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Silvio Ferrari, Università degli Studi di Milano PROFILI GIURIDICI E
Silvio Ferrari, Università degli Studi di Milano PROFILI GIURIDICI E VALORIALI DELL’INTEGRAZIONE DELL’ISLAM NELLA SOCIETÀ EUROPEA E ITALIANA E MODELLI DI RAPPORTO TRA CONFESSIONE ISLAMICA E STATO IN CORSO DI ELABORAZIONE IN EUROPA Relazione presentata al Convegno L’islam in Italia. Appartenenze religiose plurali e strategie diversificate, Torino, 2-3 dicembre 2004 1. Integrarsi in cosa? La questione dell’integrazione delle comunità musulmane in Europa e in Italia – che è al centro della mia relazione – presuppone una definizione di identità europea e italiana, senza la quale non si può comprendere in quale realtà i musulmani sono chiamati ad integrarsi. Il tema dell’identità europea – e dei confini che la distinguono, da un lato, dall’identità occidentale e, dall’altro, dalle singole identità nazionali che la compongono – è certamente troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Mi limito quindi a segnalare quello che, a mio parere, è l’approccio maggiormente produttivo a questa problematica, senza pretesa di arrivare ad alcuna definizione: quello indicato alcuni decenni or sono da Carl Schmitt con l’affermazione che i principali concetti politici contemporanei sono in realtà categorie teologiche secolarizzate 1 . Questo approccio da’ ragione delle due principali linee di forza che sono sottese alla costruzione dell’identità europea (e, in forme diverse, occidentale 2 ): l’eredità del cristianesimo (che nel periodo medievale è stato capace di rielaborare e sintetizzare al proprio interno anche gli apporti della cultura greco-romana) e la sua secolarizzazione, che ne ha trasformato i caratteri senza però uscire dall’orizzonte che essa aveva definito 3 . Tale affermazione trova più d’una conferma sul terreno del diritto: è sufficiente fare cenno ad una sola di esse, la soluzione offerta al problema dello statuto giuridico dell’ “altro” (sia esso definito in termini religiosi come “infedele” oppure in termini politici come “straniero”). Il nucleo fondamentale della risposta data a tale questione nell’Occidente contemporaneo poggia sulla nozione di diritti fondamentali della persona umana, che spettano a tutti (indipendentemente dal 1 Carl Schmitt, “Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità”, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna Il Mulino, 1972, p. 61. 2 Sulla nozione di Occidente e di tradizione culturale occidentale si rinvia a Harold J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 15-29. La diversità di forme espressive di un’identità comune è chiara se si pensa agli Stati Uniti ed alla connotazione che là ha assunto la separazione tra morale e diritto e quella tra Stato e Chiesa. Su questa problematica si rinvia a Gret Haller, I confini della solidarietà, Roma, Fazi, 2004, pp.…. 3 In questo senso la contrapposizione tra islam ed Occidente prospettata da Samuel Huntington nel suo scritto sullo scontro delle civiltà, per quanto asimmetrica (come esattamente sottolineato da Giorgio Vercellin, “Tolleranza islamica e tolleranza occidentale: confronti e cambiamenti”, in Studi storici, I/2004, pp. 131-32), è meno sbagliata di quanto si pensi: l’Occidente infatti, per quanto secolarizzato, rimane cristiano in molte sue categorie culturali. Cfr. Danièle Hervieu-Léger, “Les tendances du religieux en Europe”, in Commissariat Général du Plan, Croyances religieuses, morales et éthiques dans le processus de construction européenne, La documentation française, Paris 2002, p. 15. loro riconoscimento legislativo) per il solo fatto di essere persone umane. Questa affermazione è oggi formulata in termini rigorosamente “laici”: ciononostante essa ha un chiaro contenuto giusnaturalistico che riprende, in termini secolarizzati, la concezione di diritto naturale elaborata da S. Tommaso e dalla seconda scolastica (a loro volta debitori, in questo campo, di Cicerone e del pensiero degli storici) 4 . 2. Lo Stato laico come cornice del processo di integrazione. Sul terreno più propriamente politico questo processo di riconoscimento dell’ “altro” è sfociato nella edificazione dello Stato laico e nella sua sostanziale accettazione come modello condiviso da tutti i paesi dell’Europa 5 (al di là delle sovrastrutture giuridiche ancora imperniate sull’esistenza di Chiese di Stato o religioni dominanti). Lo Stato laico, inteso come casa comune di tutti i cittadini (di qualsiasi razza, lingua, religione essi siano) riflette la tensione universale sottesa al giusnaturalismo ed esprime l’idea che vi sia una legge comune che unisce persone profondamente diverse e consente loro di collaborare per la ricerca del bene di tutta la comunità. In altre tradizioni giuridiche (quella ebraica per esempio) l’assenza di una concezione di diritto naturale ugualmente inglobante 6 si riflette in una diversa configurazione dello Stato: Israele, per quanto sia un paese che si ispira ai principi della democrazia, è in primis concepito in termini di “Stato del popolo ebraico”7 , come indicato fra l’altro dalla preferenza per gli ebrei in materia di accesso alla terra di Israele manifestata dalla legge del ritorno 8 . I caratteri principali della laicità politica e giuridica europea sono due: - la libertà religiosa individuale, vale a dire l’irrilevanza della professione religiosa sul godimento dei diritti civili e politici (ovvero l’uguaglianza civile e politica dei cittadini ed il divieto di discriminazioni); 4 Sul nesso tra la tematica dei diritti umani, il pensiero giusnaturalistico e la dottrina del diritto naturale cfr. Francesco D’Agostino, “Diritto naturale”, in Enrico Berti e Giorgio Campanini (dir.), Dizionario delle idee politiche, Roma, AVE, 1993, p. 224. In una prospettiva diversa il collegamento tra ques ti elementi è riconosciuto anche da Gregorio PecesBarba, “Diritti e doveri fondamentali”, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, V, Torino, UTET, 1990, pp. 151-52. 5 Anche i paesi usciti dall’esperienza comunista sono avviati in questa direzione. Per uno sguardo d'insieme cfr. .... 