Grandi e piccole imprese: crescita e dilemmi di Giulio Sapelli
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Grandi e piccole imprese: crescita e dilemmi di Giulio Sapelli
FONDAZIONE Gli argomenti Grandi e piccole imprese: crescita e dilemmi. 11 Note di riflessione storicamente intese di Giulio Sapelli La crescita di uno stato a tardiva industrializzazione come l’Italia avvenne secondo il macroimpulso del capitalismo monopolistico di stato, che precocemente agisce già sin dalla seconda metà dell’Ottocento per raggiungere l’acme con gli interventi post crisi del 1929 e in seguito , evitando la politica di salvataggio, ma inverando quella benefica della creazione ex novo di imprese pubbliche che sono un subsistema del complesso della finanza pubblica e di cui il fenomeno esemplare fu l’ ENI. Il secondo macroimpulso veniva dal cuore oligopolistico delle grandi imprese famigliari a cui si aggiunse dopo il 1929 il complesso pubblicistico (IRI ed ENI) e che è andato perduto dopo le privatizzazioni a basso gradiente di liberalizzazione che sono iniziate dopo il Trattato di Maastricht del 1992. Il complesso privatistico famigliare alto borghese non si è rivelato in grado- nel quindicennio che va dagli anni novanta del novecento sino a oggidi ereditare il complesso imprenditoriale che era proprio e tipico del capitalismo monopolistico di stato nazionale. La presenza di quello straniero, oppure di quello oligopolistico privato straniero, è, invece, aumentata in modo significativo ed è destinata ad aumentare in futuro. Il terzo macroimpulso per la crescita era ed è quello costituito dal complesso del capitalismo manchesteriano export-lead delle piccolissime, piccole e medie imprese che ha I macroimpulsi FONDAZIONE avuto un balzo in avanti a partire dagli anni settanta del Novecento per via della mobilitazione sociale che ne è alla base e dell’apertura crescente dei mercati mondiali che ne costituisce la condizione necessaria. Questo macro impulso è stato quello investito nel ventennio recente da un’ondata di metafisica glorificazione inversamente proporzionale al suo peso produttivo e sociale, ma direttamente proporzionale, invece, alla sua capacità di esprimere un potenziale di trasformazione e di risposta alla crisi che veniva potenzialmente dall’inserzione nella globalizzazione con una performance di lunga durata. I distretti industriali, dopo meno di venti anni, sono sì in crisi, ma è una crisi che promana non tanto dalla loro capacità di produrre aggregazione e acquisizione di spillover tecnologici, quanto, invece, per via delle strategie sociali che sono alla base della loro nascita. Sono in crisi non avendo prodotto, salvo che in rari casi, imprese leader e fenomeni di consolidamento; si badi, non consolidamento dimensionale, perché non esiste una dimensione ottima, ma consolidamento rivolto all’aumento della produttività del lavoro e quindi alla creazione del valore. E' utile, per comprendere quanto il processo prima delineato si innervò sulla crescita di una società economica alveolare come quella italica, rifarsi ad alcune annotazioni sulle diverse e fondamentali tappe evolutive del sistema delle imprese italiane. Affronterò il problema per grandi linee e alla ricerca dei nodi esplicativi essenziali, piuttosto che di una inarrivabile perfezione statistica. Ciò che emerge in tutta evidenza è il susseguirsi di ondate cumulative nel processo di crescita. Basteranno pochi dati a questo proposito per illustrare con evidenza quanto voglio dire. Nel vecchio Regno d' Italia prima e nella Repubblica poi si assiste a un triplicarsi del numero delle imprese milanesi: i dati dei censimenti industriali del 1903, del 1911 e del 1951, rispettivamente, ce ne danno conferma. 