quindici mesi di vita militare

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quindici mesi di vita militare
ALESSANDRO ERCOLI
QUINDICI MESI DI VITA MILITARE
APRILE 1964 – LUGLIO 1965
ALESSANDRO ERCOLI
QUINDICI MESI DI VITA MILITARE
APRILE 1964 – LUGLIO 1965
VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE, DI TESTI E FOTO.
PROPRIETÀ LETTERARIA DELL’AUTORE.
A quanti ricordano con nostalgia
questo periodo della loro gioventù,
e a quelli che ci hanno messo una
pietra sopra per dimenticarlo!
Ringraziamenti
Un particolare ringraziamento lo devo ad Elena ed Angelika: alla prima per
aver speso parte del suo scarso tempo libero a rivedere la forma del testo, e
alla seconda perché mi ha fatto notare alcuni passaggi poco comprensibili
ed altri che erano da evitare. Sono contento che ambedue, dalla lettura di
questi miei ricordi, abbiano tratto anche un certo piacere.
Devo inoltre esprimere la mia gratitudine ai colleghi Simonetta e Stefano, ai
quali sono ricorso più volte per farmi aiutare nella formattazione del testo,
specialmente nella sua veste finale, quando per me era diventata troppo
complicata.
PREFAZIONE
Questa mia seconda raccolta di ricordi, che ho iniziato a
raccapezzare e scrivere a fine Dicembre 2014, contiene esperienze e
fatti accaduti in un periodo piuttosto breve e molto lontano. Si
riferisce, infatti, alle mie vicissitudini avvenute durante il servizio
militare che ho svolto tra l’Aprile 1964 e il Luglio 1965, ossia
esattamente 50 anni fa.
Per certi aspetti questi ricordi sono ancora integri e vivi, ma per
molti altri mi appaiono frammentari, forse perché secondari e
insignificanti; quello che è certo è che, fino al momento in cui mi sono
dedicato a raccontarli, riuscivo a correlare solo pochissimi nomi con
volti di persone fisiche, e viceversa, perché la maggior parte dei
personaggi incontrati, ufficiali e sottufficiali, colleghi e soldati, fino a
quel momento mi erano diventati completamente anonimi.
Fortunatamente, tra tutte le cose utili o meno che si accumulano
nel corso della vita, ho ritrovato alcuni documenti che mi hanno
aiutato in questi ricordi, come il libretto consegnatoci alla fine del 35°
Corso Allievi Ufficiali di Complemento che riporta, tra l’altro,
l’elenco di tutti i nomi degli istruttori e degli allievi della scuola,
suddivisi nelle due compagnie AUC. E’ stato solo rileggendo quelle
poche pagine, e ritrovando anche alcune fotografie relative a quel
soggiorno, che finalmente ho potuto ricollegare delle fisionomie ai
rispettivi nomi.
Purtroppo, le foto di cui parlo, e che ho in gran parte inserito nel
testo, si riferiscono alla mia permanenza a Lecce e Villa Opicina,
perché non sono riuscito a ritrovare alcun documento relativo al più
lungo periodo trascorso a Gradisca d’Isonzo.
Ulteriori spunti che mi hanno aiutato a ricordare alcune circostanze
particolari mi sono venuti rivedendo la Tabella Corredo, relativa a
quanto ricevuto in dotazione alla scuola, il Menù del Pranzo di Corpo,
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PREFAZIONE
svoltosi il 13 Aprile 1965, in concomitanza della festa del
183°Reggimento “Nembo”, e il libretto di cenni storici sullo stesso
consegnatomi poco prima del congedo.
Ripensando a questo periodo mi sembra impossibile che in soli
quindici mesi siano avvenuti così tanti fatti come quelli che ho
raccontato in queste pagine, dove ho cercato di descriverli secondo la
loro successione temporale e per argomento, rispetto al disordine del
loro rincorrersi ed accavallarsi nella mia mente, che ha tuttavia portato
a varie divagazioni dal tema principale trattato in ciascun capitolo.
Sinceramente, non ho idea se qualcuno troverà interessanti queste
pagine. Lo potrebbero essere per alcuni compagni di quel periodo, che
però nel frattempo ho quasi completamente perso di vista e non saprei
rintracciare, oltre al fatto che qualcuno di loro se ne sarà sicuramente
già andato. Forse, scriverle è servito soprattutto a me stesso per
misurare ancora una volta le mie capacità mnemoniche. Ho avuto il
piacere, tuttavia, di scoprire che mia moglie, attraverso questi ricordi
che ha letto in una prima stesura, ha potuto conoscere una porzione
della mia vita che le era completamente ignota e che le ha fatto
comprendere il perché di alcuni aspetti del mio carattere. Così, spero
che succeda anche per qualche altro dei miei famigliari e amici.
Alcuni lettori occasionali potranno forse trovare esagerate o
addirittura paradossali alcune delle situazioni descritte, specialmente
se non hanno vissuto l’esperienza del servizio militare, ma quanto ho
raccontato è alla fine solo una parte di quello realmente vissuto o
provato, anche se è risaputo che i ricordi spesso ingigantiscono
dilatandosi nel tempo e talvolta, inconsapevolmente, possono alterare
in parte la verità dei fatti.
Firenze, 22 Giugno 2015
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PRIMI APPROCCI CON IL MONDO MILITARE
Nella seconda metà degli anni ’50, come tutti gli italiani di sesso
maschile all’approssimarsi dei diciotto anni, ho dovuto affrontare le
varie visite mediche ed attitudinali, che noi fiorentini dovevamo subire
e sostenere presso la caserma esistente tra Via del Tiratoio e Piazza di
Cestello; mentre in quelli successivi ho dovuto svolgere le varie
pratiche burocratiche presso il Distretto Militare di Piazza S. Spirito
per rinviare ogni anno la partenza per motivi di studio.
Avevo rimandato, come ho appena detto, la partenza per il servizio
di leva, ma all’età di 26 anni era prevista la fine della tregua e, poiché
non avevo intenzione di partire prima di avere conseguito la laurea, mi
ero iscritto al corso in Scienze Geologiche della durata teorica di
quattro anni, avendo così la possibilità di farcela entro i cinque che
avevo ancora a disposizione, avendone persi due per strada durante il
mio disastroso curriculum di studente delle medie superiori.
Non mi ricordo in quale momento avevo fatto domanda per
svolgere il servizio come ufficiale di complemento, ma evidentemente
questa richiesta aveva innescato un iter investigativo, o meglio una
raccolta di note informative, che di routine era effettuata sulla vita
privata di tutti i richiamati ma sicuramente in maniera più
approfondita su quella degli aspiranti ufficiali.
Un giorno, mio padre ebbe la visita a casa da parte di un
Maresciallo dei C.C. in borghese, che si presentò con la motivazione
di chiedere alcune informazioni personali su di me; ma la richiesta,
piuttosto ridicola come gli fu fatto notare, aveva in realtà un secondo
scopo. Egli precisò, infatti, che le informazioni che gli interessavano
erano state già raccolte per altre vie, tra le quali probabilmente anche
intervistando il parrucchiere chiacchierone e il personale del bar di
Viale Mazzini, ma che la questione riguardava più il babbo stesso e
suo padre Ugo (deceduto nel 1955), poiché era emerso che ambedue
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PRIMI APPROCCI CON IL MONDO MILITARE
avevano qualche scheletro nell’armadio che risaliva a fatti accaduti
anni prima.
Mio padre seppe così che era registrato nel casellario giudiziario
per un’infrazione sulla circolazione stradale poiché, durante una
trasferta di lavoro legata all’attività di rappresentante per la sua
industria, era stato fermato dalla Polizia Stradale ad Ancona alla guida
di un’auto di nuova immatricolazione con targa provvisoria di cartone,
con la quale avrebbe potuto circolare solo nella Provincia di Firenze
fino al momento della consegna di quella metallica definitiva.
Il nonno Ugo, invece, che era stato per tutta la sua vita un
personaggio politicamente attivo nel Partito Socialista, di quelli veri e
per certi aspetti romantici, rimasto fedele agli ideali del partito alla
scissione avvenuta durante il Congresso di Livorno del gennaio del
1921 e che aveva combattuto e subito le repressioni della dittatura
fascista durante il ventennio, era stato invece schedato come “Nemico
dello Stato” proprio per i suddetti motivi e tale ancora così risultava,
sebbene avesse successivamente partecipato al Comitato di
Liberazione Nazionale di Firenze e avesse ricoperto la carica di
segretario amministrativo del PSI durante la segreteria politica di
Pietro Nenni.
Il babbo mi parlò di quest’incontro e di come, una volta superata la
sorpresa, esso si fosse svolto in maniera simpatica, raccontando al
maresciallo che per quanto riguardava la sua situazione era stato
costretto a muoversi in auto poiché i mezzi di comunicazione di quel
periodo erano piuttosto carenti per visitare in breve tempo i vari clienti
che aveva in quella regione, ma che il suo tentativo di farla franca gli
era andato male. Riguardo al nonno mi riferì che gli era bastato dire:
«Ma Maresciallo, lo sa che i tempi sono cambiati e che oggi il
Presidente della Repubblica è Giovanni Gronchi; indovini di che
partito?». Al che lui gli aveva risposto sorridendo che lo sapeva
benissimo, ma che quelle inchieste doveva farle per servizio e che in
fondo, come in quel caso, potevano diventare anche piacevoli!
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GLI ULTIMI GIORNI DI LIBERTÀ
Nel periodo che precedette la partenza, quello compreso tra la
seconda metà del mese di Marzo e la prima metà di quello di Aprile
1964, ci furono tre fatti importanti e degni di essere festeggiati.
Il primo fu il conseguimento della laurea, avvenuto il 17 Marzo,
giorno in cui il babbo ed io finalmente inaugurammo la speciale
bottiglia di cognac Courvoisier (montata come un cannone
inclinabile sul suo affusto per poterla versare più facilmente) che su
una libreria del soggiorno aveva aspettato da lungo tempo quel
momento. Verso la fine dello stesso mese fu completata la copertura
del tetto della villetta a Castiglioncello, evento che fu onorato con un
pranzo offerto a tutte le maestranze presso l’Albergo Roma (oggi
Hotel Corallo). Il 3 Aprile, infine, cadde il mio ventiseiesimo
compleanno di cui non ho alcun ricordo particolare preso da tante
altre cose. Una settimana dopo, infatti, arrivò il 10 Aprile, giorno
della partenza per Lecce dove, secondo quanto scritto nella cartolina
precetto, avrei dovuto trascorrere i successivi mesi quale Allievo
Ufficiale di Complemento (AUC) alla Scuola delle Truppe
Meccanizzate.
Il giorno della partenza fui costretto, con gran dispiacere, a lasciare
a casa la mia piccola 950 Innocenti spider gialla (un colore che
all’epoca era quasi scandaloso), che il babbo di lì a breve riconsegnò
al concessionario per metterla in vendita. Il motivo di questa rinuncia
dipese dalla previsione che non avrei potuto utilizzarla per lungo
tempo, ma in realtà questa si dimostrò in gran parte sbagliata, perché il
suo fermo forzato sarebbe stato limitato al solo periodo da trascorrere
alla scuola e sapendolo prima, se avessi fatto il furbo, anche per meno.
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APRILE – SETTEMBRE 1964
35° CORSO AUC DELLE TRUPPE MECCANIZZATE A LECCE
CASERMA RAFFAELE PICO
L’ARRIVO A LECCE
Ricordo l’arrivo alla Stazione di Lecce dove, assieme a qualche
altro, si evitò di farci prelevare da una specie di ronda che era lì in
nostra attesa, pronta ad individuare facilmente i suoi obiettivi per le
espressioni di smarrimento dei richiamati e anche perché durante la
giornata i treni in arrivo da Foggia in coincidenza con quelli a lunga
percorrenza erano molto pochi. Per caso, tuttavia, se esisteva
un’incertezza sull’identità di un individuo bastava che il suo capo gli
rivolgesse un improvviso e perentorio «Allievo!» e la risposta
titubante sarebbe stata naturalmente «Si?».
Io ed alcuni altri, nonostante la predetta situazione, riuscimmo ad
evitare l’ostacolo e ad andare a mangiare l’ultimo pasto da uomini
liberi, cosa che però ci costò il primo rimprovero al nostro ingresso in
caserma, sebbene lo avessimo fatto alla spicciolata proprio per evitare
di far vedere che la nostra evasione era stata premeditata.
Il 35° Corso AUC doveva svolgersi nella Caserma Raffaele Pico,
fortunatamente situata molto vicino al centro città, dove ero stato
assegnato alla 1A Compagnia dell’VIII Battaglione Allievi, comandato
dal Ten.Col. Antonio Tessitore, del quale mantengo ancora oggi
l’immagine di un ufficiale che ebbe sempre un comportamento molto
paterno verso tutti noi.
La prima cosa che ricordo appena superato il portone d’ingresso fu
la mia presentazione all’Ufficiale di Picchetto il quale mi assegnò ad
un giovane soldato semplice, molto alto e di origine chiaramente
piemontese, perché mi accompagnasse al mio posto letto nella
camerata situata al primo piano. Poco dopo compresi che anche lui era
un allievo nella mia stessa situazione, ma arrivato alla scuola solo il
giorno precedente e già rivestito della divisa ed inquadrato nello
svolgimento di alcune funzioni.
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I PRIMI GIORNI IN CASERMA
Per quanto successe in seguito faccio confusione tra i vari eventi e
non riesco a dar loro una posizione temporale precisa, ma tra i fatti
che ho maggiormente presenti ci sono il taglio corto e rapido dei
capelli, operazione durante la quale si provò la sensazione di essere
trattati come un gregge di pecore alla tosatura, e la consegna delle
divise con la conseguente eliminazione di tutti gli indumenti civili,
tranne forse alcuni di quelli intimi, che dovemmo sistemare nelle
nostre valigie apponendovi l’indirizzo perché potessero essere
rispedite alle rispettive famiglie.
Le divise, in quel periodo di tipo invernale, ci furono distribuite da
un Maresciallo che sceglieva la taglia basandosi su una valutazione ad
occhio. Alla prima prova queste ci apparvero nella maggior parte dei
casi più informi che uniformi, e qualcuno dovette per forza
richiederne il cambio perché troppo corte di gamba o di braccio, ma ci
fu assicurato che avevamo la possibilità di farle riadattare dal sarto
interno. I tempi previsti per quest’operazione si dimostrarono
purtroppo molto lunghi, dato che quel pover’uomo doveva far fronte
ad una quantità enorme di richieste, e così gran parte di noi preferì
aspettare la prima libera uscita per passare la serata da uno dei
numerosi sarti privati, che in poco tempo e con una spesa modesta ce
la ricucivano addosso su misura. Questa soluzione ci avrebbe
sollevato anche dall’incombenza di dover pensare alle mostrine ed
altri orpelli, come la fettuccia dorata attorno al colletto, le mostrine sul
bavero, lo scudetto e le lettere AUC sulle spalline, che noi stessi
avevamo dovuto cucire o fissare con un risultato non sempre
apprezzabile.
La distribuzione della dotazione fondamentale per affrontare i
primi momenti di vita interna avvenne subito dopo, ma fu completata
anche nei giorni successivi affrontando alcune problematiche
individuali come l’essenziale prova dei vari tipi di scarpe, in particolar
modo degli anfibi, e del cappotto di panno senza orlo, che poi è stato
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I PRIMI GIOPRNI IN CASERMA
inutilizzato per mesi, la cui lunghezza era intoccabile e marcata con
bolli e date varie.
Altro materiale comprendeva lo zaino, la borsa-valigia (che da
vuota per assumere la forma di un parallelepipedo rettangolo aveva
bisogno di una struttura leggera interna che a pagamento ci
procurammo dal falegname), lo zainetto tattico, ossia da
combattimento, che consisteva in un contenitore floscio, anch’esso di
tela canapa color kaki, che anche se ben riempito assumeva sempre un
aspetto bozzoloso e che, non possedendo alcuna caratteristica
anatomica per adattarsi al dorso, sentivamo sempre presente durante la
corsa per l’effetto di un continuo e noioso ballonzolare.
A conclusione di tutta la trafila, completa anche della dotazione
estiva, compilammo sotto dettatura la Tabella Corredo nella quale fu
registrato quanto datoci in dotazione, apponendo a mano la quantità e
il relativo stato d’uso (tutti N = nuovo) accanto alla denominazione
prestampata degli oggetti di vestiario e d’altro tipo di materiale, ai
quali era attribuito anche la durata orientativa in mesi. Questo
documento, datato 13 Aprile, timbrato e controfirmato dal
Sottufficiale ai Materiali (Mar. Ord. Eugenio Maiorano), lo posseggo
ancora, ma non ho mai capito perché in duplice copia dato che sul
retro della tabella è riportata testualmente la seguente avvertenza: “La
tabella corredo è compilata in duplice esemplare di cui uno è
custodito dal Reparto e l’altro viene lasciato in personale consegna al
militare interessato. Il suo smarrimento od alterazione, quando non
rivestono carattere di reato, danno luogo a punizione disciplinare….”.
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L’ORGANIZZAZIONE INTERNA
Una caratteristica particolare della nostra specialità di fanteria
meccanizzata, che imparammo subito, era che ogni spostamento
doveva essere fatto di corsa, e quest’azione era richiesta senza alcuna
deroga, salvo fosse comandato di andare al passo. Di conseguenza era
un gran brulicare di gente, anche se molto ordinato, specialmente
quando a muoversi era l’intera compagnia nello scendere e salire le
scale per andare all’alzabandiera, a mensa o a lezione, ossia per
partecipare a qualsiasi attività singola o collettiva.
L’organico della Compagnia era costituito dal comandante, un
Capitano, e da tre Tenenti, due Sottotenenti e quattro Marescialli.
Mancavano sottufficiali inferiori al maresciallo e di graduati, ossia di
sergenti e caporali, poiché, come ci accorgemmo presto, le
responsabilità normalmente di loro competenza dovevano, invece,
essere svolte da alcuni di noi.
Fu così che all’incirca nella prima decade di Maggio avvenne la
nomina di un gruppo di Allievi Scelti, formato da un Capo
Compagnia, quattro Capi Plotone e dodici Capi Squadra,
contraddistinti da un diverso simbolo in fettuccia dorata cucita sulle
spalle del giubbetto o sul volantino del tubolare dello spallino sinistro
della camicia e di quello della tuta mimetica.
Io ebbi la carica di Capo Plotone, contraddistinta da una V, senza
saperne il motivo preciso, ma molto probabile credo che la selezione
fosse stata basata sull’età, sul grado d’istruzione e forse anche sulla
prestanza fisica di ciascun allievo. Capo Compagnia fu nominato il
collega Giuseppe Nassa, quello incontrato per primo al mio ingresso
in caserma, anch’egli già laureato in fisica.
Giornalmente un certo numero di allievi era selezionato per
svolgere i vari servizi interni, secondo una lista preparata in fureria e
basata sulla rotazione, tra i quali la guardia e il suo capoposto, gli
addetti alle varie corvè per la pulizia delle camerate, dei bagni e degli
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L’ORGANIZZAZIONE INTERNA
spazi comuni, gli aiuti in cucina e al servizio di mensa, oltre quelli di
caporale e sergente di giornata cui spettavano mansioni di
supervisione che di norma erano assegnate ad allievi scelti.
Per quanto riguarda la guardia, il cui capoposto era anche in questo
caso un allievo scelto, mi ricordo che era veramente tragica
l’esecuzione del cambio della sentinella in garitta, non tanto per la
questione formale quanto nel recitare la complicata formula di rito per
dare le consegne. Non era raro, inoltre, che la sentinella dovesse
sopportare le prese di giro di qualche ragazzino senza poter reagire,
soffrendo nell’aspettare l’intervento di un collega o dell’ufficiale di
picchetto stesso.
Tavolata a mensa: secondo da sinistra M. Fadini, quarto M. Parotto e a
seguire A. Andrei, io, G.F. Meacci e P. Pampaloni.
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LA VITA QUOTIDIANA
La vita di ogni giorno era cadenzata da operazioni di varia durata
che si susseguivano invariate e ininterrottamente per tutto l’arco delle
ventiquattro ore, ma dopo poco tempo eravamo ormai abituati a
svolgerle così facilmente che non le sentivamo più né particolarmente
gravose né monotone. Certo qualcuna di queste operazioni, specie agli
inizi, costituì una terribile ossessione, come quella di dover rifare ogni
giorno la branda ripiegando cuscino, materasso, lenzuoli e coperte
ottenendo alla fine un cubo perfetto, che se al controllo non era
ritenuto tale veniva disfatto sotto i nostri occhi e impotenti dovevamo
ricominciare a costruirlo da capo.
Le operazioni consistevano nelle stesse che erano svolte in
qualsiasi altra caserma dell’esercito, con la differenza che nella nostra,
essendo appunto una scuola, molte ore erano riservate a lezioni ed
istruzioni pratiche, salvo per quelli impegnati nei servizi. La giornata
iniziava con la sveglia alle 6:00, data con i classici squilli di tromba,
cui seguiva immediatamente l’irruzione dell’ufficiale di servizio, con
il sergente e il caporale di giornata, che spronava ad alta voce ad
alzarsi e talvolta usava la forza per ribaltare il materasso di qualcuno
un po’ lento. Seguivano la pulizia personale, l’adunata nel piazzale e
una mezz’ora di ginnastica a corpo libero (la così detta reazione fisica)
e di corsa ininterrotta al suono della Fanfara dei Bersaglieri. Alle 7:00
l’alzabandiera, la presentazione della forza del battaglione (nella quale
ciascun capo plotone doveva riferire del numero dei presenti al
rispettivo capo compagnia e questi, a sua volta, all’ufficiale di
servizio, e di seguito per via gerarchica fino al Comandante) e, infine,
la prima colazione, che era servita nella vasta sala adibita a refettorio
dove sedevamo intorno a tavoli da otto posti.