6 Nel diritto ebraico, infatti, il problema dell’ “altro” è affrontato in termini parzialmente differenti da quelli propri della tradizione cristiana. Accanto alla legge rivelata da Dio a Mosè, che regola la vita degli ebrei, esistono i precetti noachidi (così chiamati perché rivelati da Dio a Noè), che disciplinano la vita di tutti gli uomini (cfr. più ampiamente Silvio Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 137). Coesistono dunque due sistemi giuridici, l’uno riservato al popolo eletto e l’altro destinato all’umanità: due sistemi ugualmente buoni – in quanto entrambi provenienti da Dio – ma non coincidenti, come mostra la questione dell’usura. Secondo il diritto ebraico infatti l’usura è proibita tra gli ebrei ma non tra un ebreo ed un non ebreo: la legge che governa i rapporti tra i primi si ispira ad un principio di fraternità che non è necessariamente sotteso a quella che regola i rapporti tra i secondi, che è invece dominata dal principio di giustizia. Questa distinzione non è accolta dal cristianesimo, che eredita dall’ebraismo la proibizione dell’usura ma ne fa – fin dai tempi dei Padri della Chiesa – un precetto di carattere universale, applicabile tanto ai rapporti tra cristiani quanto a quelli tra cristiani e non cristiani. Cfr. a questo proposito…. 7 E’ questa la definizione offerta dalla Basic Law: The Knesset (Amendment n. 9), 39 L.S.I. 216, (1984-1985). Cfr. Ruth Lapidoth, “Freedom of re ligion and conscience in Israel”, in Catholic University Law Review, v. 47, n. 2, Winter 1998, p. 443. 8 Questa legge (L.S.I. 114, 1949-50) attribuisce ad ogni ebreo il diritto di immigrare in Israele ma, dopo un emendamento introdotto nel 1970 (su cui cfr. Silvia Pasquetti, “Ebreo per nascita, “apostata” per scelta”, in Daimon, Annuario di diritto comparato delle religioni, 1/2001, pp. 48-49), non si applica agli ebrei che “appartengano” ad altra religione. Lapidoth (op.cit., p. 458) sottolinea esattamente che le leggi sull’acquisto della cittadinanza prevedono frequentemente un trattamento preferenziale per le persone legate da vincoli sociali, culturali o etnici con uno specifico Stato: ma è raro che questa preferenza si estenda, come in questo caso, alla religione. 2 - la distinzione tra Stato e Chiesa nei suoi due versanti di autonomia delle organizzazioni religiose ed assenza di interventi statali nella loro dottrina ed organizzazione interna da un lato e, dall’altro, di autonomia dello Stato da ogni forma di legittimazione religiosa del proprio potere, che trova il suo fondamento ultimo soltanto nella volontà dei cittadini 9 . Questa nozione di laicità dello Stato non nasce, in epoca moderna, dal cristianesimo bensì dalle guerre di religione e dall’illuminismo: però risulta (dopo molte resistenze) accettabile per la tradizione giuridica e politica di ispirazione cristiana perché ne riflette la fondamentale distinzione tra Dio e Cesare. Ritorna di nuovo la capacità di sintesi tra pensiero cristiano e cultura laica che, a mio parere, è la cifra dell’identità europea. Da quanto si è detto emerge con sufficiente chiarezza che sarebbe illusorio pensare che lo Stato laico sia neutro (nel senso di sganciato da un retroterra di valori fondanti): già la nozione di laicità dello Stato è un prodotto culturale (cioè di una cultura specifica) e tanto più lo sono i suoi contenuti e le sue istituzioni, vale a dire il modo con cui questo Stato pensa e regola la famiglia, l’educazione, il lavoro e gli altri profili centrali della vita associata. Nessuno Stato, per quanto laico sia, può separarsi dal tessuto di valori su cui è fondata la società senza suicidarsi: un nucleo di principi condivisi, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale di un popolo (anche se non sono condannati a restare entro quei confini), è indispensabile per la stabilità e lo sviluppo di ogni organizzazione sociale 10 . Per questa via anche la religione mantiene un ruolo di rilievo nello spazio pubblico: non più come elemento dotato di una propria legittimazione autonoma e specifica (com’era ai tempi dello Stato confessionale) ma come componente più o meno importante delle diverse tradizioni culturali (a loro volta più o meno forti, antiche, radicate) presenti all’interno della società. Tanto il cristianesimo quanto le altre religioni non possono fare a meno di collocarsi entro questo orizzonte11 , che oggi definisce l’ambito di legittimità di cui le religioni dispongono in uno Stato laico. 3. La doppia sfida musulmana All’interno del quadro che è stato sommariamente delineato, la presenza delle comunità musulmane costituisce una duplice sfida: da un lato per i musulmani stessi che debbono trovare 9 Per questi caratteri cfr. Silvio Ferrari, ….. Ciò equivale a dire che lo Stato laico non è un’istituzione universale, esportabile ovunque: l’idea che la laicità dello Stato sia una condizione della democrazia, quale trapela dalla sentenza Partito della Prosperità c. Turchia della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2001/3, pp. 774-84; la sentenza è datata 31 luglio 2001), porterebbe ad escludere dall’ambito della democrazia un buon numero di Stati non occidentali (tra cui l’India, Israele, il Libano e altri ancora). Questa concezione della laicità non incide però sul discorso svolto in queste pagine, relativo all’identità dell’Europa: in riferimento a tale contesto storico-culturale la laicità dello Stato è una categoria fondante, che non può essere ignorata da nessuna persona che voglia integrarsi in questa realtà. 10 11 La percezione di questa nuova collocazione della religione nel contesto di uno Stato laico spiega l’imponente tentativo di riconvertire in termini di patrimonio culturale europeo i simboli del cristianesimo (si pensi al crocifisso, difeso come espressione della civiltà europea) e di giustificare in questa chiave i riferimenti legislativi all’eredità cristiana dell’Europa (è il caso del dibattito sulla menzione del cristianesimo nel preambolo del Trattato costituzionale dell’Unione europea). Una spia di questa trasformazione emerge anche dai concordati conclusi nell’ultimo ventennio (si veda per esempio l’art. 9 dell’Accordo di Villa Madama che fa riferimento al patrimonio storico del popolo italiano per motivare l'opportunità di insegnare la religione nelle scuole pubbliche). Su questa problematica cfr. Silvio Ferrari, “Religione, società e diritto in Europa occidentale”, in Sociologia del diritto, 2004/2, pp. 213-24. 