22 Le ondate della crescita FONDAZIONE I dati statistici segnalano con plastica evidenza che l'ondata cumulativa che si abbatte sul sistema tra la prima e la seconda guerra mondiale è portentosa quanto a implicazioni economiche e sociali. Si tenga a mente, inoltre, che questi sono gli anni della creazione delle istituzioni dell' economia mista del nostro paese, a fronte dell'intervento razionalizzatore e imprenditoriale della massonica e nittiana e poi della cattolica tecnocrazia statale rispetto al fallimento del capitale privato dinanzi alla grande depressione. Qui va segnalato che per la prima volta nella storia dello stato italiano il Nord non è più il baricentro delle grandi trasformazioni. Il capitalismo monopolistico di stato di fattura IRI ha il suo baricentro nella polis romana, e di lì irradia il suo potere di condizionamento. Già il fascismo aveva organizzato questo spostamento: esso governò non più per la borghesia, ma con la borghesia. Ma questo volle dire - e la crisi del 1929 offrì l’ occasione attesa - una logica di condizionamento dello stato da parte della borghesia che univa in sé anche una dipendenza prima inusitata di quest’ ultima rispetto al primo. E l'intervento fu massimamente nel settore dei beni capitali e delle ex- grandi banche miste. Ben si comprende come la questione della crescita della grande impresa strettamente si colleghi con quella della sua irreversibilità economica e sociale, ma non con la sua totale irreversibilità istituzionale, come dimostrano le privatizzazioni di questi ultimi anni. Non si pongono, infatti, le basi dell’irreversibilità dell'affermazione della grande impresa e della sua centralità nel meccanismo di definizione delle classi sociali e degli stili di vita del nostro paese. Oggi la grande crisi in cui siamo immersi rende questo fatto ecidente ai più: lo era ai non apoti già da molto tempo. 33 Grande impresa non irreversibile e ondate cumulative piccole e medie FONDAZIONE Questa irreversibilità non va intesa in modo statico e privo di interne modificazioni che ne pongano in discussione non tanto il ruolo nel processo di accumulazione e di spostamento sulle frontiere tecnologiche, quanto, invece, quello sociale e culturale pocanzi richiamato. La causa fondamentale di ciò è da ricercarsi nella dinamica della crescita e dell'accumulazione capitalistica a livello mondiale, piuttosto che nazionale. La dimensione media delle imprese tende a scendere per una serie di motivi troppo noti per essere ricordati qui. Questo implica non soltanto che tutte le opportunità della crescita non possono più venir sfruttate dalla grande dimensione, ma che si è, di regola, dinanzi sia a interventi istituzionali diretti a sorreggere la crescita delle unità produttive piccole e medie, sia a modificazioni delle rigidità tecnologiche, molto meno pervasive di quanto non fossero sino agli inizi degli anni sessanta, quando si era ancora "trascinati" dal grande ciclo crescente del commercio mondiale dopo la congiuntura coreana. La tendenza suddetta emerge in tutta evidenza sol se si guarda a ciò che accadde nella decade degli anni settanta del Novecento attraverso la lente del censimento del 1981: da allora un nuovo corso delle ondate cumulative, caratterizzato dall’emersione piena delle piccole e medie imprese. Esse sono destinate a essere meno impetuose nelle dinamiche di scala e di scopo e soprattutto più frastagliate, intimamente sottoposte a processi di disaggregazione e di frantumazione. E ciò è il riflesso non tanto delle loro caratteristiche strutturali, quanto, invece, della perdita della centralità sociale ed economica della grande impresa. E questa è una trasformazione decisiva. Disgrega un solido blocco sociale e pone le basi per la formazione di una società economica scossa da sommovimenti continui e da un policentrismo prima inconsueto. Anche in questo caso si è dinanzi a trasformazioni tecnologiche di grande rilevanza, che hanno addirittura fatto presagire svolte epocali post-fordiste. O, più attentamente, 44 FONDAZIONE l'emergere di un nuovo modo di produzione fondato sulla produzione snella e il passaggio da