Roberto Barzanti

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Roberto Barzanti
“Buon governo e bene comune: attualità di un’allegoria”
Roberto Barzanti
Intervento al 46° incontro nazionale di studi delle Acli
Abitare la Storia
Cortona, 20 settembre 2013
Nasce fin dal Duecento e s’intreccia con lo stesso fiorire della cultura tipica dell’età dei Comuni una
pittura “pensata per rispondere alle esigenze della politica” , un’arte che si prefigge di “instillare i
fondamenti di un’etica civica” (Maria Monica Donato). Quando Ambrogio Lorenzetti affresca, tra
il 1338 e il 1339, le pareti della sala dei Nove – élite al governo da cinquant’anni – era trascorso
poco tempo dalla redazione in volgare del Costituto, e per certi versi si può dire che la visione
proposta dal pittore deriva anch’essa dalla volontà della committenza di delineare senso e finalità
della città che si andava edificando, materialmente e spiritualmente. Si trattava di un’operazione
pedagogica non meno che estetica, istruttiva non meno che autocelebrativa. E si badi che i primi
destinatari erano i governanti stessi: “vo’ che reggete…”. Un’élite esaltava i principi su cui voleva
reggersi: evidente era l’intento propagandistico.
A Firenze fu incaricato Giotto di dipingere nel primo Palazzo civico, quello del Podestà,
un’Allegoria incentrata sulla personificazione del Comune. Ma i Medici ne fecero tabula rasa. A
Siena, e non solo per l’eccellenza dell’affresco, fors’anche per la fedeltà repubblicana e lo
spiritaccio ghibellino, le immagini di un’Allegoria ricalcata sulla vita quotidiana sono sopravvissute
e hanno avuto una fortuna strepitosa nel corso dei secoli. Più che scoprirne l’attualità è oggi
opportuno misurarne la distanza. Ceri temi permangono vivi, altri sono irrimediabilmente datati.
Si disse “ghibellina” Siena, ma, a dire il vero, il capolavoro prese forma negli anni aurei del
dominio guelfo, quando al potere erano i “buoni mercanti di parte guelfa” (1287-1355), rigorosi
amministratori di una lungimirante politica urbanistica, dell’ “ornato” della città: “perché la città
dev’essere onorevolmente dotata e guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’forestieri
quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’cittadini di Siena”.
Allegorie ed effetti si rispondono a vicenda. Ideologia e sua proiezione pratica si richiamano
reciprocamente. E non è il caso di insistere sulla necessità di non separare l’impianto dottrinario
dalla rappresentazione realistico-utopica della fervida vitalità urbana.
Oggi nessuno degraderebbe a “sciarade” – l’infelice definizione è di Bernard Berenson – le figure
che allegorizzano le Virtù.
Quali furono le fonti? Aristotele, San Tommaso, magari Brunetto Latini? Il contenuto teorico o
teologico è importante quanto la scena.
Si doveva cominciare a leggere dalla tabella posta sotto l’allegoria della Giustizia:
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Questa santa virtù, là dove regge,
induce ad unità li animi molti
e questi, a cciò ricolti,
un ben comun per loro signor si fanno,
lo qual, per governar suo stato, elegge
di non tener giamma’ li ochi rivolti
da lo splendor de’ volti
de le virtù che intorno a lui si stanno.
Per questo con triunfo e llui si danno
censi, tributi e signorie di terre,
e per questo senza guerre
seguita poi ogni civile effetto,
utile, necessario e di diletto.
La protagonista dunque è la Giustizia, sovrastata dalla Sapienza.
“Diligite iustitiam qui iudicatis terram,
sentite de Domino in bonitate
et in simplicitate cordis quaerite illum”
(è l’attacco del Liber Sapientie).
Propongo di dare pregnanza alla bontà di Dio che si deve ascoltare nel proprio cuore: essa accende
quel desiderio di un bonum collettivo che sarà alla base del Buon governo, del governo buono e
dell’adesione agli ideali che propugna. Nell’affresco si legge ora a malapena il primo versetto, ma
nulla impedisce di ritenere che si citi un attacco per invitare ad una lettura compiuta.