3 modalità di integrazione in una realtà (lo Stato laico) ad essi culturalmente estranea 12 , dall’altro per gli europei che debbono comprendere fin dove la laicità dello Stato può spingersi nell’integrare questa realtà. La strada dell’integrazione, a differenza di quella dell’assimilazione o del multi-culturalismo, implica infatti la disponibilità – tanto da parte della comunità di accoglienza che della comunità di immigrazione – ad uscire profondamente cambiati dall’incontro, per tanti versi inaspettato e non programmato, che si è verificato tra musulmani ed europei: ma questo cambiamento, pur coinvolgendo entrambe le comunità, si colloca su piani differenti. La comunità di immigrazione, nella misura in cui progetta stabilmente il proprio futuro all’interno dello spazio geografico e culturale dell’Europa, non può non esimersi da un confronto simpatetico e disponibile con le categorie fondamentali della tradizione culturale europea; la comunità di accoglienza a sua volta non può tralasciare di verificare, alla luce dell’incontro con le comunità musulmane, la propria tradizione culturale discernendo ciò che vi è di essenziale da ciò che invece costituisce una semplice traduzione storica dei suoi principi e valori fondamentali. In altre parole, la tradizione culturale europea (intesa come nucleo ristretto di valori e principi fondamentali che costituiscono l’identità dell’Europa) rappresenta la cornice ineliminabile entro cui debbono trovare posto i valori propri delle comunità d’immigrazione musulmana (o di qualsiasi altro gruppo che intenda stabilirsi permanentemente nel Vecchio Continente). Ciò implica un delicato lavoro di riflessione e selezione rivolto in primo luogo ad identificare valori e principi che costituiscono l’identità europea; poi a distinguere all’interno di essi ciò che appartiene al nucleo più profondo di questa identità (e che quindi no n è negoziabile senza sfigurarla) e ciò che appartiene allo strato più superficiale e negoziabile; infine a valutare le modalità (che sono normalmente diversificate e consentono margini di adattamento) di traduzione di questi valori e principi nel mondo del diritto. La metodologia di lavoro che qui si propone muove dunque dai valori fondamentali che costituiscono il nucleo centrale dell’identità europea e tende a svilupparne tutte le possibilità di applicazioni differenziate in direzioni delle componenti sociali che, stabilmente presenti in Europa, sono portatrici di identità diverse. Si tratterebbe in altre parole di accompagnare – anziché contrastare – la tendenza al pluralismo organizzativo e normativo emergente a livello sociale, verificandone però di volta in volta la compatibilità con i principi fondamentali e non negoziabili dell’ordinamento giuridico. 4. L’organizzazione delle comunità musulmane: i termini del problema La metodologia ora indicata verrà applicata ad una questione che viene assumendo un rilievo sempre più centrale nel processo di integrazione dei musulmani in Europa: la costituzione delle loro istituzioni rappresentative. Questo tema, apparentemente di rilievo soltanto tecnico, tocca in realtà uno dei profili centrali della tradizione culturale europea, la distinzione tra religione e politica. Sul terreno giuridico essa si è storicamente tradotta nella enucleazione di due istituzioni diverse, lo Stato e la Chiesa, preposte a disciplinare i profili temporali e quelli spirituali della vita umana: poiché questi due profili si intersecano in più punti, diviene opportuno regolarli attraverso il dialogo e la collaborazione tra le due distinte autorità che li governano. La distinzione tra queste due istituzioni, ciascuna dotata di un proprio ambito di autonomia, e la loro collaborazione per lo sviluppo della persona umana e della comunità sociale sono due coordinate fondamentali del sistema di rapporti tra Stati e religioni in vigore oggi in Europa, al di là dei diversi regimi giuridici in cui esso è articolato a livello nazionale: 12 Questa affermazione esige di essere articolata: la nozione di laicità dello Stato è ovviamente più familiare agli europei convertiti all’islam che agli immigrati musulmani ed anche tra questi è necessario operare distinzioni in relazione al paese di provenienza, alla data di immigrazione e ad altri elementi ancora. 4 sia la “concordataria” Italia sia la “separatista” Francia sia (per quanto sorprendente possa apparire questa affermazione) i paesi dove esiste una Chiesa di Stato sono tutti caratterizzati, anche se in forme e con accentuazioni diverse, da un sistema fondato su questi due capisaldi13 . Da questo background culturale e giuridico nasce la richiesta, che molti Stati hanno rivolto alle comunità musulmane residenti nel loro territorio, di dotarsi di una organizzazione rappresentativa a livello nazionale, capace di funzionare come interlocutore dello Stato e quindi di assicurare la possibilità di una efficace cooperazione in materia di insegnamento della religione nelle scuole, assistenza spirituale, finanziamento delle attività ed istituzioni religiose e via dicendo. Questa richiesta è stata talvolta formulata con eccessiva rigidità, insistendo sulla necessità di una rappresentanza unitaria che non è invece stata pretesa da altre comunità religiose (quelle cristiane, per esempio, con cui è vigente un sistema di collaborazione articolato per singole confessioni): l'esperienza di alcuni paesi, come la Svezia 14 , mostra che il riconoscimento giuridico di più comunità musulmane non impedisce un'efficace cooperazione con lo Stato. Ma, al di là di questo difetto di flessibilità da parte statale, la formazione di istituzioni rappresentative musulmane ha incontrato altre e più rilevanti difficoltà. Da