ipotizzare che ad
essere terminata fosse soltanto la scatola muraria, ma che nel 1663 – mentre a Neirone si
intraprende l’opera della facciata – il livello
delle finiture sia ancora approssimativo, dal
momento che risulta il pagamento per “una
canella di tavole per chiuder li balconi sovrani
della chiesa”17.
Nel 1662 intanto, poco prima delle festività del
Santo titolare del 10 agosto, si erano contattati
“mastro Giovanni” ed alcuni “mazzacani” per
“accomodare la piazza avanti la chiesa”18. Dieci
anni più tardi, sempre in vista della medesima
occasione, si incarica maestro Nicolla Gardella
“di fare la scala per andare in chiesa”19. L’anno
successivo, oltre a provvedere la chiesa di “una
pietra di marmo per l’acqua benedetta”20, “si
fanno fare due banchette sul piazzale della chiesa dal maestro Antonio Gardella”21. A quest’epoca infatti – e sino alla fine dell’Ottocento,
come si dirà in seguito – la chiesa può contare
su di un piazzale vero e proprio.
Nel 1674 “due maestri lignanari di
Immontagna” eseguono due cancelli, uno nel
coro e l’altro entro il battistero, oltre che una
custodia per riporre oli sacri ed acqua benedetta22.
Nel 1680 infine “si è fatto stabilire il choro della
chiesa per di fuora, con le due cappelle che
restano verso l’oriente”23.
11 Ivi, 1646, 11 novembre.
12 Ivi, 1647, 17 luglio.
13 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive ed interventi di restauro della chiesa di San Maurizio, in questo volume.
14 APSMN (FR), 1646. Libro della massaria…, 1652, 10 agosto.
15 Ivi, 1652, 27 agosto.
16 Ivi, 1655, 3 gennaio.
17 Ivi, 1663, 14 ottobre. Per le concomitanti opere alla chiesa di Neirone cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive…, in questo
volume.
18 APSMN (FR), 1646. Libro della massaria…, 1662, 4 agosto.
19 Ivi, 1672, 19 luglio.
20 Ivi, 1673, data non chiara collocabile fra il 6 giugno ed il 3 agosto.
21 Ivi, 1673, 3 agosto.
22 Ivi, 1674, 14 marzo.
23 Ivi, 1680, 5 luglio.
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Dell’epoca settecentesca non si è conservato
alcun documento che possa apportare notizie
sotto il profilo della storia architettonica dell’edificio, se non la relazione della visita apostolica condotta il 5 luglio del 1750 da Giovanni
Bernardo
Taccone,
canonico
della
Metropolitana di San Lorenzo, su incarico
dell’Arcivescovo di Genova, Monsignor
Giuseppe Saporiti. Sappiamo allora che a quest’epoca la chiesa, che presenta lo stesso
impianto attuale a navata unica, “non valde
ampla”, conta cinque altari, sette finestre delle
quali alcune tripartite, una cornice in gesso di
buona fattura ed una torre campanaria24.
I Remondini ci dicono che nel centenario della
sua costruzione, ossia – secondo la loro datazione – nel 1748, la chiesa fu “ristorata”25. In assenza di fonti documentarie dirette non è dato
sapere se con ciò debba intendersi che l’edificio
fu sottoposto ad un intervento di ampia portata
a carattere meramente manutentivo oppure se,
come era già accaduto – quasi quarant’anni
prima – per la chiesa di San Maurizio di
Neirone, nell’occasione gli furono conferite
anche una certa dignità e completezza architettonica secondo i canoni stilistici dell’epoca tramite un diffuso intervento di ornamentazione.
La “corona bene gipzata” rilevata di lì a due
anni nel corso della citata visita apostolica fa
propendere per questa seconda ipotesi, ulteriormente rafforzata dalla notizia riportata dai
Remondini stessi, sempre sulla scorta di fonti
oggi non più verificabili, che nello stesso 1748
fu “ristorato” anche l’altar maggiore dedicato al
Santo titolare Lorenzo26. In ogni caso l’intervento denuncia a quest’epoca un intento di
emulazione nei confronti della chiesa vicariale.
Una certa rivalità fra le due comunità di
Roccatagliata e di Neirone traspare ancora nella
prima metà del secolo successivo, quando nel
1838, ad un anno dall’ultimazione della nuova
cappella detta del Portello, i due centri se ne
disputano la proprietà. Nella risoluzione della
lite interviene il sindaco in persona, adducendo
motivazioni di ordine soprattutto storico-geografico per rivendicare nei confronti dell’arcivescovo Placido Tadini i diritti della chiesa di San
Maurizio: la nuova cappella è stata costruita
dalle comunità di Siestri o Carrata con l’apporto – ossia con un intervento solo parziale – di
alcuni volontari di Roccatagliata, è stata inoltre
edificata sul territorio di pertinenza della parrocchia di Neirone, lungo la strada che conduce
a Torriglia e di cui gli abitanti di Neirone da
almeno duecentocinquant’anni curano la
manutenzione, e si trova infine entro quel versante della montagna denominata Portello “che
scola l’acqua piovana sopra diversi quartieri di
Neirone”27.
Sulla scorta di una controversia inerente il “circondario” di Roccatagliata che è rimasta agli
atti poiché fu sottoposta all’attenzione del
governatore, sappiamo che a metà Ottocento
sul territorio comunale funzionavano le scuole
primarie28. La non agevole conformazione territoriale fa sì anzi che le scuole attivate fossero
quattro, una in ciascuno dei quattro centri maggiori: “nel Comune di Neirone si tengono quattro scuole elementari, una nel Capoluogo collo
stipendio di lire nuove 400, altra in
Roccatagliata, una terza in Ognio ed una quarta in San Marco d’Urri, le ultime tre collo stipendio di lire nuove 280"29. I maestri contrattati risultano essere per metà sacerdoti. In particolare dal 1859 nell’ambito del bacino d’utenza
della “borgata” di Roccatagliata è attivo il sacerdote Ambrogio Podestà30, mentre nel 1860 vengono ammessi il sacerdote Giuseppe Biglieri
per la frazione di San Marco d’Urri ed il signor
Giacomo Olivero quale maestro di prima e
24 ACC, fasc. 105, Visitatio Ecclesiae Sancti Laurentis de Roccataliata, 1750, 5 luglio.
25 A. e M. REMONDINI 1890, p. 288.
26 Ibidem.
27 ACC, fasc. 82, 1838, 6 maggio.
28 ASG, Prefettura Sarda 18, lettera dell’Ufficio del Regio Ispettore per gli Studi Primari della Provincia di Genova al Governatore di
Genova, “Congedo del maestro di Roccatagliata”, 1860, 15 giugno.
29 Ivi, lettera della Regia Intendenza della Provincia di Chiavari all’Intendente generale della Divisione Amministrativa di Genova,
1858, 25 novembre.
30 Ivi, lettera della Regia Intendenza del Circondario di Chiavari al Governatore di Genova, 1860, 1 giugno.
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seconda elementare di Neirone ed Ognio.
Quando nel 1890 i Remondini danno alle
stampe il nono volume che raccoglie notizie
sulle parrocchie dell’Arcidiocesi di Genova, la
chiesa di San Lorenzo di Roccatagliata risulta
misurare circa venti metri per otto, contro i
circa trenta per nove di quella di Neirone31. Gli
stessi autori sentono l’esigenza di segnalare
quale dato singolare il notevole incremento
quantitativo della comunità di pertinenza di
San Lorenzo, che nel 1750 era di soli 350 abitanti circa e nello spazio di cento anni risultava
più che triplicata, giungendo addirittura a contare 1300 persone nel 188432. É forse anche in
ragione di tale incremento che la parrocchia nel
1874 aveva meritato di essere fregiata del titolo
di Prepositura e certamente sulla scorta di questi dati si comprende perché nel 1894 si avverte
come improrogabile l’esigenza di prolungare la
chiesa33. La proposta avanzata in tal senso dal
presidente della Fabbriceria viene approvata
all’unanimità e l’assemblea dei fabbricieri delega quindi al parroco il compito di tenere i contatti con il signor Medardo Borelli che dovrà
produrre il disegno della facciata, documento
che purtroppo non risulta conservato, ossia con
lo stesso artista che fra 1890 e 1893 ha portato
a termine un intervento decorativo interno inerente gli stucchi del coro e della chiesa34.
La decisione comporta il sacrificio di parte della
piazza antistante, che appena due anni prima,
conclusasi una non meglio specificata “lite
riguardo allo sgombero del piazzale” che i consiglieri decidono di sostenere35, aveva impegnato la Fabbriceria nella delibera di onerose operazioni di pulizia36. L’intervento era stato effettuato in concomitanza dei “fondamenti della
cappella di Nostra Signora del Carmine già del
Fig. 3 Roccatagliata, chiesa di San Lorenzo: veduta dell’abside e dell’altare principale (foto R. Palmisani.)
Santissimo Rosario”37 e della ben più modesta
costruzione della “casetta delle sedie”38, e precedeva di poco la decisione di effettuare alcune
opere di manutenzione a sacrestia39 e canonica40
nonché di restauro, quali quelle relative alla
decisione “di aggiustare il pulpito di legno” per
il quale si “approva di farlo pulire”41.
Intanto, mentre si è dato corso al proposito di
prolungare la chiesa e di dotarla quindi di una
nuova facciata, la Fabbriceria decide anche di
procedere alla globale decorazione della cappel-
31 A. e M. REMONDINI 1890, p. 287.
32 Ivi, p. 288
33 APSMN (FR), Deliberazioni della Fabbriceria dal 1891 al 1992 circa, 1894, 22 aprile.
34 APSMN (FR), Memorie di Roccatagliata, capitolo “Spese straordinarie”.
35 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1892, 6 gennaio.
36 Ivi, 1892, 3 luglio.
37 Ivi, 1892, 3 luglio.
38 Ivi, 1892, 2 ottobre; ivi, 1893, prima domenica di aprile; ivi, 1893, 2 luglio.
39 Ivi, 1893, prima domenica di aprile.
40 Ivi, 1893, 5 novembre.
41 Ivi, 1893, 2 luglio.
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la nuova di Nostra Signora del Carmine, tramite “ornati nella volta e nelle pareti laterali”42, che
verranno proseguiti nel 1904, con le dorature
commissionate a Luigi Cerdano di Favale, e con
un “ornato in pittura” affidato allo svizzero
Filippo Tani43. La nuova statua lignea della
Santa viene commissionata allo stesso Medardo
Borelli di Lavagna44 cui è stato richiesto il disegno della facciata, artista che risulterà attivo per
la chiesa di Roccatagliata in qualità di scultore
ancora nel 1905, quando esegue la statua del
Santo titolare45.
I lavori edilizi alla fabbrica, che portano ad
aumentare la lunghezza dell’aula di circa cinque
metri46, si protraggono sino all’autunno del
1895, quando – giunti sino alla quota corrispondente alla base delle lesene di facciata – vengono sospesi con l’impegno di impiegare l’inverno
per la fornitura di materiali (come effettivamente viene registrato nel gennaio successivo)47, e
proseguono per successivi stati di avanzamento
fra il luglio e l’ottobre del 189648, nonostante la
chiesa di Roccatagliata venga definita una delle
più povere di tutta la Diocesi49.
Nel 1897 la Fabbriceria decide di procedere alla
posa del nuovo pavimento e contratta il marmista Enrico Campofiorito di Chiavari accordandosi per lire 1.60 al metro quadro più lire 200 da
impiegarsi per “aggiustare l’altare maggiore e le
balaustre”50. È lecito ritenere che l’opera si riferisca alla pavimentazione della chiesa intera
piuttosto che della sola porzione appena edificata, con volontà di emulazione nei confronti della
chiesa di San Maurizio di Neirone che alla sostituzione del pavimento in ardesia con uno in
marmo aveva già provveduto nel decennio
1855-186651. Nonostante la cospicua donazione
di lire 500 ricevuta da Giovanni Gardella, oste
di Neirone52, l’opera del pavimento non viene
intrapresa sino all’anno successivo53.
A lavoro terminato, seguendo ancora l’esempio
della chiesa di San Maurizio che aveva assunto
analoga decisione nel 189254, la Fabbriceria
approva la proposta di dotare internamente la
chiesa di uno zoccolo di marmo, stabilendo “di
scrivere al signor Codda Giuseppe marmista di
Chiavari perché venga a prendere le misure e si
facci come si deve”55. Il contatto non pare tuttavia essere andato a buon fine, ed anzi sembra che
i preventivi vagliati siano stati molti dal
momento che ancora nel 1900 e quindi nuovamente nel 1901 la Fabbriceria conclude la seduta con identica deliberazione di appaltare il lavoro “a chi lo fa meno prezzo”56.
Nel 1898, forse anche in relazione ai lavori di
prolungamento e di occupazione di parte della
piazza, si registra la lite fra la parrocchia, proprietaria del civico allora indicato con il numero
207, e la famiglia Pensa-Campasso a proposito
della proprietà del muro di confine. Il parroco
specifica che il muro è tutto di proprietà della
chiesa e che la famiglia non può avanzare diritti
anche se vi ha poggiato le putrelle per costruire
un poggiolo.
Nell’occasione si specifica inoltre che la chiesa è
proprietaria anche dello “scoglio” davanti alla
porta della casa di sua proprietà “verso il muro
delle piazze degli eredi Pensa, che si trova alla
sinistra di chi sale verso il monte, confinanti le
piazze dei Pensa sopra, sotto la strada pubblica,
42 Ivi, 1894, 1 luglio.
43 APSMN (FR), Memorie di Roccatagliata, capitolo “Spese straordinarie”.
44 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1894, 1 luglio.
45 Cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
46 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1896.
47 Ivi, 1896, 5 gennaio.
48 Ivi, 1896, 1 luglio; ivi, 1896, 4 ottobre.
49 ACC, fasc. 105, Roccatagliata, San Lorenzo, 1897.
50 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1897, 4 aprile.
51 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive…, in questo volume.
52 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1897, 4 aprile.
53 Ivi, 1898, 10 aprile; APSMN (FR), Deliberazioni della Fabbriceria dal 1891 al 1992 circa, 1898, 3 luglio.
54 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive…, in questo volume.
55 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1899, 1 ottobre.
56 Ivi, 1900, 7 gennaio; ivi, 1901, 7 luglio.
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a ponente gli eredi Pensa-Campasso, rimpetto il
muro della casa, a levante finisce in punta”57. Il
parroco puntualizza inoltre che anche “il tratto
che passa dalla strada all’orto è di proprietà della
Mensa Parrocchiale” e non della famiglia di
Lorenzo Gardella detto Giulin, pur trovandosi
sotto la loro casa segnata col numero civico 206.
Intanto, il prolungamento della chiesa costituisce anche l’occasione per mettere mano alle
coperture. Nel 1899 il presidente propone di
“coprire la chiesa vecchia perché il tetto è in
deperimento ed è necessario coprirla di nuovo” e
la Fabbriceria delibera di dare incarico a
Bartolomeo Gardella “di fare le chiappe necessarie con le gronde per tutto il tetto della chiesa”58.
Analogamente, nel 1903, la Fabbriceria approva
la proposta del presidente di “coprire le cappelle
di nuove chiappe essendo che le vecchie son
tutte guaste”.
In sostanza, nonostante la scarsità di mezzi, nell’arco di circa dieci anni, fra 1892 ed il 1903 si
effettua una serie considerevole di interventi: la
costruzione ed ornamentazione della cappella
del Carmine, il prolungamento della chiesa, l’inizio della nuova facciata, il nuovo pavimento, la
zoccolatura interna, il tetto. La scarsità di mezzi
impone da un lato che si dilazionino, anche per
tempi considerevoli, i pagamenti dei fornitori,
come accade a Paolo Foppiano per le provviste
di ferri, chiavi ed altro, che vengono pagate nel
1899 atteso che “dal 1892 non si aveva più saldato il conto”59. Dall’altro la chiesa si indebita
con il parroco: una parte del debito relativo ai
“denari imprestati prima d’ora alla Fabbriceria
per i lavori della chiesa di prolungamento e
pavimento” viene saldato nel 1900, quando si
stabilisce “di dare al parroco un acconto di lire
800 rimanendone ancora 1100 oltre i frutti”60.
Il parroco che risulta promotore di questa serie
di interventi e di quelli di cui si dirà in seguito è
il sacerdote Davide Dondero che amministra la
chiesa per cinquant’anni, fra il 1887 ed il 1937.
Giunto contrariamente alla sua volontà, come
riporta egli stesso nelle proprie memorie manoscritte, poiché si sentiva già radicato nel territorio facente capo alla chiesa di Favale, trova “sia
la chiesa che la canonica non troppo in buone
condizioni”61 e, oltre a dare impulso agli interventi sopra ricordati, apporta localmente una
serie di innovazioni che afferiscono alla tecnologia costruttiva. In occasione della sopraelevazione di un piano della canonica, decisa per dare
conveniente alloggio alle suore della
Misericordia di Savona ed alla scuola da esse
tenuta62, ad esempio, constatato che “nessuno a
Roccatagliata sapeva intonacare i muri come si
deve” chiama Stefano Caricci di Cornia per
insegnare alle maestranze locali come si stende
l’intonaco seguendo i punti di lista63.
Analogamente riesce a convincere la Fabbriceria
a sperimentare i “suffitti in calce” in luogo di
quelli in legno di pino, nonostante in un primo
tempo i Fabbricieri avendo “dimandato ad un
maestro muratore foresto, ma che si era stabilito
a Neirone” si fossero scoraggiati di fronte al
prezzo esorbitante che il muratore aveva proposto sapendo che “nessuno a Roccatagliata sarebbe stato abile” a farli e riesce infine a dimostrare
che al contrario risultano più economici di quelli lignei64.
Nell’aprile del 1904 la Fabbriceria, considerata
conclusa la stagione di interventi a carattere
prettamente architettonico, “pel bene della chiesa e pel decoro della casa di Dio” decide di procedere ad un degno allestimento dell’area presbiteriale deliberando l’esecuzione di un coro in
legno di noce65. I lavori edilizi preparatori – consistenti nel rifacimento dell’intonaco66, con ese-
57 Ivi, 1898, 20 gennaio.
58 Ivi, 1899, 2 aprile.
59 Ivi, 1899, 2 aprile.
60 Ivi, 1899, 13 aprile.
61 APSMN (FR), Memorie di Roccatagliata, capitolo “Un po’ di storia”, p. 87.
62 Ibidem.
63 Ivi, p. 90.
64 Ivi, pp. 90-91.
65 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1904, 3 aprile.
66 Ivi, 1904, 3 aprile.
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cuzione a marmorino della porzione soprastante
il futuro coro, e nella realizzazione di una nicchia destinata ad ospitare la nuova statua del
Santo titolare67 – terminano all’inizio del gennaio 190568, ma il nuovo coro non viene effettivamente commissionato sino all’ottobre del
1906, quando il lavoro è affidato a Gio Batta
Gardella di Roccatagliata69, risultando ancora in
corso nel luglio del 190770.
Intanto nel 1906 si decide di ampliare la sacrestia “atteso la sua ristrettezza”71 e nel 1908 di
effettuare opere manutentive alla casa del curato72.
Nel 1911, con ritardo di trentacinque anni
rispetto ad analoga decisione assunta a San
Maurizio di Neirone73, si delibera di dotare l’aula di un organo “considerato che avendo già la
chiesa fatte varie spese, sia pel ristoro, sia pei
stucchi e pitture, sia per altre spese fatte come
l’abbassamento di 50 cm del pavimento, sarebbe bene e conveniente terminare l’opera” e si dà
incarico di redigere il progetto alla ditta Aletti
di Monza74. Il nuovo organo viene collaudato il
25 giugno 191175, mentre i lavori relativi all’orchestra che è stato necessario costruire in controfacciata terminano l’anno seguente76.
Per trent’anni, sin dall’epoca del suo prolungamento nel 1894, la chiesa è rimasta a facciata
non conclusa. All’opera si mette definitivamente mano nell’aprile del 1924, in concomitanza
con la decisione di procedere al “ristoro” del
campanile77, cui si aggiungono ben presto interventi di reintonacatura dei prospetti esterni
minori78. I lavori alla facciata, al campanile ed al
prospetto settentrionale vengono approvati
dalla Fabbriceria nell’ottobre del 1904, “rimandando l’intonacatura del muro della chiesa a
mezzogiorno e del coro nella prossima primavera quando il tempo ce lo permetterà”, come
effettivamente accade79. La facciata viene eseguita in cemento a lenta presa, poiché si considera che in questo modo possa resistere al gelo
meglio della calce80. Secondo la perizia redatta
da Giuseppe Caricci la spesa per l’intervento
alla facciata, campanile e prospetti esterni
minori ammonta alla considerevole cifra di lire
77.100 che, pur ridotte a 53.000 circa dall’ingegner Serafino Bernero, contattato in seguito
poiché l’Ufficio dei Benefici Vacanti di Torino
impone che le stime siano redatte da un professionista ingegnere o geometra, testimoniano
dell’estrema incidenza del costo dei trasporti a
dorso di mulo sulle forniture: Roccatagliata
“non ha alcuna strada carrozzabile” e “la distanza di 30 chilometri da Chiavari, da dove si deve
fare le provviste, rende il materiale con un
aumento gravissimo”.
Nel 1926 si delibera di commissionare a
Solferino Barsanti di Pietrasanta un nuovo pulpito in marmo per la somma di lire 800081 e nel
1928, a distanza di tre mesi esatti rispetto alla
chiesa di San Maurizio di Neirone, si decide di
“adornare la chiesa colla luce elettrica e si incarica il signor Casassa Giuseppe elettricista di
Cornia a fare l’impianto nella chiesa e nella
canonica”82.
67 Ivi, 1904, 10 aprile; ivi, 1904, 2 ottobre.
68 Ivi, 1905, 1 gennaio.
69 Ivi, 1906, 7 ottobre.
70 Ivi, 1907, 7 luglio. Per il coro e per la statua del santo titolare cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio…, in questo
volume.
71 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1906, 1 luglio.
72 Ivi, 1908, 5 gennaio; ivi, 1911, 2 aprile.
73 Cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive…, in questo volume.
74 APSMN (FR), Deliberazioni..., 1911, 2 aprile. Per l’organo cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio..., in questo volume.
75 APSMN (FR), Deliberazioni..., 1911, 7 luglio.
76 Ivi, 1912, 7 luglio.
77 Ivi, 1924-1925, perizia per facciata e campanile; ivi, 1924, 6 aprile; ivi, 1924, 6 luglio.
78 Ivi, 1924, 5 ottobre.
79 Ivi, 1925, 5 aprile.
80 APSMN (FR), Memorie di Roccatagliata, capitolo “Un po’ di storia”, pp. 200-208.
81 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1926, febbraio; ivi, 1926, 4 aprile; ivi, 1926, 4 luglio; per il pulpito cfr. A. ACORDON,
Roccatagliata. Note sul patrimonio…, in questo volume.
82 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1928, 1 luglio; cfr. C. SANGUINETI, Neirone. Fasi costruttive…, in questo volume.
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Se si eccettuano interventi minori quali il rifacimento del tetto della canonica, eseguito alla
fine degli anni trenta del Novecento83, l’unico
intervento edilizio di rilievo messo in cantiere
nel corso della restante parte del secolo è la
decisione, assunta nel 1946, di “rialzare il pavimento della chiesa che ha ceduto un poco in un
punto”84.
Nel 1955 “con i ricavati dei benefattori, delle
lotterie e delle offerte della chiesa viene ordinato il nuovo orologio del campanile”, commissionato alla ditta Terrile di Recco85, e successivamente si dà incarico al pittore Olindo Bandini
di Lavagna di eseguire una serie di decorazioni
interne che risultano in contrasto con il carattere della chiesa86.
83 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1939, 4 luglio.
84 Ivi, 1946, 10 luglio.
85 Ivi, 1955, 8 ottobre.
86 Ivi, 1955, 1 dicembre; cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio…, in questo volume.
- 211 -
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ROCCATAGLIATA
NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO
Angela Acordon
Il patrimonio artistico della chiesa di San
Lorenzo di Roccatagliata, eretta in parrocchia il
28 agosto 1646 a seguito del distacco da quella
di San Maurizio di Neirone1, venne formandosi nel corso della seconda metà del XVII secolo
e appare già ben delineato nell’accurato inventario steso il 13 novembre 1708 dal rettore
Giovanni Battista Foppiano2. L’atto assume
perciò una valenza notevole per la ricostruzione
della vicenda storica delle opere più antiche
della chiesa di San Lorenzo, per merito dei parrocchiani, e per nostra fortuna, quasi tutte
ancora conservate.
Fra le opere menzionate nell’inventario risultano di particolare interesse “una ancona in coro
dove è dipinta l’imagine di S. Lorenzo, e quella
di S. Ant.o con quella di Bart.o Apostolo attaccata al muro”, “un crocefisso più grosso per le
processioni”, “una statua di N.ra Sig.ra del
Rosario col suo Bambino in barccio [sic] con
sue corone di legno in parte inargentate in parte
indorate” e “una ancona ò sia quadro all’altare
del Crocifisso cõ pittura parimenti del
Crocifisso, cõ pittura anche di N.ra Sig.ra, e di
S.ta M.a Maddalena e l’anime del Purgatorio”.
Nessuna di queste opere, delle quali si riferirà
nel dettaglio più avanti, era menzionata nel
primo inventario della chiesa, compilato il 5
gennaio 1647 dal rettore Antonio Clerici3, ma
tanto in questo come nel precedente sono
segnalati altri oggetti liturgici, dei quali la
Fabbriceria si era evidentemente dotata subito
dopo l’erezione della chiesa in parrocchia: “un
tabernacolo di legno col gesso a forma di calice”, una pisside grande d’argento, una piccola
per portare il SS. Sacramento agli infermi, un
ostensorio d’argento4, “una ombrella di coio
rosso fodrata di tafetà crimasi” [sic]5, che nel
1708 viene definita vecchia6, “un sopracielo,
ossia baldacchino dello stesso coro con la sua
cornice”7, che l’inventario del 1708 specifica
essere di cuoio8 e un confessionale di legno
dolce9. Nessuno di questi oggetti, in effetti sottoposti a più facile deterioramento, è giunto
fino a noi e dispiace soprattutto per l’ombrello
e il baldacchino in cuoio, data la scarsità di
manufatti in tale materiale conservatisi, soprattutto in Liguria.
Anche le note di spesa segnate nel Libro della
Massaria dimostrano come i Fabbricieri si dettero subito molto da fare per dotare la neonata
parrocchia di quegli oggetti funzionali all’esercizio dei suoi compiti liturgici. Al 28 settembre
164610 risale l’acquisto dell’ombrello di cuoio
rosso (L. 23,14), del tabernacolo (L. 39,6), di
borse, tessuti per fare paramenti, lampadari, ecc.
portati a Roccatagliata da Genova il giorno successivo per una spesa di lire 3,611 ed è probabilmente ancora di quell’anno la “Notta del speso
dal Sig.r Sabino Canc.re dell’Ill.ma Cam.ra” relativa al “Sopracielo di coro dell’istesso del
param.to con sua manifattura” (L. 48), portato a
Roccatagliata da Genova da tale Rolando
Bastia il 31 dicembre 1646 per 2 lire, di quattro
candelieri, di due vasi di legno dorato e di due
fiori (L. 15,10), nonché del Sacrum Convivium
1 Cfr. C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note sulla chiesa di San Lorenzo e sul suo territorio, in questo volume.
2 ACC, fasc. 102.
3 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria S. Lorenzo di Roccatagliata. Si precisa che i documenti d’archivio della chiesa parrocchiale
di San Lorenzo di Roccatagliata sono conservati nell’archivio parrocchiale di San Maurizio a Neirone.
4 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... e ACC, fasc. 105.
5 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... .
6 ACC, fasc. 105.
7 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria… .
8 ACC, fasc. 105.
9 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... e ACC, fasc. 105.
10 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... .
11 Ibidem.
- 213 -
Fig. 1 Anonimo scultore del secolo XVII,
Madonna del Rosario.
(ossia una cartagloria) con cornice dorata (L.
8)12, quest’ultimo non più indicato nell’inventario del 1708. Seguono altri acquisti, fra i quali
un ostensorio d’argento (L. 92,5) comprato a
Genova presso un tale signor Lorenzo Pensa
Fravego (ossia argentiere)13, il battistero, di cui
si parlerà in seguito e per il quale il 27 agosto
1652 è indicata solo la spesa per il trasporto14,
nonché il dono di un turibolo in ottone con
navicella e cucchiaio da parte dell’Arcivescovo,
che attinse ai fondi delle Elemosine delle chiese povere15.