prescrizioni burocratiche a prescrizioni tecniche, nella ricerca di una flessibilità sincronica ai cambiamenti di mercato. La sostanza della questione è nella definitiva riclassificazione, nel sistema delle imprese italiane, della grande impresa. Essa pare non avere più la centralità sociale di un tempo: gli investimenti labour saving e l'immaterialità crescente delle produzioni strategiche che emigrano (come le altre) verso paesi a più alta redditività del capitale, spiega la sua scarsa rilevanza socio-culturale. Le conseguenze dispiegate di questo processo non sono ancora evidenti ai più, ma vale la pena affrontare direttamente la questione e cercare di prevedere quali implicazioni potrà avere questo processo. Per comprendere pienamente questo interrogarsi occorre ripercorrere - se pur schematicamente - le grandi fasi della crescita dell'impresa italiana come organizzazione e quindi come costrutto sociale e simbolico. L'avvertenza è quella di non avere in mente una tassonomia evolutiva, quanto, invece una crescita morfogenetica e insieme ibridante: forme antiche permangono nelle nuove e nulla viene totalmente disperso, frammentandosi invece, se pur molto a fatica per il carattere ad alveoli e feudalizzante del nostro capitalismo, epidemiologicamente nel sistema. In principio era la prevalenza, nel meccanismo organizzativo, della capacità di mestiere degli operai specializzati e delle gerarchie del lavoro operaio. L'alta segmentazione sociale in campo proprietario si univa all' alta delega dei meccanismi di gestione tecnologica e disciplinare. Il conflitto sociale non intaccava il riconoscimento e l' identificazione degli attori in una autorità tecnica che pervadeva e superava la differenza degli interessi riconosciuti come conflittuali. Questo modello preforma ancora larghissime aree delle piccole e medie imprese e si sta 55 Una tassonomia morfogenetica per comprendere la virtuosità dell’ interconnession e FONDAZIONE riproponendo felicemente in segmenti cruciali della "nuova" grande impresa flessibilizzata e dominata dalla prescrizione tecnica anziché burocratico-personale, senza, tuttavia, nostalgie proto e post-artigianali. L' essenziale è il fatto che va formandosi una nuova aristocrazia del lavoro; non più operaia come un tempo, ma tecnica, non più solo maschile, ma anche, pur su basi ancora troppo ristrette, femminile. Una pervasività che si diffonde dalla piccola alla grande impresa, dove, tuttavia, rapidamente, agli operai specializzati si sostituiscono gli ingegneri e i periti industriali. Dal controllo del mestiere e sul mestiere si passerà poi al controllo sui tempi e sui metodi a cavallo della prima guerra mondiale e con l' affermasi delle prime produzioni in grande massa. L'avvento dello scientific management e dell' italianizzazione del taylorismo si realizzò non in un contesto di "costituzionalità" degli interessi, ma nel periodo della dittatura fascista e della distruzione delle libertà politiche e sindacali. Vizio di origine della nostra cultura organizzativa. Vizio gravissimo soprattutto per la piccola e media impresa, ché non si favorì così l'implementazione di tecniche e filosofie innovative in sintonia con quanto avveniva, non dirò nel già affermato capitalismo manageriale americano, ma anche in quello personale inglese oppure in quello corporato tedesco. A questo destino sfuggirono soltanto le poche grandi imprese che iniziarono a riflettere sull' incorporazione dell'organizzazione nella tecnologia al di là di un puro e semplice orizzonte disciplinare. Gli anni cinquanta e sessanta sono decisivi. Per due ordini di motivi. La grande impresa può dispiegare la sua macchina organizzativa e gestionale senza più l'assillo della sovracapacità produttiva contestualmente alla sferzata organizzativa, più che finanziaria, che viene dal Piano Marshall; emerge in tutta evidenza il ruolo "educativo" sul piano finalmente manageriale anziché tecnologico di alcune imprese guida nell'esperienza italiana e milanese. Esse sono poche e accerchiate dalla borghesia più arretrata e culturalmente arcaica del mondo industrializzato. 