un codice di leidrat e le origini medievali della minuscola carolina

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un codice di leidrat e le origini medievali della minuscola carolina
ROMANIA E GERMANIA A CONFRONTO: UN CODICE DI LEIDRAT
E LE ORIGINI MEDIEVALI DELLA MINUSCOLA CAROLINA
Paolo Radiciotti
L
a nascita della minuscola carolina è un momento
centrale nella storia della scrittura latina. È proprio questa la scrittura imitata e prescelta dagli umanisti, tra la fine del xiv e l’inizio del xv secolo, per i
loro codici, poi adottata nella stampa a caratteri mobili dai prototipografi più legati agli interessi umanistici e perciò, per il successo ottenuto dalla loro rivoluzione culturale, ancora la nostra scrittura. Trattare
della nascita della carolina è dunque affrontare una
vicenda storica tanto importante quanto difficile:
non solo la ricerca è ardua, come tutte quelle dedicate all’origine dei fenomeni storici, per la difficoltà di
fissare i momenti salienti in un movimento appena
accennato, ma soprattutto la mole di letteratura critica, che si è addensata su questo tema, è di smisurate
dimensioni, non cessa di ampliarsi e, naturalmente,
di risentire delle mode intellettuali e delle ideologie
dei tempi in cui è stata prodotta. Offrire, perciò, una
ricostruzione storica della nascita della carolina comporta la necessità di accettare la possibile incompletezza della ricerca e persino provare il desiderio, certo condiviso da molti, di non dire l’ultima parola su
questo tema, ma solo di ricostruire utilmente un insieme di dettagli e collocarli in un panorama storico
coerente.
Per introdurre il tema credo sia necessario partire
dalla realtà concreta di un codice il quale, con certezza, ci testimonia una condizione di impiego della
carolina nella sua fase iniziale, che chiamerò d’ora in1 La biblioteca Pagès, ospitata a Roma presso la sede marista di via
Alessandro Poerio, è in corso di trasferimento presso la Biblioteca
Apostolica Vaticana. Sulla costituzione di essa da parte di Étienne Pagès (Saint-Urcize 20 febbraio 1763-Lione 3 dicembre 1841), probabilmente a partire dal 1799 e fino alla sua morte, ed il successivo acquisto
dei suoi libri da parte della Societas Mariae, si veda A. Ward, The Library of Étienne Pagès: the Development and Use of a Collection in the 18th
and 19th Centuries, Tesi di Dottorato della Loughborough University
1991, consultabile presso la stessa biblioteca Pagès.
2 Questa è la datazione offerta, con buone ragioni, da L. Delisle,
Notice sur un manuscrit de l’église de Lyon du temps de Charlemagne, «Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale et autres
bibliothèques» 35/ii (1897), pp. 831-842: 838. Per la possibilità di una datazione più precisa, riguardo all’epoca della copia e della donazione,
nonché per un più preciso inquadramento dell’attività di Leidrat, si veda infra, i. 2. 2 e i. 3.
3 Léopold Delisle ha anche il merito di avere individuato altri manoscritti con dedica autografa di Leidrat: il codice di Lione, Bibliothèque Municipale, 524 (Augustini opuscula) ed il frammento di Parigi, Bibliothèque Nationale, Par. lat. 152 cc. 21-25 (commento di Girolamo ad
Isaia); tali dediche sono riprodotte, insieme a quella del codice romano,
in Delisle, Notice cit., tav. iii. Uno studio della tradizione scrittoria
lionese è stato edito (fondato sugli appunti accumulati nei primi anni
del Novecento da S. Tafel) da W. M. Lindsay, The Lyons Scriptorium, in
Palaeographia Latina, ii, St. Andrews University Publications, 11, Oxford
1923, pp. 66-73 e Palaeographia Latina, iv, St. Andrews University Publications, 20, Oxford 1925, pp. 40-70; in particolare Leidrat è menzionato
nella prima parte del lavoro alle pp. 67-68 e 70-73 (dove, tra l’altro, si
considera interpolata la relatio di Leidrat a Carlo Magno, sulla quale si
veda infra, pp. 130-131, n. 7), nonché nella seconda parte alle pp. 51-52, 56,
nanzi protocarolina. Si tratta di un manoscritto miscellaneo, che vedremo essere stato prodotto su istanza del vescovo di Lione Leidrat, assemblando insieme
opere filosofiche e teologiche, secondo un progetto
molto caratteristico, che ci aiuta a ricostruire l’ambiente intellettuale del cenacolo costituitosi attorno
ad Alcuino e Teodulfo presso la corte di Carlo Magno.
i. Il codice romano di Leidrat:
le categorie di Temistio, Alcuino e Teodulfo
Presso la casa madre della Societas Mariae, all’interno
della preziosa biblioteca costituita da Étienne Pagès,
era conservato un codice in protocarolina,1 databile
sulla base della donazione di esso alla chiesa cattedrale di Lione da parte di Leidrat, arcivescovo della città
negli anni 798-814.2 La dedica, apposta in una scrittura usuale protocarolina su carta 1 verso, presenta questo testo: Leidrat licet indignus tamen ep(iscopu)s / istum
librum tradidi ad altare / s(an)c(t)i Stephani.3
1. Il contenuto
Si tratta di una miscellanea così costituita:4
1. cc. 2r-11r, Porphyrii liber isagogarum, translatio Boethii; incipit: «Inc(i)p(it) lib(er) hisagogaru(m) Porphirii. Cum sit necessariu(m)», explicit: «haec ad discretionem eorum, communitatis traditionem.
Expl(icit) lib(er) hisagogarum Porphirii».5
63-64, con illustrazione dei codici con ex voto di Leidrat, oltre a quelli già
noti anche i lionesi, Bibl. Mun. 599 (Gregorio Nazianzeno tradotto da
Rufino), 608 (Augustini opuscula), 610 (Augustini contra Faustum) e la loro comparazione con altri manoscritti lionesi di età carolingia, mentre
a p. 68 nell’originale tedesco di Tafel viene ripresa l’ipotesi di interpolazione della suddetta relatio; da questi studi procede Bernhard Bischoff
nei suoi importanti contributi (si veda infra, sp. p. 124, n. 10 e p. 128, n.
8). C. Charlier, La compilation augustinienne de Florus sur l’apôtre. Sources et authenticité, «Revue bénédictine» 57 (1947), pp. 132-186, tocca anche
il problema dei manoscritti di Leidrat e cita, per lo studio dell’ex voto autografo di Leidrat, oltre al codice dei Maristi ed agli altri già noti, anche
il Par. lat. 11709 (ibid., pp. 157-158 e n. 3). Elias Avery Lowe ha ampliato
queste considerazioni, individuando tracce di Leidrat anche nel codice
originario di Frisinga ora a Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, CLM
6305, ed in un altro codice lionese, il Bibl. Mun. 402. Si vedano in proposito E. A. Lowe, Codices Latini Antiquiores. A Palaeographical Guide to
Latin Manuscripts Prior to the Ninth Century, i-xi, Oxford 1934-1966; Supplement, Oxford 1971, ii vol., ried. Oxford 1972; B. Bischoff-V. BrownJ. J. John, Addenda to Codices Latini Antiquiores, «Mediaeval Studies» 47
(1985), pp. 317-366 e 54 (1992), pp. 286-307 (d’ora in poi CLA seguito dal
numero del manoscritto): il codice romano di Leidrat è il CLA 417.
4 Per ciascuna opera identificata si dà la corrispondenza colla Patrologia Latina (d’ora in poi PL) o colla Patrologia Graeca (d’ora in poi
PG) e coll’edizione utilizzata per il controllo testuale.
5 L. Minio-Paluello (ed.), adiuvante B. G. Dod, Categoriarum
supplementa. Porphyrii Isagoge, translatio Boethii et anonymi fragmentum
vulgo vocatum «Liber sex principiorum», accedunt Isagoges fragmenta M.
Victorino interprete et specimina translationum recentiorum categoriarum,
Corpus philosophorum medii aevi. Aristoteles Latinus, i 6-7, BrugesParis 1966, pp. 5-31.
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12. cc. 11r-28r, Pseudo-Augustini categoriae x Aristotelis;
incipit: «Cum omnis scientia disciplinaq(ue) artium diversarum», explicit: «iam doctos aut indoctos erudire. De cathegoriis Aristoteles1 explicit ab
Agustino translatis».2
13. c. 28r, otto righe desunte dall’esordio di Boethii de
institutione arithmetica; incipit: «Est autem sapientia rerum», explicit: «actus, dispositiones, loca,
tempora».3
14. c. 28r, Alcuini versus ad Carolum; incipit: «Versus Alcuini diaconi a<d> Carolum regem Francor(um).
Continet iste decem naturae verba libellus», explicit: «modo mitto legendum».4
15. cc. 28v-30r, Alcuini dialectica, excerptum dai capitoli
xii-xiv; incipit: «Argumentum est rei dubiae adfirmatio et constat», explicit: «ut homo minor mundus et edictum est lex annua».5
16. cc. 31r-39r, Apulei liber de interpretatione; incipit: «Incipiunt periermeniae Apulei. Studium sapientiae
quam philosophiam vocamus», explicit: «earum
non potest6 numerus augere. Perierminiae Apulei
expliciunt in quibus continentur cathegorici syllogismi».7
17. cc. 39r-106r, Boethii in Aristotelis de interpretatione editio prima; incipit: «In periermeniis Aristotelis commentarium Boetii incipit liber primus. Magna quidem libri huius apud peripaticam»,8 explicit:
«secunde editionis series explicabit».9
18. cc. 106v-107r, Alcuini dicta de imagine Dei; incipit:
«Faciam(us) hominem ad imaginem et similitudinem n(ost)ram. Tanta dignitas humane conditionis esse cognoscitur», explicit: «In primo Adam
condidit. Mirabiliusque in secundo reformavit».10
19. c. 107r-v, credo niceno; incipit: «Exemplum fidei
Niceni consilii11 cccxviii ep(iscop)orum. Cre-
dim(us) in unu(m) D(eu)m», explicit: «hos anathematizit catholica et apostolica ecclesia».12
10. c. 107v, credo ambrosiano; incipit: «Item fides
s(an)c(t)i Ambrosii ep(iscop)i. Patrem et filium et
sp(iritu)m s(an)c(tu)m confitemur», explicit: «ideo
alienus est ac p(ro)fanus et adversus veritatem rebellis».13
11. c. 107v, credo gregoriano; incipit: «Incipit fides
s(an)c(t)i Gregorii papae urbis Romae. Credo
D(omi)n(u)m patrem om(ni)p(otentem)», explicit: «et omnia, quae a trecentis xviii ep(iscop)is
Niceni concilii congregatis instatuta sunt, credo
fideliter».14
12. c. 108r, Gregorii Thaumaturgi expositio fidei interprete Rufino; incipit: «Item fides beati Gregorii
martyris15 et ep(iscop)i Neonecessariae.16 Unus
D(eu)s pat(er) verbi viventis», explicit: «sed inconvertibilis et immutabilis eadem trinitas semp(er)
manet».17
13. cc. 108r-v e 110r, Pelagii libellus fidei; incipit: «Expositio fidei catholicae s(an)c(t)i Hieronimi. Credimus in D(eu)m patrem omnipotentem», explicit:
«non me hereticum conprobavit».18
14. c. 110v, Iuvenci historia evangelica, excerptum dal libro i; incipit: «Siderio genitor residens in vertice
caeli», explicit: «cedere et durum erratis intendere
pectus».19
15. cc. 110v-112v, Cassiodori expositio in psalterium. Praefatio; incipit: «De prophetia. Prophetia est aspiratio
divina», explicit: «modolationes musicas exprimentes».20
16. cc. 112v-113r, Pseudo-Damasi epistula ad Hieronymum; incipit: «In Chr(ist)i nomine incipit epistula
papae Damasi ad Hieronimum presbiterum. Damasus ep(iscopu)s f(rat)ri et conpresbitero Hiero-
1 Corretto da mano coeva in Aristotelis.
2 PL xxxii, coll. 1419-1440; L. Minio-Paluello (ed.), Categoriae vel
praedicamenta, translatio Boethii. Editio composita. Translatio Guillelmi de
Moerbeka. Lemmata e Simplicii commentario decerpta. Pseudo-Augustini
Paraphrasis Themistiana, Corpus philosophorum medii aevi. Aristoteles Latinus, i 1-5, Bruges-Paris 1961, pp. 129-175 (sotto il titolo Anonymi
paraphrasis Themistiana. Pseudo-Augustini categoriae decem). Il testo greco di Aristotele è in R. Bodéüs (éd.), Aristote [Catégories], Collection
des universités de France, Paris 2001 (con rinvii alla versione latina delle Categoriae decem a pp. clxi n. 2 e clxii n. 1).
3 PL lxiii, coll. 1079-1080; J.-Y. Guillaumin (éd.), Boèce, Institution
arithmétique, Collection des universités de France, Paris 1995.
4 PL ci, col. 951; Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. lxxxvii.
5 PL ci, coll. 964-968; per le edizioni di quest’opera si veda M.-H.
Jullien-F. Perelman (edd.), Clavis scriptorum Latinorum medii aevi.
Auctores Galliae 735-987, ii, Alcuinus, Corpus Christianorum. Continuatio mediaevalis, Turnholti 1999, pp. 130-133.
6 Il codice offre potestas colle due ultime lettere erase.
7 C. Moreschini (ed.), Apulei Platonici Madaurensis opera quae supersunt, iii, De philosophia libri, Bibliotheca scriptorum Graecorum et
Romanorum Teubneriana, Stutgardiae-Lipsiae 1991; ma si considerino le giuste osservazioni in merito al codice dei Maristi edite in R.
Klibansky-F. Regen, Die Handschriften der philosophischen Werke des
Apuleius. Ein Beitrag zur Überlieferungsgeschichte, Abhandlungen der
Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Philologisch-historische
Klasse, iii s. 204, Göttingen 1993, pp. 152-153 e 155 + tav. i.
8 Corretto da mano coeva in peripatheticam.
9 PL lxiv, coll. 293-392; C. Meiser (ed.), Anicii Manlii Severini Boetii commentarii in librum Aristotelis ¶ÂÚd ëÚÌËÓ›·˜ pars prior, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, Lipsiae 1877,
pp. 29-225.
10 PL c, coll. 565-568 (= PL xvii, coll. 1015-1018 come Pseudo-Ambrosii de dignitate conditionis humanae libellus; simile il testo attribuito
ad Agostino in PL xl, coll. 805-806); per le edizioni di quest’opera si
veda Jullien-Perelman (edd.), Clavis cit., p. 524 ed anche, in particolare, J. Marenbon, From the Circle of Alcuin to the School of Auxerre. Logic, Theology and Philosophy in the Early Middle Ages, Cambridge
Studies in Medieval Life and Thought, iii s., 15, Cambridge-LondonNew York-New Rochelle-Melbourne-Sydney 1981, pp. 158-161 (edizione dei Dicta) e pp. 17, 36, 42, 50, 52-53, 151 (sul codice dei Maristi).
11 Corretto da mano coeva per espunzione in concilii.
12 PL xxi, coll. 472-473 (come testo citato in Rufini Aquileiensis historia ecclesiastica); G. L. Dossetti (ed.), Il simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Testi e ricerche di scienze religiose, 2, Roma-Freiburg-BaselBarcelona-Wien 1967, pp. 227-251. Per le altre forme di credo si veda il
tentativo di una storia generale in J. N. D. Kelly, Early Christian Creeds, iii ed., New York 1972, trad. it. Napoli 1987.
13 PL lvi, col. 582 (come testo inserito nel Codex canonum ecclesiasticorum et constitutorum sanctae sedis apostolicae).
14 PL lxxi, coll. 161-162 (come testo citato in Gregorii Turonensis historia ecclesiastica Francorum).
15 Corretto da mano coeva su rasura di martiris.
16 Da emendare in Neocaesareae.
17 PG x, coll. 983-988 (testo latino e greco).
18 PL xlv, coll. 1716-1718.
19 PL xix, coll. 132-133. Come testo a sé stante si veda D. Kartschoke, Bibeldichtung. Studien zur Geschichte der epischen Bibelparaphrase von Juvencus bis Otfried von Weißenburg, München 1975, p. 116.
20 PL lxx, coll. 12-15; M. Adriaen (ed.), Magni Aurelii Cassiodori
opera, ii/1, Expositio psalmorum i-lxx , Corpus Christianorum. Series
Latina, 97, Turnholti 1958, pp. 7-12.
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Tav. 1. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Maristi, senza numero: c. 32v.
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nimo», explicit: «p(er) Bonifatium presbiterum
Hierusolimam».1
17. c. 113r, Pseudo-Hieronymi epistula xlvii ; incipit:
«Item s(an)c(t)i Hieronimi ad Damasum. Beatissimo papae Damaso sedis apostolicae urbis Romae
Hieronimus supplex», explicit: «quod Grece dicitur
prologus Latine dicitur praefacio».2
18. c. 113r-v, Pseudo-Hieronymi prologus de psalterio; incipit: «Item alia epistula unde supra. Nunc au(tem)
exposuimus originem omnium psalmorum», explicit: «qui sic habet et omnis sp(iritu)s laudet
D(omi)n(u)m».3
19. cc. 113v e 109r, Pseudo-Hieronymi et Pseudo-Damasi
versus de psalterio; incipit: «Item unde supra Damasi et Hieronimi. Psallere qui docuit», explicit: «haec Damasus scit s(an)c(t)e tuos ipse triumphos».4
20. c. 109r, Isidorii in libros veteris et novi testamenti prooemium de psalterio; incipit: «Item de libro s(an)c(t)i
Isidori. Liber psalmorum quamquam uno concludatur volumine», explicit: «ordinavit ut voluit».5
21. c. 109r-v,6 Pseudo-Augustini de virtutibus psalmorum;
incipit: «S(an)c(tu)s Augustinus dixit. Canticum
psalmorum animas decorat», explicit: «in caelo mirificabit in s(ae)c(u)la s(ae)c(u)lorum amen».7
22. cc. 109v e 114r-v, credo atanasiano; incipit: «Fides
s(an)c(t)i Athanasii ep(iscop)i Alexandrini. Quicumq(ue) vult salvus esse», explicit: «salvus esse
non poterit».8
23. c. 114v, probationes pennae.9
Per i comuni criteri di un libro a stampa una simile
miscellanea appare assai disomogenea. È invece chiaro che si tratta di un progetto editoriale piuttosto
coerente ed adatto a fornire materiale di studio sia
nell’ambito filosofico che in quello teologico.10 Un
primo nucleo si riconosce facilmente come il frutto
dell’accorpamento dell’Isagoge di Porfirio e delle Categorie pseudoagostiniane: si tratta di due opere che
forniscono la “grammatica” della filosofia latina
dell’epoca. In particolare le Categorie rivestono, come vedremo, un ruolo notevole nell’individuazione
della storia di questa miscellanea e dell’ambiente che
la ha generata. A questo nucleo sono stati aggregati
tre brevi testi di supporto (nrr 3-5 dell’elenco), che sono connessi direttamente colla tradizione delle Categorie e sono frutto del “laboratorio editoriale” di Alcuino.11
Un secondo nucleo, pur esso di natura filosofica, è
costituito dal ¶ÂÚd ëÚÌËÓ›·˜ di Apuleio e soprattutto
dal commentario di Boezio sul trattato omonimo di
Aristotele. Quest’ultimo è senz’altro il cuore della miscellanea, di cui le prime sei opere tràdite nel codice
sono sostanzialmente un’introduzione.12
Il terzo nucleo è costituito da numerosi brevi testi
di interesse teologico, articolati in più sottoinsiemi. La
serie è aperta da un’opera attribuita dalla tradizione,
ancora una volta, ad Alcuino:13 il trattatello De imagine Dei, un’ouverture efficace per le expositiones fidei che
seguono (nrr 9-13); questa serie è conclusa da un componimento poetico di Giovenco (nr 14), che è una parafrasi poetica del Pater noster. Un secondo sottoinsieme è dedicato alle expositiones del Salterio: la poesia
“sacra” per eccellenza, illustrata da numerosi brevi testi (nrr 15-21), conclusi dal credo atanasiano (nr 22).
1 PL xiii, coll. 440-441; D. de Bruyne, Préfaces de la Bible latine, Namur 1920, p. 65 nr 14.
2 PL xxx, coll. 294-295; de Bruyne, Préfaces cit., pp. 65-66, nr 15.
3 PL xxx, col. 296 (riedito come testo autonomo in PL Supplementum ii, coll. 274-275); de Bruyne, Préfaces cit., pp. 44-45, nrr 2-3.
4 PL xiii, col. 375; de Bruyne, Préfaces cit., p. 66, nrr 16-17.
5 PL lxxxiii, coll. 163-164.
6 Va osservato che l’impaginazione di c. 109v è piuttosto irregolare ed in particolare il margine superiore è maggiore del consueto.
7 PL cxxxi, col. 142 (inserita come parte dei Diversa diversorum in
psalmos praeambula in Remigii Antissiodorensis enarrationes in psalmos; è
simile alla versione latina di Basilii Magni homilia i in psalmos = PG
xxix, coll. 212-213).
8 PL lxxxviii, coll. 585-586 (originale greco e sua versione latina
moderna in PG xxviii, coll. 1581-1584). Su questo credo si veda J. N. D.