Terminati gli acquisti necessari, la Massaria
passò alla fase di abbellimento e arricchimento
della chiesa dotandosi di tele e statue. Attorno
o a poco dopo il 1663, data dell’erezione della
Compagnia del Rosario secondo quanto riferito
nella visita pastorale di Mons. Giuseppe Maria
Saporiti del 5 luglio 175016, potrebbe risalire la
statua lignea policroma raffigurante la Madonna
del Rosario (fig. 1), non indicata nell’inventario
del 5 gennaio 1647 e invece descritta in quello
del 13 novembre 1708. Lo stretto legame fra
l’opera e la Compagnia del Santissimo Rosario
è attestato dal fatto che essa fu probabilmente
commissionata e pagata dai confratelli, come si
evince dall’assenza di “note di spesa” relative ad
essa nel Libro della Massaria, anche se ciò non
può essere provato non essendo rimasto nell’archivio parrocchiale alcun registro relativo alla
Confraternita. La piccola scultura (cm 106 x
60) si inquadra stilisticamente nella produzione
lignea ligure della seconda metà del XVII secolo e rivela una discreta fattura nel non banale
andamento del panneggio e nei volti, caratterizzati da una certa fissità e dalla presenza di occhi
in pasta vitrea. Eseguita da un artista non di
primo piano, la statua è tuttavia offuscata da
una consistente ridipintura, che impedisce una
più congrua valutazione e un più veritiero
apprezzamento delle sue forme.
Per conto proprio la Massaria si impegnò invece nella commissione di due pale d’altare (figg.
2-3) da collocare rispettivamente nel coro e sull’altare verso l’Epistola, ossia quello del
Crocifisso. Entrambe le opere furono acquistate a Genova e commissionate a Bartolomeo
Castello, personalità apparentemente sfuggita
alle fonti antiche e della quale non sono stati
finora rintracciati altri lavori. La nota relativa
all’acquisto e alla commissione del primo dipinto (fig. 2) è così descritta nel Libro della
Massaria alla data del 19 luglio 1672: “Io P. Gio
Agostino Garbarino moderno rettore della
chiesa di San Lorenzo havendo visto l’urgente
bisogno ch’era in detta chiesa di una ancona dà
ponere in choro dove restasse impronto la
Pittura che rappresentasse il titolare S. Lorenzo
sono andato a Genova di compagnia di un di
detti massari ed ivi committi detta ancona al
12 Ibidem.
13 Ibidem.
14 Ivi, 1652, 21 marzo e 27 agosto.
15 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... .
16 ACC, fasc. 105.
- 214 -
Fig. 2 Bartolomeo Castello, San Lorenzo in trono
fra San Bartolomeo e Sant’Antonio.
Fig.3 Bartolomeo Castello, Crocifissione con Maria, San
Giovanni e Maria Maddalena.
Sig. Bartholomeo Castello quale si condusse a
casa li 20 agosto e costa tutto compreso ogni
cosa, L. 84”17. La tela andò certamente a sostituire l’ “anconetta vecchia nella quale è dipinta
l’imag.e della B. V. con il Bambino, S. Lorenzo
alla parte destra, all’altro San Bartolomeo apostolo” elencata fra i beni della chiesa nel 164718.
Nel commissionare la nuova pala, descritta con
precisione nell’inventario del 13 novembre
1708 come “una ancona in coro dove è dipinta
l’imagine di S. Lorenzo, e quella di S. Ant.o con
quella di Bart.o Apostolo”19, i Massari dettarono certamente al pittore la loro volontà iconografica, che, rispetto all’ancona più antica, privilegiava il ruolo del santo titolare Lorenzo, collocato al centro della tela, assiso su una nuvola,
in posizione dominante rispetto a San
Bartolomeo e a Sant’Antonio.
Anche per la seconda tela (fig. 3), che l’inventario del 1708 presenterà come “una ancona ò sia
quadro all’altare del Crocifisso cõ pittura parimenti del Crocifisso, cõ pittura anche di N.ra
Sig.ra, e di S.ta M.a. Maddalena e l’anime del
Purgatorio”20, è riportata menzione nel Libro
della Massaria: “1673, 6 giugno. Io medesimo
Rettore sono andato a Genova di compagnia di
Antonio Gardella del Corpus Domini per levare l’ancona del Crocifisso che si è posta nell’altare verso l’Epistola ed è stata fatta dal Sig.
Bartholomeo per la quale si è speso quanto si
dirà qui sotto tanto per detta Ancona quanto
per fornire il suo altare, e prima d’ancona simplice costa L. 57”21.
Pare davvero fortunata la coincidenza che
17 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... . Il libro spiega che 49 lire furono “prese da Andrea Gardella come massaro della
Madonna (…): il restante da pie persone della parrocchia”.
18 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria... .
19 ACC, fasc. 105.
20 Ibidem.
21 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria...; altre spese riguardarono la cornice dorata (L.1), la “tela verde scura per coprire detta
ancona all’altare palmi 23” (L. 7,13), “le zanche in ferro per ergerla” (L. 12) e due lire “al figlio di Benedetto il Pollaiolo di condutta”,
ossia, credo, per averla portata.
- 215 -
Fig. 4 Anonimo scultore ligure, fine secolo XVII
inizi secolo XVIII, Cristo crocifisso.
entrambe le opere, così ben documentate, siano
giunte in buono stato di conservazione fino a
noi e che sia loro affidato il compito di trasmettere il “volto” di un artista altrimenti sconosciuto22. Dall’analisi stilistica emerge un chiaro riferimento alla cultura di Giovanni Battista
Carlone, al quale rimandano per esempio le
tipologie degli angioletti e le vivaci note cromatiche, di Domenico Fiasella, di Orazio De
Ferrari e persino di Simon Vouet, la cui
Crocifissione per la chiesa del Gesù a Genova è
presente nella memoria di Bartolomeo Castello
mentre dipinge la sua tela raffigurante la
Crocifissione con Maria e i Santi Giovanni e
Maria Maddalena (fig. 3). Su questa base il pit-
tore innesta, con esiti affini a Giovanni Battista
Merano, alcune invenzioni di Valerio Castello,
come le sfrangiature che alleggeriscono i bordi
dei panneggi e alcune scelte fisionomiche. Tali
elementi fanno pensare a un artista formatosi
nella temperie naturalistica della prima metà
del XVII secolo, ma che recepisce le novità in
direzione barocca della metà del secolo, caratteristiche presenti anche nell’unica opera certa
finora rintracciata di Francesco Merano23 con la
quale le due tele di Bartolomeo Castello della
chiesa di San Lorenzo a Roccatagliata presentano significativi punti di contatto. Si tratta
della bella pala d’altare della chiesa di Santa
Maria di Nazareth a Sestri Levante raffigurante la Madonna col Bambino fra San Giovanni
Battista e San Lorenzo, che nel corso del restauro24 è risultata firmata da Francesco Merano e
databile per motivi documentari attorno al
1647. Pur non essendo questa la sede più indicata per ricostruire l’attività di Bartolomeo
Castello, mi preme almeno sottolineare l’esistenza di un’altra opera, che, grazie ai palmari
confronti stilistici, potrebbe essere riferita al
pittore, la Sacra Famiglia che appare a
Sant’Antonio di Padova con le Anime Purganti
della chiesa di San Vito a Marola in prossimità
della Spezia, già attribuita a Michelangelo
Bertolotto da Piero Donati25.
Appare piuttosto improbabile collegare a una
precisa citazione d’archivio la bella pisside in
argento attualmente non conservata in chiesa
per purtroppo ovvie ragioni di sicurezza. Di
tutta la suppellettile ecclesiastica menzionata
negli inventari e nelle varie note presenti nei
libri di spesa, la pisside, inquadrabile per stile,
tipologia e fattura ancora all’interno del XVII
secolo, costituisce l’oggetto più antico rimasto
alla parrocchia e palesa una notevole qualità
22 Di Bartolomeo Castello non è alcuna menzione nelle fonti antiche e neppure nei documenti rintracciati da Luigi Alfonso relativi
ai figli e ai parenti di Bernardo e Valerio Castello, cfr. L. ALFONSO 1968, 1, pp. 30-40; 2, pp. 28-45; 3, pp. 38-45.
23 Raffaele Soprani (1674, pp. 209-210) e Carlo Giuseppe Ratti (R. SOPRANI, C. G. RATTI 1769, pp. 324-327) dedicarono a
Francesco Merano una biografia, dicendolo nato nel 1619 e morto nella peste del 1657. Probabilmente riprendendo la notizia riportata dai fratelli Remondini (1890, p. 216), al pittore è stata assegnata anche la tela raffigurante la Carità conservata nella sagrestia della
chiesa di Santa Maria delle Nasche in Valle Sturla (M. A. CAMPANELLA 1980, p. 65).
24 Il restauro è stato eseguito con finanziamento statale - perizia n. 344\2002 - dal Laboratorio genovese di Elena Parenti sotto la direzione di Angela Acordon.
25 Cfr. P. DONATI 2001, pp. 46-49 e p. 116, scheda n. 18. L’attribuzione della tela di Marola a Bartolomeo Castello trova concorde
Massimo Bartoletti.
- 216 -
esecutiva nella semplicità dell’impianto e nella
scelta di un partito decorativo di sobria raffinatezza.
L’unica menzione di un “crocifisso grande” è
contenuta nell’inventario del 170826, che ne precisa la funzione processionale. Una datazione a
cavallo fra la fine del XVII e gli inizi del XVIII
secolo potrebbe essere in effetti applicabile al
non grande e molto rimaneggiato crocifisso
attualmente collocato sull’altar maggiore (fig.
4), caratterizzato da una secchezza di intaglio a
tratti quasi calligrafica che trova riscontri nella
produzione di scultura lignea tardo seicentesca.
L’assenza nell’archivio parrocchiale di notizie
relative alla commissione o all’acquisto dell’opera, la sua mancata menzione sia nell’inventario del 1708 che nella dettagliata visita pastorale di Mons. Saporiti del 175027, depongono a
favore della provenienza della tela raffigurante
la Madonna col Bambino e i Santi Bernardo,
Lucia, Antonio di Padova, Pietro martire, Agata e
Apollonia (fig. 5) da un’altra sede, probabilmente da una chiesa genovese soppressa, e fanno
comunque pensare più a una donazione che a
un atto volontario di acquisto da parte della
Fabbriceria. L’ipotesi è suffragata dal fatto che
nessuno dei santi rappresentati nel dipinto
risulta avere una specifica devozione in chiesa.
Eseguita anche dai suoi aiuti su un disegno di
Paolo Gerolamo Piola (Genova, 1666-1724), la
pala è stata considerata da Alessandra Toncini
Cabella un’opera della maturità dell’artista e
“un esempio di prodotto devozionale di tipo
imprenditoriale della bottega per la committenza chiesastica”28; aiuti che avrebbero dunque
agito sotto il controllo del maestro e col riferimento costante al suo disegno. Figlio di
Domenico e fortunato erede della famosa “Casa
Piola”, frequentatore a Roma di Carlo Maratta
e del più riposato eloquio degli scultori postberniniani, Paolo Gerolamo elaborò un’elegante formula pittorica di composto orientamento
Fig. 5 Paolo Gerolamo Piola,
Madonna col Bambino e i Santi Bernardo, Lucia,
Antonio di Padova, Pietro martire, Agata e Apollonia.
classicista, assai frequentata dagli artisti genovesi nel primo ventennio del XVIII secolo e
sottesa anche alla tela della chiesa di San
Lorenzo a Roccatagliata.
Al periodo compreso fra l’inventario del 1708 e
la visita pastorale del 5 luglio 1750 può essere
datato l’elegante tabernacolo per gli olii santi in
marmi misti (fig. 6) incassato, allora come ora,
sul retro dell’altare. Definito nella visita apostolica “ex cemento”, l’altare non può essere però
identificato con quello attuale, che secondo i
fratelli Remondini fu invece rifatto, e consacrato a San Lorenzo, proprio in quell’anno29.
L’altar maggiore (figg. 7-8), commissionato e
realizzato probabilmente poco dopo la visita
pastorale del 1750, si rivela stilisticamente e
strutturalmente molto simile alle opere note del
marmoraro Felice Solaro, autore documentato
dell’altar maggiore di San Rocco di Ognio e di
26 ACC, fasc. 105.
27 Ibidem.
28 Cfr. A. TONCINI CABELLA 2003, pp. 50-51, 142, scheda n. 86, con bibliografia precedente.
29 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 288. È interessante notare che l’8 agosto 1677 il rettore di San Lorenzo aveva acquistato un
tabernacolo usato dall’Arciprete di Uscio per lire 48 per collocarlo sull’altar maggiore. Il tabernacolo, del quale non è specificato il
materiale, non sembra però poter essere identificato con quello ora sull’altar maggiore.
- 217 -
Fig. 6 Anonimo lapicida ligure della prima metà
del secolo XVIII, tabernacolo per gli olii santi.
altre opere nel territorio dell’attuale Diocesi di
Chiavari30. L’altare di San Lorenzo a
Roccatagliata presenta infatti una notevole affinità di concezione con quello della chiesa di
Santa Margherita a Moconesi, eseguito da
Felice Solaro nel 174831, in particolare nella fattura del paliotto e del cartiglio e nella resa degli
angeli, in entrambi i casi rappresentati a busto
intero (fig. 8). Per tali elementi ritengo almeno
plausibile un riferimento attributivo dell’altare
di San Lorenzo, restaurato nel 1897 da Enrico
Campofiorito marmista di Chiavari32, alla per-
sonalità di Felice Solaro e una sua datazione di
poco posteriore al 1750.
Fra l’inventario del 1708, dove non è citato, e la
visita pastorale del 175033, che invece lo descrive, cade l’esecuzione del dipinto raffigurante
San Michele Arcangelo che scaccia il Demonio, realizzato da un pittore di estrazione popolare e
ancora collocato sull’altare intitolato al santo,
per il quale fu eseguito.
Nel 1892 ebbero inizio le spese per l’ampliamento e il rinnovo della cappella di Nostra
Signora del Carmine34 nelle quali rientra un
esborso di lire 200 per i due quadri raffiguranti
la Madonna consegna lo scapolare a San Simone
Stock e la Madonna consegna la lettera a Santa
Chiara, dipinti da un non altrimenti noto Carlo
Cassana35. Al termine dei lavori la cappella fu
dotata di una statua lignea policroma raffigurante Nostra Signora del Carmine col Bambino
(fig. 9), che andò a sostituire il dipinto con lo
stesso soggetto descritto nella visita del 1750
sull’altare della Compagnia omonima36.
Commissionata a un certo Medardo Borelli,
attivo anche per la chiesa di Neirone e che la
eseguì nel 1902-1903 per un compenso di 300
lire37, la graziosa scultura - oggi non più sul suo
altare dove è stata collocata una statua di identico soggetto in cartone romano e garza gessati
e policromi - è impostata secondo l’ordinata
impronta accademica della fine del XIX e degli
inizi del XX secolo e si approssima al linguaggio di Antonio Canepa e degli scultori del
tempo.
Allo stesso Medardo Borelli la Fabbriceria si
rivolse anche per altri lavori38 fra i quali l’esecuzione della statua lignea del santo titolare
30 Su Felice Solaro, cfr. F. FRANCHINI GUELFI 2000, pp. 514-516 e A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
31 Cfr. V. BELLONI 1990, pp. 24-26.
32 APSMN (FR), Deliberazioni della Fabbriceria dal 1891, 4 aprile 1897.
33 ACC, fasc. 105.
34 Cfr. C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume.
35 APSMN (FR), Memorie di Roccatagliata.
36 ACC, fascicolo 105. Cfr. anche A. e M. REMONDINI 1890, p. 287: l’altare “del Carmine in istatua dagli esordi del presente secolo, che prima era in ancona”.
37 APSMN (FR), Memorie…, 1902; Deliberazioni…, 5 aprile 1903. Parlando dell’esecuzione degli stucchi della chiesa eseguiti nel
1890, per i quali si veda C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume, si precisa che Medardo Borelli era domiciliato
in Lavagna, cfr. Memorie... . Sull’artista, cfr. anche C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume e A. ACORDON,
Neirone, Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
38 Cfr. C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume.
- 218 -
Fig. 7 Felice Solaro ?, Altare maggiore.
Lorenzo (fig. 10), donata alla chiesa nel 1905
da Angelo Pensa fu Pasquale dei Castiglinchi39.
La statua fu concepita per essere collocata in
una nicchia che si andava contemporaneamente
scavando nel muro dell’abside sopra il coro
ligneo, per il cui disegno nel 1894 era stato contattato lo stesso Medardo Borelli40, ma che nell’ottobre del 1906 venne affidato al falegname
Gio Batta Gardella Silvestri41. Questi agì sulla
base di un proprio progetto e con l’aiuto di
Federico Gardella, anch’egli falegname42, conducendo a termine l’opera, come da data apposta sul cartiglio del seggio centrale, nel 1907.
Realizzato in legno di noce acquistato presso il
signor Luigi Cerdano di Favale43, che doveva
avere anche la qualifica di doratore dati i lavori
svolti per la cappella del Carmine44, il coro presenta una severa linea classicheggiante spezzata
dall’introduzione di elementi ornamentali vegetali aggettanti che conferiscono al manufatto
una piacevole e sottile vibrazione chiaroscurale.
Da un’ancor più sobria e razionale concezione
scaturisce il grande mobile in legno di noce da
sagrestia, la cui esecuzione fu deliberata dalla
Fabbriceria il 5 gennaio 190245.
Nel 1905 un certo Bacigalupo, fabbro ferraio di
Cicagna, riceve 100 lire per il cancello del
Battistero46, la cui datazione appare piuttosto
39 APSMN (FR), Memorie…, 1905. Della statua si parla anche nel libro delle Deliberazioni alle date 10 aprile, 3 luglio e 2 ottobre
1904.
40 APSMN (FR), Deliberazioni... .
41 Ibidem.
42 APSLR (FR), Memorie… .
43 APSMN (FR), Memorie…, 1904 e 1907; Deliberazioni…, 1904.
44 Cfr. C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume.
45 APSMN (FR), Deliberazioni… .
46 APSMN (FR), Memorie… .
- 219 -
Fig. 8 Felice Solaro ?, Altare maggiore (particolare).
complessa. Fin dal 1652 sono infatti segnalate
spese per il trasporto del battistero a
Roccatagliata47, mentre nel 1673 si parla di una
pietra in marmo per l’acqua benedetta, costata
11 lire compreso il trasporto48 e nel 1674 vengono pagati “due maestri lignanari di
Immontagna” per aver eseguito, fra le altre
cose49, “interno al battistero una custodia, con
una cassetta dove si sono posti gli ogli sacri et
acqua benedetta”50. Nella visita pastorale del 5
luglio 175051 è certamente presente un conopeo
ligneo ritenuto decente dal visitatore apostolico, che peraltro ordina che esso venga completato con l’introduzione sulla sommità di un’im-
magine di San Giovanni Battista benedicente.
Il conopeo descritto nel 1750 potrebbe corrispondere a quello ancora conservato, mentre la
pila marmorea parrebbe successiva a quella
portata a Roccatagliata nel 1652. Il complesso,
costituito da elementi di epoche diverse,
potrebbe dunque datarsi fra la prima metà del
XVIII e l’inizio del XIX secolo.
L’attività della Fabbriceria prosegue abbastanza
intensamente nei primi anni del XX secolo con
l’acquisto di 24 candelieri dall’indoratore Luigi
Carpi, attivo anche per le chiese di San
Maurizio di Neirone e di San Marco d’Urri52,
ma soprattutto con la commissione dell’organo,
sentito come atto finale di una serie di importanti lavori fatti per la chiesa. Così almeno traspare dalla riunione della Fabbriceria del 2
aprile 1911: “il presidente fa la proposta di
comprare l’organo. Considerato che avendo già
la chiesa fatte varie spese, sia pel ristoro, sia pei
stucchi e pitture, sia per altre spese fatte come
l’abbassamento di 50 cm del pavimento, sarebbe bene e conveniente terminare l’opera facendo l’organo. Se ne approva la costruzione. Si
presenta un progetto della spettabile ditta
Aletti di Monza del prezzo di £ 3300, esaminato bene il progetto si venne al contratto con
tutte le condizioni che si trovano descritte
all’ultimo del presente volume firmato a
Roccatagliata il 28 febbraio 1911”53. Eseguito
dalla ditta Aletti di Monza54 sulla base di un
dettagliato progetto conservato nell’archivio
parrocchiale55, il nuovo strumento raccolse il
plauso di Don Stefano Ferro, organista di San
Lorenzo, che rilasciò l’atto di collaudo il 25
giugno 1911, come risulta da un breve articolo
comparso a sua firma sul “Cittadino” del 7
47 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria…,1652, 21 marzo: “spesi nel camallo per levar il Batisterio, L. 94”; 27 agosto: “Agostino
Gardella q. Rocco massaro hà speso in far portare il Batisterio alla Marina alli camalli L. 12; Jo Rettore hò speso in farlo portar da
Recco da cinque come dal lib.o giornale della fabbrica in tutto L. 3,5”.
48 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria… .
49 Cfr. C. SANGUINETI, Roccatagliata. Note ..., in questo volume.
50 APSMN (FR), 1646 Libro della Massaria… .
51 ACC, fasc. 105.
52 “A Carpi Luigi indoratore da Genova per 24 candelieri indorati per altari bassi, L. 200” (cfr. APSMN (FR), Memorie...). Sui lavori
per le altre chiese, cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.; EADEM, Neirone. Note sul
patrimonio ..., in questo volume.
53 APSMN (FR), Deliberazioni… .
54 Cfr. F. MACERA, D. MERELLO, D. MINETTI 2000, p. 156.
55 APSMN (FR), Memorie… .
- 220 -
Fig. 9 Medardo Borelli, Madonna del Carmine.
Fig. 10 Medardo Borelli, San Lorenzo.
luglio di quell’anno56.
Nel 1914, per ricordare il padre scomparso,
Giovanna Gardella donò alla chiesa le due
vetrate ancora presenti nel coro, realizzate dalla
ditta “Il Vetro Artistico” di Bogliasco e costate
925 lire, mentre Maria Gardella contribuì con
200 lire alla realizzazione di due nuovi confessionali, eseguiti per 600 lire dal falegname Gio
Batta Gardella57 e ancora presenti in chiesa.
Con motu proprio e a spese proprie la
Fabbriceria decise invece di dotare la chiesa di
un nuovo pulpito, come risulta dalla riunione
del 4 aprile 192658. L’opera fu affidata al signor
Alfredo, figlio di Solferino Barsanti di
Pietrasanta, che ricevette 5000 lire di acconto e
fu saldato il 4 luglio 192659. I lavori ammontarono a 9000 lire, 800 delle quali per spese accessorie60, dunque qualcosa di più delle 8000 lire
previste il 4 luglio. Nel libro Memorie di
Roccatagliata si racconta infatti che l’8 maggio il
pulpito fu spedito da Pietrasanta alla stazione di
Lavagna e che il 19 aprile 1927, apparendo i
quattro specchi in marmo troppo miseri,
Alfredo Barsanti si recò a Roccatagliata per collocarvi quattro testine di angeli per un’aggiunta
di 200 lire “tutto compreso si arriverà a lire
9000”61.
Il 10 agosto 1942, l’ordine del giorno della riunione della Fabbriceria riguarda la sottoscrizione di un’offerta per la rifusione della campana
rotta62. Venti giorni dopo, il 30 agosto, raccolti
evidentemente i fondi necessari, si decide di
procedere alla rifusione della campana maggiore e si pongono le condizioni al Signor
Picasso63. Infatti, nel libro delle Memorie di
Roccatagliata, alla data 16 settembre 1942, il
56 APSMN (FR), Deliberazioni… e Memorie... .
57 APSMN (FR), Memorie… .
58 APSMN (FR), Deliberazioni…, 1926, 4 febbraio e 4 aprile .
59 APSMN (FR), Ivi.
60 APSMN (FR), Memorie… .
61 Ibidem.
62 APSMN (FR), Deliberazioni… .
63 Ibidem.
- 221 -
sacerdote Enrico Peirano riferisce che il 30 agosto i fratelli Picasso di Avegno portarono a
Recco la campana maggiore rotta per procedere
alla rifusione. Questi dati, che sono gli unici
riguardanti le campane della chiesa, contrastano
lievemente con quanto esperito da Giorgio
Costa, incaricato dalla Curia di Chiavari di un
censimento completo delle campane conservate
nel territorio di competenza della Diocesi. La
campana rifusa nel 1942 non è la maggiore, ma
la seconda, in sol. Tutte le campane furono realizzate nel 1863 da Enrico Picasso di Avegno,
ma solo la maggiore, in fa e la quarta, in si
bemolle, sono ancora quelle originali, la seconda, in sol, fu come detto rifusa nel 1942, la
terza, in la, nel 1994.
Il 1° dicembre 1955 il pittore Olindo Bandini,
residente a Lavagna, è invitato dal parroco e
dalla Fabbriceria a iniziare la decorazione ad
affresco della chiesa. In uno stile naive di forti
policromie che stonano con la sobrietà dell’insieme architettonico e delle opere d’arte in esso
contenute, il pittore esegue le due tele del presbiterio e tutti i riquadri che ancora ornano le
pareti e le volte dell’edificio per una spesa totale di 350.000 lire pagatagli in quattro rate dal
19 dicembre 1955 al 17 marzo 195664. Nato a
Meldola, presso Forlì, nel 1914, il pittore, ancora in vita nel 1991 frequentò la Scuola d’Arte a
Chiavari dal 1929 al 1935 per poi dedicarsi alla
pittura da autodidatta. Oltre che a San Lorenzo
a Roccatagliata, eseguì lavori per l’albergo
Aurelia di Cavi di Lavagna, il teatro Astor di
Chiavari e la chiesa di San Luigi a Roma65.
64 APSMN (FR), Deliberazioni… . Francesco Sena (1981, p. 112), penso confondendosi con quelli della chiesa di San Maurizio di
Neirone, riferisce gli affreschi a Giovanni Battista Ghigliotti e li dice eseguiti nel 1892.
65 Cfr. Dizionario degli artisti… , 1991, pp. 19-20, dove sono citati anche gli affreschi di Roccatagliata.
Le foto sono dell’Archivio della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Liguria (Daria
Vinco).
- 222 -
CHIESA DI SAN ROCCO DI OGNIO
NOTIZIE STORICHE
Stefano Montinari
La chiesa di San Rocco, che costituisce il fulcro
del piccolo nucleo di Ognio, è situata all’intersezione tra la strada di mezza costa che unisce
San Marco d’Urri e Neirone con quella che proviene dalla frazione di Acqua di Ognio attestata lungo la Strada Statale della Fontanabuona.
L’attuale ampio slargo su cui essa prospetta è
una creazione recente, giacché in origine la
piazza doveva essere di dimensioni più contenute ed era interamente circondata da edifici,
mantenendo perciò un carattere decisamente
più intimo e raccolto.
L’edificio è caratterizzato da una semplice facciata conclusa da un timpano triangolare al centro della quale, tra il sobrio portale di ingresso e
l’occhio quadrilobato, troneggia la statua del
Santo titolare: in effetti, all’esterno, l’elemento
di maggior rilievo è costituito dallo svettante
campanile, ubicato sul retro e realizzato, in queste forme, tra il 1922 ed il 1924.
La chiesa è ad unica navata e si sviluppa per 7,5
m in larghezza e 13 in lunghezza, oltre il presbiterio e il coro profondo 7 m; addossata alla
chiesa, sul lato sinistro, è la sacrestia con accesso indipendente.
Prima di analizzare le vicende storiche che
hanno concorso alla realizzazione dell’edificio,
può essere interessante trascrivere la descrizione
che ne danno i Remondini verso la fine
dell’800: “(…) La chiesa che sta rivolta col coro
a levante, è un vaso ad una nave, goffamente
dipinta nel 1837, ha cinque altari (…). Degli
altari il primo a destra di chi entra è sacro ai SS.
Biagio e Gio. Batta, il secondo dal principio di
questo secolo è intitolato a S. Vincenzo de’
Paoli, surrogato al Crocifisso: il terzo è il maggiore veramente bello: egli fu eretto in marmo
nel 1757 come da marmetto nel pavimento, non
1750 come scrisse il Rett. Giovanni Andrea
Raffetto, e in coro è la statua in legno del Santo,
e nuovi scanni in noce dal 1868. (...) Il quarto
altare è del Rosario con statua vestita di stoffa,
il quinto già era dei SS. Antonio di Padova e
Pasquale Bajlon, ma a mezzo il secolo presente
si volle intitolato a N.S. del Carmine con apposita ancona. Anco gli altari del SS. Rosario, e di
S. Vincenzo sono in marmo dal 1876 ma non
corrispondono alla bellezza dell’altar maggiore.