un lato, in molti paesi, l'immigrazione musulmana costituisce un fenomeno recente, numericamente assai consistente ed ancora in piena evoluzione: non è ancora maturato un periodo di sedimentazione sufficientemente lungo per fare crescere adeguate istituzioni rappresentative dall’interno delle comunità musulmane. Dall’altro lato queste comunità hanno mostrato la tendenza a diversificarsi lungo una molteplicità di linee (nazionalità, appartenenza etnica, differenze teologiche, divisioni ideologiche, ecc.) che hanno impedito la costituzione di un organismo rappresentativo della comunità religiosa musulmana in quanto tale. Infine la necessità di una rappresentanza strutturata a livello nazionale è estranea alla tradizione islamica e suona inconsueta a molti musulmani che provengono da paesi dove le relazioni tra Stato e religione non sono organizzate secondo questo modello 15 . Queste ragioni consiglierebbero di non forzare i tempi richiesti per l’istituzionalizzazione dell’islam in Europa. Ma negli anni più recenti la necessità di disporre di organismi capaci di parlare a nome di tutti i musulmani residenti in uno Stato si è fatta più pressante: molti governi ritengono infatti che, per sottrarre le comunità musulmane europee ad una deriva radicale, sia necessario consolidare lo statuto giuridico di cui esse godono a livello nazionale, avvicinandolo a quello delle altre confessioni religiose. Ciò implica una maggiore cooperazione dello Stato con le comunità islamiche, che sarebbe notevolmente agevolata dalla previa individuazione di un interlocutore sufficientemente rappresentativo. 5. L’organizzazione delle comunità musulmane: i tentativi di soluzione 13 Per una più approfondita esposizione di questa tesi si rinvia a …. Si noti che i principi della distinzione e della collaborazione sono sottesi anche al rapporto tra Unione europea e gruppi religiosi, così come è stato definito dall’art. 52 del Trattato costituzionale sottoscritto a Roma il …… 14 In Svezia sono state riconosciute dallo Stato tre organizzazioni musulmane: esse operano all'interno di un “Consiglio di cooperazione islamica” che funziona come interlocutore dell'organismo statale incaricato di tenere i rapporti con le comunità religiose e di contribuire a sostenerne finanziariamente l'attività. Cfr. Jonas Otterbeck, “The Legal Status of Isla mic Minorities in Sweden”, in Roberta Aluffi B.-P. and Giovanna Zincone, The Legal Treatment of Islamic Minorities in Europe, Leuven Peeters, 2004, pp. 238-41; Åke Sander and Göran Larsson, “The Mobilisation of Islam in Sweden 1990-2000: From Green to Blue and Yellow Islam?”, in W.A.R. Shadid and P.S. Van Koningsveld (eds.), Religious Freedom and the Neutrality of the State: the Position of Islam in the European Union, Leuven, Peeters, 2002, pp. 108-11. 15 Si tenga presente, peraltro, che non si tratta di una difficoltà dei soli musulmani: lo stesso processo di istituzionalizzazione è stato attraversato, con analoghe difficoltà, dalle comunità ebraiche europee nel corso del XVIII e XIX secolo. 5 Le sperimentazioni compiute nei vari paesi europei si muovono in direzioni diverse e dipendono non solo dalla storia e dalla situazione sociale ma anche dall’ordinamento giuridico di ciascuno Stato. In Austria la comunità musulmana è stata riconosciuta con una legge del 1912, quando nei confini dell’Impero austro-ungarico viveva ancora più di mezzo milione di musulmani: su questa base è stata costituita nel 1979 la Comunità religiosa islamica dell’Austria 16 . In Polonia è stato seguito un percorso analogo e la comunità musulmana è stata riconosciuta fin dal ………Probabilmente non è un caso che in questi paesi, dove l’islam è stato riconosciuto molti decenni or sono, il problema delle istituzioni rappresentative musulmane susciti meno difficoltà che altrove. In Spagna questa stessa questione è stata affrontata nel contesto della riorganizzazione complessiva dei rapporti tra Stato e confessioni religiose seguita al passaggio dal regime franchista a quello democratico: la Comisión Islamica de España è stata creata contestualmente alle federazioni che raggruppavano le organizzazioni di ebrei ed evangelici, davano loro lo status di interlocutori ufficiali dell’amministrazione pubblica ed avviavano la stipulazione di acuerdos con lo Stato. Benché le forzature insite in questo processo siano rapidamente emerse ed abbiano gravemente rallentato l’applicazione dell’accordo stipulato tra lo Stato spagnolo e la Comisión Islamica, questo organismo appare dotato di una relativa stabilità ed è ragionevole pensare che, con il passare del tempo, possa funzionare con crescente efficacia 17 . A differenza dei paesi finora considerati, in Gran Bretagna non esiste un’organizzazione rappresentativa della comunità islamica a livello nazionale. Sono attive varie associazioni, con un numero più o meno ampio di aderenti, nessuna delle quali è però in grado di svolgere una funzione di rappresentanza analoga, per esempio, a quella sostenuta dal British Board of Deputies per la comunità ebraica 18 . Questa assenza, rilevante dal punto di vista politico, ha però un impatto relativamente ridotto sul terreno giuridico: il sistema di rapporti tra Stato e religioni vigente in Gran Bretagna non prevede infatti alcuna forma di riconoscimento o registrazione delle comunità religiose né richiede la costituzione di un organismo rappresentativo che sia portavoce a livello nazionale degli interessi religiosi di una comunità particolare ed interlocutore dell’amministrazione pubblica in materia di cooperazione dello Stato con i gruppi religiosi19 . L'ostacolo maggiore ad una efficace cooperazione tra Stato e gruppi musulmani non deriva dal loro (pur reale) deficit organizzativo ma dalla preferenza mostrata dall'ordinamento giuridico britannico per la tutela delle minoranze etniche e razziali rispetto a quelle religiose: ciò esclude i musulmani (come altri gruppi religiosi) dal sistema di protezione fondato sul Race Relations Act 1976 e da buona parte delle iniziative volte a promuovere l'integrazione dei gruppi di minoranza, orientate prevalentemente lungo l'asse etnico-razziale. I problemi divengono più rilevanti nei paesi dove il sostegno dello Stato è graduato in rapporto al riconoscimento di un particolare statuto giuridico ad una comunità religiosa. E' questo, 16 Cfr. M. Schmied & W. Wieshaider, “Islam and the European Union: The Austrian Way”, in Richard Potz – Wolfgang Wieshaider, Islam and the European Union, Peeters, Leuven, 2004, pp. 202-04. Le norme più importanti sono pubblicate in Islam en Europe. Législation relative aux Communautés Musulmanes, Bruxelles, Comece, 2001, pp. 7299. 