Il resto della mattinata trascorreva di solito tra studio obbligatorio,
istruzione formale e lezioni in aula fino alle 13:30, quando al segnale
della tromba, sempre inquadrati e di corsa, raggiungevamo la mensa
per il pranzo (2° rancio) che dovevamo consumare in mezz’ora. Il cibo
non era per niente male e piuttosto abbondante, perché a richiesta
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LA VITA QUOTIDIANA
potevamo avere una seconda aggiunta di contorno, e presto ci
adattammo alla differente cucina rispetto a quella cui eravamo abituati
a casa. Va tenuto anche conto del fatto che, specialmente in certi
giorni, quando si arrivava a tavola eravamo piuttosto affamati e pronti
a divorare tutto quanto ci fosse messo nel piatto per sopperire alle
energie spese nella mattinata. Solo di venerdì, ogni tanto, avevamo un
po’ da protestare tra noi. In quel giorno, infatti, era abitualmente
servito pesce, per lo più cernia, ma talvolta era sostituito da pezzi
abbastanza duri di polpo in umido. Al mio tavolo questa pietanza era
conosciuta come la piovra, soprannome da me assegnatogli perché era
facilmente immaginabile la loro dimensione e perché, pur avendo una
discreta esperienza come pescatore subacqueo, non avevo mai avuto
occasione di vederne di simili dimensioni, sia da vivi che da morti,
tranne che in documentari cinematografici.
I pomeriggi li passavamo all’incirca nella stessa maniera, tra
studio e lezioni pratiche e teoriche, fino alle 18:20, orario in cui
veniva effettuato l’ammaina bandiera, e a cui seguiva la cena
(3°rancio), alla quale dovevamo partecipare ma che alcuni non sempre
consumavano preferendo frequentare nella libera uscita, che sarebbe
seguita di lì a breve, un ristorante come La Borsa, dove io di solito
ordinavo totani alla griglia, o una delle numerose e più simpatiche
trattorie popolari. Infatti, dalle 19:00 alle 21:30, liberi da impegni,
potevamo frequentare lo spaccio e la sala lettura o andare in libera
uscita.
Le lunghe giornate terminavano alle 21:45 con l’appello serale in
camerata, con le spalle rivolte alla branda e la fronte al proprio
armadietto (soggetto ad eventuale ispezione), e alle 22:00 con il
segnale del silenzio che poneva veramente fine a tutto, con la sua
melodia, se così si può definire, piacevole all’ascolto ma con un
sottofondo di tristezza che invece di conciliare il sonno poteva far
sorgere pensieri lontani. Non parliamo poi dell’effetto che poteva
produrre quello fuori ordinanza, che però ho avuto occasione di
sentire suonare poche volte e solo in circostanze speciali.
A proposito della ginnastica mattutina non ricordo esattamente se
comprendeva anche la corsa a suon di fanfara o se questa era eseguita
in un altro momento; ma riguardo alla ginnastica sono sicuro che la
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LA VITA QUOTIDIANA
dovevamo fare indossando pantaloni corti, corpetto di lana e quelle
strane e scomode scarpe ginniche. Alle lezioni dovevamo, invece,
presentarci in normale divisa di fatica, e devo ammettere che alcune di
queste per me erano proprio incomprensibili, come quelle che
riguardavano i mezzi di comunicazione radio, svolte in apposite aule,
altre noiose e talvolta difficili da seguire, tipo quelle sulla dottrina e le
tattiche, mentre trovavo più interessanti quelle sulle armi individuali e
di reparto.
Tra le varie attività svolte all’aperto, come ho già detto, c’era
l’istruzione formale, il cui scopo era di insegnare le posizioni e i
movimenti, senza e con le armi, che il plotone o la compagnia
dovevano assumere in formazione seguendo una serie di bruschi
comandi impartiti con tempi ben precisi. E poiché la velocità
d’esecuzione dipendeva dalla brevità del comando stesso, molti di
questi subivano una contrazione, se non addirittura un’alterazione, che
sarebbe interessante ma troppo lungo da spiegare con esempi. Dopo
poco tempo questa forma d’istruzione divenne una norma di
comportamento costante e la sua applicazione passò di mano agli
allievi scelti. Il fatto che a me piacesse impartire quel tipo di ordini e
di vederne gli effetti mi è successivamente servito quando ho dovuto
impartire tale forma d’istruzione ai soldati del reggimento.
L’attività atletica e l’addestramento sul percorso di guerra erano
svolti in alcuni giorni prestabiliti al campo sportivo, situato abbastanza
lontano dalla caserma, che si doveva raggiungere di corsa con il fucile
Garand portato a bilanciere e cantando canzoni militari o quasi, alcune
delle quali anche piacevoli e che oltretutto ci aiutavano a mantenere il
ritmo. Qualche volta, se il nostro tenente ci precedeva o ci
raggiungeva in auto al campo, il trasferimento del plotone avveniva
sotto il mio comando, ma la sua assenza poteva creare dei problemi
sia all’interno del plotone, dal quale potevano partire mugugni di
alcuni nei miei confronti, perché avrebbero preferito andare al passo,
sia per altre cause dipendenti dall’esterno di cui in seguito racconterò
il caso più rappresentativo.
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LE LIBERE USCITE
La libera uscita serale era un diritto che spettava agli allievi che
non erano impegnati in servizi o consegnati in caserma per punizione.
Tuttavia, fino all’ultimo momento non esisteva la certezza di poterne
usufruire, perché la consegna poteva ancora arrivare a giudizio
insindacabile dell’ufficiale addetto al controllo, che poteva dipendere
dal taglio dei capelli troppo lungo o da qualche imperfezione della
divisa (scarpe sporche, nodo della cravatta fatto male, camicia
sgualcita, un taschino non abbottonato, ed altre questioni formali per
noi abbastanza discutibili).
Per arrivare alla prima libera uscita passarono più di due settimane,
perché non eravamo preparati per poterne godere da un punto di vista
puramente estetico. Le divise di molti di noi, come ho già detto, erano
informi e fummo costretti a risistemarle un po’ alla meglio con le
nostre mani utilizzando il materiale della borsa per cucire. Qualcuno
addirittura, come successe a Parotto, dovette aspettare che riuscissero
a procurarne una della sua misura! Alla fine però arrivò quel
benedetto giorno, nel quale si dovette ammettere che i nostri ufficiali
furono veramente di manica larga, ma in realtà ben sapevano che
molti di noi non si sarebbero azzardati ad andare tanto in giro e che le
nostre mète sarebbero state le sartorie che ci aspettavano a gloria per
ricucircele su misura.
Il sarto, dal quale capitai su indicazione di qualcuno, fu di poche
parole e dopo prese le misure mi rivestì con una divisa accettabile da
indossare nell’attesa che mi fosse restituita finita la mia. Qualche
giorno dopo, quando passai per ritirarla non potei credere ai miei
occhi: era perfetta in tutti i sensi, con il giubbotto imbottito che non
faceva una grinza, le abbottonature sostituite con comodi automatici, e
nastrini, mostrine e scudetto cuciti al posto giusto! Cambiati i gradi e
le distinzioni attinenti alle nuove destinazioni quella stessa divisa mi
ha servito egregiamente per tutto il periodo di servizio successivo.
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LE LIBERE USCITE
Sistemata la questione del nostro aspetto esteriore si cominciò a
sentirci un po’ più a nostro agio per frequentare piacevolmente il
centro della città, dove godevamo da parte di negozianti in genere e di
gestori di ristoranti e locali pubblici di una particolare attenzione,
poiché eravamo considerati dei buoni clienti contribuendo in maniera
consistente all’economia locale.
Non altrettanto ben visti lo eravamo dalla gioventù maschile che ci
vedeva come dei possibili antagonisti nel pollaio, che in realtà era
difficile se non impossibile da razzolare, e quasi detestati da alcuni
genitori con figlie che sapevano come nel passato alcuni di loro
avessero subito brutte esperienze con allievi ufficiali di corsi
precedenti. Qualche volta è addirittura successo che degli allievi siano
stati costretti a difendersi dall’aggressione di gruppetti di coetanei che
li aspettavano per provocarli. La prima volta che un fatto di questo
genere fu riferito al rientro in caserma ci furono date delle precise
istruzioni di comportamento per mettersi dalla parte del giusto:
difendersi, e magari cercare di dargliele, ma rientrare immediatamente
e denunciare l’offesa alla divisa.
Un mio tentativo di approccio, l’unico che ho fatto in vita mia per
strada, lo rivolsi ad una ragazza che avevo visto più di una volta
passeggiando in centro e per la quale provai fin dal primo momento
una certa attrazione. Un giorno, con un po’ di coraggio, l’affiancai e
una volta presentatomi le chiesi se esisteva la possibilità di poterci
frequentare ogni tanto, magari per parlare un po’ insieme del più e del
meno o passare una serata al cinema (neanche a pensare all’idea di un
invito a cena che all’epoca era inammissibile). In fondo questo era il
mio desiderio principale e di cui sentivo necessità: quello di passare
qualche ora scambiando un discorso di parole sensate con una ragazza
dopo un bel po’ di tempo di compagnia esclusivamente maschile i cui
rapporti erano basati per lo più sullo scherzo, talvolta anche pesante.
Nel frattempo avevamo raggiunto il portone di casa sua e lì lei mi
fece capire chiaro e tondo che era meglio mi togliessi qualsiasi idea in
proposito e di non disturbarla più, perché altrimenti avrebbe riferito il
mio comportamento a suo padre, maresciallo della Pico di cui mi fece
il nome e che io ben conoscevo. Fu così che si concluse questa mia
prima ed unica esperienza sulla piazza di Lecce.
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LE LIBERE USCITE
Dopo questo fatto, per scherzare e sentire una voce femminile, mi
rimase solo di tanto in tanto a far visita con il collega Franco Battagli
ad una povera giovane prostituta che, al nostro arrivo, per passare
anch’essa qualche ora diversa dal solito tran tran chiudeva la porta
della sua misera casa/bottega e si metteva a cucinarci un’ottima pasta
asciutta. Solo una volta siamo riusciti a farle accettare con insistenza
del denaro in cambio della sua piacevole e casta compagnia.
Per alcuni giorni del mese di Luglio fummo consegnati in caserma
senza sapere l’esatto motivo. Scoprimmo solo successivamente che
alcuni corpi militari, come i Bersaglieri di stanza a Persano e la Scuola
di Fanteria di Cesano, erano stati messi in stato d’allarme per l’ipotesi
di un probabile colpo di stato (caso SIFAR - Gen. De Lorenzo?).
Pronti per la libera uscita: a sinistra P. Pampaloni, alla mia destra F. Busoni e
alla sinistra C. Ariani.
24
IL GIORNO DEL GIURAMENTO
La cerimonia del giuramento è stata sempre sentita intimamente da
ogni soldato per l’importanza dell’impegno che ciascuno assume di
fronte a se stesso e alla Patria, anche se intorno alla formulazione del
giuramento sono da sempre esistite varie forme di risposta scherzose,
e talora offensive, ma che nel momento cruciale ben pochi credo
abbiano veramente sostituito a quel «lo giuro!».
Il nostro giuramento avvenne l’ultima domenica di Maggio, ma
confesso di non ricordare assolutamente niente di quella giornata, a
parte la tensione dovuta alla lunghezza dello schieramento in armi e
ad un certo sentimento di commozione. Soprattutto, e mi dispiace
molto, di non ricordare neanche la presenza dei miei genitori, tanto è
vero che quando ho chiesto a mio fratello Ugo a proposito di
quest’evento non mi ha saputo dare neanche lui una risposta precisa,
mentre il loro soggiorno a Lecce in quell’occasione mi è stato
confermato da sua moglie Graziella, che evidentemente ha una
memoria migliore della nostra. Questo buio di memoria mi è proprio
inspiegabile, perché oltre a quella domenica passata insieme ci
saranno stati altri momenti d’incontro sia nel giorno precedente che in
quello successivo, sicuramente inclusi nella loro trasferta, e perché
avrò pur pensato io stesso a prenotargli l’albergo una volta che
avevano deciso di venire.
Ho appena detto del giuramento da allievo, ma durante il periodo
del mio servizio militare ne ho fatti altri due: il secondo da Sergente
AUC sulla pistola d’ordinanza, e il terzo da Sottotenente sulla spada,
ambedue preceduti da esercitazioni pratiche per imparare la formula e
come eseguire esattamente gli atti formali delle cerimonie che erano
svolte individualmente davanti ai rispettivi comandanti di battaglione.
Nel corso di queste cerimonie, che si prestavano ad errori per la
tensione del momento, ciascuno di noi era sottoposto al giudizio dei
diretti superiori, ma nello stesso tempo anche dei colleghi che,
sebbene timorosi nell’attesa del loro turno come studenti di fronte ad
un esame orale, in realtà non aspettavano altro che la fine del
25
IL GIORNO DEL GIURAMENTO
cerimoniale per sfottere pesantemente chi avesse avuto
comportamento poco marziale.
26
un
I PERMESSI GIORNALIERI
La domenica, esclusi al solito quelli che erano consegnati o
impegnasti nei vari servizi, potevano richiedere per tempo un
permesso per l’intera giornata, che però limitavano gli spostamenti
all’interno del distretto e, come per quelli serali, all’epoca era ancora
proibito cambiarsi e indossare abiti civili.
Ben presto, stanchi di visitare monumenti o vagare strasciconi per
la città, cominciammo ad allargare i nostri orizzonti e a puntare a
località più lontane. Tra queste un paio di volte ci fu una bella
masseria situata nella campagna di Galatina, circa venti chilometri a
sud di Lecce, di proprietà di conoscenti di un nostro compagno e che
raggiungevamo con la sua auto (era stato più furbo di altri), dove
passavamo la giornata con un simpatico gruppo di amici dei loro figli.
Un’altra mèta furono le Grotte di Castellana, facilmente raggiungibili
con il treno delle Ferrovie del Sud-Est, che qualche anno dopo ho
rivisitato con maggior interesse professionale durante il rilevamento
del Foglio Monopoli della Carta Geologica d’Italia.
Questo tipo di permesso cominciò ad essere più interessante verso
fine primavera e inizio estate, quando, mettendosi d’accordo in due o
tre, potemmo fare qualche trasferta per goderci il sole in spiaggia e un
bagno in mare, scansando naturalmente la zona di San Cataldo, troppo
vicina e più facilmente frequentata anche dai nostri superiori.
Per gli spostamenti usavamo auto prese a nolo presso un garage
vicino alla caserma, ed usavamo lo stesso ambiente per cambiarci in
abiti civili, operazione che con l’adozione delle divise estive diventò
molto più semplice. Talvolta lo facevamo anche nelle zone più
impensabili, come in qualche uliveto o nei ruderi di torri costiere che
trovavamo disseminate lungo la costa adriatica.
Tra tutti i posti visitati la zona più interessante e bella risultò
quella di Gallipoli che, pur avendo il difetto di essere più lontana di
altre, offriva la comodità di stabilimenti ben attrezzati con ombrelloni,
cabine e docce, cosa che era abbastanza rara nella Puglia dell’epoca.
27
I PERMESSI GIORNALIERI
Fu su quella spiaggia che un giorno, mentre accaldato per la troppa
esposizione al sole andavo verso le docce, mi scontrai con il S.Ten.
Pelosini (pisano!); ma ambedue, data la situazione completamente
fuori ambiente, non avemmo la prontezza di riconoscerci a vicenda, e
scusatomi ciascuno proseguì per la propria strada. Pensai subito che
l’incidente fosse finito lì, ma mi ero illuso perché al controllo serale in
camerata me lo ritrovai di servizio e quando arrivò di fronte a me,
immobile sull’attenti, mi dette una gran pacca sulle spalle infuocate
domandandomi, con tono a presa di giro, se avevo passato una bella
giornata. Naturalmente, con immensa sofferenza e a denti stretti,
dovetti rispondere che lo era stata.
Una volta mi volli levare la voglia di vedere Santa Maria di Leuca,
il cui capo omonimo è la punta estrema della Puglia, sebbene la
località si trovasse molto distante da Lecce. Lo specchio di mare che
scegliemmo per fare il bagno non mi pare che fosse particolarmente
attraente, ma mi ricordo di avere assistito ad uno spettacolo piuttosto
raro, perché ad un certo momento udii il rumore di uno scroscio
d’acqua proveniente da terra dietro alle mie spalle, che
successivamente seppi che era lo scarico finale dell’Acquedotto
Pugliese.
28
IL POLIGONO DI TORRE VENERI
Il poligono per le esercitazioni a fuoco si trovava, ed esiste tuttora
sebbene non sappia se sia ancora in uso, sulla costa adriatica nei pressi
di San Cataldo, a poco più di dieci chilometri in linea d’aria a nord-est
di Lecce. Questa zona, costituita da calcari friabili che i cingoli dei
carri frantumavano producendo grandi nuvole di polvere, ha una quota
media elevata pochi metri sul livello del mare ed è caratterizzata dalla
presenza di qualche sacca di sabbie mobili, dovute alla dissoluzione
dei calcari e alla superficialità della falda freatica salmastra, e da
alcune zone acquitrinose localizzate nella sua porzione più
meridionale.
In questo poligono eravamo addestrati ad usare tutti i tipi di armi
in dotazione, individuali e di reparto, oltre a quelle più pesanti come le
mitragliatrici Browning dei nostri veloci M113 in lega leggera, e i
carristi della 2A cp. addirittura anche all’uso dei cannoni dei pesanti
carri M47. I giorni in cui erano previste esercitazioni a fuoco la
popolazione locale era avvisata per tempo tramite varie forme di
comunicazione, ma dovevano essere comunque attuate tutte quelle
operazioni di sgombero dell’area del poligono necessarie a verificare
l’assenza di uomini ed animali.
Le operazioni di controllo sul terreno erano svolte e concluse
velocemente prima delle esercitazioni percorrendo l’area con i mezzi
cingolati, con una corsa finale anche lungo la spiaggia, ma
successivamente era necessario che fosse tenuto sotto controllo
continuo anche l’eventuale movimento di navi e imbarcazioni minori
nel tratto di mare prospiciente il poligono, sebbene anche la
Capitaneria ne fosse informata. Ciò dipendeva dal fatto che i proiettili
sparati dai cannoni dei carri rimbalzavano più volte e per lunga misura
sulla superficie marina, come avviene nel gioco del lancio a mano
delle piastrelle, con un effetto molto evidente e spettacolare, mentre lo
era meno o per niente l’effetto prodotto dai proiettili delle
mitragliatrici pesanti, sebbene anch’essi si comportassero nella stessa
29
IL POLIGONO DI TORRE VENERI
maniera. Di conseguenza due mezzi dovevano, infine, appostarsi sulla
costa agli estremi del poligono per avvistare e comunicare via radio
eventuali avvicinamenti di natanti, in modo che le esercitazioni
potessero essere momentaneamente sospese.
Per alcune volte ho partecipato come responsabile a questo tipo di
operazione, usando un M113 con equipaggio ridotto e prendendo
infine posizione sulla costa in corrispondenza dello spigolo
meridionale del poligono, mentre un altro collega faceva altrettanto su
quello settentrionale. Questo mio settore, a differenza della maggior
parte dell’area che era occupata da suolo nudo, roccia affiorante e da
vegetazione arbustiva, si trovava sul margine di estese coltivazioni di
cocomeri, che non mancammo mai di mangiare sul posto e di
prelevare per un consumo successivo, anche se una volta si fu colti sul
fatto da un comprensivo contadino che ripagammo abbondantemente
dandogli più di quanto aveva preteso.
In una di quelle occasioni, ad esercitazione conclusa, trovai tutti
consenzienti (per la verità mi pare che il pilota in principio non lo
fosse proprio) nel voler provare le declamate potenzialità anfibie del
mezzo delle quali non avevamo mai avuto una dimostrazione, e così,
sbloccato lo stabilizzatore anteriore, fu fatto entrare in acqua fino a
non toccare più il fondo e, spento il motore, facemmo un bel bagno
completo di ripetuti tuffi; e così verificammo le sue effettive qualità.
Le esercitazioni pratiche in bianco con i mezzi da trasporto M113
consistevano nella simulazione di un attacco, durante il quale la
squadra veniva trasportata in posizione avanzata per proseguire da
sola fino a raggiungere l’obiettivo, ed era poi recuperata dallo stesso
mezzo ad azione conclusa. La questione sembra semplice a dirsi ma in
pratica non lo era affatto, perché sia la discesa per prendere posizione
sul terreno che la salita di rientro dovevano essere eseguite attraverso
il portellone posteriore abbassato mentre il mezzo era in corsa, e
questa specie di ponte levatoio si comportava come un trampolino
perché seguendo il movimento del mezzo sul terreno sconnesso ne
esaltava oltretutto le oscillazioni. Di conseguenza, per l’imprevedibile
situazione del momento, qualcuno poteva trovarsi sbalzato in aria
durante il salto della discesa o lanciato in avanti di testa contro la
30
IL POLIGONO DI TORRE VENERI
parete in fondo all’abitacolo durante il suo rientro, e in questo secondo
caso gli elmetti si rivelavano veramente utili.
Nel poligono di Torre Veneri abbiamo trascorso il campo estivo,
dormendo in tenda e vivendo per giorni completamente all’aria aperta.
Lo raggiungemmo sovraccarichi con una marcia più faticosa che
lunga, perché costretti con un gran caldo dentro le tute mimetiche che
permettevano poca traspirazione, e molti di noi anche sofferenti per
irritazioni all’interno delle cosce, non avendo pensato di indossare le
mutande in dotazione che ci avrebbero sicuramente evitato quel tipo
d'inconveniente. Il periodo lì trascorso fu piuttosto piacevole perché
nei momenti di libertà potemmo godere anche del sole e del mare.
Unici inconvenienti furono i frequenti e inaspettati incontri con
biacchi, bisce ed altri tipi di rettili, e quello di dovere stare attenti a
dove si metteva i piedi andando verso la duna costiera, perché nelle
zone spoglie di vegetazione e apparentemente asciutte era molto facile
sprofondare nel fango sottostante lasciandoci dentro qualsiasi tipo di
calzatura.
Riallacciandomi ai cocomeri di cui parlavo sopra mi ricordo che
durante il campo fu trovato il modo di consumarne in maggior
numero, perché una volta tassellati e sforacchiata la polpa interna con
la baionetta si poteva fargli assorbire qualche dose di cordiale, che era
distribuito individualmente in confezioni di plastica trasparenti a
forma di cuscinetti, identici a quelli di un tipo di shampoo che si
trovava allora comunemente in commercio.
In quel periodo accaddero un paio di fatti molto imbarazzanti per
qualcuno. Il primo fu che un M47 si ritrovò bloccato semisepolto nel
fango di una zona paludosa, dove non doveva andare a finire perché
chiaramente dichiarata off limits, situazione che creò notevoli
problemi per il recupero del mezzo e per chi era al suo comando.
