100 anni di Turoldo - Mariangela Maraviglia

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100 anni di Turoldo - Mariangela Maraviglia
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100 anni di Turoldo
La biografia di M. Maraviglia interpreta molteplici stagioni ecclesiali
I
l prossimo 22 novembre ricorrerà
il centesimo anniversario della nascita di padre David Maria Turoldo. Non mancheranno, comprensibilmente e doverosamente, cerimonie di commemorazione, commenti su
quotidiani e, senza dubbio, un dipanarsi
di ricostruzioni e giudizi diversi se non discordanti. D’altro canto un uomo «scomodo» da vivo lo rimane anche da morto.
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Il più delle volte, però, gli uomini scomodi
sono oggetto post mortem o di macchiettistiche rappresentazioni critiche, se non
astiosamente polemiche, o di apologetiche agiografie.
A scongiurare questo pericolo ci viene
in aiuto l’ultima fatica di Mariangela Maraviglia: David Maria Turoldo. La vita, la
testimonianza (1916-1992), uscito per i tipi di Morcelliana (pp. 447, € 30,00). La
storica pistoiese ci aveva già abituato a
una perizia storiografica ineccepibile con i
suoi diversi studi su don Primo Mazzolari
e aveva recentemente illustrato la bibliografia turoldiana in una vasta quanto utilissima rassegna apparsa su Cristianesimo
nella storia nel 2013.
Con la pubblicazione di quest’ampia
e approfondita biografia di padre Turoldo, Mariangela Maraviglia conclude un
percorso di studio che l’ha vista instancabile peregrina proprio come lo fu il frate
poeta. Basta dare un semplice sguardo alla quantità degli archivi utilizzati per rendersi conto del paziente lavoro di scavo
documentario che l’ha vista impegnata in
decine di città italiane e straniere; carte di
archivio continuamente intrecciate tra di
loro a dimostrazione che per dipanare
l’intricato gomitolo di ogni biografia è necessario sciogliere tutti i nodi e seguire tutti i fili.
E ancora Maraviglia riesce a tenere
insieme la ricostruzione su base documentaria della vicenda turoldiana e «memoria» della stessa, inevitabilmente rielaborata da Turoldo e da altri coprotagonisti,
senza mai cedere all’assunzione della prospettiva di questi ultimi. E particolare acume l’autrice ha dimostrato nell’utilizzo
delle carte di padre Camillo De Piaz, l’amico fraterno, il compagno di tante imprese, legato a Turoldo da un affetto straordinario e proprio per questo libero di
severe critiche e correzioni.
Ma l’autrice non si è limitata a questo: numerose e preziose sono infatti le
testimonianze orali di amici di Turoldo,
di più o meno giovani testimoni. Il rigore
metodologico del libro è stato significativamente messo in luce anche da Enzo
Bianchi (in Tuttolibri – La Stampa,
18.6.2016): il priore di Bose giudica la
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scientificità del volume particolarmente
utile a chi, come lui, è stato fraterno amico del padre David. Siamo convinti che
lo sarà per tutti, laici e credenti, ammiratori e critici del padre Turoldo, particolarmente utile sicuramente per una certa
cultura cattolica italiana ancora immatura verso la ricchezza, anche spirituale,
rappresentata da una storia non agiografica e non apologetica.
Ci sembra utile presentare il volume di
Mariangela Maraviglia dividendo i dieci
capitoli in quattro archi temporali della
vita del padre Turoldo e cercheremo di
dar conto di queste stagioni storiche attraverso poche ma significative parole chiave.
Friuli, categoria
dello spirito (1916-1945)
Il futuro «focoso» predicatore servo di
Maria, al secolo Giuseppe Turoldo, nasceva a Coderno, in una zona del Friuli
già italiana dalla terza guerra di indipendenza del 1866 ma, proprio perché zona
di confine con il Friuli orientale, ancora
provincia dell’Impero austro-ungarico,
segnata, in quel 1916, da una forte militarizzazione e, dopo la disfatta di Caporetto
del 1917, da una nuova, seppur breve, occupazione da parte austriaca.
