Confinamento geologico della CO2 Geologi italiani in
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Confinamento geologico della CO2 Geologi italiani in
ISSN 1724-4285 Geoitalia N° 27 – Giugno 2009 Il paesaggio della Cordillera delle Ande in Tierra del Fuego Confinamento geologico della CO2 Spedizione in abbonamento postale Art. 2, Comma 20 c, Legge 662/96 – Livorno Il centenario del Diplodocus carnegiei Geologi italiani in Tierra del Fuego Geoitalia – Federazione Italiana di Scienze della Terra Consiglio di presidenza per il biennio 2009-10 Rosanna De Rosa - Presidente Ruggero Matteucci - Vice Presidente Rosanna De Rosa - Presidente Comitato organizzativo dei “Forum di Scienze della Terra” (Com. 1) Cesare Roda - Presidente del Comitato Editoriale (Com. 2) Silvio Seno - Tesoriere e Presidente del Comitato per la Promozione Finanziaria (Com. 3) Rodolfo Coccioni - Presidente del Comitato per la Diffusione della Cultura Scientifica (Com. 4) Attilio Boriani - Presidente del Comitato per i Rapporti con i Mezzi di Comunicazione di Massa (Com. 5) Grazia Martelli - Segretario Assemblea Associazione Geofisica Italiana (AGI): Michele Colacino (Presidente), Mario Aversa, Teodoro Georgiadis. Associazione Italiana di Geografia Fisica e Geomorfologia (AIGEO); Paola Fredi (Presidente), Olivia Nesci, Mauro Soldati, Bernardino Gentili. Associazione Italiana di Geologia Applicata e Ambientale (AIGA): Cesare Roda (Presidente), Claudio Cherubini, Walter Dragoni, Francesco Dramis. Associazione Italiana di Geologia e Turismo (G&T): Mario Panizza (Presidente), Raffaele Pignone, Giorgio Zanzucchi. Associazione Italiana per la Geologia del Sedimentario (GEOSED): Lucia Simone (Presidente), Gian Gaspare Zuffa, Daniela Fontana. Associazione Italiana per lo Studio del Quaternario (AIQUA): Carlo Bartolini (Presidente), Adele Bertini, Paolo Messina, Andrea Sposato. Associazione Italiana per lo Studio delle Argille (AISA): Saverio Fiore (Presidente), Rocco Laviano, Fabio Tateo. Associazione Italiana di Vulcanologia (AIV): Raffaello Cioni (Presidente), Roberto Santacroce, Donatella De Rita. Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali: Anna Pascucci (Presidente), Roberto Greco. Comitato Glaciologico Italiano (CGI): Claudio Baroni (Presidente), Roberto Federici. Manuela Pelfini. Fondazione Geoitalia: Attilio Boriani (Presidente) Servizio Geologico d’Italia: Leonello Serva (Direttore) Sezione Italiana della EAGE-SEG: Luigi Zanzi (Presidente), Eugenio Loinger, Ettore Cardarelli, Michele Pipan. Sezione Italiana della IAEG: Giorgio Lollino (Presidente), Monica Ghirotti, Fausto Guzzetti, Nicola Sciarpa. Società Geochimica Italiana (SOGEI): Umberto Masi (Presidente), Laura Pinarelli, Marino Vetuschi Zuccolini. Società Geologica Italiana (SGI): Carlo Doglioni (Presidente), Silvio Seno, Gloria Ciarapica, William Cavazza, Salvatore Critelli, Maurizio Mazzucchelli, Roberto Fantoni. Società Italiana di Mineralogia e Petrologia (SIMP): Simona Quartieri (Presidente), Marco Benvenuti, Massimo Coltorti, Sandro Conticelli, Giovanni Ferrarsi, Maurizio Triscari. Società Paleontologica Italiana (SPI): Ruggero Matteucci (Presidente), Andrea Tintori, Nino Mariotti, Rodolfo Coccioni, Franco Russo, Marco Avanzino. Segretario: Grazia Martelli Comitato Editoriale: Cesare Roda (Responsabile editoriale), Giancarlo Della Ventura, Francesco Dramis, Elisabetta Erba, Emanuela Guidoboni, Emanuele Lodolo, Michele Marroni. Comitato di Redazione: Giovanni Bon, Luigi Carobene, Andrea Orlando, Giuseppe Maria Bargossi. Direttore Responsabile: Valerio Bortolotti. Autorizzazione del Tribunale di Livorno n. 7, del 9-7-2002. Fascicolo a cura di: Cesare Roda, Emanuele Lodolo, Giovanni Bon, e, per la versione in rete, Mauro Rainis e Erica Peressini. Progetto grafico: Giovanni Bon e Cesare Roda. Distribuzione gratuita ai soci delle Associazioni aderenti a Geoitalia, Federazione Italiana di Scienze della Terra. Ente patrocinatore e finanziatore: Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS Editrice: MEDIAprint s.r.l. Stampa a cura di: MEDIAprint s.r.l., Via Guido Gozzano 7 57121 Livorno. Tel. 0586 403023, Fax 0586 409414, email: [email protected] N. 27 – Giugno 2009 Geoitalia http://www.geoitalia.org In copertina: La Cordillera delle Ande, principale catena del continente Sud Americano, dopo un andamento N-S di oltre 3800 km, in corrispondenza della Tierra del Fuego ruota di circa 90°, attraversando l’Isola nella sua parte centrale. Nel corso di alcuni progetti di ricerca svolti nell’ambito del Programma Nazionale Ricerche in Antartide dall’Istituto di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste e dall’Università di Urbino, in collaborazione con l’Università di Buenos Aires e l’Università di Santiago del Cile, sono stati condotti rilevamenti geologici in vari settori della Cordillera Fuegina. L’accesso a molte di queste zone è complicato per la mancanza di vie di comunicazione ed il lavoro di terreno implica una complessa organizzazione logistica. La fotografia mostra la maestosità e la varietà del paesaggio della valle glaciale della Laguna Esmeralda nella Sierra de Alverar, nella parte centrale della Cordillera