L’altro avvenne durante l’esercitazione a fuoco conclusiva perché, per
un’errata interpretazione degli ordini, alcuni carri armati iniziarono la
carica finale in anticipo, costringendo parte di noi ancora disseminati
sul terreno a trovare un riparo per non essere travolti. Io ed altri della
mia squadra riuscimmo a buttarci dentro un canale di drenaggio
tagliato profondamente nella roccia, da dove vedemmo passarci sopra
le teste un carro in corsa. Forse anche altri si ritrovarono in quella
31
IL POLIGONO DI TORRE VENERI
stessa situazione, ma al momento eravamo così timorosi che noi stessi
potessimo essere corresponsabili dell’accaduto che non abbiamo
neanche pensato di verificarlo, mentre dopo ci siamo chiesti più volte
come l’esercitazione avesse potuto concludersi senza incidenti.
Delle poche esercitazioni fatte fuori dell’area del poligono mi
ricordo quella di orientamento notturno che si svolse in una zona di
aperta campagna vicina alla città, la cui preparazione iniziò già a cena
con una razione di carote crude, perché le loro proprietà avrebbero
dovuto favorire la nostra vista al buio. L’esercitazione era in teoria
piuttosto semplice svolgendosi in un ambiente pianeggiante, pressoché
pulito e disseminato da ulivi secolari, dove varie squadre partite da
una base dovevano raggiungere quella di arrivo loro assegnata nel più
breve tempo possibile, servendosi di bussola e carta topografica. Per la
mia pattuglia le cose però non andarono proprio lisce, perché ci
ritrovammo intrappolati dentro una tufara abbandonata (cava in fossa
per la coltivazione del calcare tenero tipico della zona di Lecce, da cui
prende il nome) non segnalata sull’obsoleta carta che ci costò un gran
ritardo per trovare una via d’uscita.
Momento di libertà durante il campo estivo al poligono di Torre Veneri
32
LE TRASFERTE FUORI SEDE
Per partecipare a dei festeggiamenti connessi ad importanti
anniversari per due volte abbiamo lasciato con armi e bagagli la sede
di Lecce; la prima volta per trasferirci a Caserta, in occasione
dell’anniversario della fondazione della Scuola Truppe Corazzate, e la
seconda a Foggia, per altra ricorrenza di cui non ricordo il motivo
preciso.
A Caserta si fu sistemati all’interno della nostra scuola madre,
dove non trovammo sostanziali differenze rispetto al nostro ambiente
abituale, ma si dovette convivere per alcuni giorni con altri numerosi
AUC appartenenti ai corpi dei Bersaglieri, Carristi, Lagunari e
Cavalleggeri, con i quali non sempre trovammo un‘intesa, perché
ognuno aveva un proprio spirito di corpo che esplodeva nella volontà
di emergere in qualsiasi circostanza, specialmente durante le
esercitazioni formali per prepararsi alla parata conclusiva che si svolse
all’interno della scuola.
Durante queste esercitazioni ci destava una certa ilarità, ed era
motivo di continue prese di giro nei loro confronti, il comando verbale
che i cavalleggeri utilizzavano per dare l’alt («alt..., piscia il
cavallo!»), e in queste circostanze trovavamo gran solidarietà da parte
di tutti, ma in particolare dai bersaglieri con i quali noi meccanizzati
legavamo maggiormente per la notevole affinità di comportamento,
come loro sempre di corsa, e per la preparazione all’azione di
combattimento.
A Foggia fummo, invece, acquartierati all’interno di un’ex
caserma, mi pare fosse di artiglieria, il cui stato generale ci apparve
immediatamente di completo abbandono, e che poco dopo ci fece
provare un gran senso di sconforto, quando prendemmo contatto con i
letti traballanti a castello sistemati su pavimenti di nuda terra delle
camerate, la presenza di semplici cannelle allineate su lunghi lavatoi,
posti naturalmente a cielo aperto, il rancio servito in gavette e costretti
a pulire le stesse con una manciata di sabbia che era presente ovunque.
Insomma, in quell’occasione ci ritrovammo a vivere peggio che in un
33
LE TRASFERTE FUORI SEDE
campo male attrezzato e questa situazione ci fece rimpiangere ed
apprezzare molto la nostra residenza abituale.
Alla libera uscita, per ridurre il lungo tragitto che avremmo dovuto
fare per raggiungere il centro città, qualcuno scoprì che si poteva
attraversare la ferrovia all’altezza della stazione centrale passando tra
vagoni e carri merci. Io fui uno di quelli che tentarono quella strada,
ma quando guadagnai un posto ben illuminato mi accorsi subito di
avere la divisa sporca di vernice di colore marrone rossastro,
sicuramente raccattata da un carro merci e di conseguenza fui costretto
a passare la serata in mutande e canottiera dentro un salone di
parrucchiere con diurno e lavanderia, situato nel viale dirimpetto alla
stazione. Negli anni successivi ho visitato Foggia più volte, dovendo
svolgere indagini e rilievi geologici in zone vicine, ma in quel
brevissimo periodo di permanenza, e dopo quest’avventura, preferii
rinunciare alla seconda ed ultima possibilità di libera uscita
Rancio con un gruppetto del mio plotone durante un’esercitazione esterna
34
I RACCOMANDATI E NON
Durante la permanenza alla caserma Pico ogni tanto qualche
allievo spariva. Poi si veniva a sapere che era andato a casa in
permesso o breve licenza. Dopo tre mesi mi domandai se anch’io
avessi potuto usufruire di questa possibilità e chiesi di conferire con il
comandante di compagnia, Capitano Sabato, per provare a
chiederglielo. Naturalmente mi fu detto che ciò era impossibile perché
non previsto dal regolamento e, quindi, il colloquio terminò così, non
lasciandomi spazio per controbattere.
Verso la metà del quarto mese, continuando a verificarsi la stessa
situazione, tornai alla carica facendo notare al capitano che molti miei
colleghi nel frattempo aveva usufruito di ciò che anch’io ritenevo un
mio diritto; e questa volta la risposta fu in forma interrogativa: «Ha
qualcuno che lo può raccomandare?», e così mi fece capire la
situazione ponendo fine anche al secondo tentativo, con la
conseguenza che da quel momento in poi il mio animo trovò
definitivamente la pace.
In effetti, così sarebbe andata se un provvidenziale ordine
ministeriale non avesse previsto per tutti noi una licenza di cinque
giorni (3+2) a cavallo di metà Agosto, che tenendo conto della
distanza del viaggio si riduceva a ben poca cosa. Tuttavia, dopo i
miei tentativi infruttuosi di ottenere una licenza personale, così come
quelli di altri allievi non raccomandati, questa era meglio di niente e
come tale fu accolta con immenso piacere.
Inutile stare a domandarsi quale dovesse essere in quel periodo la
destinazione da dichiarare in fureria per preparare il foglio di
viaggio. Viaggio piuttosto lungo e noioso, che iniziò alla stazione di
Lecce e si concluse in quella di Livorno con vari cambi, prima a
Foggia, poi a Napoli e Roma, durante il quale contavo il passare
delle ore domandandomi quanto la stanchezza avrebbe influenzato
sui tre giorni di licenza effettiva.
Mi ricordo che poco dopo la penultima fermata del treno alla
stazione di Cecina, intravidi dal finestrino una panoramica notturna
35
I RACCOMANDATI E NON
della Baia del Quercetano e che quando infine arrivai alla stazione di
Livorno mi ritrovai accolto da un gran numero di amici, con mia
madre in testa, che non aspettavo assolutamente di vedere perché,
date tutte le incertezze del caso, non avevo indicato un orario preciso
per il mio arrivo.
In fondo, i giorni che trascorsi in licenza furono effettivamente
tre, passati molto piacevolmente come ho avuto già occasione di
raccontare nel capitolo La licenza ministeriale della mia precedente
raccolta di ricordi, ma che si conclusero con una sofferta partenza
notturna dalla stessa stazione d’arrivo. Il viaggio nel suo insieme fu
tuttavia meno noioso, perché mi scorrevano davanti i recenti
avvenimenti, pieni di spensieratezza e completamente estranei alla
rigida cadenza della vita militare. Il ricordo di quei pochi giorni mi
fu poi di grande aiuto anche per affrontare la successiva lunga e
ininterrotta lontananza da casa, compresa tra la conclusione del corso
a Lecce e il successivo periodo da sergente, che avrei dovuto
trascorrere presso un’ignota destinazione, prima della sicura licenza
ordinaria in attesa di nomina.
In tuta mimetica: alla mia destra F. Battagli e chinato G. Nassa.
36
IL TEN. CUTRI’ ROCCO
Il vice comandante di compagnia e comandante del mio plotone
era il Tenente Cutrì, Rocco di nome, poco più anziano di me per età
anagrafica, non alto ma con un fisico molto atletico e la struttura di un
pugilatore, verso il quale provai da subito una certa simpatia. Col
tempo questo mio sentimento mi fu ricambiato nei brevi discorsi di
carattere personale che secondo le circostanze capitava di scambiarci,
o alle mie battute scherzose che ogni tanto mi uscivano spontanee a
proposito di qualche situazione particolare, rimanendo però sempre
nei limiti del rispetto dovutogli. Inoltre, era una persona che meritava
tutta la nostra ammirazione perché ci dimostrava sempre l’esecuzione
di qualsiasi esercizio ci richiedesse di fare ed era veramente
impressionante vedere con quale disinvoltura li riuscisse a fare.
Certo è il fatto che nei miei riguardi alcune volte chiudeva un
occhio se capiva che avevo poca o nessuna voglia di sottopormi a
qualche esercizio nel quale non mi sentivo sicuro o che ritenevo
troppo pericoloso da affrontare, come il salto in lungo del cavallo,
dove era facile rimetterci alla fine gli attributi maschili, o il salto con
capriola su una serie di baionette nude innestate sui fucili tenuti in
posizione da alcuni colleghi, nella cui esecuzione pretesi, e non solo
io, che fossero almeno protette dalle guaine (e fummo accontentati!).
Una volta, durante l’esercitazione sul percorso di guerra in tenuta da
combattimento, dove si doveva superare un ampio tratto avanzando a
forza di braccia lungo un cavo sospeso tra due torri, io mollai la prova
a metà facendo un volo verticale di alcuni metri, fortunatamente senza
nessuna conseguenza; ma in quella circostanza, appena appurato il
mio stato fisico, non ci passò sopra e mi fece mettere nuovamente in
fila per ripeterla.
In un capitolo precedente ho raccontato dei nostri trasferimenti
verso il campo sportivo sotto il mio comando e di come, qualche
volta, potevano capitarci dei fatti sgradevoli. Prima di arrivare al
nostro campo, infatti, eravamo costretti a passare dinanzi a quello di
atletica di una società sportiva, dietro la cui rete alcuni ragazzi
37
IL TEN. CUTRI’ ROCCO
aspettavano il nostro passaggio per sfotterci ed offenderci. Dato che la
questione si ripeteva e che il numero di partecipanti aumentava
sempre più, avvisai di quanto stava accadendo il tenente che, la volta
successiva, si mise al comando del plotone. Arrivati sul posto ci
accolsero le solite manifestazioni, ma inaspettatamente ricevemmo
l’ordine di fermare la corsa del plotone e di fare il fascio d’armi. In
realtà non avemmo neanche il tempo di eseguirli che il tenente aveva
già scavalcato l’alta rete e steso per terra a suon di pugni due o tre di
quegli individui e, a chi di noi riuscì di seguirlo per la stessa strada o
entrando dal cancello, non rimase che rincorrerne qualcuno a vuoto.
Quella fu l’ultima volta che fummo disturbati.
Verso la fine del corso sposò la sua fidanzata, una vispa e
piacevole morettina, che alcuni di noi ebbero occasione di conoscere
quando al rientro del loro breve viaggio di nozze invitarono a cena a
casa loro il capo compagnia e i quattro capi plotone, quale forma di
ringraziamento per l’importante e utile regalo (una lavatrice) che era
stato acquistato con una colletta promossa in compagnia.
La durata effettiva del corso fu di cinque mesi e mezzo e, poco
prima del suo termine, fummo esaminati sulle varie materie da una
commissione composta dagli Ufficiali Insegnanti e Sottufficiali
Istruttori. Una volta superate positivamente le prove si fu autorizzati a
fregiarci dei gradi di Sergente, la cui cucitura sulle divise fu l’ultimo
servizio richiesto ai nostri sarti di fiducia.
Fu in occasione dei festeggiamenti di fine corso che il Ten. Cutrì
mi confidò che nella stesura delle mie note caratteristiche mi aveva
definito “temerario”, attributo che mi sembrò per niente attinente ad
alcuni miei comportamenti in occasione di prove di coraggio. Gli
domandai se sapeva quale fosse il significato preciso di tale parola e
mi rispose di sì, ma non ho mai capito se lo conosceva davvero e, in
tal caso, perché me lo avesse attribuito.
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A LECCE
Per noi,
che lasciammo
colline verdi
legate alla pianura
e lacrime di donne lungo le rotaie,
questi muri assordanti di sole
c’impregnarono il cuore
d’una angoscia muta
dentro questi mattini
che sgorgavano uguali
da quelle case basse
là verso Oriente.
Adesso
che sappiamo
il meccanismo della cicala
e il canto del grano
fra le pietre
lungo il vento giallo
di questa estate leccese,
da questa terra
che credevamo sterile
sentiamo nascere il seme fertile
d’un nuovo Amore
che innalza
le bandiere dei nostri spiriti
sopra queste zolle
imbevute di sudore e di lacrime.
AUC Pampaloni Paolo
1a Compagnia
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LA “TRADOTTA” LECCE-TRIESTE
Il viaggio di trasferimento per le varie destinazioni di tutti gli
allievi avvenne per ferrovia, con un normale treno e non una tradotta
vera e propria. Per molti di noi si sviluppò lungo la linea adriatica
dove nelle principali stazioni alcuni gruppetti venivano di volta in
volta smistati dai sottufficiali che ci accompagnavano, perché avevano
già raggiunto la loro futura sede o il punto di scambio per raggiungere
con altro mezzo una situata nell’entroterra. Dopo di che il convoglio
riprendeva la sua corsa verso Nord, la cui mèta finale fu la stazione di
Trieste.
I pochi, me compreso, che scesero all’ultima fermata erano attesi e
fummo prelevati alla stazione per essere trasportati in camion con i
propri bagagli direttamente nella caserma Brunner, che in realtà non si
trovava a Trieste, come pensavamo, ma nell’immediata periferia di
Villa Opicina, assolato e ventoso paese esteso sull’altopiano carsico a
poca distanza dal capoluogo, che raggiungemmo percorrendo una
bella strada con ampio panorama sulla città e il suo golfo.
In primo piano da sinistra M. Fadini, G.F. Meacci., il Ten. R. Cutrì, io, e
all’estrema destra il futuro Capo Compagnia G. Nassa
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1A Compagnia dell’VIII Battaglione - 35° Corso AUC delle Truppe Meccanizzate a Lecce
OTTOBRE – DICEMBRE 1964
82° REGGIMENTO “TORINO” A VILLA OPICINA
CASERMA GUIDO BRUNNER
LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO
Arrivati a destinazione si venne subito a sapere che appartenevamo
ad uno dei tre reggimenti di fanteria facenti parte della Divisione
“Folgore”, oggi Brigata Paracadutista, il cui motto “Come Folgore dal
cielo…..Come Nembo di tempesta….” è costituito da due versi del suo
inno. Di conseguenza dovemmo cucire il nuovo scudetto divisionale
sulle nostre divise, che però una volta fatto rimase lo stesso anche per
la successiva destinazione.
Questi tre mesi furono un periodo di transizione che trascorse
velocemente e del quale mi restano pochi ricordi, anche se alcuni di
loro mi sono ancora impressi per motivi particolari. Fui destinato alla
XIV Compagnia del IV btg. meccanizzato e mi ritrovai ad essere uno
di quattordici Sergenti AUC, tutti abbastanza impreparati su quelle
che sarebbero state le nostre funzioni, ma con una prerogativa poco
invidiabile rispetto agli altri: quella di essere il più anziano per età e
quindi ritenuto il responsabile di tutti loro di fronte ai superiori.
Le nostre brande erano sistemate in fondo, nell’ultima delle
camerate, dove, non so per quale motivo, eravamo esposti ad un
freddo terribile tanto che per difenderci si doveva utilizzare l’intera
dotazione di coperte (mi pare fossero nove tra sotto e sopra) e, durante
le nottate più rigide, capitava che all’interno delle finestre si
formassero lunghe stalattiti di ghiaccio prodotte dalla condensa della
nostra respirazione. Con queste condizioni climatiche, ben presto, chi
non era astemio iniziò a tenere a portata di mano la borraccia piena di
grappa, e tra questi anch’io sebbene avessi preferito del brandy o altri
liquori, perché all’inizio mi veniva la nausea solo a sentirne l’odore
dopo tutte quelle più diverse che avevano girato sul tavolo del poker
in casa di Furio Bigogno (la cui famiglia era originaria di Udine); ma
quello era il prodotto alcolico più sano e facilmente reperibile sulla
piazza.
Al momento che Ugo decise di venirmi a trovare, poco dopo il suo
congedo, oltre a portarmi una 500 Fiat da parte del babbo arrivò anche
45
LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO
con il sacco a pelo dell’Air Force USA, da me acquistato tempo avanti
al mercatino americano di Livorno, e che avevo richiesto in
quell’occasione pensando che mi potesse essere utile. Questo sacco
aveva una forma a sarcofago di mummia, con un’apertura circolare
che lasciava scoperto solo parte del viso, e una volta chiusi al suo
interno lasciava poco spazio di movimento. Lo provai una sola volta e
questo mi costò una bella bronchite, perché durante la notte per il
troppo caldo ne ero uscito fuori rimanendo con il corpo in parte
scoperto. Per rendermi conto di questo fatto qualche giorno dopo
controllai le scritte delle varie etichette cucite sul sacco, e così trovai
l’avvertenza che quell’oggetto era stato testato per la sopravvivenza
degli aviatori a temperature polari!
L’edificio della mensa era una vasta baracca di legno, sicuramente
costruita durante il periodo dell’Amministrazione del Governo
Militare Alleato sulla Zona A del Territorio Libero di Trieste,
all’esterno della quale, con qualsiasi tempo, la truppa doveva aspettare
inquadrata il proprio turno per entrare con un certo ordine. Questa non
è stata l’unica struttura di quel tipo che allora vidi, perché altre più
piccole, utilizzate per uffici, camere e magazzini, talune con una
tettoia sovrastante un ballatoio esterno, esistevano anche nella
caserma dell’artiglieria a Banne e in una polveriera situata sulle
colline retrostanti Bagnoli. In quest’ultima, che dovetti visitare per un
servizio d’ispezione, rimasi sorpreso nello scoprire che anche i due
cani lupo da guardia erano registrati nel ruolino come qualsiasi altro
militare.
Un giorno, andando per qualche motivo nella cantina del nostro
edificio, trovai alcuni resti di barattoli di vernice e della juta che
pensai di poter utilizzare per un quadro, realizzando la struttura della
tela con alcuni listelli di legno grezzo e dei chiodi reperiti anch’essi
sempre sul posto. Non disponendo di pennelli, creai l’opera artistica
colando le vernici direttamente dai barattoli, utilizzando i soli colori
disponibili che erano giallo, rosso e nero. Alcuni giorni dopo, quando
si furono seccati, mi resi conto che rigirando il quadro si otteneva
un’immagine che simulava un bell’effetto di fiamme e di conseguenza
gli detti il titolo “Inferno ‘64”. Questo quadro lo posseggo ancora e si
trova appeso al muro vicino alla caldaia dell’impianto di
riscaldamento nella cantina a Castiglioncello.
46
LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO
Un fatto che mi è rimasto particolarmente impresso di quel periodo
è che uno dei soldati dimostrò di aver bisogno d’aiuto, perché essendo
quasi analfabeta non poteva leggere le lettere che riceveva dalla
fidanzata, né tanto meno risponderle. Questo ragazzo fu in un certo
senso adottato dal mio collega Filippini, mi pare fosse diplomato
maestro o iscritto alla Facoltà di Lettere, che gli si dedicò con
costanza fino al punto di fargli scrivere la sua prima lettera. Quello
che ci meravigliò molto fu che le lettere che lui riceveva erano ben
scritte e in buon italiano, e che oltretutto la sua ragazza era una gran
bella figliola, come potemmo apprezzare da una fotografia che ci
mostrò. Ricordo anche la commozione del mio collega quando,
allegato alla successiva posta indirizzata al soldato, gli arrivò un
ringraziamento personale da parte della fidanzata.
Momento di riposo in camerata
47
LA GRAPPA DELLA LAVANDAIA POLIGLOTTA
La mia fornitrice personale di grappa era una donna molto anziana
che conosceva bene quattro lingue (italiano, tedesco, slavo e inglese)
per una vita passata sotto altrettante bandiere, che conobbi come
lavandaia appena ne ricercai una per farmi lavare la biancheria
all’esterno della caserma. Nella sua cucina, su fornelli a carbone, da
un lato c’era il pentolone per bollire l’acqua calda e dall’altra il
distillatore. Il suo prodotto era rinomato e lo vendeva a 900 lire al
litro, piuttosto caro rispetto alle 700 della slivovitz prodotta con le
prugne e venduta dalle donne frontaliere jugoslave, di cui però non
sapevamo bene l’origine.
La grappa nelle borracce, se sopravviveva alle ricorrenti ispezioni,
era oltremodo utile anche durante gli allarmi NATO, in realtà delle
esercitazioni generalmente notturne che coinvolgevano tutta la
caserma, durante le quali la compagnia era costretta a passare anche
ore a terra o più spesso all’interno dei veicoli per trasporto truppa
AMX12. Questi carri, più adatti all’ambiente carsico, perché in
acciaio, in poco tempo si trasformavano in vere e proprie celle
frigorifere per il formarsi di uno strato di ghiaccio spesso e continuo
sulle pareti interne dovuto alla condensa del respiro della squadra che
l’occupava, ma in quelle occasioni io potevo almeno rallegrarmi per il
mio posto di capo carro in torretta, con il dorso o il fondo schiena
lambiti dal tepore emesso dal vicino ventilatore.