“Il vecchio sovrano […] è il Comune di Siena e, insieme, il Bene comune”. Istituzione e valore che
impersonifica e la legittima: C.S.C.V.: Commune Senarum Civitas Virginis.
Dai piatti della bilancia si diparte una corda bicroma che è dapprima raccolta dalla Concordia (con
tanto di pialla: a significare eguaglianza), quindi trascorre per le mani dei cittadini, i Ventiquattro,
per poi tornare ed esser legata al polso del vecchio: rappresentazione del legame di fiducia che si
stabilisce tra istituzione e cives incaricato del governo.
Il vegliardo – un Padreterno che siede al posto dell’onnipotente e divide i buoni dai cattivi:
l’iconografia è quella di un giudizio universale – è assistito dalle Virtù teologali (in alto: Fede,
Carità, Speranza) e dalle Cardinali (in basso: Fortezza, Prudenza, Temperanza con una clessidra che
allude alla saggia amministrazione del tempo, Giustizia con tanto di testa e corona quali trofei), a
loro volta accompagnate da una candida Pax e da Magnanimitas. La Pace, che a rigore non è una
virtù, è più delle Concordia: “La concordia unisce appetiti che possono essere conflittuali; la
pacificazione degli appetiti si realizza con la pace” (S. Th., II-II q. 29, a. 1). In Ambrogio la pace
riguarda forse i rapporti con il mondo esterno. “Fino al XVIII secolo il soggetto è indicato come La
pace e la guerra”. (Donato).
La Pace contempla – e invita a contemplare – gli effetti della parete di destra.
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Da questa concordia spontanea o coatta “seguita poi ogni civile effetto”.
Da notare la Securitas che aleggia come uno spettrale angelo della morte minacciando e sorvolando
con la sagoma di un impiccato il rissoso contado. La separazione tra città e campagna è separazione
tra uno spazio di libertà e una parte di territorio da sottomettere e da sfruttare. Ogni idealizzazione è
vietata. E nella città è esaltato il rapporto tra mercato e saperi, tra Studio aperto e operosità dei
traffici. La “dolce vita e riposata”. La comunità urbana è uno spazio di privilegio chiuso in se
stesso.
L’Allegoria del malgoverno è esemplarmente del tutto speculare, con i Vizi al posto delle Virtù. In
alto Avarizia e Superbia con Vanagloria. In basso una sinistra compagnia: Crudelitas, Proditio,
Fraus, Furor, Divisio, Guerra. “La dove sta legata la iustitia, / nessuno al ben comun già mai
s’acorda”. Bernardino loda la città in cui “tutti tirano […] al bene comune unitamente”. Il livido
scenario è dominato da Marte e Saturno. “Allo scenario infernale risalgono gli ibridi semiferini, le
corna, gli artigli, le code puntate, le ali di pipistrello, gli arpioni che abbondano in questa corte
grottesca” (Donato). Chiara Frugoni vi ha visto eco della Babilonia dell’Apocalisse.
Centralità della Giustizia e Bene comune come fine sono i due capisaldi ricavati dalle dottrine
aristoteliche, ma in molti negano un rapporto stringente con fonti tanto reputate e piuttosto mettono
in evidenza la vulgata dei predicatori. E poi il legame tra immagini e testo non deve essere
enfatizzato più di tanto.
Anche Giotto raffigurò il Comune nelle vesti di un severo Giudice. E altri casi si potrebbero citare.
Si veda sempre Giotto nella cappella degli Scrovegni.
Per la prima volta qui compare la Tirannide e l’opposizione è tra due forme di governo: un governo
dei molti e un governo “assolutistico”. La degenerazione in tirannide, che in Aristotele deriva dalla
Monarchia, è tema per eccellenza del neoaristotelismo comunale. L’ideale guida è il “principatus
plurium”.
Sopra i piatti della bilancia della Giustizia si leggono due tituli: Distributiva e Comutativa, in
riferimento all’Etica Nicomachea di Aristotele. La Distributiva in realtà commina pene (già in
Domenico Cavalca): invasiva giurisdizionalizzazione? La Comutativa è assistita da due angeli che
danno uno staio, cioè un’unità di misura che garantisca la regolarità degli scambi: il mercato è da
regolare. La figurazione trae linfa dall’esperienza: qui lo staio, altrove la pialla e la sega.