17 Cfr. María José Ciáurriz, “La situación jurídica de las comunidades islámicas en España”, in Augustín Motilla (ed.), Los musulmanes en España. Libertad religiosa e identidad cultural, Madrid, Trotta, 2004, pp. 23-64. 18 Cfr. Urfan Khaliq, “Islam and the European Union: Report on the United Kingdom”, in Richard Potz – Wolfgang Wieshaider, Islam cit., pp. 228-30. 19 Cfr. Francis Lyall and David McClean, “The Constitutional Status of Churches in Great Britain”, in European Consortium for Church-State Research, The constitutional status of Churches in the European Union countries, Paris Milano, Litec-Giuffrè, 1995, in particolare pp. 148-49, dove si sottolinea che tutte le comunità religiose non anglicane sono organizzate come associazioni e non godono di uno statuto giuridico particolare. Si veda anche Norman Doe, “The legal position of religious minorities in the United Kingdom”, in European Consortium for Church-State Research, The legal status of religious minorities in the countries of the European Union, Thessaloniki-Milano, Sakkoulas-Giuffrè, 1994, pp. 304-06. 6 per esempio, il caso della Germania 20 : l'assenza di un'organizzazione rappresentativa stabile e autorevole ha impedito che le comunità musulmane fossero riconosciute, a livello sia nazionale che dei Länder, come corporazioni di diritto pubblico 21 e quindi potessero accedere al sistema di finanziamento imperniato sulla “tassa ecclesiastica”22 ed al godimento dei vantaggi riservati ai gruppi religiosi più importanti. Ciò ha posto i musulmani in posizione di inferiorità rispetto ad altre comunità religiose (tra cui quella ebraica 23 ) anche se la possibilità di organizzarsi sotto forma di associazioni registrate ha consentito di usufruire di altri diritti, tra cui anche quella di insegnare la propria religione nelle scuole pubbliche 24 . Le difficoltà maggiori si sono manifestati in altri paesi, dove il tentativo di costituire una organizzazione rappresentativa musulmana è intervenuto tardi (quando le tensioni tra immigrati musulmani e popolazione autoctona avevano ormai raggiunto livelli elevati) ed è stato condotto isolatamente, al di fuori di un progetto di risistemazione complessiva dei rapporti tra Stato e religioni: sono i casi della Francia e del Belgio, che meritano un esame più dettagliato. In Francia il processo di costituzione di un organismo rappresentativo musulmano su scala nazionale è iniziato alla fine degli anni ’80: in precedenza questo ruolo era stato di fatto ricoperto dalla Grande Moschea di Parigi, strettamente legata alla comunità ed al governo algerino e quindi poco idonea ad esprimere la volontà delle altre componenti musulmane che, a partire dagli anni ’80, avevano acquistato peso nell’islam francese 25 . Per superare questa difficoltà Pierre Joxe, allora Ministro dell’Interno, costituisce nel 1989 un primo organismo consultivo a cui, lungo un percorso non sempre lineare, ne seguono altri fino allo svolgimento, nel 2003, delle elezioni che danno vita al Conseil français du culte musulman26 . Questo processo è segnato dalla costante partecipazione degli uomini politici che si sono succeduti alla guida del Ministero dell’Interno: sono essi che hanno avviato le prime consultazioni, che hanno partecipato agli incontri per definire il procedimento di elezione del Conseil français du culte musulman, che hanno enunciato i criteri a cui quest’ultimo doveva attenersi per assicurare un’ampia rappresentatività di tutte le correnti musulmane, che hanno fornito un sostegno organizzativo allo svolgimento delle elezioni 27 . Nel corso di questi incontri l’amministrazione francese è stata attenta ad evitare di sostituirsi alle componenti musulmane e di prendere decisioni in loro vece: è pertanto giustificata l’affermazione che essa “a pleinement joué son rôle de médiateur et de facilitateur en veillant à ne pas exercer de tutelle”28 . Ma è altresì innegabile che essa 20 Per un quadro aggiornato delle organizzazioni musulmane e della loro posizione nel sistema giuridico tedesco cfr. Christian W. Troll, “Christian-Muslim Relations in Germany. A Critical Survey”, in Islamochristiana, 2003, 29, in particolare le pp. 165-83; Mathias Rohe, “The Legal Treatment of Muslims in Germany”, in Roberta Aluffi B.P. and Giovanna Zincone (eds.), The Legal Treatment cit., pp. 86-88. 21 Sulle condizioni richieste per ottenere tale riconoscimento e sulle difficoltà che esse pongono in relazione alle organizzazioni musulmane cfr. Stefan Muckel, “Islam in Germany”, in Richard Potz – Wolfgang Wieshaider, Islam cit., pp. 47-49. 22 Su questo sistema cfr. Gerhard Robbers, “Stato e Chiesa in Germania”, in Gerhard Robbrs (ed.), Stato e Chiesa nell'Unione Europea, Baden-Baden, Nomos, 1996, pp. 71-73. 23 Cfr. Gerdien Jonker, “Muslim Emancipation? Germany's Struggle over Religious Pluralism”, in W.A.R. Shadid and P.S. Van Koningsveld (eds.), Religious Freedom cit., p. 41. 24 Questo insegnamento inizia ad essere impartito in via sperimentale: cfr. Mathias Rohe, The Legal Treatment cit., pp. 95-97. Per un'esposizione dei profili più strettamente giuridici della questione cfr. Stefan Muckel, Islam cit., pp. 71-75. 25 Cfr. Hervé Terrel, “L’État et la création du Conseil français du culte musulman (CFCM)”, in Yves Charles Zarka (dir.), L’Islam en France, Paris, PUF, 2004 (numero “hors série” di Cités), p. 69. 26 Questo processo è dettagliatamente descritto da Vianney Sevaistre, “L’islam dans la République: le CFCM”, in La documentation française, n. 298, 2004 (dedicato a État, laïcité, religions), pp. 33-48. 