66 FONDAZIONE L'impresa pubblica, del resto, con l’ Olivetti di Adriano, è stata la matrice fondamentale del rinnovamento manageriale. Solo la Rinascente e la Pirelli (per certi versi) hanno svolto un simile ruolo, ma su scala eccezionalmente più ristretta e limitata. Fu un fallimento, se si pone mente alle risorse di cui la società economica disponeva e le si confrontano con i risultati raggiunti , si può ben dire che il fallimento fu, ed è, clamoroso. Possediamo schiere di ottimi tecnici, ma ristrettissime schiere di ottimi manager. La causa della non diffusione ibridante del modello progressivo propugnato dall'impresa pubblica e dall’Olivetti risiede in due ragioni. Una di tipo storico-sociologicogenerale: il carattere chiuso e alveolare della nostra imprenditorialità che non possiede istituzioni educative di alto livello( o di livello quanto meno simile a quello dei paesi più evoluti ). La seconda ragione è di tipo squisitamente politico: allorché l'impresa pubblica aveva pienamente dispiegato il suo modello innovatore essa cadde sia sotto la tutela partitica che impose fini non imprenditoriali a dei manager vili e a dei leaders eterodiretti, sia sotto la sudditanza extra istituzionale di una oligarchia cleptocratica. E con la morte di Adriano Olivetti scomparve anche, di fatto, la possibilità concreta e non mitologica di inverare le sue straordinarie intuizioni che aveva portato quell’ impresa al successo. Le conseguenze distruttive sono state e sono enormi: un immenso patrimonio si è già disperso e un altro va disperdendosi senza che nessuna forza appaia all'orizzonte in grado di ripristinare un pensiero e un orientamento manageriale all'altezza delle sfide competitive che ci attendono. La sostanza della questione è, in ogni caso, quella che ci fa dire, sulla base della riflessione storiografica e sociologica, che qualsivoglia crescita razionale e moderna dell'imprenditorialità manageriale è avvenuta nel nostro paese soltanto grazie al ruolo d’interconnessione istituitosi tra grande impresa e piccola impresa. 77 FONDAZIONE Questa prospettiva, la si condivida totalmente o solo in parte, non va tuttavia assunta in modo rigido. Il razionale e il moderno sono concetti ambigui. La prospettiva prima evocata, mentre sottolinea indubitabilmente talune conquiste culturali nel campo del patrimonio conoscitivo della gestione aziendale, credo sia anche utilissima per introdurre la dimensione dell'ambiguità nello studio dei processi di modernizzazione. Un' ambiguità ancor più radicale di quella ormai classica che aveva introdotto la riflessione antropologica con il concetto di "modernizzazione senza sviluppo" E' il nesso tra cultura e morale, da un lato, e crescita, dall’ altro, a essere messo oggi in discussione nell'esperienza complessiva del sistema delle imprese, sia nelle elaborazioni degli intellettuali, sia negli orientamenti all'azione e nel significato attribuito all'esistenza nel mondo da parte di quella che un tempo si usava definire la " borghesia industriale". Beninteso: il sistema delle imprese è stato alla base di uno straordinario processo di crescita delle disponibilità materiali dei ceti e delle classi e soprattutto dei quasi- gruppi intermedi della società. E' un fatto noto, ma troppo scarsamente ricordato. Ma esso non è stato in grado di costruire, unitamente agli altri attori di un complesso sistema sociale sempre più disarticolato e frammentato quanto a capacità decisionali, il legame tra crescita e civilizzazione. E l'acme di questa incapacità la si misura negli ultimi venti anni. Durante questo lasso di tempo la crescita delle disponibilità per la riproduzione è stata ancora più impetuosa di quanto prima non fosse. Ma essa non ha determinato l'inveramento della classica virtuosità modernizzante ipotizzata dai cantori dei presunti poteri terapeutici del mercato senza regole e senza forti istituzioni culturali. 