Kelly, The Athanasian Creed, The Paddock Lectures for 1962-1963,
London 1964, sp. pp. 16-23 per il codice dei Maristi ed il testo tràdito.
9 Isolate prove di penna sono osservabili anche in altre carte, lasciate parzialmente in bianco.
10 A questa considerazione conducono anche i due studi dedicati
al codice: Delisle, Notice cit. ed A. Ward, The Codex Pagesianus: Witness to Church Renewal, «The American Benedictine Review» 44/iii
(1993), pp. 308-333, quest’ultimo particolarmente importante per ricostruire la storia del codice, nonché per collocare in una giusta luce le
raccolte di brevi testi posti di seguito alla parte propriamente filosofica della miscellanea (sono i nostri nrr 8-22, sui quali cf. ibid., pp. 327333). Il codice è anche descritto in Die Ausstellung Karl der Grosse – Werk
und Wirkung, im Rathaus zu Aachen und im Kreuzgang des Domes
von 26. Juni bis zum 19. September 1965, Aachen 1965, p. 205, nr 363:
in questo catalogo è collocato a cesura delle due sezioni della mostra
curate da B. Bischoff, Das geistige Leben, ibid., pp. 188-206 e Die karolingische Minuskel, ibid., pp. 207-223. Nel volume illustrativo che accompagnò il catalogo di questa mostra, che è l’unica nella quale il co-
dice dei Maristi è stato esibito, sono molto rilevanti i due saggi dello
stesso B. Bischoff, Die Hof bibliothek Karls des Grossen e Panorama der
Handschriftenüberlieferung aus der Zeit Karls des Grossen, in H. Beumann-B. Bischoff-H. Schnitzler-P. E. Schramm (hrsg.), Karl der
Grosse. Lebenswerk und Nachleben, herausgegeben von W. Braunfels,
ii, Das geistige Leben, herausgegeben von B. Bischoff, Düsseldorf
1965, pp. 42-62 e 233-254 rispettivamente; il Panorama der Handschriftenüberlieferung aus der Zeit Karls des Grossen è stato riedito in italiano
sotto il titolo Centri scrittorii e manoscritti mediatori di civiltà dal vi secolo all’età di Carlomagno, con ampliamenti, in G. Cavallo (ed.), Libri
e lettori nel medioevo. Guida storica e critica, Universale, 419, Roma-Bari
1977, pp. 27-72 e 239-264 (per Leidrat cf. p. 58 e nn. 203-204), più volte
poi riedito (ultima a me nota: v ed., Biblioteca universale, 296, RomaBari 2003); Die Hof bibliothek Karls des Grossen è stata riedita invece in
B. Bischoff, Mittelalterliche Studien. Ausgewählte Aufsätze zur Schriftkunde und Literaturgeschichte, iii, Stuttgart 1981, pp. 149-169 + tavv. vx, sp. p. 157 (un cenno al codice dei Maristi è anche nella stessa raccolta, p. 122). Menzione del codice è anche in una recente disamina
della biblioteca di corte di Carlo Magno: D. A. Bullough, Charlemagne’s Court Library Revisited, «Early Medieval Europe» 12 (2003), pp.
339-363: 357 e n. 70.
11 Oltre ai versi dedicatorî delle Categorie (nr 4), fa sicuramente
parte della produzione di Alcuino l’excerptum dalla Dialectica (nr 5),
mentre il passo desunto dall’Institutio arithmetica di Boezio (nr 3)
potrebbe far parte dei materiali preparatorî per redigere un manuale di aritmetica, che non sappiamo se Alcuino abbia poi effettivamente scritto: su ciò si veda Jullien-Perelman (edd.), Clavis cit.,
pp. 125-126.
12 È interessante osservare che la successione Isagoge, Categorie e
De interpretatione si ritrova anche nella presentazione che di queste
opere offre Isidoro nelle Etimologie (ii 25-27).
13 Jullien-Perelman (edd.), Clavis cit., pp. 520-524, propendono
per negare l’attribuzione ad Alcuino del De imagine Dei.
2. La storia
Questa miscellanea si qualifica subito come un libro
legato alla personalità di Alcuino: in particolare i Ver-
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
Tav. 2. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Maristi, senza numero: c. 110v.
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Il testo in esame è stato edito nel grande progetto dell’Aristoteles Latinus da parte di Lorenzo Minio-Paluello sotto il titolo di Paraphrasis Themistiana. Secondo
Minio-Paluello si tratta di una parafrasi latina allestita sulla base di un’originale parafrasi greca, alla fine
del iv secolo.4 Abbiamo notizia di una serie di importanti parafrasi greche delle principali opere aristoteliche, allestite da Temistio, il celebre retore, negli anni
giovanili.5 Anzi al successo di queste opere didattiche
sembrano dovute in buona parte l’iniziale ascesa di
Temistio agli onori della grande retorica e la sua chiamata a Costantinopoli.6 Alcune di queste parafrasi
non sono più conservate nell’originale greco: fra queste anche la parafrasi delle Categorie.7 Divenuto Temistio una figura eminente del Senato costantinopolitano, ebbe anche modo, nel 375-376, di visitare Roma
in un viaggio ufficiale e fu assai bene accolto dai senatori romani.8 A questo episodio Minio-Paluello riconnette la preparazione di una parafrasi latina delle
Categorie di Aristotele; egli però ritiene che essa non
sia fondata su un originale greco fornito da Temistio
stesso, ma sia basata su una parafrasi greca diversa da
quella, ritenuta perciò perduta, di Temistio giovane.9
Le ragioni di questo convincimento sono due. In primo luogo manca un’indicazione esplicita di paternità
temistiana del testo greco su cui si fonda la versione
latina. In secondo luogo il nome di Temistio è presente nell’opera in due passi che lo presentano come
erudito dell’epoca, ma non come autore della parafrasi greca.
Il primo passo suona così: «Sed, ut erudito nostrae
aetatis Themistio philosopho placet, de his Aristoteles
tractare incipit quae percipiuntur quaeque ipse vocat
Graeco nomine ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓ· sive Ê·ÓÙ·Û›·˜, ‘imagines rerum insidentes animo’»;10 ed il secondo, proprio
a conclusione dell’opera, in questo modo: «Haec sunt,
fili carissime, quae iugi labore assecuti, cum nobis
Themistii nostra memoria egregii philosophi magisterium non deesset, ad utilitatem tuam de Graeco in
Latinum convertimus, scilicet ut ex his quoque bonam frugem studii a nobis profecti suscipias si te non,
dissimilem nostri, aliarum rerum quae lubricae atque
inanes sunt cupiditas retentaverit; nihil namque omisimus in hoc libro quod posset aut delectare iam doctos aut indoctos manifestius erudire».11
Nell’ambiente senatorio di Roma sappiamo da diverse fonti che massimamente interessato all’aristotelismo temistiano fu Vettio Agorio Pretestato, uno
degli artefici dell’estremo tentativo dell’aristocrazia
occidentale di sostenere un antimperatore pagano: il
1 Cf. infra, i. 2. 2.
2 L. Minio-Paluello, Dalle «categoriae decem» pseudo-agostiniane
(temistiane) al testo vulgato aristotelico boeziano, in Id., Note sull’Aristotele latino medievale, «Rivista di filosofia neo-scolastica» 54/i (1962), pp.
131-147: 140 (la trattazione Dalle «categoriae decem» cit. si può leggere anche nella ried. di L. Minio-Paluello, Opuscula: the Latin Aristotle,
Amsterdam 1972, pp. 448-458).
3 A questo proposito un quadro più ampio si ricava da J. Marenbon, Aristotelian Logic, Platonism, and the Context of Early Medieval Philosophy in the West, Variorum Collected Studies Series, 696, AldershotBurlington-Singapore-Sydney 2000, nr iii, p. 175 e v, p. 118, corrigenda
ed addenda, p. 2 (con ulteriore bibliografia).
4 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., pp. lxxvii-xcvi, 129-175,
224-257; per l’attribuzione dell’opera al tardo secolo iv, cf. p. lxxviii.
5 L. Spengel (ed.), Themistii paraphrases Aristotelis librorum quae
supersunt, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, i-ii, Lipsiae 1866.
6 R. Maisano (ed.), Discorsi di Temistio, Classici greci. Autori della tarda antichità e dell’età bizantina, Torino 1995, ricostruisce le circostanze della composizione di queste parafrasi: già il padre di Temistio, il retore Eugenio, aveva preparato, con finalità didattiche,
parafrasi aristoteliche (ibid., p. 43); così, in età giovanile (oratio xxiii
294 D = Maisano, ed., Discorsi cit., p. 802), Temistio aveva composto
parafrasi di tutte le principali opere di Aristotele, nel periodo anteriore al suo arrivo come docente a Costantinopoli, ossia prima del 348 o
349 (ibid., p. 44).
7 L’esistenza della parafrasi delle Categorie è testimoniata dallo
stesso Temistio (oratio xxi 256 A = Maisano, ed., Discorsi cit., p. 714,
ll. 21-22: per questa orazione si è ipotizzata una datazione nel decennio 345-355). Da Spengel (ed.), Themistii paraphrases cit., i, p. 110, ll. 2328, apprendiamo che la parafrasi delle Categorie è stata allestita anteriormente a quella della Fisica.
8 A riguardo cf. Maisano (ed.), Discorsi cit., p. 47.
9 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., pp. lxxvii-xcvi: lxxviii,
con considerazioni sulla sua funzione di libro formativo “di scuola”
(ibid., pp. lxxix-lxxx) ed una valutazione importante del codice dei
Maristi (ibid., pp. lxxxii, lxxxix-xci, xciii, xcv); d’altronde l’indicazione di questo manoscritto come fondamentale emerge già nella
descrizione data in L. Minio-Paluello (ed.), Codices. Supplementa altera, Corpus philosophorum medii aevi. Aristoteles Latinus, BrugesParis 1961, pp. 147-149, nr 2163. Il codice è anche illustrato in L. MinioPaluello, Nuovi impulsi allo studio della logica: la seconda fase della
riscoperta di Aristotele e di Boezio, in La scuola nell’Occidente latino dell’alto medioevo, Settimane di studio del centro italiano di studi sull’alto
medioevo. Spoleto 15-21 aprile 1971, xix/2, Spoleto 1972, pp. 743-766 e
discussione alle pp. 841-845, sp. p. 747. In questo contributo risulta chiaro come il manoscritto dei Maristi si collochi in un filone di tradizione
che non subisce per i testi boeziani le alterazioni dovute alla preparazione di edizioni arricchite da commentarî: una prassi caratteristica
dei testi latini preparati a Costantinopoli a metà del secolo vi.
10 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. 137, ll. 20-23.
11 Ibid., p. 175, ll. 18-25.
sus ad Carolum (nr 4) sono un componimento prodotto per presentare a Carlo Magno un testo filosofico
importante riscoperto da Alcuino e cioè le Categorie
pseudoagostiniane. In effetti questo è il più antico
testimone pervenutoci appunto delle Categorie ed
abbiamo numerose testimonianze del fatto che il
dedicatore del codice, Leidrat, è stato membro del
cenacolo di studiosi raccolti attorno ad Alcuino.1 Insomma questo codice ci introduce direttamente nel
cuore dei processi di formazione culturale delle élites
carolinge e ci permette di esaminare in quale modo
siano potute avvenire la riscoperta di testi antichi, la
loro integrazione in un panorama intellettuale nuovo
ed anche la scelta delle vesti grafiche da essi assunte.
Un primo aspetto deve subito esser chiarito: le Categorie non hanno un titolo iniziale, ma solo quello finale, che, inoltre, le attribuisce ad Agostino, traduttore di Aristotele (De cathegoriis Aristotelis explicit ab
Agustino translatis). È evidente che il traduttore non
può esser stato il celebre padre della Chiesa, così come credette Alcuino (e tutto il mondo medievale fino
al xiv secolo),2 basandosi di sicuro su una sottoscrizione finale corrotta. Il punto è piuttosto quello di individuare chi ne sia stato l’autore ed esaminare se
questo quesito non aiuti a definire meglio anche le
circostanze della riscoperta dell’opera e della preparazione della miscellanea.3
2. 1. La versione latina delle Categorie
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
127
retore Eugenio.1 Agorio fu traduttore in latino di parafrasi di Temistio, come ci dice Boezio.2 È piuttosto
naturale pensare che fra queste traduzioni possa esser
anche quella delle Categorie, tanto più che la sottoscrizione finale offre a ciò un appiglio testuale notevole nella presenza di un nome del traduttore (De
cathegoriis … ab Agustino translatis), che lascia intravedere una forma nominale abbreviata (Ag.) da sciogliere.3 Tuttavia anche questa interpretazione è rigettata
con decisione da Minio-Paluello, che la ritiene impossibile in ragione di un passo delle stesse Categorie, dove Agorio è presentato come uno studioso fra tanti e
non come autore della parafrasi latina: «Ac propterea
haec quidam volunt categoriae alteri sociare, quae
apud Graecos ÎÂÖÛı·È, apud nos ‘iacere’ (sive, ut Agorius – quem ego inter doctissimos habeo – voluit, ‘situs’) dicitur».4
Insomma ci troveremmo di fronte al caso di non
avere più né la parafrasi delle Categorie di Aristotele
preparata da Temistio in greco, né la versione latina
di questa allestita da Vettio Agorio Pretestato. Sebbene, come vedremo, la questione non sia poi essenziale per il nostro studio, tuttavia mi è difficile credere
che la situazione sia questa. In effetti mi è difficile accettare in particolare che il testo greco di Temistio
non sia la base della versione latina. I due passi indicati da Minio-Paluello non mi paiono fortemente
contrari all’identificazione. In primo luogo essi si trovano proprio al principio ed alla fine della traduzione;
dunque in luoghi extratestuali, che, mancando il titolo originale dell’opera, possono benissimo contenere
solo una menzione del nome di Temistio, senza
un’esplicita indicazione di “proprietà” del testo greco
che si è tradotto, tanto più che lo si sarà probabilmente adattato secondo i criterî tradizionali del verte-
re latino e cioè senza una pedissequa corrispondenza.
Anzi, il ricordo di Temistio, se egli non è colui che preparò la parafrasi greca, risulta sostanzialmente incomprensibile. D’altronde lo stesso nome di Aristotele, vero autore dell’opera (anche se ciò è difficile da
accettare da un punto di vista moderno), è espresso
accanto al nome di Temistio, all’esordio del trattato,
senza che egli sia esplicitamente indicato come autore delle Categorie nel loro testo greco originario.5
Più accettabile mi risulta l’ipotesi che non sia Vettio Agorio Pretestato il traduttore latino.6 Mi sembra
però probabile che si tratti di un altro membro della
sua famiglia, visto che solo così può spiegarsi bene la
presenza nell’originaria sottoscrizione conclusiva della parola Ag(orius). Questo inoltre va d’accordo con alcuni altri dati che emergono dalla natura del testo e
forse anche dalla sua vicenda di tradizione all’ambiente carolingio. In primo luogo tutta l’opera è in tono cogli interessi di erudizione filosofica dell’aristocrazia senatoria di Roma.7 A questa considerazione
dà anche forza la presenza di un indizio di origine romana del testo. A proposito delle specificazioni logiche di luogo e tempo così esemplifica la Paraphrasis:
«Ubi et quando videntur locus et tempus esse cum
non sint; sed sunt in loco et in tempore, ut Romae, in
senatu, ante horam tertiam, post mensem martium».8 Si potrà certo dire che Roma è un luogo “banale” e che il senato di Roma lo è anch’esso (e questo
è già più difficile da accettare), tuttavia esiste forse un
indizio ulteriore per ipotizzare un’origine romana del
testo, un indizio che nasce dalla probabile origine romana del suo vettore: un codice tardoantico.
Una fonte notevole per la conoscenza del mondo
carolingio è rappresentata dal cosiddetto codex Carolinus: l’insieme delle missive che i primi Carolingi in-
1 Su di lui esiste uno studio biografico recente di M. Kahlos, Vettius Agorius Praetextatus. A Senatorial Life in Between, Acta instituti Romani Finlandiae, 26, Romae 2002.
2 La testimonianza di Boezio riguarda innanzi tutto gli Analitici:
«Vetius Praetextatus priores postremosque analyticos non vertendo
Aristotelem Latino sermoni tradidit, sed transferendo Themistium,
quod qui utrosque legit facile intellegit» (C. Meiser [ed.], Anicii Manlii Severini Boetii commentarii in librum Aristotelis ¶ÂÚd ëÚÌËÓ›·˜ pars posterior, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, Lipsiae 1880, p. 3 l. 7-p. 4 l. 3).
3 Questa opinione è espressa da G. Pfligersdorffer, Zur Frage
nach dem Verfasser der pseudo-augustinischen Categoriae Decem, «Wiener
Studien» 65 (1950-1951), pp. 131-137.
4 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. 162, ll. 19-22.
5 Comunque io propendo sempre per Temistio anche alla luce del
fatto che l’esistenza di un gruppo di versioni latine da sue parafrasi mi
sembra confermata dalle citazioni inserite sotto il suo nome in opere
come il De topicis differentiis di Boezio, “saccheggiato” anche per arricchire la seconda edizione delle Institutiones di Cassiodoro: su questa
difficile tematica si veda A. van de Vyver, Les étapes du développement
philosophique du haut moyen âge, «Revue belge de philologie et d’histoire» 8/ii (1929), pp. 425-452, sp. pp. 428-432. Il De topicis differentiis di
Boezio (colle sue versioni greche, di età bizantina) è edito in D. Z. Nikitas, Boethius, De topicis differentiis ηd Ôî B˘˙·ÓÙÈÓb˜ ÌÂÙ·ÊÚ¿ÛÂȘ ÙáÓ
M·ÓÔ˘cÏ ^OÏÔ‚ÒÏÔ˘ ηd ¶ÚÔ¯fiÚÔ˘ K˘‰ÒÓË, con un ¶·Ú¿ÚÙËÌ· dal
titolo Eine Pachymeres-Weiterbearbeitung der Holobolos-Übersetzung:
Boethius’ De topicis differentiis und die byzantinische Rezeption dieses
Werkes, Corpus philosophorum medii aevi. Philosophi Byzantini,
\AıÉÓ·È-Paris-Bruxelles 1990, sp. pp. 45-48, 62-64, 67 e 70.
6 A questo riguardo è interessante osservare che, invece, Maisano (ed.), Discorsi cit., p. 47, considera senz’altro Pretestato autore delle Categorie, intese come rielaborazione originale dell’opera di Ari-
stotele, sia pure attraverso l’influenza di Temistio. In particolare, riferendosi all’orazione xiii ed al viaggio di Temistio a Roma, afferma:
«In occasione di questo viaggio egli stabilì certamente rapporti con
Vettio Agorio Pretestato – e quindi, molto probabilmente, con Simmaco, Nicomaco Flaviano e altri. Pretestato infatti tradusse in latino
alcune parafrasi aristoteliche di Temistio, e inoltre nelle sue Categorie
(attribuite dalla tradizione manoscritta ad Agostino) rivela influssi
temistiani. Non va dimenticato a tal proposito che Pretestato è il
padrone di casa dei Saturnalia di Macrobio, dove il retore greco
Eusebio sembra adombrare una figura che potrebbe essere quella di
Temistio». Queste opinioni risentono, d’altronde, della ricostruzione
storica offerta da G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au iv e siècle et
les traditions politiques de l’hellénisme. Le témoignage de Thémistios,
«Travaux et mémoires» 3 (1968), pp. 1-242: 194 e n. 247; a sua volta dipendente da P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident de Macrobe
à Cassiodore, Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de
Rome, 159, nuova ed., Paris 1948, p. 4. Deludente la trattazione della
vicenda in Kahlos, Vettius Agorius Praetextatus cit., pp. 135-137, che
accetta sostanzialmente la ricostruzione di Lorenzo Minio-Paluello,
insistendo però sull’originalità della resa latina delle, per lei, anonime Categorie.
7 Non è certo questo il momento di esaminare in dettaglio la questione, ma è evidente la coerenza che lega gli sforzi di traduzione (ed
adattamento) della filosofia greca in latino nell’ambiente di Pretestato e la ripresa di questo indirizzo culturale da parte di Boezio. D’altronde l’idea che emerge, come possibilità, in alternativa all’attribuzione a Pretestato, è che l’autore delle Categorie latine possa esser
stato un altro esponente dell’ambiente senatorio coevo: Ceionio Rufio Albino (L. Minio-Paluello, The Text of the Categoriae: The Latin
Tradition, «The Classical Quarterly» 39/iii-iv, 1945, pp. 63-74 [ried. in
Id., Opuscula cit., pp. 28-39]: 66-68).
8 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. 167, ll. 16-18.