27 Per altri esempi del coinvolgimento dell’amministrazione francese nel processo di formazione delle istituzioni rappresentative musulmane cfr. Hervé Terrel, L’Etat cit., p. 82, 87, 90. 28 Vianney Sevaistre, L'islam cit., p. 41. 7 abbia interpretato le proprie competenze in una chiave “bonapartista”29 poco consona alla tradizione francese di laicità e separazione 30 . Una tappa fondamentale del percorso di costituzione degli organismi rappresentativi musulmani in Francia è stata la sottoscrizione, nel gennaio 2000, dei Principes et fondements juridiques régissant les rapports entre les pouvoirs public et le culte musulman en France 31 . Si tratta di un documento predisposto dal Ministro dell’Interno, Jean-Pierre Chevènement, che riassume i principi fondamentali del sistema di relazioni tra Stato e confessioni religiose in Francia: nell’introduzione esso afferma che i gruppi e le associazioni musulmane che partecipano al processo di consultazione “confirment solennellement leur attachement aux principes fondamentaux de la République française et notamment […] à la liberté de pensée et à la liberté de religion, à l’art. 1 de la Constitution affirmant le caractère laïque de la République et le respect par celle-ci de toutes les croyances et enfin aux dispositions de la loi du 9 décembre 1905 concernant la séparation des Eglises et de l’Etat”32 . Questo documento si presta a due ordini di rilievi. Il primo riguarda il suo contenuto, che in qualche punto appare eccessivamente specifico. Richiedere l’adesione al principio di separazione tra Stato e Chiesa può essere giustificato, ma domandare l’accettazione delle disposizioni con cui esso è stato definito nella legge del 1905 appare eccessivo, soprattutto quando una parte consistente dell’opinione pubblica francese ritiene che essa vada modificata. Il secondo rilievo verte sul fatto che una analoga dichiarazione di adesione alla laicità dello Stato ed ai principi di libertà ed uguaglianza religiosa non è stata richiesta ai rappresentanti di altri gruppi religiosi. Ricorre in questo caso una evidente disparità di trattamento, che Chevènement ha giustificato in nome dell’eccezionalità della situazione 33 e della difficoltà che parte del momdo musulmano incontra nel tenere separate religione e politica 34 . In Belgio il processo di creazione degli organismi rappresentativi musulmani è stato concepito in termini analoghi ma ha avuto uno sviluppo molto meno lineare. Benché l’islam sia stato riconosciuto fin dal 1974 35 , soltanto negli anni ’90 è stato messo in moto il procedimento per creare 29 Brigitte Basdevant Gaudemet, Islam in France, in Roberta Aluffi B.-P and Giovanna Zincone (eds.), The legal treatment of Islamic minorities in Europe, Leuven, Peeters, 2004, p. 68. E’ sintomatico che l’opera di Bonaparte sia stata ripetutamente evocata nel corso del processo di organizzazione dell’islam in Francia: cfr. Hervé Terrel, L’État cit, p. 71 e 74. 30 Per le critiche che, a partire da questo rilievo, sono state formulate da parte dei musulmani cfr. Franck Frégosi, Quelle organisation de l’islam dans la République: institutionnalisation et/ou instrumentalisation?, in Yves Charles Zarka, L’Islam cit., pp. 101-05. 31 Il documanto è reperibile in......... Esso era stato preceduto, nel 1994, dalla Charte du culte musulman en France (pubblicata in Islam en Europe cit., pp. 160-72), sottoscritta dai membri deel Conseil consultatif des Musulmans de France, guidato dalla Moschea di Parigi. 32 Sempre nell’introduzione, esso contiene anche l’affermazione che “toute discrimination fondée sur le sexe, la religion, l’appartenance ethnique, les mœurs, l’état de santé ou le handicap est contraire à ce principe [di uguaglianza] et pénalement répréhensible”. Un riferimento, originariamente contenuto nel documento, alla libertà di cambiare religione è stato omesso nella versione finale. 33 Secondo Chevènement, “la situation que nous connaissons aujourd'hui a d'inédit, tant pour les pouvoirs publics que pour les musulmans”: si tratta infatti di applicare un sistema giuridico definito nel 1905 ad un nuovo gruppo religioso e ciò “appelle la manifestation d'un consentement mutuel: les Pouvoirs Publics doivent accueillir l'exercice d'un culte qui s'est progressivement implanté en France depuis le début du siècle et plus particulièrement depuis une quarantaine d'années; l'islam de France doit s'organiser en tant que culte minoritaire dans un pays laïque” (questi passaggi sono contenuti in un discorso pronunciato il 28 gennaio 2000: il testo è disponibile in www.pourinfo.ouvaton.org/immigration/dossierchenement/chevenement.htm, consultato il 25 novembre 2004). 34 L’islam, afferma Chevènement (ibid.), “à la différence du christianisme, n'a connu ni la Renaissance ni la Réforme. Certes, l'Islam distingue le domaine religieux et le domaine mondain. Mais il ne manque pas de musulmans pour faire observer que cette distinction appelle une coordination et, par conséquent, une implication permanente du religieux dans le mondain”. Ma la coordinazione tra temporale e spirituale non è una richiesta dei soli musulmani: essa è sovente avanzata anche da rappresentanti di altre religioni, tra cui quella cattolica. 