Un anno prima cioè nel 1875 sulla facciata della
chiesa fu posta in marmo una statua del santo
titolare”1.
Ai Remondini, che nella suddetta descrizione
incorrono in alcuni errori di datazione di cui si
dirà più oltre, si deve tuttavia il reperimento
delle prime notizie documentarie relative al
borgo di Ognio, ossia quelle tratte dai Registri
Arcivescovili degli anni 1147 e 1149: in merito
alla locazione di alcune terre si dice, infatti, che
alcuni “Homines de agonia dant solidos IIII pro
manentatico de terris que sunt in his pertinentiis” ed anche che “laus de scatico et alpiatico
hominum de Neironi… et de agonio et de
hurri…”2.
Nulla è dato sapere invece circa l’eventuale esistenza di una chiesa che, al più, poteva essere
costituita da una piccola cappella, tanto che non
se ne ha alcuna citazione né nei documenti del
1311 e del 1387, né tanto meno in quelli cinquecenteschi costituiti dagli Annali del
Giustiniani (1536) e dalle relazioni di Mons.
Bossio (1582)3.
Si può presumere, pertanto, che la costruzione
del primo nucleo dell’attuale edificio sia da far
risalire agli anni compresi tra il 1582 ed il 1603,
che è poi la data ampiamente acquisita dell’erezione in parrocchia della chiesa di San Rocco,
da parte dell’Arcivescovo di Genova, Mons.
Orazio Spinola, che la assoggetta alla Plebania
di Uscio4.
Il giorno 8 gennaio 1619, con apposita bolla,
1 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, pp. 292-293.
2 Ivi, p. 292. Cfr. anche F. SENA 1981, p. 116 e segg.
3 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 293.
4 Ibidem. Cfr. APSRO, fascicoli vari. La data del 1603 è riportata in molti dei volumi conservati in archivio.
- 223 -
Fig. 1 Ognio, chiesa di San Rocco: pianta, scala 1:200 (elaborazione grafica R. Eseguiti).
viene istituita presso la chiesa la Confraternita
del Santissimo Rosario poi detta anche della
Madonna. Nella fedele traduzione di Don
Paolo Chighizola, datata 29/08/1818, si legge
tra l’altro: “Vogliamo noi e onninamente
comandiamo che si osservi, cioè che nella circonferenza del venerabile quadro di detta capella li Sacri 15 Misteri della Nostra Redenzione si
dipingano, ed anco per il consentaneo riconoscimento di questa concessione nel medesimo
quadro il Ritratto venerabile del Santo nostro
Padre Domenico del sacro Rosario autore in
atto di ricevere in ginocchio dalla mano della
Vergine Maria la coroncina d’orazione similmente si dipinga”5.
È del 10 giugno 1634 l’istituzione della
Compagnia del Corpus Domini6, mentre nessuna notizia si ha della formale erezione della
Confraternita di San Biagio, anche se si pensa
di poterla riferire al 1637 o al più tardi al 1639,
5 APSRO, Bolla generale dell’Ordine dei Predicatori e Priore del Convento di S. Domenico di Genova, Gabriele Rosso, avente ad
oggetto l’istituzione, nella Chiesa Parrocchiale di Ognio, della Confraternita del Rosario (il Documento, che conserva il sigillo originale dell’Ordine, è datato 08/01/1619), alla presenza, tra gli altri, del Cardinale Antonio Barberino, protettore della Pia ed universale
arciconfraternita del SS. Sacramento nel tempio della B. Maria Minerva in Roma. Il vero e proprio atto costitutivo, che precede la
bolla, risale ad alcuni anni prima ovvero al 22/04/1616, in Roma, presso il Convento di Santa Maria sopra Minerva.
6 APSRO, Miscellaneo lavoro per questa Chiesa Parrocchiale di San Rocco d’Ognio lavoro di Paolo Chichizola moderno parroco di Ognio addì
27 giugno 1818. L’istituzione venne pubblicata in Vaticano il 03/07/1634 ed esiste copia dell’atto costitutivo trascritto, appunto, da
Don Paolo Chighizola.
- 224 -
data del primo registro della Compagnia conservato presso l’archivio parrocchiale7.
Il periodo tra il 1635 ed il 1645 è caratterizzato
da un’intensa attività edilizia, grazie soprattutto
all’apporto determinante proprio delle confraternite e ad alcuni lasciti specifici aventi per
oggetto opere in via di completamento o da realizzarsi ex novo nella chiesa: dal sopra menzionato registro si riesce a desumere la data di realizzazione del primo altare di San Biagio, ovvero gli anni 1637-1638 (“la Compagnia di S.
Biagio spende per essere andati a comprare la
calcina e più per aver fatto fare l’altare del S.to
Biaggio”8) e quella della relativa ancona per la
quale si incarica un artista genovese, come
ampiamente descritto da Angela Acordon nelle
note sul patrimonio artistico9, mentre dal libro
dei Legati alla Chiesa si apprendono alcune
notizie relative allo stato di compimento delle
altre cappelle.
In quegli stessi anni, infatti, sono registrati
numerosi lasciti alla Cappella del Rosario o
della Madonna, a quella del Crocefisso o di S.to
Terrenziano (1635), alla Cappella di N. S. Gesù
Cristo, poi del Corpus Domini (1639), tutte
quindi esistenti in una qualche forma, seppur
molto semplice, mentre sembrerebbero ancora
in fase di completamento le coperture, sulle
quali il maestro Batta Monaco interviene nel
1638-1640 e la zona del coro, per la quale si
registra un “lascito per fabricare o il coro o il
campanino” (1637)10.
A proposito della realizzazione dell’altar maggiore, nel 1642 è registrata una curiosa spesa
“per hauere amazzato il maialone quando si fece
l’altare” mentre dello stesso anno è un lascito
per “ogni volta che faranno fare l’altare in mezo
del coro o per calcina o per pagare li maestri
quando si farà e il donante sarà morto”11 e pertanto si può considerare questo come l’anno di
inizio dei lavori dell’altare originario, per certo
concluso poco dopo.
Nel 1646, per volontà dell’Arcivescovo di
Genova, Card. Stefano Durazzo, il comune di
Neirone viene eretto in vicariato indipendente
da quello di Uscio e, proprio in quell’occasione,
si redige una relazione che illustra lo stato della
parrocchia: essa è incentrata prevalentemente
sul numero di fedeli che hanno ricevuto o devono ancora ricevere il Santissimo Sacramento e
sulla povertà della chiesa12, oltre a contenere in
allegato l’inventario dei beni compilato dal
Rettore Giuseppe Cagnolo13.
A seguito dell’erezione in vicariato, come si
evince dai registri delle Confraternite nonché
dal Libro dei Conti che data a partire dal
164814, i lavori subiscono un certo incremento
nel ventennio 1646-1666 e riguardano tanto le
parti cosiddette comuni, quanto le singole cappelle.
Da un lato, infatti, i Massari della Chiesa finanziano i lavori all’apparato dell’altar maggiore15,
quelli del coro, dove si spende per realizzare “la
cornisione in legno”, per sistemare le finestre e
le relative vetrate ed infine “per astrigare il coro”
(1652)16; quelli in canonica, dove si consolida
“la muraglia (…) che voleva andare giù”17 e in
sacrestia, ove si porta a compimento la pavimentazione, ed infine quelli per il campanile
che viene completato anche per quanto attiene
alle campane, riparando prima quella esistente
(1648) e successivamente acquistandone una
nuova (1670)18.
Contemporaneamente le singole Confraternite,
con propri fondi, si occupano delle rispettive
cappelle cercando di dar loro una forma com-
7 APSRO, Libro della Compagnia di S. Biagio dal 1639.
8 Ibidem.
9 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
10 APSRO, Libro de’ Legati della Chiesa di Ognio dal 1635, 1635-1645.
11 Ivi, 1642.
12 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1646. Stato antico della nostra Parrocchia di Ognio, datato 24 aprile.
13 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio …, in questo volume.
14 APSRO, Libro de’ Conti vecchi della Chiesa di Ognio.
15 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio …, in questo volume.
16 APSRO, Libro de’ Legati ..., 1647, 1652.
17 Ivi, 1663.
18 Ivi, 1648, 1670.
- 225 -
Fig. 2 Ognio, chiesa di San Rocco: prospetto principale
(foto R. Palmisani).
piuta: la Cappella del Crocefisso sembrerebbe la
prima ad essere terminata giacché nel 1647 si
sta già provvedendo ad abbellirne l’altare19; la
Cappella dedicata alla Beata Vergine del
Rosario sembrerebbe invece risalire agli anni
intorno al 1659-64 giacché la Compagnia
“spende per fare delle pietre e andare a Genova
a comprare calcina e matoni, per chiappe, per
fare la capella della Madonna” (1659) e “spende
per le vetriate, per li maestri” (1664)20; quella
del Corpus Domini è oggetto di un qualche
restauro nel 1662 “speso per maestro Giacomo
Martinelli cioè dato a lui per la capella del
Corpus Domini L. 21, per giornate e chiappe di
maestro Crosiglia, per calcina, per fare pietre,
per calcina”.
Infine la Cappella di San Biagio, il cui altare,
come abbiamo visto, è esistente dal 1637, può
dirsi conclusa nel 1666, avendo la Compagnia
speso “per Maestro Gio Angelo Crosiglia e
chiappe, per Maestro Giacomo Martinello, per
fare delle pietre” (1665), “per la vedriada della
meza luna di S.to Biaggio, per fare abelire la
capella di S.to B., per la chiappa dello altare, per
la licenza per benedire la capella” (1666)21.
L’entusiasmo che accompagna la realizzazione
dei cinque altari in questo ventennio viene
molto ridimensionato per la consueta carenza
di fondi che attanaglia spesso le chiese cosiddette “povere” e quindi nel 1664 la chiesa è
costretta a chiedere l’autorizzazione a demolire
due degli altari già realizzati perché non si riescono a mantenerne gli apparati, dichiarando
che quelli rimanenti saranno “apparati alla
decenza”: la curia autorizza la demolizione dei
due altari che provocano minor deformità22.
Il 15/04/1682 il visitatore apostolico Giulio
Gentile, Arcivescovo di Genova, visita la chiesa
emanando successivamente un decreto contenente alcune prescrizioni relative alle decorazioni, mentre non sembrerebbe che debbano
essere compiute modifiche di tipo strutturale, il
che fa pensare che la chiesa, in detta epoca,
dovesse aver raggiunto una certa compiutezza
nella forma.
Tra l’altro vi si legge: “La Chiesa parrocchiale di
S. Rocco di Ognio visitandone ha decretato
come di sotto alla cui chiesa per Rettore serve il
Rev.do Antonio Guerneri ha decretato dico, le
anime di ricever il SS.mo Sacramento
dell’Eucarestia capaci n. 220, incapaci n. 100.
(…) Vi sono delle Compagnie. (…) Si indori la
chiave del Tabernacolo. Si rinnuovi l’oro della
Pisside e la si resti. L’ostia dipinta nella portetta del T. sia bianca. Nella lunetta del’Ostensorio
si rinnuovi l’oro. La pisside per l’infermi nella
parte superiore ed il di lei coperchio di dentro
s’indori e di fuori si (?) dealbi e se le metta la
croce con la chiavetta. Il sacrario si chiuda con
portetta e chiave. Si accrescano i fanali fino a
sei. Insegni il Rettore in tutte le domeniche la
19 Ivi, 1647.
20 APSRO, 1647. Libro della Compagnia della B. V. del Rosario detto anche della Madonna, 1659-1664.
21 APSRO, Libro della Compagnia di San Biagio ..., 1665-1666.
22 ACC, fasc. 86, cartella 1601-1700, 1664, 21 luglio.
- 226 -
dottrina cristiana pena la sospensione”23.
Alcune piccole migliorie sono comunque
apportate anche negli anni compresi tra il 1682
ed i primissimi anni del ‘700, con particolare
riferimento ancora alle vetrate del coro24, alle
coperture25 ed alla nuova campana26: tuttavia
questi lavori di modesta entità non sono sufficienti a scongiurare la situazione di grave
degrado nella quale la chiesa viene a trovarsi
negli anni intorno al 1718.
La prima supplica del Rettore di Ognio, Gio
Agostino Guarnero e dei Massari della Chiesa
Gio Bacigalupo e Giuseppe Raffetto riferisce
infatti che nel 1718 “La chiesa di Ognio minaccia rovina et è in sito di grande indecenza, il ché
non si può riparare se non con rifarla da’ fondamenti”27, e lo stesso avviene con le petizioni
successive del 1723 e del 1730, quest’ultima
tramite il procuratore Giulio Bacigalupo, costituito dai Massari stessi il 27/05/1728, il quale
avanza un’accorata supplica per ricevere fondi.
In detta supplica si legge infatti che “è diroccata la Chiesa Parrocchiale di S. Rocco della Villa
di Ognio. Il culto divino richiede che sia reedificata per la salvezza eterna di tante anime le
quali benché miserabilissime sono state pur
redente col preziosissimo sangue di nostro
Signore Gesù Cristo (…). Siccome questo si
rende impossibile di ciò eseguir non avendo più
chiesa (…), essendo diroccato il preesistente
sacro edificio (…)”28.
E, nonostante l’enfasi drammatica che spesso
caratterizza queste richieste di fondi, si dovrebbe poter affermare che lo stato della chiesa
doveva essere effettivamente miserrimo giacché
negli anni a partire dal 1728 sono documentati
lavori di un certo peso in tutti i registri di spesa
delle singole confraternite e nel già citato Libro
dei Conti vecchi della Chiesa di S. Rocco di Ognio.
Negli anni fino al 1740, in particolare, sono
registrati numerosi pagamenti ai vari capo
mastri e muratori, tra cui Stefano Raffetto e
Giacomo detto il Salto, per il rifacimento della
facciata29, della porta30 e del campanile31, oltre
che naturalmente per la canonica 32.
Un discorso a parte lo meritano gli arredi e gli
altari: se dei primi narra ampiamente Angela
Acordon nella sua trattazione33, relativamente a
questi ultimi, che come abbiamo visto dovevano
essere stati ridotti da cinque a tre nel 1664, sap-
23 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1582. “Documento antico, 1682 giorno di mercoledì 15 di aprile a mezzogiorno Visita Pastorale.
Ill.mo e Rev.mo Giulio Vincenzo Gentile arcivescovo di Genova e visitatore apostolico”. Esiste sia l’originale, datato 27/11/1684, che
l’estratto, copiato da Don Paolo Chighizola e datato 02/02/1819.
24 APSRO, 1647. Libro della Compagnia …, 1684: la Compagnia del Rosario “spende per la vetriata del coro”. Ivi, 1684: la Compagnia
di San Biagio ha “pigliato in cascietta per la vedriada del coro”. APSRO, Libro de’ Conti vecchi …, 1685: i Massari della Chiesa hanno
“speso per la vedriada del coro”.
25 APSRO, Libro della Compagnia di S. Biagio…, 1694-1695. La Compagnia di San Biagio ha “speso delli denari di S.to Biaggio, per
tante chiappe per coprire la chiesa” (1694); “di più pagato per chiappe per la chiesa”(1695).
26 APSRO, 1647. Libro della Compagnia…, 1703. La Compagnia del Rosario “spende per far fondere la campana”. APSRO, Libro de’
Conti vecchi…, 1700-1703. I Massari della Chiesa hanno “speso per la campana, per il batacchio della campana grossa” (1700), “pagato per il resto della campana al signor Innocenzo Guano d’ordine del campanaro” (1701), “per fare la campana” (1703). APSRO, Libro
della Chiesa dal 1661 al 1745, 1703. Si é “speso per far fondere la campana in tutto per metallo e per il pagamento delli operai”.
27 ACC, fascicolo 86, cartella 1701-1800. 1718, 14 maggio. Giacché la chiesa non ha un proprio reddito, si chiede di poter vendere due
terreni della chiesa col cui ricavato si potrà dare principio alla fabbrica. Richiesta analoga per un altro terreno da vendere alla chiesa di
Lumarzo dell’aprile 1723: presumibilmente il terreno è stato venduto ma sono sorte delle controversie che si chiede al parroco di
placare.
28 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1730. Antica petizione, datata 7 giugno, copiata da Don Paolo Chighizola il 16/06/1820.
29 APSRO, 1647. Libro della Compagnia…, 1728. La Compagnia del Rosario “spende per la fabbrica della chiesa cioè pagare li maestri,
e ancora per la fabbrica e per il medio della facciata”. Seguono altri pagamenti nel 1729, 1735, 1738. Analoghe spese, anche nei confronti dei muratori, sono sostenute nello stesso periodo dalla Compagnia di San Biagio (1729), dai Massari della Chiesa (1728, 1729,
1730, 1734), dalla Compagnia del Corpus Domini (1730, 1731).
30 APSRO, Libro della Chiesa…, 1732. “Spese fatte per condurre le pilastrate delle porte; per comprare la pilastrata delle porte e per
scopelino di sua spesa e più dato a maestro Giacomo detto il Salto per le sue giornate fatte in chiesa L. 326, per chiappe per li altari,
per hauere fatto la porta della chiesa”.
31 APSRO, Libro della Chiesa…, 1727-1728. “Speso per resto per calcina quando si è fabbricato il campanile”.
32 APSRO, 1647. Libro della Compagnia…, 1737, 1739. Sono documentate nel relativo registro agli stessi anni anche altre spese da
parte dei Massari della Compagnia di San Biagio.
33 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio…, in questo volume.
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Fig. 3 Ognio, chiesa di San Rocco: volta (foto R.
Palmisani).
piamo per certo che si interviene sull’altare del
Corpus Domini e su quello della Madonna,
oltre che sull’altar maggiore.
Infatti i Massari della chiesa nel 1735 “hanno
speso per calcina, e porto e per cera e marmo
nuovo e gesso corda novi, e denari al stucadore”
e nel 1736 “hanno speso li danari per fare stucare la capella di S. Antonio da Padova e l’altare maggiore e per il resto si doveva al stucadore
della Capella della Madonna e del Corpus
Domini”34.
Come si vede, viene citata per la prima volta la
cappella di Sant’Antonio da Padova presso la
quale verrà formalmente eretta il 28/01/1769 la
Compagnia della Madonna del Carmine, anche
se le spese sostenute dalla medesima
Compagnia sono documentate già a partire dal
173735: si può supporre, quindi, che detta cap-
pella - la prima a sinistra entrando - sia stata
realizzata proprio nel periodo in questione in
uno degli spazi lasciati liberi dalle demolizioni
del secolo precedente.
Il giorno 01/11/1750 la chiesa di San Rocco è
onorata dalla visita pastorale di Mons.
Giuseppe Maria Saporiti il quale sembra riconoscere che i lavori, forse conclusi in maniera
un po’ approssimativa in occasione della sua
visita, debbano essere necessariamente ripresi
affinché la chiesa abbia un aspetto complessivamente più “decente”. “Decretiamo e ordiniamo
come
di
sotto:
Dell’Ill.mo
Sag.to
dell’Eucarestia. Il Tabernacolo dell’Altare
Maggiore al di dentro da ogni parte si cuopra di
un panno di seta di color bianco e la di lui portetta sia di legno, ovver fatta di ricalco pregiata
di entro di panno anzidetto e al di fuori elegantemente lavorata e la di lui chiavetta sia d’argento, ovvero almen dorata. La chiavetta però
del Tabernacolo, in cui la Ss.ma Eucarestia conservasi, a niuno sia lecito eziandio ad un brieve
tiempo di ritener appresso. (…) Del Battisterio.
Il fonte battesimale abbia nella di lui esteriore
sommità qualche immagine, la qual Cristo
Signore dal Santo Precorsore battezzato ne rappresenti. Delle Sedi Confessionali. All’una delle
due sedi confessionali si levino le grate e se ne
ripongano altre co’ fori più stretti. L’una e l’altra però abbiano affissa al di dentro dall’uno e
dall’altro lato qualche immagine, la qual la
dominicale Passione ne rappresenti. De’
Sepolcri. Si scavi un nuovo Sepolcro in cui soltanto cadaveri di uomini si seppelliscano; gli
restanti però due si assegnino, vale a dire uno
per gli fanciulli e l’altro per le donne e ciascheduno di loro per propria iscrizione si distingua.
Degli Altari. Nell’altare Maggiore e nell’Altare
sotto il Titolo di S. Biagio avvegnacche
nell’Atto della Visita per mezzo di fabbri murari si ristorassero, non vi si celebri sacrificio se
non pria sian stati benedetti. Nell’Altare sotto il
titolo di S. Antonio il Tabernacolo di un panno
di seta del colore già menzonato dentro si fregi
e la di lui portetta in più decente forma si ridu-
34 APSRO, Libro della Chiesa…, 1735-1736. APSRO, Libro de’ Conti vecchi…, 1735-1736.
35 APSRO, Statuto della Compagnia eretta il 28/01/1769 presso l’altare di Sant’Antonio da Padova.
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ca. Degli Oneri di Messe. In Sagristia, quando
la medesima sarà finita e intrattanto in coro, si
affigga ed affissa si servi una tavoletta in cui
siano descritti tutti i carichi di messe istituiti in
detta chiesa. (…) Dell’Archivio. Nella casa
canonicale, ovvero quando sarà finita, nella
Sacristia, si faccia l’archivio i cui gli predetti
Libri e qualunque altre scritture alla prefata
chiesa si custodiscano”36.
Forse anche in seguito alle prescrizioni del
decreto arcivescovile si comincia ad intervenire
quasi subito sulla chiesa, dapprima comprando
una nuova campana (“speso per campana grossa
in Lumarzo” e “speso ancora per campane fondate nella piazza di S. Rocco”)37, poi ristrutturando completamente la Cappella di San Biagio
(“spesa fatta per la Cappella di S. Biaggio, cioè
per mattoni, gesso, colori, penelli, di più per
gesso, e polvere di marmo, e porto, di più per
dati alli stuccatori per pagamento”)38 ed infine
realizzando l’altare maggiore, oltre naturalmente ad alcuni interventi sugli arredi sacri, per i
quali si rimanda alle note di Angela Acordon39.
In merito alla realizzazione dell’attuale altar
maggiore, si deve sin d’ora far presente che la
data del 1757 proposta dai Remondini40 deve
essere posposta agli anni 1763-1771: si parte,
infatti, con la raccolta spontanea di denaro
“scosso dalla buona gente per la fabrica dell’altar maggiore di marmo” (1763), per proseguire
con le “spese fatte per l’altar maggiore di
marmo, si è dato al Marmoraro à conto, spesa
fatta per porto dell’altare, e balaustri, spesa fatta
per il Maestro da Casola per ergere l’altare
giornate n. 16” (1766); “spesa fatta per dare la
paga al marmoraro per l’altare” (1767 e 1768), e
concludere con le “spese per accomodare balaustri” (1777).
Il marmoraro citato è quel Felice Solaro al quale
vengono saldati definitivamente i conti il
22/08/1769, come previsto dal contratto depositato presso il Notaio Ferdinando Ferrari in
Ferrada, solo grazie al generoso contributo ai
Massari di San Rocco da parte di un fedele41.
Mentre proseguono i lavori in chiesa, giacché si
registra una spesa “fatta per colori per la chiesa,
per penelli, per calcina biancha”42, i fedeli, sotto
l’impulso delle varie confraternite, riescono a
raccogliere anche i soldi per acquistare
l’Indulgenza Plenaria e, dopo aver presentato
formale richiesta con un documento datato
15/04/1785, la ottengono da Papa Pio VI il
12/06/179243.
Dopo la concessione dell’Indulgenza, si hanno a
disposizione nuovi fondi per eseguire altri lavori tra cui il restauro della facciata, effettuato da
un autore lombardo, tal Giacomo Martinengo
“detto il Zingaro”. “Li massari pro tempore
della Chiesa Raffetto e Lagomarsino hanno
fatto lavorare alla canonica, piazza della Chiesa
e facciata ristorata, ed hanno preso per capo
maestro un lavoratore lombardo nominato Il
Zingaro al quale terminato il lavoro di L. 400 a
lui dovute hanno dato ac conto lire 198 oltre le
spese di vitto che hanno fatto”(1794); “nel 1796
hanno dato al sudetto capo maestro L. 132 poi
altre 32, rimane debitore di L. 38 ma le aspetta
fino all’anno venturo 1797”. Infine i Massari
della Chiesa “hanno assaldato il conto a
Giacomo Martignone, figlio del capo maestro
cognominato il Zingaro, e li hanno dato a saldo
L. 75”44.
La situazione delle diverse Confraternite erette
nella chiesa non è sempre molto chiara e nel
1799 e di nuovo nel 1818 risultano esistenti
quelle della Chiesa, del Corpus Domini, della
36 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1750. Visita Pastorale di Mons. Giuseppe Maria De Saporiti del primo novembre. Esiste sia l’originale, datato 27/11/1684, che l’estratto, copiato da Don Paolo Chighizola e datato 27/08/1818.
37APSRO, Libro degli ascritti alla Madonna del Carmine l’anno 1870, 1753. Già negli anni 1770-1775 si deve registrare il tentativo di
far riparare a Genova la campana e la decisione di comprarne una nuova.
38 Ivi, 1759 e 1762.
39 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio…, in questo volume.
40 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, pp. 292-293.
41 APSRO, Libro degli ascritti..., 1769. Quietanza in atti del Notaio Giuseppe Maria Morchio, ricopiata nel presente registro.
42 Ivi, 1770.
43 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1785.
44 APSRO, Libro degli ascritti…, 1794-1797.
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Madonna, di Sant’Antonio, di San Biagio, di
San Vincenzo, delle Anime Purganti. Nel 1801
l’Arcivescovo di Genova Giovanni Lercari “concede l’altare Privilegiato secondo il Breve
Pontificio alla Chiesa Parrocchiale di S. Rocco
di Ognio e stabilisce per privilegiato l’Altar
Maggiore della medesima da durare dal presente infrascritto giorno sino al giorno
15/11/1807”: tale privilegio sarà rinnovato sotto
il regime di Andrea Cevasco, predecessore di
Don Paolo Chighizola, fino al 182745.
Sembra che nel 1821, tuttavia, la chiesa di
Ognio necessiti di ulteriori restauri, come scrive
Don Paolo Chighizola in una supplica ai
Benefattori delle Chiese povere al fine di ottenere alcune sovvenzioni: “La chiesa parr.le di S.
Rocco di Ognio si trova di presente bisognosa di
parecchi ristori, giacché il tetto è logoro dalla
vecchiezza e notabilmente offeso, le vetriate vecchie, e in cattivo stato, il pavimento anch’esso
guasto assai, e la canonica rigida senza il riparo
de’ vetri, oltre la scarsità molta di biancheria per
la Sacristia”46.
Don Paolo Chighizola, o Chichizola, da Zoagli,
merita una particolare citazione per aver riordinato i documenti dell’Archivio parrocchiale che
abbracciano i primi due secoli di storia della
chiesa, durante il suo rettorato tra il 1818 ed il
1827, anno della sua compianta morte; il suo
successore, Giuseppe Raffetto da Ognio,
Rettore tra il 1828 ed il 1858, non si dimostra
all’altezza ed anzi viene ripetutamente accusato
dalla popolazione di aver spogliato la chiesa dei
sacri arredi per venderli ad orafi che poi infatti
testimonieranno contro di lui e ne causeranno il
definitivo allontanamento. Esemplificativa della
pesante situazione venutasi a creare è la lettera
di una parrocchiana che scrive per conto di una
parte della popolazione di Ognio, lamentandosi
circa il fatto che i beni della chiesa siano affida-
ti “ad uno il quale ebbe il coraggio di spogliarla
perfino delli arredi i più sacri”.
Il Raffetto viene così allontanato per 5 anni, ma
se ne lamenta in Curia, chiedendo di essere sottoposto ad un regolare processo e di essere reintegrato; viene temporaneamente riammesso ma
nel 1853 fioccano nuove accuse nei suoi confronti ed egli è definitivamente allontanato nel
1858 con provvedimento del Ministero di
Grazia e Giustizia47.
Intorno agli anni 1836-1837 un’epidemia di
colera colpisce il Genovesato ma non Ognio e
forse per questo motivo si vorrebbe provvedere
ad un rinnovo di alcuni degli arredi della chiesa
dedicata al Santo cui si dovrebbe lo scampato
pericolo: se una qualche modifica potrebbe essere avvenuta, per certo non può trattarsi del pressoché totale rifacimento menzionato da parte
della bibliografia consultata che incorre in un
errore di datazione di circa un secolo, postdatando al 1837 il completo rinnovo della chiesa e degli altari, intervento che è invece più correttamente avvenuto negli anni intorno al 1737,
come si è potuto appurare consultando la documentazione d’archivio48.