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LA PRIMA ESPERIENZA CON LA BORA
La prima esperienza con la bora, seguita poi da altre, ma che fu
certamente la peggiore di tutte, la feci una notte in cui ero di servizio
come Sergente d’Ispezione. Al silenzio mi ero ritirato all’interno del
posto di guardia con un tempo abbastanza normale, anche se molto
fresco, e stavo pisolando sulla branda aspettando che l’Ufficiale di
Picchetto mi comunicasse l’ora per fare il giro all’interno della
caserma. Quando arrivò il momento di farlo e mi avviavo verso la
bicicletta, indossando ancora la divisa estiva, mi accorsi subito che la
temperatura era notevolmente abbassata e appena girato l’angolo
dell’edificio fui accolto da delle improvvise raffiche di vento.
Purtroppo era ormai troppo tardi per prendere una diversa decisione,
poiché avevo già inforcato il mezzo e imboccata la lunga discesa che
iniziava dal cancello d’ingresso e proseguiva per tutta la lunghezza
della caserma.
Nello stesso momento che la mia velocità iniziò ad aumentare
cominciò a mancarmi anche la sicurezza della stabilità per via degli
improvvisi colpi di vento che mi facevano sbandare lateralmente,
perché la sua direzione principale subiva delle variazioni locali dovute
al gioco sulle pareti delle costruzioni. A quel punto cominciai ad avere
veramente paura di fare un volo con risultati disastrosi, ma trovai la
forza di sterzare imboccando una zona aperta compresa tra due edifici
dove trovai momentaneo riparo e potei riprendere fiato.
Dopodiché cercai di terminare a piedi il mio percorso d’ispezione,
portando la bicicletta a mano di fianco e questo, bene o male, riuscii a
farlo per tutto il percorso dell’andata, ma quando iniziai a fare in salita
quello di ritorno diventò quasi impossibile avanzare contro vento e fui
quindi costretto ad abbandonarla. Per contrastare la forza delle
raffiche, infatti, dovevo camminare molto piegato in avanti spingendo
la bicicletta con il corpo completamente fuori baricentro, e non
riuscendo sempre a controbilanciare lo sforzo all’improvvisa calma tra
l’una e l’altra raffica, più di una volta eravamo andati ambedue a
finire distesi per terra.
49
LA PRIMA ESPERIENZA CON LA BORA
Voglio precisare, per pura curiosità, che la durata media delle
bandiere durante questi periodi ventosi, ossia il tempo della loro
durata fino al momento di doverle sostituire per la quasi totale
sparizione del color rosso, era inferiore ad una settimana, sebbene il
loro orlo esterno fosse rinforzato per renderle più durature a queste
condizioni estreme.
Sul Colle Sant’Elia a Redipuglia
50
TRIESTE E DINTORNI
Villa Opicina non offriva particolari svaghi, ma la sua vicinanza
alla caserma era comoda per trascorrervi i brevi momenti di libertà,
come cenare in un buon ristorante, vedere un film o svolgere qualche
normale incombenza, tipo l’acquisto di qualcosa di necessario o la
consegna e il ritiro della biancheria.
Nei momenti con maggior disponibilità di tempo abbiamo avuto la
possibilità di visitare alcuni luoghi famosi per i loro fenomeni naturali,
come le Bocche del Timavo e la Grotta Gigante, enorme cavità carsica
situata a poca distanza dalla caserma, e importanti monumenti dedicati
ai caduti della Grande Guerra, come quelli di Redipuglia. Ma la mèta
più frequente era Trieste, dove si poteva trovare tutto quanto può
offrire una città, con le sue opere d’arte, musei, cinema e ristoranti,
facilmente raggiungibile in breve tempo con la tranvia o per strada
con auto, i cui tracciati panoramici si snodano circa paralleli tra loro.
Un tardo pomeriggio, mentre gia a buio percorrevo in auto proprio
quella strada per rientrare in caserma, ricordo di essere stato fermato
da una pattuglia motociclista della Polizia Stradale che mi contestò di
non avere acceso le luci di posizione (fatto che era vero perché
ingannato dall’illuminazione pubblica), ma quando l’agente si rese
conto che ero un sergente mise via il blocchetto dei verbali e
salutandomi mi fece proseguire dandomi come spiegazione «...tra
colleghi…».
Oltre a visitare San Giusto e il Castello omonimo, vari musei, i
resti archeologici romani e il porto, tra le sue attrattive c’era anche
l’Acquario con un suo simpatico ospite, un pinguino cui mi pare fosse
stato imposto il nome di Marco, che se prendeva un visitatore in
simpatia lo seguiva per lunghi tratti. Lungo la costa, verso NO, si
trovava il Castello di Miramare e verso SE il caratteristico paese di
Muggia. Inoltre, in centro città si trovava anche la sede dell’Unione
Militare che per alcune volte noi sergenti AUC si dovette frequentare
per sottoporci alle prove della divisa diagonale con la quale avremmo
dovuto presentaci alle future destinazioni.
51
TRIESTE E DINTORNI
In quel periodo permaneva, non credo che esista ancora in una
forma così spinta, un evidente attrito tra una parte della popolazione
d’origine slava verso l’italiana, specialmente se in divisa. Questo si
manifestava abbastanza evidente nelle risposte che si potevano
ottenevano rivolgendosi ad un passante per chiedere un’informazione.
Non sempre ottenevi una risposta gentile, infatti, perché nel migliore
dei casi eri ignorato e nel peggiore eri oggetto di offesa o mandato a
quel paese con l’augurio di un accidente in una lingua
incomprensibile. Notai anche come abbastanza di frequente gran parte
dei conduttori dei tram e di altri mezzi pubblici parlassero
comunemente in slavo, mentre se avevano da protestare per
un’infrazione al traffico commessa da un autista o da un pedone
lanciavano invettive o imprecavano con bestemmie esclusivamente in
italiano.
Quanto appena detto, di cui mi sono ricordato improvvisamente,
ho voluto riportarlo solo per mostrare un aspetto dei non sempre facili
rapporti con una parte della popolazione locale, ma non vorrei che ciò
fosse preso come una mia particolare avversione nei loro confronti.
Questa era la situazione allora esistente e in manifestazioni antiitaliane, molto più evidenti e indiscutibili, mi sono imbattuto anche in
alcune altre occasioni che racconterò qui di seguito.
52
LE MARCE E LE RONDE
Ogni tanto l’addestramento prevedeva l’uscita del plotone per
delle brevi marce, che iniziavano appunto dalla caserma e dovevano
seguire percorsi prestabiliti per raggiungere località situate nei
dintorni, tra le quali ricordo Monrupino, Borgo Grotta Gigante o
Banne. Queste uscite, in numero abbastanza limitato, costituivano, in
realtà, un piacevole diversivo alla vita quotidiana perché poco
impegnative e anche perché una volta raggiunta la mèta si poteva un
po’ riposare prima di iniziare il viaggio di rientro, magari sostando
vicino ad un locale pubblico dove era possibile che a turno i ragazzi si
rifocillassero.
Tra i servizi che mi è capitato di fare come sergente c’è stato anche
quello di ronda, per formare la quale avevo bisogno di una coppia di
soldati, scelta che non è stata mai difficile da fare perché molti di loro
facevano a gara per parteciparvi, specialmente tra quelli di origine
toscana e in particolare di due amici di Prato. Il territorio da
controllare era abbastanza vasto e oltre Villa Opicina comprendeva i
paesi del circondario che raggiungevamo spostandoci con una
macchina di servizio.
Tra le varie tappe c’era anche Prosecco, dove una sera fummo
affrontati e offesi da un ragazzino di neanche dieci anni che ci definì
«sporchi italiani», nascondendosi subito dopo dietro l’angolo di una
casa. Fummo tuttavia costretti a far finta di nulla e tirare diritto per la
nostra strada ben sapendo che se avessimo fatto una sola mossa falsa
sarebbero saltati fuori suoi vari parenti, e forse anche amici degli
stessi, che non aspettavano altro per attaccare briga.
Durante i giri di ronda erano effettuati normalmente anche
controlli all’interno di locali pubblici per verificare il comportamento
di eventuali militari presenti, e questi posti, spesso bar o mescite,
erano normalmente frequentati da avventori che passavano il tempo
giocando a carte con un bicchiere davanti. Per noi era naturalmente
fatto assoluto divieto di consumare durante il servizio ma, sempre a
53
LE MARCE E LE RONDE
Prosecco, la stessa sera del fatto precedente, c’imbattemmo in un
tavolo occupato da alcuni anziani ex-combattenti che mi chiesero di
brindare all’Italia. Tentai in tutti i modi di rifiutare, in particolare alle
insistenze di uno di loro, ma quando questi mi mostrò la sua
decorazione al Valor Militare ricevuta nella Grande Guerra, mi resi
conto che la mia mancata consegna sarebbe stata ben poca cosa di
fronte all’offesa che avrei fatto nel non accettare il suo invito, e così
bevvi un sorso di vino.
Il mattino successivo fui convocato alla palazzina comando senza
rendermi conto del motivo, ma questo mi fu subito chiaro quando il
Comandante del Reggimento, senza dire una parola, mi porse un
foglio che riconobbi subito come una tipica lettera anonima composta
con ritagli di giornale, la quale denunciava il capo ronda di servizio la
sera precedente a Prosecco perché si era permesso di bere in servizio!
Scusandomi detti la spiegazione del mio gesto, che fu accettata perché
compresa nel giusto senso, ma mi fu suggerito per il futuro di stare
molto attento al mio comportamento esterno come il fatto aveva
chiaramente dimostrato e aggiunse, inoltre, che quella lettera non era
l’unica, ma una delle tante che aveva ricevuto nel tempo.
Il gruppo dei Sergenti AUC della XIV Compagnia. Da sinistra: primo G.C.
Antonello, sesto V. Simoni, nono io, penultimo C. Filippini.
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LA LEZIONE DI CACCIA AI CARRI
La caccia ai carri consiste in una tattica particolare e individuale
utilizzata per mettere fuori uso mezzi corazzati nemici mediante l’uso
di esplosivi, tipo mine e bombe a mano. Ma devo precisare che alla
Scuola di Lecce non avevo mai partecipato ad esercitazioni pratiche di
questo tipo, perché in alcuni casi ero riuscito a scansare alcune di
quelle più rischiose essendo talora incaricato di svolgere altre funzioni
attinenti alla mia carica di allievo scelto.
Un giorno, però, dovetti affrontare questo tema di fronte ai miei
uomini, come era previsto dal programma di addestramento, e spesi
diverso tempo per spiegare nel migliore dei modi la teoria di come
esistessero tre tipi di approccio nell’affrontare il carro. Di fronte,
mantenendo una posizione sdraiata e orientata rispetto al suo
movimento, adeguandola nel caso mediante rotolamenti o spostamenti
laterali del corpo; di fianco, affrontando di corsa la salita sul mezzo
una volta arrivato all’altezza della posizione di partenza opportuna
(forse il tipo di approccio più pericoloso avendo pochi appigli e
l’ostacolo del movimento dei cingoli); dal retro, affrontando di corsa
la salita sul mezzo facendo in questo caso attenzione alle griglie dei
motori che avrebbero potuto provocare forti ustioni alle mani.
Quest’ultimo tipo poteva essere una variante di quello frontale nel
caso non fossero utilizzate mine magnetiche da applicare sotto lo
scafo.
Conclusa la mia lezione si doveva passare all’esercitazione pratica
con il carro M47 pronto a distanza con il motore acceso, con il pilota
che aspettava l’ordine per muoversi poiché aveva già ricevuto
precedentemente le opportune istruzioni. Fu allora che dal gruppo si
fece avanti un caporale che così mi disse: «Sergente, Lei ha spiegato
benissimo la teoria dell’assalto, ma se ci desse una dimostrazione
forse lo capiremmo ancora meglio». Questa richiesta, plausibile e
giusta, non mi sorprese molto sebbene avessi sperato fino all’ultimo
momento di evitare di sottopormi all’esercitazione pratica, ma oramai
essendo stato messo con le spalle al muro, e soprattutto per non
55
LA LEZIONE DI CACCIA AI CARRI
rimetterci la faccia, presi il coraggio di affrontarla con tutte le
conseguenze del caso.
Iniziai dalla posizione frontale, con una certa preoccupazione
anche se naturalmente il carro avanzava ad una velocità moderata e
costante, mantenendomi in asse con il suo percorso facendo quei
movimenti che avevo spiegato, e una volta superatomi affrontai la
salita dal retro arrampicandomi fino alla torretta facendo la mossa di
gettare la bomba al suo interno, e infine tornare a terra lanciandomi
lateralmente da quell’altezza impressionante. Conclusi tutte le
dimostrazioni con gran piacere e soddisfazione, sensazioni provate
specialmente nella fase di abbandono del carro, dopo il salto che si
concludeva con una capriola finale prima di riprendere la posizione
distesa.
Una volta terminata la dimostrazione domandai se essa era stata
esauriente o se fosse stato necessario ripeterla in qualche sua parte (mi
era piaciuta a tal punto che sarei stato pronto anche a rifarla da capo),
ma dato che la risposta fu affermativa si passò all’esercitazione vera e
propria. Essa si concluse con un certo divertimento da parte di tutti e,
soprattutto, con un solo uomo dolorante in infermeria per un brutto
colpo ad un ginocchio procuratosi durante il suo assalto laterale.
Quest’esperienza la ricordo non solo come una bella lezione di
pratica militare, ma soprattutto perché per me rappresentò
un’importante lezione di comportamento, ossia quella di dare
l’esempio quando si pretende dal prossimo l’esecuzione di un
impegno; principio che in fondo il Tenente Cutrì aveva sempre
dimostrato, ma che io avevo già dimenticato. Questo principio ho
cercato poi di applicarlo anche nei rapporti della vita civile e di lavoro
ma, purtroppo, essendo per carattere un accentratore non so se e in
quali occasioni sono riuscito veramente a metterlo in pratica.
56
I CONTATTI CON I FAMIGLIARI
La prima persona di famiglia che venne a trovarmi ad Opicina fu
Ugo, come ho già ricordato in precedenza, il quale affrontò questo
viaggio poco dopo il mio arrivo e il suo congedo, provenendo da
Milano dove era andato a trovare Graziella. Lo scopo fu duplice: il
primo per rivederci dopo parecchi mesi, dato che le nostre esistenze
erano state dirottate per identici motivi (prima la sua a Cesano e poi la
mia a Lecce), il secondo per consegnarmi quella piccola 500 che poi
ho potuto felicemente utilizzare per tutta la durata del restante periodo
del mio servizio militare.
Passammo insieme poco meno di due giorni, perché arrivò di
pomeriggio e ripartì quello dopo dalla stazione di Trieste per il suo
rientro a Firenze. Tra i posti che frequentammo e che anche lui ricorda
ancora c’è il ristorante Malalan, un locale proibito o perlomeno
sconsigliato a noi militari per motivi nazionalistici slavi, ma dove
andammo a cena perché la cucina caratteristica era ottima, e Muggia,
piccolo paese rivierasco con caratteristico porticciolo prossimo al
confine di stato con l’allora Jugoslavia, dove mangiammo pesce in un
locale un po’ particolare (una specie di capannone).
I miei genitori vennero in un secondo tempo ed essendo rimasti per
qualche giorno, non mi ricordo però in quale albergo risedettero così
come non mi ricordo a proposito di Ugo, ci furono più occasioni di
fargli rivisitare o conoscere posti e locali di Trieste, come il Castello
di Miramare e la trattoria il caìcio (nome di una piccola barca da pesca
della laguna veneta), che non avevo scoperto da solo ma che mi era
stata consigliata da Nino, un rappresentante milanese amico di
famiglia. Non mancai anche in questo caso di portarli al Malalan,
dove il babbo gustò talmente tanto il loro pollo fritto che volle tornare
a mangiarlo una seconda volta.
Il 6 Dicembre mi fu concesso un permesso di 48 ore per Milano in
occasione del fidanzamento ufficiale di Ugo con Graziella. Nel libro
di ricordi su Castiglioncello ho raccontato questo stesso fatto come se
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I CONTATTI CON I FAMIGLIARI
fosse avvenuto in occasione del loro matrimonio, forse perché questa
era stata la vera motivazione con la quale lo avevo richiesto, mentre in
realtà esso è avvenuto sempre a Milano, ma il 25 Giugno 1966.
Ricorderò per sempre quel terribile viaggio d’andata che trascorsi
completamente in piedi su un treno stracolmo, dove non si liberò
neanche uno strapuntino, per di più in posizione disagiata e accanto ad
una porta piena di spifferi.
Finalmente, terminato il periodo con il grado di Sergente AUC,
arrivò il momento tanto atteso dell’unica e vera licenza, la licenza
ordinaria in attesa della nomina, che trascorsi per lo più in una
Firenze umida dopo un lungo viaggio, altrettanto umido e nebbioso.
Alla mia partenza da Trieste avevo già con me la nuova divisa
d’ordinanza con i gradi di sottotenente. Il tessuto diagonale era stato
fornito gratuitamente dal Maresciallo addetto ai materiali, ma era stata
a nostro carico la fattura per la sua realizzazione presso la sartoria
dell’Unione Militare, dove mi sottoposi a misure e prove. La spada,
completa di pendaglio e dragona, e la sciarpa azzurra mi furono
regalate (o le acquistai a prezzo stracciato?) a Firenze dall’amico
Giorgio Giorgi, che aveva appena terminato il suo servizio. La sciarpa
la sostituii successivamente con un’altra, con nappa più ricca, che era
stata dimenticata in guardaroba da un generale ospite per un solo
giorno del nostro circolo.
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GENNAIO – LUGLIO 1965
183° REGGIMENTO “NEMBO” A GRADISCA D’ISONZO
CASERMA UGO POLONIO
LA X COMPAGNIA DEL III BATTAGLIONE
Quando arrivai alla mia nuova destinazione presso il
distaccamento del rgt. “Nembo” nella Caserma Guido Polonio di
Gradisca d’Isonzo, mentre il comando era di stanza a Cervignano del
Friuli, ebbi subito due sorprese. La prima, in un certo senso gradevole,
fu che dovevo trovarmi una sistemazione esterna non esistendo la
possibilità di alloggio all’interno della struttura; la seconda, che invece
mi fece molto arrabbiare, fu che ero stato destinato alla X Compagnia
del III Battaglione, ossia che ero stato di fatto appiedato, in barba alla
mia specializzazione.
Quando mi presentai al comandante di compagnia, che mi dette
alcuni consigli pratici e m’introdusse in quelle che sarebbero state le
mie future incombenze, gli feci presente che non capivo come mai ero
stato assegnato alla sua compagnia e non ad una del IV Battaglione
Meccanizzato. A seguito di queste mie rimostranze, in base ad una
breve ricerca, venne fuori che era stato effettivamente commesso un
errore al quale sarebbe stato posto rimedio al più presto.
La sistemazione esterna fu facilmente trovata con l’aiuto di
colleghi di complemento anziani, quelli del precedente corso, e in
particolare di un tenente dei “Cavalleggeri di Saluzzo”, Gruppo che
all’epoca occupava una piccola parte della vasta caserma. Per quanto
riguardò la destinazione finale ebbi abbastanza tempo per potermi
ambientare e conoscere i miei superiori diretti e così, quando incontrai
il comandante del IV btg., che mi assicurò un suo diretto
interessamento per risolvere la questione, mi resi conto che in fondo
mi sarei trovato meglio dove ero e rifiutai la possibilità del
trasferimento.
Ripensandoci, oggi mi viene in mente che la principale causa del
rifiuto dipese dal fatto che la mia compagnia era costituita da soldati
dello stesso ciclo di addestramento, ossia appartenenti allo stesso
scaglione di leva e, quindi, senza i così detti nonni e i conseguenti loro
sgradevoli comportamenti, mentre nel battaglione meccanizzato mi
61
LA X COMPAGNIA DEL III BATTAGLIONE
sarei trovato molto probabilmente in una compagnia promiscua, dove
avrei avuto una vita meno tranquilla e con minori soddisfazioni.
62
LA LOCANDA “IL FRIULI”
Tra le possibilità di accomodamento la più comoda risultò la
Locanda il Friuli perché offriva un bar, aperto praticamente a tutte le
ore e attrezzato per fare colazione, un buon ristorante, e dove poteva
essere utilizzato anche il sevizio di lavanderia, tutte cose che
permettevano di essere liberi e indipendenti da qualsiasi obbligo si
presentasse. Inoltre, sul retro dell’edificio esisteva un ampio cortile
interno, molto utile per parcheggiare la 500 che oramai utilizzavo
abbastanza raramente e solo nei giorni di libertà, perché per
raggiungere la caserma potevamo usufruire di una macchina di
servizio.
Dopo aver valutato la predetta situazione con Giancarlo Antonello,
con il quale avevo sempre condiviso le stesse destinazioni, ci
trovammo d’accordo nel prendere insieme una camera doppia presso
questa locanda, che poi abbiamo mantenuto per tutta la durata della
nostra permanenza a Gradisca. Nella stanza avevamo un lavandino,
mentre dovevamo utilizzare un bagno con doccia comune, ma posto
nel corridoio proprio di fronte alla nostra camera. Col passare del
tempo apprezzammo ancora di più la posizione centrale della locanda,
a due passi dalla piazza dove eravamo soliti fare due passi o sostare in
un caffè, oppure andare al cinema, e dove oltretutto potevamo essere
raccattati dalla macchina di servizio per andare in caserma di mattino
e tornare alla pensione di sera, una volta liberati da impegni.
Gli inconvenienti di questa sistemazione erano molto pochi. Uno
era la rara eventualità della mancanza temporanea dell’acqua corrente,
che non abbiamo mai capito se dipendeva dall’impianto privato o
dall’acquedotto, alla quale sopperivamo sciacquandoci la bocca dal
dentifricio con del Pinot grigio, e rinviando la barba e il resto una
volta arrivati in caserma. La presenza di un cartone di bottiglie di vino
sotto il lavandino dipendeva dal fatto che non ci dispiaceva qualche
volta berne un bicchiere, ma era dettato soprattutto dal fatto che
costava meno dell’acqua minerale, anche perché lo prendevo alla
cantina sociale di Farra d’Isonzo, dove ogni tanto facevo una scappata
63
LA LOCANDA “IL FRIULI”
per acquistare e far spedire a mio padre una scelta di vini locali. Un
secondo inconveniente era di dover trovare un altro bagno libero
nell’evenienza di sedute prolungate in quello che ritenevamo nostro.
Un terzo inconveniente, notevolmente più grave, era che anche alle 5
del mattino ero costretto, ma penso anche altri colleghi, a fare delle
peripezie per uscire dalla locanda dovendo attraversare il bar dove
immancabilmente c’era qualcuno, della famiglia o cliente, che mi
voleva per forza offrire una grappa!
