- Società cooperative - Modifiche statutarie obbligatorie alla luce del

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- Società cooperative - Modifiche statutarie obbligatorie alla luce del
- Società cooperative Modifiche statutarie obbligatorie alla luce del D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6
Relatore :
Not. Maria Pia Ansalone
A cura di: Not. Maria Pia Ansalone
Avv. Roberto Marazzi
1. L'adeguamento dello statuto alle norme della riforma - premessa; 2. Condizioni per la costituzione:
versamenti iniziali e numero dei soci ; 3. Disciplina applicabile -Denominazione dell’ente - quota
sociale; 4. La realizzazione della causa mutualistica - pari trattamento - regolamenti interni; 5. I
ristorni; 6. Oggetto sociale e requisiti di ammissione dei soci; 7. Il controllo contabile - accenni
L’analisi delle modifiche statutarie che, inderogabilmente, debbano essere apportate a seguito
dell’entrata in vigore della nuova disciplina sulle società di capitali e cooperative (D.Lgs. 17 gennaio
2003 n. 6) deve seguire un duplice binario: da un lato si pongono infatti le innovazioni legislative
tipicamente dedicate all’ente societario cooperativo, dall’altro quelle che derivano dall’estensione a tale
tipo sociale, in quanto compatibili, delle norme previste per le società per azioni o a responsabilità
limitata (cfr. art. 2522 C.C.).
E’ chiaro peraltro come oggetto della presente relazione non possano che essere le sole disposizioni che
il Legislatore ha specificamente dedicato alle cooperative rinviandosi, per un’analisi approfondita delle
rilevanti novità emergenti dall’applicazione agli enti mutualistici delle norme sulle società di capitali,
soprattutto per quanto riguarda i modelli di governance utilizzabili dai soci, agli studi ad esse
specificamente dedicati.
1. L'adeguamento dello statuto alle norme della Riforma - Premessa
Una breve premessa dev'essere riservata alle concrete modalità previste dalla legge per addivenire
all’adeguamento dello statuto sociale alla disciplina inderogabile prevista dai decreti di riforma del
diritto societario.
L’art. 223 duodecies Disp. Att. C.C. dispone sul punto una disciplina agevolativa, consentendo
all’assemblea di deliberare detto adeguamento anche in terza convocazione, indipendentemente dalla
sua previsione statutaria, e comunque a maggioranza semplice dei presenti, in deroga ad eventuali più
rigorose disposizioni di legge o convenzionali; non appare inutile ricordare non solo che il suddetto
quorum agevolato è fruibile, evidentemente, nel solo caso in cui l’adeguamento venga deliberato entro
il termine del 31 dicembre 2004, ma anche come esso si riferisca alle sole disposizioni inderogabili
(Sul punto Miserocchi „Le norme transitorie„ in Il nuovo ordinamento delle società, Ipsoa, 2003, p.
421).
D’altro canto, appurato che le maggioranze necessarie per adeguare lo statuto a disposizioni legislative
derogabili siano quelle ordinarie (ciò che è particolarmente rilevante soprattutto in riferimento
all’opportunità di recepire le nuove clausole sulla mutualità prevalente), occorre dare atto anche delle
opinioni dottrinarie che, viceversa, riferiscono la disposizione transitoria agevolativa di cui all’art. 223
Disp. Att. C.C. anche all’adeguamento alle disposizioni normative inderogabili previste dal D.Lgs. n.
5/2003 in materia di clausola compromissoria (in questo senso le Massime del Consiglio Notarile di
Milano „Principi uniformi in tema di società„ in Riv. Not. 2004, p. 798).
2. Condizioni per la costituzione: versamenti iniziali e numero dei soci La riforma non risolve definitivamente la questione relativa alla necessità o meno che i soci fondatori
versino presso un Istituto di Credito il 25% del capitale sottoscritto, come previsto dall'art. 2329 C.C. in
riferimento alle società per azioni.
La questione già aveva stimolato l'interesse degli operatori nella vigenza della vecchia normativa,
trovando sostenitori tanto la tesi della obbligatorietà di tale adempimento, fondata da un lato sul
generale richiamo dell'art. 2516 C.C. alla disciplina delle società per azioni, dall'altro sulla necessità
che, ai sensi dell'art. 2330 C.C., il notaio alleghi alla richiesta di deposito dell'atto costitutivo presso il
Registro delle Imprese anche il versamento dei tre decimi (vedi Greco "Costituzione di società
cooperative e obbligatorietà del versamento dei tre decimi dei conferimenti in denaro" in Dir. Fall.
1946, I, p. 71 ss.), quanto la prevalente tesi contraria.
In particolare si era rilevato come il richiamo al regime normativo proprio delle società per azioni non
fosse affatto decisivo, dovendo l'interprete verificare di volta in volta la concreta compatibilità della
disciplina prevista per le società di capitali rispetto ai principi della cooperazione: in quest'ottica, se
l'obbligo per i fondatori di versare parte del conferimento sottoscritto trova una giustificazione nella
rilevanza che assume il capitale in una società per azioni, non altrettanto può dirsi rispetto alle
cooperative, il cui capitale, come noto, è variabile senza modificazioni dell'atto costitutivo (In questo
senso Trib. Trieste. 7 ottobre 1995 in Società, 1996, 2, p. 197, App. Firenze 5 marzo 1953 in Foro
Italiano, 1953, I, p. 836. Nello stesso senso la dottrina prevalente; a titolo esemplificativo vedi
Verrucoli "Delle società cooperative" Milano, 1958, p. 228; Scordino "La società cooperativa" Napoli,
1970, p. 123; Carboni "Le imprese cooperatrici e le mutue assicuratrici" in Trattato di Diritto Privato,
P. Rescigno - a cura di - Vol. 16, Torino, 1985, p. 448 e 452 n. 55).
Si aggiunga che l'art. 2527 C.C. (ora 2531 C.C.) permetteva alla società di escludere il socio che non
avesse liberato anche interamente la propria quota, il ché sarebbe stato impossibile se avesse dovuto
obbligatoriamente versarne i tre decimi al momento della sottoscrizione (Bassi "Delle società
cooperative" in Commentario al Codice Civile diretto da Schlesinger, Milano, 1988, p. 388) e che l'art.
2521 C.C. (ora 2525 C.C. ultimo comma) escludeva espressamente che le azioni emesse da società
cooperative dovessero indicare l'ammontare dei versamenti parziali eseguiti (così Trib. Trieste cit.).
Qualche maggior dubbio potrebbe sorgere dopo l'entrata in vigore della Riforma, in considerazione
dell’accresciuta importanza che essa attribuisce al capitale sociale negli enti cooperativi (vedi Bonfante
in "Codice commentato delle nuove società" Ipsoa, 2004, p. 1442); senonché la nuova normativa
riproduce sostanzialmente tutte le disposizioni legislative sopra citate a sostegno della tesi della non
necessità dei versamenti parziali e per questo motivo, conformemente alla giurisprudenza unanime,
sembra corretto confermare le soluzioni già prevalenti prima della riforma.
Passando al numero dei soci, l'art. 22 della Legge Basevi già estendeva a tutte le cooperative la
necessità che la compagine sociale fosse formata da almeno nove soci, requisito inizialmente previsto
dall'art. 2 R.D. 12 febbraio 1911 n. 278 per le sole cooperative ammesse ai pubblici appalti. Il numero
minimo, peraltro, da un lato era stato abbassato a tre membri in alcuni casi particolari e precisamente
per le piccole cooperative (art. 21 Legge 7 agosto 1997), per i consorzi di cooperative e per le
cooperative di pescatori (art. 27 D.L. C.P.S. 14 dicembre 1947 n. 1577) e per le stesse cooperative
ammesse ai pubblici appalti (art. 27 bis del decreto n. 1577/1947 citato), per citare i principali,
dall'altro era stato aumentato in vario modo in relazione alla possibilità di iscriversi presso il registro
Prefettizio o di godere delle agevolazioni fiscali (in particolare le cooperative di consumo devono
essere formate, ai sensi dell'art. 22 citato, come riformulato dopo la Legge 7 agosto 1997 n. 266, da
almeno 50 soci).
Tali disposizioni trovavano giustificazione nell'opinione comune per la quale una composizione
societaria numericamente qualificata fosse indispensabile alla realizzazione dello scopo mutualistico
(Bassi "Le società cooperative" Torino, 1995, p. 104), dal momento che le società cooperative, per loro
natura, si qualificano come enti destinati a soddisfare i bisogni di "categorie" di persone (Verrucoli "La
società cooperativa" Milano, 1958, p. 214).
Per completezza bisogna peraltro aggiungere come fosse oggetto di dibattito se, in applicazione
analogica del più volte citato art. 22 della Legge Basevi, la costituzione dell'ente da parte di un numero
di persone inferiore a detti limiti legali non costituisse motivo di nullità dell'atto, ma solo di
irregolarità, sanabile entro un anno (Bassi "Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici" in
Commentario Schlesinger, p. 343), oppure se effettivamente il rispetto di tali condizioni numeriche
costituisse motivo di validità dell'atto costitutivo (Bonfante "Delle imprese cooperative" in
Commentario Scialoja-Branca, 1999, p. 235).