128
paolo r adiciotti
viarono ai pontefici e le risposte ottenute.1 Una di queste missive, risalente agli anni 758-763, presenta un interessante post scriptum, definito embolum. In esso papa Paolo i dà notizia a Pipino di avere inviato al re
numerosi libri, come gli era stato richiesto, affidandoli al titolare della chiesa romana di San Crisogono Marino: «Direximus itaque excellentissime praecellentiae vestrae et libros, quantos reperire potuimus: id est
antiphonale et responsale, insimul artem gramaticam
Aristolis, Dionisii Ariopagitis geometricam, orthografiam, grammaticam, omnes Greco eloquio scriptas, nec non et horologium nocturnum».2 Difficile
credere ad una gramatica Aristolis e l’editore, Wilhelm
Gundlach, propone in apparato di sanare con grammatica Aristotelis:3 giusto, ma, allora, è difficile capire
quale mai testo possa essere. Se, però, leggiamo l’inizio delle Categorie, dopo il paragrafo introduttivo, ci
imbattiamo in queste parole: «Is igitur nos docuit ex
octo his quas grammatici partes orationis vocant».4
Ossia le Categorie sono un’opera che fornisce il punto di intersezione fra la logica come parte della filosofia e la logica come interesse dello studio grammaticale; in certo modo funziona come un’essenziale
“grammatica filosofica” ed in questo senso può star
bene in una lista di opere inviate a Pipino da Roma per
sostenere i prodromi della rinascita carolingia, esattamente come sta bene al principio di un codice contenente una miscellanea filosofica che raccoglie tutto il
bagaglio essenziale della logica filosofica antica trasmessa al mondo carolingio da vettori manoscritti tardoantichi. C’è poi un altro particolare nella lettera che
può lasciare basiti: si dice che i libri sono scritti Graeco
eloquio. Se intendiamo supinamente il testo senza dubbio bisognerà chiederci che cosa mai possano leggere
i destinatari dell’ambiente carolingio in questi libri (visto che è pacifico non avessero piena ed agevole co-
noscenza del greco). Tuttavia se intendiamo che i testi in questione erano trattati tecnico-scientifici originariamente scritti in greco ovvero, come nelle Categorie, rispecchianti in larga misura la terminologia
greca (le Categorie sono ricchissime di grecismi, che
talora mantengono anche l’originaria forma grafica
greca), allora possiamo trovare anche in questo un ulteriore appiglio alla proposta di identificazione in questa grammatica Aristotelis di un codice delle Categorie,
recuperato dai ricchi repositoria romani di libri/testi
tardoantichi, giunti nelle eredità bibliotecarie della
Chiesa di Roma dalle ultime generazioni di senatori/intellettuali tardoantichi.5
1 W. Gundlach (ed.), Codex Carolinus, in Monumenta Germaniae
Historica (d’ora in poi MGH). Epistolae Merowingici et Karolini aevi, iii/1,
Berolini 1892, pp. 469-657.
2 Gundlach (ed.), Codex Carolinus cit., p. 529, ll. 19-22.
3 Tanto più che anche la parola horologium appariva guasta (nel manoscritto poziore per il Gundlach: il codice di Vienna, Nationalbibliothek, Theol. lat. 198 = Vind. 449), per un errore dovuto a sincope, nella forma horogium.
4 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. 133, ll. 9-10.
5 Su questa realtà si veda anche infra, i. 2. 2.
6 Minio-Paluello (ed.), Categoriae cit., p. lxxviii, indica il periodo 780-790. Su Alcuino più in generale cf. M. Lapidge, Il secolo viii , in
C. Leonardi-F. Bertini et alii (edd.), Letteratura latina medievale (secoli vi-xv ). Un manuale, Millennio medievale, 31, Strumenti, 2, Firenze
2002, pp. 41-73, sp. pp. 64-71 e 66 per la riscoperta delle Categorie.
7 Per una valutazione del codice dei Maristi quale la più antica miscellanea di dialettica aristotelica di età medievale pervenutaci si veda
J. Fried, Karl der Große, die artes liberales und die karolingische
Renaissance, in P. Butzer-M. Kerner-W. Oberschelp (hrsg.), Karl
der Grosse und sein Nachwirken. 1200 Jahre Kultur und Wissenschaft in
Europa, i, Wissen und Weltbild (= Colloquium Carolus Magnus, Aachen
19-26 März 1995), Turnhout 1997, pp. 25-43: 34-35 e n. 42. Uno squarcio
sul successo di questi testi in età medievale è offerta da I. D’Onofrio, Excerpta Categoriarum et Isagogarum, Corpus Christianorum.
Continuatio mediaevalis, 120, Logica antiquioris mediae aetatis, 1,
Turnholti 1995, sp. pp. lxxi-lxxvi (con riferimenti in particolare alle
Categoriae pseudoagostiniane alle pp. lxxii-lxxiv ed importante bibliografia a p. lxxiii n. 159).
8 Notizie essenziali su Leidrat in J.-B. Martin, Conciles et bullaire
du diocèse de Lyon des Origines à la réunion du Lyonnais à la France en 1312,
Lyon 1905, pp. 28-30 (periodo di vescovato anni 798-814, data di morte
il 28 dicembre 816). Molte notizie su Leidrat (ed i suoi codici) sono reperibili nello studio su Floro di Lione di C. Charlier, Les manuscrits
personnels de Florus de Lyon et son activité littéraire, in Mélanges E. Podechard. Études de sciences religieuses offertes pour son éméritat au doyen honoraire de la faculté de théologie de Lyon, Lyon 1945, pp. 71-84, sp. pp. 71,
76, 83. Particolarmente importante per ricostruire la formazione intellettuale di Leidrat è B. Bischoff, Die südostdeutschen Schreibschulen
und Bibliotheken in der Karolingerzeit, i, Die bayrischen Diözesen, Sammlung bibliothekswissenschaftlicher Arbeiten, 49, Leipzig 1940, pp.
60, 64, 83-85 (con ulteriori rinvii bibliografici): sulla base di documenti scritti a Frisinga fra il 779 ed il 782, nonché attraverso l’analisi dei codici di Monaco CLM 6305 (CLA 1269) e 6393 (CLA 1280), si chiarisce come il giovane diacono Leidrat si sia formato nella fase iniziale della
vita del centro scrittorio bavarese. La morte di Leidrat è posticipata di
alcuni anni (non è avvenuta prima del 28 dicembre 821) in P. Boulhol, Claude de Turin. Un évêque iconoclaste dans l’Occident carolingien.
Étude suivie de l’édition du Commentaire sur Josué, Collection des études
augustiniennes. Serie Moyen Âge et Temps Modernes, 38, Paris 2002,
sp. pp. 34 e 55 con nn. 27-28, ma anche, su Leidrat, p. 18 n. 19 (con ulteriore bibliografia), nonché la cronologia di pp. 33-34. Su Leidrat si
può leggere inoltre M. Stratmann, Schriftlichkeit in der Verwaltung von
Bistümern und Klöstern zur Zeit Karls des Großen, in Butzer-KernerOberschelp (hrsg.), Karl der Grosse cit., pp. 251-275: 257-259 (si tratta di
una comunicazione già resa pubblica presso l’università di Utrecht il
26 aprile 1995). Un ostacolo notevole all’indagine è dato dalla difficoltà di resa in latino del nome germanico di Leidrat; abbiamo così numerose varianti: Leidrath, Leidratus, Leidrad o Leidradus, Laidrad o
Laidradus o Laitradus, nonché le forme corrotte Laidracus o Laidragus, Laedredus, Liodradus, Liobradus, Leitardus.
9 MGH, E. Dümmler (ed.), Alcuini sive Albini epistolae, in Epistolae
Karolini aevi, iv/2, Berolini 1895, pp. 1-481.
2. 2. La preparazione della miscellanea
Le Categorie furono riscoperte da Alcuino al principio della sua collaborazione col cenacolo intellettuale presso la corte di Carlo Magno.6 A questa riscoperta sono legati la composizione dei Versus (nr 4 del
nostro codice), che costituiscono la dedica dell’opera
a Carlo, ma anche, probabilmente, l’allestimento di
un trattato di dialettica, del quale abbiamo un passo
nel nostro manoscritto (nr 5) e che utilizza ampiamente il materiale concettuale delle Categorie. D’altronde anche la ripresa di un luogo proemiale dall’aritmetica di Boezio (nr 3) ha un senso nella piccola
silloge: il tutto ha proprio l’aria di un dossier di appunti, formato da materiali didattici desunti direttamente dalla frequentazione del cenacolo di Alcuino e
collocati di seguito ai due testi introduttori alla filosofia (Isagoge e Categorie).7
A concepire questa presentazione dei testi della prima parte della miscellanea è stato, probabilmente,
Leidrat.8 Di lui abbiamo numerose notizie proprio
nel celebre epistolario di Alcuino.9 In esso Leidrat fi-
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
129
gura come amico di Arnone, abate di Saint Amand e
poi arcivescovo di Salisburgo,1 una personalità delle
più gradite ad Alcuino, ma Leidrat è anche interlocutore, con altri, cui rivolgersi per la revisione dei trattati di Alcuino Adversus Felicem Urgellitanum episcopum
ed Adversus Elipandum Toletanum, entrambi dedicati
alla critica dell’adozionismo.2
Leidrat è dunque al centro della questione adozionistica, su cui è ora brevemente necessario indugiare.3 Le iniziative carolinge hanno fatto riprendere
i contatti della Cristianità colle comunità cristiane di
Spagna sottoposte alla dominazione politica araba.
In questa zona mozaraba si era espressa, nel tardo
viii secolo, un’eresia, conosciuta come adozionismo,
che riprendeva molti spunti di riflessione dalla tradizione visigota ariana: il Cristo vi figurava come adottato dal Padre e privo sostanzialmente di natura divina. Questa corrente di pensiero era dilagata
dall’area mozaraba alle zone catalane ed aquitane,
penetrando dunque in profondità nel territorio franco. Per reprimerla Carlo Magno inaugurò una complessa politica religiosa, culminata con una sinodo,
ad Aquisgrana nel giugno dell’800, durante la quale
il principale sostenitore dell’eresia, Felice di Urgel, fu
costretto alla ritrattazione.4 Un aspetto di questa politica fu anche l’invio nel meridione della Francia di
un brillante intellettuale (di origine visigota) del
cenacolo di corte: Teodulfo, accompagnato proprio
da Leidrat, che, alla fine di quel viaggio, salì sulla
cattedra di Lione. Di questo viaggio abbiamo una
memorabile relatio in un componimento poetico
odeporico dello stesso Teodulfo: una composizione
comunemente ritenuta fra le migliori della sua opera.5 La raccolta delle expositiones fidei è, in tale senso,
strettamente connessa colla disputa contro Felice di
Urgel e rispecchia, nella miscellanea del codice dei
Maristi, l’altra parte della biografia intellettuale di
Leidrat: quella legata appunto alla personalità di
Teodulfo di Orléans.
In anni recenti lo studio del pensiero e dell’opera di
Teodulfo sono stati fortemente promossi dalla scoperta che è proprio lui l’autore dei Libri Carolini (di cui
ci è conservato il codice “di lavoro” dello stesso Teodulfo: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7207),6 cioè di un’ampia raccolta di materiali teologici e polemici destinati a definire il
pensiero della Chiesa (od almeno della Chiesa carolingia) di fronte alle grandi controversie religiose dell’viii secolo ed in primo luogo nei confronti della questione delle immagini. La consapevolezza colla quale
Teodulfo interviene nella questione è almeno tanto
notevole quanto la sua capacità di incidere nel pro-
1 Leidrat risulta associato ad Arnone (chiamato anche Aquila, con
resa del suo nome germanico in latino) nelle seguenti lettere di Alcuino (paginazione dei MGH): pp. 35-36 (fine del 790), 267-268 (probabilmente della fine di gennaio del 799: quest’epistola è interessante perché pone in analogia l’opera, ben fatta [«Multa bona – gloria Deo –
habet in illis partibus facta»], di Leidrat nel meridione francese ed in
Spagna coll’impresa di cristianizzazione degli Avari promossa da Arnone), 321-322 (del 19 marzo 800), 345-346 (della primavera-estate
dell’800). D’altronde anche l’epistola 137 (numerazione dei MGH), indirizzata ai monaci della Settimania, fa menzione di Leidrat, allora appena eletto vescovo di Lione (798), a proposito della necessità di rigettare l’adozionismo. L’epistola 141, sempre risalente al 798, potrebbe
esser legata a Leidrat: il destinatario è un vescovo dal nome Liobradus,
che potrebbe nasconder la corruttela del difficile nome germanico di
Leidrat.
2 Le notizie relative sono desumibili dall’epistola 172 (aprile-maggio 799), nella quale, fra molto altro, si ringrazia Carlo Magno della
revisione operata da altri (su istanza di Carlo) dell’opera Adversus Felicem Urgellitanum, nonché dalle epistole 200 (lettera dedicatoria) e 201
(metà giugno 800); in quest’ultima si dice di avere inviato copia del
trattato Adversus Elipandum Toletanum a Leidrat, nonché a Nefrido di
Narbona ed a Benedetto di Aniane, invitandoli a leggerla e correggerla, nonché a farla copiare. Attraverso relazioni di questo tipo, appunto, Leidrat potrebbe aver acquisito i materiali alcuiniani presenti nel
codice dei Maristi.
3 Un’ampia trattazione dell’adozionismo in relazione al mondo
carolingio è in W. Heil, Der Adoptianismus, Alkuin und Spanien, in
Beumann-Bischoff-Schnitzler-Schramm (hrsg.), Karl der Grosse
cit., pp. 95-155. Ora si può contare anche sul quadro di insieme di D.
Ganz, Theology and the Organisation of the Thought, in R. McKitterick (ed.), The New Cambridge Medieval History, ii, c. 700-c. 900, Cambridge 1995, pp. 758-785: 762-766, dove si qualifica l’adozionismo come
una “rinascita” del nestorianesimo.
4 Notizia dell’abiura compiuta da Felice di Urgel è in MGH, Dümmler (ed.), Epistolae Karolini aevi cit., pp. 329-330 (epistola di Felice alla metà di giugno dell’800). Secondo la testimonianza di Adone (Ex
Adonis archiepiscopi Viennensis chronico, in MGH, G. H. Pertz, ed.,
Scriptores, ii, Hannoverae 1829, ed. lucis ope expressa Stutgardiae-Novi Eboraci 1963, pp. 315-323: 320, ll. 7-9), Felice fu poi costretto alla residenza forzata a Lione, dove morì. Di lui si ha anche un’epistola indirizzata a Leidrat (PL xcvi, coll. 882-888). Sulla questione adozionista è
interessante leggere i materiali polemici degli stessi adozionisti, in particolare I. Gil (ed.), Corpus scriptorum Muzarabicorum, Consejo superior de investigaciones cièntificas. Manuales y anejos de «Emerita»,
xxviii/1, Madrid 1973, sp. pp. 82-93 (epistola dei vescovi spagnoli a quelli francesi, con un credo adozionista), 93-95 (epistola a Carlo Magno),
96-109 (epistola, fortemente polemica, di Elipando vescovo di Toledo
ad Alcuino), 109-111 (epistola di Elipando a Felice di Urgel). D’altronde Leidrat è legato anche ad un altro episodio interessante delle polemiche teologiche dell’epoca. Fu infatti colui che ospitò Claudio di Torino (coinvolto nella questione iconoclasta) durante la preparazione
della sua expositio libri Geneseos (poi completata in una residenza imperiale – in Casanolio palatio – presso Poitiers); cf. Claudii Taurinensis
episcopi epistolae, in MGH, Dümmler (ed.), Epistolae Karolini aevi cit.,
pp. 586-613: 592 e 605 (quest’ultima una memoria, assai positiva per
Leidrat, dell’abate Theutmirus a Claudio di Torino). Proprio la menzione di Leidrat, dato come ancora vivente, nella lettera di Teutmiro,
fatta risalire all’821, è la principale prova addotta in favore di una data
di morte di Leidrat dopo il 28 dicembre (il giorno della sua morte secondo l’obituario della chiesa di S. Giovanni a Lione) di quell’anno
(Boulhol, Claude cit., p. 55 n. 28).
5 Theodulfi carmina, in MGH, Poetae Latini medii aevi, i, E. Dümmler (ed.), Poetae Latini aevi Carolini, i, Berolini 1881, pp. 437-581, la relatio (che è anche il più ampio componimento della raccolta) è il carme 28, Versus Teudulfi episcopi contra iudices, pp. 493-517, nel quale il
titolo si spiega colle critiche rivolte all’operato dei giudici, che applicavano con eccessivo rigore le norme del diritto germanico, mosse da
Teodulfo nelle sue vesti di missus dominicus. Nel componimento il ricordo di Leidrat è a p. 496, vv. 117-118, con menzione della sua origine
dal Norico. Su Teodulfo cf. P. Chr. Jacobsen, Il secolo ix , in Leonardi-Bertini (edd.), Letteratura latina medievale cit., pp. 75-158, sp. pp. 8692 (pp. 88 e 90 per i riferimenti a Leidrat).
6 Su questo codice è fondata la riedizione dei Libri in MGH, Leges,
iv, Concilia, ii, Supplementum, i, A. Freeman (ed.), adiuvante P. Meyvaert, [Theodulf von Orleans] Opus Caroli regis contra synodum (libri
Carolini), Hannoverae 1998; l’introduzione, ibid., pp. 1-84, è stata riedita in inglese da A. Freeman, Theodulf of Orléans: Charlemagne’s
Spokesman Against the Second Council of Nicaea, Variorum Collected
Studies Series, 772, Aldershot 2003, i, pp. 1-123, sp. pp. 82-86 ed 88-90,
con nn. 387, 395, 399, per Leidrat ed il codice dei Maristi: da questo lavoro si ricava la convinzione che quasi tutti i testi della miscellanea
del codice pagesiano sono stati utilizzati da Teodulfo per le sue riflessioni filosofiche e teologiche. Per un inquadramento di insieme
del pensiero di Teodulfo è ancora utile H. Liebeschütz, Theodulf of
Orleans and the Problem of the Carolingian Renaissance, in D. J. Gordon (ed.), Fritz Saxl 1890-1948. A Volume of Memorial Essays from His
Friends in England, London-Edinburgh-Paris-Melbourne-TorontoNew York 1957, pp. 77-92.
130
paolo r adiciotti
cesso di revisione della Bibbia,1 che, in quegli anni,
conduce parallelamente alla revisione effettuata da
Alcuino. Ma di questa attività diremo meglio più
avanti per chiarirne l’impatto nella difficile questione
dell’origine della carolina.
Tuttavia l’esame dei blocchi testuali inseriti nella
miscellanea di Leidrat, nel caso delle expositiones fidei,
non presenta un addentellato solo colla vicenda delle
polemiche religiose di quegli anni e massime coll’adozionismo. Se si esaminano alcune di quelle expositiones dal punto di vista della loro tradizione testuale, si vede bene che esse danno notizie di legami
profondi e significativi ancora una volta con Alcuino.
Sono, da questo punto di vista, soprattutto rilevanti le epistulae amoebaeae fra papa Damaso e Girolamo
a proposito del Salterio (nrr 16-19 della miscellanea
tràdita dal nostro codice). Si tratta di lettere non certo genuine, su cui la critica ha compiuto notevoli passi in avanti per definirne paternità, funzione e circostanze di composizione. Il disvelamento dei dati
essenziali in merito si deve a Giovanni Mercati, che ha
dimostrato trattarsi di una raccolta prodotta a Roma
nell’ambito delle esigenze di polemica antiariana
(all’epoca un arianesimo espresso in Italia dagli Ostrogoti) fra v e vi secolo.2 Questo epistolario fittizio potrebbe esser stato ideato più precisamente nell’ambiente, formato da ecclesiastici, ma anche da senatori
romani, che in quegli anni era ostile alla politica religiosa di Teodorico.3 Insomma ci troveremmo di fronte allo stesso ambiente romano, anche se ormai fortemente cristianizzato, che circa un secolo prima
aveva prodotto la versione latina delle Categorie. In
questo caso, però, il percorso che i testi in questione
hanno compiuto per arrivare nella nostra miscellanea
è ben più complesso. Infatti uno dei testi comunemente associati all’epistolario, lo pseudodamasiano
Carmen de Davide (che è parte del nr 19 della miscellanea del codice dei Maristi), si ritrova anche in un an-
tichissimo codice inglese, il cosiddetto Salterio di sant’Agostino (London, British Library, Cotton Vesp. A
1), comunemente datato dai paleografi al 700 circa.4 A
questo dato di tradizione testuale si accompagnano,
come vedremo più avanti, rilevantissimi elementi paleografici in favore di un’origine inglese dell’antigrafo che ha trasmesso questo gruppo di brevi testi alla
miscellanea di Leidrat. E ciò conferma il ruolo di Alcuino, come agente del passaggio di questi testi (e delle idee ed esigenze intellettuali connesse) all’ambiente lionese.
Leidrat fu poi testimone diretto della morte di
Carlo Magno, come risulta dalle testimonianze coincidenti della cronaca di Adone e della biografia di
Carlo scritta da Eginardo;5 ma questa morte costituisce anche un punto di svolta drammatico della sua
biografia. Leidrat non sembra del tutto in sintonia
colla personalità del nuovo imperatore Ludovico il
Pio. Forse anche per ragioni di salute, Leidrat vuol
abbandonare la sede di Lione, controllando però la
successione alla sua cattedra, attraverso la nomina a
vescovo di un suo collaboratore, il chorepiscopus Agobardo. Questa successione non fu però agevole, tenuto conto che la norma canonica impediva di eleggere
un successore al vescovo in carica ed ancora vivente.
Tuttavia a noi non interessa tanto lo sviluppo della
successione (dopo la morte di Leidrat, Agobardo fu
confermato),6 quanto rilevare che proprio in quei
primi anni del regno di Ludovico cadeva in disgrazia,
presso il nuovo imperatore, proprio Teodulfo, che,
oltre ad essere stato amico di Leidrat, aveva rappresentato nel cenacolo di corte l’unica personalità intellettuale con caratteristiche comparabili a quelle di
Alcuino.