L’armamentario dei lavori quotidiani elevato a simbolo. Si ascoltino certi passaggi delle prediche
bernardiniane del 1427. La condanna morale è essa stessa condanna politica.
In che misura la rappresentazione della città riflette la Siena dei Nove? Malgrado la veridicità di
molti dettagli sarebbe eccessivo parlare di una ‘veduta’ topografica dal vero.
Ecco la descrizione scandita da Bernardino nel 1425, ricalcata sul Buon governo:
Voltandomi a la pace, vego le mercanzie andare atorno, vego balli, vego racconciare le case, vego
racconciare vigne e terre, seminare, andare a'bagni, a cavallo, vego andare le fanciulle a marito, veggo le
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grege delle pecore etc. E vego impicato l'uomo per mantenere la santa giustizia. E per queste cose, ognuno
sta in santa pace e concordia.
Per lo contrario, voltandomi da l'altra parte, non vego mercanzie; non vego balli, anco vego uccidare altrui;
non s'acconciano case, anco si guastano e ardono; non si lavora terre, le vigne si tagliano, non si semina, non
s'usano bagni né altre cose dilettevoli […] O donne! O uomini! L'uomo morto, la donna sforzata, non
armenti, se none in preda; uomini a tradimento uccidare l'uno l'altro; la giustizia stare in terra, rotte le
bilance, e lei legata, co’ le mani e co’ piei legati.
Da notare che quella danza – di fanciulle o di giullari? goliardi con capelli corti e tuniche come
vuole Skinner? – allegorizza l’armonia civica che si sprigiona dalla Concordia: non è un episodio
tratto dalla realtà, né, tanto meno, esemplare quanto a comportamenti, essendo balli e schiamazzi in
linea generale proibiti. È fuori scala perché da ritagliare come allegoria rispetto al livello della
realtà del quale pure partecipa.
La campagna ricompone simultaneamente le operazioni di un calendario. E gli strumenti – vedi
l’aratro senza ruote – sono davvero quelli in uso: lettura antropologica. L’atmosfera è data da
Primavera e Estate.
Perche il ciclo ha avuto tanta fortuna? Per l’equilibrio e forse la compenetrazione tra credibilità e
modello. La Siena del Trecento lievita a spazio di relazioni urbane che acquistano un respiro
universale, non sono prigioniere di un’effimera ideologia.
A dire il vero un’ideologia sottende le immagini: ed è quella del Bonum commune. Si veda tra testi
più probanti il De regimine civitatis di Bartolo da Sassoferrato. La tirannide ex parte exercitii si
forma quando si eliminano le personalità cittadine più eminenti e si favoriscono le divisioni
(partes).
Bonum publicum:
“Illud tamen dicimus bonum regimen et non tyrannicum, in quo plus prevalet commnunis utilitas ed
publica, quam propria regentis: illud vero tyrannicum, in quo propria utilitas plus attenditur”. (De
tyranno).
Il testo di origine è piuttosto:
De bono comuni di Remigio dei Girolami, composto tra il 1301 e il 1302 dal domenicano
fiorentino. Dove numerosissimi sono i riferimenti al mondo classico, da da Valerio Mssimo a
Cicerone e sono additati esempi illustri: Fabrizio, Marco Curzio, Torquato, Attilio Regolo,
Alessandro Magno, Catone Uticense.
Il cartiglio sotto gli Effetti del malgoverno è esplicito:
“Per volere el ben propio, in questa terra
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sommess’è la giustizia a tyrannia.
unde per questa via
non passa alcun senza dubbio di morte,
ché fuor si robba e dentro da le porte”
Nasce “l’idea che non c’è potere legittimo senza consenso del popolo”: e se questa convinzione non
si traduce in meccanismo procedurale, ciò non significa che non abbia “soprattutto un senso morale,
assegnando al principe un imperativo di governo al servizio del bene comune”(Pierre Rosanvallon,
Controdemocrazia)
Val la pena soffermarsi su alcuni passi delle lettere di Santa Caterina da Siena:
A misser Andreasso Cavalcabuoi (338): “E non avendo l’occhio a sé, non l’avrà mai sopra la città
attuale, della quale fosse fatto signore. E però non guarda al bene universale e comune di tutta la
città, ma solo a sé medesimo, o al bene particolare, il quale è per proprio suo piacere, o utilità che
ne torni a lui medesimo”.