Il decreto di riforma, come noto, ha portato sul piano codicistico le previsioni inerenti il numero
minimo dei soci, confermando all'art. 2522 C.C. che la cooperativa non possa essere formata da meno
di nove soci salva la possibilità, adesso generalizzata e sul presupposto dell'espressa applicazione
residuale della disciplina sulle società a responsabilità limitata, di costituirla validamente anche con soli
tre membri, purché persone fisiche.
Viene confermata anche la prescrizione del termine massimo di un anno per la ricostituzione del
numero minimo a seguito dello scioglimento di rapporti sociali individuali.
Premesso come il legislatore non abbia colto l'occasione per risolvere i dubbi cui già si è accennato con
riferimento alla normativa previgente e come pertanto appaiano tuttora valide ed attuali le opinioni e le
argomentazioni sopra proposte, una questione ulteriore viene adesso, con riferimento al numero
minimo dei soci, posta con maggior forza all'attenzione dell'interprete.
Già a seguito dell'emanazione della Legge n. 59/1992 la dottrina e la giurisprudenza si erano chieste se,
con riferimento al numero minimo di membri dell'ente cooperativo, dovessero o meno essere computati
i soci sovventori.
Uno spunto di riflessione in tal senso poteva trarsi dalla stessa natura giuridica delle azioni di
sovvenzione le quali, secondo l'opinione prevalente, dovevano considerarsi a tutti gli effetti come quote
di capitale sociale (Per citare solo alcuni Bonfante „Delle imprese cooperative„ cit. p. 422,
Tatarano"L'impresa coperativa" in Trattato Cicu-Messineo, 2002, p. 263, Genco "La riforma delle
società cooperative - Prime considerazioni" in Giur. Comm. 1994, I, p. 28); la stessa giurisprudenza di
merito, del resto, ha negato che la piccola cooperativa potesse ammettere soci sovventori sul rilievo che
tale ammissione avrebbe potuto comportare il superamento del limite massimo di otto soci, con ciò
presupponendo che anche tale categoria di membri sia rilevante quanto alla verifica del numero minimo
e massimo dei membri di una cooperativa (Trib. Udine 18 dicembre 1998 e Trib. Udine 29 giugno
1999 in Giur. Comm., 200, II, p. 248).
Di segno opposto era tuttavia l'opinione della dottrina più autorevole, la quale evidenziava come i
requisiti numerici di cui si è detto fossero giustificati dall'esigenza di garantire la corretta realizzazione
della causa mutualistica, mentre i soci sovventori non partecipano ad alcun rapporto mutualistico con
l'ente e sono animati unicamente da intenti lucrativi (Bonfante „Delle imprese cooperative„ cit. p. 234.
Sul punto anche, incidentalmente, Turano Gentili "Società cooperatve", Giuffré, 2002 p. 125).
La questione, come anticipato, ha assunto un'importanza particolare dopo che il nuovo art. 2526 C.C.
ha liberalizzato, per le cooperative strutturate socondo il modello delle S.p.A., la possibilità di emettere
strumenti finanziari partecipativi permettendo alla società di ricorrere all'acquisizione di nuovi
finanziamenti a fronte dell'emissione di strumenti finanziari non più rigidamente ancorati, nel
contenuto, a schemi tipici.
Premesso come sia opinione ampiamente prevalente che anche i nuovi strumenti finanziari, se
partecipativi, attribuiscano ai possessori la qualifica di socio e che il relativo conferimento sia imputato
a capitale di rischio (tra gli altri Perugino „Gli strumenti finanziari alla luce della riforma del diritto
societario„ in Società, 2004, 8, p. 941), la maggior importanza della questione in esame va infatti
collegata al fatto che le più flessibili possibilità offerte dalla riforma, probabilmente, renderanno più
appetibile alle cooperative il ricorso all'emissione di strumenti finanziari, rispetto alla poco frequente
utilizzazione delle azioni di sovvenzione;
Non sembra comunque, da un'analisi delle opinioni rese all'indomani della riforma, che la dottrina
abbia mutato parere circa l'esclusione dei soci finanziatori dal computo di cui si è detto (Bonfante
„Delle società cooperative„ in Il Nuovo diritto societario Commentario diretto da Cottino, BonfanteCagnasso-Montalenti, Zanichelli, 2004, 2, p. 2454)
3. Disciplina applicabile -Denominazione dell’ente - quota sociale Mentre l’art. 2516 C.C. previgente, per colmare le lacune nella disciplina delle cooperative, faceva
riferimento unicamente alle norme dettate dal Codice con riferimento alle società per azioni, il nuovo
art. 2519 C.C. richiama in via alternativa anche quelle previste per la società a responsabilità limitata.
La novità è stata già ampiamente discussa in dottrina; occorre nondimeno svolgere in proposito due
precisazioni: anzitutto la lettura coordinata del primo e del secondo comma sembrerebbe suggerire che
per l’applicazione delle norme dettate per la S.p.A. non sia mai strettamente necessaria un’espressa
menzione statutaria, che invece sarebbe imprescindibile ove si volesse ricorrere a quelle dettate per le
S.r.l. (L’art. 2519 C.C. da un lato recita infatti che „...si applicano in quanto compatibili le disposizioni
sulla società per azioni„, mentre dall’altro dispone, ricorrendone le condizioni che vedremo, che l’atto
costitutivo abbia la facoltà di prevedere che „...trovino applicazione in quanto compatibili le norme
sulla società a responsabilità limitata.„) (Grumetto „La società cooperativa alla luce della riforma„ in Il
nuovo diritto societario, a cura di Galgano e Genghini, Padova, 2004, p. 1067). Detta interpretazione
può essere accolta quantomeno per le cooperative che potenzialmente abbiano i requisiti per essere
regolate dall’uno o dall’altro complesso normativo e per le quali, di conseguenza, vi sia effettivamente
la necessità di evidenziare con chiarezza la scelta dei soci in ordine all’applicazione della disciplina
sulle S.r.l.,, non altrettanto per quelle che, avendo meno di nove soci, non potrebbero che essere
regolate da tale disciplina: l’opinione di alcuni autori in tale ipotesi è nel senso che, nonostante la
lettera dell’articolo 2519 C.C. e considerata l’esclusività del complesso normativo richiamabile, l’atto
costitutivo sarebbe comunque valido anche in assenza di una menzione espressa rivolta alle norme sulla
S.r.l. (Petrelli „La cooperativa nella riforma del diritto societario - Analisi di alcuni aspetti controversi„,
Studio n. 5306/I approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato in CNN Notizie, Anno IX, n. 200).
Per togliere ogni dubbio è comunque sempre consigliabile, quale che sia il numero dei soci fondatori,
specificare in modo non equivoco se in via residuale sia applicabile all’ente la disciplina sulle S.p.a.
oppure quella sulle S.r.l.
In secondo luogo, la legittima applicazione ad una cooperativa della normativa sulle società a
responsabilità limitata richiede la presenza di alcuni requisiti (numero di soci inferiore a venti e attivo
patrimoniale non superiore ad un milione di euro), che si ritiene corretto interpretare come alternativi:
in altre parole è sufficiente, perché l’atto costitutivo legittimamente rinvii alle disposizioni sulle S.r.l.,
che la società abbia meno di venti soci, anche se successivamente l’attivo patrimoniale si riveli
superiore ad un milione, oppure che l’attivo sia inferiore a detto importo, anche se il numero di soci sia
superiore a venti (tra i tanti Paciello „Le società cooperative„ in Diritto delle società di capitali Manuale Breve, Milano, 2003, p. 358; Sabadini „La funzione sociale, gli enti esclusi, i tipi di
cooperative„ in La riforma delle società cooperative a cura di Genco, Ipsoa, Milano, 2003, p. 54). E’
chiaro peraltro come in sede di costituzione solo il numero dei soci sia già conoscibile e come,
pertanto, sia ad esso che i fondatori debbano fare riferimento.
E’ chiaro altresì che la scelta operata in sede di costituzione non è certo irreversibile; in particolare i
soci saranno obbligati a modificare la struttura dell’atto costitutivo allorché, durante il corso della vita
sociale, la consistenza della compagine sociale e dell’attivo patrimoniale subissero variazioni tali da
rendere non più legittimo il ricorso da parte della società alle norme dettate per la S.p.A. o, al contrario,
per la S.r.l..