Un Friuli che diventerà in padre David categoria dello spirito, una terra di
contadini e di quotidiana fatica, di povertà e di legami fraterni, una terra violentata
dalla guerra e dalla natura; una regione
geografica che si faceva regione dello spirito, da indagare e capire e da cantare,
ovviamente, con la poesia, la lingua di padre David, la sua più personale intelligenza della realtà e la sua più autentica
espressione di fede.
Ed è proprio dalla rielaborazione del
Friuli poetico e mitico dell’infanzia, condiviso con Pier Paolo Pasolini o Andrea
Zanzotto, che Mariangela Maraviglia inizia la sua indagine cogliendo alcuni spunti
d’indubbia suggestione ma senza mai cedere a inopportuni cedimenti letterari.
E così la nascita della vocazione religiosa, che Turoldo vedeva come cresciuta
nel grembo della madre, tratteggiata con i
lineamenti della Vergine, e nella povertà,
contestualizzata nell’incontro con alcune
figure di sacerdoti che segneranno il giovane Turoldo: in particolare il vicario di
Coderno, don Adamo De Simon e il padre servo di Maria Giulio Zini, che aprì il
cuore e l’intelligenza del giovane alla poe-
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sia e a una più ampia e serena sensibilità
culturale e umana al tempo stesso.
A tredici anni, nell’anno scolastico
1929-1930, Turoldo iniziò la sua formazione superiore presso l’Istituto missioni
dei servi di Maria di Monte Berico a Vicenza: cinque anni di ginnasio e soli due di
liceo per poi passare al quadriennio teologico. Di pari passo procedeva la professione religiosa: alla fine del ginnasio la vestizione con l’inizio dell’anno di noviziato
esclusivamente dedicato alla formazione
religiosa che conduceva alla prima professione. Nel corso poi del quadriennio teologico la professione solenne e infine l’ordinazione presbiterale.
Il corso di studi, regolarmente condotto e con buoni risultati, soffrì tuttavia dei
pesanti deficit culturali e formativi di
un’impostazione tradizionale. Il giovane
Turoldo si trovò a patire, come padre Ernesto Balducci, della ristrettezza degli
orizzonti culturali degli istituti di formazione religiosa nei quali, come nel caso di
Turoldo, la rivista Il Frontespizio – non
certo foglio di avanguardia – veniva considerata «una manna!».
Giuseppe Turoldo, vestito l’abito il 27
luglio 1934 assumendo il nome David, sarebbe stato ordinato prete il 18 agosto
1940 in un’Italia appena inebriata dalla
dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra. E il giovane Turoldo non fu estraneo
a una fascinazione nei confronti del fascismo, tanto da dedicare nel 1937 a Mussolini una poesia, l’Uomo, salito «all’altare
dall’officina», portatore della gloria secolare di «Roma». Saranno la dura realtà
della guerra e di una nuova tremenda miseria che essa portava con sé a far maturare in Turoldo un antifascismo radicale.
Già a queste date – Turoldo non ha
ancora 30 anni nel 1941 quando giunge a
Milano in compagnia di Camillo Del Piaz
– il padre servita non lascia indifferente
nessuno. Ed è sintomatico il rapporto con
i superiori sia regolari sia secolari: il cardinale Schuster lo volle predicatore in cattedrale a partire dal 1943 e per dieci anni la
buona borghesia milanese fu scossa da
una predicazione che scandalizzava o
commuoveva ma che sicuramente non lasciava indifferenti.
In due densi capitoli Maraviglia ricostruisce da un lato la maturazione in Turoldo di una partecipazione non armata
ma radicale e senza remore alla Resistenza antifascista e dall’altra l’articolata rete
di «relazioni eccellenti» nella Milano degli
anni Quaranta.
Emergono da questa prima fase della
biografia turoldiana due temi che ci sembra opportuno sottolineare: da una parte
l’amore per i poveri, immagine vivente di
Cristo, scomoda ma ineludibile provocazione per la fede del credente e dall’altra
la Resistenza, prima vissuta seppur in forma non armata, con tutti i rischi della
quotidiana ribellione all’oppressore nazifascista e dopo rielaborata come scelta etica radicale. Povertà e Resistenza sub specie fidei naturalmente. E sarà questa radicale lettura unicamente cristiana dell’una
e dell’altra che costerà al padre servita severe critiche, ammonimenti e punizioni,
ma anche fraterni richiami e, ovviamente,
anche entusiastiche simpatie.
