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L’IMMAGINE SCHIZZA VIA DALLE FORME
Omaggio indiscutibile ad Antonio Spagnuolo
L’armonia di un attimo,
che ritorni al destino…
Incantati come per uno struggimento profondo, evocato a
specchio, nomato e rinominato poi con la parola, il verbo
incarnato della poesia… Sempre così giungiamo ai testi, ai libri di
Antonio Spagnuolo (Napoli, 1931), oramai innumerevoli, solo a
pensare che il primo data 1953, ed ebbe il plauso d’un padre
burbero e benefico del nostro ’900, come Umberto Saba…
S’intitolava Ore del tempo perduto, e paradossalmente salda il
cerchio con quest’ultimissimo, felice e denso Non ritorni,( Robin
edizioni – 2016 ) in cui il poeta partenopeo arrischia
un’accelerazione gnomica e una temperatura “lirica” di altissima
pregnanza epocale, e insieme, significazione, profezia
escatologica…
L’éschaton, il “fine ultimo”… Ma qual è quello profondo della
Poesia?
Urlo alle stelle il candido risvolto che corre
ai piedi della solitudine, sgomento ad ogni risveglio
oltre le trasparenze, oltre il tremore ribelle
delle molecole per ritrovare la pelle inaridita,
fossile sgranato nell’incendio della trasgressione.
L’impeto, e insieme l’affilata esattezza d’un lessico che chiede
al proprio stesso pathos ogni consenso, una sorta d’ebretitudine
celeste rimasta qui in terra a preparare il cielo, prigioniera d’una
carne che però libera l’anima – suffragano, nobilitano da sempre
l’espressionismo lirico di Spagnuolo a categoria di Pensiero,
raggiungimento non meno intimo che metafisico:
Quasi tremante per le distorsioni di un tempo
che cerca, bruciando, inutilmente nuovi artigli,
chissà se durante il pregare non riesca
ad agguantare tutte le bugie che ho sciolto
distillando un alambicco di lacrime
senza la vergogna delle medesime ombre
o le diverse ferite nella carne scomposta.
Anche questo testo (strutturato in un proemio incalzante,
tumultuoso, infibrato di versi lunghi, ma giammai prosaico anzi
semmai ancor più fervoroso e poiètico – e due parti, due sezioni
cadenzate di stanze o meglio blocchi lirici accesi da un ritmo
trafelato d’amore eppure quasi immobile per dono pervaso di
saggezza, grazia sensibile, credo insomma di Fede, loico e
insinuante), noi amiamo leggerlo, percorrerlo – al solito – come un
unico poemetto, un compianto vitale, poderosamente intriso e
lievitante d’affetto. Addirittura come un moderno canzoniere
dell’Amore che è stato, dunque che rimarrà per sempre, da qui
all’eternità, in domestico (id est universale!) tempietto di parole:
Fuoco era la fretta degli spazi, leggera
nella meravigliosa tua gioventù,
quando il tuo passo toccava il balzo
dei miei timori e mi rapiva nel bacio.
Nessun uomo è un’isola – diceva John Donne – e la campana
suona sempre anche per noi… Questo suono ci chiama, in Non
ritorni, questo continuo, inesausto coinvolgimento metafisico, ma
infibrato dentro, come un bilancio epocale e corporale nello stesso
modo – innervato (io ci credo) nei tessuti trasparenti o nascosti ed
esemplari del Puro Spirito, temprato d’esistenza!
Ogni ritorno ha il sapore del mare,
ma tu non torni, sei ansia
che di nascosto adombra il mio respiro
e nei silenzi recita antiche scritture.
L’eucaliptus penetra nel verde rugginoso,
ha sospetti di magie,
troppo nuda incertezza nel misero destino
che partecipa a cadenze.
*********
Compianto, sì, lo evocavamo… Da quando Antonio ha perso la
sua sposa, consorte d’ogni destino, umano e forse ultraterreno, la
Sua poesia è per incantevole amorosa adesione ancora più vitale e
mossa all’anelito… Bizzarro, ennesimo inopinato (aulico) caso di
un vigoroso petrarchismo “post-moderno” che mischia, assimila
rime in vita e morte di Madonna L’Aura (la sua propria
compagna) nello stessissimo modo…
Lasciami ancora uno sguardo
nei giorni in cui non trovo più parole
ed il mio passo ricorda i fili d’erba
che intrecciavano dita, nude per colori.