C’è stato un periodo che avendo litigato con l’ufficiale gestore
della mensa ho frequentato più assiduamente del solito il ristorante
della locanda. In quelle occasioni mi sono tolto la voglia di mangiare
cacciagione in tutte le salse, ma la carne era soprattutto di capriolo.
All’epoca andavo ancora a caccia e con il figlio dei proprietari,
cacciatore anche lui, nacque una certa amicizia che portò al fatto che
quando mi rimaneva qualche cartuccia dalle esercitazioni a fuoco
gliele regalavo poiché aveva un fucile dello stesso calibro. Un giorno,
però, ringraziandomi mi disse di no, che bastavano, perché le
munizioni che già aveva ricevuto sarebbero state sufficienti per molto
tempo. Mi spiegò, infatti, che secondo le regole locali gli toccava
normalmente un capriolo e mezzo ogni anno, il che voleva dire, che se
tirava giusto, avrebbe sparato uno o due colpi a stagione venatoria.
64
GRADISCA E DINTORNI
Appena mi fui un po’ ambientato nella nuova destinazione mi
accorsi la diversa aria che tirava. In particolare trovai molto diversi i
rapporti con la popolazione locale rispetto a quelli avuti
precedentemente. Qui, infatti, i sentimenti patriottici erano molto
spinti, specialmente nella zona di Gorizia, dove una parte della città
era stata assegnata alla Jugoslavia, e dove la manifestazione più
evidente era rappresentata dalla scritta W L’ITALIA, situata sul
versante del Monte Sabotino poco sotto la casermetta, in
contrapposizione a NAS TITO situata oltre confine, ambedue
composte con blocchi di calcari bianchi e ben visibili sul terreno
anche da molta distanza. Da quanto detto si capisce che Gorizia è stata
una tra le località che ho visitato in quel periodo.
Durante la bella stagione le giornate completamente libere le ho
trascorse quasi sempre in compagnia di Giancarlo, generalmente a
Duino o Sistiana, località ambedue sul mare e caratterizzate da costa
rocciosa che mi ricordava lontanamente quella di Castiglioncello. Ma
non sono mancate le visite agli scavi archeologici di Aquileia e alla
vicina e caratteristica cittadina di Grado, raggiungibile con un lungo
tratto di strada attraverso la laguna, ma per me poco attraente per fare
bagni in quel mare che mi sembrava tanto fangoso. Una volta mi volli
togliere anche la curiosità di vedere Palmanova, della quale rimasi
molto deluso per la parte urbana interna alla cittadella, mentre mi
piacquero molto le sue strutture difensive.
La gita più lunga che abbiamo fatto insieme fu quella di un intero
giorno a Tarvisio; non ricordo perché fu scelta quella località, ma
forse fu Giancarlo a proporla perché lui sentiva più di me attrazione
per l’ambiente alpino, e ci spingemmo fino ai Laghi di Fusine che era
una delle maggiori attrattive locali. Facemmo pic-nic sul posto e
girellando lì intorno ad un certo punto mi colpirono alcune rocce un
po’ particolari che affioravano dal terreno e che volli andare a
controllare da vicino per capire di che tipo fossero. Con sorpresa
scoprii che in realtà erano delle postazioni fisse, costruite a regola
65
GRADISCA E DINTORNI
d’arte in cemento e acciaio, e mi resi solo allora conto che ci
trovavamo molto vicini al confine jugoslavo.
A proposito di postazioni fisse: in tutta la zona del confine
orientale ne esistevano molte che erano gestite da Battaglioni
d’arresto, come quello di stanza a Farra d’Isonzo. Nella zona di
pianura passavano completamente inosservate, mentre erano più
evidenti le opere di sbarramento anticarro, perché le postazioni fisse
erano mascherate sotto covoni e pagliai o in casotti tipo quelli di
manutenzione stradale dell’ANAS. Bastava tuttavia chiedersi come i
primi due potessero mantenersi così integri in tutte le stagioni e,
d’altra parte, poteva capitare di passare nel momento della
manutenzione di una postazione del terzo tipo, quando le pareti del
casotto erano ribaltate come una scatola a sorpresa e dei soldati con
scovolo e pezze pulivano il cannone di una torretta di carro armato
interrata.
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LA BERETTA 22 LR
In una delle visite fatte a Gorizia acquistai da un armaiolo una
pistola Beretta calibro 22 LR per evitare di portare quella d’ordinanza
che temevo di perdere, poiché in qualche circostanza mi era capitato
che fosse uscita dalla fondina, anche se era quasi impossibile che si
sganciasse dal cordino in tela. Questa sostituzione mi costò un
rimbrotto, fatto per la verità sotto voce e in forma amichevole, da
parte di un generale che risiedeva saltuariamente in caserma e che una
notte, come ufficiale di picchetto, dovetti accogliere di persona perché
essendo in borghese non fu riconosciuto dalla guardia che lo lasciò
fuori dell’ingresso. Si accorse che la mia pistola non era quella
d’ordinanza nel momento in cui io mi scusavo per l’accaduto, mentre
lui mi faceva i complimenti per il comportamento del militare.
Evidentemente, aveva posato gli occhi proprio su quel punto ed era
facile capire la sostituzione perché il moschettone del cordino era
attaccato alla tela della fondina e non al calcio dell’arma. L’occasione
mi servì a ricordarmi per il futuro di lasciarla in armeria, come in
genere avevo sempre fatto, e di portarla a spasso solo durante le uscite
sull’altopiano.
Un altro motivo del suo acquisto, in verità, era proprio quello di
poterla usare sul Carso per prendere un fagiano o qualcosa d’altro, se
mi fosse capitato a tiro, ma che non mi è mai successo tranne una sola
volta. Quell’unico approccio ravvicinato che ho avuto con della vera
selvaggina avvenne il giorno che vidi un capriolo entrare in un
boschetto di noccioli sul fondo di una piccola dolina che si trovava
poco distante dal punto dove il nostro gruppo si stava riposando.
Spinto dal mio istinto di cacciatore, ma sollecitato anche da qualcuno
dei ragazzi che lo avevano visto, mi avvicinai ed entrai tra gli arbusti
con la pistola in pugno, trovandomi dopo solo pochi passi a meno di
due metri dagli occhi languidi di una femmina con il suo cucciolo che
mi guardavano apparentemente per niente impauriti. Questo sguardo
mi fece un’enorme impressione e, dopo qualche attimo d’immobilità
assoluta, mi girai su me stesso e iniziai a tornare indietro, pieno di
67
LA BERETTA 22 LR
vergogna per il solo fatto di aver pensato di volere abbattere quella
stupenda creatura. Poco dopo, quando raggiunsi il gruppo che non
aveva visto né udito più nulla, raccontai che il capriolo doveva essere
scappato sul retro, perché non ero riuscito a rintracciarlo.
68
ALCUNI ASPETTI DELLA VITA IN COMPAGNIA
I militari della X cp. appartenevano allo stesso scaglione ed erano
arrivati dai Centri Addestramento Reclute (CAR) al reggimento da
poco tempo; pertanto eravamo tutti quanti, truppa, sottufficiali e
ufficiali, molto impegnati in un ciclo di addestramento piuttosto
complesso che contemplava tra lezioni ed esercitazioni, interne ed
esterne, quello che in pratica anche noi avevamo dovuto fare alle
scuole allievi ufficiali di complemento. Nel mio caso, però, è da tener
presente che essendo stato addestrato per istruire e comandare truppe
meccanizzate mi trovavo talora impreparato nello svolgere i compiti
attuali, che di conseguenza mi potevano diventare più faticosi.
I periodi più piacevoli erano quelli trascorsi sul Carso dove
effettuavamo spesso esercitazioni in bianco, sfruttando anche opere
difensive risalenti per lo più al periodo della Grande Guerra. Durante
queste uscite abbastanza frequentemente capitava di imbattersi in
ordigni inesplosi e, talvolta, all’interno di trincee addirittura in ossa
umane calcinate, perché era lì che qualche soldato andava a cercare
asparagi selvatici da regalarmi e con i quali poi mi facevo fare dalla
cuoca delle gustose frittate. In ambedue i casi, i punti di ritrovamento
si evidenziavano nel migliore dei modi, in genere con pinnacoli fatti di
pietre, e successivamente li segnalavamo agli uffici competenti dando
le relative coordinate. Gli ordigni erano recuperati da una squadra di
due strani individui in abiti borghesi e trasferiti in un poligono dove
erano fatti esplodere, mentre i resti umani dal personale di una sezione
apposita dipendente dal Sacrario di Redipuglia.
Ricordo ancora il giorno in cui quella strana coppia di guastatori
era a pranzo vicino al mio tavolo al ristorante della locanda e quando,
andando a prendere nel cortile la 500, mi trovai il loro furgone
parcheggiato proprio lì accanto, con nel cassone un bel mucchio di
materiale bellico inesploso semicoperto da un telone cerato. Rientrato
dentro, abbastanza arrabbiato di questo fatto, feci notare in modo
brusco che non trovavo per niente sicuro lasciare incustodito quel tipo
di materiale, ma la risposta impertinente che ricevetti fu che non c’era
69
ALCUNI ASPETTI DELLA VITA IN COMPAGNIA
alcun pericolo, salvo che qualcuno non si mettesse a prendere a
martellate le spolette!
Una delle mansioni che mi capitava assai spesso era quella di
sovrintendere anche al rancio, che al Nembo si svolgeva in condizioni
veramente invidiabili rispetto ad altri reggimenti. I soldati, infatti,
sedevano a tavoli coperti con tovaglie bianche, serviti in piatti e
scodelle di porcellana, con bicchieri di vetro e posate d’acciaio, una
bottiglia da mezzo litro di vino a pasto ogni due e formaggio
grattugiato in tavola. Questo che ho appena descritto sembrerebbe una
condizione normale per gente con una certa educazione e livello di
vita civile, ma vi sarebbe apparso fuori del tempo se aveste potuto
vedere il comportamento, per lo meno per i primi tempi, di alcuni
degli avventori. In pratica, per farvi un paio di esempi, ho dovuto
insegnare ad usare le posate a chi era abituato a addentare una braciola
e tagliarne un boccone con il coltello; proibire di bere direttamente
dalla bottiglia e convincere ad usare il bicchiere, facendo oltretutto
presente che il suo collega non lo beveva perché astemio, ma perché
non se ne giovava. La mia sorpresa fu che tra questi individui non
c’erano solo pastori calabresi della Sila, ma anche diversi veneti, che
fino a quel momento avevo ritenuto più civili.
L’orario del rancio era fisso, sia per le attività svolte in caserma
che per le esercitazioni svolte all’esterno, per questa ragione, se ero di
servizio, esso non concordava mai con gli orari della mensa ufficiali.
Di conseguenza era abbastanza frequente che per soddisfare anche la
mia fame dovevo approfittare di mangiare al volo un piatto di pasta o
di lasagne insieme ai soldati, fatto che non sfuggiva mai agli occhi dei
soliti impertinenti e che era sempre rimarcato in maniera scherzosa
con la frase «qualcuno s’abbuffa al Nembo!».
Durante questo servizio mi capitò di notare come ad uno dei
caporali piacesse tanto non solo fare il suo, ma offrirsi anche in
sostituzione di altri per svolgere il servizio di caporale di giornata. Per
questo motivo mi misi a controllarlo, e in un paio di volte riuscii a
capire che lo scopo era esclusivamente quello di scolare i resti di vino
nelle bottiglie alla fine dei pasti. Come avevo già fatto in altri casi, nei
quali non avevo saputo che pesci pigliare, anche per questo mi
consigliai con il Maggiore aiutante di campo il quale mi assicurò che
70
ALCUNI ASPETTI DELLA VITA IN COMPAGNIA
gli avrebbe fatto passare il vizio. «Come?»: trasferendolo
temporaneamente in una Compagnia di disciplina, di cui non
immaginavo neanche l’esistenza. Dopo un paio di mesi, al suo rientro,
quel ragazzo venne a ringraziarmi, mentre io mi aspettavo chi sa quale
astio potesse aver accumulato per quel mio intervento.
71
I SERVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE
Oltre alle mansioni che noi ufficiali subalterni dovevano
normalmente sbrigare nelle proprie compagnie, esistevano vari altri
servizi che dovevamo svolgere a turno che riguardavano il battaglione
o la caserma, e che potevano impegnarci anche al di fuori delle sue
mura.
Uno di questi era quello di Ufficiale di Picchetto, della durata di
ventiquattro ore, al quale spettavano varie mansioni tra le quali il
controllo della sicurezza della caserma, in particolare dell’entrata e
l’uscita di qualsiasi persona e mezzo. Per svolgere questo servizio
l’ufficiale aveva alle sue dipendenze la guardia, ossia una squadra di
soldati comandata da un capoposto che doveva schierare il picchetto
all’ingresso di ufficiali superiori e, a orari prestabiliti, doveva
effettuare giri di ispezione e sostituire le varie sentinelle distribuite
all’interno della caserma, tra le quali l’addetta al deposito carburanti.
Il servizio, che prevedeva anche il controllo formale dei soldati in
libera uscita, non era in genere particolarmente oneroso, ma semmai
piuttosto noioso, specialmente durante le ore notturne.
Una volta, tuttavia, successe un fatto molto grave proprio mentre
Giancarlo era di servizio. Al mattino presto, mentre uscivo
dall’edificio della compagnia, fui richiamato dalle urla
incomprensibili di un cameriere del circolo che veniva correndo dalla
cappella che si trovava di fronte e che scappò via senza darmi la
possibilità di capire il motivo del suo comportamento. Poiché ero
riuscito a comprendere solo qualche parola sconnessa tra cui
«…altare…» mi precipitai in quella direzione senza vedere nulla,
finché, affacciatomi dietro lo stesso, mi trovai di fronte il corpo di un
caporal maggiore dei Cavalleggeri di Saluzzo suicidatosi da poco con
un colpo della sua arma di ordinanza. Questo fatto, scatenato da
motivi famigliari come il ragazzo aveva scritto nella breve lettera che
aveva lasciato posata sull’altare, nella quale per prima cosa chiedeva
scusa del suo comportamento al comandante del Gruppo, fu molto
sentito da tutti in caserma, ma in particolare da Giancarlo che durante
72
I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE
l’inchiesta che seguì si ritrovò a dover spiegare come mai non si fosse
accorto di quanto successo a quel capoposto.
Il servizio di Ufficiale di Vigilanza in città era un altro incarico
saltuario che consisteva nella semplice mansione di frequentare in
divisa gli ambienti urbani pubblici, sia all’aperto che al chiuso, per
controllare il buon comportamento dei militari in libera uscita e
ricorrere, se necessario, alla ronda la quale era alle sue dipendenze. Di
fatto questo servizio era abbastanza piacevole e bastava la sola
presenza dell’ufficiale perché la vita cittadina scorresse tranquilla.
Un servizio invece abbastanza delicato e impegnativo era quello
svolto dall’Ufficiale d’Ispezione in polveriera, generalmente effettuato
di notte, con accesso all’interno della struttura condizionato dalla
conoscenza di una formula di riconoscimento (parola d’ordine) che
era trasmessa tramite lettera con indicati anche la località e l’orario
dell’ispezione stessa. Ricordo quella che ho eseguito a notte fonda
nella polveriera di Cormòns, situata in una zona ricca di selvaggina
che non era solita fermarsi, e tanto meno avrebbe potuto rispondere,
all’intimazione dell’altolà di una sentinella nervosa e timorosa. In
quell’occasione, avendo saputo da altri colleghi come gli fosse
capitato di trovare alcune sentinelle con qualche colpo in meno nella
dotazione, proprio perché sparati in momenti di tensione per rumori
prodotti da caprioli ed altri animali di grossa taglia, mi premunii
portandomi dietro alcune cartucce di fucile. Ed effettivamente mi
ritrovai due casi di questo genere che piuttosto di registrarli, creando
magari qualche problema ai soldati, risolvetti la questione sostituendo
i colpi mancanti nei caricatori e scrivendo nell’apposito registro
“Niente da segnalare”.
L’incarico di Comandante di pattuglia sul confine per fortuna ho
dovuto svolgerlo una sola volta, per di più anch’esso in orario
notturno, e posso dire sinceramente che mi è bastata quell’unica
occasione. Il servizio consisteva nel controllare un tratto di confine
con una pattuglia in assetto di combattimento (anche se i caricatori
delle munizioni e le bombe a mano erano sigillati in sacchetti di
stoffa) composta da una squadra con un ufficiale medico, due
infermieri e radiotelegrafista al seguito. Fummo trasportati con più
mezzi al punto di partenza e ripresi successivamente dagli stessi in
73
I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE
quello stabilito d’arrivo. Il compito consisteva nel percorrere il tratto
assegnatoci segnalando eventuali anomalie, con l’ordine tassativo di
stare però a debita distanza dal confine per non correre il rischio di
superarlo, dato che dall’altra parte lo stesso controllo era effettuato da
militari jugoslavi (coscritti per tre anni) da postazioni fisse e con una
preparazione psicologica che non li avrebbe certamente fatti dubitare
se era il caso di spararci o meno.
Il motivo perché ritengo che quell’unica volta sia stata per me più
che sufficiente è il seguente. Tra i miei uomini c’erano due sardi che
erano rientrati in compagnia dopo aver fatto un corso di
sopravvivenza, i quali mancarono ad un primo controllo, ma che poi
mi ritrovai presenti ad un secondo. La vera causa della loro
temporanea assenza, che giustificarono con un’impellente necessità
corporale, in realtà riuscii a capirla solo il giorno dopo facendo
un’ispezione nelle camerate e trovando delle cacche di pecora
all’interno di una latrina. Questi due farabutti avevano avuto il
coraggio di andare a prenderne una da un gregge che all’imbrunire si
era visto pascolare oltre confine e, non ho mai capito come, a
portarsela in caserma dove evidentemente l’avevano parcheggiata. In
effetti, ho ricostruito tutto ciò basandomi sui fatti, ma non sono mai
riuscito a fargli sputare la verità e a sapere che fine avesse fatto la
pecora, nonostante minacce di punizioni che però non gli ho mai
inflitto, perché in fondo ho provato una certa ammirazione per le loro
gesta.
Nel IV Battaglione, di stanza nella stessa caserma, c’era un mio
collega fiorentino che era sempre stato fin da studente noto per le sue
simpatie politiche di sinistra, e a causa di ciò gli erano preclusi alcuni
servizi coperti da una certa riservatezza, come le ispezioni in
polveriera, la pulizia delle postazioni, le pattuglie sul confine, ecc. In
pratica poteva fare l’ufficiale di complemento ma non in quella zona!
E poiché il Comandante Pacini aveva ben fisso nella sua testa il
principio che i panni sporchi si lavano in famiglia, intendendo con
questo tra toscani, talvolta mi veniva recapitata la famosa busta di
colore rossastro sigillata, con gli ordini di servizio e l’eventuale parola
d’ordine, anche quando questi servizi e ispezioni non mi sarebbero
toccati per turno.
74
I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE
Nel periodo trascorso al Nembo ho dovuto assolvere anche due
incombenze. La prima, particolare, è stata di accompagnare alla scuola
comunale di Gradisca il gruppetto di soldati che avevano seguito i
corsi scolastici interni, in modo che potessero sostenere gli esami di
licenza elementare di fronte ad un’apposita commissione. Gli esami si
conclusero felicemente per tutti, anche se qualcuno ebbe bisogno di un
po’ d’aiuto.
L’altra, imprevedibile, fu quella di dover accompagnare un
militare per una convocazione presso la caserma dei Carabinieri, di
cui almeno io non ero a conoscenza del motivo e a suo dire neanche
lui. Questa seconda circostanza fu per me un’esperienza molto
impressionante, perché mi trovai in mezzo alle fasi di un
interrogatorio vero e proprio, condotto ad arte dal maresciallo, che
portò alla confessione di un furto. Il fatto si riferiva a dei barattoli di
vernice prelevati da una cantoniera ANAS che il ragazzo, di mestiere
imbianchino, aveva commesso prima di essere richiamato assieme ad
un suo amico, già arrestato. Mi ricordo che all’inizio, dopo i
convenevoli, ascoltavo distrattamente i discorsi tra i due che mi
sembravano molto generici e che non facevano presagire neanche
lontanamente dove volessero arrivare, tanto che me ne stavo
appartato, addirittura a guardare fuori della finestra per dare una
parvenza di voler rimanere estraneo alle loro questioni. Poco dopo
però mi accorsi di un cambiamento d’atmosfera, dovuto al diverso
tono di voce e all’incalzare delle domande del maresciallo, che mi
coinvolse sempre più lasciandomi senza fiato fino alla conclusione
dell’interrogatorio. Rimasi così impressionato da non sapere come
comportarmi con il ragazzo durante il rientro in caserma, pensando
solo al fatto che al suo congedo ci sarebbe stato un cellulare ad
aspettarlo fuori del cancello, e ciò mi dispiaceva moltissimo perché lo
avevo sempre ritenuto a posto.
75
LA SCELTA DEI CANDIDATI PER IL CORSO CAPORALI
Venne un giorno in cui mi fu richiesto di stilare una lista di soldati
ritenuti meritevoli di essere promossi al grado di caporali. Li scelsi
basandomi sulle personali conoscenze che avevo acquisito su quei
ragazzi, compreso l’armiere (un tipo in gamba ma molto riservato) che
considerava la sua permanenza obbligata al Nembo paragonabile ad
una vacanza in un albergo di lusso rispetto ai tre anni che aveva
trascorso nella Legione Straniera.
Dopo un po’ di tempo, a corso ormai iniziato, fui convocato
dall’aiutante di campo (che svolgeva anche mansioni di servizio
informazioni) che criticò le scelte che avevo fatto dicendomi: «tu
n’avessi azzeccato uno giusto!». Insomma, pur non essendo d’origini
toscane, mi volle far capire chiaramente che avevo fatto una grande
bischerata per non aver controllato il libretto nero in cassaforte dove
erano registrati i militari di certe tendenze politiche, o con familiari
ritenuti tali, i quali erano sottoposti a delle restrizioni.
Trovai varie motivazioni per spiegare le mie scelte, tra cui quella
per me più importante, ossia che in caso di necessità avrei preferito
avere alle spalle gente di cui fidarmi, e aggiunsi anche che ormai
ritenevo troppo tardi per ritirare dal corso quelli ritenuti inidonei e che
se lo avessi fatto ci avrei rimesso sicuramente la faccia dinanzi alla
truppa. Evidentemente fui abbastanza convincente e le cose restarono
com’erano, con il consiglio di consultare quel libretto se si fosse
presentata in futuro un’eventuale altra occasione di selezione. Non me
ne ricapitarono, ma restai convinto del mio parere, ossia che
l’applicazione di quella regola era molto limitativa e talora anche
profondamente ingiusta.