Radicale, come il
cristianesimo (1945-1958)
Anche Turoldo fu protagonista del
«risveglio delle coscienze» cattoliche chiamate, dopo la tragedia della guerra, a dare il proprio originale contributo alla ricostruzione di un paese, di un’Europa che
aveva conosciuto l’indicibile orrore dei
campi di sterminio, di un mondo che nella
mente e nei cuori degli uomini più avvertiti era diventato davvero «globale».
Turoldo a questo proposito colse, come Giorgio La Pira, l’importanza della
lettera pastorale del cardinale di Parigi
Emmanuel Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise, commentata proprio da La Pira su
Cronache sociali e di cui Turoldo si assicurò con celerità i diritti per l’edizione italiana tradotta da Camillo De Piaz e pubblicata con il provocatorio interrogativo
Agonia della Chiesa?
Il contributo di Turoldo a quella che
era l’emergenza dell’ora, la ricostruzione
morale, politica e culturale oltre che materiale, fu come sempre generoso, libero,
istintivo, dettato dalla sola tenace volontà
di seguire Gesù, di mettere mano all’aratro e non voltarsi mai indietro. Un contributo che si dipanò in una moltitudine di
iniziative che Maraviglia ricostruisce minuziosamente e di cui, in questa sede, sarebbe impossibile dar conto.
Cerchiamo allora di cogliere la cifra
comune di alcune di queste iniziative,
esperienze, sentieri intrapresi e interrotti e
che avrebbero causato incomprensioni
con i superiori, malumori nelle gerarchie
e nell’ordine stesso e che infine sarebbero
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costate al frate ammonimenti, divieti ed
esili. E quindi la sua attività d’animazione
religiosa e culturale a Milano, con le riviste L’Uomo e poi Il Chiostro e la fondazione della «Corsia dei Servi», libreria, casa
editrice, centro culturale aperto a tutte le
più significative esperienze italiane ed europee, cattoliche e laiche; la «Messa della
carità» e la predicazione che già lo vedeva
peregrino per parrocchie e circoli; l’entusiasmo per l’esperienza della prima Nomadelfia fondata da don Zeno Saltini nel
campo di concentramento di Fossoli; e infine l’approdo, sofferto ma fecondo, al
convento della SS. Annunziata di una Firenze che si vedeva positivamente scossa
dall’intraprendente progetto politico del
sindaco Giorgio La Pira.
Va detto che la ricostruzione del dialettico rapporto tra Turoldo e don Zeno è
una delle più convincenti acquisizioni storiografiche del volume per la vastità del
quadro in cui questa complessa «grande
amicizia» viene delineata. Un quadro che
fornisce elementi per una più ampia riflessione sul nodo povertà-Vangelo nel mondo cattolico italiano del secondo dopoguerra, in quella stagione dell’attesa della
«povera gente» che per Turoldo, come per
tanti, era il vero banco di prova per il cattolicesimo e per la stessa Chiesa italiana.
Entusiasta per Nomadelfia
La Nomadelfia attraversata da Turoldo aveva lo stesso valore della Firenze di
La Pira, la «città sul monte», non astratta
fantasia ma concreto laboratorio per una
nuova società dove il cristianesimo fosse
linfa vitale per l’edificazione della giustizia
e non religione consolatoria e compromessa con le strutture del potere che era e
rimaneva permanente rischio di oppressione dell’uomo sull’uomo. Nomadelfia –
confessava Turoldo – era «la migliore,
anche se la più disperata delle mie poesie
(…) una delle cose più grandi che siano
sorte nel nostro secolo».
Quella di Nomadelfia fu esperienza
entusiasmante e dolorosa a un tempo; padre David che si adoperò per la raccolta di
fondi in maniera straordinaria non poteva
approvare la superficialità con cui questi
stessi fondi venivano amministrati e anche
sprecati e la rottura con don Zeno fu poi
inevitabile. Ed ancora più dolorosa fu la
vicenda di sette frati, fra cui Giovanni
Vannucci, che vollero trasferirsi senza alcuna autorizzazione dei superiori a Nomadelfia e Maraviglia ricostruisce pazien-
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temente il difficile ruolo di mediazione di
Turoldo chiamato a giustificare con i superiori l’indisciplina dei giovani frati.