Sarebbe comunque errato concentrarsi solo sulle
relazioni di Leidrat colle maggiori personalità del cenacolo di corte. Infatti Leidrat non vive di vita riflessa,
ma ha la capacità di ideare proprie opere7 e di conce-
1 Per il momento rinvio alla testimonianza dello stesso Teodulfo
nei componimenti poetici dedicati alla Bibbia in Theodulfi carmina cit.,
pp. 532-541. Un quadro di insieme in B. Fischer, Bibeltext und Bibelreform unter Karl dem Grossen, in Beumann-Bischoff-SchnitzlerSchramm (hrsg.), Karl der Grosse cit., pp. 156-216.
2 G. Mercati, Il carme damasiano “de Davide” e la falsa corrispondenza di Damaso e Girolamo riguardo al Salterio, in Id., Note di letteratura biblica e cristiana antica, Studi e testi, 5, Roma 1901, pp. 113-126; per il
codice dei Maristi cf. ibid., pp. 113 e 116 n. 4. Questa ricostruzione è stata perfezionata da P. Blanchard, La correspondance apocryphe du pape
S. Damase et de S. Jérôme sur le psautier et le chant de l’«alleluia», «Ephemerides liturgicae» 63/iv (1949), pp. 376-388.
3 La ricostruzione di Blanchard, La correspondance apocryphe cit.,
sp. pp. 379 e 386, suggerisce che l’autore potrebbe esser un Giovanni,
diacono romano, in contatto col senatore Senario (cf. Epistola ad Senarium virum illustrem de variis ritibus ad baptismum pertinentibus et aliis
observatione dignis, edita in PL lix, coll. 399-408), alla fine del v secolo
(la data dell’epistola è il 496 circa). Si osservi che si tratta sempre di materiali pertinenti agli interessi che Leidrat ha attorno al sacramento del
battesimo, come si vedrà infra.
4 Per il carme De Davide edito a sé stante si veda A. Ferrua, Epigrammata Damasiana, Sussidi allo studio delle antichità cristiane, 2, Roma 1942, pp. 219-229, nr 60 (è utilizzato anche il codice dei Maristi, cf.
ibid., p. 219, che è ritenuto ancora conservato a Lione).
5 Ex Adonis archiepiscopi Viennensis chronico cit., p. 320 (anche a
proposito della nomina di Leidrat alla cattedra di Lione nel 798);
nonché Einhardi vita Karoli imperatoris, in MGH, Pertz (ed.), Scriptores cit., pp. 426-463: 463, l. 1, alla data del 28 gennaio 814. Leidrat è
anche menzionato nel testamento stesso di Carlo Magno (PL xclvii,
col. 1079).
6 Sulla questione della successione, per una testimonianza si legga
Ex Adonis archiepiscopi Viennensis chronico cit., p. 320 ll. 35-43: «Leidradus … initio imperii Ludovici imperatoris Suessionis monasterii locum petiit, et in loco eius Agobardus, eiusdem ecclesiae chorepiscopus, consentiente imperatore et universa Gallorum episcoporum
synodo, episcopus substitutus est; quod quidam defendere volentes,
dixerunt eumdem venerabilem Agobardum a tribus episcopis in sede
Lugdunensi iubente Leidrado fuisse ordinatum: sed canonica auctoritas est, in una civitate duos episcopos non esse, nec vivente episcopo
successorem sibi debere eligere, ac idcirco ulla quacumque causa regulae ecclesiae praeteriri in tanto ordine fixae non debent».
7 L’opera di Leidrat è edita, insieme a quella di Paolino di Aquileia
e di altri autori di interesse grammaticale del secolo viii, in PL, ic, Lutetiae Parisiorum 1851, coll. 853-886. Si tratta innanzi tutto di un’opera
sul battesimo (sostanzialmente un’explanatio del trattato dedicato ad
esso da Girolamo), come sacramento, ma anche come rito dotato di
profondi significati liturgici e simbolici (Leidradi liber de sacramento baptismi ad Carolum Magnum imperatorem, ibid., coll. 853-872). Il resto dell’opera di Leidrat è composto da tre epistole: due destinate a Carlo,
l’una come relatio (ibid., coll. 871-873) e l’altra contenente un trattatello
de abrenunciatione diaboli (ibid., coll. 873-884); l’ultima lettera (ibid., coll.
884-886) è invece una consolatoria per la sorella, colpita dalla perdita del
figlio e del fratello. Quest’ultima mostra interessanti esempi di concinnitas, solo in parte giustificabili come una ripresa della tradizione dei
Padri tardoantichi o del modello tipicamente merovingico della poesia
di Venanzio Fortunato. Cito ad esempio: «Vita nascimur aequales, co-
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
131
pire una specifica riforma culturale nel contesto lionese in cui si trova ad operare. Ne sono prova il Liber de
sacramento baptismi dedicato a Carlo Magno, ma anche
la sua relatio, inviata all’imperatore per narrare la situazione della Chiesa lionese dopo che Leidrat, nominato vescovo licet indignus,1 vi abbia operato un riordinamento ispirato ai precetti del cenacolo di corte.
Così, accanto a tante altre notizie, nella relatio si legge:
«in Lugdunensi ecclesia restauratus est ordo psallendi,
ut iuxta vires nostras secundum ritum sacri palatii
nunc ex parte agi videatur quicquid ad divinum persolvendum officium ordo deposcit. Nam habeo scolas
cantorum, ex quibus plerique ita sunt eruditi, ut etiam
alios erudire possint. Praeter haec vero habeo scolas
lectorum, non solum qui officiorum lectionibus exerceantur, sed etiam qui in divinorum librorum meditatione spiritalis intelligentiae fructus consequantur. Ex
quibus nonnulli de libro evangeliorum sensum spiritalem iam ex parte proferre possunt, alii adiuncto libro
etiam apostolorum, plerique vero librum prophetarum secundum spiritalem intelligentiam ex parte
adepti sunt; similiter libros Salomonis vel libros
psalmorum seu Iob. In libris quoque conscribendis in
eadem ecclesia, in quantum potui laboravi. Similiter
vestimenta sacerdotum vel ministeria procuravi».2
Un quadro, come si vede, di riordino “essenziale”,
dove procurarsi i libri ed i vestiti per l’uso ecclesiastico sono esigenze da porre pressoché sullo stesso piano. In tale contesto le polemiche sull’adozionismo o
sull’iconoclasmo sono servite (come nel mondo bi-
zantino) a giustificare un recupero del patrimonio intellettuale, anche profano, trasmesso dalla tarda antichità. Inoltre queste parole ci danno una serie di indicazioni importanti per capire quale sia stato il
concreto ruolo di Leidrat nel più ampio quadro della
riforma carolingia e come questo investa anche la realtà codicologica e paleografica di essa.
aequaliter morimur omnes. Diversa est merces post mortem, mors tamen omnibus una … Nemo sibi vivit, et nemo sibi moritur» (ibid., col.
886). Le epistole di Leidrat sono state riedite fra le Epistolae variorum Carolo Magno regnante scriptae, in MGH, Dümmler (ed.), Epistolae Karolini
aevi cit., pp. 494-567: 539-546, nrr 28-31 (vi è compresa anche l’epistola dedicatoria del trattato De sacramento baptismi). A Leidrat è stato anche attribuito un credo antiadozionista, conosciuto come Expositio symboli
apostolici (PL ccxiii, col. 727), da parte di J.-P. Bouhot, Le manuscrit Angers, B. M. 277 (268) et l’opuscule De spe et timore d’Agobard de Lyon, «Revue des études augustiniennes» 31/iii-iv (1985), pp. 227-241: 241. Si è anche ipotizzato che una collezione canonica di area ispano-francese sia
stata predisposta all’epoca del vescovato di Leidrat: si tratta degli Excerpta canonum x libros comprehensa seu Collectio Hispana systematica (si
veda E. Dekkers-Aem. Gaar, edd., Clavis patrum Latinorum, Corpus
Christianorum. Series Latina, iii ed. emendata et aucta, Steenbrugis
1995, p. 586, nr 1790 a). Un ruolo importante ebbe anche la collaborazione fra Leidrat e Benedetto di Aniane per la riforma delle comunità
monastiche a Lione (traccia di ciò è nella Vita sancti Benedicti Anianensis, in PL ciii, coll. 353-384: 369). Nell’imponente studio di Arnold Bühler
sui capitolari carolingi la relatio summenzionata, inviata da Leidrat a
Carlo, è considerata una testimonianza sicura di un’inchiesta, posteriore all’810, diretta ad accertare lo stadio di applicazione della “riforma” del sistema educativo dei chierici, si veda A. Bühler, Capitularia
relecta. Studien zur Entstehung und Überlieferung der Kapitularien Karls des
Großen und Ludwigs des Frommen, «Archiv für Diplomatik, Schriftgeschichte, Siegel- und Wappenkunde» 32 (1986), pp. 305-501: 434. A
proposito di un atteggiamento origenista di Leidrat nella lettura e nel
commento al testo biblico si veda P. Boulhol, Esegesi compilativa e propaganda iconoclastica: Claudio di Torino in bilico tra ossequio alle autorità
patristiche e voglia di autogiustificazione, in C. Leonardi-G. Orlandi
(eds.), Biblical Studies in the Early Middle Ages, Proceedings of the Conference on Biblical Studies in the Early Middle Ages. Università degli studi di
Milano-Società internazionale per lo studio del medioevo latino, Gargnano on
Lake Garda 24-27 June 2001, Millennio medievale, 52, Atti di convegni, 16,
Firenze 2005, pp. 155-174: 160 (con rinvii bibliografici).
dizione di diacono (e monaco) e non da una ripresa della formula pontificia. Sulla condizione monastica di Leidrat (anche nel quadro delle
sue iniziative a Lione) si trova una breve notizia in J. Semmler, Karl
der Grosse und das fränkische Mönchtum, in Beumann-BischoffSchnitzler-Schramm (hrsg.), Karl der Grosse cit., pp. 255-289: 273.
2 Qui la relatio è data secondo i MGH, Dümmler (ed.), Epistolae Karolini aevi cit., pp. 542, l. 36-543, l. 11, ma si veda anche PL ic, coll. 871872; di seguito (ibid., coll. 872-873) abbiamo altre importanti notizie,
soprattutto sull’attività di riedificazione di chiese e monasteri lionesi,
nonché in particolare sul rifacimento del tetto della chiesa di S. Stefano, cui il codice dei Maristi è stato donato: insomma una riedificazione degli edifici così come dei valori intellettuali della Chiesa lionese.
Sull’operato di Leidrat a Lione abbiamo numerose altre notizie. In primo luogo a proposito della traslazione nella città delle ossa del beato
Cipriano e di altri martiri cartaginesi (per l’anno 807 in Ex Adonis archiepiscopi Viennensis chronico cit., p. 320, ll. 19-22: «Tunc tempore delata sunt ossa beati Cypriani a Carthagine cum reliquiis beatorum Scillitanorum martyrum, Sperati sociorumque eius, et posita sunt in
ecclesia beati Ioannis baptistae in civitate Lugdunensi»).
3 Il codice misura mm 260 × 175/180 e 270 × 190 colla rilegatura in
cuoio (contemporanea, con salvaguardia di parte della legatura precedente). L’allestimento del fascicolo con lato carne esterno è un uso
tardoantico, probabilmente espressione di una caratteristica di manifattura lionese. Sugli aspetti di archeologia del manoscritto è in corso
di stampa la comunicazione, al congresso internazionale Regionalism
and Internationalism: Problems of Palaeography and Codicology in the Middle Ages, promosso dal Comité international de paleographie latine e tenutosi a Vienna nei giorni 13-17 settembre 2005, di I. Schäfer, Freising
und Lyon. Bucheimbünde des 9. Jahrhunderts in Wickeltechnik aus Peripherie und Zentrum des Karolingerreichs.
4 Questa struttura codicologica è la stessa che emerge dalla descrizione offerta da Delisle, Notice cit., pp. 831-832. Tuttavia il codice è stato restaurato di recente, probabilmente prima della mostra in
cui fu esposto nel 1965 (cf. supra, p. 124, n. 10), alterando l’originaria
struttura dei fascicoli, attraverso l’inserimento di talloni di pergamena moderna a risarcimento di guasti, che avevano causato la separazione fra due carte appartenenti ad un medesimo bifolio. Questi talloni sono visibili fra le cc. 33-34, 36-37, 50-51, 53-54, 57-58, 62-63, 66-67,
69-70, 74-75, 77-78.
1 Questa formula humilitatis ricorre anche nell’epistolario di Leidrat (PL ic, coll. 873 ed 884): essa è stata probabilmente suggerita dal
fatto che Leidrat fu elevato al soglio vescovile direttamente dalla con-
3. La struttura codicologica
e le caratteristiche paleografiche
Da un punto di vista strutturale il codice dei Maristi è
stato probabilmente organizzato in origine con sedici fascicoli membranacei, con lato carne esterno;3
quasi tutti quaternioni, salvo il terzo (cc. 17-22: un ternione) ed il quinto (cc. 31-40: un quinione), oltre ad
una forte irregolarità nella parte conclusiva, dove si
succedono due binioni (cc. 105-108 e 110-113 rispettivamente) ed un singolo bifolio (cc. 109 e 114, colla 109
che è stata erroneamente collocata fra i due precedenti binioni).4 Ciascun fascicolo è normalmente numerato al centro del margine inferiore dell’ultima
carta al verso, con un numero romano, talora
sopralineato. È importante osservare che esiste una
rispondenza fra struttura materiale e contenutistica. I
primi quattro fascicoli contengono, infatti, il testo
dell’Isagoge e delle Categorie (fino a c. 28r) ed il tutto
è completato dai brevi testi di Boezio ed Alcuino legati, nella tradizione manoscritta, alle Categorie; infine, a rimarcare la separazione fra questa sezione ed il
132
paolo r adiciotti
resto del codice, la c. 30v è stata lasciata in bianco. Una
situazione simile riguarda anche la parte restante del
codice, nella quale la successione dei testi di Apuleio
e Boezio (versione del De interpretatione aristotelico)
si arresta subito dopo la conclusione dell’ultimo fascicolo regolare (un quaternione che finisce a c. 104),
lasciando così spazio per l’aggregazione del blocco
conclusivo di brevi testi di carattere teologico, inseriti negli ultimi tre fascicoli irregolari (due bioni ed un
monione).1
Tuttavia la caratteristica più interessante del codice
è senz’altro determinata dalla scrittura. Abbiamo definito protocarolina tale scrittura e possiamo dirci
senz’altro sostenuti in ciò dalla valutazione datane, in
CLA 417, da Elias Avery Lowe, che così la qualifica:
«Script is an early Caroline minuscule». Eppure per
essere una carolina ha molte peculiarità.2
Credo che il codice sia frutto dell’attività di copia di
un unico scriba, che ha, però, suddiviso il lavoro in numerose sessioni, tanto da far pensare che il manoscritto sia opera di due scribi.3 Una prima parte, costituita da quasi l’intero codice, è stata copiata in
modo più uniforme. Essa termina a c. 106r, dove si
conclude il testo del De interpretatione e con esso la
parte più strettamente filosofica del manoscritto. Da
c. 106v l’opera di copia è più disordinata ed in questa
ultima parte sono raccolti i testi a carattere teologico
che concludono la miscellanea.
Lo scriba esprime tutte le oscillazioni morfologiche
che caratterizzano la carolina nella sua fase più antica
e cioè dagli esordi, nel tardo secolo viii, alla sua canonizzazione, a metà del ix secolo. La a si presenta sia nella forma occhiellata a sinistra, di ascendenza onciale,
che poi diverrà esclusiva della carolina, sia nella forma
di a corsiva chiusa (quale la nostra a italica), sia in quella di a aperta in alto, spesso simile a due c accostate, ma
anche nel disegno tipico della merovingica di Corbie,
simile ad una i più una c accostate. La b e la d si presentano con una lunga asta realizzata separatamente rispetto all’occhiello. I legamenti a ponte connotano i
gruppi consonantici ct ed st. La e, oltre che presentarsi
nella forma comune ad un solo occhiello superiore,
frequentemente è chiusa a destra da un legamento con
lettera seguente. La g, ancora spesso di tipo semionciale, si mostra capace di legare. La m e la n molto di
frequente sono realizzate con tratti inferiori desinenti
verso sinistra e non verticali e paralleli. Soprattutto sono presenti numerosissimi esempi di legamento mi e
ni, con i “agganciata” al di sotto della nasale, secondo
un modo di legare estremamente tipico delle forme
più corsive di minuscola insulare. All’ambiente grafi-
co insulare rinvia anche l’impressione di insieme della
scrittura: talvolta diritta, rigida e “spigolosa”. Si osserva, inoltre, una notevole propensione alle legature,
sempre nelle forme del legare sine virgula et superius,
che caratterizza la tradizione delle scritture corsive antiche ed altomedievali. Sono presenti sporadicamente
due caratteristici legamenti della corsiva nuova: nt con
t “coricata” (specie in fine di verbo) e ti nella forma con
t a 3 rovesciato, seguita da j. La r spesso è coinvolta in
legamenti a destra, specialmente con a, i, o, u. Questa
propensione alla legatura è particolarmente spiccata
nelle ultime carte, dove si osservano anche bei legamenti di più lettere.4
Quale valutazione dare di un simile assetto grafico?
Evidentemente le molte oscillazioni grafiche riflettono correttamente la condizione comune ai codici
protocarolingi, dove sono presenti influenze diverse:
nel contempo un’impostazione grafica più antica,
frutto, probabilmente, di un apprendimento della
scrittura avvenuto prima che si affermasse la carolina
(e dunque prima del 780 circa: epoca cui risalgono i primi esempi certi di protocarolina libraria), ma anche
un’influenza insulare, che era presente, inoltre, con
ogni probabilità, nell’antigrafo che veniva copiato.5
Tutto ciò è ben in tono col panorama culturale che abbiamo ricostruito esaminando la tipologia testuale del
codice. In questo senso è, da un punto di vista storico,
ragionevole credere che Leidrat, giunto a Lione, abbia
potuto far copiare suoi materiali manoscritti in assenza di un modello standard di carolina e, d’altronde, predisponendo un codice che, contenendo testi in larga
misura del tutto profani, non aveva bisogno di particolare cura calligrafica. Proprio quest’ultima considerazione è per noi di speciale valore. Da un lato, infatti,
ciò significa che ormai la carolina, pur non disponendo di un preciso canone, era ormai scrittura di uso comune. Dall’altro lato, invece, è ben chiaro come la
“trascuratezza” del copista fa affiorare il reale bacino
di forme grafiche di varia ascendenza (dalla corsiva
nuova, innanzi tutto, ma anche dalla semionciale, dalle insulari e dalle merovingiche), che è soggiacente all’esperienza grafica carolina e ne costituisce, quale che
voglia essere lo scioglimento del problema delle origini di questa scrittura, l’autentica humus.
Va poi menzionato il fatto che il codice è stato
sottoposto a revisione da un correttore, che, a giudicare dalla somiglianza grafica coll’ex voto iniziale, è
appunto Leidrat.6 Soprattutto il manoscritto è stato
usato, nell’ambiente della scuola lionese, da studiosi
del ix secolo, che lo hanno glossato nei margini: vi si
trovano in particolare numerosi interventi di Floro.7
1 Questa conclusione “irregolare” del codice è, d’altronde, segnalata anche dal cambiamento grafico, di cui si dirà infra. È interessante
osservare che la qualità della pergamena non è buona, o meglio alcune
carte presentano fori ed imperfezioni originarî: segno tangibile della
scarsa rilevanza di questi difetti in un codice concepito innanzi tutto
come vettore di testi.
2 Valga già il giudizio di Delisle, Notice cit., p. 842: «il a une réelle
valeur pour les études paléographiques». L’operato di Leidrat è anche
ricordato in modo cursorio da D. Ganz, Book Production in the Carolingian Empire and the Spread of Caroline Minuscule, in McKitterick
(ed.), The New Cambridge Medieval History cit., pp. 786-808: 788.
3 A due scribi pensa Elias Avery Lowe (CLA 417), che è stato ripreso da molti.
4 Mi sembra da segnalare il legamento di c. 110v, riga 14 (tav. 2):
pectus, nel quale le lettere interne (ectu) sono in legatura. La scrittura
distintiva per i titoli e per incipit/explicit è un’onciale artificiosa, che si
ispira all’onciale imitativa dei codici di pregio di età carolingia.
5 Si veda supra, i. 2. 2.
6 Notevoli i suoi interventi alle cc. 112-113, accompagnati da notae
Tironianae, fra cui, credo, la sua firma.