35 In Belgio vige un sistema di riconoscimento legislativo delle religioni: fino ad oggi sono state riconosciute sei comunità (cattolica, protestante, ebraica, anglicana, musulmana, ortodossa greca e russa). Cfr. Rik Torfs, “Stato e 8 una istituzione rappresentativa musulmana su base nazionale, dopo che per alcuni anni le funzioni di un simile organismo erano state svolte dal Centro islamico e culturale del Belgio (di emanazione saudita)36 . Dopo numerosi momenti di tensione sia tra le diverse componenti musulmane interne all’organismo incaricato di preparare la consultazione elettorale sia tra questo e l’amministrazione belga 37 , le elezioni si sono svolte nel 1998 e hanno portato alla creazione di una assemblea costituente che ha poi nominato un comitato esecutivo riconosciuto con un decreto reale del 25 maggio 1999 come l’interlocutore ufficiale del governo belga tanto a livello federale quanto a livello delle singole entità federate 38 . Anche in questo caso, l’amministrazione belga ha preso parte attiva al processo di formazione dell’istituzione rappresentativa musulmana, creando una commissione apposita per controllare lo svolgimento delle elezioni e convalidarne i risultati e sostenendo tutti i costi del procedimento elettorale 39 . Ma i suoi interventi che hanno suscitato maggiori polemiche sono stati successivi alle elezioni: nel 1999 oltre la metà dei membri designati a far parte del comitato esecutivo è stata respinta dal Ministero della Giustizia in quanto ritenuta di orientamento eccessivamente radicale sulla base di una valutazione riservata operata dai servizi di sicurezza 40 ; nel 2004 l’assemblea costituente è stata sciolta, prima del suo naturale termine di scadenza, e sono state indette nuove elezioni, accogliendo le richieste di alcune organizzazioni islamiche ma andando contro la volontà dei rappresentanti musulmani eletti nell’assemblea costituente 41 . Questi interventi sono stati giustificati con il timore di infiltrazioni estremistiche negli organi rappresentativi della comunità musulmana e con i conflitti tra le sue componenti di origine turca e marocchina: ma è difficile sostenere che essi rispettino il principio di autonomia dei gruppi religiosi, implicito nella distinzione tra politica e religione che è un tratto qualificante dell’identità europea 42 . Lo scioglimento da parte statale di un organismo religioso regolarmente costituito o la preclusione, sulla base di una valutazione priva di qualsiasi trasparenza, della presentazione di candidature all’organo direttivo di tale organismo sono scarsamente compatibili tanto con la giurisprudenza formatasi sull’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 43 quanto con le Chiesa in Belgio”, in Gerhard Robbers (a cura di), Stato e Chiesa nell’Unione europea, Baden-Baden, Nomos, 1996, p. 17. 36 Cfr. Jean Hallet, “The Status of Muslim Minorities in Belgium”, in Roberta Aluffi B.-P. and Giovanna Zincone (eds.), The Legal Treatment cit., pp. 43-48. 37 Cfr. ibid., pp. 44-45. 38 Oltre all’opera di Hallet citata alle note precedenti cfr. Marie-Claire Foblets & Adriaan Overbeeke, “Islam in Belgium. The Search for a Legal Status of a New Religious Minority”, in Richard Potz – Wolfgang Wieshaider (eds.), Islam cit., in particolare pp. 3-23. I principali testi normativi che riguardano questa vicenda sono pubblicati in Islam en Europe cit., pp. 100-133. 39 Cfr. Jean Hallet, The Status cit., pp. 45-46; Marie-Claire Foblets & Adriaan Overbeeke, Islam cit., p. 14 e 19-20. 40 Cfr. Jean Hallet, The Status cit., p. 47; Marie -Claire Foblets & Adriaan Overbeeke, Islam cit., pp. 14-15. 41 Cfr. Law imposing elections on the Muslim community voted, in www.hrwf.net/html/belgium_2004.html#_Toc86135577 (consultato il 25 novembre 2004). La legge è stata approvata il 16 luglio 2004 e lo svolgimento delle elezioni è previsto per il 2005. Secondo un accordo concluso prima delle elezioni del 1999 l’assemblea costituente doveva restare in carica fino al 2009 ed un terzo dei suoi componenti doveva essere rinnovato nel 2004; in questo stesso anno veniva a scadenza il mandato del comitato esecutivo. Cfr. anche Minister of Justice justifies the state’s intervention in the internal affairs of the Muslim community (12 luglio 2004) e Ongoing tension bretween the state and the representative bodies of the Muslim community (24 maggio 2004), ibidem. Nello stesso sito si trovano altri scritti che permettono di avere un quadro più dettagliato di questa complessa vicenda. 42 Cfr. supra, p. 43 In una serie di recenti decisioni la Corte europea dei diritti dell'uomo ha posto precisi limiti al potere della pubblica amministrazione di interferire con l'organizzazione interna di una comunità religiosa: cfr le decisioni nei casi Hasan e Chaush c. Bulgaria del 26 ottobre 2000, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 3/2001, pp. 764-69 (dove, al par. 78, si afferma che “State action favouring one leader of a divided religious community or undertaken with the purpose of forcing the community to come together under a single leadership against its own wishes would likewise constitute an interference with freedom of religion”). Nello stesso senso si veda anche la decisione nel caso Chiesa metropolitana di Bessarabia e altri c. Moldova, 13 luglio 2001(in particolare il par. 117), ibid., 3/2002, pp. 848-57. Sul contrasto tra 9 norme contenute nelle carte costituzionali di molti paesi (incluso il Belgio) in materia non solo di autonomia 44 ma anche di uguaglianza dei gruppi religiosi45 . 6. Diritti di libertà, autonomia dei gruppi religiosi e cooperazione tra Stato e religioni Questo breve esame dei modelli organizzativi dell'islam europeo fornisce alcune indicazioni che possono servire ai paesi – come l'Italia – che debbono ancora percorrere il cammino dell’istituzionalizzazione delle comunità musulmane? Il bandolo della matassa si trova, a mio parere, in una corretta distinzione tra i principi fondamentali sottesi al sistema europeo di rapporti tra Stati e religioni: libertà, cooperazione ed autonomia. I diritti di libertà, individuali e collettivi, sono garantiti dal diritto internazionale e dalle norme costituzionali dei paesi europei in termini che non possono essere condizionati all’adozione di una specifica organizzazione giuridica da parte di una comunità religiosa. La cooperazione dello Stato con i diversi gruppi religiosi può invece essere subordinata al rispetto di alcuni requisiti, quali l’accettazione delle regole democratiche e della laicità dello Stato. Ma tali requisiti riguardano l’ambito della politica e della società civile soltanto: non possono incidere sull’autonomia dei gruppi religiosi, esigendo per esempio che essi si organizzino in forme democratiche oppure rispettino al proprio interno l’uguaglianza tra uomo e donna. Questi tre profili dei rapporti tra Stati e religioni richiedono di essere tenuti presenti e sviluppati contestualmente. Da un lato va riconosciuta e consolidata