E proprio questa vicenda doveva pesare nell’allontanamento di Turoldo da
Milano. Nel 1953, nonostante non fosse
venuta meno la stima dello stesso cardinale Schuster, Turoldo veniva trasferito a
Innsbruck e poi di lì finalmente a Firenze.
Ma gli anni della partecipazione all’utopia cristiana di Nomadelfia sono anche
gli anni che vedono allargarsi ulteriormente gli orizzonti culturali (conoscenza e
rapporti con Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Franco Fortini) e la partecipazione a
quelle «avanguardie» cattoliche animate
da Nando Fabro, Nazareno Fabretti, Mario Gozzini. Nella città toscana che vedeva consolidarsi la stagione politica e culturale lapiriana, Turoldo poté approfondire
conoscenze e amicizie come quelle con
Mario Gozzini, con padre Ernesto Balducci, con Gian Paolo Meucci ma anche
misurarsi da vicino con già collaboratori
della «Corsia dei Servi» come don Raffaele Bensi, padre Antonio Lupi op, don Enrico Bartoletti, don Divo Barsotti e don
Lorenzo Milani. Turoldo, che confesserà
di aver patito un certo imbarazzo nell’entrare in quel mondo cattolico fiorentino
così ricco e articolato, seppe inserirsi con
intelligenza portando anzi il suo originale
contributo; e così il periodico parrocchiale
SS. Annunziata non fu più lo stesso e da
bollettino devozionale, agiografico e informativo divenne una rivista formativa.
Come è noto, l’effervescenza del mondo cattolico fiorentino, che poteva contare sul benevolo atteggiamento del cardinale Elia Dalla Costa allarmò il Sant’Uffizio del cardinale Ottaviani. L’arrivo di
mons. Ermenegildo Florit, vescovo «coadiutore» nel 1954, e soprattutto l’inizio
dell’esercizio delle piene facoltà dei vescovi residenziali a partire dal 1o giugno 1958
segnarono l’inizio di una reazione che si
abbatté senza remore su di una pluralità
di figure e di esperienze. Turoldo era costretto a lasciare Firenze il 25 settembre
1958, lo seguiva padre Balducci, inviato a
Roma, ed Enrico Bartoletti, «promosso»
arcivescovo di Lucca e poi Giovanni Vannucci trasferito a Pistoia nel 1964.
Grandi speranze
(1958-1967)
Tra il 1958 ed il 1960 Turoldo è a
Londra ma con lunghe e numerose tra-
versate atlantiche verso il Canada, Montréal in particolare, e non poche città degli
Stati Uniti. Nel 1960 è trasferito nel convento di Santa Maria della Scala a Verona, pur con l’ordine di non recarsi a Milano e poi sarà a Udine nel convento di Santa Maria delle Grazie. In qualsiasi comunità fosse inserito, padre David non si
stancava di dar nuovamente vita a iniziative a lui care e vissute come essenziali per
il suo apostolato: la messa della carità, il
cineforum, la predicazione e una multiforme produzione scritta che trovava nella poesia il suo centro.
L’elezione di Giovanni XXIII e l’annuncio del concilio Vaticano II rappresentarono per Turoldo, come per tanti sacerdoti e laici, la fine di una stagione di
sofferta obbedienza verso una Chiesa
paurosa del futuro, nostalgica di un passato che non aveva più senso, vittima di una
sindrome d’assedio, cittadella arroccata
contro la modernità e i suoi errori. Giovanni XXIII con un nuovo inedito e per
allora rivoluzionario stile pastorale faceva
riscoprire la Chiesa madre oltre che maestra, la sua capacità di capire l’umanità
con misericordia e non solo di condannare gli errori, con l’apertura verso un mondo moderno che interpellava la Chiesa
per un «aggiornamento», si riscopriva
una Chiesa dello spirito, non prigioniera
delle sue stesse istituzioni.