Ed anche il lessico lirico, che in Antonio Spagnuolo, è sempre
stato reboante e densissimo, pulviscolare d’empatie o viceversa
distonie, qui si riaggrega in un ritmo e un destino emotivo di
ammirevole sicurtà, fedeltà ispirativa. L’Aura è tutto (non più
quella dell’autore del Canzoniere, ovviamente, ma semmai quella
rimpianta e inseguita a suo modo da Benjamin, col suo zoppo
Angelo della Storia, minorato ad una sola ala…).
E come volare se non con due? Può dunque essere un’altra ala,
la poesia?
Il geranio, aggrappato alla controra,
tenacemente accompagna la mia storia,
che stilla i giorni senza fantasia,
che ripete il tuo nome inutilmente.
Giunto non alla fine dei tempi (lasciamole ai filosofi fin troppo
contemporanei, o ai sociologhi à la page, queste romanzesche
teoresi sulle modernità liquide, i secoli brevi e la fine della
Storia!), ma alla controra ripetuta e irripetibile d’ogni sua giornata,
ormai Antonio scrive a tutti noi come scrivesse semplicemente
delle poetiche missive alla moglie: e noi ci rispecchiamo, perché il
suo coniugio è esattamente quello che vive e “scompare tra la
pagina bianca ed una sillaba / che sussurro nel timido violino”…
Ora frantumo lo specchio che deforma
La mia immagine di vecchio,
e finisco nell’ossessione della tua assenza.
Prigioniero solo della prossima morte
indosso una maschera tribale.
Maschera tribale. Pare un appunto, uno scorcio d’un diario di
Jung… Qui lo Spagnuolo dottore di Psiche, scienziato di Animus e
Anima, torna a farsi (a farci!) coraggio… E noi non
dimentichiamo che questo poeta, già caro a figure diversissime ed
egualmenti eminenti, laiche o d’educazione cattolica che fossero
(da Raboni a Pomilio, per intenderci), ha impostato tutta la sua
vocazione letteraria, ansia espressiva, sull’“adesione a un’idea
psicanalitica della poesia,” – scriveva Franco Pignatti Morano già
nel 1992, incoronando e rubricandone la voce nel Dizionario della
Letteratura Italiana del Novecento, curato per Einaudi da Alberto
Asor Rosa – “intesa come affiorare di un elemento prelogico
nell’esperienza mentale, comporta in Spagnuolo il rifiuto di una
sintassi vincolante, sul piano del linguaggio come su quello del
senso. È costante nella poesia di Spagnuolo la rappresentazione di
nuclei tematici come la centralità dell’eros, la relazione eros/
thanatos e libido/morte – cui risponde il ricorso a una terminologia
clinico-psicologica, evidente soprattutto in ‘Melania’ (sezione
centrale di Candida, Guida, Napoli, 1985)”.
È tempo che io raggiunga altri spiriti
per raccontare meraviglie del passato, di presagi
che nessuno comprende, quasi fantasia di un filo
confuso a quegli attimi sospesi della delusione.
Praterie freudiane da percorrere e investigare – poetare poi a
occhi aperti come se una Gradiva volesse infine raccontarci le
gesta vere dei suoi sogni, i romanzi che vive alle radici, nel limbo
onirico del sub-conscio, questo sì, prelogico; dunque,
sommamente, sottilmente poetico… Perché va in scena il lutto e
ogni rinascita; il rimpianto e l’essenza che resta; la perdita e
l’immutabile; l’amore che fu e quello identico che è, dunque che
resta:
Ricordo l’orizzonte arrossarsi
prestato ai colori dell’amore,
e il tuo concedere al cucirsi della favola
per fermare il frammento.
Improvvisa la sera mi dilania
nell’imminente disfarti.
Ma ora il lutto, l’attesa, il rimpianto, lo stillicidio (e la salvezza)
memoriali… sono ancora elementi “prelogici”, o non invece
bilanci e slanci definitivi, infinitesimi approdi – scorci –
concessioni superne di una rinnegata/ritrovata infinità?!…
L’infinito non ha segni per il mio gioco
e le incertezze strappano attese
nel turbinio delle figure.