Alla metà dell’800, infatti, la chiesa non solo
presenta una pesante situazione debitoria49, ma
si trova sempre in pessime condizioni di conservazione, come risulta da una dettagliata relazione risalente al 1859. “Sguardo volto al piazzale e
nel vederlo così spoglio ed informe e tutte le
muraglie cadevano a terra (…); ma quale triste
spettacolo non ti si presentava la facciata della
chiesa, tutta piena di buchi, sconnesse le chiappe, del tutto scrostata ed informe la sacristia, un
mucchio di ciottoli servivano da scalinata. La
torre o campanile tutto aperto, sporco, due volte
percosso dal fulmine ed intanto la pioggia tramandava in chiesa una gran quantità d’acqua; la
canonica a pezzi…”50.
45 APSRO, Miscellaneo lavoro …, 1818.
46 Ivi, 1821. Supplica del 2 febbraio.
47 ACC, fasc. 86, cartella 1801-1900.
48 Cfr. F. SENA 1981. In particolare egli afferma che: “nel 1837 la Chiesa viene ingrandita per poterla dotare di cinque altari, il maggiore dei quali è comunque precedente e risale al 1757”.
49 APSRO, Miscellaneo lavoro…, 1853. Del 6 ottobre è un “Prospetto dei debitori della Parrocchia di San Rocco di Ognio che si sono
tassati per le campane e che non hanno ancora pagato le tasse, avendo la Chiesa pagato per loro ai signori fratelli Boero (?) fondatori
di Campane in Genova £ 800 il 14/04/1862”.
50 Ivi, agosto 1859.
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Già l’anno successivo, tuttavia, vengono intrapresi consistenti lavori di restauro, come si legge
nella Memoria dei lavori fatti fare in questa chiesa parrocchiale di Ognio cominciando dall’anno
186051: in particolare si apprende che si procede
al “ristoro della facciata con nuova croce e
nuovo ordine con scalinata di chiappe”, al
“ristoro della cupola e del campanile, avendo
fatto chiudere i quattro fenestroni inferiori a
quelli delle campane; nuovi ordini di cornicioni
e capitelli (…)”, al “riadattamento delle scale e
solai del campanile”, nonché al rifacimento del
piazzale esterno e ad opere non meglio precisate riguardanti il tetto della chiesa52.
Per quanto attiene alla canonica, la stessa viene
costruita ex novo a partire dal 1863, in base ad
un disegno di Agostino Gardella dell’anno precedente, non senza aver dovuto attendere
comunque il permesso di abbattere tre alberi53.
Non si trova conferma in archivio, invece, di
alcuni lavori citati in bibliografia, tra cui il rifacimento del coro, con la relativa statua lignea di
San Rocco, nel 186854 e il posizionamento in
facciata della statua del Titolare nel 1875, avallata unicamente dalla data incisa nel piedistallo55.
Nel 1896 la chiesa è oggetto di visita pastorale
da parte del Vescovo di Chiavari, Mons.
Fortunato Vinelli che, nella sua relazione sullo
stato materiale e spirituale della Chiesa, fa presente che la popolazione è ben governata, molto
pia ed anche che la chiesa si trova in buone condizioni di conservazione per cui nulla vi è da
ordinare56.
Nei primi anni del Novecento non sono documentati lavori murari di particolare entità,
mentre si registrano spese più consistenti per i
restauri degli arredi e delle tele57, per l’acquisto
e la riparazione delle campane dai fratelli
Picasso ma soprattutto per la decorazione della
volta ad opera di G. B. Ghigliotti e Giovanni
Pellegrini58, intervento quest’ultimo che risale al
1906, come riportato già in parte della bibliografia59.
Degne di nota, invece, sono le spese relative al
rifacimento del campanile che viene iniziato nel
1922 e concluso alla fine del 1924, come testimoniato anche dalla lapide murata all’esterno
della chiesa che ricorda la consacrazione del
gennaio 1925 da parte del Vescovo di Chiavari
Amedeo Casabona.
Di un certo rilievo, infine, sono anche le spese
per il rifacimento dell’altare del Carmine nel
1929 e quelle per il restauro dell’organo, che
risalgono al 193960.
51 Ivi,1860. Relazione a firma del Parroco Domenico Ginocchio.
52 Ivi, 1867. I lavori al tetto parrebbero essere cominciati il 9 settembre.
53 Ivi, 1863-1865.
54 Cfr. F. SENA 1981, p. 116 e segg.
55 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 293.
56 APSRO, Relazione della visita pastorale di mons. Fortunato Vinelli, 1896.
57 Cfr. A. ACORDON, Ognio. Note sul patrimonio…, in questo volume.
58 APSRO, Spesa della Chiesa di S. Rocco di Ognio dalla 1a domenica gennaio 1894 e seguito, 1903 e 1904.
59 Cfr. F. SENA 1981, p. 118.
60 APSRO, Spesa della Chiesa di S. Rocco…, 1922-1925, 1929, 1939.
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- 232 -
OGNIO
NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO
Angela Acordon
Le prime notizie relative al patrimonio artistico
della chiesa di San Rocco di Ognio, eretta in
parrocchia nel 1603 dall’Arcivescovo di Genova
Orazio Spinola1, risalgono al 7 settembre 1617,
data dell’inventario redatto dal rettore Giacomo
Sapata2. In quell’anno, fra i beni della chiesa
sono annoverati un tabernacolo in legno dorato
per il Santissimo Sacramento; quattro angeli,
due per l’altar maggiore e due per l’ altare della
Madonna; parecchi paramenti, alcuni dei quali
qualificati già come vecchi e logori; “un crocifisso grande sopra di un altare et uno picholo
portatile; una imagine de la Madonna di legno,
con due veste; uno batisterio de marmoro biancho picholino; tre tele turchine una da crovire
l’anchona de l’altar mazore, una da crovire la
Madona, una da crovire il Crucifiso grande; uno
confalone de la Madona del Rosario”3. Si è presi
da una certa amarezza nel constatare che, a
causa dell’usura del tempo e della poca accortezza degli uomini, quasi nulla di quanto menzionato nell’inventario faccia ancora parte del
patrimonio della chiesa.
Perduta l’ancona dell’altar maggiore e la
Madonna di legno non meglio specificata, ma
forse da ritenere, come vedremo più avanti, un
manichino raffigurante la Madonna del Rosario,
pare esserci pervenuto solo il “Crucifiso grande”, probabilmente identificabile con quello
attualmente collocato nel presbiterio (fig. 1),
per la sua antichità e il suo discreto stato di conservazione da considerarsi, assieme al sottostante altar maggiore, l’opera di principale interesse
oggi conservata nella chiesa di San Rocco. La
fisionomia del viso e l’andamento del perizoma
morbidamente raccolto su un lato, la risoluzione dell’anatomia col torace regolarmente segna-
Fig. 1 Anonimo scultore ligure, fine XVI-inizi XVII
secolo, Cristo crocifisso.
to dalle costole, la resa descrittiva e nettamente
definita dei capelli e della barba inducono a
datare il Crocifisso fra la fine del XVI e i primissimi anni del XVII secolo4. Inizialmente sull’altare del Crocifisso, l’opera era già bisognosa di
restauri il 16 aprile 17025, veniva dotata di
nuovi canti nel 1763 per una spesa di 22 lire6 e
compariva nuovamente, assieme ad altri due
crocifissi piccoli, nell’inventario steso il 26 agosto 1818 da Don Paolo Chichizola7.
Appena più tardo è certamente il tabernacolo
per gli olii santi a destra dell’altar maggiore (fig.
2), con cornice in ardesia recante nella parte
superiore l’iscrizione “OLIO S.”, che ne sottoli-
1 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Rocco di Ognio. Notizie storiche, in questo volume.
2 ACC, fasc. 86.
3 Ibidem.
4 Il Crocifisso è citato al numero 61 dell’inventario del 1646, cfr. APSRO, Libro dei Legati della Parrocchia di Ognio dal 1650 al 1692.
5 APSRO, Libro de’ Conti vecchi della Chiesa di Ognio. Il lavoro costò 22 lire.
6 APSRO, Libro degli ascritti alla Madonna del Carmine l’anno 1870.
7 APSRO, Miscellaneo lavoro per questa Chiesa Parrocchiale di San Rocco di Ognio lavoro di Paolo Chichizola moderno parroco di Ognio
addì 27 giugno 1818.
- 233 -
Fig. 2 Ignoto lapicida degli inizi del XVII secolo, tabernacolo per gli olii santi.
nea la peraltro già ben chiara funzione, e il
monogramma cristologico a rilievo. In precario
stato di conservazione, il tabernacolo, la cui
porticina lignea presenta ormai labili tracce di
un’antica pittura, è ornato sui lati da motivi a
candelabra e, nelle fasce superiore e inferiore, da
sottili racemi, motivi decorativi che riconducono alla cultura tardorinascimentale, ma che ben
s’inquadrano in una produzione artigianale dell’inizio del XVII secolo.
Nel 1636, nell’ambito della costruzione dell’altare intitolato a San Biagio8, la parrocchia s’impegna nella spesa di lire 5 e soldi 4 per far eseguire a Genova il quadro di San Biagio9, certamente già concluso il 18 dicembre se quel giorno l’Arcivescovo concedeva ai parrocchiani il
permesso di richiedere e raccogliere offerte per
terminare il pagamento dell’opera. La licenza di
questua, curioso e raro documento che testimonia forse di una prassi per ora poco nota, è valida per i successivi tre giorni nella città di
Genova e per tutto il viaggio di trasferimento
della tela fino a Ognio10. Il dipinto oggi collocato sull’altare intitolato a San Biagio non corrisponde tuttavia a quello realizzato nel 1636.
Lo si evince dall’esame dei caratteri stilistici,
che inducono a datare l’opera già nella seconda
metà del XVII secolo, nonché dal differente
soggetto trattato. Al numero 63 del già citato
inventario del 1646 si legge infatti: “una ancona
dove è depinto Sto Biaggio con Sto Gio. Sto
bartolomeo, Sto Giuseppe, e Sto Francesco che
sta sopra la sua altare”. Si tratta dunque, ad evidenza, di un’altra tela che, rispetto a quella
ancora conservata (fig. 3), raffigura, oltre a San
Biagio, San Giovanni Battista e San
8 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Rocco di Ognio ..., in questo volume.
9 APSRO, Libro dei Legati… .
10 ACC, fasc. 86.
- 234 -
Fig. 3 Anonimo pittore genovese della seconda metà del
secolo XVII, San Biagio in cattedra fra San Giovanni
Battista e San Bartolomeo, 1677 (particolare).
Fig. 4 Anonimo pittore genovese della seconda metà del
secolo XVII, San Biagio in cattedra fra San Giovanni
Battista e San Bartolomeo, 1677 (particolare).
Bartolomeo, anche San Francesco e San
Giuseppe. Il dipinto del 1636 era già bisognoso
di restauro l’anno successivo, quando sono registrate spese “per havere pagato il pittore che è
venuto a rafrescare e accomodare l’ancona che si
era guastata quando la portarono”11, un restauro
che probabilmente non condusse al totale recupero del quadro, rendendo necessaria poco dopo
l’esecuzione di un’altra opera.
La tela raffigurante San Biagio in cattedra fra
San Giovanni Battista e San Bartolomeo (figg. 3,
4) risale infatti al 1677 e fu realizzata a Genova
per la cifra, comprensiva delle spese di trasporto, di lire 89,10. L’anonimo autore echeggia,
con esiti meno delicati e modi più rudi, le scelte stilistiche, al tempo già diffuse e apprezzate,
di Domenico Piola e mostra tangenze col procedere dell’ancor poco conosciuto Pietro
Raimondi, come con consueta e generosa acu-
tezza mi invita a osservare Massimo Bartoletti.
Lo scioglimento della personalità di questo
artista, annoverato fra gli allievi diretti di
Domenico Piola da Carlo Giuseppe Ratti12, è
stato per molti anni affidato solo alla tela raffigurante l’Apparizione di Cristo a Santa Caterina
della chiesa genovese della Santissima
Annunziata di Portoria, citata dal biografo e
alquanto vicina alla pala di Ognio, ma recentemente si è approfondito grazie al reperimento
di un’opera firmata nella parrocchiale di Rezzo,
già attribuita al figlio di Domenico Piola,
Anton Maria13. Chiunque sia l’autore del San
Biagio in cattedra di Ognio, discendono da
Domenico Piola le fisionomie di San Giovanni
Battista e di San Bartolomeo, colti in un’assorta distanza che sembra caratterizzare le scelte
espressive dell’artista, mentre l’andamento dei
panneggi e il loro ductus pittorico, pur rammen-
11 APSRO, Libro dei Legati… .
12 Cfr. R. SOPRANI, C. G. RATTI 1768, II, p.51; E. GAVAZZA 1987, II, p. 264.
13 Cfr. A. GIACOBBE 1993, p. 205, tav. 13. La firma di Pietro Raimondi è emersa nel corso di un restauro effettuato da Riccardo
Bonifacio sotto la direzione di Franco Boggero.
- 235 -
Fig. 5 Anonimo pittore genovese degli inizi del XVIII
secolo, Cristo risorto.
tando analoghe soluzioni piolesche, non può
essere meglio analizzato a causa dell’inclemente ridipintura, forse risalente al restauro, comprensivo dell’acquisto di una nuova cornice,
eseguito nel 189914. Di proprio, il pittore rivela
soprattutto una tendenza all’allungamento delle
figure, che trova riscontri nell’ampio seguito di
Valerio Castello e in particolare in pittori come
Giovanni Battista Merano.
Il 9 giugno 1709 viene costruito il fonte battesimale15, non identificabile con quello attuale.
Quest’ultimo, composto da un prospetto a
tabernacolo eseguito nel 1939 per una spesa di
lire 80016, presenta una porticina lignea pagata
nel 1940 a Gino Raffetto17 ed è chiuso da un
cancello in ferro battuto ispirato alle fluidità
vegetali rococò, ma ascrivibile a un tale fabbro
Raisio di Cicagna, che lo consegnò nel 190418.
Stilisticamente riferibile agli inizi del XVIII
secolo è anche la porticina di tabernacolo dipinta a olio su rame raffigurante Cristo Risorto
(fig. 5), che il soggetto rappresentato farebbe
pensare proveniente dall’altare del Crocifisso,
ma le cui misure corrispondono così esattamente alla porticina del tabernacolo moderno dell’altar maggiore da far pensare che sia stata realizzata per quella sede. Un dipinto che rivela la
conoscenza della pittura genovese tardo seicentesca legata al linguaggio di Giovanni Andrea
Carlone, gradevole nella ricerca degli accostamenti cromatici e, nonostante le ridotte dimensioni, assai curato nei particolari.
L’opera di maggior interesse ancora conservata
nella chiesa è l’elegante altar maggiore (figg. 6,
7), che i fratelli Remondini dicono eseguito nel
175719 recuperando quanto scritto in una piccola lapide successivamente spostata e collocata
nel pavimento sotto la porta che immette al
vano alla base del campanile. In effetti, nel gennaio del 1758, è registrata una spesa di 222 lire
per l’apparato dell’altar maggiore, costituito da
un baldacchino, quattro busti, sei candelieri e
otto reliquiari20. Se questo potrebbe far pensare
all’ornamento del nuovo altare, altre note d’archivio inducono a posticipare, se non l’esecuzione, almeno la consegna del manufatto, che
andò a sostituire il vecchio altare eretto nel
164221. Nel 1768, infatti, vengono riscosse 438
lire “dalla buona gente per la fabrica dell’altar
maggiore di marmo”, ma già nel 1766 sono
registrate altre spese per esso, fra cui un acconto al marmoraro di lire 854,250 per “porto dell’altare, e balaustri” e 28 lire a tale “Maestro da
Casola per ergere l’altare, giornate n. 16 (perché
14 Cfr. APSRO, Spesa della chiesa di S. Rocco di Ognio dalla 1a domenica gennaio 1894 e seguito: “Dato ad un pittore per rinfreschi del
quadro di S. Biagio, L. 30”; la cornice costò invece 18 lire.
15 APSRO, Libro della chiesa dal 1661 al 1745.
16 APSRO, Spesa della chiesa… .
17 Raffetto ricevette 120 lire per l’esecuzione della porticina e di altri lavori non specificati, cfr. APSRO, Spesa della chiesa..., 1940.
18 Il fabbro Raisio, se ne leggo bene il nome nella difficile grafia, ricevette 230 lire comprensive del cancello e di altri lavori, cfr.
APSRO, Spesa della chiesa… .
19 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, pp. 292-293.
20 APSRO, Libro degli ascritti… .
21 APSRO, Libro dei Legati… .
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Fig. 6 Felice Solaro, Altare maggiore.
l.4 ha pagate il rettore)”22. Anche se il lavoro
verrà liquidato al marmoraro in altre tre soluzioni da lire 233,6,8 cadauna, rispettivamente
nel 1767 e 1768, fino al saldo del 22 agosto
176923, pare abbastanza chiaro che l’arrivo e il
montaggio dell’altare sia avvenuto nel 1766. Il
responso dei documenti conferma l’impressione
che l’ignoto marmoraro citato nelle varie tranches di pagamento sia identificabile con Felice
Solaro, che aveva bottega a Genova. Nel Libro
degli ascritti al Carmine, alla data 22 agosto
1769, si legge infatti che in atti del notaio genovese Giuseppe Maria Morchio è conservata una
quietanza di lire 233,6,8 “per saldo a compimento di L. 700 fatta dal Sig. Pietro Carmarino
a favore de’ Massari di S. Rocco d’Ognio, obbli-
gatisi ad esso per altretanto che dovevano al
Signor Felice Solaro Marmoraro per l’Altar
Maggiore di marmo, come da instrumento fatto
in atti del Signor Ferdinando de Ferrari in
Ferrada”24. Di Felice Solaro, qui alle prese con
una delle sue opere meglio riuscite, sono noti
due altari già a Voltaggio, l’altar maggiore dell’oratorio di San Sebastiano del 1776, poi alienato alla chiesa dei Santi Rocco e Sebastiano di
Parodi Ligure25 e quello dell’Arciconfraternita
di San Giovanni Battista (pagamenti dal 1781
al 1787), del quale non è nota la sorte26. Il marmoraro dovette essere molto attivo nel territorio oggi compreso nella Diocesi di Chiavari: al
da tempo noto altare della chiesa di Santa
Margherita a Moconesi27, realizzato nel 1748,
22 APSRO, Libro degli ascritti… .
23 Ibidem.
24 L’altare venne a costare globalmente 1500 lire, cfr. APSRO, Libro degli ascritti… .
25 Cfr. F. FRANCHINI GUELFI 1995, p. 95.
26 Cfr. F. FRANCHINI GUELFI 2000, pp. 514-516, con bibliografia precedente.
27 Ivi, p. 514.
- 237 -
Fig. 7 Felice Solaro, Altare maggiore (particolare).
sono infatti da aggiungere quelli di Santo
Stefano a Pannesi, con un primo pagamento del
1753 e un saldo del 1762, di San Giovanni
Battista a Semorile del 1787 e di San Pietro
Apostolo a Zerli, “eseguito dal Sig. Felice Solari
marmoraro Sotto Ripa” nel 1792-1793, rintracciati da Agnese Avena e Alessandra Molinari
nel corso della schedatura delle chiese della
Diocesi di Chiavari28. L’impostazione dell’altare
con i grandi angeli laterali e il paliotto centrale
ornato da una figurazione del Santo titolare
della chiesa, la resa degli elementi decorativi e il
recupero di soluzioni memori di quanto si faceva in quegli anni a Genova nella bottega di
Francesco Schiaffino, fanno inoltre pensare che
possano essere ascritti a Felice Solaro anche
l’altare della chiesa di San Lorenzo a
Roccatagliata e - quasi certamente - quello di
San Maurizio a Neirone, davvero simile all’e-
semplare di Ognio29.
Fra le opere di suppellettile ecclesiastica sono
da segnalare un turibolo (fig. 8) e una navicella
(fig. 9) recanti il punzone Torretta e la data
1760, ma il cui decoro presenta alcune varianti
(si veda in particolare la presenza delle teste di
cherubini nel turibolo), tuttavia sempre riconducibili all’esuberanza propria del gusto ornamentale settecentesco successivo al rococò. Allo
stesso periodo, ma forse di qualche decennio
precedente, appartiene la parte superiore rimasta di un ostensorio (fig. 10) ornato da una raggera con nuvole, che si diparte da un ‘nodo’ formato da due angeli che richiama motivi stilistici presenti nell’argenteria ligure degli anni
Venti e Trenta e in particolare, come mi suggerisce Franco Boggero, nei manufatti di
Francesco Ghisolfo.
Donata alla chiesa nel 1872, come risulta da
28 Ivi, p. 516.
29 Cfr. A. ACORDON, Roccatagliata. Note sul patrimonio artistico, in questo volume; EADEM, Neirone. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
- 238 -
Fig. 8 Ignoto argentiere genovese del secolo XVIII, turibolo.
un’iscrizione che non rivela il nome del benefattore, la lampada pensile (fig. 11), forse identificabile con quella fatta sistemare dal Signor
Luigi Persico - definito “aparatore” - nel 190130,
presenta caratteristiche decorative che consentono di inquadrarla pienamente nella cultura
artistica rococò, ma alcuni punzoni recanti oltre
al marchio genovese “Torretta” la data di esecuzione creano qualche dubbio sulla sua esatta
datazione. Su tutte le catene di sospensione si
legge infatti la cifra “70”, mentre nel corpo della
lampada compare più volte la cifra “73”. Si
potrebbe pertanto cautamente affermare che la
lampada sia stata realizzata nel 1773 e le catene
nel 1770: l’esecuzione nell’avanzato XVIII
secolo giustifica in ogni modo la resa più ferma
di elementi ornamentali desunti dal repertorio
rococò e la raffinata eleganza classicheggiante
che prelude al periodo neoclassico.
L’inventario del 26 agosto 181831 costituisce un
prezioso ante quem per la datazione dell’ovale
raffigurante Santa Caterina (fig. 12) e per la
pala dell’altare di Nostra Signora del Carmine.
Di Santa Caterina si conservava una reliquia,
che nel summenzionato inventario Don Paolo
Chichizola, ricordando la festa e la novena che
si celebravano in chiesa, dice essere andata
smarrita32, probabilmente assieme al suo reliquiario, eseguito fra il 1757 e il 1758 grazie a
una raccolta di denaro, che conferma la sentita
devozione verso la santa genovese nella parrocchia di Ognio33. La realizzazione dell’oggetto
potrebbe aver costituito una buona occasione
per invogliare un parrocchiano benestante, o un
facoltoso frequentatore della chiesa, a donare il
dipinto, fatto che spiegherebbe l’assenza nell’ar-
30 Persico ricevette per il lavoro 40 lire, cfr. APSRO, Spesa della chiesa..., 25 giugno 1901.
31 APSRO, Miscellaneo lavoro… .
32 Ibidem.
33 APSRO, Libro degli ascritti… .
- 239 -
Fig. 9 Ignoto argentiere genovese del secolo XVIII, navicella.
chivio parrocchiale di pagamenti per la sua realizzazione o per il suo acquisto. L’opera è stilisticamente databile attorno alla metà del XVIII
secolo e rivela una notevole finezza della trama
pittorica e della discreta e pausata dimensione
emotiva ancora memore delle morbide stesure e
delle efebiche tipologie di Bartolomeo
Guidobono, attivo alla fine del secolo precedente. L’anonimo autore non sembra tuttavia ancora toccato dalla cultura classicista, che nel 1751
dette luogo all’istituzione dell’Accademia
Ligustica di Belle Arti. La tela, che per la presenza dell’aureola attorno alla testa della santa
può essere datata dopo il 1737, anno della canonizzazione di Caterina Fieschi Adorno, si colloca infatti nell’ambito della produzione genovese influenzata dalla cultura marattesca romana e mostra affinità con il linguaggio di
Domenico Bocciardo (Finale Ligure Marina,
1686 - Genova 1746)34.
Meno interessante appare la Madonna del
Carmine fra Sant’Antonio di Padova e San
Simone Stock, eseguita probabilmente poco dopo
il 28 gennaio 1769, data dell’istituzione della
Compagnia del Carmine presso l’altare di
Sant’Antonio di Padova35, non a caso ricordato
anche nell’iconografia della nuova tela. Essa
andò presumibilmente a sostituire l’“ancona
dove è dipinto la Madonna con Sto Rocco e Sto
Antonii e Sto Bastiani” descritta dal parroco
Pietro Giuseppe Cagnolo nell’inventario del 23
aprile 164636. Perso il riferimento al suo altare
d’origine, la suddetta tela, per la quale è segnalato un restauro di 15 lire nel 177637, finì forse
per errare per la chiesa e risulta oggi smarrita.
La Madonna del Carmine fra Sant’Antonio e San
34 Sul pittore cfr. M. BARTOLETTI, in La Pinacoteca..., 2001, pp. 152-153, scheda n. 82, con esauriente bibliografia precedente.
35 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Rocco di Ognio…, in questo volume.
36 L’ancona è citata al numero 60 dell’inventario, a sua volta collocato alla fine del libro, cfr. APSRO, Libro dei Legati… .
37 APSRO, Libro degli ascritti… .
- 240 -
Fig. 10 Ignoto argentiere genovese della prima metà del
secolo XVIII, ostensorio.
Fig. 11 Ignoto argentiere genovese della seconda metà
del secolo XVIII, lampada pensile.
Simone Stock è frutto invece di un pittore locale
piuttosto attardato, che, ormai pienamente
all’interno del XVIII secolo, ripropone in forme
convenzionali, e alquanto artigianali, le invenzioni dei maggiori artisti genovesi della fine del
secolo precedente, in particolare di Domenico
Piola e dei suoi seguaci.
Quando il 22 aprile 1616 venne costituita la
confraternita del Santissimo Rosario nella chiesa di San Rocco di Ognio, da Roma si impose
ai confratelli l’esecuzione di un dipinto raffigurante i quindici Misteri e San Domenico in atto
di ricevere il Rosario dalle mani di Gesù e
Maria38. Anche l’attestazione dell’avvenuta istituzione, documentata dalla Bolla Generale
dell’Ordine dei predicatori e Priore di San
Domenico di Genova, Gabriele Rosso, datata 8
gennaio 1619, ribadisce che “nell’ancona del
Rosario si dipinga l’Immagine della Vergine in
atto di dare la coroncina del beato Domenico. E
nella detta ancona i quindici misteri della
medesima pinti ne risaltino”39. I confratelli non
raccolsero tuttavia il pressante ‘invito’ e rivolsero invece la loro devozione a un’opera, che probabilmente già possedevano, così citata nell’inventario del 7 settembre 1617: “una imagine de
la Madonna di legno, con due veste”40. La
descrizione della Madonna come lignea, seguita dall’indicazione di due vesti a lei strettamente associate, fa pensare che si trattasse di un
manichino più che di una vera e propria statua.
Tale sensazione pare rafforzata da altre notizie
raccolte nell’archivio parrocchiale. Nel prezioso
inventario del 23 aprile 1646, l’opera è citata al
numero 62 semplicemente come “una effige
della Madonna del Rosario che sta sempre nello
suo altare” e le vesti, menzionate al numero 33,
sono diventate tre41. Inoltre, nel 1669 e nel
38 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Rocco di Ognio…, in questo volume e APSRO, Libro di Varie memorie, e scritti per l’archivio
parrocchiale di S. Rocco di Ognio l’anno del Signore 1819. Lavoro e fatica di Paolo Chichizola.
39 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Rocco di Ognio…, in questo volume.
40 ACC, fasc. 86.
41 APSRO, Libro dei Legati… .
- 241 -
Fig. 12 Anonimo pittore ligure della prima metà del
secolo XVIII, Santa Caterina Fieschi Adorno.
Fig. 13 Anonimo scultore ligure, fine XVIII-inizi XIX
secolo, Madonna del Rosario.
1673, vengono acquistati - rispettivamente un’altra veste e un manto per la Madonna42. La
possibilità di trovarsi di fronte a un manichino
parrebbe trarre alimento anche da una notizia
riportata da Angelo e Marcello Remondini, che
nel 1890 riferivano della presenza nella chiesa
di San Rocco di una statua della Madonna
vestita in stoffa43, e dal fatto che il 15 marzo
1903 è nuovamente registrata una spesa di
L.20,50 per acquistare una veste di Nostra
Signora del Rosario compresa la guarnizione e
la cucitura44. Contro tale ipotesi sembra invece
porsi il resoconto della visita pastorale del 6
luglio 175045, che sull’altare della Madonna del
Rosario registra una “Icona venerata effiges
lignea bene picta”. Tale descrizione sembrerebbe infatti meglio corrispondere a una statua
vera e propria, ma, dal momento che il viso e gli
arti dei manichini erano generalmente in legno,
non si può escludere che si trattasse di uno di
questi.