7 La bibliografia su Floro di Lione è piuttosto ricca, si attende oggi un’edizione dei suoi lavori curata da Louis Holtz negli Autographa
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
Anzi, a riguardo, è forse questo un codice particolarmente utile per rilevare come il complicato sistema di
segni diacritici, usato da Floro per individuare le citazioni da inserire nei suoi florilegi, possa essere nato
proprio dallo sviluppo di alcuni segni ornamentali,
presenti nel codice per separare taluni testi della miscellanea.1
Questo discorso sulla storia del codice nel corso del
ix secolo ci conduce a ricercare un quadro di riferimento per esso: in primo luogo nelle vicende del contesto lionese ed anche nel panorama della tradizione
grafica carolingia. È infatti chiaro che Lione non è un
centro irrilevante2 e le iniziative di Leidrat sono ben
commisurate ad una linea di politica culturale coscientemente attuata dalle élites carolinge.3
ii. Indagine sull ’ origine della carolina
1. Lo spoglio dei cla
1. 1. Osservazioni preliminari
Lo strumento principale per l’indagine sull’origine
della carolina è di certo la raccolta dei CLA. Esaminando con cura l’intera raccolta si può individuare
con certezza una soglia cronologica negli anni attorno alla metà dell’viii secolo. A partire da quel momento in alcuni centri scrittorî di area franca si nota
una particolare tendenza alla sperimentazione grafica, che predilige l’elaborazione di forme di minuscola libraria con presenza di un ridotto numero di legature. In alcuni centri, più in particolare, questa
tendenza sembra influenzata dalla ripresa imitativa
della semionciale tardoantica. Da questo punto di vista è soprattutto Corbie a segnalarsi. Qui, durante il
governo degli abati Leutcario e Mordramno, si può
individuare una consapevole ripresa imitativa della
semionciale, che dà origine ad una scrittura ritenuta
da alcuni una vera e propria forma di carolina: il «tipo
Mordramno», destinato a durare fin oltre l’inizio del
secolo ix, come testimoniano codici prodotti a Corbie, ma probabilmente anche in monasteri viciniori,
medii aevi; per un quadro di insieme si veda L. Holtz, La minuscule
marginale et interlinéaire de Florus de Lyon, in P. Chiesa-L. Pinelli
(edd.), Gli autografi medievali. Problemi paleografici e filologici, Atti del convegno di studio della fondazione Ezio Franceschini (Erice 25 settembre-2 ottobre 1990), Quaderni di cultura mediolatina, 5, Spoleto 1994, pp. 149166 + viii tavv.
1 Questo mi sembra particolarmente valido per il «segno floriano»
per eccellenza di cui parla Holtz, La minuscule marginale cit., pp. 153154 (una menzione del rapporto di Floro colla tradizione di studio fondata da Leidrat, ibid., p. 165). D’altronde anche il caratteristico legamento per us della scrittura di Floro acquista una maggiore profondità
storica, comparandolo cogli esempi di questo legamento presenti nel
codice dei Maristi.
2 Lione è stato un centro che ha continuato a produrre manoscritti in modo continuativo durante la fase di trapasso fra la tarda antichità
e l’alto medioevo; su ciò si veda E. A. Lowe, Codices Lugdunenses
antiquissimi. Le scriptorium de Lyon, la plus ancienne école calligraphique
de France, Documents paléographiques, typographiques, iconographiques de la bibliothèque de la Ville de Lyon, 3-4, Lyon 1924. Quanto
alla produzione lionese esaminata da Elias Avery Lowe, bisogna rinviare anche ai CLA 769-785 (in particolare, per la probabile origine locale, i CLA 769-771, 773-774, 782-783). Per altro i doni di Leidrat istituirono un’abitudine seguita dai suoi successori; abbiamo infatti dediche
simili per Agobardo, Amolo e Remigio (cf. Lindsay, The Lyons Scrip-
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direttamente influenzati dallo sperimentalismo grafico corbeiense. A Corbie, infatti, si utilizzano numerose scritture per la copia di codici: tutte databili fra la
metà dell’viii ed i primi decenni del ix secolo. Vi si
trovano utilizzati, oltre ai tipi di Leutcario e Mordramno, imitativi della semionciale, un’importante
variante della merovingica libraria, detta «scrittura ab
di Corbie», inoltre una scrittura di ispirazione semionciale, ma che impiega anche legature derivate
dalla corsiva nuova tardoantica, detta «scrittura eN di
Corbie», infine forme indifferenziate di minuscola libraria, con pochi legamenti, che si possono qualificare come protocaroline.4
Tuttavia, prima di esaminare più approfonditamente il ruolo di Corbie nel panorama generale dell’indagine sulla nascita della carolina, è necessario soffermarci sulle modalità stesse dello studio in
questione, perché un puro spoglio dei CLA non può,
da solo, risolvere nulla; bisogna, invece, intendere in
qual modo si possano ricavarne dati significativi per
una ricostruzione storica della nascita della carolina.
La prima disamina da compiere credo sia la distinzione qualitativa fra scritture “legate” e non.
Di fatto, fin dalla crisi del passaggio fra tarda antichità ed alto medioevo, cioè, per l’area franca, sulla
quale dovremo concentrarci, il periodo che occupa il
secolo vi, il declino delle scritture librarie tradizionali del mondo tardoantico, ossia l’onciale e la semionciale, aveva posto l’urgenza del come continuare a
produrre libri. Se per la produzione biblica e patristica si poteva ancora contare sull’uso dell’onciale, in
forme sclerotizzate e perciò tanto più rassicuranti per
garantire il continuum della fede, restava da vedere
quali potessero esser le forme grafiche più adatte a
trasmettere la letteratura recenziore e tutto il materiale paraletterario e subletterario che il mondo delle
corti merovinge ed i centri ecclesiastici, specie i monasteri, avevano continuato a produrre. A queste esigenze nel vii secolo e nella prima metà dell’viii si
provvide atteggiando all’uso librario una scrittura di
chiara origine documentaria, qual è la merovingica:
torium, in Palaeographia Latina, iv cit., p. 52; e Ward, The Codex Pagesianus cit., p. 317).
3 Menzione di Leidrat in seno ad una ricostruzione storica generale in G. Brown, Introduction: the Carolingian Renaissance, in R.
McKitterick (ed.), Carolingian Culture: Emulation and Innovation,
Cambridge 1994, pp. 1-51: 32-33; e J. Marenbon, Carolingian Thought,
ibid., pp. 171-192: 175.
4 Lo studio fondamentale per Corbie è D. Ganz, Corbie in the
Carolingian Renaissance, Beihefte der Francia, 20, Sigmaringen 1990.
Per Leutcario (Leodegario o Leodecario o Leodecharius), ibid., pp. 2122, per Mordramno, il cui abbaziato si data con buona approssimazione agli anni 771-783, ibid., pp. 22-24; importanti liste di codici in
scrittura di Leutcario (pp. 130-131), Mordramno (pp. 132-141), ab (pp. 142144), eN (pp. 131-132), protocarolina (pp. 144-151); vi sono poi interessanti
liste riservate a manoscritti di autori classici (pp. 151-155), a codici prodotti altrove, spesso di età tardoantica, presenti a Corbie (attorno al
700 pp. 126-129 e pp. 155-158 per il secolo ix), nonché (p. 158) a manoscritti prodotti a Corbie, ma su committenza esterna (o comunque
presto conservati in biblioteche diverse); fondamentali per farsi
un’idea del panorama culturale di Corbie sono anche le liste di codici
ivi copiati in scritture insulari (pp. 129-130), essendo il monastero una
fondazione della regina inglese Batilde, oltre alla lista (pp. 124-126) di
manoscritti in forme grafiche tradizionali dell’ambiente franco e cioè
la merovingica indifferenziata (detta «tipo di Luxeuil») e le forme di
survival dell’onciale e della semionciale.
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paolo r adiciotti
una scrittura che emergeva dalle pratiche di produzione scritta degli ambienti galloromani, comunque
sia i principali mediatori dell’alfabetismo tardoantico
nella nuova realtà germanica dell’incipiente Francia.1
Questo modo di procedere, che desume le forme grafiche per i libri dall’esperienza di scritture documentarie, è un dato importante e costitutivo di una mentalità grafica caratteristica di un ambiente ed è
presente non solo nell’area franca propriamente detta, ma anche nelle zone limitrofe alamannica e retica,
dove le tipologie di scritture di impiego documentario e librario sono, soprattutto nella prima metà dell’viii secolo, molto vicine.2
La derivazione di forme grafiche da una tradizione
corsiva implica la presenza di legature: è questo l’elemento tipico dello scrivere corsivo. Sappiamo bene
che la carolina canonizzata della seconda metà del secolo ix non ha quasi più legature (se non alcuni interessanti “fossili” grafici, quali ct ed st, oltre ad alcuni
legamenti a destra di r destinati ad una successiva eliminazione). Alla luce di ciò l’elemento critico più importante credo sia la distinzione fra codici scritti in
forme che richiedono ancora più volte la presenza di
legamenti e quelli invece dove la legatura è una presenza marginale e cursoria, più un relitto grafico di
un’eventuale precedente educazione dello scriba allo
scrivere corsivo, che non una scelta consapevole.
Da questo punto di vista ho selezionato 370 item dei
CLA, che risalissero ad un periodo che procede dalla
metà dell’viii secolo ai primi anni del ix. La selezione
ha compreso tutti quei codici che presentassero elementi di tipo protocarolino, che cioè, essendo originari di area franca, si distinguessero con certezza da
un lato dalle scritture librarie merovingiche e dall’altro dalla perdurante tradizione dell’onciale. Di questi,
186 presentano un uso cospicuo di legature. Il che significa che all’origine del processo di elaborazione
della carolina non esisteva ancora una netta scelta in
favore dell’abbondono del sistema delle legature, che
la tradizione grafica tardoantica aveva elaborato. Invece la carolina “matura” avrà, come indubbio elemento qualificante, proprio la rinuncia sostanziale a
quel sistema. Dare un’interpretazione storica a questo dato di fatto è fondamentale, in ragione delle implicazioni che ha nel delineare i processi di definizione della nuova scrittura libraria, caratteristica del
mondo carolingio. Eppure, nonostante una metà circa dei codici in esame presenti un rilevante uso di legature, ciò che è realmente significativo è piuttosto
che l’altra metà non ne presenti che un esiguo numero. Ciò rileva una vera inversione di tendenza, per
quanto attiene alle scelte che informavano il panorama della minuscola libraria dell’area franca.
Perché rinunciare al sistema delle legature? Si può
subito abbozzare qualche risposta. In primo luogo si
deve osservare che la produzione di libri nei centri
franchi è significativamente maggiore nella seconda
metà dell’viii secolo che non nella precedente storia
della Francia merovingia.3
Il processo di insegnamento di una scrittura ricca di
legature, come la merovingica libraria, significava disporre di tempi di educazione degli scribi piuttosto
lunghi. Le legature venivano, infatti, realizzate secondo il processo del legare sine virgula et superius, cioè attraverso l’immedesimazione dei tratti della lettera che
precede in quelli della lettera che segue, passando di
norma nella parte superiore del continuum grafico.
Ciò provocava un’alterazione del disegno di base delle lettere coinvolte nella legatura e conseguentemente nella pratica didattica bisognava prima insegnare il
disegno di base di ciascuna lettera, poi le diverse forme che le lettere assumevano nelle legature a seconda
delle lettere che precedevano o seguivano. Non tutte
le legature teoricamente realizzabili erano poi in
effetti eseguite e la selezione dei legamenti che venivano insegnati esprimeva la sensibilità estetica del
maestro calligrafo e definiva la tipizzazione della
merovingica libraria cui lo scriba veniva educato. A
riguardo sono piuttosto noti i tipi di Luxeuil, di Laon
e di Corbie, oltre a varianti locali mal tipizzate proprie
delle aree meridionali e sudoccidentali francesi.4
Questa situazione confliggeva col bisogno, intensamente sentito ai prodromi dell’età carolingia, di un
rinnovamento culturale, che significava anche e soprattutto allestire un cospicuo numero di nuovi manoscritti. Avere a disposizione una scrittura di facile
insegnamento, priva cioè di legature, significava abbreviare i tempi di educazione degli scribi ed avere così più rapidamente nuovi libri. Tuttavia una spiegazione puramente funzionalistica della rinuncia al
sistema di legature tardoantico non può esser sufficiente. Infatti, se scrivere senza legare è più semplice
da apprendere, è anche, poi, più lento da realizzare. E
comunque la scrittura è sempre un forte veicolo estetico, simbolico ed ideologico: devono, perciò, esser
intervenute altre motivazioni ancora e probabilmente più forti del bisogno di educare rapidamente una
nuova generazione di scribi. La tendenza che è, dunque, in atto non può certo ridursi alla convenienza di
disporre di una tecnica grafica più “economica” nell’insegnamento.
Altre cause sono intervenute e prima di cercare una
risposta bisogna guardare meglio ad un problema
geografico, che fin qui non abbiamo enunciato, ma
che è fondamentale. Il fatto è che questo processo di
ricerca grafica di una minuscola libraria priva di lega-
1 A questo mirava in primo luogo la mia ricostruzione in Luigi
Schiaparelli ed alcune osservazioni in margine al problema della «nascita»
della carolina, «Scrittura e civiltà» 23 (1999), pp. 395-406.
2 Valga per questo la ricostruzione già di G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina. Dalle lezioni di paleografia (Bologna, a. a.
1953-54), Bologna 1997, pp. 98-100.
3 Naturalmente questa considerazione confligge – ed è ovvio – col
fatto che disponiamo solo di una parte dei codici scritti in area franca fra
età merovingia e carolingia. Tuttavia l’incrocio fra la realtà documentale – rappresentata dai manoscritti tuttora conservati – e le numerose
fonti letterarie di età carolingia, che attestano la produzione di codici,
dà una ragionevole certezza: si veda in proposito Ganz, Book Production
cit., p. 786, che stima in circa 500 i codici di età merovingica ed in circa
7000 quelli prodotti in età carolingia fino alla fine del ix secolo.
4 Cencetti, Lineamenti cit., sp. pp. 93-96, ma si veda tutta la trattazione delle merovingiche alle pp. 88-100.
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
ture è tipico, durante la seconda metà dell’viii secolo,
dell’area franca, ma non in modo del tutto omogeneo. Alcuni centri scrittorî ne esprimono l’esigenza
più di altri e le modalità stesse, colle quali ciò avviene, danno indicazioni importanti per il tema della nostra indagine.
1. 2. L’articolazione geografica
L’area più rappresentata fra gli item (sono 181) dei CLA
esaminati è quella orientale, ampiamente transrenana, del regno dei Franchi, ovvero quella più profondamente germanizzata ed a sua volta distinguibile in
diverse zone più o meno significative per il fenomeno
di origine della carolina.
In primo luogo bisogna considerare l’area bavarese
in senso lato, ossia il centro scrittorio di Frisinga (CLA
168, 1228, 1251, 1253-1255, 1257, 1259-1263, 1265, 1267, 12691271, 1273, 1275, 1278, 1280, 1284-1285, 1314, 1329, 1737,
1794-1795), da cui, si è detto (supra, p. 128, n. 8), proviene lo stesso Leidrat, nonché i centri di Ratisbona (CLA
1287-1288, 1289 a-b, 1293, 1297, 1299-1300, 1304, 1307, 1338,
1499, 1563-1565, 1805, 1859) e Benediktbeuern (CLA 1239,
1241-1243, 1246, 1277). Un’area marginale della zona bavara è rappresentata dall’Austria ed in particolare da
Salisburgo (CLA 1146, 1180, 1247, 1294, 1313, 1413, 1445,
1448, 1460, 1462-1465, 1468, 1475-1476, 1478-1479, 14891490, 1494, 1497, 1501, 1508-1510, 1517, 1594, 1842), che, come si è detto a proposito di Arnone (supra, p. 129, n. 1),
rappresenta un centro strettamente legato alla rinascita intellettuale carolingia. In area prossima sono
importanti i centri scrittorî dell’area lacustre di Mondsee (CLA 795, 1318, 1487, 1513), Reichenau (CLA 89, 108,
222, 243, 749, 1079, 1480) e Tegernsee (CLA 1216, 1252,
1315-1316, 1321-1322). In numerosi casi non è possibile
definire con precisione il centro di copia dei manoscritti, tuttavia i CLA forniscono indizi probanti per
racchiudere in un’area piuttosto circoscritta la loro
origine. Così ancora ad area bavarese e più propriamente alla sua porzione meridionale vengono attribuiti i CLA 1244 e 1841; invece più latamente alla Germania meridionale sono ascritti i CLA 1240, 1323, 1326,
1344-1345, 1458, 1593, 1845 ed alla Germania sudorientale i CLA 1340, 1447, 1461, 1516, 1799-1800.1
Un’altra zona piuttosto rappresentata è quella alsaziana, con il centro scrittorio di Weissenburg (CLA
1051, 1384, 1389-1390, 1393, 1502, 1586). Ad area alamannica possono poi essere attribuiti i CLA 1482-1483 e
1871; ad area retica gli item 870 ed 884 (c’è anche la possibilità di individuare in S. Gallo il luogo di origine del
CLA 926; comunque in Svizzera è poi localizzato il
1 Su questa zona tedesca si veda Bischoff, Die südostdeutschen
Schreibschulen und Bibliotheken in der Karolingerzeit, i, Die bayrischen Diözesen cit. ed il suo completamento: Id., ii, Die vorwiegend österreichischen Diözesen, Wiesbaden 1980.
2 Per la Svizzera si può contare sull’imponente opera di A. Bruckner, Scriptoria medii aevi Helvetica, Denkmäler schweizerischer
Schreibkunst des Mittelalters, i-xiv, Genf 1935-1978.
3 In questa fase manca ancora l’importante produzione in carolina di Fulda, su cui H. Spilling, Die frühe Phase karolingischer Minuskel
in Fulda, in G. Schrimpf (hrsg.), Kloster Fulda in der Welt der Karolinger
und Ottonen, Fuldaer Studien, 7, Frankfurt am Main 1996, pp. 249-284.
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CLA 1815);2 mentre genericamente ad area tedesca sudoccidentale vanno riferiti i CLA 1025 e 1812. A Strasburgo sono localizzati i CLA 835 e 1477, a Metz l’861.
Anche l’area renana è piuttosto ben rappresentata,
coi CLA 533, 1071, 1149, 1209, 1592 (un codice è anche
più precisamente attribuito alla regione della Saar: il
CLA 172), mentre nell’antico centro romano di Colonia sono localizzati i CLA 1147, 1150-1151, 1154, 1158.
Fra i singoli centri scrittorî3 dotati di maggiore rilevanza bisogna considerare innanzi tutto l’abbazia di
Lorsch4 (CLA 82, 88, 94, 98, 1080, 1173, 1406, 1505-1506,
1744, 1749, 1769-1776) ed in subordine i centri di Murbach (CLA 242, 1106, 1193, 1290, 1296, 1442) e Würzburg5 (CLA 1402 e 1440), ancora molto legati alla tradizione dei loro fondatori insulari, nonché Werden
(CLA 1066 e 1067 b). Nell’estrema area nordoccidentale, l’attuale Olanda, sono infine localizzabili i CLA 537,
644 a-b, 661.
Sicuramente ad area tedesca, senza però che si possa definire precisamente l’origine, sono attribuiti i
CLA 85, 1027 b, 1309, 1488. Un’illustrazione a parte deve invece esser dedicata alla produzione scrittoria direttamente legata al cenacolo intellettuale della corte
di Carlo Magno. In questo caso è pur vero che Aquisgrana (come per la parte in carolina del CLA 704) può
essere considerata il luogo di origine; in taluni casi,
tuttavia, la forte mobilità della corte franca pone problemi a sé stanti per l’analisi paleografica, in quanto
l’ambiente di corte è molto meno influenzato dalle
tradizioni grafiche pregresse, sempre presenti nei
centri scrittori tedeschi, sicché è preferibile evitare di
impegnarsi nella difficile opera di localizzazione del
gruppo dei manoscritti di corte.
Nell’area al di qua del Reno,6 e cioè nella parte occidentale del regno dei Franchi, la presenza di codici
in protocarolina è più contenuta, ma comunque assai
consistente (si tratta di 144 item). Anche in quest’area,
tuttavia, sussistono profonde differenze: ad essere più
rappresentati sono i centri scrittori di area renana e
settentrionale. In primo luogo, come si è già detto,
Corbie rappresenta un luogo privilegiato: vi sono localizzati i CLA 86, 236, 611-613, 631, 637-638, 641, 643, 647,
655-657, 663, 672, 707, 709-712, 743, 1067 a, 1301, 1545, 1573,
1580, 1601-1602, 1607, 1609, 1611, 1618-1619, 1624-1625,
1752; a Corbie è strettamente legata Amiens (CLA 131,
1030, 1579). Forse solo l’abbazia di Chelles, dove è individuabile l’origine dei CLA 238, 529, 639, 674, 1152,
1170, 1194, 1331, 1352, risulta comparabile (a parte
Tours, che va considerata a sé). Per il resto si possono
annoverare con ragionevole certezza i centri di Parigi (CLA 1581 e 1610), con Saint Denis7 (CLA 253, 665,
4 B. Bischoff, Die Abtei Lorsch im Spiegel ihrer Handschriften, ii erweiterte Auflage, Lorsch 1989.
5 B. Bischoff-J. Hofmann, Libri Sancti Kyliani – Die würzburger
Schreibschule und die Dombibliothek im 8. und 9. Jahrhundert, Quellen und
Forschungen zur Geschichte des Bistums und Hochstifts Würzburg,
6, Würzburg 1952.
6 Tuttavia ho preferito inserire nella zona “tedesca” anche Metz e
Strasburgo, come, per altro, l’area alsaziana.
7 Su cui J. Vezin, Les manuscrits copiés à St. Denis en France pendant
l’époque carolingienne, «Paris et Ile-de-France» 32 (1981), pp. 273-287.