della Tierra del Fuego. In basso la vegetazione è costituita da Nothofagus Antartica, che raggiunge il limite altimetrico a circa 700 m s.l.d. mentre in alto sono visibili i ghiacciai Albino e Domo Blanco. Sullo sfondo si osservano gli affioramenti di rioliti della Formazione Lemaire del Giurassico superiore, accavallate sugli scisti scuri della Formazione Yagan del Cretaceo inferiore, che costituiscono le cime maggiori che raggiungono circa 1400 m s.l.d.m. (Foto di Marco Menichetti; si veda l’articolo a pag. 41) Ad ognuno il suo Mare BRUNO D’ARGENIO Sulla valutazione dei progetti di ricerca GIAN GASPARE ZUFFA Una spedizione Italiana in Artico nell’Anno Polare Internazionale MICHELE REBESCO L’oro bianco dell’Isola del sole ANDREA MARCHESINI, CLAUDIO MARCHESINI Monitorare nel tempo la CO2 in un sito di stoccaggio geologico: possibilità e limiti GIULIANA ROSSI, STEFANO PICOTTI, DAVIDE GEI, JOSÉ M. CARCIONE Minerografia, una scienza da riscoprire IDA VENERANDI PIRRI Padre Benedetto Castelli, il pluviometro e il lago Trasimeno LUCIO UBERTINI, CESARE RODA Le pietre lavorate, a cura di Giuseppe Maria Bargossi Selenite GIUSEPPE MARIA BARGOSSI, MARTA MAROCCHI Acquiferi salini profondi: potenziali siti per il confinamento geologico della CO2 in Italia FEDERICA DONDA, VALENTINA VOLPI, SERGIO PERSOGLIA, MICHELA VELLICO Boccheggiano nelle Colline Metallifere toscane: una storia di miniere, bonifiche, ecoturismo ed... ecologia GIUSEPPE TANELLI Geoitalia, Fist Onlus. Sintesi di fine mandato GIAN GASPARE ZUFFA 100 anni di geologia italiana in Tierra del Fuego MARCO MENICHETTI Geologia in una foto, a cura di Luigi Carobene Le barene della laguna nord di Venezia ALDINO BONDESAN, SANDRA PRIMON 3 3 4 7 9 14 17 24 26 27 32 41 46 NOTIZIE, RECENSIONI, LETTERE Geoitalia 2009 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Presentazione dei risultati della crociera EGLACOM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Libri e riviste Italian Ichnology . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 I materiali lapidei dell’edilizia storica di Palermo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Lettere Rapporti tra ricerca e didattica nelle Università . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 Il terremoto in Abruzzo: alcune riflessioni al margine di grandi problemi e di grosse responsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 L’Antropocene siamo noi nel bene e nel male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Il Premio Wegener a Carlo Doglioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 PCMIP, Palaeocarbon Modelling Intercomparison Project . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Il centenario del Diplodocus carnegiei Bologna, 1909-2009 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 Notizie da IODP-Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 Attività dell’Associazione Italiana di Geologia e Turismo (G&T) . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 La variabilità del Clima nel Quaternario: la ricerca Italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 Riciclare i vecchi dati geofisici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 In poche parole Ad ognuno il suo Mare BRUNO D’ARGENIO, Università di Napoli “Federico II” Il nostro pianeta, su una superficie totale di ~500.106 km2, è coperto dalle acque marine per ~350.106 km2. Una condizione variabile per le fluttuazioni eustatiche e per i processi geodinamici che hanno fatto ripetutamente mutare i rapporti tra le aree sommerse e quelle emerse del globo. Mare e oceano sono sostantivi tra i più usati dai ricercatori che hanno come oggetto dei loro interessi scientifici la Terra, solida e fluida. Eppure mare e oceano hanno significati e implicazioni spesso diversi nelle varie “culture” delle scienze fisiche e naturali, e quindi nei loro specifici linguaggi. Cosa rappresentano infatti questi termini nell’immaginario collettivo dei geologi e dei paleontologi e di molti geochimici? Più che sulla massa d’acqua, il loro interesse si focalizza sui processi sedimentari e sulla loro evoluzione nel tempo, sul ruolo degli organismi, sia come testimonianza dei processi evolutivi che come misura del tempo relativo, sulle antiche oscillazioni eustatiche del livello dei mari e quindi sulle variazioni delle linee di costa, con esercizi cartografici che consentono la ricostruzione paleogeografica di un passato più o meno lontano. Quanto diverso è il mare/oceano dei geofisici della Terra solida, dei petrografi, dei vulcanologi, dei geologi strutturali! Anche in questo caso la massa d’acqua è solo indirettamente considerata. È la crosta oceanica, nelle sue possenti manifestazioni geodinamiche, nel continuo variare dei suoi tassi di messa in posto, dal lento fluire alle fasi parossistiche delle LIP, che rappresenta concettualmente, nei modelli e nella successione degli eventi, l’interesse primario. E che dire, infine, degli oceanografi fisici e dei climatologi? Qui è la massa d’acqua, con la sua circolazione e i suoi legami con l’atmosfera, che domina l’interesse scientifico dei ricercatori (che peraltro rivolgono oggi, per forza di cose, una