Sta di fatto che il 4 gennaio 185946, stendendo
l’inventario della chiesa, il nuovo parroco
Domenico Ginocchio menziona due statue di
Nostra Signora del Rosario, segno che, fra il
1750 e il 1859, ne era stata realizzata un’altra.
Appare tuttavia altamente improbabile identificare la statua più recente con un manichino in
legno e stoffa, un tipo di manufatto, per quanto
oggi si sa, legato a una cultura più antica e realizzato soprattutto fino al XVII secolo. La statua scolpita fra il 1750 e il 1859 dovrebbe dunque essere quella ancora conservata in chiesa
(fig. 13), ma i maldestri interventi subiti dall’oggetto rendono impossibile stabilirne l’esatta
cronologia. In particolare genera qualche dubbio l’iconografia, che presenta la Madonna su
un trono, secondo uno schema compositivo, al
42 APSRO, 1647 Libro della Compagnia della B. V. del Rosario detto anche della Madonna.
43 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 293.
44 APSRO, Spesa della chiesa… .
45 ACC, fasc. 86.
46 Ibidem.
- 242 -
Fig. 14 Santo e Giovanni Battista Panario, San Giuseppe
con Gesù Bambino.
Fig. 15 Anonimo scultore del XIX secolo, San Rocco,
1875.
quale l’anonimo autore potrebbe essersi comunque rifatto in epoca più tarda, consueto fino al
XVII secolo, ma meno usato in quelli successivi. Se si pensa alla sorte toccata a molte statue
lignee, stravolte da una totale rigessatura e ridipintura, diventa scientificamente scorretto
escludere che la Madonna del Rosario di Ognio
possa essere identificata con i dati d’archivio
sopra citati e per il momento ipoteticamente
riferiti a un’altra opera, presumibilmente, come
detto, a un manichino non più conservato.
La scritta “SANTO E GIO BATTA PANARIO FO. N. 1866” apposta sul lato sinistro
della tela e la richiesta all’Arcivescovo del parroco Domenico Ginocchio di consentirgli “la
facoltà di benedire un nuovo quadro rappresentante San Giuseppe ad uso di questa chiesa”
fugano ogni incertezza attorno all’ovale raffigurante San Giuseppe con Gesù Bambino47 (fig. 14).
Menzionati da Federico Alizeri48 come appartenenti a “quella incerta generazione che prevenne le riforme dell’Accademia”, Santo (Genova
1786-1881) e suo figlio Giovanni Battista
Panario si caratterizzano, come ben rivela il
quadro in esame, per un linguaggio improntato
a una precisione quasi nazarena che anticipa
soluzioni puriste, unito a una naturalezza sentimentale di sapore romantico.
Al 1867 risale l’organo, costruito dalla ditta
genovese di Giacomo Poggi49 e restaurato nel
1921 e nel 196350, mentre nel 1868 fu realizzato il semplice ma elegante coro, un tempo ornato da una statua lignea raffigurante il titolare
Rocco51, non identificabile con quella, in gesso
47 Ibidem.
48 Cfr. F. ALIZERI 1866, pp. 426-427. Su Santo Panario cfr. anche F. CERVINI, in La Pinacoteca..., 2001, p. 159, scheda n. 87.
Santo Panario lavorò anche per le chiese di Neirone (cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio..., in questo volume) e di
Roccatagliata (EADEM, Roccatagliata. Note sul patrimonio..., in questo volume).
49 Cfr. F. MACERA, D. MERELLO, D. MINETTI 2000, p. 134.
50 Nel 1963 l’intervento costò 4.400 lire ed è segnalato come “rinovazione dell’organo che è riuscita ottima”, cfr. APSRO, Spesa della
chiesa… .
51 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 293 e F. SENA 1981, p. 188.
- 243 -
Fig. 16 Anonimo scultore del XIX secolo, pulpito (particolare).
dipinto, oggi conservata al centro dell’abside e
acquistata da un’altra chiesa, secondo la memoria locale, ben dentro il XX secolo. Quest’ultima
opera andò certamente a sostituire la vecchia
statua lignea, alla quale è da riferire la notizia
che nel 1776 furono pagate 32 lire a un pittore
“per la statua di S. Rocco e lavoro d’intorno”52.
La devozione verso San Rocco da parte della
comunità di Ognio, che attribuiva al santo titolare il merito di aver salvato il paese dall’epidemia di colera che interessò Genova nel 1836-37,
è sottolineata dalla piccola scultura marmorea
(fig. 15) collocata nel 1875 sulla porta d’ingresso della chiesa, come risulta dalla data incisa
nella
parte
inferiore
della
cornice.
L’impostazione e l’andamento formale della sta-
tua si avvicinano così sensibilmente alla formella centrale del pulpito (fig. 16), attualmente
separato dalla sua colonna di sostegno, da far
pensare che le due opere siano state eseguite, se
non nella stessa bottega, almeno nello stesso
periodo. Realizzato in marmi policromi, giallo
di Siena, nero, verde e rosso di Francia, il pulpito presenta infatti i caratteri stilistici propri
dell’Ottocento anche nella sua tendenza alla
rimeditazione sui testi dei secoli precedenti.
Nel 1894 tale Antonio Valente di Cicagna riceve 225 lire per i canti del Crocifisso e come
acconto “del sopracielo dell’altar maggiore”53,
ossia del baldacchino in legno intagliato e dorato (fig. 17), tipico prodotto del XIX secolo,
recante sulla mossa cornice ornata da ovoli e
fogliette gli attributi di San Biagio (tiara e
pastorale) e di San Giovanni Battista (croce) e,
all’interno, la colomba dello Spirito Santo entro
raggiera. Spese per la realizzazione o il restauro
del baldacchino compaiono più volte nei registri parrocchiali, che consentono di capire
come, prima di quello attuale, ne furono realizzati altri tre. Il primo, già fatto accomodare nel
165154, fu eseguito forse poco dopo l’erezione
della chiesa e fu sostituito da quello comprato
nel 166155, mentre per il terzo, alla cui realizzazione concorsero tutte le Compagnie che avevano sede in chiesa, sono annoverate uscite dal
1737 al gennaio del 175856, quando il Libro degli
ascritti al Carmine segnala la spesa di 220 lire
per l’apparato dell’altar maggiore composto da
un baldacchino, quattro busti poi venduti57, sei
candelieri e otto reliquiari.
All’inizio del secolo scorso, con un’unica fusione dei fratelli Picasso fu Matteo ed Enrico
Picasso fu Gio Batta del 1903, furono realizzate le sei campane che, sulla nota della maggiore, compongono un concerto in re calante58. Nel
libro intitolato Spesa della chiesa di S. Rocco di
52 APSRO, Libro degli ascritti… .
53 APSRO, Spesa della chiesa… .
54 APSRO, Libro dei Legati… .
55 APSRO, Libro dei Legati... e Libro de’ Conti… .
56 APSRO, 1647 Libro della Compagnia ..., 1737; Libro de’ Conti..., 1738; Libro della Compagnia..., 1738; Libro degli ascritti..., 17381739, 1745, 1758; Libro della chiesa..., 1739. Dall’analisi della frequenza delle spese e della consistenza delle cifre sembra comunque
probabile che il baldacchino sia stato realizzato fra il 1737 e il 1739.
57 APSRO, Libro degli ascritti..., ottobre 1760.
58 Le campane presentano tutte la stessa data, ma a Ognio si racconta che una di esse venne fusa nella piazza antistante la chiesa.
- 244 -
Fig. 17 Antonio Valente, baldacchino dell’altar maggiore, 1894.
Ognio dalla 1a Domenica gennaio 1894 e seguito59,
alla data 26 dicembre 1903 è infatti segnalato
un pagamento di 860 lire ai fratelli Picasso fonditori, mentre al 16 giugno 1904 si legge “dato
al Signor Firpo venuto da Genova per il collaudo delle campane L. 55”60.
Firmati e datati “Ghigliotti G. B. fece 1906”, gli
affreschi della volta furono pagati al pittore,
nato a Sestri Ponente nel 1853 e morto a
Genova nel 1917, nel 190461. L’artista, che nell’occasione lavorò assieme a un certo Giovanni
Pellegrini, da considerarsi forse un decoratore,
ricevette 4.375 lire “per il ristoro della chiesa”,
ma credo plausibile che in tale voce fosse compresa anche l’esecuzione del lavoro di decorazione pittorica, dato che nei libri dei conti non
si ritrovano altri pagamenti ai due artisti e vista
la consistenza della cifra ricevuta. Raffigurando
Secondo Giorgio Costa, che per conto della Curia di Chiavari sta conducendo la schedatura di tutte le campane conservate nelle
chiese della Diocesi e al quale devo le informazioni sopra riportate, è probabile che una delle sei campane possa essersi rotta subito
e che sia stata rifatta sul posto nello stesso anno.
59 APSRO; il libro contiene notizie fino al 1968.
60 I libri dell’archivio parrocchiale riportano numerosissime volte voci di spesa relative alle campane, cfr. APSRO, Libro dei Legati...,
1648, 19 luglio; 1670, 15 novembre; 1853, 6 ottobre, foglio sciolto; Libro di Varie memorie..., 1860; Libro de’ Conti..., 1701, 21 febbraio e 20 giugno; 1703; Libro degli ascritti ..., 1750, 1 novembre; 1753, agosto; 1770; 1773; 1774; 1777, 30 luglio; 1805; 1807; 1816;
1818, 26 agosto. Nell’archivio della Curia di Chiavari è inoltre conservato un documento del 16 settembre 1787 col quale Luigi
Picasso del quondam Giuseppe campanaro presente, a titolo di “grazioso imprestito” dà lire 200 di moneta corrente a Genova a Gio
Batta Bacigalupo e Giacomo Raffetto, Massari della chiesa, da usare come mutuo per la costruzione di un nuovo mulino. La restituzione è prevista entro otto giorni. Nel febbraio del 1804 gli stessi Massari si costituiscono per altre 200 lire di fronte allo stesso
notaio Gio Maria Benedetto Maggi. Anche in questo caso i soldi dovranno essere resi entro otto giorni. L’archivio della Curia conserva anche un fascicolo con l’estratto di alcune spese del 24 febbraio 1808, nel quale sono indicati vari esborsi per le campane.
61 APSRO, Spesa della chiesa... .
- 245 -
la Madonna del Carmine adorata da San Rocco,
San Biagio e altri Santi (fig. 3 p. 228), fra cui
San Francesco, San Giovanni Battista e
Sant’Ignazio, il grande medaglione centrale
riassume tutte le devozioni presenti nella chiesa
di Ognio e s’inquadra più nella cultura pittorica tardo ottocentesca che in quella degli inizi
del secolo successivo, come denota l’assenza
nella decorazione di elementi Liberty. Attivo
anche nella chiesa di San Maurizio di Neirone,
dove affrescò la volta della navata62, Giovan
Battista Ghigliotti, pur molto operoso anche
per la città di Genova, manifesta una piacevolezza nella resa di alcuni particolari, ma soprattutto una certa difficoltà nella disposizione
delle figure all’interno di composizioni poco
risolte e spesso troppo affollate.
Particolarmente arduo appare il tentativo di
abbinare correttamente i dati d’archivio in
nostro possesso ai gonfaloni ancora esistenti in
chiesa. Senz’altro perduto il gonfalone citato
nell’inventario del 7 settembre 161763 in quanto
probabilmente sostituito forse da quello eseguito nel 174064, scomparso inspiegabilmente quello raffigurante San Rocco che riceve il Rosario
dalle mani di Gesù e Maria65, restano altri tre
stendardi. Il primo, a due facce raffiguranti sul
recto la Madonna del Rosario e sul retro San
Rocco in adorazione dell’Eucarestia, è databile
agli inizi del XX secolo e molto vicino allo stile
di Giovanni Battista Ghigliotti; il secondo,
ancora a due facce e apparentemente più antico,
presenta sulla fronte l’immagine di San
Domenico in atto di ricevere il Rosario dalla
Madonna col Bambino e dietro, ancora una volta,
San Rocco in adorazione dell’Eucarestia; il terzo,
ascrivibile al XIX secolo, reca da una parte la
Morte, effigiata in forma di scheletro con un
ampio sudario, la falce e la clessidra e, dall’altro,
le Anime Purganti ai piedi della croce.
Nessuno di questi stendardi, tuttavia, sembra
stilisticamente riferibile al 1912 o al 1938, anni
a cui, secondo quanto riporta il Libro della cassa
delle Figlie di Maria conservato nell’archivio
parrocchiale, risale l’acquisto di due nuovi gonfaloni pagati rispettivamente 425 e 550 lire.
La pala d’altare raffigurante San Luigi Gonzaga
e San Filippo Neri in adorazione della croce risale
probabilmente all’inizio del XX secolo e testimonia la diffusione della devozione verso questi
santi, ma senza rivestire particolare interesse dal
punto di vista della risoluzione stilistica.
62 Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio ..., in questo volume.
63 ACC, fasc. 86.
64 APSRO, Libro della chiesa… .
65 L’opera, schedata nel 1977 da Fausta Salamino per conto della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed
Etnoantropologico della Liguria, Scheda OA n. 07/00011831, era databile al secolo XVIII e potrebbe dunque essere identificata con
il gonfalone del 1740.
Le foto sono dell’Archivio della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Liguria (Daria
Vinco).
- 246 -
CHIESA DI SAN MARCO D’URRI
NOTIZIE STORICHE
Stefano Montinari
La chiesa di San Marco d’Urri sorge in posizione isolata nei pressi dell’antico percorso che da
Acqua di Ognio sale, toccando prevalentemente
nuclei di case sparse, in direzione di Colla dei
Rossi e la Scoffera.
La chiesa è ad unica navata e si sviluppa per 5,75
m in larghezza e 11 in lunghezza, oltre il presbiterio di m 6,20; addossata al lato destro è una
piccola canonica a due piani, mentre l’alto campanile che la fiancheggia sul lato sinistro appare
in verità piuttosto sproporzionato per una chiesa di campagna, costituendo un’emergenza visiva decisamente curiosa per il contesto circostante, dal carattere prettamente rurale.
Prima di analizzare le vicende storiche che
hanno concorso alla realizzazione dell’edificio,
può essere interessante trascrivere la descrizione
che ne danno i Remondini verso la fine dell’800:
“(…) La chiesa ad una nave larga m. 5,75 e
lunga m. 11 oltre il presbitero di m. 6,20, fu nel
1875 e 76 così traforata profittando della incavatura già esistente delle cappelle da pigliar
aspetto di chiesa a tre navi, assai poco armonizzanti. Essa ha tre soli altari, il maggiore con le
balaustrate di marmo, quello del Rosario con
statua di legno in piedi e quello di S. Carlo
Borromeo, il quale però nel 1836 mutò titolare
essendovi stata innalzata una statua in legno di
N. S. Assunta in Cielo del moderno Stefano
Valle: S. Carlo però vi si festeggia ugualmente.
In coro avvi una discreta ancona rappresentante
M. V. coi SS. Marco, Gio. Battista e Antonio
abb. Nel 1875 fu anche riedificato il campanile
già da parecchi anni atterrato, il quale riuscì
sproporzionato alla facciata per la sformata sua
altezza e in esso collocarono ben tre campane: e
pur cento anni fa, cioè nel 1750 a detta del Rett.
Solari, non avea neppur sacristia. Non trovansi
neppur antichità in questa chiesa, che tale non è
la lavagna che scusa l’architrave della porta come
a Neirone, ove è scolpito a lato del monogramma di Gesù: Sanctus Marcus IHS anno 1727.
Fig. 1 San Marco d’Urri, chiesa di San Marco: veduta
(foto R. Palmisani).
Però attrasse il nostro sguardo un antichissimo
confessionario con intagli ed un pancone con
epigrafe scolpita nel dossale sotto lo stemma
Avanzino a motivo di una lite agitata e vinta nel
1753 della Sig. Maria Caterina Avanzino in
Macaggi, relativo al diritto d’un posto speciale
in chiesa, come allora si costumava”1.
I Remondini, come è noto, riferiscono di aver
reperito le prime notizie documentarie relative
al borgo di Urri, noto anche come La Valle o In
Valle, nei Registri Arcivescovili degli anni 1024
e 1146-47: in merito alla locazione di alcune
terre si dice infatti che le stesse “posite sunt in
loco qui dicitur hurri” ed anche che “laus de scatico et alpiatico hominum de Neironi…et de ago-
1 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 307.
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Fig. 2 San Marco d’Urri, chiesa di San Marco: facciata
(foto R. Palmisani).
nio et de hurri…”; in un’altra locazione di terre si
dice “Dominus Syrus (...) locavit totas res S. Syri
quas ipsi tenuerunt in villa qui appellatur a
lamanigra et Urri ab costa roverosa usque ad
ecclesiam stoblelle” (località a Pannesi)2.
La costruzione della chiesa di San Marco è
invece da far risalire agli anni compresi tra il
1597, anno in cui Mons. Matteo Rivarola,
Arcivescovo di Genova, trovandosi in Cicagna,
“dà facoltà a parecchi uomini di San Martino
del Vento, chiesa annessa a Santa Margherita di
Masso, di fondare la nuova chiesa sotto il titolo
di San Marco, delegando l’arciprete di Uscio a
scegliere il luogo più conveniente”3, ed il 7
Luglio
1603
quando,
con
decreto
dell’Arcivescovo di Genova, Mons. Orazio
Spinola, la chiesa medesima viene eretta in parrocchia, distaccandola dal Vicariato di Bargagli
ed assegnandola a quello di Uscio4.
A parte l’inventario compilato da Mons.
Domenico Caressio nel 1617 - analizzato da
Angela Acordon nelle note sul patrimonio artistico cui si rimanda5 - le prime notizie documentarie reperite presso l’archivio di San
Marco fanno riferimento all’istituzione, presso
la parrocchia, di due Confraternite: la prima,
quella del Santissimo Rosario, mediante apposita bolla del 16196; la seconda, quella della
Carità, a seguito della visita del 4 maggio 1646
da parte del Cardinal Durazzo il quale, con successivo decreto, impartisce anche i seguenti
ordini: “si provveda un baldacchino per le processioni; si raccomodi il tetto; le finestre del
coro sian chiuse con vetri o tele; per l’altare di
San Carlo si provveda un Crocifisso; la finestra
(San Carlo) si chiuda almeno con tela; altare del
Rosario si provveda almeno d’un crocifisso”7.
Alla data del 1646, pertanto, l’altare di San
Carlo e quello del Rosario - ed i relativi arredi8
- sono già esistenti in una qualche forma, anche
se con ogni probabilità risultano di semplicissima fattura: la scarsità di ulteriori documenti
relativi ai primi anni di vita della chiesa non
consente, allo stato attuale delle ricerche, di
conoscere forma, livello di compimento e eventuale veste decorativa del resto dell’edificio.
Bisogna giungere agli anni 1684-85 per registrare la costruzione vera e propria delle cappelle di San Carlo e del Rosario, come risulta da
un’autorizzazione vescovile appositamente rilasciata in data 03/07/1684: “Il R.mo Vicario
Generale Carlo Noceto in atti del notaio Carlo
Boasi cancelliere concesse la facoltà di poter far
2 Ibidem. Cfr. anche F. SENA 1981, p. 103 e segg., il quale però riporta la data del 1024 come 1204.
3 ACC, fasc. 127, 1597. Si ritiene che si tratti della chiesa di Santa Margherita di Tasso di Bargagli.
4 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 307 e segg. Cfr. APSMU, fascicoli vari. Da notare che in alcuni registri viene talvolta riportata la data del 01/07/1603.
5 ACC, fasc. 127, 1617. Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio artistico, in questo volume.
6 APSMU, Libro dei Legati dal 1603 al 1715.
7 APSMU, 1685. In questo libro vi sono descritti li fratelli e sorelle della Compagnia del SS.mo Sacramento, del Rosario, ecc. Il Decreto è del
21/05/1646. Si ricorda che il 1646 è l’anno in cui il Comune di Neirone viene eletto in vicariato indipendente da quello di Uscio.
8 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
- 248 -
Fig. 3 San Marco d’Urri, chiesa di San Marco: particolare della volta (foto R. Palmisani).
fabbricare le cappelle del Rosario e di San Carlo
purché siino visitate dal rev. Rettore
Bartolomeo Fregoglia di Santa Margherita di
Tasso”9.
Nei registri parrocchiali è stato reperito il dettagliato elenco dei lavori svolti e delle relative
spese sostenute entro la fine del 1685, non solo
relativamente alle due cappelle, ma anche al
coro, alla pavimentazione della chiesa e alla
canonica che sembrerebbe essere stata realizzata ex novo in quella data: “Denari sborsati al
fornasiaro, per la licenza di fabricare et anche di
benedire l’altari, (…), per calcina bianca, gieso,
sacchi, pinelli, bogliolo, chiodi per porto di
detta robba, per una ferrata, per ferri delle lampade e altari, per giornate de’ maestri n. 83 fatte
a stabilire il choro della chiesa, la capella di N.S.
del Rosario et alzare chanonica et coprirla
pagati a Lorenzo Caramella per fare le chiappe,
per fattura di chiappa grande, quadretti grandi
et picholissimi, et altri lavori di chiappe per uso
della chiesa et canonica” (1684); “spesa che si fa
per la chiesa per compra di legno per la fornace, per denari sborsati al fornasiaro, per stabili-
re il corpo della chiesa et capella di S.to Carlo
giornate dei maestri in n. 50; per giornate 38
del scopellino per fare lastricare tutta la chiesa
et riquadrare li ciaparoli” (1685)10.
Per la Cappella di San Carlo è indicata anche la
data di compimento “ed ancora, il 03/07/1685,
si finì di tutto punto la cappella di S. Carlo”11.
Negli anni immediatamente successivi sono
documentati altri lavori che riguardano innanzitutto l’esterno. “Si è fatto fare la muraglia del
piazzale dalla porta maestra fino alle scale e si è
speso L. 42” (1692) e le vetrate della chiesa
“speso per 5 telari di vetri, per il porto delli vetri
qui e delli telari da Genova” (1699); pressoché
in contemporanea si attua un primo intervento
alle coperture “speso per abaini n. (120) 81 (l.
24,10), per giornate n. 21, per chiodi, per coppi,
per calcina presa a Genova 4 cantara e per il
porto da Genova a Recco, da Recco a Chiesa”
(1699), ma dopo circa un decennio, nel 1710, si
deve intervenire nuovamente: “speso per far
restaurare il tetto del choro e della chiesa e per
il pagamento dato al maestro et garzone, per
compra di un taglio di pietra per fare gli abadi-
9 APSMU, Libro dei Legati dal 1603… .
10 APSMU, Libro dal 1627 al 1711. Nota di tutte le spese che si fanno per la fabbrica della chiesa e della canonica il 28/05/1684 (ovvero a
partire dal ...).
11 APSMU, Libro dei Legati dal 1603… .
- 249 -
ni per coprire detta chiesa”12.
Intorno al 1702, nel frattempo, sono state sostenute altre spese per il coro “per le spese del
choro ascenda a lire 21 come si vede nel libro
piccolo de decreti L. 21”, ma soprattutto ne sono
registrate di più consistenti al campanile “speso
per comprare legna della calcina, per soldi dati al
fornasiaro cioè Simone sia far le chiappe e cuocere la calcina per 23 giorni, per polvere da aprir
la piedra, per comprare la piedra, per 49 giornate di due maestri al lire 2 al giorno (L. 98)” “per
le spese del campanile come si può vedere nel
libro delli decreti e de legati L. 182.16”13, oltre ad
alcune altre relative agli elementi di arredo14.
Gli inventari del 1710, assai utili per quanto
riguarda la descrizione degli arredi sacri, dal
punto di vista edilizio si limitano a confermare la
presenza in chiesa di tre altari, ovvero i due già
citati e quello maggiore15: più curioso risulta
invece rilevare che nel 1715 sono presenti presso
la chiesa ben sei confraternite, ovvero quelle della
Chiesa, del Corpus Domini, della Madonna, di
San Carlo, del Purgatorio, del Riscatto degli
Schiavi e Luoghi Sacri, anche se manca la data
della loro formale istituzione16.
Le notizie successive riguardano la visita pastorale del 1750 effettuata da Gio Bernardo
Taccone, Canonico prevosto della cattedrale di
Genova, su ordine di Mons. Giuseppe Maria
Saporiti, a seguito della quale viene emanato un
decreto con alcune prescrizioni riguardanti la
chiesa, in particolare gli arredi17.
Gli anni successivi sono impiegati per eseguire
alcune opere che oggi definiremmo di “manutenzione ordinaria” non solo della chiesa, ove si
spende “per fare agiustare il tetto della sacrestia”
(1761), “per chiappe per rifare il tetto della chiesa (L. 50)” (1762), “per fare giustare il suolo della
chiesa (L. 26), per fare giustare la campana (L.
34)” (1765), “per fare imbianchire la chiesa (L.
23), per fare giustare il tetto della canonica (l.
20)” (1766), “per lavoro di un maestro intorno al
tetto e calcina canonica” (1773)18, ma anche degli
arredi, interessati da interventi di restauro19.
A livello di opere edilizie è assai probabile che si
sia trattato di interventi veramente di poco conto
se nel 1775 apprendiamo che la chiesa è dotata
solamente di “un miserabile, e di poc’altezza
campanile, due picciole campane, tre miseri altari il magiore privilegiato, il secondo di Nostra
Signora Assunta ed il terzo di San Carlo
Borromeo”, ovvero una situazione di poco dissimile da quella registrata nel già menzionato
inventario del 171020.
L’ultimo quarto del secolo registra alcuni interventi limitati per lo più agli arredi, tra cui quello
alla statua della Madonna cui fa cenno Angela
Acordon nelle note sul patrimonio artistico21,
oltre ad alcune spese per la riparazione delle
campane allora esistenti22.
All’inizio dell’800 la chiesa subisce il primo dei
numerosi furti degli arredi mobili (in questo caso
di una pisside ed altri piccoli elementi) proprio
mentre è in corso la raccolta dei fondi per realizzare una nuova campana che, per buona sorte,
riesce ad essere portata a termine e consegnata
alla chiesa nel 180223, poco prima che si dia inizio ad altre opere di manutenzione che interessano ancora il tetto della sagrestia vecchia, le pareti e il pavimento della chiesa, i vetri della canonica24.
Nel 1818 le strutture della chiesa, ed in partico-
12 APSMU, Libro dal 1627…, 1692, 1699, 1702, 1710. Nota spese fatte al tempo del Rettore Stefano Maggiolo. APSMU, 1685. In
questo libro..., 1692, 1702.
13 APSMU, 1685. In questo libro..., 1702.
14 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
15 ACC, fasc. 127, 1710. Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
16 APSMU, Libro dei Legati dal 1603…, 1715, 13 gennaio. Elezioni dei Massari nuovi delle varie confraternite.
17 ACC, fasc. 127, 1750.
18 APSMU, Libro degli introiti e spese (dal 1750 al 1836), 1750-1775.
19 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
20 APSMU, Fogli sparsi, Filza III.
21 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
22 APSMU, Libro degli introiti e spese, 1784 e segg.
23 Ivi, 1802. Tra l’altro vi si legge che si è speso: “per fare la campana et altre finiture”, “per una campana nuova di bronzo il peso
rubbi 27,15 a soldi 23 la libra (L. 773,10)”.
24 Ivi, 1805, 1806, 1808, 1818.
- 250 -
lare tetto e campanile, vengono seriamente danneggiate da alcuni fulmini, come riportato dalla
Gazzetta di Genova del 20 maggio dello stesso
anno: “Memoria: Meteore. Un fulmine de’ più
terribili s’è scagliato a mezzo giorno sul campanile della chiesa parrocchiale di S. Marco d’Urri
(detta la Valle) distante tre quarti d’ora da
Neirone in Fontanabuona Questo accidente fu
accompagnato da guasti gravissimi e da fenomeni assai singolari. Attestano i paesani, ch’erano in
qualche distanza, di aver veduto la nuvola procellosa spaccarsi in due e sortirne due catene di
foco, o serpenti infiammati, che si avventarono
ad un tempo sul campanile e sulla chiesa; e sembra infatti dall’esame de’ guasti prodotti che due,
non uno, debbano essere stati i torrenti elettrici.
Il primo, che ha colpito il campanile diroccando
il cupolino ov’era la Croce, e portandone de’
pezzi a mezzo miglio di distanza, e fendendo il
muro a levante, e andando a disperdersi nel
suolo, come sembrano indicare due fossi fatti
presso il campanile medesimo. L’altro più terribile ancora ha scoperto un terzo del tetto della
chiesa, sollevato il pavimento, smosso il battistero di marmo, levate da posto le panche, e spezzati quasi tutti i vetri. È pure entrato nella casa del
Parroco e in primo luogo in cucina scoprendone
il tetto. Erano in sette persone ed è cosa prodigiosa come nessun ne abbia riportato gran
danno”25.