una piattaforma di diritti e libertà che spettano ai musulmani come ad ogni altro gruppo religioso. In questa prima categoria rientra, per fare qualche esempio, il diritto di ottenere la personalità giuridica per le associazioni di fedeli, di avere propri luoghi di culto, di celebrare cerimonie religiose, di preparare e scegliere liberamente il personale religioso a cui affidare la guida della comunità, di insegnare la propria dottrina, di ricevere il sostegno economico dei propri fedeli e via dicendo. Questi diritti spettano alle comunità religiose –e quindi anche alla comunità musulmana- senza altre restrizioni se non quelle previste dalle leggi di applicazione generale. Dall’altro lato la cooperazione dello Stato con i gruppi religiosi non deve necessariamente essere indiscriminata. L’incompetenza dei pubblici poteri in materia di religione non esclude infatti la capacità di apprezzare le ricadute esterne di una dottrina religiosa, cioè quei comportamenti che corrispondono ai precetti di una religione ma interessano in primo luogo la convivenza civile. Anche quando si collocano nell’ambito della liceità e ricadono quindi nella sfera di libertà a cui si è già fatto cenno, questi comportamenti possono presentare dal punto di vista dello Stato un differente grado di meritevolezza: è possibile infatti che essi contribuiscano in misura differente allo sviluppo dei valori –la dignità della persona umana, la convivenza democratica, la libertà di coscienza, l’uguaglianza e via dicendo- che stanno a fondamento dell’ordine politico e della pace sociale. In tema di finanziamento pubblico di una religione, di riconoscimento civile di atti religiosi, di insegnamento di una religione nelle scuole pubbliche – tutte attività che implicano l’intervento dello Stato – l’amministrazione pubblica può graduare, entro certi limiti e mantenendo certe proporzioni, il proprio sostegno. Ma le condizioni a cui lo Stato subordina la propria cooperazione con una l'orientamento espresso in queste sentenze e l'attività del governo belga nei confronti dell'Esecutivo musulmano cfr. Marie-Claire Foblets & Adriaan Overbeeke, Islam cit., pp. 16-18. 44 Cfr. i contributi raccolti in Hildegards Warnink (ed.), Legal Position of Churches and Church Autonomy, Leuven, Peeters, 2001. La Costituzione belga contiene una norma (art. 21) che proibisce allo Stato di interferire con la nomina dei ministri di qualsiasi religione: cfr. Rik Torfs, Autonomy of Churches in Belgium. Status Quaestionis and Current Debate, ibid., p. 83. 45 Cfr. Marie-Claire Foblets & Adriaan Overbeeke, Islam cit., p. 21. 10 comunità religiosa si collocano entro l'orizzonte definito dalla società civile e dall’organizzazione della politica: esse non possono incidere sull’autonomia interna di un gruppo religioso, pretendendo che essi si strutturi secondo i principi ed i valori su cui è modellata la convivenza civile. Anche le Chiese cristiane, con cui è più stretta la cooperazione dello Stato, presentano diverse strutture, più o meno rispettose dei principi della democrazia, della rule of law e dei diritti dei fedeli: lo stesso pluralismo organizzativo deve essere riconosciuto alle associazioni ed istituzioni musulmane. Uno Stato autenticamente laico si arresta sulla soglia dell’organizzazione interna delle religioni, vegliando soltanto che sia garantito il rispetto di quel nucleo di diritti fondamentali che neppure nelle comunità religiose può essere trascurato. La richiesta di istituzionalizzazione rivolta all’islam europeo non riguarda i diritti di libertà ma la cooperazione. Quando è in gioco questo profilo l'amministrazione pubblica è legittimata a richiedere che le comunità musulmane si dotino delle strutture in mancanza delle quali è impossibile un'interazione efficace con lo Stato, senza però spingersi fino a definire i caratteri che esse debbono assumere al proprio interno. L'interesse dello Stato è volto ad avere una controparte musulmana caratterizzata dai requisiti di stabilità, rappresentatività e autorevolezza che sono indispensabili per instaurare un rapporto di cooperazione con i poteri pubblici e disposta ad operare all'interno della società civile nel rispetto dei principi di laicità e democrazia. Ma questi requisiti possono essere garantiti con modalità differenti a seconda delle diverse situazioni nazionali: non esiste una ricetta unica per l'Europa, ma tanti modelli quante sono le realtà storiche, sociali e culturali che costituiscono il Vecchio Continente. In alcuni casi sarà preferibile una sola istituzione che rappresenti a livello nazionale tutte le comunità musulmane, come in Francia; in altri una federazione di più organizzazioni espressive delle diverse correnti teologiche, etniche, politiche in cui è articolato l'islam, come in Spagna; in altri ancora una molteplicità di istituzioni indipendenti riconosciute su un piede di parità dallo Stato, come in Svezia. L'esame delle esperienze compiute nelle diverse parti dell'Europa mostra che anche le strade attraverso cui si arriva all'istituzionalizzazione dell'islam possono essere le più varie: in alcuni paesi si è semplicemente trattato di dare riconoscimento giuridico ad una realtà esistente nei fatti (è di nuovo il caso dell'Austria); in altri si è scelto di imboccare la strada, oggettivamente più difficile, di un procedimento di tipo democratico basato sul ricorso ad elezioni, come in Francia e in Belgio. Le polemiche che hanno accompagnato questi tentativi e gli incerti risultati a cui essi sono pervenuti lasciano aperto l'interrogativo sull'opportunità di trasporre nel mondo delle religioni strumenti che hanno dato buona prova di sè in campo politico. In ogni caso, prima di imboccare questa strada, è necessario mettere in conto che l'esito delle elezioni possa essere diverso da quello auspicato dai governi e partiti politici che le hanno incoraggiate: ripensamenti ed interventi in corso d'opera, come quelli accaduti in Belgio, indeboliscono la fiducia nel metodo democratico e gettano un'ombra proprio su quel principio di laicità dello Stato che è indispensabile salvaguardare. 11