Il concetto di buon governo – governo teso al raggiungimento del bene comune – si è laicizzato e il
termine buongoverno si è spogliato di ogni solennità dottrinale.
Il bene comune è aggredito oggi da un pluralismo, anche di idee e sensibilità, che inducono a
delinearlo in termini consapevoli della necessità di conciliare universalità e diversità e quindi con
un’attenzione aperta alla pratica, alle tradizioni, ai comportamenti, alle etiche.
“Bene significa il complesso delle cose desiderate che vorremmo augurare a noi e alle persone care”
secondo la piana spiegazione del cardinal Martini, e comune deriva da “cum munus”, cioè compito
fatto insieme: “Il bene comune consiste nel predisporre le condizioni sociali e civili necessarie per
lo sviluppo della città”.
Benedetto XVI: “L’insieme delle condizioni sociali che permettono alle persone di realizzarsi
collettivamente e individualmente, è il bene comune”.
Angelo Scola e richiamo a Jacques Maritain e alla nozione di “pensiero comune pratico”: “L’ambito
politico non necessita per essere in buona salute del consenso totale (assai improbabile) intorno a
visioni sostantive della vita”.
Nel Compendio: “La socialità umana non è uniforme, ma assume molteplici espressioni. Il bene
comune dipende, infatti, da un sano pluralismo sociale”. (par. 151)
Nonostante una declinazione più mondana e consapevole della necessità di perseguire un accordo
tra visioni diverse, il concetto di bene comune non è riconducibile ad un unico significato valido per
tutti e “quand’anche si dimostrasse accettabile a tutti non implicherebbe risposte egualmente
definite a singoli problemi”.
(Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, XXI, 1)
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Il bonum commune deve essere reinterpretato:
“Oggi esso consiste in un insieme di mezzi da utilizzare (o non utilizzare) e di fini da perseguire (o
non perseguire) chiaramente prescritto e sostanzialmente condiviso dalle costituzioni delle
democrazie cosiddette ‘mature’ e dalle dichiarazioni internazionali alle quali la maggioranza degli
Stati, più o meno obtorto collo, affermano di volersi conformare” (Ermanno Vitale, Contri i beni
comuni)
“Tra le molteplici implicazioni del bene comune, immediato rilievo assume il principio della
destinazione universale dei beni (Compendio, par. 171) e lo stesso diritto alla proprietà privata va
inteso come “subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni”
(Laborem excersens, 14)
Ebbene. Un rapporto non incidentale affiora tra bene comune e beni comuni. Se il principio
tomistico può essere riletto come kantiana idea regolativa i beni comuni da preservare e difendere
da un accaparramento privatistico – aria, ambiente – chiedono un “costituzionalismo di diritto
privato” che limiti i poteri dell’economia e contrasti le dinamiche selvagge della globalizzazione.
“Non è indispensabile credere che i nostri obiettivi siano destinati a realizzarsi, ma è necessario
poter credere in essi” (Tony Judt, Guasto è il mondo, p. 131)
“La Chiesa, da parte sua, lavora sempre per lo sviluppo integrale di ogni persona. In questo senso,
essa ricorda che il bene comune non dovrebbe essere una semplice aggiunta, un semplice schema
concettuale di qualità inferiore inserito nei programmi politici. La Chiesa incoraggia i governanti ad
essere veramente al servizio del bene comune delle loro popolazioni”.
(papa Francesco ai nuovi ambasciatori, 16 maggio 2013)
Il bene comune era pensato per una comunità-città. In condizioni tanto mutate, caduti o corrosi i
vecchi confini, in presenza di molteplici culture e religioni, ne vanno serbate la volontà progettuale,
l’obiettivo di costruire uno spazio pubblico dei diritti in grado di soddisfare le domande
fondamentali di libertà e di dignità.
“Senza paura ogn’uom franco camini,
e lavorando semini ciascuno,
mentre che tal comuno
manterrà questa donna in signoria,
ch’el à levata a’ rei ogni balia”
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