particolare attenzione alle vicende climatiche recenti e attuali). I processi di cui si discute sono in prevalenza ancora in atto, o lo sono stati in un passato molto recente. I collegamenti coi biologi marini sono più stretti e le ipotesi di lavoro sono spesso più semplicemente verificabili, anche se le incertezze interpretative non sono minori che nei casi precedenti. In conclusione se mare e oceano, dalla massa d’acqua al substrato crostale, definiscono l’oggetto dell’interesse scientifico di vaste comunità di ricercatori, questi hanno approcci alle rispettive problematiche tra loro diversi, per prospettive temporali e per metodologie analitiche. Ciò implica concezioni non sempre tra loro comparabili, che richiamano alla mente talora il contenitore crostale, talaltra il contenuto fluido. In realtà la Terra è un sistema unitario, seppur complesso. Oggi è sempre più difficile accedere, con il necessario approfondimento, alla letteratura specialistica anche per i ricercatori, se non sono direttamente coinvolti nelle problematiche di uno dei settori ricordati prima. Allora, anche se non è possibile uniformare il significato specifico che termini identici hanno nei vari linguaggi scientifici adiacenti, uno sforzo maggiore per facilitare la mutua comprensione sarebbe certo utile, a beneficio della chiarezza e della necessaria interdisciplinarietà. doi: 10.1474/Geoitalia-27-01 Questo spazio è a disposizione dei colleghi che hanno qualche cosa da dire, c’è un limite: 500 parole. Testi a: [email protected] Sulla valutazione dei progetti di ricerca GIAN GASPARE ZUFFA, Università di Bologna Il tema della valutazione dei progetti di ricerca è di grande rilievo anche in considerazione del fatto che i problemi della ricerca scientifica sono oggi alla ribalta dell’opinione pubblica in un momento di difficoltà nella quale ora versa il nostro Paese. Se comparata con la valutazione dei lavori per la pubblicazione in riviste scientifiche, la valutazione dei progetti di ricerca mostra analogie e differenze. Le riviste scientifiche sono dotate di un editorial board composto in generale da un chief editor che si avvale di associate editor per la scelta dei reviewer. I meccanismi di designazione di questi importanti “attori” del processo di peer review variano per le riviste controllate da Associazioni Scientifiche e per i Publisher, ma sono in entrambi i casi fondati su due importanti criteri, (a) la qualità del valutatore deve essere elevata e, (b) il valutatore deve rispondere a requisiti di “terzietà”. Il primo criterio tende ad assicurare l’attendibilità scientifica del processo di revisione. Il secondo criterio tende ad evitare che nelle varie fasi del processo si incorra in problemi di conflitto d’interesse. Per i progetti di ricerca PRIN in Italia, la funzione di chief editor per ciascuna delle 14 aree è ora in sostanza svolta da un Garante che si avvale di un, piuttosto scarno, albo dei revisori MIUR purtroppo ottenuto senza un valido riscontro dello specifico campo di competenza dei revisori stessi. In occasione del bando PRIN 2008, tenuto conto che la Commissione dei Garanti prevede un membro anche per le Scienze della Terra, il Panel Fist per la Valutazione della ricerca, insediato nella primavera del 2007, ha ritenuto opportuno fare sentire la voce dei ricercatori dell’Area Scienze della Terra per quanto riguarda l’importante problema della valutazione dei progetti di ricerca. Il Panel, rappresentativo delle Associazioni federate nella FIST, in concerto con i rappresentanti al CUN per le Scienze della Terra, dopo aver valutato le proposte emerse dalle Associazioni federate nella FIST, ha formulato una rosa di 9 esperti con caratteristiche di autorevolezza scientifica, terzietà ed equilibrio. La rosa di 9 esperti è stata sottoposta a CUN, CRUI e CIVR per essere presa in considerazione nella scelta dei Garanti da proporre al Ministro per la composizione della Commissione dei Garanti. Il CUN, la CRUI e il CIVR hanno proposto tre nomi ricavati dalla rosa dei 9 proposta dal Panel. La nostra azione ha avuto quindi pieno successo. Nella Tavola Rotonda organizzata dalla FIST su “La valutazione della ricerca nel campo della Scienze della Terra”, tenutasi a Bologna il 19 Gennaio 2009, oltre che dell’uso degli indici bibliometrici per la valutazione, si è discusso anche di come migliorare il processo di revisione dei PRIN.Si è concordato che una possibile strategia per ottenere quanto sopra sia quella: (i) di aumentare il numero di revisori italiani e stranieri (ora troppo scarso), (ii) di calibrare le parole chiave da inserire considerando che esse dovranno aiutare il garante per la scelta del revisore più competente a valutare un determinato progetto ed infine, (iii) di invitare coloro che vorranno aderire all’Albo dei Revisori di inserire nel proprio curriculum anche indici bibliometrici (ad es. Impact Factor, H-factor, ecc.). A seguito di questo i Presidenti delle 16 Associazioni federate nella FIST-Onlus hanno invitato i soci dell’Associazione da loro rappresentata a dare la propria adesione all’Albo dei Revisori. Le Scienze della Terra rappresentano una comunità piccola, ma