Se fossero entrambi superati i parametri di cui all’art. 2519 C.C. la dottrina concorda sull’esigenza che
gli amministratori convochino l’assemblea per deliberare l’adeguamento statutario necessario per
l’adozione delle norme sulla S.p.A (Farina „Società cooperative: capitale sociale, quote, azioni e
strumenti finanziari„ in Riv. Not. 2003 p. 1104), delibera in mancanza della quale si è ipotizzato lo
scioglimento dell’ente (Farina „Società cooperative: capitale sociale, quote, azioni e strumenti
finanziari„ cit. p. 1104) oppure l’applicazione automatica delle norme sulla S.p.A. (Petrelli Studio CNN
n. 5306/I cit.).
Se, viceversa il numero dei soci scendesse sotto i nove l’art. 2523 C.C. è esplicito nel prevedere che, in
caso di mancato adeguamento dello statuto nell’adottare le norme sulle S.r.l., si realizzi una causa di
scioglimento della cooperativa.
Strettamente collegata alla questione appena analizzata, nell’opinione di alcuni autori, è quella relativa
alla denominazione che debba caratterizzare la società cooperativa.
Procediamo con ordine.
La sola indicazione codicistica in tal senso è quella contenuta nell’articolo 2515 comma 1 C.C., il quale
dispone unicamente che la denominazione debba contenere le parole: „società cooperativa„; a tale
norma occorre peraltro affiancare le numerose indicazioni che emergono dalla legislazione speciale.
Sarà di conseguenza necessario che le cooperative sportive dilettantistiche indichino „nella
denominazione sociale le finalità sportive e la ragione o denominazione sociale dilettantistica (art. 90
comma 17 L. 27 dicembre 2002 n. 289); che le cooperative agricole comprendano, agli effetti di cui
all’art. 2 D. Lgs. 29 marzo 2004 n. 99, l’indicazione di „società agricola„; che le cooperative sociali
indichino nella denominazione la locuzione „cooperativa sociale„ (art. 1 comma 3 L. 8 novembre 1991
n. 381) così come le banche di credito cooperativo la dicitura „credito cooperativo„ (art. 33 D.Lgs. 1
settembre 1993 n. 385) e le cooperative - Onlus la locuzione „Organizzazione non lucrativa di utilità
sociale„ (art. 10 D. Lgs. 4 dicembre 1997 n. 460); che i consorzi agrari, che sono di diritto cooperative,
utilizzino la denominazione di „consorzio agrario„ seguito dalla specificazione territoriale di portata
almeno provinciale (art. 3 L. 28 ottobre 1999 n. 410) e infine che l’utilizzo di termini che richiamino lo
svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi sia vietata a soggetti diversi dalle cooperative di
garanzia.
Ciò presupposto, una parte della dottrina si è interrogata sull’opportunità che la denominazione della
cooperativa, regolata in via residuale dalle norme sulla S.p.A. o sulla S.r.l., contenga quale
proseguimento dell’indicazione del tipo sociale anche la locuzione „per azioni„ o, alternativamente, „a
responsabilità limitata„ (Tonelli „Commento all’art. 2515 C.C.„ in La riforma delle società, a cura di
Sandulli e Santoro, Torino, 2003, p. 46); appare tuttavia prevalente l’opinione contraria, soprattutto a
causa della mancanza di una qualsiasi prescrizione legislativa in tal senso (Petrelli Studio CNN n.
5306/I cit.).
E’ ancora opportuno, sempre con riferimento all’applicazione residuale alla cooperativa della disciplina
prevista per le società per azioni oppure di quella prevista per le società a responsabilità limitata,
soffermarsi brevemente sul dibattito relativo alla strutturazione della partecipazione sociale come
„quota„ o come „azione„; prima della riforma l’art. 2514 C.C. disponeva come normale l’ipotesi che le
partecipazioni dei soci fossero rappresentate da quote, facoltizzando tuttavia l’atto costitutivo delle
cooperative a responsabilità limitata a prevedere che fossero rappresentate da azioni. La scelta dei
fondatori, in tal senso, era libera (Petrelli „I profili patrimoniali e finanziari nella riforma delle società
cooperative„ Studio n. 5307/I approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato in CNN Notizie, Anno
IX, n. 201 ).
La nuova disciplina da un lato permette all’atto costitutivo, ricorrendo i presupposti di cui si è detto, di
richiamare non più le sole norme previste per le S.p.A., ma anche quelle previste per le S.r.l., dall’altro
non prevede più una norma di tenore analogo a quella del citato art. 2514 C.C.: si è posto pertanto il
quesito se la cooperativa strutturata in forma di S.p.A. possa continuare a struttura le partecipazioni dei
cooperatori come quote oppure se sia necessario che esse siano rappresentate da azioni. Nonostante
l’opinione difforme di autorevoli voci in dottrina (Bonfante „La compatibilità e/o l’applicabilità delle
norme in materia di s.p.a. e s.r.l. alle società cooperative„ in Gli statuti delle imprese cooperative dopo
la riforma del diritto societario, a cura di Vella, Torino, 2004, p. 127), sembrerebbe più corretto
sostenere che, sul punto in esame, continuino a non porsi vincoli inderogabili per i soci, soprattutto in
considerazione del fatto che le norme sulle azioni di S.p.A. sono in gran parte incompatibili con la
particolare struttura delle cooperative (Tonelli „Commento all’art. 2515 C.C.„ cit. p. 46; Genco „La
struttura finanziaria„ in La riforma delle società cooperative, a cura di Genco, Ipsoa, 2003 p. 62). Del
resto, da un lato la disciplina della partecipazione sociale è quasi integralmente già prevista dalle norme
sulle cooperative, sia per quanto riguarda la loro circolazione (Artt. 2530 e 2534 C.C.), sia per quanto
riguarda lo scioglimento del vincolo individuale, sia per quanto riguarda l’acquisto di partecipazioni
proprie (art. 2529 C.C.), dall’altro l’azione, nelle cooperative, ha una funzione ben diversa da quella
che ricopre nelle S.p.A., considerato che la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali è comunque
collegata all’iscrizione presso il libro Soci e da ultimo anche le azioni possono adesso, in forza del
nuovo art. 2346 C.C., essere dematerializzate; in sostanza la suddivisione del capitale delle cooperative
in azioni piuttosto che in quote non porta a rilevanti conseguenze pratiche, se non per quanto riguarda il
profilo dell’unitarietà o meno della partecipazione ed ella necessità che l'atto costitutivo ne indichi o
meno il valore nominale.
4. La realizzazione della causa mutualistica - pari trattamento - regolamenti interni Come noto, la cooperativa si distingue dalle società lucrative in particolar modo sotto il profilo causale;
lo scopo economico che anima la partecipazione dei soci agli enti commerciali non si realizza infatti
attraverso la distribuzione agli stessi, in forma di dividendo, dei risultati attivi dell’impresa sociale,
bensì attraverso l’instaurazione tra società e socio di un rapporto ulteriore, diverso da quello sociale e
collegato ad esso, a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle che sarebbe possibile ottenere sul
mercato (sulla distinzione tra il rapporto sociale e quello mutualistico, nascente da un autonomo
contratto stipulato tra società e socio, la dottrina e la giurisprudenza sono adesso sostanzialmente
concordi. Vedi Galgano „Il nuovo diritto societario„, Cedam, 2003, p. 494 e, già prima della riforma,
Bassi „Le società cooperative„ Torino 1995, p. 242; Oppo „L’essenza della società cooperativa e gli
studi recenti„ in Riv. Dir. Civ. 1959, I, p. 388; in giurisprudenza tra le tante Cass. 16 ottobre 1985 n.
5090 in Giust. Civ. 1986, I, p. 66; Cass. 3 marzo 1998 n. 2315 in Società 1998, p. 1035).
Che la causa mutualistica si realizzasse attraverso l'instaurazione di un ulteriore rapporto di scambio tra
società e socio già era specificato, prima della riforma, dalla Legge 3 aprile 2001 n. 142 sulle
cooperative di lavoro, la quale espressamente prescriveva l’instaurazione, tra il partecipante e l’ente, di
un autonomo rapporto di lavoro in forma autonoma o subordinata.