Gli anni compresi tra il 1818 ed il 1824, pertanto, sono dedicati al ripristino delle strutture danneggiate dagli eventi meteorici, con particolare
riferimento proprio al campanile - “speso per
canelle per i ponti del ristoro del campanile, per
mine 27 di calcina selvatica, altre mine 14, per
chiappe palmi 300, per croce del campanile”
(1819), “per chiappe prese in Neirone, per giornate nel campanile” (1820) “per calcina campanile” (1821) “per scale e solari del campanile”
(1824) - ed al tetto e alla facciata della chiesa:
“speso per chiappe ad uso della chiesa e canonica, per giornate alla facciata della chiesa et altri
ripari” (1821), “per la conversa della chiesa, per
tetto della sacrestia vecchia (L. 30), per far
imbianchire la chiesa (L. 12), per lavori a tetto
chiesa” (1824)26.
Pressoché negli stessi anni, il parroco è fatto
oggetto di una specifica comunicazione da parte
del sindaco relativamente alla necessità di provvedere chiesa e campanile di opportune chiavi
con serratura al fine di impedire l’accesso alle
persone non autorizzate27.
Il 18 agosto 1824 parrebbe essere avvenuta una
visita arcivescovile del Cardinal Lambruschini
con conseguente approvazione del bilancio della
parrocchia, anche se non se ne trova conferma
negli archivi vescovili28, mentre si sa per certo che
i lavori, con i pochi denari a disposizione, procedono molto lentamente e interessano in prevalenza il rifacimento delle campane29.
Già nel 1827, Don Luigi Raffetto è costretto a
rivolgere una supplica all’Arcivescovo, facendo
presente che la cappella del Rosario è spaccata in
più luoghi a seguito di un terremoto e risultano
rotti anche il pavimento della chiesa e il tetto
della sagrestia30.
Trattandosi della chiesa più povera dell’intero
Genovesato, come risulterà anche da una successiva lettera del parroco al Magistrato delle chiese31, presumibilmente è solo grazie ad una donazione che si può procedere ad un primo lotto di
lavori spendendo “per ingrandire la sacristia e
stabilire 2 stanze per il parroco cioè metà della
25 APSRO, Miscellaneo lavoro per questa Chiesa Parrocchiale di San Rocco d’Ognio lavoro di Paolo Chichizola moderno parroco di Ognio
addì 27 giugno 1818. Memoria: Meteore, 1818.
26 APSMU, Libro degli introiti e spese, 1819-1824.
27 APSMU, Fogli sparsi, 1822. Circolare del sindaco al parroco il 6 maggio: “A seguito delle Istruzioni, che il parroco dovrebbe aver
già ricevuto dal suo superiore relative alla custodia di campanili, e all’uso delle campane in virtù di dette circolari dell’Ill. Sig.
Colonnello comandante di Chiavari in data del 21 scorso marzo n. 11, mi trovo in dovere di significarle di far munire il campanile della
sua chiesa delle opportune porte e serrature, onde non possa avervi accesso chichessia senza il suo ordine, ed assenso, usando di tutte
quelle cautele e diligenze, affine impedire qualunque inconveniente, che nascer potesse dall’abuso, ed incuria nella custodia.”
28 APSMU, Libro degli introiti e spese, 1824. Il bilancio dell’anno 1824 è approvato da “Joachin canonicus Bonfan”, emissario
dell’Arcivescovo, ma non sono state reperite altre conferme.
29 Ivi, 1827-1831. Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
30 ACC, fasc. 127, 1827. Lettera del 27 giugno.
31 Ivi, 1834. Lettera del 10 marzo.
- 251 -
sacristia dai fondamenti fabricata ed il resto inalzata” (1828), ma soprattutto “per stabilire l’altare di Maria V. del SS.mo Rosario, pulpito ed
incorniciata la capella (1836)32, come può appurare de visu il Cardinale Arcivescovo Placido
Maria Tadini nella sua visita alla chiesa datata
10/05/1836.
La sua relazione così recita: “La chiesa è rettoria,
sacra a San Marco Evangelista dal 7 luglio 1603,
tre altari compreso il maggiore, uno sotto titolo
del Rosario, l’altro di San Carlo, e ora vi si collocherà la statua di M.a V. Assunta al cielo. Vi è
fonte battesimale, campanile e cimiterio non
ultimato; ultima visita card. Lambruschini 1824,
18 agosto, altar maggiore privilegiato”33.
Questa visita, oltre a confermare l’avvenuta realizzazione del nuovo altare del Rosario, fornisce
anche l’importante notizia dell’intitolazione dell’altare già di San Marco all’Assunta, ivi compresa la collocazione in situ della statua lignea, opera
di Stefano Valle, come già ricordato dai
Remondini34.
Presumibilmente dello stesso anno - o al più di
quello successivo - è anche il seguente “bando di
gara” per la realizzazione del coro ligneo della
chiesa: “Condizioni relative al coro da farsi nella
chiesa di San Marco d’Urri. Eseguire e consegnare entro 3 novembre corrente anno L. 2 penale al giorno; legname noce non tinto; suolo e
specchi sotto i sedili di castagno ad eccezione
degli specchi che sono nel Sancta Sanctorum;
l’assuntore deve pagare lire 20 per il disegno; chi
partecipa alla gara deve pagare lire 50 di deposito alla fabbriceria; la fabbriceria farà collaudare il
lavoro”35, ma non è dato sapere chi risulta vincitore della gara stessa anche perché non si ha più
alcuna notizia sulla chiesa fino almeno al 184336,
anno in cui viene a mancare il parroco Luigi
Raffetto che ne era stato rettore per quasi 30
anni.
Il sostituto del Raffetto, Gio Andrea Pejrano,
parroco tra il 1844 ed il 1856, si distingue per il
malcontento causato alla popolazione che molto
presto lo denuncerà all’Arcivescovo e all’autorità
civile ritenendolo indegno di reggere la chiesa e,
forse, il mandante dei sempre più frequenti furti
degli arredi.
Nonostante le accuse mosse più o meno velatamente contro il parroco - tanto che comunque
sin dal 1845 i bilanci devono essere letti ed
approvati pubblicamente di fronte all’intera
popolazione - si può affermare che almeno le
spese di manutenzione ordinaria vengono portate avanti regolarmente dai Massari della chiesa:
tra queste si segnalano quelle per alcuni ristori
alla facciata - “dato al muratore di Toriglia per
giornate 8 alla facciata della chiesa” (1843-1844)
- per il rifacimento del tetto del coro - “speso per
abbadini in n. 620 provveduti per rimettere il
tetto del coro” (1844-1845) – ed infine quelle per
la costruzione di una nuova cucina ad uso della
canonica: “Noi sottoscritti fabbriceri (...) abbiamo fatto costruire ed eddificare una nuova cucina a comodo maggiore della canonica, non ancora però del tutto ultimata per suolo, finestre,
forno, fornetto, e cappa quale lavoro si fece da
divoti parrocchiani ed in parte da pii benefattori” (1845)37.
Aumentando il malcontento, il Pejrano è costretto a difendersi con queste parole: “appena entrato io parroco trovai la chiesa sprovista d’arredi i
più necessari, come sarebbe di pianete, piviali,
tovaglie, camici, corporali ed altro, che in parte
dei miei denari, ed in parte con elemosine, per
mio mezzo procacciare alla stessa provvidi, come
ne risulta dà libri parrocchiali”38.
A comprova della sua buona fede afferma anche
di aver fatto imbiancare l’interno della chiesa,
restaurare la facciata, rimettere in stato decente le
due sagrestie e riparare il tetto del coro e della
32 APSMU, Libro degli introiti e spese, 1827 e segg.
33 APSMU, Fogli sparsi, 1836. Sacra visita dell’Ecc.mo arciv. Placido Maria Tadini, sacerdote Luigi Maria Raffetto.
34 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 307. Per la figura del Valle, cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in
questo volume.
35 APSMU, Fascicolo pratiche varie.
36 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali della chiesa di San Marco d’Urri cominciato il 1° aprile 1843. Vi è la possibilità che si tratti dei fratelli Cordano, dei falegnami Montà e di Bisso Emanuele Luigi, che risultano titolari di un contratto non datato per un’opera in noce
e specchi, riportato sul manoscritto negli anni intorno al 1853.
37 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1843-1845.
38 ACC, fasc. 127, 1848. Lettera del 9 gennaio.
- 252 -
chiesa a sue spese e non con i soldi della fabbriceria; proprio per questo, con una successiva lettera dell’8 luglio del 1848, il rettore chiederà un
aiuto economico per avere qualche oggetto
necessario al culto divino come pianete, piviali,
camici o, almeno, un piviale bianco e una pianeta rossa, o un ternario violaceo39.
Tra il 25 luglio ed il 16 agosto del 1847, San
Marco d’Urri viene visitata da quattro missionari di Fassolo (Genova), con permesso del vicario
generale Gualco, i quali si adoperano per la spirituale riforma delle anime e per promuovere l’erezione di una Via Crucis che viene in effetti istituita l’anno successivo con apposito decreto del
12 aprile 1848 ed è resa possibile, tuttavia, solo
grazie alla munifica donazione di una fedele40.
Dalla documentazione d’archivio si apprende
inoltre che intorno alla metà degli anni ’50 vengono commissionate ad un falegname le due
porte laterali dell’altar maggiore, oggi scomparse
- “speso per due portiere ai lati dell’altar maggiore con fornimento e manifatura dal signor
Stefano Noziglia in Genova”41 - mentre altri
lavori riguardano prevalentemente gli elementi
di arredo, quali ad esempio alcuni candelieri, la
mobilia per la chiesa e la croce dell’altar maggiore42.
Tuttavia, le opere di una certa consistenza si verificano solo dopo l’allontanamento del parroco
Pejrano, il quale aveva comunque già riferito, in
una sua relazione del 2 gennaio 1853, circa la
necessità di provvedere al restauro del tetto ed al
rifacimento della croce dell’altar maggiore
“cadente e affatto indecente”43.
Seguitando a mancare i soldi, si ordina dapprima
al “Burò dei Massari e al Tesoriere” di far rientrare
i redditi del parroco e successivamente, nel gen-
naio 1855, si legge che “considerando poi che fra
i bisogni della chiesa sarebbe necessaria la rinnovazione del Crocifisso e canti della croce all’altar
maggiore, per ciò fu deliberato d’ordinare tali
lavori, e successivamente di fare convenire nanti
dal Giudice mandamentale tutti i renitenti, che
vanno debitori della chiesa”44.
Subito dopo l’insediamento del nuovo parroco,
Don Giuseppe Biglieri, primo di una serie di
prelati che reggeranno la parrocchia per non più
di un decennio cadauno, la chiesa è oggetto nel
maggio del 1857 di una visita pastorale da parte
di Mons. Arcivescovo Andrea Charvaz, il quale
detta alcune prescrizioni per i restauri da compiersi in seguito, visto che in occasione della sua
visita ci si è limitati “a dare il bianco alla chiesa”
mentre si sta provvedendo a realizzare le balaustre dell’altar maggiore45.
Fra gli ordini impartiti si può leggere: “ai confessionali sovrappongasi una piccola croce, e ad uno
affiggasi la tabella dei conti riservati; siano ristorate nei luoghi indicati le mura della chiesa affinché l’umidità del suolo esterno dalla parte di tramontana più non le danneggi, vi si pratichi al di
fuori un fosso sufficientemente largo e profondo.
Nel cimitero: mettere una croce nel mezzo e rifare i muri rovinati; si consiglia inoltre di ottenere
le autorizzazioni per l’ampliamento o per un
nuovo camposanto”46.
Nonostante che dalla relazione dell’Arcivescovo
non sembri emergere tutto sommato una situazione tanto grave, negli anni immediatamente
successivi al 1858 viene deliberato di provvedere
con urgenza ad alcuni lavori di una certa entità,
tanto alla chiesa quanto agli arredi.
Nei registri si legge, infatti, che il consiglio di
Fabbriceria “ordina di comprare un Cristo, ossia
39 Ivi, 1848. Lettera dell’8 luglio.
40 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1848. “Decreto 12 aprile 1848: erezione della Via Crucis, 14 quadretti con i necessari braccialetti, oggetti, e croci dalla benefattrice, nominata la signora Angellina Bisso (cancellato e cambiato in) Mosso di Genova”. Questi
quadretti, oggi, non sono più conservati in chiesa.
41 Ivi, 1849-1855.
42 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
43 APSMU, Nuova erezione ossia stabilimento di Fabbriceria della Chiesa di S. Marco d’Urri (1846-1864). Relazione del 02/01/1853 relativa ai bisogni della chiesa.
44 Ivi, 1855. Nota del gennaio 1855. APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1853-1856.
45 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1856-1857. Si legge, tra l’altro, che “(…) ad agosto speso per i cancelli ossia balaustri di
marmo per il puro costo franchi 340 (Lire di Genova 425), speso di porto per gli stessi marmi di coro (…)”.
46 APSMU, Fogli sparsi, Filza I, 1857. Sacra visita Ecc.mo arc. Andrea Charvaz.
- 253 -
Crocifisso, con croce per processioni, ed un confalone, essendo vecchio e indecente l’attuale”47 e
“stabilisce di comprare una cassa per portare
l’immagine di Nostra Signora Assunta e di comprare calce per ristorare la facciata della chiesa”48;
inoltre “si delibera di provvedere ai restauri al
campanile e al tetto della chiesa, di rifare una
muraglia della canonica ora pericolosa”49 e “si stabilisce il rifacimento del muro della canonica che
minaccia rovina e si costruisce un forno: si nomina per tutto mastro muratore e falegname
Giuseppe Tacchino fu Bartolomeo di questo
luogo”50, provvedendo poi “ai restauri del tetto
del coro della chiesa”51.
I lavori alla facciata ed alle coperture e una parte
di quelli della canonica sono effettivamente eseguiti - “speso per chiappe per la facciata, per calcina, per giornate della facciata a Giovanni
Capurro, per vetri e stocco della finestra della
facciata, saldato conto de’ crocchi, per calcina per
la facciata” (1860), “dato a Girolamo Capurro per
giornate fatte nei ristori alla cucina, per materie
provviste per ristori a chiesa e canonica” (1864),
“speso per sei cantere di calce per ristori della
canonica e tetto della chiesa e del coro soldi 24,
lastre per coprire la sommità dei tetti della chiesa ed il coro, vetri e ferri per chiesa e canonica,
olio, al maestro Tacchino Giuseppe per 13 giornate, al muratore Giovanni Capurro per giorni
19 e mezzo, al maestro B.meo Capurro per giornate sei, per gronda del coro ai Fratelli Resasco”
(1866), “a saldo ai F.lli Rosasco per chiappa grande scalini, al muratore Giovanni Capurro per 6
giornate e mezza, cantara 6 calce per la scalinata,
per 10 giornate impiegate dai manovali nella scalinata della canonica” (1867)52 - ma rimane il
drammatico problema del campanile, ormai
prossimo al crollo: “sarebbe di somma urgenza di
eseguire la riparazione del campanile della chiesa che minaccia rovina col pericolo delle persone
della chiesa e della canonica che per ovviare i
tanti danni bisogna rassodarlo (…); egualmente
che le pareti della chiesa interna sono piene di
macchie e quindi devono essere rintonacate e
doversi togliere l’umidità che tanto danno reca
alle pareti del coro (…): si delibera la nomina di
2 maestri muratori, maestro Giuseppe Tacchino
q. Bartolomeo e Maestro Leopoldo, incaricati di
compilare anche una relazione”53.
A seguito della relazione, stante la consueta
carenza di fondi per provvedere ad una messa in
sicurezza della struttura, ci si rivolge al sottoprefetto del Circondario di Chiavari “che si degni di
ordinare che vengano immediatamente eseguiti i
lavori”54: la demolizione completa del campanile
viene così portata a termine tra l’aprile e l’ottobre
del 1867 quando si afferma che “urge rimuovere
il materiale del campanile demolito e riattare il
tetto della chiesa per impedire l’inondazione
della chiesa in tempo di pioggia, si propone
quindi di provvedere le ardesie e tutto il necessario per rimediare al detto inconveniente ” e “si
delibera la sistemazione delle gronde del tetto
della chiesa rotte dalla demolizione del campanile”55.
Poco dopo, nell’agosto del 1869, la chiesa viene
nuovamente visitata da due missionari che si
adoperano ancora una volta per la spirituale
riforma delle anime al fine di ottenere la benedizione papale che viene poi effettivamente concessa56.
Circa la conformazione della chiesa attuale,
47 APSMU, Nuova erezione…, 1859. Verbali del 3 aprile e del 3 luglio. Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…,
in questo volume.
48 Ivi, 1860. Verbale del 1° luglio. Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
49 Ivi, 1862. Verbale del 6 aprile.
50 Ivi, 1863. Verbale del 4 ottobre.
51 Ivi, 1864. Verbale del 10 aprile.
52 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1860-1868.
53 APSMU, Registro delle deliberazioni della Fabbriceria e della Masseria di San Marco d’Urri (1865-1881), 1866-1867. Verbali del 4
novembre e del 6 gennaio.
54 Ivi, 1867. Verbale del 17 febbraio.
55 Ivi, 1867-1868. Verbali del 6 ottobre e del 5 gennaio.
56 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1869. Si legge: “L’anno del Signore 1869 addì 1 agosto i R. di Missionari urbani Migone
Alessandro e Michelangelo Leoncini cominciarono in questa Chiesa i SS. spirituali esercizi in forma di missioni che terminano il giorno 15 agosto colla benedizione papale con grande profitto spirituale della popolazione”.
- 254 -
come si è visto i Remondini fanno risalire agli
anni 1875-1876 anche le opere interne che
hanno di fatto trasformato l’impianto della chiesa da una a tre navate57. Se il giudizio non proprio entusiastico sul tipo di intervento potrebbe
essere condiviso, giacché la realizzazione delle
aperture in prossimità degli altari del Rosario e
dell’Assunta genera un impianto decisamente
ibrido, la datazione proposta fa presumibilmente
riferimento alle sole notizie orali, in quanto sia i
registri delle deliberazioni, sia i libri dei conti di
quegli anni accennano solo genericamente ad
alcuni “lavori in canonica e chiesa”58: tuttavia i
lavori devono comunque essere già conclusi nel
1882 se in una relazione da consegnare
all’Arcivescovo si dice che “La chiesa è di tre
navate, in origine era una, l’allargamento è avvenuto dopo l’ultima visita”59.
Deliberata finalmente la ricostruzione del campanile - “Fabbricieri dell’anno 1875: dato principio
al campanile della chiesa di S. Marco d’Urri. La
fabbrica cominciata fu dell’anno 1875 del mese di
gennaio 6 giorno di Pasqueta (…)” - si dà l’avvio ai
lavori che vengono conclusi entro il 1879 e comportano una spesa complessiva di 13700 Lire60.
Negli anni successivi si procede ad altre opere
che riguardano la “copertura della facciata di
ardesie affinché l’umidità non le sia dannosa”
(1884), alcuni “restauri alla canonica” (1888)61,
l’ampliamento del piazzale esterno - “speso per la
piazza della Chiesa (L. 111), per riparazione per
il piazzale (L. 20)” (1889) - seguito dalla “decisione di impiantare sul piazzale della chiesa
quattro piante per la frescura nella stagione
calda” (1893) e da ulteriori interventi di restauro
del tetto “si fa osservare come minacciando anzi
facendo danno il tetto della chiesa è necessario
rifarlo e si desidera (farlo) presto” (1894)62: tut-
tavia la maggior parte delle spese fa riferimento
al restauro o alla realizzazione dei nuovi arredi
sacri e delle tele, come ampiamente descritto da
Angela Acordon nelle note sul patrimonio artistico63.
Nel 1896 il Vescovo di Chiavari, Mons.
Fortunato Vinelli, visita la chiesa di San Marco
d’Urri e quella di San Rocco di Ognio; mentre
a San Rocco è conservata copia del decreto
emanato in seguito alla visita vescovile, a San
Marco abbiamo notizia delle prescrizioni
impartite soltanto in maniera indiretta: “Il parroco avvisa i convenuti del decreto lasciato dal
vescovo riguardo all’umidità del coro, al doversi
fare un confessionale per le donne e doversi
fasciare di bianco colla croce sopra del battistero col quadro del battesimo di Cristo”64.
È proprio per ottemperare agli ordini vescovili,
ma anche perché presumibilmente la situazione
è diventata insostenibile, che gli anni tra il 1897
ed il 1902 sono impiegati a cercare di risanare la
zona del coro e della canonica, dapprima all’esterno - “si tratta di opere già deliberate, cioè di
far aggiustare il coro esternamente per asciugarlo quanto è possibile e poi poter fare il coro
internamente: al quale uopo si incarica
Giovanni Capurro di parlare con un falegname
per una relativa perizia” (1900)65 - , e poi all’interno, dove viene finalmente realizzato il nuovo
coro ligneo66.
Agli anni 1903-1905 risalgono poi alcune opere
di restauro della statua di N. S. Assunta e del
Rosario67, mentre è del 1905 la discussione su
dove “collocare in luogo decente l’immagine o
statua di N. S. della Guardia e si ragiona se è
meglio una nicchia o un altare” (01/01/1905),
deliberando nello stesso anno “di far fare due
altarini laterali ovvero un nicchio per la
57 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 307 e segg.
58 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali…, 1874-1875.
59 APSMU, Fogli sparsi, Filza III, 1882. Relazione notificata all’Arcivescovo il 15 luglio.
60 Ivi, 1875. APSMU, Libro de’ conti (1876-1906), 1876-1879.
61 APSMU, Registro delle deliberazioni (1881-1888), 1884-1888. Delibere rispettivamente del 5 ottobre 1884 e del 1° luglio 1888.
62 APSMU, Libro de’ conti…; APSMU, Libro delle deliberazioni (1889-1945). Delibere rispettivamente del 6 ottobre 1889, del 1° gennaio 1893, del 7 gennaio 1894.
63 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
64 APSMU, Libro delle deliberazioni, 1897. Relazione del 25 aprile.
65 Ivi, 1900. Delibera del 7 gennaio.
66 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
67 Ibidem.
- 255 -
Madonna della Guardia”68.
Non si sa a quando risalga la devozione alla
Madonna della Guardia presso San Marco, ma
è certo che l’attuale altare della “navata” sinistra,
in prossimità di quello del Rosario, viene realizzato nel 1906, come regolarmente documentato
nei libri contabili, dove si legge che “Capurro
Luigi ha ricevuto dalla fabriceria di San Marco
d’Urri per la costruzione dell’altare e il tetto
della canonicha e altri lavori L.711,00”69.
Successivamente, “visto il cattivo stato del pavimento della chiesa, si delibera di provvedere
facendo nuovo il pavimento di mezzo ed ai lati
servendosi di ciò che di buono si può trovare nel
vecchio”70 nonché si provvede alla realizzazione
della statua per il nuovo altare di N. S. della
Guardia appena terminato71 e, nell’imminenza
di una visita arcivescovile, si delibera la sistemazione del piazzale esterno che sta rovinando,
oltre ad alcune opere di ordinaria manutenzione delle murature e degli arredi “tenendosi a
poca spesa attesa la scarsità dei mezzi”72.
Gli anni compresi tra le due Guerre Mondiali
sono dedicati ancora ad interventi di ristoro
della chiesa, quasi sempre in prossimità di visite pastorali, tra cui quella del 1924 della quale,
tuttavia, manca il riscontro documentario73: i
lavori più consistenti riguardano spesso le
coperture, il rifacimento del pavimento o la
sistemazione del piazzale esterno74.
68 APSMU, Libro delle deliberazioni, 1905. Delibere del 1° gennaio e del 1° ottobre.
69 APSMU, Libro de’ conti..., 1906. Pagamento datato 11 dicembre. Vi si legge anche che si è “speso per 8 quintali di calce L. 9,60,
per 1000 mattoni bucati L. 4,00, per 180 mattoni grossi L. 5,00, per mattoni piccoli L. 2,40, per 2 ciappe” (1906).
70 APSMU, Libro delle deliberazioni, 1908. Delibera del 5 aprile.
71 Cfr. A. ACORDON, San Marco d’Urri. Note sul patrimonio…, in questo volume.
72 APSMU, Libro delle deliberazioni, 1912. Delibera della prima domenica di gennaio.
73 Ivi, 1924. Delibera del 20 aprile. Nell’attesa di una visita del Vescovo, si decide di “restaurare il pavimento della chiesa, riparare la
chiesa specialmente in fondo, ristorare esterno della chiesa e della canonica”.
74 Ivi, 1928, 1929, 1930, 1931, 1938; APSMU, Libro de’ conti (1919-1953), 1934, 1935, 1938, 1939.
- 256 -
SAN MARCO D’URRI
NOTE SUL PATRIMONIO ARTISTICO
Angela Acordon
Quando nel 1617 Mons. Domenico Caressio ne
redigeva l’inventario1, la chiesa di San Marco
d’Urri possedeva un numero consistente di
paramenti e di suppellettili liturgiche, lignee, in
argento e in metalli meno nobili. L’arredo era
completato da un tabernacolo in legno dorato e
in parte dipinto; da un’ “immagine di rilevo”
della Madonna col Bambino, collocata sul suo
altare e da ritenersi una statua lignea o forse un
manichino, dal momento che l’inventario
segnala anche la presenza di alcuni abiti per
vestirla; da un’ancona con San Carlo ubicata
sull’altare dedicato al santo, composta anche da
una croce con dentro “gli misterii della passione” di Gesù Cristo in legno dipinto; e da “una
ancona della Batissima Vergine con tre figure
con sua tella da coprirla cioè la figura di Sto
Gio Batta Sto Marco titulare de detta ... chiesa
et Sta Consolata”. Di tutte le opere menzionate
si è conservata soltanto la tela raffigurante la
Madonna col Bambino fra San Marco, San
Giovanni Battista e Santa Consolata (fig. 1), la
cui esecuzione sembrerebbe dunque cadere fra il
7 luglio 1603, data del decreto di erezione della
chiesa2 e il 1617, ma l’excursus logico e la presenza fra i santi effigiati del titolare della chiesa, Marco, portano ad accostare almeno la sua
commissione alla data più antica, a meno di non
pensare a una sua provenienza dalla cappella,
succursale della parrocchia di Santa Margherita
di Tasso3, dalla quale ha avuto origine la chiesa
di San Marco. L’analisi stilistica riconduce
infatti il dipinto a una datazione fra la fine del
XVI e gli inizi del XVII secolo, con una probabile collocazione nell’ambito della bottega di
Lazzaro Calvi, la cui vicenda cronologica
(secondo Raffaele Soprani4 era nato attorno al
1502 e aveva vissuto fino a 105 anni) non impe-
Fig. 1 Lazzaro Calvi?, Madonna col Bambino fra San
Marco, San Giovanni Battista e Santa Consolata.
disce di riconoscerlo quale autore, se non altro,
dell’impianto compositivo. Le fisionomie dei
volti, soprattutto del San Marco, percorrono
infatti le opere di questo prolifico e longevo
artista, tendente spesso a reiterare i propri
modelli, sia personalmente, sia attraverso la trasmissione alla bottega, composta dal fratello
Pantaleo e dai suoi figli5. Particolari somiglianze si ravvisano con la Predica del Battista del
Santuario di Nostra Signora del Monte databile al 1572 circa, con la Deposizione della
Santissima Annunziata di Portoria, firmata e
datata 1577 e con la lunetta raffigurante tre
Storie di San Giovanni Evangelista, conservata
1 ACC, fasc. 127, 1617.
2 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Marco d’ Urri. Notizie storiche, in questo volume.
3 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 308.
4 Cfr. R. SOPRANI 1674, pp. 71-76.
5 Sui fratelli Calvi cfr. M. BARTOLETTTI, in La Pittura…, 1988, pp. 660-661; E. PARMA, in La Pittura in…, 1999, pp. 379-380
(con bibliografia precedente).
- 257 -
Fig. 2 Ebanista ligure del secolo XVII, confessionale.
nella chiesa di San Giovanni di Prè e collocabile attorno al 15836, quest’ultima molto vicina
alla tela di San Marco d’Urri nella resa statuaria
degli ampi e pesanti panneggi, nella gestualità
retorica e nelle scelte tipologiche dei visi dall’espressività poco diversificata.