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paolo r adiciotti
668, 824) ed inoltre Fleury (CLA 568, 796, 1302), Flavigny (CLA 720), Meaux (CLA 739), ma anche Orléans
(CLA 576, 768) e Reims (CLA 1572 a, 1576), mentre è ancora legato alla tradizione grafica merovingica Laon
(e tuttavia si vedano i CLA 1182 e 1192).1 Nell’area romanza settentrionale, in territorio belga, è soprattutto importante il centro scrittorio di Saint Amand,
presso Tournai, dove sono localizzati i CLA 544, 713,
758, 839, 874, 1237, 1354, 1486, 1496, 1583. Mentre nell’estremo nord francese bisogna ricordare almeno la
località di Cambrai (CLA 741).
Più genericamente ad area francese nordorientale
sono ascritti i CLA 96, 531, 763-764, 1132, 1232, 1575, 1588,
1743, 1851; mentre nella Francia settentrionale sono localizzati i CLA 538, 648-649, 660, 865, 1161, 1543, 1765 ed
in quella orientale i CLA 761, 941 e 1320.
A parte vanno considerati i codici prodotti a Tours
(CLA 109, 297 b, 525, 528, 530, 536, 683, 837, 854, 904,
1072, 1378, 1571, 1584, 1668), che, oltre ad essere guidata dall’anziano Alcuino, è anche un luogo diverso da
altri per una ragione specifica: vi si copiano codici soprattutto per l’esportazione. È stato dimostrato, infatti, che la produzione di codici biblici e patristici è a
Tours del tutto sovrabbondante rispetto alle necessità locali e mira, invece, a soddisfare le esigenze di diffusione, in primo luogo, della versione delle Sacre
Scritture grammaticalmente corretta da Alcuino, ma
anche, in più ridotta misura, il culto di s. Martino, attraverso le raccolte dette “martinelli”.2 In questo senso le caratteristiche grafiche della protocarolina di
Tours sono particolarmente scevre da elementi stilistici “locali”, perché si rivolgono ad un pubblico di lettori che non è, al momento della produzione del manoscritto, ben individuabile.
Anche altre aree sono riconoscibili in Francia: in
primo luogo l’antica Burgundia (CLA 555, 702, 718, 769,
1063, 1639, 1649), ma anche in particolare alcuni codici sono localizzati a Lione (CLA 721, 774 c). Sia pure in
modo marginale anche la zona della Loira (CLA 857 e
1199), l’occidente (CLA 1552) ed il meridione francese
(CLA 156, 1295, 1308) producono codici in protocarolina. Infine, più latamente alla Francia, senza che si possa definire meglio la localizzazione, vanno riferiti i
CLA 10, 102, 112, 981, 1049, 1056, 1310-1311, 1474, 1542, 1572
b, 1604, 1748, 1751, 1814, 1818.
Forse il contributo offerto dall’Italia settentrionale
alla fase protocarolina è più rilevante di quello della
Francia meridionale. Dopo la conquista, da parte di
Carlo, del regnum dei Longobardi, nel 774, almeno un
centro di cultura scritta è associato, presto, alla fase di
sperimentazione grafica carolina ed è Verona, in cui
si localizzano numerosi codici in protocarolina (CLA
1 Per la diffusione della carolina a Laon si veda J. J. Contreni, The
Cathedral School of Laon from 850 to 930. Its Manuscripts and Masters,
Münchener Beiträge zur Mediävistik und Renaissance-Forschung, 29,
München 1978.
2 In proposito David Ganz osserva che nel secolo ix a Tours vengono copiati 50 Bibbie in Pandette (ossia con tutto il testo racchiuso in
un codice), 25 Vangeli (nella forma del codice unico o Tetravangelo) e
18 «martinelli» (Id., The Study of Caroline Minuscule 1953-2004, «Archiv
für Diplomatik, Schriftgeschichte, Siegel- und Wappenkunde» 50, 2004
= W. Koch-Th. Kölzer, hrsg., Tagung des Comité International de Pa-
601, 880, 907, 945, 951, 1057-1058, 1065, 1074, 1076, 1119,
1281-1282, 1305, 1359, 1784): una testimonianza sicura,
questa, dell’integrazione della città in un asse culturale che conduce verso il Tirolo e la Baviera, ossia in
direzione di una zona fortemente impegnata nel rinnovamento grafico carolingio. Comunque sia anche
in alcune altre località italiane è individuabile l’origine di codici in protocarolina: innanzi tutto ad Aosta
(CLA 1248), che è tuttavia, sebbene al di qua delle Alpi, un’area piuttosto francese che italiana, ma anche a
Ravenna (CLA 414, 840) e nel monastero di S. Salvatore sul monte Amiata (CLA 65). Tuttavia un gruppo
non irrilevante di codici viene ascritto, senza una più
precisa localizzazione, all’Italia settentrionale (CLA
1603) e centrale (CLA 408, 1148), oppure all’area italiana genericamente (CLA 24 b, 1230, 1759).3
Resta a questo punto da segnalare il nucleo di manoscritti non precisamente localizzabili, che coincide
quasi perfettamente coi codici attribuiti allo scriptorium della corte di Carlo Magno; sono i CLA 517, 681,
1044, 1366, 1385, 1504, 1553, 1671.4 Il dato interessante è
che quasi tutti questi manoscritti presentano scarse
tracce di legature, così come anche quelli scritti a
Tours per essere destinati all’esportazione. Questo è
un elemento di giudizio molto rilevante. Probabilmente proprio nelle legature, nella loro scelta e nel loro uso, si individua il gusto grafico locale e dunque per
codici destinati a trasmettere un messaggio estetico
“ecumenico”, destinato cioè all’eterogeneo ambiente
culturale della corte oppure ad uno qualsiasi dei centri ecclesiastici fruitori del testo biblico corretto da Alcuino, era preferibile scegliere una scrittura libraria
priva di legature stilisticamente caratterizzanti. Questa constatazione non spiega tuttavia in modo completo il perché si scelga di prediligere una scrittura non
legata, come veicolo di significati grafico-ideologici,
che ho appunto definito “ecumenici”. Per riuscire a
dare una risposta più completa a riguardo, bisogna rivolgersi ai modelli culturali dominanti, che veicolavano nel mondo carolingio l’idea di una scrittura adatta
alla produzione libraria ed in specie a quella più significativa e cioè ai codici delle Sacre Scritture.
2. 1. La «carolina» prima della carolina
La minuscola carolina non è la più antica scrittura
minuscola latina, né la più antica che sia stata impiegata per copiare libri latini. Al contrario nel mondo
latino l’adozione della minuscola è un fenomeno tardoantico, che già al principio del iv secolo ha visto
l’adozione, come scrittura documentaria degli uffici
della burocrazia romana, di una scrittura minuscola
léographie Latine. xiv e colloque. Enghien-les-Bains 19-20 septembre 2003,
Köln 2004, pp. 205-577, sp. pp. 387-398: 391).
3 In un caso si può escludere l’Italia, ma non viene chiarita esattamente l’area non italiana cui riferire l’origine del manoscritto (CLA 52).
4 Sono invece di difficile localizzazione i seguenti numeri dei CLA:
143, 786, 788, 790, 1256, 1266, 1466, 1495, 1544, 1562, 1793, 1796. Alla questione dello scriptorium di corte è legata quella, ancora più difficile, della biblioteca di Carlo Magno: su di essa è importante la recente ricostruzione di Bullough, Charlemagne’s Court Library cit.
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
137
canonizzata, ricchissima di legature, comunemente
definita dai paleografi italiani “corsiva nuova”. Questa scrittura, come è normale che accada, è testimoniata anche per la produzione di scritturazioni della
vita quotidiana, come epistole, annotazioni, liste,
conti, ma anche per redigere o copiare testi subletterari o paraletterari, appartenenti alla cultura scritta di
coloro i quali avessero avuto un insegnamento grafico imperniato sull’apprendimento della corsiva nuova. In tale senso abbiamo testimonianza di glossari,
preghiere, esercitazioni retoriche, prosastiche o poetiche, brani di letteratura di intrattenimento e svago,
profana o religiosa, che sono appunto scritti in corsiva nuova ovvero in una sua variante più posata e meno ricca di legature, che è comunemente chiamata
«minuscola primitiva».
Proprio la diffusa presenza di forme minuscole nella scrittura dei documenti, ma anche nella scrittura
usuale, è alla base della scelta, operata durante il iv secolo, di canonizzare una particolare scrittura libraria,
la cui struttura grafica di base fu offerta dalla tradizionale libraria latina del mondo antico, la capitale,
con l’inserimento, tuttavia, in essa di alcune forme di
lettere tipicamente minuscole: nasce così l’onciale.
Questa scrittura, comunemente percepita dagli studiosi di manoscritti tardoantichi ed altomedievali come una scrittura “cristiana” per eccellenza, giacché
utilizzata, fra v e x secolo, per copiare un gran numero di codici sacri e liturgici, nonché i più calligrafici
codici patristici, è un’espressione grafica caratteristica della cultura tardoantica, la quale inserisce forti
elementi di innovazione in un contesto che tuttavia si
vuole ancora tipicamente “antico”.
Sul finire del v secolo, quando la disgregazione della pars Occidentis dell’impero romano è già una realtà,
si affaccia, tra i pochi libri tardoantichi pervenutici,
una nuova scrittura, detta «semionciale», che offre
una sorta di adattamento all’uso librario della minuscola, rinunciando sostanzialmente al sistema delle
legature ed offrendoci dunque la più antica scrittura
minuscola libraria del mondo latino. Questa scrittura
è utilizzata soprattutto per la copia di opere letterarie
a contenuto didascalico o polemico, tipiche della letteratura di ambiente cristiano tardoantico. L’epoca in
cui è nata fa della semionciale una scrittura “incompleta”, che non dispone di un canone grafico omogeneamente rispettato, proprio perché i contatti fra i
grandi centri di ideazione culturale e grafica del mondo latino si stanno rarefacendo e le élites stanno diversificandosi e mutando il proprio atteggiamento intellettuale.
L’accentuarsi delle differenze tra le diverse aree del
mondo di cultura scritta latina fa sì che, dal principio
del vii secolo almeno, non si possa più seguire un’evoluzione lineare dell’uso della minuscola libraria nei
manoscritti, ma si osservi da un lato l’abbandono della semionciale, dall’altro la ricerca di soluzioni grafiche diverse per rispondere alle esigenze di una produzione di libri non particolarmente calligrafici e
legati alla realtà locale dei differenti centri culturali
più importanti, nel periodo critico, spesso ritenuto il
più “buio” del medioevo, che va dal vii alla metà dell’viii secolo. È così che nascono le diverse minuscole
librarie “nazionali”: le merovingiche, le visigotiche, le
insulari, l’alamannica e la retica, oltre alle diverse e
difficilmente elencabili minuscole altomedievali italiane (ad esclusione della beneventana, la cui origine
è sicuramente testimoniata non anteriormente alla
metà dell’viii secolo).
Questo inquadramento storico-grafico è strettamente necessario per cercare di capire il senso di uno
dei primi e fondamentali problemi che si pongono per
l’interpretazione dell’origine della carolina: il suo
rapporto colle scritture tardoromane e con quelle del
particolarismo grafico altomedievale. Perciò il primo
quesito da affrontare è proprio questo: si può chiamare, sia pure ante litteram, col nome di «carolina» la
scrittura minuscola libraria tardoromana oppure una
delle sue forme? Ovvero si può credere che, accanto
alla semionciale, sia esistita almeno in nuce una scrittura minuscola primitiva di cui la carolina è imitazione oppure dalla quale la carolina direttamente discende?
1 G. Cencetti, Postilla nuova a un problema paleografico vecchio:
l’origine della minuscola «carolina», «Nova historia» N. S. 7/i-ii (1955),
pp. 9-32, ried. in G. Nicolaj (ed.), G. C., Scritti di paleografia, Dietikon
Zürich 1993, pp. 109-134.
2 P. Supino Martini, Aspetti della cultura grafica a Roma fra Gregorio Magno e Gregorio VII, in Roma nell’alto medioevo, Settimane di studio
del centro italiano di studi sull’alto medioevo. Spoleto 27 aprile-1º maggio
2000, xlviii/2, Spoleto 2001, pp. 921-968.
3 P. Supino Martini, Società e cultura scritta, in A. Vauchez (ed.),
Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma medievale, Storia e società,
Roma-Bari 2001, pp. 241-265: 246.
2. 2. Un’ipotesi storiografica
e la sua realtà documentale
L’ipotesi che la carolina sia una scrittura imitativa della minuscola latina utilizzata nei manoscritti di età
tardoantica è stata formulata da Giorgio Cencetti1 e
ripresa con molta decisione da Paola Supino Martini
di recente.2 Secondo questa ricostruzione: «Fra i tanti fenomeni d’imitazione dell’antica civiltà romana
promossi dall’elitario movimento culturale verificatosi nel territorio franco a partire dalla seconda metà
del secolo viii rientra l’elaborazione di una nuova
scrittura libraria, la cosiddetta minuscola carolina:
una ripresa dei modelli – o di quelli che erano ritenuti i modelli – della minuscola antica. Questa scrittura
che, resuscitata in terra franca, avrebbe ben presto abbattuto nei territori dell’impero le barriere di un avviato separatismo grafico, vantava dunque un’origine
romana».3 Come è ben chiaro da queste parole in tale
ipotesi si bilanciano due tendenze opposte della critica storica: da un lato si pone in rilievo che la carolina
è «una nuova scrittura libraria», dunque si autorizza il
lettore a pensare alla carolina come ad una novità grafica propria di età medievale; dall’altro lato si parla
con chiarezza della carolina come di una scrittura imitativa, cioè ripresa da modelli grafici antichi ed ormai
138
paolo r adiciotti
desueti, «resuscitata in terra franca» e perciò restituita alla vita da un atto di pedissequa imitazione rispetto ad un modello, romano, riconosciuto autorevole.
Siamo dunque di fronte ad uno di quegli ossimori, la
nova antiquitas ovvero l’antiqua novitas, che possono
piacere come formule efficaci a descrivere fenomeni
storici molto complessi, ma che sono, pur tuttavia, un
paradosso storico da interpretare e da definire in
proporzioni comprensibili sia per gli studiosi, sia di
fronte ad un lettore “ingenuo”. Per verificare questa
ricostruzione l’unica via percorribile è quella di esaminare i CLA e di individuare, in primo luogo, quali
siano i manoscritti testimoni della minuscola latina
tardoantica, oggetto di tale imitazione; non però genericamente i codici scritti in semionciale, perché la
carolina non è la semionciale e basterebbe a dimostrarlo proprio il fatto che in molti codici di Tours in
età carolingia viene realizzata una climax grafica discendente, che pone in un ordine gerarchico, ad
esempio nelle sezioni incipitarie della Bibbia, la capitale, l’onciale e la semionciale come scritture distintive ed invece la carolina come scrittura testuale. Ciò significa che semionciale e carolina sono ritenute
diverse e che la carolina non è un’imitazione della semionciale.
Se si effettua uno spoglio dei CLA si individuano numerosi esempi di minuscola latina tardoantica che
non sono qualificati come semionciale o che presentano questa denominazione accompagnata da ulteriori e talora complesse definizioni. Un esempio particolarmente antico è il CLA 208, che conserva la
celebre epitome frammentaria delle decadi quarta-sesta dell’opera di Livio. Questo rotolo papiraceo è datato dal Lowe dapprima al periodo a cavallo fra iii e
iv secolo (nella prima edizione di CLA ii) e poi alla prima metà del iii secolo, ossia, a rigore, fuori dall’orizzonte cronologico della tarda antichità, ma riveste comunque un ruolo essenziale («a milestone in Latin
palaeography») per la definizione del processo di
ideazione della minuscola libraria latina, poiché vi figurano indubbiamente le lettere b, d, m, r col medesimo disegno che avranno nella semionciale. Tuttavia,
per definire da un punto di vista terminologico la
scrittura di questa epitome Lowe parla di «mixed halfuncial» e poi (Supplement, p. 8) di «early or mixed halfuncial», rivelando il suo imbarazzo, giacché si trova di
fronte a forme che ricorreranno nella semionciale,
ma riscontra anche il disegno di a, e, g, s onciali. Ecco,
dunque, il perché dell’idea di qualificare questa scrittura come una semionciale primitiva o “mista”: quest’ultimo aggettivo da intendersi in relazione non certo ad un’onciale già canonizzata, ma in relazione a ciò
che questa scrittura diverrà nel secolo iv.1
Di esempi di semionciale primitiva (early half-uncial) si riscontra una cospicua presenza nei CLA: si
tratta dei numeri 224 (Cicerone, Catilinarie latinogreche), 225 (frammento di interesse giuridico), 226 (Cicerone, Verrine con commento greco), 227 (Virgilio,
Eneide latinogreca), 246 (Sallustio, De coniuratione Catilinae), 248 (frammento di diritto antegiustinianeo),
286 (Cicerone, Verrine), 287 (Virgilio, Eneide), 288 (Sallustio, De coniuratione Catilinae), 291 (testo grammaticale grecolatino: Hermeneumata Pseudodositheana),
699 (glossario latinogreco), 1033 (frammento di interesse giuridico), 1039 (frammento di diritto antegiustinianeo), 1040 (frammento di interesse giuridico),
1041 (frammento di contenuto incerto), 1042 (frammento di interesse giuridico), 1519 (Cicerone, Catilinarie latinogreche), 1526 (frammento di contenuto incerto), 1527 (frammento di diritto antegiustinianeo),
1532 (frammento di contenuto incerto), 1537 (Terenzio, Andria), 1577 (frammento di diritto antegiustinianeo), 1648 (frammento di interesse giuridico con
termini greci), 1650 + 1782 (codice miscellaneo eterogeneo con testi greci e latini fra i quali le Catilinarie,
un poema su Alcesti, componimenti di contenuto cristiano), 1657 (frammento di interesse giuridico), 1683
(glossario grecolatino accompagnato da altri materiali di interesse grammaticale), 1708 (Virgilio, Georgiche), 1712 (Sallustio, De bello Iugurthino), 1717 (Terenzio,
Andria), 1720 (testo liturgico cristiano tradotto dal
greco), 1722 (frammento di interesse giuridico), 1756
(frammento di diritto antegiustinianeo), 1783 (frammento di interesse giuridico con termini greci), 1789
(frammento di interesse giuridico con termini greci),
1790 (frammento di contenuto incerto), 1802 (frammento di interesse giuridico), 1866 (Virgilio, Eneide).
Si tratta in ogni caso di libri provenienti da scavi archeologici o da rinvenimenti casuali avvenuti nella
pars Orientis dell’impero romano ed in numerosi casi
si tratta di manoscritti bilingui.2 Questi materiali attestano una facies culturale particolare: la presenza di
un interesse da parte della scuola e delle élites dei Romani d’Oriente, ossia di Greci o di orientali ellenizzati, per il latino come lingua del diritto e della burocrazia civile e militare; per accedere alla conoscenza
del latino è necessario praticare anche la grande letteratura poetica e prosastica ed in essa rintracciare le
fondamenta dell’idea culturale romana.3
Questi libri latini di Oriente scritti in minuscola, fra
iv e vi secolo, mostrano un’ampia serie di grecismi
grafici: vi si ritrovano tipiche opposizioni di lettere
strette e larghe, che spesso ricorrono negli stili delle
scritture greche; hanno un gusto, molto evidente nei
testi giuridici, per un tracciato angoloso specie di alcune lettere, così come si ritrova nelle scritture rigide
1 D’altronde il rotolo dell’Epitome non nasce dal nulla, ma presenta una fase più evoluta di una tradizione grafica attestata nel periodo fra ii e iii secolo dal volumen di contenuto grammaticale CLA 212,
che, sebbene ancora identificabile come espressione della capitale libraria, offre disegni della a e della d, che lasciano chiaramente presagire le trasformazioni proprie dell’onciale.
2 Per tutto ciò si vedano i miei articoli Manoscritti digrafici grecolatini e latinogreci nell’antichità, «PLup» 6 (1997) = M. Capasso (ed.), Ricer-
che di papirologia letteraria e documentaria, Galatina 1998, pp. 107-146 e
Manoscritti digrafici grecolatini e latinogreci nella tarda antichità, «PLup»
7 (1998) = M. Capasso (ed.), Da Ercolano all’Egitto. Ricerche varie di papirologia, Galatina 1999, pp. 153-185; in questi lavori affronto anche il problema della genesi di tipi particolari di onciale e cioè la bd e la BR.
3 Per maggiori dettagli cf. B. Rochette, Le latin dans le monde grec:
recherches sur la diffusion de la langue et des lettres latines dans les provinces
de l’Empire romain, Collection Latomus, 233, Bruxelles 1997.