Il decreto di riforma conferma ed approfondisce tale configurazione della causa mutualistica nei
termini di „mutualità interna„, di „gestione di servizi dalla cooperativa a favore dei soci cooperatori„
(Capobianco „La nuova mutualità nelle società cooperative„ in Riv. Not. 2004, p. 637; Paolucci „La
mutualità dopo la riforma„ in Società 2003, p. 398), strutturando tutta una serie di norme proprio sul
presupposto dell’esistenza di un rapporto sinallagmatico di scambio tra ente e socio (Cass. 6 dicembre
2000 n. 15489 in Arch. Civ. 2001, p. 3145) e della sua concreta ed effettiva realizzazione. Si consideri
in tale prospettiva il disposto degli articoli 2542 e 2543 C.C., laddove si prevede la facoltà di attribuire
ai soci appartenenti a diverse categorie diritti particolari di elettorato passivo nella scelta degli
amministratori e dei sindaci, diverse categorie che debbono essere interpretate proprio in riferimento
alla possibile diversa partecipazione dei soci allo scambio mutualistico (così Petrelli in „I profili della
mutualità nella riforma delle società cooperative„ Studio n. 5308/I approvato dal Consiglio Nazionale
del Notariato 29 ottobre 2004 in CNN Notizie, Anno IX, n. 199); si consideri altresì il quarto comma
dell’art. 2538 C.C., laddove si accenna ai soci che realizzano lo scopo mutualistico attraverso
l’integrazione alle rispettive imprese, per permettere allo statuto di attribuire loro un voto plurimo in
ragione della partecipazione allo scambio mutualistico; si consideri l’art. 2533 comma primo n. 1 e 2,
che individua nell’inadempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto mutualistico una causa di
esclusione; si consideri infine l’art. 2545 C.C. che impone agli amministratori ed ai sindaci di indicare
espressamente, nelle relazioni di cui agli articoli 2428 e 2429 C.C., i criteri seguiti nella gestione
sociale per il conseguimento dello scopo mutualistico.
Vedi Clausola n. 1
Accolta tale impostazione e chiarita la rilevanza, per la realizzazione causale della cooperativa,
dell’effettiva instaurazione con il socio di un rapporto di scambio ulteriore rispetto al rapporto sociale,
la riforma in maniera innovativa impone adesso ai fondatori di formalizzare già all’interno dell’atto
costitutivo le regole dirette a disciplinare il rapporto mutualistico (art. 2521 C.C. comma secondo:
„L’atto costitutivo stabilisce le regole per lo svolgimento dell’attività mutualistica„), evidenziando in
tal modo come le sue concrete modalità realizzative debbano non solo essere ben presenti ai soci sin
dal primo momento di vita dell’ente, ma debbano altresì essere manifestate nella redazione del
documento chiamato a regolarne l’attività per il futuro.
Sul punto occorre un breve chiarimento. Ferma la critica di parte della dottrina, che ha evidenziato
comunque la genericità della locuzione utilizzata dal Legislatore (Ceccherini-Schirò „Società
cooperative e mutue assicuratrici„ in La Riforma del Diritto Societario, Giuffré, 2003 p. 57), appare
corretto sostenere che ad essere inserita nell’atto costitutivo debba essere non tanto la regolazione dello
specifico rapporto contrattuale da instaurare con il socio cooperatore, che sarà evidentemente oggetto di
negoziazione successiva, quanto le norme alle quali dovranno conformarsi gli organi sociali
nell’instaurazione di tali ulteriori rapporti (In senso conforme Petrelli Studio CNN n. 5308/I cit.).
E’ possibile naturalmente interrogarsi circa l’esistenza di eventuali limitazioni legali alla regolazione
statutaria dello scambio mutualistico.
Un primo limite inderogabile all’autonomia dei soci fondatori è senza dubbio costituito dal principio di
parità di trattamento tra i soci cooperatori, già riconosciuto da dottrina e giurisprudenza (Buonocore
„Diritto della cooperazione„ Bologna, 1997, p. 129; in giurisprudenza Cass. 23 marzo 2004 n. 5724 in
Foro It. Rep. 2004, voce Contratto in genere n. 49: Cass. 24 gennaio 1990 n. 420 in Società 1990, p.
750.), oggi confermato nella nuova formulazione dell’art. 2561 C.C. (sull’inderogabilità del principio
di parità vedi Trimarchi „Le nuove società cooperative„ Ipsoa, Milano, 2004, p. 36) e giustificato non
solo dall’applicazione del generale obbligo di bona fides in exequendum, ma anche dall’opportunità di
garantire uno spirito di effettiva e reciproca collaborazione tra società e socio (Ceccherini-Schirò cit. p.
35); tale principio peraltro, secondo l’opinione della dottrina prevalente, non implica certamente che la
società debba regolare i propri rapporti con i soci secondo modalità perfettamente ugualitarie, bensì
impone di applicare pari condizioni a tutti i soci che, nell’esecuzione del rapporto mutualistico, si
trovino in una situazione oggettivamente uguale: in altre parole, le disparità di trattamento debbono
essere collegate, nell’instaurazione ed esecuzione dello scambio mutualistico, a situazioni
oggettivamente non uguali (ad esempio una diversa retribuzione tra i soci di una cooperativa di lavoro
sarà validamente giustificata dalla titolarità, in capo ai soci lavoratori, di qualifiche professionali
differenti. Sul punto tra i tanti Tonelli „Commento all’art. 2516„ in La Riforma delle Società, a cura di
Sandulli e Santoro, Torino 2003, p. 51; Bassi „Cooperazione e mutualità. Contributo allo studio della
cooperativa di consumo„, Napoli, 1976, p. 137). Interessante rilevare come alcuni autori facciano
discendere dall’obbligo di osservare la parità di trattamento il corollario per il quale la cooperativa
debba stipulare ed eseguire i diversi contratti mutualistici sulla base di „condizioni generali di
contratto„ (Petrelli, Studio CNN n. 5308/I cit.).
Vedi Clausola n. 1
Secondo alcuni autori un secondo limite inderogabile, da rispettare nella regolamentazione statutaria
del rapporto mutualistico, dovrebbe essere individuato nell’esistenza di un vero e proprio obbligo di
instaurare detto rapporto a carico dell’ente cooperativo ed a favore di ogni socio e, correlativamente,
nell’esistenza di un „diritto soggettivo„, a favore del socio cooperatore, alla stipulazione del contratto
mutualistico con la società. Negli stessi termini si potrebbe porre il dubbio circa l’obbligo del socio
all’instaurazione del rapporto di scambio con l’ente.
La dottrina e la giurisprudenza prevalenti negano tuttavia che la questione possa essere posta in questi
termini; l’interesse a che la gestione sociale si realizzi in maniera efficiente ed economica confligge
con la mancanza di discrezionalità in capo agli amministratori nel decidere se instaurare o meno il
rapporto mutualistico con il socio (in questo senso tra i tanti Genco „Scopo mutualistico e gestione
dell’impresa„ in Cooperative, Consorzi, Raggruppamenti, a cura di Schiano di Pepe, Milano, 1999, p.
44; Ceccherini-Schirò cit. p. 34; Tonelli „Commento all’art. 2516„ cit. p. 49; Tatarano „L’impresa
cooperativa„ in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, diretto da Cicu-Messineo, Milano 2002, p.
62), ferma tuttavia la possibilità per il singolo di agire nei confronti della cooperativa laddove il rifiuto
a contrarre non fosse motivato da oggettivi interessi dell’ente (Cass. 8 settembre 1999 in Foro It., 2000,
I, p. 43). La questione, in altre parole, dovrebbe essere considerata nello stesso modo in cui la
giurisprudenza analizza le deliberazioni assembleari relative alla mancata distribuzione degli utili nelle
società di capitali: nessuna norma impone di disporre l’attribuzione di dividendi ai soci, anzichè la loro
imputazione a riserve, ma la reiterata decisione di trattenere presso le casse sociali il risultato attivo
d’esercizio deve essere motivata da esigenze economiche dell’ente, quale ad esempio
l’autofinanziamento, e non da abusi del gruppo di maggioranza.
Resta peraltro possibile, seppure la Legge non lo imponga, che sia lo statuto a prevedere uno specifico
obbligo a contrarre a carico della società (Carrabba "Atto costitutivo, autonomia contrattuale e aspetti
mutualistici del tipo societario cooperativo„ in Riv. Not. 2002, p. 1090).
Vedi Clausola n. 2
Appare opportuno svolgere ancora due considerazioni in merito all'obbligo di regolare statutariamente
le modalità di instaurazione ed esecuzione del rapporto mutualistico.
In primo luogo la dottrina prevalente esclude che lo statuto mancante di una qualche forma di disciplina
del rapporto mutualistico debba considerarsi affetto da nullità; certamente il Notaio rogante, in ordine
ai suoi doveri di diligenza professionale e soprattutto a seguito della parziale soppressione delle
omologazioni giudiziali ai sensi della Legge n. 340/2000, dovrebbe curare e verificare la completezza
dell’atto costitutivo anche sotto tale aspetto (Trimarchi „Le nuove società cooperative„ cit. p. 26), ma il
principio di tassatività delle ipotesi di nullità previsto dall’art. 2332 C.C., applicabile alle cooperative in
forza del rinvio di cui all’art. 2523 C.C. comma secondo, dovrebbe escludere che una simile mancanza
sia foriera di conseguenze tanto drastiche (per l’integrale applicazione dell’art. 2332 C.C. alle
cooperative vedi Cavanna „Commento all’art. 2523 C.C.„ in Il nuovo diritto societario, commentario
diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, Zanichelli, 2004 p. 2461 conclusione ribadita
dall’autore in „Commento all’art. 2523 C.C.„ in Codice commentato delle nuove società, a cura di
Bonfante, Corapi, Marziale, Rordorf e Salafia, Ipsoa, 2004 p. 1455).