88 FONDAZIONE Per queste ragioni si può, in sintesi, affermare che il sistema delle imprese italiane è un sistema bloccato. Non c’è flessibilità intersettoriale (il modello di specializzazione è lo stesso, con le sue anomalie, da venti anni) né dimensionale. Tende a venir meno la flessibilità territoriale (alla crisi dei vecchi distretti non si accompagna lo sviluppo di nuovi territori). L’unico elemento di flessibilità o mobilità guadagnato dal sistema (dopo l’ondata dei primi anni ’90) riguarda i grandi gruppi. Ma qui è mobilità verso l’uscita. Al contrario che in passato i grandi possono uscire dal mercato. E ne sono usciti in gran numero (grandi case farmaceutiche, grandi case automobilistiche, grandi gruppi chimici, grandi costruttori, e adesso alimentari). I settori tradizionalmente italiani – che vent’anni fa aumentavano di quota di mercato mondiale per “non price factors” – oggi arretrano (salvo aree della meccanica). E questa è un novità. Si assommano ora i vecchi problemi di inefficienza macroeconomica (specializzazione in prodotti a crescita lenta) a nuovi problemi di inefficienza micro (i “non price factors” non bastano più a garantire quote mondiali e profitti). Rischio vero di arretramento competitivo. E rischio di declino, o meglio di crisi di un modello che appariva consolidato e di successo. Senza grande impresa, l’intero modello italiano va in crisi. Era un modello basato sul decentramento (così sempre e tutti lo hanno definito: per poi concentrarsi su distretti e PMI; ma assumendo il centro come dato, si veda Fuà per tutti): decentramento, allora, rispetto alle grandi imprese e al triangolo industriale. Oggi le grandi non ci sono e anche il triangolo non c’è più. Si stenta ormai a vedere un centro anche geografico dello sviluppo. E il decentramento senza centro è un paradosso, è una figura zoppa. L’interazione, appunto, fra centro e periferia, grandi e piccoli, è stata la forza del paese. Oggi senza centro o centri manca un elemento di propulsione (per la ricerca, la formazione, in generale 99 Per comprendere sinteticamente FONDAZIONE l’eccellenza, che richiede energie concentrate: tema di analisi e ricerca). E il piccolo non basta più. In questo quadro non rassicurante, che ruolo per le banche? Un ruolo c’è e ci sarà a patto di capire prima se la situazione attuale è o no il frutto dell’operare di vincoli finanziari allo sviluppo. Questa è la questione vera. Perché, delle due l’una. Se lo stato attuale del sistema, e cioè la sua conclamata immobilità intersettoriale e dimensionale (e la sua recente immobilità territoriale) con le sue conseguenze oggi negative, è almeno in parte (piccola a piacere) il frutto di un modello di relazioni da correggere, ebbene correggiamolo, e avremo un ruolo storico e economico (noi, e non altri). Il ruolo sarà quello di ri-avviare la crescita e l’accumulazione: lo stesso avuto dalle banche a capitale tedesco all’inizio del secolo scorso, dalle BIN dopo la crisi dei primi anni trenta, da Comit e Mediobanca nel dopoguerra. C’è sempre stata una banca – o più di una – nel ruolo di propulsore di sviluppo nelle fasi di transizione del paese. Se no, se non ci sono vincoli finanziari allo sviluppo da rimuovere, è un problema più generale, e più grave: occorrerà gestire con cura un declino che sarà comunque graduale, a macchia di leopardo. In termini del tutto deduttivi, un sistema bloccato è un bell’oggetto di studio, alla ricerca di elementi di inefficienza del mercato finanziario. La finanza è infatti strumento principe di mobilità delle risorse. In un mercato efficiente i capitali si muovono a premiare le opportunità, e il sistema si muove con il mercato. Se il sistema non si muove, delle due l’una: o il mercato è inefficiente – non seleziona le opportunità, ne blocca il