Solo in un caso mi sono pentito di averne scelto uno che non si
dimostrò all’altezza del suo compito. Questo fatto avvenne in
occasione di un rancio distribuito durante un’esercitazione sul Carso
dove, per un inconveniente alla cucina da campo che avrebbe fatto
perdere troppo tempo, detti l’ordine di distribuire per primo il secondo
già pronto e viceversa, con la conseguenza che alcuni soldati ritennero
76
LA SCELTA DEI CANDIDATI PER IL CORSO CAPORALI
inammissibile la mia scelta e si misero a protestare apertamente, con
la conseguenza di doverli punire con la consegna.
Quel caporale prese la loro parte e sebbene lo avessi richiamato
alle sue responsabilità, dopo un po’ di tempo, mentre ci spostavamo
separati da una siepe, sentii che lui continuava a discutere con altri di
quel fatto. Allora persi completamente il controllo, e sfondata la siepe
lo agguantai e strattonandolo gli dissi a brutto muso che quel
comportamento non poteva essere assolutamente scusato in un
graduato che doveva dare il buon esempio e, strappatogli i gradi, che
lui non meritava di portarli.
Non so come sarebbe andata a finire se un collega non fosse
intervenuto a fermarmi, ma ho ancora talmente ben presente questo
fatto, e il mio comportamento di cui non sono stato per niente fiero,
che ricordo persino quale fosse il rancio di quel giorno: lasagne al
forno per primo e pollo arrosto con patate per secondo.
Quell’esercitazione evidentemente doveva servire anche per i
cucinieri, perché normalmente, se dovevamo passare fuori l’intera
giornata, erano distribuite le razioni da combattimento contenute nel
Pacco K che dividevamo in due.
77
IL CAMPO MOBILE INVERNALE
In prossimità dell’esecuzione del campo invernale mi fu
comandato di eseguire una serie di sopralluoghi lungo il tracciato
prescelto per verificare quali strutture ricettive potevano essere
utilizzate per i vari campi mobili durante le marce di avvicinamento a
quello stabile finale, nei cui pressi si sarebbero svolte le esercitazioni a
fuoco. Il tracciato, che sinceramente ricordo con poca precisione, si
snodava per gran parte lungo la fascia pedemontana tra Meduno,
Maniago, Aviano e Budòia, per poi affrontare la zona collinare e
montana attraversando il Bosco del Cansiglio fino ai piccoli paesi di
Broz, Tambre e Tambruz nella zona di Alpago. Nel fare questa ricerca
ero tuttavia abbastanza facilitato dal fatto di conoscere alcune strutture
già utilizzate in precedenza, ma in ogni caso dovevo verificare se i
proprietari sarebbero stati ancora disponibili a cederle per quello
scopo.
Dopo i miei primi sopralluoghi, durante i quali dovetti prendere in
considerazione più possibilità in funzione delle varie tappe e sondare
soprattutto la disponibilità degli altri proprietari, ne seguì uno con il
Ten.Col. Pacini e due marescialli di fureria che, rifacendo tutto quel
percorso, decisero le basi definitive e presero gli accordi per il
rimborso dei danni.
Queste strutture erano dei più diversi tipi, perché dovendosi
trovare a distanze ben definite secondo il programma di marcia, non
sempre erano ottimali per accogliere un’intera compagnia e tutto il
personale ausiliario, composto anche da autisti, cuochi ed altri
specialisti. Così la tipologia era molto varia e comprendeva
magazzini, agglomerati rurali, edifici residenziali sparsi, grandi stalle,
gruppi di malghe e, a Tambre, addirittura anche un malandato albergo
chiuso per il periodo invernale.
Concluso il precedente incarico mi fu assegnato quello di
comandante
del campo,
ossia
quello
di responsabile
dell’organizzazione delle complesse operazioni connesse alla
predisposizione di ciascun campo mobile e di quello stabile, oltre a
78
IL CAMPO MOBILE INVERNALE
vari altri servizi. La prima delle operazioni fu quella svolta in caserma
che prevedeva il controllo e la presa in carico di tutta la dotazione di
prodotti non deperibili e dei cosiddetti generi di conforto per tutto il
personale (oltre 140 uomini) e per la durata dell’intero campo
invernale (poco meno di due settimane), che furono stivati su un
camion adibito a dispensa che avrebbe seguito la colonna in tutti i suoi
trasferimenti, sempre sorvegliato da guardia fissa.
Questi prodotti comprendevano vari tipi di pasta, formaggi, olio
d’oliva, salumi diversi, caffè, cioccolato, cordiale Branca in razioni
singole e sfuso, ed altri, mentre gli alimenti deperibili come pane,
carne, vino, verdure e frutta dovevano essere prelevati presso centri
militari o civili convenzionati in base alle necessità, così come il
rifornimento di carburanti. La cosa più sorprendente fu che secondo il
metodo di valutazione delle esigenze dietetiche, calcolate in base alle
presumibili peggiori condizioni climatiche e ambientali che avremmo
potuto incontrare, mi ritrovai assegnata una quantità apparentemente
esorbitante d'olio d’oliva e di cordiale, ambedue in damigiane, mentre
altri prodotti più correnti ed economici furono veramente valutati a
grammi/uomo, senza lasciare spazio ad eventuali errori nel loro
utilizzo. Il poter disporre senza ristrettezze di alcune materie prime,
soprattutto quella del cordiale, mi fu molto utile perché lo potei
fortunatamente utilizzare come merce di scambio per risolvere alcuni
problemi pratici, come la volta che dopo una lunga trattativa con un
benzinaio ottenni del carburante (non mi ricordo in che rapporto),
perché mi ero deciso a rifornirmi tardi e troppo lontano dal punto
convenzionato, e soprattutto perché non avevo intenzione di pagarlo di
tasca mia.
Quando lasciai la caserma con l’autocolonna ero stato avvisato dal
maresciallo addetto ai servizi di approvvigionamento e alla gestione
delle cucine che per i primi due giorni avrei dovuto sbrigarmela da
solo, perché lui non poteva raggiungerci prima del tardo pomeriggio
del giorno successivo. Sebbene mi avesse impartito tutte le istruzioni e
spiegato dove rifornirmi durante la sua breve (per lui!) assenza,
combinai un gran casino nell’acquisto della carne, lasciandomi
infinocchiare dal proprietario di un modernissimo mattatoio (dal quale
non vedevo l’ora di uscire per motivi che preferisco non ricordare né
79
IL CAMPO MOBILE INVERNALE
descrivere) che mi suggerì un determinato quantitativo di ottimo
spezzatino di vitello.
Al momento che il maresciallo ci raggiunse, fatti i suoi conti, mi
fece notare che la dotazione di carne che avevo fatto distribuire in un
solo rancio era quella che avrebbe dovuto servire per tre, ma mi
confortai perché non si preoccupò più di tanto; infatti, a suo dire,
avrebbe trovato facilmente il modo di rimediare ricorrendo alle scorte
che avevamo al seguito. Andò meglio con il rifornimento del vino, che
prelevai in un magazzino militare presso la caserma di Bersaglieri
accanto (o dentro?) alla base aerea di Aviano, perché sul suo
quantitativo non c’era verso di sbagliare.
La mia incombenza principale era quella di raggiungere la base
prescelta con l’autocolonna durante la marcia di trasferimento della
compagnia e di attrezzarla prima che la truppa arrivasse a
destinazione, in modo che ciascun militare trovasse già preparato il
proprio posto letto, costituito da materassini già gonfiati, coperte e
zaino personale con il nome. Ultimata questa fase seguiva l’impegno
di percorrere a ritroso il tracciato di marcia, sia in caso di
trasferimento diurno che notturno, per ricollegarmi alla coda della
colonna e poi raccattare e trasportare i militari infortunati,
generalmente impediti da problemi di vesciche ai piedi.
Queste operazioni erano abbastanza impegnative, soprattutto per il
tempismo che era richiesto nella loro esecuzione, e non davano un
attimo di respiro perché si susseguivano di giorno in giorno,
abbandonando l’uno e andando a predisporre il successivo. L’unico
periodo di riposo, almeno per noi che gestivamo i campi mobili,
sarebbe stato quello finale nella zona di Alpago, dove erano previste le
esercitazioni a fuoco. Questo campo stabile, tuttavia, dovette essere
abbandonato dopo un paio di giorni che era stato organizzato a seguito
di forti nevicate che resero molto difficoltosi i movimenti di mezzi e
uomini e, soprattutto, impedirono di eseguire le esercitazioni. Infatti,
la maggior parte delle bombe a mano e dei proiettili di mortaio non
sarebbero esplosi, come fu verificato eseguendo alcune prove, poiché
il loro impatto era ammortizzato dallo spesso manto nevoso.
Nell’occasione di verificare lo stato di praticabilità del poligono mi
capitò di riconoscere nella neve delle inconfondibili orme fresche
80
IL CAMPO MOBILE INVERNALE
d’orso, ma quando lo dissi a colleghi e superiori a mensa nessuno mi
volle credere.
La compagnia, di conseguenza, dovette trasferirsi altrove e gli fu
trovata ospitalità presso una ex filanda, costituita da più edifici dei
quali il più interessante era quello completamente costruito in legno su
più piani e con ballatoi esterni, ma utilizzabile per i nostri scopi solo al
piano terreno perché gli altri erano tutti attrezzati con stuoie per
l’allevamento dei bachi da seta. Questo campo si trovava nella
campagna nei pressi di Cappella, mentre le esercitazioni a fuoco
furono eseguite in un poligono situato sul versante idrografico destro
della valle del Fiume Soligo, località situate rispettivamente qualche
chilometro ad Est e ad Ovest di Vittorio Veneto.
Qui, come previsto, ebbi un po’ di respiro e potei trascorrere
qualche giorno tranquillo assieme a degli autisti ed altri soldati
impegnati nelle mansioni del campo che si prestavano, per non
annoiarsi, chi a fare barba e capelli, chi a svolgere piccole incombenze
come andare ad acquistare sigarette o qualche genere alimentare
presso uno spaccio poco distante, tra cui aringhe affumicate che
riscaldavamo alle fiamme di un piccolo fuoco e annaffiavamo con
vino della stessa provenienza verso metà mattinata.
All’incirca a quell’ora di mattina di uno di quei giorni arrivò
improvvisamente un generale che cercava informazioni per
raggiungere l’ospedale da campo del reggimento, che doveva trovarsi
da quelle parti. Questo successe mentre il mio collega Rodighiero,
invece di starsene in riposo per la dichiarata indisposizione, se
n’andava come di solito in giro per le basse colline a caccia di lepri
con il MAB, senza averne mai presa una anche se spesso si sentivano
dei colpi; ed io, d’altra parte, mi rilassavo, godendomi la rasatura
mattutina e attendendo che fosse pronta la solita aringa stando
sbracato su una sedia e in tenuta poco formale, senza giacca a vento e
con il solo giubbotto imbottito con la conseguenza che la fondina della
pistola mi ciondolava da un lato per il cinturone troppo lento.
Fortunatamente il MAB in quel momento tacque, ma la situazione al
contorno e la mia tenuta in particolare non mancarono di sorprendere
il generale che, quasi senza parole, riuscì a richiamarmi per il mio
81
IL CAMPO MOBILE INVERNALE
aspetto che trovava, a suo parere, più simile a quello di un cowboy e
sicuramente non conforme a quello di un ufficiale.
Tra i ricordi più chiari di questo periodo c’è quello della notte
trascorsa in una grande e moderna stalla, che poi alla fine delle
manovre fu ritenuta dai soldati la sistemazione più confortevole e
gradita fra tutte quelle usate. Il motivo era stato il calore emanato dal
numeroso bestiame, costituito da mucche e prole, e forse anche da una
certa aria di casa per molti di loro, come per quel ragazzo che fu
trovato addormentato addirittura abbracciato ad un vitellino. In quella
stessa occasione io usufruii invece di un vero letto sistemato in una
stanza all’inizio della stalla, di solito utilizzata da un guardiano,
mentre alcuni autisti e qualche soldato preferirono trovare ricovero in
un fienile accessibile solo con una lunga scala a pioli, dove bisognava
ben ricordarsi dove uno si trovava per non correre il rischio di cascare
di sotto e rompersi il collo.
Un altro fatto che ho molto presente è quello che successe in un
piccolo paese di poche case dove facemmo tappa poco dopo aver
iniziato il percorso montano, di cui non ricordo il nome, dove le
cucine da campo furono sistemate in uno spiazzo sterrato con una
parvenza di piazza. Avvenne, come se ci fosse stato un invito formale,
che dopo aver servito il primo alla coda dei militari i cucinieri si
trovarono davanti una nuova fila formata da paesani di tutte le età, che
con scodelle e forchette in mano aspettavano pazientemente il loro
turno. Per il primo piatto, come di solito, non c’erano in genere
ristrettezze e la truppa fece a meno di riprenderne, ma per il secondo si
notò chiaramente l’intenzione di molti di farsi ridurre la razione in
modo che potessero goderne anche quei poveretti.
82
I PICCHETTI D’ONORE
In ricorrenza di celebrazioni relative ad eventi avvenuti durante la
guerra del 1915/18, o di altre festività nazionali e delle Forze Armate,
erano di solito svolte delle parate e manifestazioni con schieramenti di
forze più o meno grandiose, secondo la loro importanza e la località
dove si dovevano svolgere.
Nei casi più semplici si trattava di partecipare a cerimonie di
carattere prevalentemente civile con la presenza di un Picchetto
d’onore, come mi accadde di fare nel caso della commemorazione dei
Caduti del Monte San Michele, battaglia avvenuta nel giugno 1916
nella quale morirono alcune migliaia di uomini a seguito di attacco da
parte delle truppe austriache dopo il lancio di gas venefici. Quella
cerimonia, mi pare, si sia svolta di fronte ad una lapide nei pressi della
stazione ferroviaria ai piedi del monte omonimo.
Le manifestazioni più importanti erano però quelle che si
svolgevano al Sacrario di Redipuglia dove gli schieramenti di uomini
e armamenti erano veramente imponenti. In quella località ho
partecipato a due eventi, in ambedue i casi come comandante del
picchetto d’onore per accogliere le bandiere e le autorità militari e
politiche. Tra queste ultime la più importante era quella del Ministro
della Difesa, incarico che in quel periodo era coperto
dall’indistruttibile Onorevole Giulio Andreotti.
La prima volta che dovetti svolgere questo tipo d’incarico, subito
dopo le prove generali che furono fatte prima dell’inizio della
cerimonia vera e propria, mi fu detto chiaramente di limitarmi nel tono
di voce nell’impartire gli ordini al mio picchetto, perché questi
raggiungevano tutte le forze schierate, compresa l’artiglieria che
occupava le posizioni più elevate dell’enorme piazzale antistante il
sacrario, obbligandole ad assumere le posizioni di attenti e di
presentat’arm molto tempo prima del dovuto. Di questa lezione
dovetti tener conto anche nella seconda occasione.
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I PICCHETTI D’ONORE
Ugo mi ha ricordato recentemente che una di queste due
manifestazioni fu trasmessa in televisione e seguita da lui e il babbo,
che a un certo punto disse: «questo è Sandro!», avendo riconosciuto la
mia voce ancor prima di vedermi.
Un’altra volta mi fu ordinato di organizzare sul Colle Sant’Elia,
che si trova proprio di fronte al Sacrario di Redipuglia e dove è eretta
una colonna commemorativa, una squadra di mitraglieri che ad un
determinato momento, mi pare all’alzabandiera ma non ne sono
sicuro, dovevano sparare all’unisono dietro mio comando un
caricatore a salve da ognuna delle quattro Breda. Al momento
opportuno accadde però che una s’inceppasse e nonostante i miei
segnali di non riprendere il fuoco il mitragliere riattivò l’arma e
completò la sua scarica che a quel punto fu solitaria e fuori tempo,
facendo fare a tutti noi, ma a me per primo, una gran brutta figura.
Quel mitragliere si chiamava Vinciguerra, un ragazzo tarchiato e
piuttosto grezzo, che mi ricordo bene perché era resistentissimo nella
corsa e nell’eseguire il percorso di guerra, e per queste sue
caratteristiche consigliai di inserirlo nella squadra che avrebbe dovuto
rappresentare il reggimento in delle gare sportive militari a Roma,
dove riportò un buon successo.
Sacrario di Redipuglia
84
l
LA PREPARAZIONE DI COMPAGNIE DI FORMAZIONE
La potenza della voce, contestatami da tutta una vita soprattutto da
mia moglie, e la padronanza nell’addestramento formale, che avevo
dimostrato già da allievo, furono i motivi essenziali per i quali
ricevetti l’incarico di selezionare e preparare compagnie di formazione
adatte a rappresentare il Nembo in importanti parate e manifestazioni,
non solo in ambito locale ma anche in altre regioni.
Questo tipo d’incarico, che partiva direttamente dal comando del
reggimento, riguardava l’addestramento nel periodo di tre/quattro
giorni di una compagnia messa insieme tenendo conto della prestanza
fisica e mi concedeva piena libertà di scelta degli uomini secondo il
mio parere. Di conseguenza, nel fare le selezioni, avveniva che mi
potessi anche divertire perché li andavo a pescare persino nelle furerie
e tra gli autisti, con conseguenti discussioni con i loro diretti superiori
che però di fronte agli ordini non potevano che accettare il fatto.
In quei brevi periodi dovevo trascorrere intere giornate nella
Caserma Monte Pasubio a Cervignano, dove mi trasferivo con i
soldati selezionati in quella di Gradisca, anche se questi in realtà erano
più numerosi di quelli scelti localmente. Il motivo della trasferta
dipendeva dal fatto che nell’addestramento doveva essere presente
anche la Banda Reggimentale, il cui trasferimento sarebbe stato molto
più complesso, la quale era necessaria per cadenzare con inni marziali
la corsa o il passo, fino a farci martellare la testa in capo alla giornata.
Questo tipo d’incarico ho dovuto assolverlo con soddisfazione per
ben tre volte, tutte relative a manifestazioni che si svolsero senza la
mia partecipazione a Milano, Modena (?) e Filottrano. Quella di
Filottrano, paese nell’immediato entroterra marchigiano, che preparai
addirittura con un giorno d’anticipo, riguardava in particolare la
commemorazione di eventi bellici avvenuti nell’estate del 1944, dove
i reparti paracadutisti dell’allora Divisione Nembo parteciparono
inquadrati nel Corpo Italiano di Liberazione.
85
LA PREPARAZIONE DI COMPAGNIE DI FORMAZIONE
L’unica manifestazione con sfilata alla quale ho partecipato fu
quella che si svolse a Trieste, in occasione di un’importante ricorrenza
della città, dove la mia compagnia partecipò senza apporto di forze
esterne insieme ad altre compagnie del nostro e di altri reggimenti. In
questa circostanza dovetti solo sostituire il nostro Capitano nel dare i
comandi dei vari movimenti, perché avendo avuto un abbassamento di
voce non poteva essere udito da tutti, e non c’è niente di peggio per
120 uomini inquadrati e di corsa che il comando di «Compagnia…,
alt» sia udito solo dalle prime righe!!
Forse non tutti sanno che pur avendo in dotazione l’elmetto
dovevamo portarlo solo durante le esercitazioni a fuoco e non durante
le parate. Il motivo era che allora Nembo e Torino facevano parte di
quei corpi dotati di copricapo speciale, e questo fatto fortunatamente
ci favoriva molto nella nostra libertà di movimento.
86
Cartolina storica del 183° Reggimento “Nembo”
87
L’ADOZIONE DELLE NUOVE ARMI
Un giorno, anche in questo caso mi domando quando ciò sia
avvenuto, mi fu ordinato di guidare una colonna di carri CP con
destinazione la caserma di Cervignano allo scopo di prelevare le
nuove armi in distribuzione al Nembo, in particolare quelle in
dotazione al III Battaglione, e al rientro a Gradisca di distribuirle alle
varie compagnie che le avrebbero prese in carico.
Le nuove armi consistevano nei fucili FAL (Fucile Automatico
Leggero), senza le corte baionette che arrivarono in seguito, e nelle
mitragliatrici MG 42/59. Queste due armi avevano in comune lo
stesso calibro (7,62x51 NATO) e la loro adozione avrebbe
semplificato il munizionamento sostituendo le varie armi individuali e
di reparto con calibri diversi tra loro, tra cui il fucile Garand, il
moschetto MAB, il mitragliatore BAR e la mitragliatrice Breda, con la
conseguenza che tutte queste sarebbero state mandate in pensione.
Il percorso tra le due caserme era poco meno di una quindicina di
chilometri, abbastanza diritto ma con numerosi ponti e ponticelli per
superare alcuni corsi d’acqua naturali, affluenti di destra dell’Isonzo, e
vari canali e rogge, che nell’insieme costituivano l’ambiente ideale per
le esercitazioni dei Lagunari del Battaglione San Marco stanziati nella
vicina Villa Vicentina.
Durante il viaggio d’andata la colonna, che era preceduta dalla
Campagnola FIAT (o Matta AR?) su cui viaggiavo io, non incontrò
alcun inconveniente. Al ritorno, invece c’imbattemmo in
un’esercitazione dei lagunari che in gruppuscoli grondanti d’acqua
uscivano allo scoperto per attraversarci di corsa la strada e rituffarsi
immediatamente dopo nel canale attiguo. Il fatto che in quei momenti
colpì di più la mia attenzione fu il vedere lo zampillio che a forza
usciva dai fori delle loro calzature speciali in tela ai primi passi
sull’asfalto ma, evidentemente, nel mio subcosciente rimasero anche
altre impressioni più profonde. Queste visioni di uomini che in assetto
da combattimento mi apparivano davanti, infatti, sono stati il tema
ricorrente di sogni ed incubi protrattisi per un bel po’ di tempo vari
88
L’ADOZIONE DELLE NUOVE ARMI
anni dopo, durante il periodo in cui l’Italia dovette affrontare
l’ossessione delle Brigate Rosse, perché m’immaginavo di trovarmi in
quella situazione e di essere assaltato e depredato di tutte le armi da
gruppi appartenenti a quei delinquenti. Ma quelli erano veramente altri
tempi se pensate che quell’operazione, sia nel viaggio d’andata che di
ritorno, si svolse senza una scorta armata al seguito!