In secondo luogo occorre tenere a mente che l’ultimo comma dell’art. 2521 C.C. attribuisce ai soci la
facoltà di redigere regolamenti che disciplinino „i criteri e le regole inerenti lo svolgimento dell’attività
mutualistica tra società e soci„.
La redazione di documenti concretamente integrativi delle disposizioni statutarie già aveva trovato
frequente applicazione prima della Riforma, anche in mancanza di una norma generale che ne
legittimasse l’adozione per ogni tipo cooperativo.
Si trattava in ogni caso di atti solitamente destinati a meglio precisare i meccanismi di funzionamento
degli organi sociali (si segnala peraltro come l’art. 14 D. L.C.P.S. n. 1577/1947 accennasse a tali
regolamenti prevedendo che essi, se esistenti, dovessero essere esibiti al Prefetto in sede di iscrizione al
Registro. Sul punto Capponi „L’iscrizione delle cooperative nel registro prefettizio e nello schedario
generale della cooperazione„ in Diritto e pratica tributaria, 1991, I, p. 42), oppure a regolamentare nel
dettaglio lo svolgimento del rapporto mutualistico (di questo tipo i regolamenti sui prestiti sociali e
quelli previsti dall’art. 6 della Legge n. 142/2001 in merito alla tipologia di rapporti di lavoro che si
intende instaurare con i soci lavoratori); l’art. 2521 C.C., come detto, si riferisce proprio a questo
secondo tipo di regolamenti.
Come coordinare tale prescrizione con la necessità che le regole relative allo svolgimento del rapporto
mutualistico debbano necessariamente essere inserite già nell’atto costitutivo?
Secondo una prima opinione ad essere necessariamente contenute nell’atto costitutivo dovrebbero
essere le sole disposizioni attributive di diritti soggettivi alla società o ai soci, le altre potendo essere
rinviate alla disciplina regolamentare (Marasà „Riflessi dei caratteri funzionali delle nuove cooperative
sulla redazione dell’atto costitutivo„ in Riv. Not. 2004, p. 256); forse più condivisibile è la tesi per la
quale il regolamento non contenuto nell’atto costitutivo dovrebbe contenere la sola normativa di
dettaglio (Tra gli altri Trimarchi „Le nuove società cooperative„ cit. p. 70).
Ancora diversa è infine l’opinione per la quale i soci non sarebbero vincolati ad inserire nell’atto
costitutivo piuttosto che nel regolamento questa o quella norma regolatrice dello scambio mutualistico,
ma solo l’inserimento nell’atto costitutivo potrebbe attribuire a tale norma una rilevanza esterna e
quindi permettere l’impugnazione delle decisioni sociali che la violino (Petrelli studio CNN n. 5308/I
cit.).
Vedi Clausola 3
Quanto alla natura giuridica degli atti in esame, la suaccennata disciplina recepisce l’orientamento della
dottrina precedente nel ritenere che il regolamento, a scelta dei soci, possa costituire parte integrante
dell’atto costitutivo oppure essere contenuto in un atto separato (sul punto Vecchi „Le società
cooperative„ Giuffré, 2001, p. 67); nel primo caso esso sarà soggetto alla stessa disciplina dell’atto
costitutivo, quanto alla sua redazione e successiva modificazione (App. Torino 10 aprile 1992 in Le
Società, 1992, p. 1523; Jaeger „Il regolamento assembleare della Banca Popolare di Novara„ in Giur.
Comm. 1989, I, p. 191. La soluzione è confermata, anche con riferimento alla nuova disciplina, da
Petrelli studio CNN n. 5308/I cit.) mentre, nell’ipotesi che il regolamento costituisca un atto separato,
l’art. 2521 citato dispone che per la sua modificazione sia necessaria l’approvazione assembleare con i
quorum previsti per le assemblee straordinarie. Proprio in relazione a quest’ultimo punto la dottrina si è
divisa tra chi ritiene che la norma riservi l’adozione e la modificazione dei regolamenti all’assemblea
straordinaria vera e propria, con conseguente necessità della verbalizzazione notarile (Rossi „Impresa
cooperativa e regolamento interno„ in Gli statuti delle imprese cooperative dopo la riforma del diritto
societario, a cura di Vella, Torino, 2004, p. 143; Trimarchi „Le nuove società cooperative„, cit. p. 71) e
chi diversamente sostiene che, sempre sul presupposto che il regolamento non costituisca parte dell’atto
costitutivo, la competenza rimarrebbe all’assemblea ordinaria, giustificandosi la necessità che essa
incidentalmente debba deliberare con i quorum previsti per quella straordinaria con l’esigenza di
attribuire una certa stabilità a regole così importanti come quelle relative all’esecuzione del rapporto
mutualistico (Cavanna „Delle società cooperative„ cit. p. 2444; Gardella „I regolamenti per lo
svolgimento dell’attività mutualistica„ in Coop. e consorzi, 2004, p. 27).
Per inciso, sembra corretto affermare che, in caso di cooperativa regolata in via residuale dalle norme
sulla S.r.l., il riferimento all’assemblea straordinaria vada interpretato come riferita alle maggioranze
richieste per la modifica dell’atto costitutivo (così Petrelli studio CNN n. 5308/I cit.; vedi anche, con
riferimento ad altre norme di uguale tenore quale l’art. 2487, Caccavale, Magliulo, Tassinari
„Scioglimento e liquidazione„ in La riforma delle società a responsabilità limitata, Ipsoa, Milano,
2003 p. 507).
L'importanza dell'instaurazione di un rapporto di scambio mutualistico, ai fini della realizzazione della
causa cooperativistica, impone un'ultima osservazione, riferita agli effetti sul rapporto sociale dello
scioglimento di quello mutualistico e viceversa.
Sembra in proposito corretto sostenere che se un soggetto cessa di appartenere alla compagine sociale,
si sciolga automaticamente anche l'ulteriore rapporto mutualistico intrattenuto con la società; è chiaro
infatti che il vantaggio derivante dal mantenimento di certi rapporti con la cooperativa non può che
essere riservato a coloro che siano soci cooperatori.
Non altrettanto il contrario: in realtà, si è osservato, il cooperatore non è titolare di un diritto soggettivo
all'instaurazione del distinto rapporto mutualistico con la società, cosicchè lo scioglimento di
quest'ultimo non comporta necessariamente l'esclusione del socio dalla cooperativa.
Vedi Clausola 4.
5. I ristorni Fortemente collegata alla realizzazione della mutualità interna è la nuova disciplina dei ristorni, diretta
a regolare un istituto prima contemplato unicamente dalla legislazione speciale (sulla disciplina dei
ristorni prima della riforma, a titolo esemplificativo, Paolucci „I ristorni nelle società cooperative„ in
Società, 2000, p. 43; Bonfante „Il diritto al ristorno nelle società cooperative„ in Società 1997; dopo la
riforma Cusa „I ristorni nella nuova disciplina delle società cooperative„ in La riforma del diritto
cooperativo, a cura di Graziano, Cedam, 2002, p. 11; Balzano „La destinazione dei risultati - I ristorni„
in Le cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario, a cura di Marasà, Cedam, 2004, p.
163; Rocchi „La nuova disciplina dei ristorni„ in Gli statuti delle imprese cooperative dopo la riforma
del diritto societario, a cura di Vella, Torino, 2004, p. 55).
Il ristorno consiste in un’attribuzione economica effettuata dalla società a vantaggio dei soci e
proporzionale alla qualità e quantità del rapporto mutualistico corrente con essi; in altre parole l’ente
cooperativo può soddisfare l’interesse del socio non immediatamente, garantendogli condizioni più
vantaggiose nello svolgimento del rapporto di scambio mutualistico, bensì successivamente,
trasferendogli in forma pecuniaria il risultato attivo dell’attività svolta con esso. Quello che conta, e che
distingue il ristorno dal dividendo, è che tale attribuzione pecuniaria venga effettuata a favore dei
cooperatori in proporzione all’entità dello scambio mutualistico realizzato da ognuno di essi e non alla
quota di capitale detenuta.
Si tratta quindi di un trattamento economico ulteriore per i soci di cooperative di lavoro, della
restituzione di parte del prezzo e dei servizi acquistati nelle cooperative di consumo, e così via
(Petrelli, Studio CNN n. 5308/I cit.).
Di particolare rilevanza la questione della loro natura giuridica: da un lato alcuni autori ritengono che
ogni cooperatore sia titolare di un vero e proprio diritto soggettivo all’attribuzione del ristorno che, dal
punto di vista dell’ente, dovrebbe quindi essere considerato come un costo di gestione; dall’altro la tesi
ampiamente prevalente nega tale qualificazione giuridica considerando il ristorno come parte dell’utile
d’esercizio, anche in considerazione della possibilità di aumentare gratuitamente il capitale attraverso
l’imputazione dei ristorni, operazione che non sarebbe possibile se essi rientrassero tra le passività
(Così tra i tanti Cusa „I ristorni nella nuova disciplina delle società cooperative„ cit. p. 14; Bonfante
„Delle società cooperative„ in Il nuovo diritto societario commentario diretto da Bonfante, Cottino,
Cagnasso e Montalenti, Zanichelli, 2004 p. 2627; Grumetto „La società cooperativa alla luce della
riforma„ in Il nuovo diritto societario, II, a cura di Galgano e Genghini, Padova, 2004, p. 1150).