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Ma ci sono i versi belli, come stelle, a guidarci nella notte dei
tempi, nel periglioso ondeggiare, turbinare del Cuore.
Endecasillabi a costellazioni per capire, pellegrinare il cielo…
Nei giorni in cui non trovo più parole…
Il geranio, aggrappato alla controra…
Cede al pensiero e frantuma il meglio…
L’abbandono delle forme del nulla…
C’è questo insorabile, iterato verseggiare in continuum, che è
come un monologare (o se vogliamo dialogare), discettarsi il
cuore, le emergenze minime o i massimi sistemi tra vita e
poesia…
C’è un abisso che “ha squarciato ogni tempo”, ed ora
“l’immagine schizza via dalle forme”… (Che poi è il destino
schietto, vero ed eterno dell’Arte)…
Ci sono esclamazioni cocenti, ansie insopprimibili: “Ecco
l’inganno!”; “Esiste l’urlo!”. Ansie irredenti e purissime, che
sommuovono e il testo e l’animo – fra marosi spezzati d’infinito,
scogli aguzzi di dubbi, e spuma iridescente, evanescente,
magniloquente e cruda come l’ultraismo dei migliori poeti
spagnoli della generazione del ’27, da García Lorca ad Alberti…
C’è la Natura trasfigurata non come sfondo, ma come Deità e
figurazione delle figure, affresco interiore che si denuda ad
abbronzarsi di sole, battezzarsi di luce:
Ogni ramo si inclina a cercare la terra ancora desideri
rubati all’accanita volontà di energie, mentre si allontana
la fragile presenza del tuo amore.
Ci sono ascendenze classiche, meditanti rivelazioni diremmo
lucreziane:
Rapido il registro del cancello stride per la speranza
di ritrovare oltre, un’altra parte, l’incertezza
delle figure interrotte, un’iride delusa dal luccichio
delle allegorie.
E pennellate d’un pittore di prima grandezza – non importa ora
periziare se è in capriccio brioso d’impressionismo o arcano
rancore, plumbeo lucore espressionista:
Poca luce il mormorio della vecchiaia, intrattabile…
La ferita è come luce carica di dolore, nelle sere…
Tra le tempie imbianchite ed il cuore ormai oscurato
gli attimi del chiarore sono ingannevoli…
Tutto diventa ombra nei lacerti
della mia solitudine, per sfiorare il tempo
che soffoca il mio singhiozzo.
Ci sono vigorosi echeggiamenti dei poeti più amati…
Estri insomma à la Rimbaud!: “Anche le radici inventano
l’antico naufragio / sull’orlo delle sorprese, caleidoscopio / di
sterminate aurore, spezzettate / nelle follie degli affetti”…
Sentenze marcescenti à la Baudelaire!: “Nebulosa la tenera
tessitura delle tempie / per il corrotto sembiante del tuo viso”…
E finalmente, teoremi fulgidi, elegiaci, degni del miglior Rilke:
“Beffarda e dolorosa l’ossessione / che corrode per insegnarmi il
perdono / nel rincorrere affanni dell’addio, incontenibile gioco, / e
condanna il rimorso che perseguita il tempo.”
Ma è l’inesauribile dono d’esistenza – questo giudizioso
sperpero di gioie e dolori, illusioni e certezze, amenità e rimpianti,
questa cascata inesorabile di colori caldi e stigmi raggelanti,
languori carezzevoli e atrocità dell’Essere, che fanno di questo
libro davvero un caleidoscopio di sterminate aurore, duttile e
sognante, eppure anche rigoroso, fiero, imperdonato e
imperdonabile per positura d’integrità, deriva pronta a vincersi, a
lasciare, rinnegare ogni mora irrisoria, ogni irrisolutezza mondana
in nome veramente di “Dimensioni” più degne ed eccelse, più alte
e abbacinate vertigini…
Quando l’immagine schizza via dalle forme, e dentro o dietro la
Poesia noi ritroviamo la nostra libera idea di Dio, la nostra
certezza, le nostre vertiginose, appunto, nozze d’amore con
l’Amore – tutto l’amore, l’amore di tutti:
Vertigini
nello stacco che intende il frullio dell’arteria,
soltanto la parola che inceppa
corteggia il pensiero sbiadito in fantasmi di gioco,
perduto lo sguardo al magico colore
dei frammenti del fato che incide.
Plinio Perilli