All’attribuzione dell’opera a Lazzaro Calvi
potrebbe porre un ostacolo l’avanzatissima età
del pittore, tuttavia, convergendo attorno al suo
nome gli aspetti stilistici e i dati cronologici,
sarei propensa a riconoscere la sua mano nella
tela. Questa verrebbe dunque a configurarsi
come una delle sue ultime fatiche, pur senza
omettere la possibilità che la bottega possa aver
proposto ai committenti un’opera più antica di
Lazzaro, magari inserendovi la figura di San
Marco, titolare della chiesa; un’ipotesi che
potrebbe essere confermata o smentita da un
restauro preceduto da un’accurata indagine diagnostica. Un’eventuale provenienza della tela
dalla cappella che precedette l’erezione in parrocchia della chiesa spiegherebbe però ancor
meglio il tono arcaico dell’insieme, mentre la
pennellata più morbida e la dolcezza materica,
che conferiscono all’immagine un carattere
appena più naturalistico, potrebbero risalire a
un intervento di restauro antico.
Verso questa soluzione sembrerebbe spingere
anche un’anomalia documentario-iconografica
riscontrabile nella tela. Nella descrizione di
Mons. Caressio del 1617, infatti, la figura femminile inginocchiata sulla sinistra è identificata
con Santa Consolata, riconoscimento che non
mi pare il caso di mettere in discussione data la
prossimità cronologica con il momento di esecuzione del dipinto e in quanto ribadito sia
dall’Arciprete Paolo Gardella nell’inventario
del 29 marzo 1710, sia dalla scritta apposta sulla
copertina del libro tenuto dalla santa7. Difficile
è invece capire come mai, nel 1890, i fratelli
Remondini, descrivendo l’opera come “una
discreta ancona” collocata nel coro, ‘vedessero’ al
posto di Santa Consolata la figura di
Sant’Antonio Abate8. A complicare lo scioglimento del problema si aggiunga che, per quanto oggi appare, la santa effigiata presenta una
corona che appartiene agli attributi di Santa
Elisabetta d’Ungheria o di Santa Brigida di
Svezia, ma non a quelli di Santa Consolata.
Questa incongruenza iconografica potrebbe
giustificarsi con un cambiamento di devozione,
per così dire ‘trasferito’ sull’opera forse nel corso
dell’intervento di restauro cui la tela fu sottoposta nel 18999.
Nella delibera di autorizzazione10 a quell’intervento è annotato anche l’impegno di spesa di
lire 170 per l’acquisto di un dipinto raffigurante San Carlo con la sua cornice, senz’altro da
identificare nella tela, qualitativamente poco
interessante, ancora presente nella navata
destra. Questa andò certamente a sostituire il
dipinto citato nell’inventario del 1617 e già in
cattive condizioni nel marzo del 1693, quando
6 Per l’attribuzione e l’iconografia del dipinto, cfr. G. ZANELLI, in La Commenda…, 2000, pp. 206-207, scheda n. 33.
7 ACC, fasc. 127, 29 marzo 1710. La scritta sul libro è la seguente: CÔSOLATA VIR\GO, P. ORA P. NOBIS\DNI.
8 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, pp. 308-309.
9 APSMU, Libro de’ conti della Frabiceria d’Uri (dal 1898 al 1907), 1899.
10 APSMU, Libro delle deliberazioni (dal 1889 al 1945).
- 258 -
fu fatto “riaccomodare et renfrescare” per 24
lire11.
L’esame degli inventari rafforza l’impressione
sulla cronologia scaturita dall’analisi stilistica
del confessionale ligneo (fig. 2) riccamente
intagliato posto sulla destra dell’entrata. Non
menzionato nel 1617, esso può essere infatti
quasi certamente identificato con l’unico “confessionario” citato nell’inventario del 29 marzo
171012, assai probabilmente con quello fatto
restaurare nel 189913 e forse con quello affidato
alle cure di tale Diosma Basilio il 21 settembre
190214. Già noto ai fratelli Remondini15, il
manufatto attinge a un repertorio ornamentale
esclusivamente vegetale, ripercorrendo specie
nella parte bassa, in epoca già pienamente seicentesca, fisionomie tardo-rinascimentali e
rivelando invece nella trabeazione e nelle lesene
l’esuberante freschezza tipica del decoro del
XVII secolo. Le caratteristiche decorative
improntate a una sorta di horror vacui e la scelta dei motivi ornamentali si ricongiungono a
manufatti liguri della prima metà del XVII
secolo, influenzati dagli stilemi della cultura
gesuita legata alla corrente artistica romana,
rappresentati a Genova dal confessionale e da
quanto resta del mobilio della sagrestia della
chiesa del Gesù, entrambi eseguiti da padre
Gian Paolo Taurino (1580 circa - 1656).
Recepiti anche nella sagrestia del Santuario
della Misericordia di Savona dal sacerdote
Orazio Grassi e dal legnaiolo di Varazze Pietro
Ratti (1642-1643 circa), questi modelli conobbero in periferia e nell’entroterra traduzioni in
forme più semplici, spesso tendenti a interpretare il decoro analogamente a un piatto arabesco, che ha tangenze forse non casuali persino
con la cultura moresca16. L’assenza nei dati d’archivio di una spesa relativa all’acquisto del confessionale induce a ipotizzare un dono alla chie-
Fig. 3 Anonimo scultore genovese della prima metà
del XVIII secolo, Cristo crocifisso.
sa di San Marco17 da parte di un personaggio
per ora sconosciuto, che non è escluso possa
essere addirittura identificato con qualche parrocchiano abile nella lavorazione del legno ed
esecutore dell’oggetto.
La sobria eleganza che accompagna il molle
abbandono del Cristo appena spirato riconduce
il Crocifisso (fig. 3) dell’altar maggiore, senza
dubbio l’opera più interessante e di maggior
pregio conservata in chiesa, all’insegnamento di
Anton Maria Maragliano. I richiami ai più
composti e tranquilli crocifissi del celebre scultore e la qualità davvero elevatissima del manufatto costituiscono altrettante spie della frequentazione da parte dell’anonimo autore dell’importante bottega di Strada Giulia e special-
11 APSMU, 1685. In questo libro vi sono descritti li fratelli e sorelle della Compagnia del SS.mo Sacramento, del Rosario, ecc.
12 ACC, fasc. 127, 29 marzo 1710. Nell’Inventario, Don Paolo Gardella menziona anche un quadro raffigurante la Decollazione di San
Giovanni Battista, del quale non si è reperita altra notizia.
13 APSMU, Libro de’ conti…, 1899.
14 Ibidem.
15 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 309.
16 Cfr. A. GONZALEZ PALACIOS 1996, pp. 61, 65-68.
17 Secondo quanto scrive Francesco Sena (1981, p. 122) il confessionale, come la panca della quale si parlerà più avanti, “furono donati dalla famiglia Avanzino, nel XVIII secolo”.
- 259 -
Fig.4 Anonimo lapicida del XVIII secolo, lastra in ardesia, 1727.
mente la fisionomia allungata del viso dal fragile profilo. I caratteri stilistici del Crocifisso non
ricadono tuttavia pienamente nel linguaggio di
Anton Maria. Si può quindi pensare a un’esecuzione dell’opera all’interno dell’atelier maraglianesco, a diretto contatto col maestro, da
parte di uno scultore di talento, per il momento
non ancora identificabile con nessuno degli
artisti che ne presero a modello il dettato18. Uno
stretto seguace, dunque, che raggiunse risultati
simili a quelli dell’autore del Crocifisso della parrocchiale di Casella19, databile fra il 1724 e il
1730. Anche il Crocifisso di San Marco d’Urri
può essere datato attorno a quegli anni o più
probabilmente, come pensa Daniele Sanguineti
(comunicazione orale), verso il 1730-50 e
ascritto a un allievo che si rifaceva a modelli
maraglianeschi precedenti.
Circa la datazione appare interessante che nell’inventario del 21 novembre 1716 sia annotata
la presenza in chiesa di “2 cristi di legno uno dei
quali piccolo e l’altro grosso, ma vecchio”20. Fu
probabilmente a seguito di tale usura e dopo
tale anno che venne fatto eseguire l’attuale
Crocifisso, che versava già in cattivo stato nel
1853, quando i verbali della Fabbriceria annotavano fra i bisogni della chiesa il restauro della
Croce dell’altar maggiore21, non realizzato per
mancanza di fondi fino al 1855, quando il parroco anticipò la cifra per il lavoro22. Oltre al probabile recupero della struttura, in quella circostanza venne sostituita la croce e furono
aggiunti i tre nuovi canti e il titolo, forniti dal
sig. Giuseppe Richelmi di Genova per una
spesa di lire 12023. L’esito di questi lavori emerge nell’inventario del 185724, nel quale vengono
menzionati due crocifissi in buono stato, sul
pulpito e sull’altar maggiore. Nel 1895-1896,
infine, si deliberò la doratura del Crocifisso25, la
cui spesa di lire 200 è annotata nel biennio
1895-1896 ed è comprensiva della doratura di
un non meglio identificabile “Crocifisso delle
donne” e di otto cartegloria26.
Al secolo XVIII sono ancora ascrivibili la lastra
18 Su Anton Maria Maragliano, cfr. D. SANGUINETI a 1998.
19 Cfr. R. SANTAMARIA 1999, p. 87.
20 ACC, fasc. 127, 21 marzo 1716.
21 APSMU, Nuova erezione ossia stabilimento di Fabbriceria della chiesa di S. Marco d’Urri - li 28 aprile 1846, 1853.
22 APSMU, Libro de’ conti parrocchiali della chiesa di San Marco d’Urri cominciato il 1° aprile 1843, 1855.
23 Ibidem.
24 APSMU, fogli sparsi, filza III.
25 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1895-1896.
26 APSMU, Libro de’conti (dal 1876 al 1906), 1895-1896.
- 260 -
Fig. 5 Anonimo intagliatore della prima metà del secolo XVIII, panca.
in ardesia (fig. 4) sulla porta d’ingresso della
chiesa, ornata da medaglione raggiato centrale
racchiudente il monogramma cristologico e
recante la scritta incisa “SANCTUS MARCUS
ANNO 1727”, e la panca (fig. 5) in legno intagliato, caratterizzata da una lunga epigrafe che
corre sullo schienale sotto lo stemma della famiglia Avanzino. Secondo quanto riferito dai fratelli Remondini il manufatto si collega a una
contesa, vinta a metà del XVIII secolo dalla
signora Anna Maria Macaggi, relativa al diritto
di un posto speciale in chiesa27, ma l’oggetto
deve considerarsi precedente, sia per l’aspetto
morfologico e tipologico, che fa pensare al perdurare di stilemi seicenteschi all’inizio del secolo successivo, sia per un restauro eseguito nel
1733, almeno a voler prestare fede a quanto
affermato nella prima riga dell’iscrizione: LAURENTJ FELICIS MACAGGI UTI DNA
RESTAURAVIT ANNO 173328.
Nonostante la devozione al Santissimo Rosario
sia attestata ab antiquo nella chiesa di San Marco
d’Urri dato che fin dall’inventario del 1617
viene menzionata un’immagine a rilievo della
Madonna col Bambino collocata sull’altare del
Rosario e che l’istituzione della Confraternita
risale al 161929, la statua (fig. 6) oggi presente in
chiesa appartiene a un periodo molto più tardo.
I caratteri stilistici e il raggelamento delle invenzioni e delle tipologie maraglianesche, evidenti
soprattutto nella stilizzazione della nuvola, dei
visi e del velo bianco che rigidamente copre il
27 Cfr. A. e M. REMONDINI 1890, p. 309.
28 Questo il testo completo dell’iscrizione: LAURENTJ FELICIS MACAGGI UTI DNA / RESTAURAVIT ANNO 1733. NEC
NON IUXTA SENTIAM / LATAM A RMO D. VIC.O GENLI UTEX ACTIS ANNI 1754 ETIAMQ. / PRO EXEQ.NE EIUSDEM COM ORDINE EXECMORUM DEPUTATORUM / AD RES ROCCATALIATAE NOMEN DENUO AC STEMMA POSUIT / ANNO 1755.
29 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Marco d’Urri …, in questo volume.
- 261 -
Fig. 6 Anonimo scultore genovese della seconda metà
del XVIII secolo, Madonna del Rosario.
capo a Maria, si accordano con il linguaggio
della scultura lignea genovese attorno agli anni
Settanta del XVIII secolo e in particolare –
come mi suggerisce Daniele Sanguineti - con il
procedere di Agostino Storace30, allievo strettissimo di Maragliano e continuatore, seppur con
toni più accademici, delle sue forme. Una più
corretta valutazione è comunque resa difficoltosa dal pesante rimaneggiamento al quale è stata
sottoposta la statua, totalmente ridipinta e in
gran parte rigessata, probabilmente, nel restauro
del 1903, per una spesa prevista di lire 20031. In
quell’anno la statua fu consegnata, assieme alla
Madonna Assunta (fig. 8), della quale avremo
occasione di parlare fra breve, all’indoratore
Carpi, credo identificabile con quel Luigi, attivo
anche per le chiese di San Maurizio a Neirone e
di San Lorenzo a Roccatagliata32, che entrerà
poi in conflitto con la Fabbriceria a proposito
della cifra pattuita33. I caratteri dell’intervento,
infatti, non paiono poter risalire al 1793, anno in
cui sono segnalate le uscite di lire 38 “per aggiustare la statua della Madonna”, di lire 12 “per
farla portare ad aggiustare ad Uscio” e di lire 4
“per portare la statua di Nostra Signora in
Genova”34.
Nel 1774 fu acquistata la “pila in marmo et il suo
recipiente”, ossia il semplice fonte battesimale
(fig. 7), ornato sulla fronte da un cherubino
secondo una tipologia molto diffusa fin dal XVI
secolo35. La chiesa era tuttavia già dotata di un
battistero il 29 gennaio 171036, ma dalla visita
pastorale di Monsignor Saporiti del 6 luglio
175037, apprendiamo che esso si trovava alla sinistra dell’altar maggiore, che era chiuso da un
cancello ligneo e coperto da un ciborio sovrastato da una croce, che il visitatore apostolico prescriveva di sostituire con l’immagine di San
Giovanni Battista. Il visitatore apostolico non fa
alcun cenno alla pila marmorea e definisce il
tutto “satis decens”, abbastanza decente, facendo
perciò pensare più a un oggetto costituito da un
materiale povero che al pregiato marmo. È dunque probabile che nel 1774 si sia provveduto a
far eseguire la pila con la sua vasca battesimale
in marmo per impreziosire e nobilitare il vecchio
battistero.
Dal 1827 al 183138 la parrocchia si impegnò
nella spesa per le campane. Il lavoro fu commissionato ai fratelli Picasso quondam Luigi di
Avegno, noti fonditori di campane: nel 1827
Giuseppe riceve pagamenti per la campana
30 Su Agostino Storace, cfr. D. SANGUINETI 1994, pp. 439-454; ID. 1998 b, pp. 141-152; R. SANTAMARIA 1999, pp. 98-101.
31 APSMU, Libro de’conti…, 1903.
32 Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio artistico, in questo volume; EAD., Roccatagliata. Note sul patrimonio artistico, in
questo volume.
33 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1903, 4 ottobre. Secondo il contratto l’indoratore Carpi avrebbe dovuto ricevere 400 lire, ma,
a fine lavoro, ne pretendeva 550. Essendogliene state già pagate 350, la Fabbriceria decide di dargli ancora solo 40 lire, per un totale,
dunque, di 390 lire.
34 APSMU, Libro degli introiti e spese (dal 1750 al 1836), 1793.
35 APSMU, Ivi, 1774.
36 ACC, fasc. 127, 1710.
37 ACC, Ivi, 1750.
38 APSMU, Libro degli introiti… .
- 262 -
maggiore e per la campana piccola39, mentre nel
1831 è la volta di suo fratello Giovanni Battista,
pagato “per la seconda fondazione della campana in giugno 1830 per saldo di tre rubbi di
metallo per rottura campana”40. La campana
rotta era forse quella acquistata nel 1802 per un
totale di 773, 10 lire41. Il 10 ottobre 1909 il Libro
dei Conti riporta un’uscita di L. 80 come acconto per le campane42, ma nessuna di queste voci
d’archivio è riferibile alle quattro campane che
compongono il concerto attuale, intonato in re.
La campana maggiore, appunto in re e recante
una targhetta con la scritta “E. Picasso 1966”, è
una rifusione, ma non sappiamo di quale campana, mentre le altre tre, rispettivamente in mi
bemolle, fa e sol bemolle, presentano la scritta a
mano che le identifica come opere realizzate nel
1876 dai “fratelli Picasso fu Emanuele e
Giacomo Zio”43.
Nel 1836, come apprendiamo dalla visita pastorale di Mons. Placido Maria Tadini44, la chiesa
decise di dotarsi di una statua raffigurante
Maria Vergine assunta in cielo (fig. 8) da collocarsi all’altare intitolato a San Carlo. L’opera fu
commissionata allo scultore genovese Stefano
Valle, che l’11 agosto del 1837 la consegnò ai
Massari della chiesa assieme a una lettera per il
parroco, dalla quale si evince una spesa totale di
lire 500 e il rammarico dell’artista di non poter
essere presente alla festa che verrà tributata alla
sua opera45. La statua era già nota a Federico
Alizeri46, che tratta brevemente dell’attività di
Stefano Valle includendolo, con Giambattista
Drago e Paolo Olivari, fra gli scultori dediti
principalmente a lavorare il legno. Poco attivi
Fig.7 Anonimo lapicida del secolo XVIII, acquasantiera.
per la città di Genova, ma molto “per contadi e
per ville”, fatto che - a giudizio dello scrittore renderà loro difficile assurgere alla fama e alla
gloria, questi scultori rimeditarono sul linguaggio dei più importanti artisti passati, giungendo
a uno stile misurato per effetto dei dettami
appresi nel corso dei loro studi nell’Accademia
dei Professori del Disegno. Nel 1860 si stabilì
di far costruire una cassa per portare in processione la statua, i pagamenti furono effettuati
parte in quello stesso anno, parte nel successivo
ed ammontarono a 80 franchi47. L’anno dopo,
39 Ivi, 1827.
40 Ivi, 1831.
41 Ivi, 1802.
42 APSMU, Conto della Frabiceria di S. Marco d’Urri (dal 1907 al 1915).
43 I dati relativi alle campane attualmente in uso mi sono stati forniti da Giorgio Costa, che qui ringrazio sentitamente. L’esperto sta
conducendo una catalogazione completa di tutte le campane conservate nella Diocesi di Chiavari.
44 APSMU, fogli sparsi, filza III.
45 La lettera, della quale segue il testo, è conservata in APSMU, Cartella pratiche varie. “Consegnai la figura rappresentante Maria
Vergine Assunta ai Massari da voi mandati tutta bene ultimata colla sua aureola di stelle d’argento detti Massari mi pagarono un
acconto nel suo nome di lire sessanta, e quindici dico 60,15 un acconto di detta figura che colla somma dalla vista di lire centocinquanta
fa 210,15 che andare in 500 restano ancora 289 che di questi si è obbligato il Sig. Giovanni Perasso per 150 a pagarsi in tutto l’agosto
il restante a pagarsi in tutto novembre 1837. L’aureola costa lire venti, che questa è stata pagata dal Sig. Paolo Tacchini. I paesani non
sanno niente del prezzo che costa. (…) mi rincresce il non poter venire appresso della figura e godere della festa, e della sua persona,
per troppo lavoro di premura. Stefano Valle”.
46 Cfr. F. ALIZERI, 1866, vol. III, pp. 414-415.
47 APSMU, Nuova erezione…, 1860 e Libro de’ conti…, 1860-1861.
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Fig. 8 Stefano Valle, Maria assunta al cielo.
nel 1862, la Madonna Assunta ebbe bisogno di
un restauro che costò alla chiesa L. 65,1048, assai
meno di quello, al quale si è già fatto cenno,
eseguito dall’indoratore Carpi e costato inizialmente lire 15049.
Alla medesima matrice culturale accademizzante
di Stefano Valle, ma con risultati alquanto modesti, attinge anche l’ignoto scultore del Cristo processionale oggi collocato sulla parete sinistra
della navata centrale. L’opera fu acquistata nel
185950, subì un danno presumibilmente molto
grave essendo stata fatta cadere nel giorno
dell’Assunta del 188851, e fu perciò sottoposta a
restauro nel 188952. L’evento ebbe persino una
coda legale nel 1894-1895, quando i libri registrano un pagamento all’avvocato Chichizola, al
quale era stato probabilmente affidato il compito
di citare in giudizio, per ottenere il rimborso
delle spese, i responsabili dell’incidente53.
Al 1859 risale anche la decisione della
Fabbriceria di acquistare un gonfalone54, la cui
immagine, non ricostruibile in quanto non pervenutaci, fu affidata a un non altrimenti noto pittore Antolo (o Antola?) di Genova, probabilmente la stessa persona pagata nel 1891-1892
dalla Fabbriceria di Neirone per l’esecuzione dei
Misteri del Rosario55.
I libri d’archivio restituiscono parecchie notizie
relative all’esecuzione del coro, anche in relazione ai gravi problemi di umidità della parte muraria56. L’archivio conserva infatti un foglio sciolto57, che costituisce una sorta di bando di gara,
anteriore al 3 novembre 1837, ma, almeno nella
sua parte lignea, il coro attuale fu eseguito nel
1900-1901, per una spesa, risultante dal libro dei
conti, di 1165 lire58. Eseguita probabilmente da
artigiani locali, l’opera è caratterizzata da specchiature lisce intervallate da lesene scanalate sormontate da capitelli con decori vegetali e presenta un’elegante purezza di forme di gusto classicheggiante.
Non sappiamo a quale data risalga nella chiesa di
San Marco la devozione verso Nostra Signora
della Guardia, ma a partire dal 1905 gli atti parrocchiali delineano una ‘discussione’ su dove collocarne l’immagine o la statua (fig. 9), ancora da
eseguire. In particolare si discute se sia meglio
una nicchia o un altare59 e il primo ottobre dello
stesso anno si delibera “di far fare due altarini
48 Ivi, 1862.
49 APSMU, Libro de’ conti…, 1903; Deliberazioni…, 1903.
50 APSMU, Nuova erezione…, 1859.
51 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1889, 7 aprile.
52 APSMU, Libro de’ conti…, 1889.
53 Ivi, 1894-1895.
54 “Il consiglio di Fabbriceria ha ordinato di comprare (...) uno confalone, essendo vecchio e indecente l’attuale”, cfr. APSMU, Nuova
erezione…, 1859, 3 aprile.
55 Cfr. A. ACORDON, Neirone. Note sul patrimonio..., in questo volume. Per l’esecuzione dell’opera il pittore percepì 52 lire, ben poco
rispetto alla cifra generale dello stendardo, costato fra tessuti e galloni 514,8 lire: cfr. APSMU, Libro de’ conti…, 1859.
56 Cfr. S. MONTINARI, Chiesa di San Marco d’ Urri…, in questo volume.
57 APSMU, Fascicolo pratiche varie.
58 APSMU, Libro de’ conti…, 1901-1902.
59 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1905.
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laterali ovvero un nicchio per la Madonna della
Guardia”60. Nessun altro dato fino al 3 gennaio
1909, quando si decide di raccogliere il denaro
per far eseguire una statua in cartapesta di
Nostra Signora della Guardia da un artista specializzato nel genere61. La parrocchia interpellò
infatti lo scultore che raccolse forse la sua massima fama proprio nella realizzazione del soggetto della Madonna della Guardia apparsa al
Beato Benedetto Pareto, il rapallese Antonio
Canepa (Rapallo, 25 marzo 1850 - Genova, 20
marzo 1931)62, che richiese un acconto di lire
150 (ma dai dati d’archivio non è poi emersa la
cifra totale) per il legno e altri oggetti. Fu forse
lo scultore stesso, specializzato nell’intaglio
ligneo, a suggerire alla Fabbriceria di non realizzare l’opera in cartapesta63. L’artista, molto
prolifico, aveva eseguito la sua prima statua raffigurante la Madonna della Guardia nel 1893
per l’erigendo santuario di Velva, ancora nella
Diocesi di Chiavari, riscuotendo grande successo anche a Genova, dove, nell’attesa che fosse
terminato l’edificio (1895), l’opera venne esposta prima in Nostra Signora delle Vigne e poi in
San Torpede64. La perfetta politezza della statua, che richiama più la levigatezza del marmo
che la spigolosità del legno, rimanda alla cultura di stampo classicista, nella quale lo scultore,
allievo nell’Accademia di Santo Varni e
Giovanni Scanzi, si formò.
Nel ventesimo secolo si registrano ancora spese
per le campane nel 190965 e una curiosa vicenda
legata a una statua di un metro e mezzo raffigurante il Sacro Cuore, che un’anonima benefattrice desiderava donare alla chiesa, come si
evince da una lettera del 31 marzo 192666 del
venditore di Articoli Sacri Costanzo Boggiano,
il cui negozio si trovava in Via Tommaso
Fig. 9 Antonio Canepa, Madonna della Guardia.
Reggio a Genova, che ne annuncia l’arrivo per
l’aprile successivo. Unica richiesta della donatrice è che in chiesa venga istituita una festa
annuale dedicata al Sacro Cuore. Il successivo
18 maggio, tuttavia, Boggiano scrive di nuovo al
parroco per lamentarsi, per conto della donatrice, per non aver ottenuto ancora alcuna risposta, ma ribadisce che non appena arriverà l’opera, avvertirà perché si disponga di andarla a
prendere67. Il dono dovette essere poi accettato
visto che la statua è ancor oggi conservata in
sagrestia.
60 Ibidem.
61 Ibidem.
62 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1909, 3 gennaio. Su Antonio Canepa, cfr. P. A. STOPPIGLIA, 1932; R. SANTAMARIA,
1999, pp. 96-97; voce Canepa, Antonio, in Dizionario Biografico ..., 1994, II, p. 471.
63 APSMU, Libro delle deliberazioni…, 1909, 2 maggio.
64 P. A. STOPPIGLIA 1932, pp. 15-27.
65 APSMU, Conto della Fabbriceria, 1909.
66 APSMU, Fascicolo pratiche varie.
67 Ibidem.
Le foto sono dell’Archivio della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Liguria (Daria
Vinco).
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BREVE STORIA DELL’OCCUPAZIONE UMANA
Stefano Montinari
III-II millennio a.C.: l’attuale Liguria è occupata da gruppi umani la cui cultura materiale
può essere ascritta rispettivamente all’Età del
Rame e all’Età del Bronzo. L’economia, prevalentemente di sussistenza, attiva la pastorizia di
alpeggio (piccola transumanza) e la coltivazione del minerale di rame.
XVI sec. a.C.: a partire dalla Media Età del
Bronzo cominciano a manifestarsi caratteri che
diventeranno propri dei gruppi chiamati Liguri
dalle fonti antiche, archeologicamente riconoscibili nelle testimonianze dell’Età del Ferro
(IX-III sec. a. C.).
VI-IV secolo a.C.: a questo periodo risalgono
alcuni apparati funerari rinvenuti in località
Corsiglia di Neirone, di poco più recenti
rispetto ai rinvenimenti della ben nota necropoli di Chiavari (fine VIII-VII sec. a.C.), nella
quale sono stati rintracciati influssi sia etruschi
che padani.
III secolo a.C.: le notizie relative alle lotte tra i
Liguri della Riviera di Levante e i Romani
fanno spesso riferimento agli eventi di maggiore rilievo quali la vittoria di Tiberio Sempronio
Gracco (238 a.C.), il trionfo sui Liguri di
Lucio Cornelio Lentulo nel 236 e le spedizioni di Quinto Fabio Massimo nel 233 e 230
a.C., anche se l’area nella quale si svolgono tali
eventi è da identificarsi più probabilmente con
quella pisano-lunense; i dati archeologici relativi al periodo in esame, tuttavia, sono piuttosto scarsi.
II secolo a.C.: la colonizzazione romana diviene sistematica a partire dal 158 a.C. con la
definitiva sconfitta dei Veleiati, mentre la
costruzione della Via Aemilia Scauri tra Luni e
Genova nel 109 a. C. è l’unica notizia di rilievo per la zona in questione. I Liguri mantengono inizialmente una qualche indipendenza
anche in età imperiale giacché nella Tavola di
Velleia, ove sono individuati i vici romani di
epoca traianea, non è documentato alcun
municipio nella riviera di levante, sebbene l’organizzazione del territorio sia assimilabile a
quella romana, suddivisa in municipio, pago,
vico ed un castellare diviso tra i diversi vici. Si
presume che il primitivo ordinamento ecclesiastico che fa capo alla pieve, intesa come unità
religioso-territoriale, derivi proprio dalle antiche circoscrizioni pagensi sopravvissute alla
conquista romana. La pieve intesa come edificio era invece la chiesa-matrice, la sola in cui si
potesse amministrare il sacramento del
Battesimo, anche dopo il sorgere di altre chiese o cappelle. Ancora nel XII secolo le pievi
sono solo 4 in tutta la vallata ovvero Lavagna,
Cicagna, Uscio e Bargagli.