scientificamente molto attiva e in rapida evoluzione verso le migliori posizioni in ambito internazionale, come il grande successo dell’International Geological Congress di Firenze 2004 ha dimostrato. Attraverso l’impegno dedicato dai ricercatori di Scienze della Terra per attivare quest’iniziativa coordinata a livello nazionale, le Geoscienze si sono proposte all’esterno come unite e coordinate. doi: 10.1474/Geoitalia-27-02 Geoitalia 27, 2009 3 Una spedizione Italiana in Artico nell’Anno Polare Internazionale MICHELE REBESCO (responsabile scientifico del progetto) con il contributo di Lorenzo Petronio e degli altri ricercatori e tecnici della crociera EGLACOM: Fabrizio Zgur, Isabella Tomini, Gabriele Perissinotto, Claudio Pelos, Nicola Ferrante, Lorenzo Facchin, Emiliano Di Curzio, Roberto De Vittor, Cinzia De Vittor, Davide Deponte, Andrea Caburlotto. Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale - OGS Il quarto Anno Polare Internazionale (International Polar Year, IPY) è una imponente iniLa Nave da ricerca OGS-Explora alla rada nell’Isfjorden di fronte a Longyearbyen, prinziativa per la promozione ed il coordinamento intercipale città delle Isole Svalbard (cortesia di Fabrizio Zgur). nazionale della ricerca scientifica in ambito polare. Il primo Anno Polare è stato promosso nel 1882-83 dalL’Italia ha contribuito all’IPY con il progetto EGLACOM l’ammiraglio della Marina Austriaca e triestino adottivo Carl (Evoluzione dei margini continentali glaciali Artici: il sistema sediWeyprecht (si veda l’articolo a pagina 15 di Geoitalia n. 19). Quello mentario delle Svalbard meridionali) coordinato da Michele appena concluso, iniziato a marzo 2007 e terminato a marzo 2009, Rebesco (Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica ha incluso 4 stagioni di acquisizione, due nell’Artico e due in Sperimantale – OGS) nel quadro della attività di ricerca IPY367 su Antartide, coinvolgendo ricercatori di oltre 70 nazioni. Neogene ice streams and sedimentary processes on high-latitude continental margins (NICE-STREAMS), proposta da Karin Andreassen (Università di Tromsø, Norvegia) e ora coordinata da Angelo Camerlenghi (Università di Barcellona, Spagna). La crociera EGLACOM sul margine meridionale delle isole Svalbard è stata condotta dal 8 Luglio al 4 Agosto 2008 con la nave OGS-Explora (Figura accanto al titolo), proprio nell’anno nel quale l’OGS celebra 20 anni di ricerche in Antartide con la nave OGSExplora. È sulla base di questa esperienza Antartica che è nato il progetto EGLACOM, senza scordare che l’OGS ha già condotto ricerche lungo le coste delle Svalbard negli anni ’70, e nell’Atlantico settentrionale negli anni ’90 all’interno di progetti Europei. All’attività NICE-STREAMS appartiene anche il progetto Spagnolo SVAIS (the development of an Arctic ice stream-dominated sedimentary system: The southern Svalbard continental margin) coordinato da Angelo Camerlenghi. L’OGS, che collabora anche al progetto SVAIS, ha partecipato alla crociera sulla nave Hesperides (dal 29 luglio al 17 Agosto 2007) coordinando l’acquisizione di dati sismici monocanale con strumentazione OGS e ha partecipato alla analisi delle carote di sedimento coordinando l’acquisizione dei dati di multisensor logging. Gli obiettivi del progetto EGLACOM (e di NICE-STREAM in generale) sono lo studio geofisico e stratigrafico ad alta risoluzione di un sistema deposizionale marino delle Svalbard (Storfjorden) per comprendere i processi sedimentari e ricostruire l’evoluzione del margine Artico dal Pliocene alla ultima de-glaciazione e i cambiamenti della morfologia del fondo a partire dall’inizio delle condizioni glaciali. L’analisi della presenza e del contenuto di gas all’interno dei sedimenti, in particolare, aiuterà a comprendere la stabilità del pendio continentale, oltre a fornire utili indicazioni circa potenziali riserve energetiche fossili. Per mezzo di campionamenti d’acqua Mappa di posizione dei dati acquisiti durante la crociera EGLACOM. 4 Geoitalia 27, 2009 sono stati inoltre condotti studi biologici ed oceanografici volti a fornire nuove indicazioni circa lo scambio tra le acque Atlantiche e Artiche che attraversano lo stretto di Fram ed il Mare di Barents. Durante la crociera multidisciplinare EGLACOM è stato acquisito un significativo data-set costituito da: • Oltre 1.000 km di profili sismici multicanale tra l’Isfjorden e la Bjorn Island; • Quasi 20.000 kmq di dati morfobatimetrici con ecoscandaglio multifascio; • Oltre 4.000 km di profili acustici sub-bottom; • Oltre 4.000 miglia di dati oceanografici con ADCP e termosalinografo • 60 sonde di temperatura in mare (XBT); • 6 profili di temperatura e coducibilità in mare (CTD); • 17 campionamenti d’acqua con calate di campionatore a rosette; • 18 campionamenti d’acqua superficiale su un transetto da 65° a 78° N; • 4 carote di sedimento con campionatore a gravità. I dati geofisici e oceanografici sono in corso di elaborazione presso l’OGS. Le carote di sedimento sono in corso di analisi da OGS in collaborazione con ENI, INGV, Museo Nazionale dell’Antartide, le Università di Barcellona, Trieste, Siena, Parma, Ancona. I dati batimetrici (multibeam) sulla scarpata mostrano la morfologia prodotta da una serie di colate di detrito e da qualche frana. Sulla piattaforma, invece, si possono osservare i lineamenti prodotti dal ghiaccio appoggiato sul fondo durante l’ultimo massimo glaciale (vedi figura a destra). L’osservazione dei near trace dei profili sismici, fatta a bordo, indica una evoluzione nel tempo dei processi deposizionali sullo Storfjorden Fan, con un brusco cambiamento che sembra indicare l’inizio della formazione della calotta glaciale Artica. Nei depositi sedimentari più antichi della scarpata continentale, sotto ad un orizzonte (tratteggiato in rosso nella Figura a fondo pagina), gli strati sono perlopiù sub-paralleli l’uno all’altro. Nella parte più superficiale, invece, la stratificazione è interrotta da corpi trasparenti (non stratificati) di forma più o meno lenticolare. Questi corpi sono grandi frane sottomarine, scese nel Plio-Pleistocene lungo il pendio della scarpata continentale. Non si vedono strati al loro interno perché questi si sono frantumati nello scivolamento. La frana più profonda (la più antica) è molto più spessa delle altre. Una vera e propria “mega-frana” spessa circa 250 m. Questa, ma anche le altre frane, devono aver generato con il loro movimento delle catastrofiche onde di tsunami. Dal basso verso l’alto si osserva una evidente evoluzione nel tempo: prima (1) nessuna frana; poi (2) la “mega-frana”; e poi (3) una serie di frane più piccole. Questa evoluzione potrebbe corrispondere alle varie fasi climatiche di queste regioni nordiche: prima che si formasse la calotta glaciale Artica (1) il clima era più temperato ed erano i fiumi a trasportare in mare i sedimenti (che oggi appaiono regolarmente stratificati); poi, quando i ghiacci hanno raggiunto il loro massimo sviluppo (2), sono stati questi (quasi come fossero potenti bulldozer) a trasportare e scaricare in mare una gran quantità di detriti, determinando anche la formazione della “mega-frana”; successivamente, con l’alternarsi dei periodi glaciali ed interglaciali (3), varie avanzate e ritiri dei ghiacci hanno prodotto una serie di frane più piccole, intervallate a strati più o meno regolari. Solo una attenta analisi di tutti i dati appena acquisiti ci permetterà di verificare se la “superfrana” corrisponda effettivamente ai primi stadi della formazione della calotta glaciale Artica. In ogni caso questa scoperta ci permetterà di comprendere meglio l’evoluzione dei margini polari Europei, con importanti ricadute per lo studio del paleoclima (e quindi per la previsione del clima in futuro) e della stabilità dei pendii sottomarini (e quindi per regolare un even- Esempio di dati batimetrici multibeam acquisiti nella Kveithola trough. Un esempio dei profili sismici acquisiti sulla nave OGS-Explora durante la crociera EGLACOM. La linea sismica multicanale mostra la scarpata continentale a oltre 3.000 m di profondità. Geoitalia 27, 2009 tuale sfruttamento sostenibile delle risorse naturali in questi ambienti e la previsione di possibili tsunami e del loro impatto sugli insediamenti umani). I profili sismici multicanale acquisiti durante la crociera (vedi figura a fianco) sono stati utilizzati anche per analizzare in modo innovativo la distribuzione regionale delle masse d’acqua in questa regione così climaticamente cruciale per 5 Un esempio di riflessioni nella colonna d’acqua registrate in un profilo sismico EGLACOM. Sulla destra la comparazione con il sismogramma sintetico prodotto sulla base del profilo di temperatura (XBT) misurato sinotticamente. Distribuzione delle temperature nelle masse d’acqua ottenuta interpolando i dati XBT e CTD raccolti in un profilo NE-SW durante la crociera EGLACOM. Il riquadro rosso corrisponde alla parte di profilo sismico mostrato nella figura in alto a sinistra, i cui elementi principali sono tratteggiati nel riquadro in basso a destra. lo scambio termico tra l’oceano Atlantico Settentrionale e quello Artico. Al di sopra del fondo mare, i profili sismici (Figura qui sopra) mostrano riflessioni che sono provocate da interfacce acustiche (variazioni di densità e velocità acustica) lungo la colonna d’acqua. Queste riflessioni corrispondono alla transizione tra masse d’acqua a diversa densità (diversa temperatura e/o salinità). Per calibrare le immagini sismiche nella colonna d’acqua sono stati utilizzati i dati forniti da alcuni strumenti appartenenti alla metodologia classica degli studi oceanografici: sonde di temperatura (XBT) lanciate durante il rilievo sismico e misure di conducibilità e temperatura (CTD) effettuate durante le soste di calibrazione del rilievo multibeam. Una confortante coerenza si può osservare tra il sismogramma sintetico prodotto con i dati oceanografici misurati (ad es. il profilo di temperatura con XBT) e le tracce sismiche registrate in prossimità della misura (vedi figura in alto a sinistra). Questa metodologia innovativa, chiamata oceanografia sismica, permette di analizzare le caratteristiche fisiche delle masse d’acqua con un dettaglio prima inimmaginabile. Il quadro ottenuto interpolando le classiche misure oceanografiche, tipicamente spaziate di qualche km o