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
139
ed angolose di molti papiri greci coevi; presentano
una significativa tendenza a preferire la variatio grafica delle forme di una stessa lettera (ad esempio la o
può essere puntiforme oppure piuttosto larga in una
stessa breve pericope di testo), opponendo talora forme più antiche e tradizionali a forme più recenti e
schiettamente minuscole (ad esempio la N con tratto
obliquo sottile e la n). Per non dire poi di forme di lettere greche che si insediano nel contesto latino, come
nel caso della a, che figura nella forma dell’alpha sia a
tracciato continuo (con conseguente bouclage du tracé), sia nella forma posata occhiellata a sinistra, cioè
nella forma della a onciale. Proprio caratteristiche di
questo genere hanno fatto pensare che sia esistita una
scrittura minuscola latina di età romana che presentasse forti analogie morfologiche colla carolina; per
dirla colle parole di Cencetti: «Sempre restando nel
campo della morfologia essenziale della scrittura, la
carolina mostra analogie ben più profonde con certe
minuscole antiche o addirittura semionciali corsiveggianti».1
Eppure è molto difficile credere che queste testimonianze rappresentino la base per una vera e propria imitazione. Se si compie una disamina serena dei
numerosi testimoni che ho elencato, le differenze fra
i diversi manoscritti sono molto forti: si può imitare
una scrittura dotata di un canone o comunque sottoposta ad una qualche regolarizzazione, ma non è
certo questo il caso della proteiforme early or mixed
half-uncial. In molti casi si ha l’impressione che la somiglianza che lega fra loro questi manoscritti non sia
tanto quella colla carolina, ma colle molteplici testimonianze documentarie (e persino epigrafiche) latine che sono originarie dell’Oriente dell’impero. Insomma si tratta di esempi di scritture latine utilizzate
per copiare libri da parte di scriventi e destinate a lettori che comunemente non leggevano altri libri latini
se non questi e che non avevano realmente idea di
quali potessero essere i gusti grafici propri della pars
Occidentis dell’impero e delle aree a prevalenza culturale latina e non greca. Eppure le argomentazioni di
Giorgio Cencetti indicano anche un diverso indirizzo
di indagine, rivolto non alle scritture dei codici latini
di Oriente, ma ad alcuni più rari esempi di codici cristiani in semionciale; in primo luogo il CLA 680: ben
trentadue frammenti pergamenacei di un trattato sul
manicheismo, rinvenuto presso Tebessa, in Algeria, e
risalente al periodo a cavallo fra v e vi secolo.
Il caso del CLA 680 è certo sui generis a causa delle
particolari condizioni di ritrovamento, ma questo
manoscritto fa parte di un piccolo numero di codici
che offrono una tipologia di semionciale assai particolare, dotata di un disegno piuttosto calligrafico, che
non coincide però del tutto con quello della semionciale più diffusa nella pars Occidentis dell’impero romano: in particolare la a è di forma onciale e perciò
Elias Avery Lowe parlò a questo proposito di a-type
half-uncial. Proprio a questa tipologia di codici in semionciale appartengono anche alcuni testimoni biblici particolarmente significativi e cioè il codice ™ della
Vulgata, risalente all’epoca stessa di Girolamo (CLA
984), nonché i CLA 41 e 474, oltre a diversi codici contenenti opere di Padri o materiali eruditi, i CLA 410 ab (raccolta di scritti di Ambrogio), 412 (miscellanea
agiografica), 508 (Didascalia et canones apostolorum,
con una lista di consoli), 1107 (Evagrio), 1856 (Agostino, De civitate Dei). Per alcuni di questi codici è ragionevolmente sicura l’origine da Ravenna, così come dimostrato da Augusto Campana.2 Rispetto alle forme
“fluide” dell’early half-uncial la scrittura di questi codici è più definita e si colloca su una via di elaborazione di una semionciale standard, che tuttavia non
giunse mai a maturazione. Soprattutto, come si può
notare agevolmente, si tratta di una semionciale di alto profilo calligrafico, in grado di essere utilizzata per
la copia non solo di opere erudite o patristiche, ma anche di codici delle Sacre Scritture ed in tale senso si
colloca in un contesto di cultura scritta che accetta
l’uso della semionciale anche per codici curati sia da
un punto di vista calligrafico che testuale.3
1 Cencetti, Postilla nuova cit., p. 23, ried. p. 125. In proposito bisogna considerare anche che il Lowe qualifica come «rapid half-uncial of
an early type» la scrittura del CLA 288, oppure ricorre a complesse individuazioni terminologiche come nel caso della scrittura del CLA 1717
(«a mixture of cursive, half-uncial, and rustic elements which might
be designated early half-uncial»), ma talora, anche, si limita a segnalare la presenza di affinità coll’onciale (come per la a del CLA 1790), oppure qualifica semplicemente come semionciale una scrittura che mostra chiari sintomi di bouclage du tracé corsivo (CLA 287). Escludo dalla
ricostruzione del processo di elaborazione della semionciale propriamente detta molti esempi di scritture corsiveggianti, che sono qualifi-
cate dal Lowe come «cursive half-uncial» (CLA 210) oppure come quarto di onciale, che a me risultano essere piuttosto forme di adattamento della corsiva nuova che non sperimentazioni di una vera e propria
minuscola libraria.
2 A. Campana, Il codice ravennate di S. Ambrogio, «Italia medioevale e umanistica» 1 (1958), pp. 15-64, ried. in Id., Scritti, ii, Biblioteche,
codici, epigrafi, Roma c.d.s.
3 Così nel mio contributo Le Sacre Scritture nel mondo tardoantico
grecolatino, in P. Cherubini (ed.), Forme e modelli della tradizione
manoscritta della Bibbia, Littera antiqua, 13, Città del Vaticano 2005,
pp. 33-60: 37.
2. 3. La protocarolina
e le altre scritture dell’ottavo secolo:
testimonianze, interazioni e qualche data sicura
Se, dunque, non si può risolvere il problema dell’origine della carolina affermando che essa sia una scrittura imitativa, bisogna in primo luogo valutare a quali altre scritture risulti strettamente legata nei codici
stessi che ne rappresentano la facies più antica.
Non credo stupisca il fatto che un numero elevatissimo di codici in protocarolina testimoni quelli
che Elias Avery Lowe chiama «sintomi» anglosassoni
od irlandesi (e che qui di seguito definirò più genericamente sintomi insulari). Questi sintomi possono
essere la presenza di mani diverse, alcune educate alle scritture insulari, altre alla protocarolina, presenti
e cooperanti in uno stesso codice; oppure una o più
mani, in uno stesso codice, pur usando la carolina
utilizzano forme di lettere o legature che sono caratteristiche delle insulari, specialmente della minuscola anglosassone; oppure si riscontrano abitudini
140
paolo r adiciotti
tipiche del mondo grafico insulare: abbandono più o
meno netto della scriptio continua, inserimento di annotazioni in scritture insulari (o talora in lingue insulari) ovvero l’abitudine insulare di scrivere tali glosse incidendole con una punta secca (senza usare
inchiostro), oppure, ancora, intervenire con segni di
articolazione del testo o di ornato tipici di quell’ambiente (come la puntinatura attorno alle lettere iniziali); infine anche dettagli codicologici (come la
doppia foratura, per guidare la rigatura, all’interno
dell’area di scrittura e nei margini). Questa situazione non stupisce se si considera che, come è stato osservato,1 la maggior parte dei codici in protocarolina è originaria della Germania ed in particolare di
quell’area del regno dei Franchi orientali che fu incrementata da Carlo Magno colla conquista del territorio sassone: tutta una zona dove a portare la scrittura ed il libro in forme stabili sono stati appunto, in
larga misura, missionari anglosassoni, che hanno
creato in tale area una vera e propria provincia grafica insulare. Non guasta, per intendere meglio l’ampiezza del fenomeno, dare una lista di tali codici in
protocarolina con sintomi insulari. Sono i CLA 10, 65,
82, 85, 88, 96, 108, 143, 172, 242-243, 297 b (codice originario però di Tours, come frutto della collaborazione fra scribi locali e collaboratori di Alcuino), 517,
530, 533, 536-538, 638, 648, 672, 681, 741, 763, 1027 b,
1080, 1132, 1148-1149, 1151, 1158, 1161, 1173, 1182, 1209,
1228, 1242, 1244, 1253-1254, 1256, 1259, 1263, 1265, 1267,
1269, 1273, 1278, 1289 a, 1299, 1304, 1307, 1309, 1321, 1326,
1340, 1344-1345, 1385, 1389, 1402, 1406, 1440, 1442, 1445,
1466, 1474-1476, 1488, 1502, 1506, 1564, 1571 (codice originario però di Tours, come frutto della collaborazione fra scribi locali e collaboratori di Alcuino), 1575,
1580, 1618, 1743, 1749, 1769, 1845. Fra questi ben 81 codici alcuni devono poi essere riguardati come molto
significativi, in quanto vedono la collaborazione fra
mani protocaroline e scribi che utilizzano a buon livello calligrafico la scrittura insulare, in particolare la
maiuscola o la minuscola anglosassone, rivelando così quanto grande fosse la dignità calligrafica della carolina delle origini od anche quanto fosse impellente copiare codici nel tardo secolo viii.2
A tale punto non è irrilevante ricordare che esiste
anche un piccolo nucleo di manoscritti, che presenta
un fenomeno simile di “convivenza” grafica di protocarolina colle scritture alamannica e retica. Sono i
CLA 926, 1255, 1269, 1338, 1458, 1480, 1482-1483. Proprio
il CLA 1482, che conserva gli Annales Laureshamenses,
ci permette di avere un’idea di questo fenomeno da
un punto di vista cronologico. Mentre la mano che
scrive per gli anni 794-797 si esprime in forme alamanniche, la mano che scrive per il periodo 798-803 è
senz’altro carolina.3
A questo fenomeno di compresenza di scritture e
«sintomi» grafici diversi corrisponde, nell’area dei
Franchi occidentali, un vero e proprio sperimentalismo grafico nello scriptorium di Corbie. Qui, come si
è detto,4 è stata praticata una vera imitazione della
semionciale nella scrittura detta «di Leutcario»5 ed in
quella, molto più diffusa, detta «di Mordramno».6
D’altra parte forme grafiche prossime alla carolina si
riscontrano anche nell’altra scrittura di Corbie di
ispirazione semionciale, ma che impiega legature derivate dalla corsiva nuova tardoantica, detta «scrittura
eN».7 Particolarmente significativo a riguardo è il caso
del glossario CLA 743, un codice originario di Corbie,
che vede compresenti, persino nella stessa pagina, la
merovingica libraria ab, la scrittura di Mordramno e
la protocarolina.8
Dal quadro appena illustrato un’osservazione
emerge subito: nella seconda metà dell’viii secolo la
carolina era ben individuabile rispetto alle altre scritture della tradizione ed anche di fronte alle più recenti sperimentazioni grafiche. Tuttavia bisogna
chiedere alle fonti manoscritte anche un quadro cronologico più definito dell’origine e diffusione del fenomeno. In un celebre codice di Parigi, Bibliothèque
Nationale, Par. lat. Nouvelles Acquisitions 1203 (CLA
681), un lussuoso evangelistario (accompagnato da
un calendario con tavola pasquale), scritto in onciale
di imitazione, alcuni brevi testi (versi dedicatori delle carte 126 verso-127 recto ed annotazioni marginali
di carte 104 verso e 119 recto) sono in carolina e più
precisamente in forme affini a quella caratteristica
dell’ambiente della corte di Carlo Magno. Lo scriba,
che dice di chiamarsi Godescalco, afferma di essere
stato presente al battesimo di un figlio (Carlomanno)
di Carlo Magno, che è avvenuto, secondo quanto attesta un’annotazione della tavola pasquale, nel 781.
Se poi esaminiamo un codice di Wolfenbüttel, Herzog August-Bibliothek, Weissemb. 81 (CLA 1393), un
martirologio con altri testi di uso liturgico, scopriamo che in una tavola pasquale iniziale (a carta 4 recto) il primo anno menzionato corrisponde al 772.
Queste indicazioni, incrociate con altre, desumibili
da codici degli ultimi decenni dell’viii secolo,9 attestano che la carolina è una scrittura abitualmente
utilizzata nella copia di libri a partire dall’ottavo decennio del secolo.
1 Si veda supra, ii. 1. 2.
2 Si tratta, oltre che dei codici di Tours summenzionati, anche dei
CLA 1253, 1263, 1265, 1289 a, 1406, 1442.
3 Piuttosto marginale è invece la presenza di codici in protocarolina che attestino sintomi visigotici; si tratta dei CLA 156, 774 c, 1295, 1308.
4 Si veda supra, ii. 1. 1.
5 CLA 1067 a-b (con restauri in carolina), 1601-1602, 1607.
6 CLA 611 (insieme alla merovingica libraria ab di Corbie), 612 (solo per le glosse), 613, 631, 637, 641, 643, 707, 709-710, 711 (un codice allestito da copisti che usano anche scritture diverse, tra le quali la eN
di Corbie e forme protocaroline), 712, 1066 (scritto, parzialmente in
carolina, a Werden, un centro sotto l’influenza di Corbie), 1301, 1545
(scritto in buona parte in carolina), 1573 (scritto in buona parte in carolina), 1580 (con una mano in scrittura di Mordramno), 1609, 1611
(solo in parte), 1618 (un codice allestito da copisti che usano anche
scritture diverse, tra le quali la eN di Corbie e forme protocaroline),
1619, 1752.
7 CLA 638 (in parte), 647, 655-657, 711, 1618, 1624-1625.
8 Da segnalare a riguardo il fatto che in un codice di Corbie, forse
già della prima metà del vii secolo, un Vangelo di Matteo, il CLA 1624,
si riscontra un fenomeno simile, che mostra accomunate la merovingica ab e la scrittura eN.
9 CLA 568, 576, 601, 707, 741, 795, 835, 907, 1057, 1106, 1228, 1263, 1384,
1413, 1462, 1504, 1553, 1563, 1583, 1603.
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
3. A proposito della letteratura critica:
un tentativo di interpretazione
Sull’origine della carolina esiste una sterminata letteratura critica e più volte i paleografi hanno cercato di
sistematizzare le diverse dottrine interpretative del fenomeno. Di recente David Ganz1 ha riconsiderato il
problema, ma sono ancora molto significative le ricostruzioni offerte da Giorgio Cencetti2 ed Alessandro
Pratesi.3
Proprio basandomi su queste ricostruzioni credo
sia possibile non tanto offrire una nuova interpretazione del dibattito critico, bensì sfruttarlo al fine di
metter in luce le convinzioni ideologiche ed i significati simbolici che il problema delle origini ha assunto
e quanto grande sia stato il loro effetto di disturbo sull’evidenza documentale offerta dai manoscritti. In
questo senso un giorno si potrà scrivere la storia del
problema delle origini della carolina come storia delle discipline paleografiche e dei principî e metodi di
queste scienze storiche in relazione colle filosofie ed
ideologie degli ultimi secoli.
Sappiamo bene che la paleografia nasce come
scienza ausiliaria ed in primo luogo le si chiede di
decifrare le scritture. Proprio per questo il problema
dell’origine della carolina – una scrittura che non ha
bisogno di decifrazione – è stato visto nella sua rilevantissima dimensione storiografica e dunque ideologica solo quando, nel tardo Ottocento, la paleografia ha raggiunto una più piena coscienza di sé ed una
reale autonomia intellettuale. È pur vero che in generale in quel periodo gli studi paleografici erano sentiti ancora come il completamento più consono ai filologi medievisti, ma discutere della genesi della
carolina, cioè di un problema in larga misura morfologico, aiutò molto alla comprensione della differenza fra studio di una scrittura in sé e valutazione di essa come vettore di un testo. Non deve, perciò, stupire
se la materia del contendere fra Delisle, Sickel, Giorgi, Federici, Traube e persino il futuro papa Achille
Ratti fosse essenzialmente l’idea di una derivazione
diretta della carolina dalla semionciale tardoantica.4
Una generazione di filologi vide che la rinascenza carolingia aveva recuperato un grandissimo numero di
testi antichi ed i codici del tardo viii e del ix secolo
erano anche spesso i più antichi testimoni di molti autori classici e cristiani. Come non credere che accanto al testo quei codici riproducessero anche le forme
grafiche della tradizione tardoantica e tutto ciò non
venisse patrocinato, come credette Léopold Delisle,
1 Ganz, The Study cit., pp. 387-398, analizza gli orientamenti
storiografici dagli anni Cinquanta del secolo scorso.
2 Cencetti, Lineamenti cit., pp. 151-171, guarda anche ai prodromi
del problema storiografico e ne segue lo sviluppo nella letteratura
critica.
3 A. Pratesi, Le ambizioni di una cultura unitaria: la riforma della
scrittura, in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da
verificare. Settimane di studio del centro italiano di studi sull’alto medioevo,
Spoleto 19-25 aprile 1979, xxvii/1, Spoleto 1981, pp. 507-523 e discussione
alle pp. 525-530 (ora in Id., Frustula palaeographica, Biblioteca di
Scrittura e civiltà, 4, Firenze 1992, pp. 267-279), studia l’impatto che il
141
proprio da figure esemplari del mondo intellettuale
carolingio quale Alcuino? In sostanza il vettore grafico del testo – la scrittura – ed il testo stesso avevano
avuto la medesima sorte: dimenticati col finire del
mondo antico, erano stati recuperati dalla sagacia filologica del piccolo gruppo di straordinari eruditi,
che avevano costituito il cenacolo della corte di Carlo
Magno e talora erano stati abati, come Alcuino a
Tours, in importanti centri scrittorî. Tutto ciò risultava tanto più vero in quanto non si disponeva ancora
né di un quadro cronologico preciso delle numerose
scritture altomedievali preesistenti o coeve rispetto
alla carolina, né minimamente si aveva idea della rilevanza paleografica dei ritrovamenti papiracei che
proprio alla fine dell’Ottocento sconvolgevano l’orizzonte della filologia classica.
Appare, allora, piuttosto chiaro che a dimostrare
falsa la derivazione così semplice e diretta della carolina dalla semionciale sia stato Ludwig Traube, che
più di ogni altro filologo medievista dell’inizio del Novecento aveva esperienza della molteplicità di forme
grafiche precedenti o coeve alla carolina nei codici
dell’viii secolo. Con Traube si inizia ad ipotizzare una
linea evolutiva siffatta: la minuscola latina di età tardoromana, anche nella sua veste corsiva (cioè quella
minuscola che nell’uso documentario viene comunemente definita corsiva nuova e vedremo essere denominata nouvelle écriture commune dalla tradizione paleografica francese), sviluppa, all’inizio del medioevo,
forme grafiche che precorrono la carolina – sono le
precaroline di tanta letteratura paleografica – e che,
nell’viii secolo, sotto l’influenza della semionciale –
soprattutto di quella espressa nelle scritture attestate
a Corbie – portano alla minuscola carolina. Fu in particolare merito di Alain De Boüard avere raffigurato
iconicamente questo processo storico attraverso il
movimento di un pendolo, che rappresenta lo sviluppo grafico all’inizio del medioevo, sicché nel punto di
equilibrio, in cui il movimento pendolare cessa, si ha
la nascita della carolina.5
Luigi Schiaparelli, invece, meno fiducioso nell’infallibile razionalità della storia, ha chiarito come gli
esordi della carolina siano profondamente influenzati
dalla presenza di legature non riconducibili al modello semionciale, mostrando l’insufficienza del modello
di ricostruzione che si andava affermando negli anni
Venti.6 Ciò gli fu possibile anche perché entrò in contatto colla significativa produzione grafica della tradizione tardoromana attestata nei papiri, che, soprattutto nell’ambiente fiorentino, fecondato dai Papiri
della Società Italiana, venivano ormai studiati anche
problema dell’origine della carolina ha nell’assioma politico “Europa
carolingia uguale Europa contemporanea”.
4 Cencetti, Lineamenti cit., pp. 153-155.
5 A. de Boüard, La question des origines de la minuscule caroline, in
Palaeographia Latina, ii, St. Andrews University Publications, 11,
Oxford 1923, pp. 71-82.
6 L. Schiaparelli, Note paleografiche. A proposito di un recente articolo sull’origine della minuscola carolina, «Archivio storico italiano» vii s.
5/i (1926), pp. 3-23 + i tav., ried. in G. Cencetti (ed.), L. S., Note
paleografiche (1910-1932), Torino 1969, pp. 333-354 + ii tavv.
142
paolo r adiciotti
dal punto di vista della paleografia. L’esperienza maturata negli studi paleografici dei materiali di età romana1 gli rese chiaro che non esisteva una progressione regolare, cioè una vera e propria evoluzione
grafica della scrittura latina in direzione della carolina.
Da questo punto di vista le indagini sul comune sentire culturale espresso nei capitolari carolingi2 e sulla
riorganizzazione della società europea del tempo,3 così come le affermazioni sulla “economicità” grafica
della carolina, chiariscono il quadro in cui si colloca la
nascita di questa scrittura, ma non ne danno un’interpretazione paleografica soddisfacente.4
Proprio la difficoltà di individuare uno sviluppo
coerente nella storia grafica dei manoscritti datati o
databili fra l’inizio del vii e la metà dell’viii secolo, risalenti cioè al periodo del particolarismo grafico altomedievale ed alle sue numerose scritture,5 ha spinto a
riconsiderare positivamente il ruolo dei modelli grafici tardoromani ed infine ha fatto ipotizzare a Giorgio
Cencetti la renovatio di una minuscola libraria, ispirata alla minuscola primitiva e non coincidente colla semionciale, in più centri scrittori di area franca nel periodo fra il 750 ed il 775 circa: è questa l’ipotesi della
polipalingenesi, che coniuga l’idea di un’imitatio grafica colla pluralità delle esperienze scrittorie altomedievali, così come emergevano dagli studi sulle cosiddette precaroline. La carolina, così, non è nata in un
sol luogo, ma in più punti contemporaneamente, come frutto delle comuni esigenze grafico-culturali proprie della renovatio studiorum dell’età altocarolingia. Se
la rottura dell’unità grafica del mondo romano aveva
comportato la perdita di una vera scrittura normale
(che fornisse, cioè, secondo la terminologia del Cencetti, l’idea grafica unitaria di un sistema scrittorio latino agli alfabetizzati), la rinascita carolingia impose
alla pluralità dei centri culturali franchi la necessità di
una minuscola libraria normale. Questo insieme di
esperienze grafiche coeve, definito dal Cencetti «classe carolina», era, insomma, il punto di raccordo fra le
ipotesi di una discendenza della carolina da modelli
tardoantichi e la molteplicità delle forme grafiche riscontrabili in quella che ho chiamato protocarolina.6
In definitiva è ancora questa l’ipotesi più coerente
ed efficace riguardo all’origine della carolina, giacché
l’interpretazione dei fatti come emerge dall’innovativa tradizione paleografica francese di Jean Mallon oppure dalle pur esse innovative indagini di Emanuele
Casamassima risolve il problema semplicemente negando che esista.