500 d.C. circa: con la disgregazione dell’impero romano, la Liguria di levante si trova soggetta da un lato all’influenza bizantina e dall’altro subisce forti pressioni longobarde provenienti da nord, anche se difficilmente si arriva
ad uno scontro aperto; la curia ambrosiana,
rifugiatasi a Genova nel 569, dà origine, con la
pieve di Uscio, ai suoi vasti possedimenti nella
valle che permarranno fino al Rinascimento.
643 d.C.: con la definitiva vittoria del longobardo Rotari si ha l’inizio dell’era feudale, con
l’istituzione dei ducati (che nascono dalle ceneri dei municipi romani), divisi in comitati retti
da comes, ovvero conti, il cui potere si accresce
esponenzialmente, in parallelo con la diminuzione del controllo del potere centrale.
VII sec.: dopo la fondazione del monastero di
San Colombano di Bobbio nel 614-15, i monaci benedettini cooperano con Rotari per l’evangelizzazione sistematica delle valli. Con ogni
probabilità, tuttavia, il controllo milanese sulla
valle è rispettato, come attestato anche dalle
intitolazioni delle chiese: se già ad Orero,
infatti, è presente un’intitolazione a
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Sant’Ambrogio, oltre Soglio prevalgono i titoli
di San Michele Arcangelo (longobardo) e San
Martino (santo guerriero bizantino), spesso
accoppiati a poca distanza l’uno dall’altro.
774 d.C.: quando re Desiderio è sconfitto da
Carlo Magno, tutta la Liguria passa sotto la
dominazione dei Franchi che raggruppano le
contee in marche, rette da marchesi con carica
vitalizia ma non ereditaria; nascono così la
Marca Aleramica (Monferrato, Acqui, Savona),
la Marca Arduinica (Alba, Albenga, Mondovì),
la Marca Obertenga (Genova, Tortona, Pavia,
Milano e la Lunigiana).
774 d.C.: la val d’Aveto e la bassa
Fontanabuona passano con editto carolingio ai
monaci di Bobbio; Cicagna, Lavagna e Rapallo
formano un Comitato con sede del conte a
Rapallo, dipendente dal marchese Oberto
d’Este (residente a Este e Rovigo e quindi lontanissimo); il potere passa dagli Estensi ai
Malaspina.
936-973 d.C.: sotto Ottone I il potere amministrativo tende a confondersi ancor più con
quello religioso perché per arginare le pretese
dei conti e dei marchesi, poco disposti a essere
controllati, Ottone I aumenta in modo considerevole il potere dei vescovi.
1000 circa: crescono i contrasti tra Genova, che
sta acquistando sempre più potere e Milano,
che seguita ad esercitare il controllo sul territorio grazie alla presenza dei monasteri; a Bobbio
(che ha l’appoggio delle famiglie Malaspina e
Fieschi), Genova deve opporre San Fruttuoso
di Capodimonte (con i non meno potenti
Doria). Si consolida l’Avvocazia della
Fontanabuona (che comprende Ognio,
Gattorna, Neirone e Tribogna), ovvero una
struttura di impianto longobardo (gli Advocati
erano un ramo affiliato ai Visconti) che ufficialmente deve controllare l’esazione delle
decime spettanti all’arcivescovo di Milano, tramite il monastero di Santo Stefano a Genova,
ma in pratica consiste in un vero e proprio con-
trollo feudale da parte del signore locale.
La fortezza di Roccatagliata di Neirone, di origine longobarda e spettante per metà alla diocesi milanese e per metà a quella genovese, è
controllata dai Fieschi per conto dei milanesi e,
fino alla loro rinuncia, dai Doria per conto
della Repubblica di Genova.
1132-1174: si acuiscono i contrasti tra i
Fieschi, che sono a Lavagna e Roccatagliata, ed
i Malaspina stanziati a Santo Stefano d’Aveto;
Genova, dopo alcuni tentativi di mediazione
interessata che si rivelano infruttuosi, assume il
controllo di Chiavari con la costruzione della
fortezza ed inevitabile è la guerra. Genova si
trova a dover fronteggiare i Malaspina,
Federico Barbarossa, la città di Pisa, i Fieschi
di Lavagna e i Da Passano di Framura tutti
alleati contro la Repubblica; dopo alterne
vicende i Malaspina si trovano soli contro
Genova per cui devono progressivamente cedere,
rinunciando
definitivamente
alla
Fontanabuona nel 1174.
fine XII-metà XIV secolo: cresce la forza dei
Fieschi, vassalli genovesi e tradizionalmente
guelfi; Genova, che nel frattempo è dilaniata da
lotte intestine, nomina un podestà straniero ed
i suoi possedimenti sono divisi in podesterie:
una di queste è costituita da Chiavari, Lavagna
e Rapallo con le valli Fontanabuona, Sturla e
Garibaldo, amministrata dai conti di Lavagna
con sede a Rapallo; ma nel 1220, a causa di
altre lotte interne ai Fieschi, la podesteria si
scinde in quelle di Rapallo e Cicagna la prima,
Lavagna la seconda.
1389: Cicagna diviene sede di podesteria autonoma.
ante 1547: il quadro politico della Riviera di
Levante è caratterizzato dalla lotta tra la
Repubblica di Genova (ghibellina) ed i conti
Fieschi di Lavagna (che nel frattempo hanno
riarmato la fortezza di Roccatagliata) anche se,
fino alla congiura dei Fieschi, non sfocia mai in
una vera e propria guerra; per questo, il proble-
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ma più grave che si verifica in Fontanabuona
per tutto il XV secolo è costituito dal banditismo.
post 1547: dopo la caduta dei Fieschi, la valle
continua ad essere segnata dal banditismo e
dalle guerriglie locali, tra cui si segnala quella
del 1578.
1608: Cicagna viene inclusa nel capitanato di
Rapallo.
1672: è di quest’anno il noto tentativo di congiura dei valligiani guidati da Raffaele della
Torre di Calvari contro la Repubblica di
Genova, con l’appoggio promesso ma non concesso dei Savoia, desiderosi di un nuovo sbocco
al mare dopo aver perso Oneglia nel 1625. La
rivolta è soffocata nel sangue e la pace è mantenuta e, stranamente, pare diminuire anche il
fenomeno del banditismo.
1797-1815: dopo le resistenze riuscite del
1747, la Repubblica è costretta a capitolare di
fronte ai Francesi che istituiscono la
Repubblica Democratica Ligure, solo una premessa all’annessione all’impero napoleonico;
anche in questo caso i fontanini si dimostrano
insofferenti e si ribellano - dapprima pacificamente - agli emissari inviati in valle per parlare della Costituzione democratica che dovrebbe essere approvata dal popolo il 14 settembre
1797. Il 3 settembre, guidati da Paolo
Bacigalupo ed ancora una volta dopo il Balilla
al Grido di “Viva Maria”, i rivoltosi muovono
su Chiavari e poi Rapallo, Recco, Nervi ma a
Quinto, arrestato il Bacigalupo, il corteo degli
oltre 5000 si scioglie e la Costituzione viene
approvata con alcune modifiche nel dicembre
1797.
1797-1800: in questi anni, ovviamente, i fontanini oppongono una fermissima resistenza ai
francesi e le vicende storiche narrano di imboscate agli invasori, repressioni durissime con
borghi incendiati, marce su Genova e precipitose ritirate. Nel 1800 c’è la resa definitiva ai
francesi e questi ultimi, per non correre ulteriori rischi, istituiscono a Cicagna un presidio di
gendarmi.
1816: con la caduta di Napoleone la
Fontanabuona entra a far parte, come tutta la
Repubblica ligure, del regno del Piemonte e
Ferrada prima, Cicagna poi diventano capoluogo di mandamento.
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SOCIETÀ ED ECONOMIA
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UN MONDO DI CONTADINI
Raffaella Spinetta
Il territorio agricolo comunale
Tutto il territorio agrario del Comune di
Neirone ha tracce di antichi terrazzamenti o,
nelle zone più fertili, ha terrazze coltivate. Le
zone più produttive sono quelle maggiormente
esposte a solatio. Le colture su fasce e, in particolare, l’agricoltura promiscua risalgono a tempi
antichi, tanto che, secondo la “Caratata” (“La
Podesteria di Roccatagliata”, 1547) esistevano
orti e colture già nelle Ville di “Neirone”,
“Corsiglia”, “Roccatagliata” e “Ortiseto”. La
Villa di Neirone, per es., comprendeva luoghi
denominati: Piane, Scoglia, Coni (cioè appezzamenti isolati), Sorbolo (forse con una buona
presenza di Sorbus aucuparia, come si osserva
oggi nei pressi della Rocca Cavallina), lo
Favaro, le Spine, lo Rivazzo (dirupo, in dialetto), Roncodonego (cioè zona disboscata per
ottenere campi coltivati), Carpeneto, li Marroni
Binelli (sta per castagni gemelli), Sambuco, le
Maxere (muraglie a secco a sostegno di terrapieni).
Ma come si costruiscono i muretti a secco?
Innanzitutto si prepara il sito che, inizialmente,
deve essere liberato dalle pietre affusolate; poi
viene scavato nella roccia lo spazio per il nuovo
muro di sostegno. Viene, successivamente,
posata la prima pietra, generalmente più grande
delle altre, atta al sostegno della struttura. Le
pietre più piccole vengono posate secondo l’inclinazione verso monte della prima pietra. Per
controllare l’andamento del muro viene steso un
filo che ne segna lo sviluppo sul versante. Alle
spalle della nuova muratura vengono posti
nuovi detriti e piccoli sassi che formano uno
strato drenante a protezione del muro.
Raggiunto il livello stabilito, si copre il drenaggio con del terreno compatto.
Muretti a secco particolari si osservano nell’area
del M. Spina. In questa zona, a giudicare dalla
vegetazione che su di essi è cresciuta, si è prati-
Un particolare della ruota del mulino di Rosasco, tuttora in ottimo stato (foto R. Spinetta).
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La costruzione delle carbonine presso il M. Caucaso (foto R. Spinetta).
cato, in passato, sia il pascolo che la coltivazione. La scerardia dei campi, l’ortica, la stellaria,
l’amaranto, l’euforbia sono solo alcuni esempi
di “specie-guida” che consentono di capire che
qui si sono susseguiti sfalci e pascoli.
Altre aree ruderali che vi consigliamo di visitare sono: Aia Zanello, Corsiglia, Feia, Forcossino
e Siestri.
Aia Zanello, in particolare, è un’intera “città
contadina” abbandonata. Ha case, fontane, scale
in pietra e carruggi, il tutto immerso in una
vegetazione di felci aquiline, arbusteti e boschi
in degrado. Ci abitano, saltuariamente, alcune
persone. Al tramonto, il sole riflette i suoi raggi
sui tetti in ardesia e pietra ed i buchi negli spessi muri di calce e pietra a vista fanno intravedere solai in castagno, spesse travi e pilastri.
A Corsiglia le case sono ancora in parte abitate;
sono a schiera e spesso hanno vicino le tracce di
ponti e mulini per la molitura delle castagne
secche e dei cereali.
Feia, vicino a Case Spina, è un borgo circondato da ampie fasce coltivate a patate e, un tempo,
a cereali vernini.
Forcossino, così come Siestri, è un insieme di
case in pietra, scale, aie, fienili, porticati, archi e
criptoportici, costruiti con senso pratico per il
riparo di piccoli animali, attrezzi, utensili e
vivai.
E numerosi sono gli altri siti archeologici del
territorio che ci ricordano con vivida sensibilità
il mondo dei contadini. A voi la ricerca e la scoperta …
Ronchi, seccatoi, carbonine
Molte sarebbero le testimonianze del mondo
contadino da conoscere, apprezzare e valorizzare. In questo contesto, riportiamo tre soli spunti di riflessione, tre tradizioni di cui restano
tracce e fragranze: il “ronco”, il “seccatoio”, la
“carbonina”.
Secondo quanto riporta Marco Porcella nel suo
Maggiolungo, i “ronchi” erano delle sterpaglie
che venivano tagliate, lasciate seccare e poi bruciate. Con la zappa veniva scorticato il terreno,
- 274 -
si seminavano alcune leguminose, tra cui il
“leme”. Il ronco si faceva nei terreni non troppo
ripidi, senza costruire muri. Magari si realizzava qualche cordone di zolle per deviare l’acqua.
Le zolle tagliate erano fatte seccare al sole; poi,
con la legna sotto e le zolle sopra si facevano
come delle piccole carbonine e si incendiavano.
Alla fine, restavano dei mucchietti di cenere da
spargere. Nei ronchi si seminava grano per tre
anni.
I seccatoi sono testimonianze contadine più
comuni e note alla maggior parte delle persone
della Val Fontanabuona. Hanno, solitamente,
un focolare al centro su lastre di pietra appena
rialzate dal pavimento, una “grè”, con travetti di
castagno o ontano e, infine, solitamente, una
catena appesa ad una trave principale recante
all’estremità inferiore un coperchio (“tèstu”). I
seccatoi riscontrabili nei castagneti della valle si
distinguono da altri ruderi o dai fienili in pietra
per la presenza di feritoie esterne che avevano la
funzione di far uscire il fumo che si formava
all’interno e che, spesso, purtroppo, costava la
vita a chi custodiva il fuoco.
E infine, un’ultima particolarità rurale
dell’Appennino: la carbonina o carbonaia.
Le carbonine sono state innalzate, un po’ dappertutto in Liguria, fino all’inizio dell’ultima
guerra, sugli spiazzi praticati dai carbonai nei
boschi di legno forte (faggio, acero, rovere, leccio).
La carbonaia “dura” pochissimo dopo il suo
allestimento, ha una pianta circolare ed una
configurazione tronco-conica. Il legno, accatastato, viene ricoperto da tre, quattro centimetri
di terra battuta, con foglie sottostanti perché il
suo bruciare interno non venga a contatto diretto con l’aria.
Valori ed attività da salvaguardare
Il mondo contadino è, per la Val Fontanabuona
come per molte comunità montane del territorio italiano, un patrimonio da conoscere e tutelare oltre che da valorizzare, perché tutti siano
consapevoli che il presupposto per crescere
sicuri e forti in un ambiente che rischia di esse-
Coltura del granoturco (foto A. Spinetta).
re maltrattato, è proprio la conoscenza delle
nostre radici.
Le varietà locali, gli strumenti di uso comune e
gli elementi dell’architettura rurale sono spesso
nascosti e vanno cercati con cura, trovati per
non perderli.
Nel Comune di Neirone, oltre agli agglomerati
già citati, ci sono nuclei ancora abitati che per i
loro toponimi e per la localizzazione sono
emblematici della collina ligure.
Orticeto, Cerisola, Montefinale, Piana di
Ognio, Ciliegia ed altri nuclei anche di piccole
dimensioni sono testimonianza di coltivazioni
ed antichi usi del suolo. Orticeto è un nucleo
lineare di case a schiera tuttora abitate, poste a
solatio e circondate da terrazzamenti ampi con
alcune stalle e fienili.
Cerisola, poco lontano da Neirone, appare,
invece, come un insieme di campi e frutteti con
alcune case sparse in pietra. Il nome ricorda le
ciliegie e, forse, è così a giudicare dalle numerose piante di “pruno da uccelli” (Prunus avium) o
- 275 -
gende, uno per tutti: San Marco d’Urri. In una
delle zone dirupate dell’area di San Marco,
infatti, sembra si sia gettata secoli orsono una
giovane donna tormentata dalle passioni d’amore per un uomo che non le volevano lasciar
sposare.
Alcuni problemi da risolvere
I borghi montani lineari dell’alta valle. Roccatagliata
(foto R. Spinetta).
ciliegio selvatico che imbiancano a primavera i
blandi terrazzamenti dell’area.
Montefinale, il cui nome significa “al confine
del monte”, è noto non solo per le querce secolari, simbolo della frazione e vanto per l’intero
comune, ma anche per la presenza di case centenarie di grande suggestione, querceti e punti
panoramici usati ogni anno dagli abitanti di
Ognio per osservare, tra la pace della natura e la
piacevole compagnia degli altri, i fuochi di artificio di Gattorna.
E ancora, Piana di Ognio e Ciliegia. La prima
area si trova sopra Ognio dove, ai contrafforti
del M. Cavello, si allargano ampi noccioleti e
castagneti e aree ormai abitate come la zona di
Bescalupo. Ciliegia, toponimo di indubbia origine, si trova invece nell’area di San Marco
d’Urri: poche case contadine, tante aree coltivate a patate e varietà orticole adatte al freddo,
soprattutto cavoli.
Tanti altri sono i luoghi avvolti da storia e leg-
I problemi da risolvere in un’area circondata da
boschi e coltivi sono legati al territorio montano. Sono due quelli che si notano da fuori,
anche senza fare indagini accurate: gli incendi
per i boschi in degrado e lo spopolamento per i
nuclei urbani.
Il fuoco, impiegato un tempo per la pulitura dei
castagneti da frutto, costituisce un problema se
non viene controllato. Esso incide sul suolo, che
diventa poco potente e quindi povero in lettiera
ed humus. La frequenza e l’estensione che
caratterizzano gli incendi, censiti dalla stazione
del Corpo Forestale dello Stato di Gattorna e
dei Comuni limitrofi, fanno sì che le colline del
comprensorio si ricoprano di felceti a felce
aquilina.
Per dare al lettore un’idea della frequenza con
cui avvengono gli incendi in questa area, si
riportano i dati dal 1985 al 1997.
- M. Cavello: cinque incendi estesi;
- Montefinale: quattro incendi estesi;
- Crovaria: quattro piccoli incendi;
- Neirone: quattro incendi;
- Lezzaruola: due incendi;
- Le Corsiglie: due incendi.
Il caso della patata quarantina: territori e pratiche
storiche
Quasi tutto il territorio coltivabile del Comune
di Neirone, fino a qualche decennio fa, era adibito alla coltura delle patate quarantine e di
altre varietà.
Esse erano seminate in terreni situati a quote
intorno ai 500-800 metri, limite minimo del
castagno nell’area del M. Caucaso.
Le Quarantine crescevano e si sviluppavano
- 276 -
Nuclei abitati ad Orticeto (foto R. Spinetta).
bene intorno ai 600-700 metri, nelle zone di
Cazzarina (sopra a Rosasco), Corsiglia,
Roccatagliata, Forcossino e Gure, Giassina, Aia
Zanello, Sciarè, Feia, Case Spina.
Secondo le testimonianze raccolte sul territorio,
i campi maggiormente utilizzati per la coltura
di varietà diverse di Solanum tuberosum L. erano
collocati nei seguenti appezzamenti o proprietà
terriere i cui nomi sono stati riportati con il loro
termine dialettale:
Gratua-Fondo Piano (Ognio)
Cunio de Luiggia (Ognio)
Bascia, Pian Cerexa, Isua, Fondo Villa, Scarsunaie
(Ognio, Isola)
Margaressu, Che-e Lunghe, Cian Cro-osello, Serra
(Crovaria)
Cian du Mas-ciu, Campassu (Rosasco)
Valle da-a Gure (Gure vicino a Forcossino)
Ciosetta, Cian, Seppa, Cantu, Ciani (San Marco
d’Urri)
Fussu, Serexa, Pezza (Ciliegia)
Ronculungo (Tassorello)
Furca, San Martino (San Martino del vento)
Fasce lunghe, Cian-e, Friccià (Rossi di Lumarzo)
Costa Finale (Costa Finale).
Non tutte le proprietà terriere citate dai locali
erano coltivate a patate quarantine. È ipotizzabile che lo fossero solo quelle a quota compresa
tra i 600 e gli 800 metri, secondo quanto ricavato a Rossi di Lumarzo, una delle frazioni più
alte della Val Fontanabuona.
Sulla base delle testimonianze raccolte e osservando le carte prodotte per il piano di sviluppo
agrario (Carta delle potenzialità foraggere - seminativi con pendenza <35%, settembre 1980), è
possibile costruire una carta della “vocazione”
che comprende le aree maggiormente utilizzate
per la coltura delle patate e del frumento presente nelle colture di rotazione.
Nella carta, oltre alle aree che abbiamo definito
“vocate”, sono stati indicati i siti di allestimento delle Fosse e le relative aree, i siti di provenienza delle patate da seme, i siti e le direzioni
di scambio del seme.
Quella delle “Fosse” o “Pusse” è un’antica usan-
- 277 -
za. Un metodo di conservazione delle patate da
seme che sfrutta le proprietà termiche del terreno per evitare i marciumi dei tuberi, preziosi per
la semina primaverile.
In molte zone della montagna genovese i contadini, infatti, scavavano pozze nel terreno, in
aree non coltivate a quota ed esposizione piuttosto costanti. Nel territorio di Neirone esse
erano collocate nelle strette fasce di Corsiglia,
Roccatagliata, San Marco d’Urri, Giassina e
Forcossino e in aree limitrofe dai nomi caratteristici.
Secondo le testimonianze di locali (in particolare Guglielmo Gardella) i siti maggiormente
impiegati per questa pratica di conservazione
sono:
In t-i Capurri (San Marco d’Urri)
In t-e Cian-ne (Piane di Corsiglia)
Sotto alle “rocche” di Aia Zanello (Aia Zanello)
In t-i Gure (Forcossino)
Costa Giassina (Giassina)
In t-a Cassaina-a (Cazzarina)
Campasso (Corsiglia)
Ma come si costruiva una “Pussa”?
Si scavava una pozza nel terreno profonda circa
1 m e larga quanto bastava per contenere i semi.
A contatto col terreno si metteva uno strato di
paglia ben compatto per separare il terreno
umido dalle patate, che altrimenti sarebbero
germogliate. Una peculiarità: sopra la paglia
non erano sistemate le patate, bensì alcune
lastre in ardesia. E sopra le ardesie i tuberi ben
sani e in gran quantità.
Quando c’era quasi un quintale di patate ricoperto di foglie di castagno, si completava il tutto
con circa 25 cm di terra.
A questo punto, dopo aver coperto i semi di
terra, intorno al “cumulo” di terra era allestito
un essenziale e intelligente metodo di drenaggio.
Tutt’intorno veniva scavato un piccolo solco che
doveva accogliere l’acqua piovana, che poi veniva convogliata all’esterno per evitare l’eccesso
dannoso di umidità che provoca l’insorgere di
muffe nei semi.
Il M. Spina, esempio di insediamento rurale sparso (foto
R. Spinetta).
Le patate si tiravano fuori dalle fosse ai primi di
marzo e venivano vendute o scambiate con i
coltivatori delle aree vicine.
- 278 -
LE AMMINISTRAZIONI DAL DOPOGUERRA AD OGGI
Amministrare i piccoli comuni, piccoli per area e
non certo per prestigio, è da sempre una scommessa per il futuro del territorio.
Occorre che i territori montani, infatti, accrescano le loro potenzialità e le sviluppino. Questa, dal
Dopoguerra ad oggi, è stata tra le principali finalità dei sindaci del Comune.
Di seguito, grazie alla collaborazione dell’Ufficio
Anagrafe del Comune di Neirone, sono raccolti i
dati relativi ai primi cittadini dal dopoguerra ad
oggi, con i periodi dei loro mandati, accompagnati da alcune significative immagini del territorio comunale.
Dal 1946 ad oggi si sono succeduti, presso il Comune:
Sindaco Michele Lercari: in carica dal 1945 al 1946
Sindaco Angelo Ferretto: in carica dal novembre 1946 al novembre 1948
Sindaco Angelo Musante: in carica dal 1948 al 1951
Sindaco EraldoDe Martini: in carica dal 1951 al 1960
Sindaco Pietro Rosati: in carica dal 1960 al 1978
Sindaco Agostino Guarnieri: in carica dal 1978 al 1980
Sindaco Romano Federighi: in carica dal 1980 al 1995
Sindaco Romano Nestori: in carica dal 1995 al 1999
Sindaco Stefano Sudermania: dal 1999 a tutt’oggi in carica
- 279 -
Neirone.
Roccatagliata.
- 280 -
Ognio.
San Marco d’Urri.
- 281 -
Corsiglia.
Forcossino.
- 282 -
Siestri.
Cappella del Portello.
- 283 -
Centrale idroelettrica che produce circa 5 MW annui. Essa fu costruita agli inizi degli anni ‘40 da operai locali seguiti
da un ingegnere idraulico (foto A. Botto).
Condotta in cemento della
centrale idroelettrica di Neirone. È un’opera idraulica
ineguagliabile per il Levante ligure (foto R. Spinetta).
- 284 -
Bacino di carico (foto A. Botto).
- 285 -
- 286 -
ATTUALITA’ E POTENZIALITA’ FUTURE
Raffaella Spinetta
Cenni sull’uso del suolo dal dopoguerra ad oggi
Dopo aver letto e studiato con cura e passione
un territorio montano, viene spontaneo coglierne l’attualità, cercarne le curiosità e farle un po’
proprie.
È questa la premessa all’ultimo capitolo del
testo. Esso ha carattere di cronaca, ma anche
propositivo.
Dal Dopoguerra ad oggi, Neirone è rimasta
un’isola privilegiata ancora immersa nelle tradizioni e, talvolta, basata sull’agricoltura.
Il problema più grave che deve affrontare è lo
spopolamento, ma ci sono già segni vivi di rinascita grazie al ritorno di valori ed ideali legati
all’ambiente.
Forniamo una nota sull’agricoltura, perché
insieme all’ambiente è l’aspetto che maggiormente si dovrà curare anche in futuro in un’ottica di sviluppo sostenibile.
Nell’intero territorio si praticano ancora l’orticoltura, la viticoltura, l’ulivicoltura e la frutticoltura.
Tra le varietà da vino più usate in viticoltura, ci
sono, secondo le testimonianze di contadini e
alcuni studi del 1980 della Comunità Montana
Val Fontanabuona (PIANO DI SVILUPPO
AGRICOLO, 1980): “Alberola”, “Bianchetto”,
“Vermentino”, “Rollo”, “Bosco”, “Ciliegiolo” e
raramente “Dolcetto”, “Nebbiolo” e “Bonarda”,
che sono di origine piemontese.
È importante menzionare la frutticoltura poiché moltissime sono le varietà da recuperare e
rilanciare, proprio come si è cercato di fare nel
1999 con il caso della “Quarantina” (Solanum
tuberosum, L).
Alcune fruttificazioni tipiche della zona sono le
“pesche Agostane”, le “pesche Settembrine” e le
piccole e saporite “mele Carle”.
Un ultimo appunto, legato all’uso del suolo, lo
dedichiamo all’allevamento. Nel territorio
comunale è, infatti, ancora in uso l’allevamento
bovino, caprino e di specie animali di bassa
corte, ossia conigli, galline e sporadicamente
tacchini.
Cronache d’epoca e immagini del passato
Neirone e tutto il suo territorio sono sempre
stati un luogo vivo e in fremito sociale. Feste,
sagre, affollate partite di carte nel bar, tante
manifestazioni e tornei nei piccoli campi da calcio: piccoli, ma ricchi di entusiasmo da sempre.
La Festa delle torte di Ognio, la Sagra delle
patate di Neirone e Roccatagliata, le notti di
Natale nella chiesa presso San Marco d’Urri e le
varie feste patronali delle quattro parrocchie del
territorio sono le suggestioni che ogni visitatore e soprattutto i cittadini non dimenticano
mai.
Per dare a tutti la possibilità di assaporare alcuni di questi momenti l’Amministrazione
Comunale ha fornito alcune foto, conservate
con cura e sentimento negli uffici comunali, a
documentare alcuni episodi significativi della
storia locale.
- 287 -
Un momento di pausa in una foto di squadra, che ha anni di storia.
I calciatori, dignitosamente immortalati alla fine di una partita negli anni Trenta, si erano costruiti un piccolo campo in
località Rià.
I componenti del gruppo della squadra sono, dall’alto al basso, partendo da sinistra:
Olcese Luigi, Musante Angelo, Sartorio Francesco, Caramella Valerio, De Barbieri Virgilio, Rosasco Carlo,
Schiappacasse Adelio, Zinio Carlo, Olcese Giovanni, Sudermania Salvatore, Caramella Silvio.
Il calcio era un’attività amatoriale, ma di grande diffusione nella Val Fontanabuona, tant’è vero che si è sviluppata fino
ad oggi con numerose squadre locali.
- 288 -
La foto, che risale agli anni ‘20, concessaci gentilmente dal Sindaco del Comune di Neirone, documenta l’inaugurazione
del Monumento ai numerosi Caduti della Prima Guerra Mondiale. Questa seminò numerose perdite di vite umane nelle
famiglie neironesi.
Un’ immagine di Neirone da una cartolina d’epoca (1941).
- 289 -
Vedute di Neirone da una cartolina d’epoca (1943).
Particolare del Municipio.
- 290 -
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Finito di stampare
nel mese di settembre 2004
dalla Grafica Don Bosco s.a.s. - Genova