Come non esiste un diritto soggettivo del socio cooperatore al godimento del vantaggio mutualistico,
così, secondo quest’ultima impostazione, non dovrebbe sussistere un obbligo degli organi sociali di
attribuire il ristorno ai cooperatori; nulla toglie peraltro che, pur non sussistendo un diritto dei soci alla
percezione dei ristorni, tale diritto sia previsto in sede statutaria
La riforma, come anticipato, innova fortemente rispetto all’istituto in esame.
Anzitutto risolvendo la questione se ad essere distribuiti attraverso la tecnica dei ristorni siano solo i
risultati dell’attività svolta dalla cooperativa con i soci oppure se, per la loro attribuzione, sia possibile
attingere all’utile complessivo, comprensivo di tutti i saldi attivi, anche di quelli derivanti dall’attività
con i terzi: la prima soluzione appare necessitata alla luce del nuovo art. 2545 sexies C.C. comma
secondo, che vincola gli amministratori a riportare separatamente nel bilancio i dati relativi all’attività
svolta con i soci (in senso conforme Bonfante „Delle società cooperative„ cit. p. 2625; Genco „La
struttura finanziaria„ in La riforma delle società cooperative, a cura di Genco, Ipsoa, 2003 p. 91) ed è
sostenuta anche da tutti coloro che definiscono il ristorno in termini di „avanzo di gestione derivante
dall’o svolgimento dell’attività propria della cooperativa con i soci„.
In secondo luogo disponendo a carico dei soci fondatori un vero e proprio obbligo di regolare la
distribuzione dei ristorni nell’atto costitutivo (art. 2545 secies C.C. primo comma). E’ questo l’aspetto
che più direttamente rileva in questa sede, dovendosi verificare entro quali limiti, supposto che ve ne
siano, e secondo quali criteri i soci debbano disciplinare la distribuzione dei ristorni durante la vita
sociale.
Un primo limite, a parere di alcuni autori, sarebbe costituito dall'inammissibilità di una clausola che
escluda in modo assoluto la suddetta distribuzione (così tra gli altri Bonfante „Delle società
cooperative„ cit. p. 2628; Rocchi „La nuova disciplina dei ristorni„ cit. p. 65). Tale opinione non è
peraltro pacificamente accolta in dottrina (Montagnani Paciello „Commento all’art. 2521„ in La
riforma delle società, a cura di Sandulli e Santoro, Torino, 2003, p. 67; De Stasio-De Stefano-Setti in
„Le società cooperative„ in Il nuovo ordinamento delle società. lezioni sulla riforma e modelli
statutari, Ipsoa, 2003, p. 411).
Un secondo aspetto di regolamentazione statutaria potrebbe riguardare l’apposizione di limiti massimi,
in termini quantitativi, alla distribuzione del ristorno: la legge non ne impone, ad eccezione della
particolare ipotesi dei soci di cooperative di lavoro, ai quali non può essere attribuito un ristorno
complessivamente superiore al 30% dei trattamenti retributivi complessivi, e non trovano pertanto
applicazione riguardo ai ristorni né le limitazioni previste per i dividendi dagli artt. 2514 lett. a) e 2545
quinquies C.C. comma primo né limiti di proporzionalità rispetto alla misura del capitale sociale.
Nemmeno, a parere della dottrina prevalente, esiste legalmente un qualche obbligo di distribuire i
ristorni con preferenza rispetto ai dividendi (Bonfante „Delle società cooperative„ cit. p. 2348).
Potrebbero così essere i fondatori stessi a porre, dal lato quantitativo della distribuzione oppure con
riferimento all’attribuzione dei dividendi, una qualche forma di divieto o di obbligo ancorata a
parametri oggettivi (Petrelli Studio CNN n. 5398/I cit.).
Occorre puntualizzare come, ferma la necessità che l’atto costitutivo contenga le linee generali relative
alla distribuzione dei ristorni, le considerazioni sopra esposte, in merito alla possibilità che le modalità
di concreta attuazione dello scambio mutualistico siano rimandate a successive disposizioni
regolamentari, consentono ai fondatori di rinviare ai regolamenti anche l’enunciazione dei criteri di
dettaglio per la distribuzione dei ristorni.
Quanto ai criteri di ripartizione, essi evidentemente saranno definiti in sede statutaria con riferimento al
particolare tipo di cooperativa di cui si tratta e, di conseguenza, al tipo di rapporto mutualistico
instaurato tra ente e socio (ad esempio in una cooperativa di lavoro l’atto costitutivo potrebbe collegare
la misura del ristorno ricevuto alla qualifica professionale del socio, al numero di ore lavorative
prestate e così via. Vedi Rocchi „La nuova disciplina dei ristorni„ vit. P. 57): ciò che si considera
assolutamente non legittimo è che i criteri di ripartizione siano tali da escludere un collegamento tra la
misura del ristorno a quella della quantità o qualità (da intendersi alternativamente, vedi Marasà
„Riflessi dei caratteri funzionali delle nuove cooperative sulla redazione dell’atto costitutivo„ in Riv.
Not. 2004, p. 257) dello scambio mutualistico concretamente corrente tra società e socio, ad esempio
prevedendo la ripartizione sempre in quote uguali tra i vari cooperatori (Sul punto Marasà „Riflessi dei
caratteri funzionali delle nuove cooperative sulla redazione dell’atto costitutivo„ cit. p. 257). Vi è
peraltro chi ritiene legittima una parziale deroga dettata da motivi solidaristici (Masotti „Le clausole
mutualistiche ed il ristorno cooperativo„ in Società 2004, p. 1074).
Ulteriori questioni che lo statuto potrebbe utilmente regolare sono quelle a) delle poste di bilancio
utilizzabili per la distribuzione dei ristorni, b) delle modalità di assegnazione ai soci del ristorno.
Sotto il primo aspetto si discute in dottrina se siano utilizzabili non solo gli utili d’esercizio, ma anche
riserve accantonate in esercizi precedenti (parte della dottrina lo nega argomentando che,
parametrandosi l’entità del ristorno all’intensità dello scambio mutualistico, si renda necessario il
riferimento ad un arco temporale definito. Vedi Pisani „La disciplina dei ristorni nelle società
cooperative„ in Fisco, 2004, p. 647).
Sotto il secondo aspetto, si ritiene ammissibile, e lo statuto potrebbe utilmente chiarirlo, che il ristorno
sia distribuito non solo in denaro, ma anche con mezzi diversi ad esempio attraverso l’emissione di
nuovi strumenti finanziari o attraverso la distribuzione di beni in natura, purché di valore certo (Vedi
Bonfante „Delle società cooperative„ cit. p. 2629; Costi „Autonomia statutaria e nuove modalità di
finanziamento delle imprese cooperative„ in Gli statuti delle imprese cooperative dopo la riforma del
diritto societario, a cura di Vella, Torino, 2004, p. 34)
Non ammissibile è infine che lo statuto deroghi alla disciplina legale nell’attribuire la competenza a
deliberare la distribuzione dei ristorni ad organi diversi dall’assemblea ordinaria dei soci, in quanto
organo chiamato ad approvare il bilancio d’esercizio (tra gli altri Cusa „I ristorni nella nuova disciplina
delle società cooperative„ cit. p. 22).
Vedi Clausola 5
6 Oggetto sociale e requisiti di ammissione dei soci Il nuovo art. 2521 C.C. non si limita più a prevedere che l'atto costitutivo indichi l'oggetto sociale, ma,
più analiticamente, dispone che detta indicazione debba essere specifica e debba essere collegata ai
requisiti ed interessi dei soci.
La questione della specificità dell'oggetto sociale non è tipica delle sole cooperative, essendo comune
ad ogni tipo di ente societario, commerciale e non, la preoccupazione che i soci, vuoi per delimitare
l'ambito operativo degli amministratori, vuoi per evitare l'indeterminatezza dell'atto e quindi la sua
nullità ai sensi dell'art. 1346 C.C., definiscano in modo sufficientemente analitico il tipo di attività che
l'ente intende intraprendere.