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LA PRESENTAZIONE DELLA MG 42/59
Pochi giorni dopo la predetta distribuzione di armi, il Colonnello
Pacini programmò una riunione per presentare ai suoi ufficiali e
sottufficiali la nuova MG, arma abbastanza complicata e destinata a
sostituire alcune di quelle individuali e di reparto, e incaricò un
giovane mio collega di prepararsi per quell’occasione. Il giorno
previsto questo sottotenente dimostrò subito di non aver preso sul
serio l’incarico facendo una figura veramente meschina, al punto di
costringere lo stesso Pacini ad intervenire furioso e a sostituirlo di
persona, dando una dimostrazione teorica e pratica di conoscere molto
bene quell’arma.
Incuriosito di questo fatto, mi ripromisi che alla prima occasione di
trovarci soli avrei cercato di domandargli sfacciatamente come mai
fosse stato in grado di fare quella dimostrazione senza averla avuta
prima tra le mani. Quell’occasione venne poco dopo, in un
trasferimento di servizio in auto, lui davanti con l’autista ed io dietro
sulla panchetta, durante il quale mi raccontò le sue tragiche
vicissitudini cominciate quando l’8 Settembre 1943 lo colse in Bosnia
al comando di un reparto tedesco, già allora dotato di quest’arma,
soprannominata “la sega di Hitler”. Poi, dopo un periodo di prigionia
era rientrato in Italia, ma nel frattempo era stato sospeso dal servizio
militare ed era sopravvissuto facendo il minatore a Saline di Volterra,
fino alla conclusione del suo ricorso e al reintegro definitivo nei
ranghi dell’esercito.
Non potevo immaginare neanche lontanamente che questo fosse il
motivo della sua esperienza, ma la cosa più importante che emerse da
queste sue confidenze fu che da quel momento in poi provai un
maggior rispetto verso quest’uomo, anche se continuai a battagliarci,
seppur inutilmente, ogni qual volta mi trovavo in contrasto con sue
decisioni che appellavano alla nostra comune origine toscana.
90
IL POLIGONO SUL MONTE CIAURLEC
Il poligono divisionale dove eseguivamo le esercitazioni a fuoco si
trovava sul Monte Ciaurlec. Un rilievo di poco più di mille metri
situato a Nord del Torrente Meduna e facente parte delle Prealpi
Carniche, che si raggiungeva in colonna passando da Udine,
attraversando il Fiume Tagliamento, lambendo successivamente le
cittadine di Spilinbergo e Sequàls in pianura, per poi affrontare
l’ultimo breve tratto di montagna.
A termine di un’importante esercitazione a fuoco, eseguita in una
giornata molto fredda nella quale era impegnato l’intero reggimento, il
comando aveva organizzato una vasta tenda dove offrire un rinfresco
agli ufficiali che avevano partecipato o assistito alla manifestazione.
Purtroppo quanto era disponibile, anche se caldo, non fu in grado di
eliminare il freddo che era entrato fino alle ossa, specialmente agli
osservatori che avevano passato alcune ore su una gradinata esposta al
vento, e siccome il Ten. Col. Pacini evidentemente aveva già provato
simili esperienze si era premunito di portare con se un genere di
conforto personale.
Ad un certo punto, infatti, tirò fuori una bottiglia di Fuoco di
Russia, un liquore di colore rosso rubino e di ben 70 gradi che io già
conoscevo, che offrì in maniera riservata solo al suo aiutante di campo
e a me, servendocelo in bicchieri da bibite usa e getta. L’effetto che
almeno io provai nell’inghiottire il primo sorso fu di sentire la laringe
dilatarsi come se incisa da tagli verticali molto dolorosi, ma poco dopo
questa sensazione sparì e iniziò un certo piacevole calore corporeo. In
pratica non so bene quanto ci mettemmo a finire l’intera bottiglia, ma
ricordo che quando noi tre montammo sulla Campagnola per il ritorno
a Gradisca era già finita.
L’effetto vero dell’alcol si cominciò a sentirlo scendendo di quota,
riparati dal freddo e dal vento, al calduccio e trastullati dai movimenti
del mezzo. In pratica ci ritrovammo ubriachi, ma il buon senso di
ciascuno impedì di manifestare il proprio stato e il viaggio avvenne
91
IL POLIGONO SUL MONTE CIAURLEC
nel silenzio più assoluto. Il giorno dopo, ancora con la testa stordita e
con lo stomaco fuori posto, mi detti malato e rimasi in camera alla
locanda, ma venni poi a sapere che anche il comandante e il suo
aiutante di campo erano stati dati per dispersi per l’intera mattinata.
(Proprio tra parentesi voglio ricordare che un altro liquore dagli effetti
terribili che si trovava sul mercato locale era il Mistrà di Brescia,
incolore, ottenuto per distillazione dell’anice e anch’esso ad elevata
gradazione alcolica).
Una seconda volta che ho frequentato il poligono del Monte
Ciaurlec è stato per addestrare i ragazzi all’uso dei FAL e delle
polivalenti MG42/59, sparando da postazioni fisse su sagome,
esercitazione che fu effettuata poco dopo la loro adozione e in un
periodo stagionale molto più piacevole rispetto a quello della
precedente esercitazione a fuoco. In quella occasione anch’io volli
provare ad usare la nuova mitragliatrice montata su treppiede e lo feci
mirando non alle sagome ma ai loro supporti verticali di legno per
verificare meglio la precisione di tiro e gli effetti prodotti dalle brevi
raffiche. Abbattuta la terza sagoma fui richiamato all’ordine dal
direttore di tiro e dovetti per forza rinunciare a quel divertimento e
lasciare di nuovo il posto a chi spettava.
92
UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA
Pochi giorni prima del cambio dell’ufficiale di turno addetto alla
mensa e in prossimità del congedo degli ufficiali di complemento del
precedente corso, il Ten. Col. Pacini scoprì che i conti della gestione
autonoma del circolo ufficiali non tornavano e che esisteva un elevato
debito, documentato dalle fatture non saldate e il cui pagamento era
reclamato da vari fornitori, tra cui anche quello del gasolio per
l’impianto di riscaldamento.
A quel punto dovette prendere immediatamente i provvedimenti
del caso e, poiché aveva sempre presente il solito principio (i panni
sporchi…..), m’incaricò, o meglio mi comandò, di risolvere la
situazione fallimentare del circolo pareggiando i conti passivi della
mensa e del bar, evidentemente dovute a cattive gestioni precedenti.
Alle mie contestazioni che io ero lì per fare il servizio militare e non il
gestore di una mensa mi fu rinfacciato che ero un volontario, cosa che
mi fece arrabbiare ancora di più perché ritenevo ingiusta questa
definizione, anche se in fondo aveva ragione lui, e che quindi avevo
solo il dovere di ubbidire e poco da discutere.
Così mi ritrovai esentato dai normali servizi di compagnia e a
dover affrontare di malavoglia una situazione completamente nuova. I
due o tre giorni seguenti, sul mezzo di servizio a disposizione della
mensa (una specie di grossa jeep), accompagnai nel suo giro il collega
ancora in carica che mi presentò come suo successore ai vari fornitori,
prendendo così confidenza con le mie mansioni esterne, mentre
durante il resto del giorno e di sera dovevo controllare il servizio di
cucina e del bar e tenere i conti dei pasti e delle consumazioni, che
venivano registrati al momento su una rubrica e di solito riscossi alla
fine del mese.
La prima cosa che mi capitò nei giorni successivi, quando da solo
ebbi concluso il giro completo dei fornitori, fu che tutti quanti,
nessuno escluso, mi fecero capire chiaramente che avrei goduto lo
stesso trattamento dei miei predecessori, ossia la percentuale sul costo
della spesa, che variava tra il 5 e il 10 %. Questa questione, dopo
93
UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA
l’iniziale sorpresa che mi spiegò il recente acquisto di una macchina
sportiva da parte di quel mio collega, riuscii a risolverla
immediatamente, perché garantii a ciascuno di loro che se da quel
momento non avessero applicato uno sconto superiore del doppio di
quella regalia avrei cambiato fornitore.
Successivamente fu una sorpresa continua, perché per un certo
periodo non passava giorno che venissero fuori delle irregolarità
abbastanza rilevanti dal punto di vista economico. Ve ne racconto solo
alcune.
Un capitano, molto spesso per pranzo e cena, si presentava con la
sua auto sul retro della cucina e prelevava quattro pasti completi da
portare a casa senza registrarli. Chiesi consiglio di come comportarmi
al maggiore aiutante di campo per risolvere questa questione, il quale
mi promise che ci avrebbe pensato direttamente lui senza farmi
apparire, e così ebbe fine la storia.
Tutti i giorni nella lista della spesa preparata dalla cuoca trovavo
da acquistare diverse confezioni di dadi per brodo. Fui costretto a dirle
chiaro e tondo che capivo come questi potessero servire per minestre e
insaporire altre pietanze, ma che era un consumo oltremodo esagerato.
Mi confessò che li ordinava per i punti premio e questo fatto,
mettendo insieme anche quello che non avevo ancora con lei
affrontato a proposito del capitano, mi fece andar di fuori fino a
minacciare il suo licenziamento. Da quel momento tenne un
comportamento corretto e controllando la lista mi accorsi che oltre al
numero di dadi diminuì anche l’acquisto d’altri prodotti in quantità
esagerata.
In prossimità del congedo dei colleghi anziani cominciai a
controllare attentamente la loro posizione perché la partenza sarebbe
avvenuta prima della fine del mese. Per ricordare loro di passare a
saldare i sospesi affissi un avviso nella vetrinetta dell’albo e sulla
vetrata d’ingresso al circolo. Alcuni passarono a versare il dovuto in
anticipo, riservandosi di pagare le eventuali altre consumazioni al
momento, altri promisero di farlo con l’ultimo pasto, ma alcuni altri
mostrarono di voler fare i furbi. Così, anche in questo caso, dovetti
trovare una soluzione e pensai che la migliore era di fare una lista dei
morosi da consegnare al posto di guardia in modo che l’ufficiale di
94
UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA
picchetto di turno bloccasse all’uscita chi non era in regola con i
pagamenti. Il metodo funzionò e dette dei risultati inattesi.
Dovetti inoltre affrontare anche il comportamento non sempre
corretto di qualche soldato che svolgeva servizio in cucina, ai tavoli e
al bar, che sfacciatamente approfittava della sua posizione. In questo
caso fui tuttavia di manica larga, perché permisi alla cuoca di
lasciargli la possibilità di servirsi a volontà del cibo in eccesso, ma
proibii loro in modo assoluto di portarne all’esterno.
Dopo poco più di un mese di questa vita, limitando le spese
superflue e soprattutto con i recuperi finali, riuscii a saldare tutti i
debiti e a mettere in cassa anche una bella cifra che avevo raccolto e
stivato di volta in volta nel cassettone di camera. Per trasportare e
consegnare i resoconti e il denaro avanzato mi aiutò Giancarlo, perché
era un insieme abbastanza ingombrante anche per la quantità di
monete metalliche che avevo accumulato senza mai cambiarle
(all’epoca non esistevano ancora i comodi sacchetti di plastica e si
usavano quelli di carta), ma forse anche perché volevo avere un
testimone. Mi ricordo che dopo aver depositato sulla scrivania del
Pacini i documenti e consegnato tutto il denaro, e dopo aver fatto un
breve resoconto della situazione, gli dissi con tono deciso che con
quell’operazione avevo terminato il mio mandato e che da subito avrei
ripreso servizio in compagnia. Non mi ricordo di aver passato le
consegne ad un altro collega, ma sono sicuro che per un certo periodo
ho evitato il circolo e ho preferito consumare i pasti al ristorante della
locanda.
Per tutta la durata di questo servizio ci furono continue
schermaglie tra me e il Ten.Col. Pacini, perché in particolare non
sopportavo di trovarmi in coda dai fornitori insieme a consorti di
ufficiali che mi conoscevano, o peggio ancora di loro personale
domestico, e d’altra parte lui aveva ben motivo di avercela con me,
perché la compagnia e in particolare il mio plotone se avevano
l’occasione non mancavano di manifestargli la loro contrarietà al mio
allontanamento.
Un giorno, mentre il mio plotone sfilava tra noi due fermi sui lati
opposti del viale, successe che chi lo comandava impartisse come di
regola l’ordine di «attenti a …..» verso la sua direzione, mentre i
95
UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA
soldati, disobbedendo, rivolsero la testa verso la mia, e questo fatto lo
fece veramente indispettire moltissimo, promettendomi di dare a tutti
una punizione esemplare che però alla fine non mise in pratica.
96
IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA
In prossimità del campo estivo mi si presentò un problema
abbastanza noioso; infatti, mi si manifestò una fastidiosa fistola sacrococcigea, formatasi per dei peli incarnati, che probabilmente esisteva
già da qualche tempo ma che infiammatasi m’impediva di muovermi e
sedere correttamente. Questo fatto mi costrinse a sottopormi ad una
visita specialistica presso l’Ospedale Militare di Udine, e il giudizio
del medico fu che per la sua eliminazione avrei dovuto sottopormi ad
intervento chirurgico una volta completamente sfiammata.
La visita, eseguita anche con una sonda, purtroppo non fece altro
che peggiorare la situazione di dolore, tanto che sulla via del ritorno
per il sobbalzo su una buca persi completamente il controllo dell’auto
e mi ritrovai fermo e semisvenuto sul bordo della strada. D’altra parte
quello strumento aveva aperto il condotto, e così, appena arrivato in
camera, mi organizzai e trovai il sistema di strizzarmi con forza questa
specie di foruncolo fino ad eliminare sotto forma di spaghetto tutto il
marciume che conteneva; e chi fosse morbosamente curioso sappia
che non mi sono mai sottoposto a quel tipo d’intervento e che neanche
ho più sofferto per quella causa.
Per questo motivo fui, quindi, esentato dal partecipare alle
operazioni preparatorie, nelle quali avevo maturato l’esperienza fatta
per quello invernale, e al campo stesso, e il giorno in cui il reparto
partì mi ritrovai unico ufficiale e comandante del battaglione, che in
quel momento era costituito da una trentina di soldati e un paio di
caporali, tutti quanti dichiarati momentaneamente inabili per i motivi
più disparati.
Oltre alle normali consegne alle quali dovevo attenermi durante
quel periodo di comando ebbi da rispondere anche a diverse richieste
personali da parte di alcuni comandanti di altre compagnie, che nei
giorni precedenti mi fecero vedere le necessarie opere di
manutenzione ai loro edifici e agli infissi, in particolare a quello della
compagnia mortai, che era veramente in uno stato pietoso.
97
IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA
Già al secondo giorno, dopo aver provato in tutte le maniere come
far passar il tempo a quell’accozzaglia, facendo anche interminabili
esercizi ginnici e formali, mi ricordai che avrei potuto utilizzarli
effettivamente per le opere di manutenzione e chiesi ad ognuno di loro
il mestiere che facevano da civili, prendendone nota. Venni così a
scoprire che disponevo di una formidabile forza lavoro costituita
soprattutto da muratori, falegnami, elettricisti, imbianchini e da
qualche contadino.
Logicamente, alla mia proposta di utilizzarli per quello scopo, la
maggior parte di loro ebbe a protestare, primo perché esentati dal
servizio per malattia e secondo perché quello che chiedevo era fuori
norma. Ma quando proposi che alla conclusione dei lavori avrei
premiato i volontari con una licenza breve vennero fuori i veri malati e
quelli che lo erano per convenienza, e questi ultimi costituivano la
stragrande maggioranza.
Con l’aiuto di un maresciallo riuscii immediatamente a procurare
le attrezzature e gli utensili, come pure i materiali necessari, e così
cominciarono i lavori che giornalmente dirigevo e controllavo,
accettando talora anche quei consigli che potevano far ottenere dei
risultati migliori. Dopo una sola settimana rimasi veramente sorpreso
di quanto quella squadra fosse riuscita a fare in così breve tempo,
perché in pratica i lavori programmati erano quasi terminati, compresi
quelli di potatura e giardinaggio (assegnati ai soldati più malandati di
salute o inesperti), ed erano stati eseguiti con molta cura anche se le
condizioni di lavoro non erano state ottimali.
Il successo dell’operazione dipese naturalmente dal fatto che quei
ragazzi contavano che avrei mantenuto la mia promessa a lavori
conclusi, non sapendo però che per tutti quei giorni mi ero scervellato
per capire come avrei potuto mantenerla. Ma a quel punto mi convinsi
che a tutti gli effetti ero l’ufficiale facente funzione di Comandante del
III Battaglione e che quindi mi potevo permettere quello ed altro.
Naturalmente per la preparazione dei fogli di viaggio e delle licenze
dovetti ricorrere ai servizi di un altro maresciallo, in questo caso di
fureria, il quale, dopo qualche dubbio e dandomi tutta la responsabilità
della questione, acconsentì a farlo; e così la mia unica incombenza fu
quella di firmarle e di consegnarle personalmente, raccomandando
98
IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA
l’assoluta puntualità nel rientro in caserma che fu stabilito per due
giorni prima di quello dei reparti.
Al rientro dal campo estivo i vari comandanti di compagnia
rimasero esterrefatti nel ritrovare i loro edifici in uno stato
completamente diverso da come lo avevano lasciato, e per questo
motivo ricevetti numerosi complimenti e congratulazioni, ma alla
domanda di come avessi fatto trovai sempre il modo di evitare di dare
una risposta precisa. Quando alcuni giorni dopo si venne a sapere la
verità fui chiamato a rapporto dal solito Pacini, ma alla fine dei suoi
rimbrotti anche lui riconobbe il risultato ottenuto e perdonò la mia
intraprendente iniziativa.
99
IN PROSSIMITÀ DEL CONGEDO
Un giorno, tra fine Giugno e inizio Luglio 1965, arrivò una
circolare che richiedeva di comunicare al Comando i nominativi di
tutti gli ufficiali in possesso di laurea in geologia, probabilmente
perché c’era l’intenzione di destinarli a qualche corpo particolare.
Questa richiesta nella mia compagnia non fu presa minimamente in
considerazione, perché in quel periodo la mansione di evaderla
dipendeva esclusivamente da me, ed io non avevo nessuna voglia di
complicarmi ulteriormente la vita.
Il 12 Luglio, pochi giorni prima del mio congedo, mi fu ordinato di
presentarmi alla Caserma Monte Pasubio di Cervignano, invitato a
pranzo al tavolo del Comandante del Nembo, Col. G. Ambrosi De
Magistris. Questi inviti, come seppi poco dopo, facevano parte di una
consuetudine che interessava di solito anche altri ufficiali di
complemento con lo scopo di sondare l’eventualità di una loro
rafferma. Ricordo benissimo il piacevole colloquio durante tutta la
durata dell’incontro e, infine, la sua domanda diretta, senza tanti
fronzoli, alla quale risposi altrettanto direttamente che se avessi avuto
ventuno anni forse sarei stato attratto dall’idea, ma che avendone
diversi di più ed essendo fresco di laurea preferivo tentare un futuro
diverso, anche se molto incerto.
In quella stessa occasione, raggiungendo la caserma con un certo
anticipo, presi il coraggio di riconsegnare in polveriera delle
munizioni e una cassetta di bombe a mano SRCM avanzate dalla mia
ultima esercitazione a fuoco. Avevo depositato questo materiale sotto
la branda a disposizione dell’ufficiale di servizio e me n’ero
completamente dimenticato, dato che in pratica ero il solo ad
utilizzare quel buchetto. Ho appena detto che presi il coraggio perché,
come mi fu fatto notare abbastanza pesantemente dall’addetto del
deposito, quel materiale lo avrei dovuto scaricare subito dopo
l’esercitazione, che in realtà era avvenuta un bel po’ di tempo prima.
100
IN PROSSIMITA’ DEL CONGEDO
Negli ultimi giorni di permanenza ci fu una breve cerimonia di
commiato con la consegna della tessera associativa all’UNUCI
(Unione Ufficiali in Congedo), di cui sono tuttora membro, e subito
dopo cominciai a riconsegnare al maresciallo addetto quei materiali
della dotazione la cui durata era prevista superiore ai 15/18 mesi nella
famosa tabella, purché non fossero indumenti od oggetti strettamente
personali. Al posto del mio cappotto, della durata di 36, consegnai
quello di un mio soldato che mi faceva da qualche tempo la corte per
averlo, dal quale però recuperai le mie belle mostrine fuori ordinanza
che lui non avrebbe potuto portare. Quel maresciallo mi fece fino
all’ultimo momento la caccia per riavere il coltello a serramanico, la
cui durata era di 30 mesi e che mi dimenticavo ogni giorno di
prendere in camera, e la cintura in tela con la fibbia metallica con
l’emblema dell’esercito. Quest’ultima, che non avevo intenzione di
tenerla anche perché avrei potuto facilmente acquistarla in qualsiasi
negozio di oggetti militari, faceva parte della divisa estiva e mi
preoccupava il fatto che consegnandola sarei stato costretto a
sostituirla con la correggia in cuoio che usavamo con i pantaloni corti
nella ginnastica, terribile a vedersi perché deformata, macchiata di
sudore e in piena vista tra pantaloni e camicia. Per questo motivo
rimanemmo d’accordo che me ne sarei separato all’ultimo momento,
dopo i doverosi saluti di commiato, e così fu che il maresciallo mi
aspettò al cancello proprio fino a quando arrivò il momento di lasciare
definitivamente la caserma.
101
APPENDICE
FINALMENTE A CASA
Dopo aver caricato in auto lo scarso bagaglio e salutato quella
gente cordiale che per circa sette mesi mi aveva ospitato, Il viaggio
di ritorno alla vita civile fu diritto filato dal cortile della locanda fino
a Castiglioncello, con solo qualche brevissima sosta intermedia
dettata da esigenze di prima necessità.
Là trovai la casa oramai completata e in gran parte arredata, che
avevo lasciato nell’Aprile del ‘64 con la copertura del tetto appena
terminata e rivista nel breve permesso di Agosto dello stesso anno e
forse, ma non lo ricordo, durante la licenza ordinaria in attesa di
nomina. Poiché in quel periodo era completamente occupata da tutta
la famiglia, compreso il nonno Giovanni e naturalmente la fedele
Teresa, per qualche notte mi adattai a dormire nel fresco della
cantina, dove mi trovai perfettamente a mio agio.