Speranze, attese, entusiasmi che per
Turoldo si tradussero in nuovi impegni di
pensiero e d’azione: la collaborazione con
L’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle e
con L’Osservatore romano, la sfortunata
avventura cinematografica de Gli ultimi,
esercizio poetico e artistico certo ma con il
preciso intento di scuotere nuovamente la
coscienza cattolica verso l’«opzione per i
poveri» che Turoldo reputava irrinunciabile per la Chiesa (cf. Regno-att. 2,2013,27).
Morto il papa che in quattro anni
sembrava aver fatto camminare la Chiesa
per secoli, Turoldo elaborò il progetto
della «Casa di Emmaus»: un centro di
preghiera, di studio, d’incontro, d’accoglienza e di confronto per tutti gli uomini
di buona volontà, credenti e non, ma convinti che nella condivisione fraterna, di
gioie e speranze, di tristezze e d’angosce,
fosse il cammino autentico indicato e percorso da Cristo. Il centro studi nasceva
con un’aggettivazione che indicava la precisa volontà di seguire, anche in ambito
più specificatamente ecclesiale, le più si-
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gnificative acquisizioni conciliari: si definiva infatti centro ecumenico.
Il luogo scelto era poi la testimonianza
di voler continuare a seguire le orme del
papa buono: si trattava della chiesa di S.
Egidio abate a Fontanella di Sotto il Monte, il paese natale di papa Giovanni. Impressionante la quantità di visite, incontri,
collaborazioni, convegni che Maraviglia
ricostruisce mettendo in risalto così la vitalità dell’impresa turoldiana. Nel 1967 nasceva Servitium con l’intento di dare seguito alle novità rappresentate dal Concilio.
Parallelamente Turoldo metteva mano a
una delle sue più significative opere poetiche: la traduzione metrico lirica dei Salmi
che si sperava fosse legittimata nell’uso liturgico, cosa che non fu possibile.
Tra pietà e furore
(1968-1992)
Il 1968, con gli eventi eclatanti della
sostituzione del cardinale Lercaro a Bologna e il «caso Isolotto» a Firenze, segnò
per Turoldo, come per tanti e primo fra
tutti l’amico padre Balducci, un visibile
arresto delle speranze conciliari, la manifestazione di tutta la difficoltà di dare attuazione a quella grande «primavera»
della Chiesa. La Chiesa «profetica», dei
poveri e per i poveri, la Chiesa della pace
contro ogni tatticismo politico, la Chiesa
che rivendicava al suo interno un’agognata libertà, doveva convivere con una
Chiesa «gerarchia», apparato di istituzioni, con strategie non solo pastorali ma di
vera e propria politica.
Una Chiesa che doveva dunque vivere una sua doppia natura. Non stupisce
dunque che in quegli anni Turoldo sia impegnato sui due fronti incandescenti per le
coscienze cattoliche: il Vietnam, «collera
di Dio», come lo ebbe a definire Balducci,
e l’America Latina, terra di testimoni e
martiri di una fede autentica nel Cristo liberatore. Negli intensi anni del pontificato di Paolo VI, Turoldo visse una convinta fedeltà alla Chiesa senza rinunciare alla
sua consueta libertà di parola e di azione.
Non lo coinvolsero le esperienze di
maggior rottura come il gruppo di Com –
Nuovi tempi o i «Cristiani per il socialismo», ma rimase legato a figure di un dissenso cattolico che non rinunciava a una
battaglia tutta dentro la Chiesa e, direi,
tutta dentro la Tradizione sulla scorta della lezione, più o meno maturata, di Yves
Congar: Raniero La Valle, Camillo De
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Piaz, Ernesto Balducci, Mario Gozzini,
Ettore Masina, l’ambiente dossettiano di
Bologna animato da Giuseppe e Angelina
Alberigo, il confratello Giovanni Vannucci. Vale la pena riportare un testo del 1973
su cui non a caso Maraviglia si sofferma:
«La mia contestazione è assolutamente religiosa. Un cristiano deve mettersi fuori
dal sistema. Io devo essere “nel sistema”,
ma non devo essere “del sistema”. Per
questo i cristiani, se “veri” cristiani, e cioè
in misura della loro autentica fede, sono
realmente pericolosi (…) i cristiani possono e devono intrupparsi con tutti coloro
che cercano l’uomo; che sono da quella
parte; che si battono per la sua dignità.