dispiegarsi – o le opportunità mancano. E’ quello che sta accadendo? L’esperienza fatta nell’ultimo decennio, e in particolare nell’ultimo biennio, dice una cosa chiara: che in Italia manca – forse è sempre mancato – il capitale industriale, e cioè quello che proviene dal 1010 E le banche? La difficoltà d’innovare con il capitale FONDAZIONE mondo delle imprese e ad esso è destinato. Tutta la storia della finanza dal dopoguerra – l’impresa pubblica, l’assistenza delle banche pubbliche alle imprese maggiori, la crisi degli anni settanta - è ricerca di surrogati alla carente accumulazione della grande impresa. Oggi di questo male soffre anche la piccola e media, mentre la grande non ha più quei sostegni. L’impresa italiana risulta generalmente sottocapitalizzata. Visto che non lo è per scarsa redditività, lo è per altri motivi, e cioè per scarsa propensione del capitale a affluire o ri-affluire a destinazioni produttive domestiche. Dove è il vincolo, posto che il risparmio in Italia c’è, eccome? (anche se bisogna ri-verificare lo spiazzamento del debito pubblico). E che in ogni caso il capitale potenziale può venire da tutto il mondo? (e non viene). La ricerca dei vincoli – rimossi i quali torna, in ipotesi, la flessibilità - non dà risultati immediati. Dieci anni fa si pensava che mancassero la borsa, la normativa, i fondi di private equity. Non è stato un vincolo la Borsa: la stasi del numero di società quotate non è associata a una carente offerta di capitali (il rapporto mkt cap su PIL è molto cresciuto, a livelli europei) né ad inefficienza operativa (il volume di transazioni è molto alto), Dipende dalla propensione delle imprese alla quotazione. Non lo è stata la normativa (il TUF regge, anche se la questione Parmalat indurrà a messe a punto). Non sono mancati strumenti per le imprese (ci sono più fondi di private equity che opportunità di investimento: gli esistenti sono tutti liquidi); ciò che manca (mezzanini per esempio per cui ci vuole una norma) è marginale. La disponibilità di credito, cresciuta sempre a un tasso maggiore del PIL e con spread decrescenti, lungi dall’aggravare il vincolo di capitali insufficienti, lo ha allentato. Il punto è che la carenza di capitale, strutturale nella grande impresa italiana, oggi si estende – come problema – alla piccola. Non era così, prima. Il modello di “industrializzazione senza 1111 FONDAZIONE fratture” , che ha caratterizzato le PMI italiane, non presupponeva, infatti, un largo impiego di capitale di rischio, quanto piuttosto un rapporto fiduciario con le banche dei diversi territori. Se è vero che bisogna creare le premesse per un maggior afflusso di capitale alle piccole imprese, questo rapporto va rivisto. Una possibile radice del problema della sotto-capitalizzazione del sistema delle imprese, infatti, è proprio nel rapporto con le banche. Il rapporto banche-imprese è stato in Italia (dall’inizio del secolo alla fine degli anni ottanta) dualistico. Le grandi banche al servizio dei grandi gruppi; le piccole – popolari, casse di risparmio, rurali cooperative in primo luogo– per la piccola impresa. E’ andata bene così per molti anni: la crescita delle imprese in Italia, dall’agricoltura all’artigianato, alla piccola impresa domestica, all’impresa esportatrice è avvenuta appunto “senza fratture”, senza salti di quantità e qualità di gestione, per distretti. Le piccole banche avevano mezzi sufficienti e protezione normativa per svolgere il loro ruolo positivo a sostegno di questa crescita, che hanno assecondato nei singoli territori. Ora siamo nel fuoco che non redime della grande crisi. I manuali insegnano che l’innovazione non si fa con il credito, ma con il capitale. Le PMI italiane hanno fatto eccezione perché il loro modello di crescita e innovazione è stato peculiare. Quel modello non va più bene adesso, probabilmente (il dubbio residuo è dovuto al giudizio, sospeso, sulle effettive capacità di trasformazione