E' certo tuttavia come parlando di cooperative la questione assuma una rilevanza ulteriore rispetto alle
considerazioni suddette (in questo senso anche Petrelli Studio CNN n. 5308/I cit.), dal momento che è
proprio in riferimento allo scopo ed all'oggetto della società che è possibile definire i caratteri del
rapporto mutualistico concretamente operante tra i cooperatori e l'ente e, di conseguenza, i requisiti che
essi debbano possedere per entrare a farne parte. In altre parole, l'utilità economica che i soci
ritraggono dalla partecipazione alle società di capitale è di tipo lucrativo, consiste cioè nella percezione
di una somma di denaro, gli utili, rispetto ai quali per definizione è assolutamente indifferente la
soggettività del destinatario; diversamente accade nelle cooperative, laddove il socio concretizza il
proprio vantaggio economico attraverso l'instaurazione con l'ente di un rapporto (il rapporto
mutualistico) diverso ed accessorio rispetto a quello societario: è pertanto evidente che in tanto sarà
possibile per il cooperatore addivenire al vantaggio mutualistico che caratterizza la sua partecipazione,
in quanto egli abbia requisiti soggettivi che, in relazione all'attività della società, permetta di instaurare
con essa il rapporto mutualistico di cui si è detto.
Appare in tal modo essenziale da un lato che l'oggetto sociale sia definito in modo particolarmente
preciso (sull’abbandono di formule volutamente ampie e generiche vedi Carrabba „Aspetti negoziali
mutualistici del tipo societario cooperativo„ in Riv. Not., 2003, p. 1075), onde permettere
l'individuazione non equivoca di quali requisiti debbano possedere gli interessati per sottoscrivere quali
cooperatori l'atto costitutivo o per accedere all'ente in un momento successivo, dall'altro,
specularmente, che i requisiti statutariamente individuati per selezionare l'ingresso di nuovo soci siano
correttamente individuati con riferimento all'oggetto sociale (e quindi alla concreta possibilità di
instaurare con l'ente un proficuo rapporto mutualistico).
Tali considerazioni suggeriscono di analizzare la questione con particolare riguardo a due delle
problematiche evidenziate dalla dottrina.
In primo luogo si rende necessario individuare il grado di analiticità richiesto nella descrizione dei
requisiti che debbano essere posseduti dai soci cooperatori. La questione già prima della riforma era
stata fortemente dibattuta in dottrina e giurisprudenza, soprattutto in relazione alle cooperative di
lavoro: ci si è chiedeva infatti se cooperatori potessero essere unicamente i soggetti che svolgessero la
stessa attività lavorativa dell'ente e che pertanto fossero concretamente in grado di instaurare un
rapporto mutualistico di lavoro; in questo senso sembrava essere orientata la lettera dell'art. 23 del D.
L.gs. C.P.S. 14 dicembre 1947 n. 1577 e del successivo art. 2 L. 17 febbraio 1971 n. 127 e nello stesso
senso si era pronunciata più volte la giurisprudenza di merito (Vedi Trib. Udine 6 febbraio 1996 in Dir.
Fall. 1996, II, p. 1136; Trib. Udine 6 febbraio 1996 in Società, 1996, 5, p. 569; Trib. Napoli 15 gennaio
1985 in Il Foro Italiano 1986, I, p. 259; Trib. Napoli 19 luglio 2000 - App. Napoli 3 novembre 2000 in
Riv. Not, 2001, p. 223).
Fortemente rappresentata in dottrina era tuttavia anche la tesi opposta, che interpretava in maniera
meno rigorosa le disposizioni normative di cui sopra e tendeva ad attribuire loro il valore di un mero
richiamo alla necessità che, ovviamente, i requisiti dei soci non fossero inconciliabili con l'oggetto
sociale: in sostanza non sarebbe stata necessaria l'assoluta coincidenza tra attività lavorativa del socio e
l'oggetto sociale, vuoi perchè nulla toglie che essa avrebbe potuto cambiare dopo la costituzione
dell'ente (vedi App. Trieste 3 maggo 1984 in Società, 1984, p. 1156), vuoi perché la normativa citata
avrebbe dovuto essere interpretata evolutivamente nel senso che "i soci di cooperative di lavoro
possono essere tutti coloro che hanno interesse a svolgere una prestazione di lavoro associato collegato
all'oggetto sociale della cooperativa stessa", anche se non esattamente coincidente con esso (Bassi
"Oggetto sociale e requisiti dei soci nell'ambito del controllo giudiziario sulla costituzione di società
cooperative" in Giur. Comm. 1987, II, p. 120; in senso conforme, dopo la riforma, Bonfante „Delle
imprese cooperative„ cit. p. 244, il quale sottolinea inoltre come la necessità che il socio possegga
determinati requisiti professionali già al momento dell’adesione interdirebbe l’ingresso ai disoccupati,
che più di altri avrebbero invece interesse a partecipare a cooperative di lavoro. Vedi Bonfante
„Cooperative di lavoro, requisiti dei soci e attività part-time„ cit. ).
La questione si è riproposta in tutta la sua rilevanza dopo la riforma, trovando concorde la dottrina nel
ritenere come insufficienti clausole meramente ripetitive della lettera della Legge (Schirò-Ceccherini
„Società cooperative e mutue assicuratrici„ cit. p. 88), ma anche nell’ammettere clausole che, se non
tanto generiche da escludere ogni collegamento con la realizzazione della causa mutualistica del
rapporto sociale, siano determinate in misura non eccessivamente rigida (Trimarchi „Le nuove società
cooperative„ cit. p. 59; Bassi „Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici„ cit. p. 393): in
sostanza sembra sufficiente che la clausola relativa all’individuazione dei requisiti dei soci ritenga
necessaria da parte di essi la titolarità di un interesse anche solo astratto alla partecipazione sociale
(Montagnani-Paciello „Commento all’art. 2521 C.C.„ cit. p. 66) oppure che detta clausola sia espressa
in negativo, attraverso la sola indicazione dei requisiti che il cooperatore debba necessariamente non
possedere (Grumetto „La società cooperativa alla luce della riforma„ cit. p. 1101).
E’ comunque evidente, quale principio generale, che i criteri individuati dall’atto costitutivo non
dovranno avere carattere discriminatorio facendo riferimento ad elementi di valutazione arbitraria e
scollegata dalla realizzazione dello scopo mutualistico, se non addirittura ad elementi che la stessa
Costituzione impedisce siano utilizzati come criterio distintivo (Sesso, religione, etnia etc. Vedi sul
punto Bonfante „Delle società cooperative„ cit. p. 2495).
Un’ulteriore osservazione, in merito ai requisiti dei soci cooperatori, deve essere riservata al disposto
del secondo comma dell’art. 2527 C.C. che vieta loro di svolgere imprese identiche o affini rispetto
all’attività della cooperativa. La norma porta su di un piano generale una prescrizione prima circoscritta
alle cooperative di lavoro ed a quelle di consumo dall’articolo 23 commi 2 e 4 della Legge Basevi e
giustificata dall’esigenza di evitare situazioni concorrenza tra il socio e la società (Marasà „Le
cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario„ Padova, 2004, p. 235); l’interpretazione
dell’art. 2527 C.C. tuttavia non è pacifica, dibattendosi tra chi ritiene che il tenore della stessa non
consenta altra soluzione che ritenerla destinata ad ogni tipo di cooperativa (Frascarelli „Le nuove
cooperative„, Milano, 2003, p. 69; Fauceglia „Luci ed ombre della nuova disciplina delle società
cooperative„ in Corr. Giur., 2004, p. 1392) e chi, al contrario, continua ad evidenziare come la sua ratio
non ne permetta l’applicazione rispetto a quegli enti cooperativi che svolgano attività naturalmente
affine a quella dei cooperatori, come accade per le cooperative consortili di produzione o servizi; sono
queste, in particolare, società che si propongono di agevolare lo svolgimento di determinate fasi del
processo distributivo o produttivo degli imprenditori soci e che pertanto svolgono per loro natura
attività analoghe a quelle svolte dai cooperatori (Bonfante „Il nuovo diritto societario„ cit. p. 2496;
Ceccherini-Schirò „Società cooperative e mutue assicuratrici„ cit. p. 92).
Una terza impostazione, più realisticamente, ritiene che il divieto vada letto alla luce delle sue finalità,
come detto consistenti nell’evitare situazioni di conflitto di interessi tra la società ed il socio, e che
pertanto sia corretto verificare o meno l’applicabilità della norma, analizzando caso per caso l’effettivo
livello di conflitto tra le rispettive attività (Santosuosso „La riforma del diritto societario„ Milano, p.
281).
Ancora una breve riflessione sui requisiti dei soci; l’art. 23 della Legge Basevi, come noto, riservava
alla questione una serie di prescrizioni. Si è discusso in particolare se i requisiti descritti da tale norma
debbano continuare a ritenersi operanti anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto di riforma.
Da una parte si è argomentato che l’accresciuto ruolo dell’autonomia privata sarebbe adesso
incompatibile con la vigenza della disposizione in esame (Bonfante „Delle società cooperative„ cit. p.