Ben prima della pubblicazione della sua opera fondamentale,7 Jean Mallon e la nouvelle vague della paleografia francese avevano marginalizzato il problema dell’origine della carolina. Se si osserva la serie
delle scelte esemplari dei manoscritti studiati in una
loro celebre raccolta,8 una volta raggiunta l’ideazione della scrittura minuscola, in età tardoromana, la
storia della scrittura è sostanzialmente finita. La ripresa del concetto grafico di minuscola in età carolingia e la sua successiva imitazione in età umanistica sono corollari di un processo che, nelle sue vicende
storiche più significative, si è risolto già prima, nel
momento della transizione dal sistema antico – della
maiuscola di età romana – al sistema nuovo, della minuscola, della nouvelle écriture commune.
In fondo non dissimile l’atteggiamento di svalutazione del problema della nascita della carolina negli
studi paleografici di Emanuele Casamassima.9 Egli
suddivide la storia della scrittura latina in due grandi
periodi: la fase in cui la scrittura corsiva utilizza la legatura sine virgula et superius, che unisce l’antichità e
l’alto medioevo, e la fase del legare virgulariter inferius,
che inizia nel basso medioevo e preannuncia l’età moderna dello scrivere corsivo. In questo senso la carolina non rappresenta in nulla un punto cardinale della
storia grafica, anzi i legamenti presenti nella scrittura
dei primi esempi carolini attestano con chiarezza che
essa è ancora immersa nella facies grafica precedente,
quella cioè della corsiva di ascendenza antica. Insomma il nucleo vitale della storia della scrittura latina è
da ricercarsi nello scrivere corsivo e da questo punto
di vista la carolina matura è proprio la negazione di
quel processo creativo di nuove forme che è il legare.
Di fronte a simili diversi approcci il lavoro erudito
che Bernhard Bischoff ha dedicato all’individuazione
e descrizione dei codici di età carolingia appare forse
una lotta di retroguardia, ispirata com’è all’esigenza,
difficile a completarsi, di un censimento esaustivo della produzione grafica di quel mondo.10 Maggiore for-
1 L. Schiaparelli, La scrittura latina nell’età romana (note paleografiche). Avviamento allo studio della scrittura latina nel medio evo, Como 1921.
2 I testi più rilevanti, a mio giudizio, sono in MGH, A. Boretius
(ed.), Legum sectio, ii, Capitularia regum Francorum, i, Hannoverae 1883,
pp. 78-79 (epistola de litteris colendis indirizzata all’abate Baugulfo di
Fulda post 780), 52-64 (admonitio generalis e duplex legationis edictum del
23 marzo 789), 46-51 (capitulare Heristallense del marzo 799), 204-206 (capitulare Italicum dell’801), 96 (capitulare missorum generale dell’802), 102104 (capitulare missorum speciale probabilmente dello stesso anno), 105118 (testi allestiti in occasione della sinodo di Aquisgrana dell’ottobre
802), 235 (quae a presbyteris discenda sint databili post 805). Isolate menzioni di memorie scritte sono anche reperibili ibid., pp. 143-147, a proposito, soprattutto, di risposte a quesiti posti da missi dominici.
3 Un nuovo tassello di questa ricostruzione è stato offerto dallo
studio di M. A. Claussen, The Reform of the Frankish Church. Chrodegang of Metz and the Regula canonicorum in the Eighth Century, Cambridge Studies in Medieval Life and Thought, iv s. 61, Cambridge 2004.
4 Cencetti, Lineamenti cit., pp. 155-165, sintetizza l’immane mole
della bibliografia critica a riguardo, spesso venata da aspre polemiche,
ispirate all’appartenenza a tradizioni diverse di studi paleografici.
5 Sulla terminologia da utilizzare per queste scritture si veda A.
Pratesi, Note per un contributo alla soluzione del dilemma paleografico:
«semicorsiva o precarolina?», «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Bari» 3 (1957), pp. 3-13, ora in Id., Frustula palaeographica cit., pp. 255-265.
6 Cencetti, Lineamenti cit., pp. 165-171.
7 J. Mallon, Paleographie romaine, Scripturae monumenta et studia, 3, Madrid 1952.
8 J. Mallon-R. Marichal-Ch. Perrat, L’écriture latine de la capitale romaine à la minuscule, Paris 1939.
9 Bisogna pensare soprattutto al libro-testamento del suo pensiero: E. Casamassima, Tradizione corsiva e tradizione libraria nella scrittura latina del medioevo, Roma 1988.
10 Si vedano l’edizione inglese della raccolta di studi di B. Bischoff, Manuscripts and Libraries in the Age of Charlemagne, Cambridge Studies in Palaeography and Codicology, 1, M. Gormann (ed.),
Cambridge 1994 e soprattutto B. Bischoff, Katalog der festländischen
Handschriften des neunten Jahrhunderts (mit Ausnahme der wisigotischen),
i, Aachen-Lambach, ii, Laon-Paderborn, Wiesbaden 1998-2004; nonché le
riflessioni critiche di M. Gorman, Berhard Bischoff’s Handlist of Carolingian Manuscripts, «Scrittura e civiltà» 25 (2001), pp. 89-112.
un codice di leidr at e le origini medievali della minuscola carolina
143
Proprio dalla svalutazione del medioevo, sottesa all’interpretazione della carolina come scrittura imitativa, credo si debba partire.3 Ed a questo proposito bisogna innanzi tutto comprendere che l’imitatio di una
scrittura ancora viva è ben diversa dal recupero antiquario di una scrittura del tutto scomparsa da secoli.
Insomma non bisogna porre sullo stesso piano gli imitatori anglosassoni dell’onciale romana e Poggio
Bracciolini. Ciò che è attestato nella fase della riforma
grafica carolingia è appunto il recupero di tradizioni
scrittorie ancora sopravviventi, come per l’onciale, la
semionciale, la capitale, che vengono ripensate alla
luce di modelli calligrafici di migliore qualità, mentre
Poggio ed ancora più i suoi seguaci cercano davvero
di “rompere” colla tradizione grafica dei loro tempi
(cioè quella gotica). Certo in entrambi i casi ci troviamo di fronte al meccanismo dell’imitatio, ma in modi
significativamente diversi.
L’età carolingia è d’altronde, se si guarda all’insieme delle sue manifestazioni, un mondo nient’affatto
“antico”. Anzi se l’antichità era stata profondamente
segnata da un alto grado di oralità e di dialettica fra
cultura del libro e modalità aurali di trasmetterne i
contenuti intellettuali, viceversa l’alto medioevo carolingio è un mondo intellettuale tutto affidato al libro ed alla scrittura, un mondo in cui si concepisce
persino di fissare per iscritto le saghe germaniche, come racconta Eginardo a proposito di un’iniziativa di
Carlo Magno.4 Un mondo, insomma, in cui la cultura intellettuale affidata al libro è certo riservata ad
un’esigua élite, ma, proprio per questo, può nutrirsi di
un sistema di allusioni culturali “preziose” e significanti per quei pochi che possano intenderne il valore.
In seno a questa mentalità il concetto di spolia, ben
noto agli storici dell’arte,5 è rilevante. Nelle mura leonine a Roma facevano (e tuttora in parte fanno) bella
mostra di sé resti antichi di opere scultoree, di bassorilievi, di sarcofaghi, di epigrafi, che non erano solo
materiale murario, ma erano abbellimenti voluti, inseriti anche con un gusto di variatio cromatica (il bianco od il colore dei marmi sullo sfondo dei mattoni).
Applicando questo gusto alla carolina forse si riesce
ad intender come mai fra le diverse forme di a presenti insieme in celebri ed antichi codici in carolina6
sia prevalsa la forma della a onciale, quasi rinvio allusivo e spolium della tradizione grafica più aulica attestata nel libro cristiano tardoantico. Certamente in
questa scelta si può credere abbia avuto il suo peso la
presenza di codici in semionciale, cioè in minuscola libraria tardoantica, dove già si osserva la presenza della a onciale,7 ma non è questo il vero punto nodale
della questione.
Per un uomo colto della tarda antichità l’idea dell’esistenza di un’unica scrittura, colla quale copiare
1 A. Petrucci, Alfabetismo ed educazione grafica degli scribi altomedievali (secc. vii-x ), in P. Ganz (ed.), The Role of the Book in Medieval
Culture. Proceedings of the Oxford International Symposium, 26 September1 October 1982, i, Bibliologia. Elementa ad librorum studia pertinentia,
3, Turnhout 1986, pp. 109-131, ried. in Id., Writers and Readers in Medieval Italy. Studies in the History of Written Culture, Ch. M. Radding
(ed.), New Haven-London 1995, pp. 77-102. Da non trascurare, a riguardo, gli studi sull’alfabetismo altomedievale, come R. McKitterick (ed.), The Uses of Literacy in Early Mediaeval Europe, Cambridge
1990 e l’importante volume della stessa McKitterick, The Carolingians and the Written Word, Cambridge 1989.
2 A. Petrucci, Prima lezione di paleografia, Universale, 811, RomaBari 2002, pp. v-vi: «Ma quale paleografia? Quella di antica tradizione,
cioè la “scienza delle antiche scritture, limitatamente però a quelle dei
documenti di carattere non monumentale” (Luigi Schiaparelli nel
1935), oppure quella ‘globale’ rivendicata dal grande e originale
studioso francese Jean Mallon già dal 1952, “che deve occuparsi dei
monumenti grafici di ogni tipo e natura e, in ciascun caso, in modo
totale”, e cioè, detto in breve, di tutte le testimonianze scritte di una
determinata tradizione culturale e linguistica?». Armando Petrucci
opta, ibid., p. vi, per questa via malloniana, definendo la paleografia:
«storia della produzione, delle caratteristiche formali e degli usi sociali della scrittura e delle testimonianze scritte in una società determi-
nata, indipendentemente dalle tecniche e dai materiali di volta in volta
adoperati».
3 Il problema delle periodizzazioni in ambito storico è molto rilevante e la paleografia non può non tenerne conto. Una ricostruzione della complessa articolazione dei periodi storici, nelle diverse
tradizioni storiografiche occidentali, si trova oggi, in forma riassuntiva, nell’interessante libro di S. Guarracino, Le età della storia. I
concetti di antico, medievale, moderno e contemporaneo, Testi e pretesti,
Milano 2001.
4 Si tratta di Einhardi vita Karoli imperatoris cit., xxix.
5 Citerò a riguardo due recenti opere: M. Fabricius Hansen, The
Eloquence of Appropriation. Prolegomena to an Understanding of Spolia in
Early Christian Rome, Analecta Romana instituti Danici. Supplementum, 33, Romae 2003; nonché M. D’Onofrio (ed.), Rilavorazione
dell’antico nel medioevo, I libri di Viella. Arte, Roma 2003. La prima di
esse pone in luce la natura profondamente cristiana del concetto di
spoliazione e riuso dell’antico, mentre la seconda fornisce materiale
per comprendere come questo uso sia una delle caratteristiche tipiche
della mentalità medievale.
6 Un esempio illustre è il codice di Parigi, Bibliothèque Nationale,
Bibliothèque de l’Arsenal 599 (= CLA 517), attribuito allo scriptorium di
corte ed alla mano del celebre Godescalco (sulla cui datazione si veda
supra, ii. 2. 3).
7 Come si è osservato supra, ii. 2. 2.
tuna hanno invece avuto, presso i paleografi, le ricerche volte a completare il quadro delle caratteristiche
significative della cultura scritta in età carolingia; da
questo punto di vista gli studi di Armando Petrucci
sulle modalità dell’apprendimento grafico degli scribi
altomedievali sono fondamentali.1 Forse ancora più
significativo è il fatto che Armando Petrucci abbia accolto l’approccio malloniano alla paleografia, individuando proprio in Jean Mallon colui che ha fornito la
miglior definizione del termine stesso di paleografia
quale storia della scrittura.2
A questo punto è anche più facile intender come sia
potuta avvenire la rimozione sostanziale del problema dell’origine della carolina e come si sia potuta accettare l’ipotesi della carolina come scrittura imitativa, sebbene non sia possibile individuare alcuna
scrittura tardoromana che fornisca in toto il modello
che tale imitazione avrebbe ripreso. Lo spostamento
del centro di attenzione degli studi paleografici ha così prodotto il paradossale esito di avere trasformato la
paleografia da scienza ausiliaria di tipo medievistico,
qual era al principio del Novecento, a scienza autonoma, sì, ma che considera il medioevo – almeno l’età
della scrittura carolina, fra il ix ed il xii secolo – essenzialmente alla luce della sua capacità di imitare la
tradizione antica e, dunque, sostanzialmente privo di
capacità ideative proprie.
4. La minuscola carolina: una scrittura medievale
144
paolo r adiciotti
ogni tipo di libro – quello sacro e quello liturgico, così come un trattato di grammatica od il testo di un autore pagano – è impensabile; viceversa il copista carolingio, già negli ultimi decenni dell’viii secolo, ha
concepito che un’unica scrittura minuscola potesse
servire omogeneamente per ogni tipo di libro.1 Sebbene questa scelta in favore di un’unica scrittura testuale non sia ancora, in età altocarolingia, un dato
che escluda la presenza di isolati esempi di manoscritti in altre scritture, quelle della tradizione merovingia o quelle imitative, tuttavia la linea di condotta
è stata determinata e da questo punto di vista la riduzione della varietà grafica si avverte in modo chiaro al
volgere del nuovo secolo.
Resta da porsi, ora, la domanda se sia identificabile
un “inventore” della carolina. A questo ha già risposto
bene l’ipotesi di Giorgio Cencetti, che ha identificato
una natura poligenetica della classe carolina. Eppure
alcune personalità emergono come particolarmente
rilevanti non tanto nell’ideazione grafica, quanto nella definizione di tipologie librarie caratteristiche e
vincenti nel contesto delle trasformazioni della prima
età carolingia. In primo luogo deve esser, ancora una
volta, segnalato l’ambiente di Corbie, all’epoca degli
esperimenti imitativi promossi da Leutcario e Mordramno.2 Il recupero, in forme coerenti e durevoli (soprattutto nel «tipo di Mordramno»), di un filone della
tradizione tardoantica come quello semionciale è avvenuto appunto a Corbie e da lì si è diffuso, indicando
essenzialmente un criterio di calligrafismo librario: la
nuova scrittura, quella che sarà la carolina, sceglierà,
coerentemente colle caratteristiche della semionciale
tardoantica, la rinuncia alle legature e avrà dunque,
tendenzialmente, un gusto grafico che esclude la
variatio nel disegno delle lettere, come invece era possibile nelle scritture ricche di legamenti. Un’altra influenza durevole è poi quella determinata dall’opera
di Teodulfo. Egli, di origine visigota, aveva coscienza
del vantaggio, nell’organizzazione e trasmissione testuale, offerto dalla predisposizione della Bibbia in
Pandette.3 Il modello fornito, anche in questo caso, da
esempi in semionciale,4 ha indubbiamente favorito
l’adozione delle forme grafiche caroline. Le Bibbie di
Teodulfo, fra le più antiche quella di Parigi (Bibliothèque Nationale, Par. lat. 9380 = CLA 576) e quella di Le
Puy (Trésor de la cathédrale, s. n. = CLA 768), hanno
caratteristiche che offrono il più alto grado di calligraficità della carolina, nella sua fase più antica, unitamente al più alto livello di cura testuale possibile per
la filologia biblica del periodo carolingio.5
Bisogna però anche riflettere su un’altra importante circostanza. In età carolingia scrivere non è più opus
servile.6 A mio parere, gli scribi-intellettuali di età carolingia, che sono in contatto diretto coi manoscritti
tardoantichi in minuscola libraria, attuano un processo interno alla loro scrittura usuale, nel senso di una
semplificazione della tradizione corsiva, comunque
sia alla base dell’universo grafico altomedievale, attraverso la riduzione dei legamenti. Questa ricerca
grafica affiora nelle loro scritture “personali”, di glossa nei codici o per le sottoscrizioni nei documenti ed
eventualmente nelle altre testimonianze di scritturazioni della vita quotidiana, come le epistole.7 Tale processo deve esser avvenuto molte volte e con particolare rilevanza nei casi della collaborazione di più copisti,
che si trovano a cooperare per l’opera di copia di uno
stesso codice. Ad esempio si può citare il Livio di
Tours, cioè il codice della Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Reg. lat. 762 (= CLA 109),8 scritto da Gyslarius, Aldo, Fredegandus, Nanto, Theogrimus, Theodegrimus, Ansoaldus, Landemarus; oppure il manoscritto del
commento attribuito a Girolamo delle epistole paoline nel codice di Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, CLM 13038 (= CLA 1288), scritto da Ratgozzus, Hruommano, Patariho, Alariho, Hahleiho. Proprio
nel contesto di questi scribi o di eruditi poco noti, come Leidrat, bisogna cercare gli “inventori” della carolina, attraverso quel complesso processo di recupero
delle tradizioni della minuscola latina tardoantica, venate dalle suggestioni degli spolia grafici, così come ho
cercato di illustrare nell’esposizione di questa ricerca.
Amice qui legis, retro digitis teneas, ne subito litteras
deleas, quia qui nescit scribere nullum se putat habere laborem.9
1 Se anche la carolina fosse una pura imitazione, il fatto che la minuscola sia divenuta una scrittura adatta ad ogni tipo di libro è comunque un fenomeno medievale ed innovativo.
2 Si veda supra, ii. 1. 1.
3 A questo proposito rinvio a P. Cherubini (ed.), Forme e modelli
della tradizione manoscritta della Bibbia, Littera antiqua, 13, Città del
Vaticano 2005 ed in particolare al contributo di M. Bassetti, Le Bibbie
imperiali d’età carolingia ed ottoniana, ibid., pp. 175-265 + tavv. xvi-xxi.
Sulla tradizione biblica nella Spagna altomedievale si veda P. Cherubini, Le Bibbie spagnole in visigotica, in Id. (ed.), Forme cit., pp. 109-173 +
tavv. xiii-xv.
4 Si vedano i frammenti palinsesti di origine spagnola (secolo vii)
della Bibbia in Pandette di León, Archivo Catedralicio 15 (= CLA 1636).
5 Il tipo codicologico della Bibbia di Teodulfo è caratterizzato da
scrittura di modulo piccolo, con pagine di sessantuno righe, disposte
su tre colonne, in fascicoli quinioni; si veda R. Gameson (ed.), The Early Medieval Bible: Its Production, Decoration and Use, Cambridge Studies
in Palaeography and Codicology, 2, Cambridge 1994 ed in particolare
D. Ganz, Mass Production of Early Medieval Manuscripts: the Carolingian
Bibles from Tours, ibid., pp. 53-62: 53.
6 A questo riguardo rinvio al mio contributo Scritture di glossa di
lettori eruditi: un approccio paleografico, in G. Abbamonte-L. Gualdo
Rosa-L. Munzi (edd.), Parrhasiana iii «Tocchi da huomini dotti». Codici
e stampati con postille di umanisti. Atti del iii seminario di studi. Roma 2728 settembre 2002, Napoli 2005 = «AION. Annali dell’Università degli
Studi di Napoli “l’Orientale”. Dipartimento di studi del mondo classico e del Mediterraneo antico, Sezione filologico-letteraria» 27 (2005),
pp. 239-248.
7 Appunto a questi materiali ho dedicato il mio lavoro Luigi Schiaparelli ed alcune osservazioni in margine al problema della “nascita” della
carolina, «Scrittura e civiltà» 23 (1999), pp. 395-406. Un’aspra critica a tale mio studio è il contributo di Paola Supino Martini, Aspetti cit.; al di
là della diversità di opinioni riguardo al problema della genesi della carolina, c’è un punto in cui l’autrice incorre in un errore, che è rivelatore di una sostanziale incomprensione delle mie opinioni: mi si attribuisce (Supino Martini, Aspetti cit., p. 950), a proposito della
scrittura del testamento di Fulrado, abate di Saint-Denis, nonché della lettera di Maginario a Carlo Magno, la valutazione di queste scritture come «francamente caroline»; avevo scritto, invece, nel mio articolo, a proposito delle due testimonianze suddette, ma anche di alcuni
praecepta regî, che «mostrano scritture, che si è tentati di definire francamente protocaroline» (Radiciotti, Luigi Schiaparelli cit., p. 402).
8 È un apografo del celebre codice in onciale Puteano (Paris, Bibliothèque Nationale, Par. lat. 5730).
9 È l’apostrofe dello scriba MACCHˆ nel codice Münich, Bayerische Staatsbibliothek, CLM 14425, c. 159 recto.