delle nostre imprese). O almeno non va bene per quell’area di imprese che ha potenzialità di crescita (che non sappiamo quante siano). Queste imprese, se ci sono, devono affrontare non un ulteriore passo di sviluppo, ma la discontinuità: tecnologie più complesse, mercati più complessi, crescita esterna, aggregazioni, cambio di generazione, cambio di modalità di gestione. Il tutto richiede – anche, non solo ma anche – capitali. Le grandi banche devono trasformarsi, per essere all’altezza dei 1212 FONDAZIONE compiti, in banche capillari e specializzate. Se non lo fanno, il sistema – affidato ancora alle piccole banche e all’ibrido dei gruppi federativi – galleggia ma non si sblocca se non per casi fortuiti. La grande crisi in cui siamo immersi rende tutto più difficile. L’offerta bancaria del futuro vedrà ancora molte banche locali (appartenenti o meno a grandi gruppi) e una (o due?) banche specializzate nazionali. Ambedue sulla stessa area di clientela. Al di là della messa in discussione del modello dualistico di relazione, resta il problema della sotto-capitalizzazione delle imprese. O, che è lo stesso, della scarsa mobilitazione di capitale industriale nel paese. E’ difficile pensare al nuovo rapporto fra banche e imprese senza affrontare la questione del ruolo delle banche nella fornitura, diretta o indiretta, di capitale di rischio. Quanto alla fornitura diretta, il tabù degli anni trenta non ha motivo di essere infranto, se non per eccezioni e con strumenti ad hoc, di impiego circoscritto e per quantità limitate . Quanto alla fornitura indiretta, detto del ruolo limitato della Borsa (a cui destinare altre eccezioni), e dei fondi ad hoc, la questione può essere affrontata aggirandola. E’ noto, e si è iniziato a verificare empiricamente, che gli imprenditori preferiscano dare garanzie personali alle banche piuttosto che dare capitale alle imprese. Le ragioni fiscali sono note, la dual income tax sembrava una buona risposta, la thin capitalization no. Ma il punto è che senza capitale non si cresce, o meglio non si affrontano le discontinuità di oggi. Se un imprenditore che ha capacità di crescita scambia patrimonio dato in garanzia per capitale, può ottenere un miglior rating, aver più credito, e – se ha ritorni di scala positivi – alla fine avrà un entreprise value che cresce e un utile netto molto maggiore, anche a prescindere dalla fiscalità. 1313 FONDAZIONE La banca avrà (potrà avere, in funzione del trade off sul rating di garanzie vs capitale) un maggiore e migliore portafoglio crediti solo se trasformerà profondamente se stessa a partire dai suoi gruppi manageriali dominanti. Hic Rodhus! Hic salta! 1414 L’autore Giulio Sapelli, nato a Torino nel 1947, è uno tra i maggiori studiosi italiani attenti alle trasformazioni che interessano il sistema produttivo ed economico del nostro Paese .Il Professor Sapelli insegna Storia Economica all'Università Statale di Milano ed è membro del Comitato scientifico della Fondazione R.E TE. Imprese Italia R.ETE. Imprese Italia Contatti R.ETE. Imprese Italia è l’Associazione che nasce nel maggio del 2010 come evoluzione del “Patto del Capranica”, stretto tra Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti. R.ETE. Imprese Italia ha quali obiettivi la promozione e il consolidamento delle imprese come componenti fondamentali del sistema economico e della società civile, e il riconoscimento del loro ruolo a tutti i livelli di interlocuzione istituzionale e privata. Fondazione R.ETE. Imprese Italia Presidente Giuseppe De Rita La Fondazione R.ETE. Imprese Italia intende promuovere i valori dell’impresa, del lavoro e dell’etica imprenditoriale nella società civile, per favorire una nuova e più forte integrazione sociale, culturale e politica degli imprenditori nel Paese e nei loro territori di riferimento. Corso Vittorio Emanuele II 282-284 00186 Roma Telefono: 06-98378014Fax: 0668806761 E-mail: [email protected]