decina di km, delinea l’andamento generale dei limiti tra le masse d’acqua, men- tre la sismica oceanografica, con risoluzione orizzontale dell’ordine della decina di metri, descrive nel dettaglio la complessità di tali limiti (vedi figura qui sopra). Le potenzialità di questa metodologia sono enormi, soprattutto considerando che l’analisi di data-set sismici registrati in periodi diversi può permettere di osservare le caratteristiche delle masse d’acqua in diversi tempi storici ed in aree molto più ampie rispetto alle analisi puntiformi effettuate su colonne d’acqua. Ulteriori informazioni sono disponibili al sito: http://www2.ogs.trieste.it/eglacom2008/ doi: 10.1474/Geoitalia-27-03 Geoitalia 2009 Oltre 1750 sono gli abstract proposti per Geoitalia 2009. Si tratta di un numero che pone all’organizzazione problemi logistici, per il numero delle aule che debbono essere reperite e allestite. È necessario che i colleghi aiutino gli organizzatori a superare i problemi, accettando anche piccoli sacrifici. Ma non teniamo conto dei problemi, che troveranno senz’altro la soluzione; l’ampia partecipazione sembra essere un indice di grande vitalità della comunità delle Scienze della Terra. Inoltre la partecipazione all’evento sia di ricercatori che di professionisti è un primo passo per ricostituire il necessario collegamento tra il mondo universitario e della ricerca e il mondo della professione. Anche il numero dei congressisti che si sono sino ad oggi registrati è molto superiore a quello degli eventi precedenti alla stessa data; non sembra avventata la previsione che a consuntivo si potrà contare un numero di partecipanti all’evento che sfiora le 2000 unità. doi: 10.1474/Geoitalia-27-04 6 Geoitalia 27, 2009 L’oro bianco dell’Isola del sole Grado, la stazione balneare più settentrionale d’Italia, alla fine del 1800 era un piccolo paese che viveva di povera pesca e di un turi- ANDREA MARCHESINI, CLAUDIO MARCHESINI smo balneare ai suoi albori. Il 4 aprile dell’anno 1900 rappresen- Dipartimento di Georisorse e Territorio, Università di Udine ta l’inizio di un radicale cambiamento: alle ore 00:45 del 4 aprile, infatti, dal primo pozzo artesiano perforato nel Comune di Grado sgorgò un getto di acqua alto oltre 16 metri. Per Grado (l’Isola del sole) l’acqua ha rappresentato la risorsa che ha cambiato completamente la qualità della vita e l’economia. Il pozzo artesiano perforato da Giulio Thiele L’isola di Grado, situata al limite meridionale dell’omonima laguna all’estremità settentrionale del Mare Adriatico, fu pioniera nello sviluppo del turismo balneare associato alle sabbiature quando, nel 1890, fu inaugurato il primo stabilimento su litorale sabbioso dell’Impero Austro-ungarico. Il turismo d’elite della borghesia progressista mitteleuropea contava su limitate presenze per la nuova moda dei bagni di mare, considerando la scarsissima offerta ricettiva di un piccolo paese di pescatori, raggiungibile dalla terraferma con una traversata in barca di un’ora e mezza. Anche l’acqua potabile solcava la laguna proveniente da Aquileia, un soldo alla mastella, da affiancare alla risorsa delle cisterne per l’acqua piovana. Mentre l’acqua del sottosuolo di Grado sabbioso e argilloso-sabbioso era salmastra, a meno di dieci kilometri a nord, dai pozzi dei cascinali della bassa friulana, l’acqua sgorgava abbondante dalle ghiaie da falde in pressione a poca profondità. L’economia dell’isola viveva di povera pesca; né la qualità della vita né il turismo potevano progredire senza una regolare fornitura d’acqua, specie nei mesi estivi. Si distingueva dalla povertà generale il nostro avo Giuseppe Marchesini, proprietario dell’albergo Alla Posta, del negozio di alimentari, nonché direttore dell’Ufficio Postale e podestà. Era spesso ospite a Grado tale Giulio Thiele, dalla Boemia (anch’essa territorio dell’Impero), proprietario di una ditta di perforazione, il quale, sulla base della sua esperienza, convinse Giacomo Marchesini, uno dei figli di Giuseppe, della possibilità di trovare acqua. Quando nel 1899 questi fu eletto podestà, decise di rivolgere una supplica all’Imperatore Francesco Giuseppe per finanziare lo scavo di un canale navigabile diretto e del pozzo. Ottenuto un finanziamento, il 22 gennaio 1900 Thiele ebbe l’incarico di iniziare i lavori di perforazione con i limitati mezzi di allora: le camicie dei tubi (diametro fra 300 e 120 millimetri) si avvitavano a forza di braccia ed erano affondate a colpi di maglio. Mancano documenti tecnici sul lavoro, forse a causa del rogo che in seguito distrusse l’Ufficio Tecnico del Comune, ma si hanno notizie dalla stampa come “L’Eco del Litorale”. Il 4 febbraio 1900 si raggiunse la profondità di quaranta metri senza trovare acqua bensì un gas infiammabile (individuato in seguito come metano e acido solfidrico). Lenti di argilla si alternavano a sabbia, occasionalmente con torba. A ottanta metri si trovò acqua con getto scarso, inadatta allo scopo, a centocinquanta un’acqua biancastra, non potabile. Il 18 marzo si raggiunsero i centocinquanta metri, a duecento terminò la copertura finanziaria. Il podestà decise di proseguire con fondi personali, chiedendo