Dare identità agli oggetti
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Dare identità agli oggetti
volti&voci Dare identità agli oggetti Testo: Natalia Ferroni Foto: Pino Covino Paolo Fancelli nel suo studio, qui ancora a Zurigo, con oggetti da lui disegnati. Più sul tema • www.fancelli.ch Paolo Fancelli. Molti cose intorno a noi sono usate ogni giorno ma gli autori del loro sviluppo restano nell’ombra. Incontro con un designer industriale biaschese di fama internazionale. Negli anni ’80 un giovane ticinese voleva intraprendere il mestiere del designer d’auto e si trasferì oltre Gottardo. Trent’anni dopo ritorna in Ticino, come designer industriale affermato. Perché fra i marchi noti dove c’è dietro lo zampino del biaschese Paolo Fancelli ci sono Felco, Aebi, Wenger, Giroflex, PB Swisstools… L’estro di chi quest’anno in Germania ha conseguito i riconoscimenti IF Design Award e Red Dot Design Award e l’anno scorso ha vinto il Design Preis Schweiz. La macchina del caffè nel suo atelier e la In pillole Paolo Fancelli Nato nel '64, cresciuto a Biasca. Cosa ama nelle persone? L’aura... positiva. Cosa l’emoziona? «Mia figlia Gemma di due anni. E ogni “prima volta”: il primo bacio, il primo concerto di fisarmonica…». Cosa la delude? «Constatare com’è povera la gente avida…». La felicità è…«Essere coscienti di quanto è bello vivere». Il tempo libero… «Sulle nostre montagne; amo la natura, il senso di libertà». Cosa sogna? «Non ho sogni, li vivo». sedia sulla quale siamo seduti – su questo modello sono seduti un altro milione e mezzo di persone – sono stati disegnati da lui. Ma anche l’orologio digitale che ha al suo polso – e che Nicolas Cage porta nel film Bangkok Dangerous – e gli utensili sparsi su davanzale e ripiani sono suoi: cesoie, coltellino pieghevole, apparecchi di misurazione, cacciaviti. E se lo spazio lo permettesse, si vedrebbe anche un transporter agricolo. «Da giovane mi piacevano le automobili. Mi affascinavano le loro forme, neanche tanto i motori – racconta di sé Paolo Fancelli –. Su consiglio dell’orientatore sono andato a studiare ingegneria meccanica al Politecnico di Zurigo. L’impatto è stato durissimo: mi ricordo le luci fredde della Sihltal, rientrando la domenica sera, il cielo spesso grigio di Zurigo e la lingua che non parlavo.Ma qualcosa, ancora prima di arrivare ai primi esami, avevo capito: non mi piaceva fare l’ingegnere meccanico». Paolo voleva fare qualcosa di simile all’architetto, ma non per le case bensì per le auto. «È stato un architetto che mi ha parlato per la prima volta del mestiere di designer industriale», ricorda Fancelli. E al ventenne si è aperto un mondo. Nel 1990 Paolo Fancelli si diploma a l’Ecal, la scuola d’arte di Losanna e inizia a lavorare per la Walser Design di Baden. A 32 anni crea la G64, mitica sedia d’ufficio della Giroflex che ha «tappezzato» la Svizzera. «È stato un lavoro che ha rivelato il mio stile sul mercato e mi ha dato una certa responsabilità». Nel 2000, si lancia nell’avventura dell’indipendente, rimanendo a Zurigo. «Il design non deve essere fine a se stesso, bensì aiutare a migliorare la qualità della vita di tutti i giorni. L’oggetto deve essere considerato come una parte di ciò che lo circonda. Un cacciavite è un complemento alla mano, una sedia un complemento del corpo, un tavolo una parte di un locale». Ma come procede nel creare un oggetto? «Dapprima analizzo quanto già esiste, cerco lacune e vantaggi della “concorrenza”. Mi metto nei panni di chi dovrà usare l’utensile: per un tosatore, ad esempio, osservo chi tosa professionalmente le pecore. Poi costruisco dei modelli cercando delle forme equilibrate in armonia con la funzionalità dell’oggetto. Segue la discussione con il costruttore: mettiamo i “guanti da box perché il confronto è come quello su un ring” – scherza il 46enne – in verità mi sento un po’ camaleonte, perché mi adatto a qualsiasi situazione progettuale». E qui entra l’arte del mediatore che, nel fondo, cerca di trovare sinergie tra tutti coloro che stanno dietro alla creazione di un prodotto, dal costruttore allo specialista di marketing. Un designer è un inventore? «Più che inventore mi vedo come un divulgatore che mette in evidenza le qualità di un fabbricante attraverso la cura della forma dei suoi prodotti. Creo un valore aggiunto al di là delle mode, al fine di favorire il successo duraturo del nuovo prodotto. La forma più equilibrata di un oggetto è quella senza eccessi che riempie la sua funzione con naturalezza. Amo la semplicità formale, meno linee possibili». I suoi clienti sono quasi tutte ditte svizzere con una lunga tradizione. Che effetto le fa lavorare per loro? «Mi riempie di fierezza, lo ammetto. La mia ambizione non è quella di emergere a tutti i costi, voglio solo andare a fondo delle cose, per creare opere che rimangano nel tempo. È anche un modo di remare contro la società di oggi, quella dell’“usa e getta” e del “tutto e subito”». Durante la formazione, il sogno dell’auto è andato scemando «perché il designer industriale è un mestiere molto variato che ti apre tantissime porte». Però la passione dell’auto gli è rimasta, «soprattutto quella dei tempi in cui l’auto era un “vero” mezzo meccanico e il linguaggio formale delle carrozzerie era semplice e diretto come la loro tecnica». Professionalmente, invece, disegna le carrozzerie future e gli interni di veicoli agricoli e industriali. Come quello del transporter multiuso VT 450 della Aebi, che gli è valso il premio svizzero del design 2009. «Le Aebi sono un ricordo d’infanzia. M’impressionavano quando le vedevo arrampicarsi verso gli alpeggi sopra Carì…». I ricordi di montagna devono averlo ispirato. Scrivere un commento © 2010 Cooperazione