Ricordo che trascorsi la prima settimana gustandomi la piena
libertà riacquistata, grogiolandomi passivamente al sole, in completa
pigrizia e facendo solo quello di cui avevo proprio voglia, senza
dipendere da regole e imposizioni. Questo mio comportamento
dovette sembrare veramente fuori della norma alla madre di un caro
amico che mi conosceva come un ragazzo abbastanza sveglio e
irrequieto, perché una mattina, vedendomi in questo stato sdraiato
sulla sabbia vicino al suo ombrellone, non riuscì a trattenersi dal
dirmi: «Povero Sandro, come ti hanno ridotto!». Mi sembrò che
quest’impressione dovettero provarla anche altri amici e conoscenti,
ma capii, anche se avessi avuto la pazienza e la buona volontà di
spiegare loro il mio stato d’animo, che sarebbe stato molto difficile
potessero comprenderlo non avendo fatto una simile esperienza e
non avendo un carattere indipendente come il mio.
L’amico Giancarlo, che avevo ripetutamente invitato a
raggiungermi quando eravamo ancora in servizio, si decise
105
FINALMENTE A CASA
finalmente verso metà Agosto a venire per trascorrere con la mia
famiglia una decina di giorni. Arrivò con vestiario completamente
inadeguato all’ambiente, per tipo, pesantezza e colori, con scarpe
autunnali e addirittura con un costume da bagno veramente
sorpassato; insomma, si dovette rivestire completamente, prendendo
a prestito da me qualche capo e comprandosene dei nuovi.
Dopo qualche giorno, quando oramai si fu adattato all’ambiente
partecipando a tutte le possibilità di divertimento che gli erano
offerte, mi confidò che si era dovuto ricredere su un suo giudizio
negativo nei miei riguardi, ossia che aveva sempre ritenuto
enormemente esagerati tutti i miei discorsi e racconti a proposito
della vita che conducevo a Castiglioncello.
Al momento della sua partenza, oltre che essere dispiaciuto del
fatto in se stesso, ricordo che era molto preoccupato di cosa avrebbe
fatto di alcuni dei comunissimi indumenti che aveva comprato e
stava riponendo in valigia, perché secondo lui non avrebbe
sicuramente più avuto l’occasione di indossarli nella sua fredda e
conservatrice Merano!
106
RICORDI ENOGASTRONOMICI
Durante il mio servizio militare ho avuto occasione di apprezzare
le caratteristiche di due regioni italiane molto diverse e lontane tra
loro, non solo per collocazione fisica ma soprattutto per tradizioni e
mentalità, e tra queste caratteristiche anche quelle connesse ai piaceri
della tavola.
La cucina pugliese non mi ha particolarmente attratto, prediligendo
frutti di mare o del buon pesce fresco alle orecchiette e melanzane in
salse varie ed altri piatti tradizionali, ma un prodotto locale che ho
trovato veramente fantastico è stata la mozzarella. Mi riferisco in
particolare a quelle di piccolo formato, non più grandi di un boccone,
che i loro produttori/venditori offrivano a poche decine di lire ai
probabili acquirenti presentandole a bagno nel loro siero in grandi
vassoi rettangolari, che ho acquistato soprattutto nelle stazioni
ferroviarie di Lecce e Foggia. Ottime erano anche quelle di formato
tradizionale che, talvolta, noi allievi abbiamo comprato nelle masserie
incontrate durante esercitazioni di marcia e orientamento nelle
campagne circostanti Lecce.
Ripensandoci oggi mi meraviglio che all’epoca nessuno di noi
abbia avuto un minimo scrupolo di carattere igienico/sanitario sui
metodi di produzione e conservazione di quelle mozzarelle, ma forse
ciò è dipeso dal fatto che ci sentivamo molto sicuri e protetti dagli
intrugli che ci avevano iniettati nel petto con quelle siringhe fuori
misura.
Della cucina friulana e della Venezia Giulia ho apprezzato alcuni
piatti tipici, soprattutto a base di caccia, ma in ambedue le regioni mi
ricordo di aver soprattutto gustato i vini, preferendo senza dubbio
quelli del nord ai robusti pugliesi, dei quali prediligevo i bianchi e i
rosati freschi per quel periodo di mia permanenza nella zona.
Oltretutto, mi ricordo di aver visto e frequentato a Gradisca la mia
prima vera enoteca, situata nella stessa strada della locanda dove
107
RICORDI ENOGASTRONOMICI
risedevo, e visitato un’importante mostra enologica annuale che si
svolse in un parco pubblico.
Ma, il giorno che a Castiglioncello, poco dopo il congedo, decisi di
aprire una bottiglia di Merlot (una di quelle che avevo acquistato alla
cantina sociale di Farra d’Isonzo ed inviato a mio padre) rimasi
veramente male; perché, oramai, mi ero riabituato velocemente al
gusto dei vini nostrani, in particolare di quello della fattoria Della
Gherardesca che allora Arnaldo vendeva infiascato nel suo negozio in
piazza, ma che dopo pochi anni diventò introvabile, perché reso
famoso come Rosato di Bolgheri tra i vini commercializzati
direttamente da quella casa.
108
LA PAGA DEL SOLDATO
E’ abbastanza strano come a un certo punto del mio vagare tra i
ricordi mi sia venuto in mente anche la questione economica, che
evidentemente ha avuto una certa importanza per noi tutti. Pertanto la
voglio descrivere brevemente qui di seguito perché mi sembra che sia
piuttosto interessante per comprendere meglio quel periodo.
Da AUC, per far fronte alle spese delle libere uscite, dovevo
contare sui vaglia che periodicamente mi arrivavano da casa, perché
quello che passava la fureria (la cosiddetta decade) era veramente
misero e non lasciava spazio per togliersi alcuna soddisfazione, tranne
il contribuire all’acquisto di qualche sigaretta.
La situazione migliorò molto nel periodo che trascorsi da Sergente
AUC perché, se non erro, percepivo circa 75.000 lire mensili sulle
quali pesava solo la modesta spesa della mensa sottufficiali. Stando
così le cose potevo permettermi senza alcuna remora di frequentare
ristoranti e visitare località turistiche nei dintorni di Opicina e di
Trieste usando la mia auto. Una cosa che all’epoca mi rimase sul
gozzo fu di non poter visitare le Grotte di Postumia, tanto declamate
dai miei genitori che le avevano viste durante il viaggio di nozze, le
quali erano piuttosto vicine, ma assolutamente irraggiungibili per un
militare cui era precluso superare qualsiasi frontiera, in particolare
quella jugoslava.
Da Sottotenente mi erano corrisposte circa 114.000 lire mensili,
comprensive d’alcune indennità delle quali non mi sono mai
interessato di conoscerne il motivo, ma che probabilmente tenevano
conto del fatto di non poter risiedere in caserma e del servizio prestato
sul confine orientale.
Ripensando a quest’aspetto della vita militare, devo ammettere che
ho provato solo oggi un certo senso di disagio quando tra le altre cose
mi sono ricordato che alcuni soldati che ho conosciuto spedivano a
109
LA PAGA DEL SOLDATO
casa per vaglia la loro decade, di cui evidentemente c’era un gran
bisogno.
Per avere dei termini di paragone circa i costi che all’epoca dovevo
sostenere riporto alcuni esempi: la camera doppia alla locanda costava
24.000 lire al mese, cifra che dividevamo tra me e Giancarlo; la mensa
ufficiali si aggirava anch’essa intorno alle 12.000 lire, mentre un pasto
completo al ristorante della stessa locanda si aggirava tra le 700 e 900,
vino compreso; un litro di benzina super 120, un caffè al bar 60 e un
giornale 50 lire. I modelli di automobili Fiat più economici costavano
circa 1.000 lire al Kg.
Subito dopo essermi congedato, con la somma di denaro di cui
disponevo ancora e con parte di quello accumulatosi con l’assegno
mensile che mio padre aveva continuato a versarmi per sua
magnanimità, acquistai una nuova 500 Fiat, che purtroppo restò
completamente sommersa dalle acque dell’Arno davanti a casa, in
viale Mazzini, durante l’alluvione del Novembre 1966.
110
GLI INCONTRI DOPO IL CONGEDO
Dopo il servizio militare mi è capitato di rincontrare casualmente
alcuni ex colleghi, per strada o in ritrovi pubblici, essendo anch’essi
fiorentini, ma poi li ho persi nuovamente di vista, come Paolo
Pampaloni (letterato e titolare di una libreria antiquaria, che compose
una poesia pubblicata nel libretto ricordo della scuola e che ho
riportato in queste pagine) e Gian Franco Meacci (mi pare fosse figlio
di un maresciallo d’Aviazione).
Un altro fiorentino che già conoscevo dall’ambiente universitario e
che rincontrai a Lecce è stato Vincenzo Simoni, un personaggio già
allora molto particolare e caratteristico, che però fu assegnato alla 2A
Compagnia e poi destinato da sottotenente al Nembo a Gradisca
d’Isonzo, ma al IV Battaglione. Lui, ho rincontrato più volte di sabato
mattina al mercato di S. Ambrogio e, per motivi contrattuali, anche
nella sede dell’Unione Inquilini, nel quale sindacato ha ricoperto la
carica di dirigente locale e successivamente quella di Presidente
Nazionale.
Un altro fiorentino che rincontrai a Lecce è stato Ferruccio Busoni,
che già conoscevo da Piazza San Marco ed altri ambienti frequentati
da universitari, anch’esso però assegnato alla 2A cp. allievi, che non ho
ritrovato nel percorso successivo e che a Firenze avrò rivisto forse un
paio di volte. Mi ricordo come da studente fosse sempre in cerca di
qualcuno che gli prestasse qualche soldo, perché i suoi genitori lo
tenevano piuttosto a stecchetto.
Di Giancarlo Antonello di Merano ho già raccontato come sia stato
mio compagno di camera alla Locanda il Friuli per tutto il periodo di
permanenza a Gradisca d’Isonzo e della sua visita al mare subito dopo
il congedo. Ma da quel momento, tranne qualche scambio di auguri
natalizi negli anni immediatamente successivi, non ho avuto più
notizie, forse anche per mia colpa.
Di Maurizio Parotto, altro AUC di origine romana e anch’esso
geologo, ho avuto per anni notizie indirette sulla sua attività tramite
111
GLI INCONTRI DOPO IL CONGEDO
varie pubblicazioni di carattere scientifico. Pochi anni fa ho cercato di
incontrarlo di persona trovandomi per motivi di lavoro nel suo
dipartimento all’Università Roma Tre, ma purtroppo proprio quel
giorno si trovava fuori sede e ho potuto lasciargli solo un saluto
scritto, ma non ho avuto conferma che lo abbia ricevuto.
Solo con Andrea Andrei, anch’esso fiorentino, di cui persi le
tracce una volta lasciata Lecce, ho avuto per diversi anni e fino a
tempi recenti un’assidua frequentazione, poiché ci siamo ritrovati a
cantare affiancati nel coro della Certosa del Galluzzo, ambedue spinti
dalla stessa passione per il canto gregoriano. Quando avevo quasi
concluso di scrivere questi miei ricordi gli ho chiesto di incontrarci
per vedere se poteva aiutarmi nel ricostruire una giornata tipo alla
Caserma Pico. Lo ha fatto ricorrendo alla descrizione minuziosa
scritta in una sua lettera inviata a casa, così come mi ha potuto fornire,
attraverso altre, le date del giuramento e della nomina degli allievi
scelti, oltre a ricordarmi come quel gruppetto riuscì a sfuggire alla
“cattura” nella stazione di Lecce.
Uno dei miei soldati del Nembo, di cui non ricordo il nome, mi
riconobbe alla fine degli anni ’60 all’ingresso del Pronto Soccorso
dell’Ospedale di Careggi, mentre mio fratello Ugo ed io
accompagnavamo nostro padre per fermare un’emorragia nasale,
incidenti di cui soffriva frequentemente nell’ultimo periodo della sua
vita a causa del prolungato uso di cortisone. Quel ragazzo lavorava lì
come infermiere e si prodigò molto per facilitarci l’ingresso, e in
quell’unica occasione d’incontro dovetti più volte ripetergli di non
rivolgersi a me precedendo il cognome con il grado militare, perché
oramai eravamo ambedue tornati alla vita civile. Mi fece, tuttavia,
molto piacere che mi ricordasse così bene e tenesse un comportamento
rispettoso, poiché ciò denotava una certa stima che evidentemente
avevo guadagnato sul campo.
112
LE RIVISITAZIONI AMBIENTALI
Oltre gli incontri con persone fisiche di cui ho appena raccontato
ho avuto qualche altra occasione di ritrovarmi di fronte a situazioni
che avevano a che fare con questo mio passato, soprattutto legate ai
luoghi allora frequentati.
In un breve viaggio, nel quale prima toccammo Venezia e
successivamente ci spostammo verso Trieste, città che desideravo far
conoscere anche superficialmente a mia moglie per la sua architettura
mitteleuropea, volli risalire sull’altopiano per rivedere la caserma di
Villa Opicina. Per arrivarci davanti incontrai però molte difficoltà,
perché la ricordavo non lontano dall’abitato e facilmente
raggiungibile, mentre la trovai compressa all’interno di un groviglio
costituito dal nodo ferroviario e un raccordo autostradale, di cui ai
miei tempi si sentiva parlare per il motivo che il suo tracciato avrebbe
distrutto molte postazioni difensive che dipendevano dal nostro
reggimento e di cui curavamo la manutenzione.
Logicamente mi ero illuso pensando di trovare una situazione
immutata. La caserma, infatti, era occupata da un reggimento che a
giudicare dal basco nero era probabilmente di carristi, e parlando
brevemente con l’Ufficiale di Picchetto della mia permanenza nel rgt.
Torino, allora di guarnigione lì, e successivamente nel Nembo a
Gradisca, seppi che del primo non poteva fornirmi informazioni
mentre, riguardo al Nembo, che bastava andassi a Pistoia dove al
momento era acquartierato. Fu così che quest’informazione mi tolse
oggi voglia di proseguire nella mia ricerca ed evitai di andare a
Gradisca.
In un altro viaggio turistico, piuttosto lungo attraverso Basilicata e
Puglia, soggiornammo un paio di giorni a Lecce; durante la nostra
permanenza si visitò la città e incontrammo un amico che vi si era da
poco trasferito da Firenze con tutta la famiglia essendo originario di
quella città. Ho quindi rivisto luoghi e locali che noi allievi
frequentavamo di solito, ma per non avere disillusioni evitai di passare
davanti alla Pico, non sapendo cosa vi avrei trovato.
113
LE RIVISITAZIONI AMBIENTALI
Anni fa una circolare dell’UNUCI di Firenze fece appello perché
in ricorrenza della festa delle Forze Armate ci fosse un’alta
rappresentanza di ufficiali in congedo ed io, per quell’unica volta pur
essendo ancora oggi inscritto all’ente, risposi all’appello. In Piazza
Santa Maria Novella fu celebrata la Messa da campo con l’altare
montato sul sagrato, celebrata da un cappellano militare, e
successivamente il gruppo abbastanza numeroso di partecipanti sfilò
con bandiere e labari di associazioni varie fino in piazza dell’Unità
dove si svolse la cerimonia ufficiale in memoria dei caduti.
In quell’occasione, dove io mi presentai con il mio basco verde
fuori ordinanza (il Cangol) con il fregio del Nembo, notai che vari
presenti mi guardavano con curiosità, come se fossi stato un estraneo e
perché evidentemente non conoscevano quel reggimento.
Successivamente, finita la Messa, mentre eravamo in preparazione di
dare una forma dignitosa al corteo, ma c’era ancora una po’ di via vai
e confusione, un giovane ufficiale in congedo riconobbe
immediatamente il fregio sul basco e mi disse indicando con l’indice
«Nembo!». Alla mia domanda come mai lo conoscesse mi rispose che
lui era addirittura cresciuto nella caserma di Gradisca, presso la quale
suo padre aveva svolto per anni servizio come maresciallo. Quando
disse il suo cognome, pensandoci un po’ sopra, mi ricordai della
figura di suo padre e della presenza di questo bambino che girellava
per la caserma, qualche volta anche d’intralcio perché uno se lo poteva
ritrovare tra i piedi quando meno se lo aspettava. Ricordo, infine, che
quel giovane ufficiale in congedo fu la seconda persona che mi parlò
del Nembo a Pistoia.
Dopo questa scenetta i vicini che vi avevano assistito
cominciarono a guardarmi con altro occhio e qualcuno mi avvicinò
addirittura per scambiare qualche frase. E così, in quel momento mi
sentii molto orgoglioso!
114
CONSIDERAZIONI SULL’ABOLIZIONE DELLA LEVA
L’obbligo del servizio militare di leva, previsto dall’art. 52 della
Costituzione della Repubblica Italiana, è sostanzialmente inattivo dal
1° gennaio 2005, come stabilito dalla Legge 23 agosto 2004 n°226,
sebbene sia ancora vigente non essendo stato mai formalmente
abolito.
Quando questo fatto fu deciso, ossia che le nuove esigenze delle
Forze Armate richiedevano un esercito costituito da soli professionisti
volontari, mi trovai naturalmente d’accordo sui principi, ma per
esperienza personale mi resi subito conto che ciò avrebbe portato
all’immediata sparizione di almeno tre aspetti del vecchio sistema, che
fino a quel momento avevano avuto una notevole importanza per la
vita sociale e civile.
-
Le visite mediche, contestate ed oggetto di scherno perché
ritenute superficiali ed inutili, costituivano invece un
importante screening sullo stato di salute dell’intera gioventù
maschile, operazione che ad oggi non è stata sostituita da
nessun altro metodo d’indagine e che ha precluso
l’acquisizione di conoscenze e di dati statistici fondamentali a
livello sanitario nazionale.
-
Ho considerato e continuo tuttora a considerare ridicole le
notevoli opposizioni, da una parte di civili e politici, che
periodicamente insorgono contro le proposte di prelievo delle
impronte digitali, fatto che ritengo sia molto importante per la
sicurezza e per altri vari aspetti che possono verificarsi nella
vita. Mi ricordo benissimo, infatti, il momento (anche se non
riesco a collocarlo con precisione) in cui sono stato costretto a
sporcarmi d’inchiostro i polpastrelli delle dieci dita per
imprimere le mie su una cartella segnaletica. Di conseguenza,
com’è successo a me, le impronte di gran parte degli italiani
soggetti alla leva sono state registrate. Non so dove siano
andate a finire, ma sicuramente in qualche archivio esistono
115
CONSIDERAZIONI SULL’ABOLIZIONE DELLA LEVA
ancora, come si può dedurre dall’esempio su mio nonno
paterno Ugo raccontato all’inizio di queste pagine.
-
Il servizio di leva, fino a quando è diventato di fatto regionale
(in parte anche per colpa delle mamme che hanno sempre
sofferto della lontananza dei propri figli), è stato l’unico
mezzo, con un prodotto paragonabile ad un fantastico cocktail
umano, che ha fatto conoscere il proprio Paese e i vari caratteri
regionali agli italiani, perché i trasferimenti in località lontane
da quella di origine, la vita in comune e la promiscuità tra
individui di estrazione sociale diversa, sono stati per alcuni
l’unico modo di uscire dal loro isolamento territoriale e dalla
conseguente ignoranza. In alcuni casi è stato addirittura il
mezzo per acquisire le competenze per esercitare un mestiere
nella vita civile e, in alcuni casi più rari, per avere addirittura
la possibilità di imparare i primi rudimenti per leggere e
scrivere o talvolta conseguire addirittura la licenza elementare
seguendo volontariamente corsi interni, che almeno negli anni
’60 erano ancora svolti. Non è da sottovalutare, infine,
l’insegnamento derivante dal dover sottostare ad una forma di
rigida disciplina, che a qualcuno può essere servita o è stata
necessaria per formare il proprio carattere e ad altri per
affrontare e superare casi avversi della vita.
Dopo tutti gli anni che avevo trascorso in collegio, sottoposto
anche in questo caso ad una forma di disciplina, non avrei avuto alcun
bisogno del servizio militare di leva per formare il mio carattere, ma,
dovendolo espletare, ho trascorso questo periodo cercando di farlo nel
migliore dei modi, grazie anche alle fortunate destinazioni dove la
serietà e la continuità dei vari impegni lasciavano ben poco tempo per
annoiarsi. In fondo, come più volte nel tempo ho pensato, quel periodo
ha rappresentato la più lunga vacanza della mia vita!
116
INDICE
Prefazione
Primi approcci con il mondo militare.
Gli ultimi giorni di libertà
5
7
9
Aprile - Settembre 1964
35°Corso AUC delle Truppe Meccanizzate a Lecce
Caserma Raffaele Pico
L’arrivo a Lecce
I primi giorni in caserma
L’organizzazione interna
La vita quotidiana
Le libere
Il giorno del giuramento
I permessi giornalieri
Il poligono di Torre Veneri
Le trasferte fuori sede
I raccomandati e non
Il Ten. Cutrì Rocco
A Lecce
La “tradotta” Lecce-Trieste
13
14
17
19
22
25
27
29
33
35
37
39
40
Ottobre – Dicembre 1964
82° Reggimento “Torino” a Villa Opicina
Caserma Guido Brunner
La XIV Compagnia del IV Btg.Meccanizzato
La grappa della lavandaia poliglotta
La prima esperienza con la bora
Trieste e dintorni
Le marce e le ronde
La lezione di caccia ai carri
I contatti con i famigliari
45
48
49
51
53
55
57
Gennaio – Luglio 1965
183° Reggimento “Nembo” a Gradisca d’Isonzo
Caserma Ugo Polonio
La X Compagnia del III Battaglione
La Locanda “Il Friuli”
Gradisca e dintorni
La Beretta 22LR
Alcuni aspetti della vita in Compagnia
I servizi saltuari e altre incombenze
La scelta dei candidati per il Corso Caporali
Il campo mobile invernale
I picchetti d’onore
La preparazione di compagnie di formazione
L’adozione delle nuove armi
La presentazione della MG 42/59
Il poligono sul Monte Ciaurlec
Ufficiale addetto alla mensa
Il campo estivo trascorso in caserma
In prossimità del congedo
61
63
65
67
69
72
76
78
83
85
88
90
91
93
97
100
Appendice
Finalmente a casa
Ricordi enogastronomici
La paga del soldato
Gli incontri dopo il congedo
Le rivisitazioni ambientali
Considerazioni sull’abolizione della leva
105
107
109
111
113
115