al Geoitalia 27, 2009 Comune la restituzione della somma solo se si fosse trovata l’agognata acqua. Nella notte del 3 aprile alle ore 23, l’imprenditore boemo avvertì il Podestà, mentre giocava a carte nella sua trattoria, che dalla profondità di duecentosedici metri i fanghi di perforazione restituivano della ghiaia, segno sicuro che l’acqua è vicina. Erano le 00.45 del 4 aprile 1900, quando dall’apertura del pozzo si verificò un’esplosione e un getto di oltre sedici metri di acqua, mista con ciottoli e ghiaia, si proiettò tutt’intorno con fragore. Quella notte la popolazione in festa cantò e ballò. Anche un secolo addietro non mancavano le visite ufficiali dei governanti, come ancora riferisce il citato giornale: Ieri, seconda festa di Pasqua, ha visitato la nostra cittadina sua Eccellenza il sig. 4 aprile 1900, l’acqua sgorga con un zampillo di 16 m - foto: fratelli Marchesini - Grado 7 Luogotenente di Trieste conte von Göss che si è vivamente congratulato con il Podestà per la bella novità del pozzo artesiano. Il primo effetto dell’acqua potabile fu un’immediata e netta diminuzione delle malattie gastro-intestinali perché l’acqua continua a scorrere abbondante e veramente dotata di qualità ottime, migliora ogni giorno e sale già all’altezza di due metri. Sorsero in quegli anni molti alberghi, favoriti dalla costruzione dell’acquedotto comunale per 1700 metri di tubature e già negli anni antecedenti la Prima Guerra Mondiale il turismo divenne attività remunerativa. Le polemiche sui costi del pozzo Sul giudizio dell’importanza dell’acqua potabile a Grado pesa però anche la polemica politica. I Marchesini (in totale hanno espresso quattro sindaci) erano liberali ed antiaustraci, tanto che dopo la disfatta di Caporetto le autorità militari austriache condannarono a morte in contumacia per alto tradimento un altro dei fratelli, Giovanni, nominato sindaco di Grado dalle autorità militari italiane. Il giornale “L’eco del Litorale”, che già il nome stesso qualifica come filoaustriaco (la zona fra Grado e Trieste era chiamata Litorale Austriaco, ma i filoitaliani preferivano il termine Venezia Giulia) il 30 gennaio 1901 scrive: Il famoso corrispondente del “Friuli” pei signori Marchesini ebbe pochi giorni fa la sfacciataggine di pubblicare in quel giornale questa solenne menzogna: “Sotto il regime dei progressisti, a Grado, il benessere regna generale e la prosperità materiale e morale avanza sensibilmente nella via del progresso”. Poi, pur ammettendo che la nuova fontana è certamente un’opera stupenda sostiene che fu per Grado un vero disastro finanziario. L’opera costò in totale 12.000 fiorini, attualizzabili in poco più di 100 000 euro. A quanto pare un secolo fa le polemiche politiche erano molto accese. Le caratteristiche dell’acqua Le relazioni chimico-geologiche dell’epoca riportano che il sottosuolo dell’isola è formato da strati alternantesi di sabbia calcare e argilla di diverse specie, finché si arriva a m. 216,50 di profondità a trovare un forte strato di ghiaia calcarea grossolana, da cui è salita l’acqua potabile. La quantità d’acqua che sale dalla perforazione risulta, da una misurazione fatta nel 1904, di 1500 metri cubi in 24 ore quantità esuberante per la popolazione di Grado, corrispondendo a oltre 300 litri per persona al giorno. L’acqua del pozzo artesiano di Grado fu esaminata diverse volte, e dalle analisi chimiche e bacteriologiche fu trovata una buona acqua potabile. La quantità del residuo totale è, a vero dire, considerevole; essa proviene però dalla ricchezza di cloruri alcalini e di carbonati accanto a minori quantità di calce e di sali di magnesia e quindi non è pregiudicevole. Parimenti le materie ossidabili col permanganato di potassio non sono che innocue sostanze, mentre mancanvi del tutto le combinazioni originate dalla putrefazione di prodotti organici e proprie di un’acqua malsana, come a dire l’ammoniaca, l’acido nitroso e nitrico. Per ciò che riguarda l’insolita ricchezza di cloro, questa non deriva da eventuali infiltrazioni di siffatta sostanza da fogne o letami vicini, sibbene dall’infiltrazione di sali dell’acqua di mare, poiché la ricchezza dell’acqua in alcali sorpassa la ricchezza in cloro. Un’altra prova dell’origine marina del cloro è data dalle sostanze minerali ricavate dalla trivellazione del pozzo artesiano, le quali sostanze contengono in tutti gli strati della perforazione avanzi più 8 o meno copiosi di gusci provenienti da una svariata fauna marina appartenente ai molluschi. L’acqua presentava alcuni «difetti fisici»; il suo leggero colore giallastro e la temperatura di circa 24° centigradi, comunque già apprezzati nelle terme di epoca romana presso la vicina Monfalcone. Il dopo Per migliorare la qualità dell’acqua, dopo circa 80 anni il comune decise di approvvigionarsi dalle falde dell’entroterra ed il pozzo del nostro antenato andò in disuso fino ad interrarsi. In occasione del cinquantenario, sull’edificio dell’acquedotto fu installata una lapide a ricordo dell’evento e al podestà Giacomo Marchesini fu intitolata una via. Per il centenario venne eseguita una rappresentazione teatrale dal titolo: “L’acqua! l’acqua! e