Anche se poi non può identificarsi con nessuno; e là dove gli altri si fermano egli deve
andare oltre, perché il traguardo è all’infinito; e l’uomo sarà sempre da liberare».
È un brano in cui, secondo Maraviglia, sono evidenti a un tempo la radice e i
limiti di quella «opposizione» che percorre gli scritti di Turoldo di questi anni. Denuncia senza remore delle concrete strutture d’oppressione, siano esse la cattolica
ma fascista Spagna di Franco o il Portogallo di Salazar, l’imperialismo degli Stati
Uniti, le dittature latino-americane, ma
poi mancavano indicazioni politiche concrete di cui Turoldo non si sentiva chiamato a rispondere.
Canti ultimi
E tuttavia se il servita difettava di ampie analisi politiche non veniva mai meno
l’impegno nelle concrete iniziative, fossero esse nuovamente per la pace o per il
Cile di Allende. Nel contesto italiano pur
vicino ai «cattolici del no» nel referendum
sul divorzio del 1974, Turoldo non si
espose in prima persona, mentre fu favorevole come Balducci alle candidature di
cattolici nelle liste del PCI nelle elezioni
politiche del 1976.
A metà anni Settanta Turoldo giudicava negativamente la crescita del peso di
Comunione e liberazione, spesso appoggiata dai vescovi angosciati dai visibili segni di una secolarizzazione inedita per l’Italia e stupiti dalla capacità di mobilitazione giovanile del movimento di don Luigi
Giussani. Turoldo condivideva sostanzialmente i giudizi che ne dava Giuseppe
Lazzati, rettore in quegli anni della Cattolica.
Un movimento neo-integralista, con
deboli basi culturali, con un fastidioso mi-
to del fondatore e un sentirsi Chiesa-perfetta che rasentava l’eresia. Le ombre che
si vedevano all’orizzonte erano quelle di
una nuova stagione di una Chiesa interventista, presenzialista, preoccupata e felice di riempire piazze e stadi piuttosto
che formare le coscienze a una partecipazione libera e matura alla mensa eucaristica. CL rappresentava la tentazione di
ripercorrere le strade del cristianesimo
costantiniano, una fede da imporre e non
da proporre.
Queste stesse ombre sul declinare del
pontificato di Paolo VI si sarebbero fatte
più fitte nella stagione di Giovanni Paolo
II. Ma Turoldo, a differenza di altri amici
più preoccupati, poteva contare sulla sintonia che subito si era creata con l’arcivescovo Carlo Maria Martini giunto a Milano il 10 febbraio 1980. E d’altra parte, come padre Balducci, Turoldo se soffrì la
condanna della teologia della liberazione,
l’ostracismo verso il vescovo martire Romero, seppe cogliere del magistero del
pontefice polacco la carica profetica di alcune iniziative o prese di posizione:
dall’attenzione verso il mondo ebraico
all’incontro interreligioso di Assisi del
1986, dalla condanna di un’economia asservita al denaro a quella della guerra del
Golfo.
La scoperta di un tumore al pancreas
nel 1988 divenne l’ultima occasione di testimonianza cristiana e di canto liturgico,
potremmo dire. I suoi Canti ultimi furono
lo straordinario congedo dalla vita, da
questa «avventura di Dio sulla terra» per
usare una espressione di La Pira. D’altra
parte era stata e rimaneva la poesia il terreno più solido su cui continuava ad avventurarsi il padre servita, fedele alla sua
autentica vocazione di profetico liberatore di coscienze.
Vorremmo concludere questa nostra
presentazione, che non rende certo giustizia alla ricchezza del volume, con una annotazione. Mariangela Maraviglia non ha
solo ricostruito magistralmente la vita di
un uomo, ma ha saputo raccogliere e descrivere innumerevoli foto di gruppo.
Leggendo il volume sembra di scorrere un
prezioso album fotografico in cui appaiono protagonisti più o meno noti della storia dell’Italia cattolica e laica del Novecento. Esso è, quindi, un opportuno libro
di storia.
Pietro Giovannoni
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