2496), dall’altro si è ritenuto che l’art. 23 dovrebbe considerarsi tuttora operante, dal momento che non
si ravvisa alcuna inconciliabilità assoluta tra il riconoscimento di ampi spazi di autonomia statutaria e
la previsione, in funzione del particolare oggetto di una cooperativa, di limiti legislativi all’ammissione
dei soci. (Ceccherini-Schirò „Delle società cooperative e delle mutue assicuratrici„ cit. p. 90)
Un dibattito simile si è peraltro sviluppato in merito all’ eventuale abrogazione tacita dell’art. 23 citato,
nella parte in cui consente alle società cooperative di lavoro l’ammissione di elementi tecnici ed
amministrativi nel numero strettamente necessario al buon funzionamento dell’ente (il comma sesto,
con disposizione simile, statuiva che anche le cooperative agricole, per lo svolgimento di mansioni
tecniche ed amministrative, avrebbero potuto avvalersi di soggetti che non fossero lavoratori manuali):
la norma era giustificata dall’esigenza di avvalersi dell’operato di soggetti che, in quanto non
interessati allo scambio mutualistico e quindi alla partecipazione quali soci cooperatori, non avrebbero
potuto nel vigore della vecchia normativa essere nominati amministratori. (sul punto Bassi
„Cooperazione e mutualità. Contributo allo studio della cooperativa di consumo„ cit. p. 83). Tale
considerazione, secondo parte della dottrina, renderebbe adesso superflua la possibilità di avvalersi di
elementi tecnici, dal momento che la nuova disciplina (art. 2542 C.C.) non circoscrive più ai soli
cooperatori la facoltà di essere chiamati ad amministrare la cooperativa (Bonfante „Delle società
cooperative„ cit. p. 2495); da altri si è ribattuto che, indipendentemente dal tenore del nuovo art. 254
C.C., può essere certamente opportuna la presenza di persone, diverse dagli amministratori, che
abbiano particolari competenze tecniche (in questo senso Tonelli „Commento all'art. 2527„ cit. p. 97
Ceccherini-Schirò „Società cooperative e mutue assicuratrici„ cit. p. 89).
Sempre in riferimento alla specificità dell’oggetto sociale, la seconda questione che si propone
all’attenzione degli interpreti è quella della possibilità di costituire cooperative aventi un oggetto
sociale polisettoriale, riferito cioè allo svolgimento di una pluralità di attività mutualistiche diverse.
Prima della riforma la giurisprudenza dubitava fortemente della legittimità di costituire cooperative
dall'oggetto sociale eterogeneo, dal momento che la polisettorialità dell'attività sociale avrebbe reso
impossibile individuare a priori le caratteristiche del rapporto mutualistico e, di conseguenza, i requisiti
per l'ammissione dei soci cooperatori (In questo senso, tra le tante, Trib. Napoli.15 gennaio 1985 cit.;
Trib. Udine 6 febbraio 1996 cit.; Trib. Udine 11 marzo 1986 in Giur. Comm. 1987, II, p. 120; Trb.
Udine 7 febbraio 1995 in Giur. Comm. 1997, II, p. 337).
In senso contrario era tuttavia da annoverare l'opinione di parte minoritaria della giurisprudenza (Vedi
App. Bari 16 maggio 1989 in Giur. It. 1990, I, p. 112) e la dottrina prevalente, le quali giustamente
evidenziavano come se anche fosse stato corretto pretendere una sufficiente specificità dell'oggetto
sociale, non solo per generali esigenze di determinatezza dell'oggetto del contratto, ma anche per
permettere la precisa definizione del concreto scambio mutualistico da instaurare con i soci cooperatori,
nulla toglie che la società avrebbe potuto realizzare una pluralità di gestioni mutualistiche svolgendo
anche attività economiche tra loro diverse; la sola conseguenza sarebbe stata che il rapporto
mutualistico si sarebbe diversamente atteggiato in riferimento ai soci diversamente interessati dalle
differenti attività e che, di conseguenza, tali soci avrebbero dovuto possedere caratteristiche soggettive
differenti tra loro (Bonfante „Requisiti dei soci nelle cooperative polisettoriali„ Società, 1989, p.
1079).
Sarebbe rimasta ferma la necessità che tali diverse attività non fossero strutturalmente inconciliabili tra
loro. (Vidiri "Due questioni ricorrenti in sede di omologazione: istituzione di sedi secondarie ed
oggetto sociale plurimo" commento ad App. Bari cit.; Vancini "Brevi note in tema di società
cooperativa con oggetto sociale eterogeneo" commento a Trib. Udine 7 febbraio 1995 cit.; Bassi
"Oggetto sociale.." cit.).
Molteplici, nella pratica degli affari, sono del resto le cooperative che tranquillamente hanno operato e
operano in settori diversi ed il cui atto costitutivo, altrettanto tranquillamente, ha ricevuto il visto di
omologazione da parte di tanti Tribunali italiani.
L'entrata in vigore della nuova disciplina dovrebbe contribuire ad ammorbidire l'atteggiamento di
chiusura mantenuto da una parte della giurisprudenza, dissipando i dubbi residui sulla legittimità delle
cooperative aventi oggetto sociale eterogeneo; in questo senso sembra depongano la lettera dell'art.
2540 C.C. secondo comma, il quale espressamente considera l'ipotesi di una cooperativa che realizzi
più gestioni mutualistiche (in tal senso già Laurini „Il problema dell’omogeneità dell’oggetto di
cooperativa e il tormento delle omologazioni„ in Riv. Not. 1997, II, p. 552), dell'art. 2545 sexies C.C.
secondo comma, il quale precisa come gli amministratori debbano distinguere, redigendo il progetto di
bilancio, tra le diverse gestioni mutualistiche eventualmente condotte dalla società e infine dell’art
2542 C.C. comma quarto, il quale consente all’atto costitutivo di prevedere che uno o più
amministratori siano scelti tra gli appartenenti a particolari categorie di soci (Dabormida „Commento
all’art. 2542„ in Codice commentato delle nuove società, 2004, p. 1551)
Altri autori del resto (Lolli "Estensione dell'oggetto sociale e requisiti dei soci di cooperative di lavoro"
commento a Trib. Udine 6 febbraio 1996 cit.) già in passato hanno evidenziato come la polisettorialità
dell'oggetto sociale sarebbe stata confermata e rafforzata dalla possibilità, ai sensi della L. 59/1992, di
ammettere nella cooperativa anche soci sovventori, aventi interessi finanziari differenti dai cooperatori:
se tale considerazione fosse condivisa, non dovrebbe sfuggire come la nuova e più estesa possibilità di
ammettere soci finanziatori (art. 2526 C.C.) dovrebbe togliere ogni dubbio sulla possibilità che nella
stessa società convivano soci animati da interessi mutualistici diversi e che, conseguentemente, anche
l'oggetto sociale possa essere eterogeneo purchè sufficientemente determinato.
7. Il controllo contabile - Accenni
Un ultimo breve accenno deve essere riservato, in considerazione della sua rilevanza pratica, alla
disciplina del controllo contabile nelle cooperative. Come anticipato non è questa la sede opportuna per
analizzare la nuova disciplina degli organi sociali, ma una sintetica riflessione sul punto appare
necessaria, proprio in relazione all’interesse che esso riveste per l’attività professionale dei dottori
commercialisti.
Mentre, con riferimento alla nomina del Collegio Sindacale, l’art. 2543 C.C. la rende obbligatoria tutte
le volte che la società oltrepassi i limiti dimensionali previsti dall’art. 2477 C.C. per la nomina dello
stesso organo nelle S.r.l. oppure emetta strumenti finanziari non partecipativi, non vi sono norme
specifiche che disciplinino il controllo contabile nelle cooperative; dovrà pertanto, sul punto, farsi
integrale riferimento a quanto disposto in tema di società di capitali.
Ne consegue, schematicamente, che se la cooperativa fa ricorso alle norme sulla S.p.A., il controllo
contabile sarà esercitato da un revisore iscritto nel registro tenuto presso il Ministero della Giustizia
oppure, a scelta, dal Collegio Sindacale (formato in tal caso interamente da revisori iscritti), salvo che,
facendo la società ricorso al mercato del capitale di rischio, essa non sia tenuta ad affidare il controllo
contabile ad una società di revisione; è chiaro che nell’ipotesi in cui un Collegio Sindacale non sia stato
nominato (il ché, come detto, può accadere nel caso in cui la società non oltrepassi certi limiti
dimensionali) sarà necessario affidare l’incarico al revisore.
Nell’ipotesi in cui, invece, la società faccia ricorso alle norme sulla S.r.l., il controllo contabile è
esercitato dal Collegio Sindacale quando siano superati i limiti di cui all’art. 2477 C.C., mentre, in caso
contrario, non essendovi obbligo di controllo contabile non sarà nemmeno necessaria la nomina del
revisore (Sul punto tra gli altri Trimarchi „Le nuove società cooperative„ cit. p. 153; Bonfante „Delle
società cooperative„ cit. p. 2593).