fu l’anno del giubileo 1900 - 2000”. Nel 2008 l’acqua del sottosuolo ritornò ad essere un argomento importante a Grado, non per acqua potabile bensì per un pozzo geotermico; l’isola si trova all’estremità di un alto strutturale di carbonati di piattaforma e da 1110 m di profondità sale in superficie acqua a temperatura di 45° da utilizzare tramite scambiatore di calore per teleriscaldamento. Oggi, per ottenere i soldi necessari (circa due milioni di euro) non si va a Vienna, ma a Bruxelles. Le citazioni in corsivo derivano, oltre che dal citato “L’eco del Litorale”, da: Ferruccio De Grassi, 1988 - Grado all’ombra di S. Michele - Edizioni della Laguna, Monfalcone. Antonio Boemo, 1992 - Ritorno a Grado - Edizioni della Laguna, Monfalcone. Taipes, 1904 - L’acqua e il terreno di Grado e del vicino estuario - Atti e Memorie dell’I.R. Società Agraria di Gorizia. doi: 10.1474/Geoitalia-27-05 Geoitalia 27, 2009 Monitorare nel tempo la CO2 in un sito di stoccaggio geologico: possibilità e limiti GIULIANA ROSSI, STEFANO PICOTTI, DAVIDE GEI, JOSÉ M. CARCIONE Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS Introduzione Lo stoccaggio geologico dell’anidride carbonica (CO2), e cioè la sua iniezione controllata in formazioni opportune in profondità, è una delle opzioni possibili per ridurre la concentrazione nell’atmosfera di uno dei più potenti gas-serra, nel periodo di transizione dalle attuali fonti di energia a fonti più pulite. Per poter iniettare grandi volumi di CO2, è opportuno che questa si trovi non allo stato gassoso ma nelle condizioni di fluido supercritico, cioè a T = 31.1°C e P =73.9 bar, condizioni che, considerando gradienti medi di circa 25°C/km per la temperatura e di 100 bar/km per la pressione, si trovano a profondità superiori a 700-800 m. Per scegliere un sito ottimale bisogna trovare una formazione sufficientemente porosa per garantire lo stoccaggio di grandi volumi di CO2, e che si trovi al di sotto di formazioni impermeabili che impediscano la fuoriuscita del fluido. Acquiferi salini profondi ad esempio possono essere siti ottimali di stoccaggio, purché le formazioni sovrastanti siano caratterizzate da permeabilità bassissima e spessore sufficiente da garantire la permanenza della CO2 nel sottosuolo per un arco di tempo di almeno 1000 anni. La scelta di giacimenti di petrolio o di gas, in via di esaurimento, o di formazioni carbonifere che per le loro caratteristiche non sono di facile coltivazione ai fini estrattivi, fa sì che se ne possa trarre anche un beneficio economico. Iniettare la CO2 in giacimenti di gas o di petrolio ne permette infatti una più facile estrazione: si parla di “Enhanced oil/gas recovery (EOR/EGR)”. In entrambi i casi la CO2 agisce ristabilendo la pressione all’interno del giacimento, ma nel caso del petrolio, a seconda delle condizioni di temperatura e pressione e quindi miscibilità tra i due fluidi, si può avere anche una diminuzione della viscosità del petrolio, con conseguente aumento della facilità e velocità di estrazione. Nel caso dei letti di carbone, la CO2 movimenterebbe il metano che viene rilasciato naturalmente da questi consentendone l’estrazione e lo sfruttamento: si parla in questo caso di “Enhanced Coal Bed Methane recovery” (ECBM) (vedi Baines e Worden, 2004). Per queste ragioni, la gran parte dei siti oggetto attualmente di progetti Europei o internazionali per verificare la fattibilità dell’intero processo appartiene a uno di questi casi, per verificare l’efficacia dell’iniezione della CO2, ampiamente dimostrata ed applicata nel caso dei giacimenti petroliferi fin dagli anni ’70 del secolo scorso, ma ancora da dimostrare nel caso di letti di carbone e dei giacimenti di metano, nonostante i molti studi sull’argomento (Kuuskraa e Brandenberg, 1989; Oldenburg et al. 2004). Qualsiasi sia il sito prescelto comunque, uno dei punti chiave, in particolare quando il sito si trovi a terra, è garantire la sicurezza dello stoccaggio. Questo significa garantire l’attendibilità delle previsioni dell’evoluzione della CO2 a lungo termine nel sottosuolo e l’abilità di identificare e misurare qualsiasi perdita anche minima che possa giungere in superficie, cosa che richiede la messa a punto e la realizzazione di un sistema di monitoraggio efficace. Alla base della scelta di uno o più mezzi di monitoraggio tra i Geoitalia 27, 2009 molti a disposizione sono le caratteristiche del sito stesso (caratteristiche geologiche, profondità, volumi da iniettare), gli obiettivi ed i costi. Normalmente, la sismica 3D, eventualmente completata da rilievi di sismica a tre componenti, sismica tra due pozzi verticali (cross-hole) o tra superficie e un pozzo verticale (vertical seismic profiling, VSP), rappresenta il mezzo principe per controllare un sito di stoccaggio nelle diverse fasi che precedono, accompagnano e seguono l’iniezione della CO2 nel sottosuolo, come ampiamente dimostrato nel caso di Sleipner, al largo della Norvegia (p.es. Arts et al. 2004). Circa 2800 tonnellate di anidride carbonica vengono giornalmente estratte dalla produzione di gas del giacimento e, invece di essere rilasciate nell’atmosfera, vengono iniettate nella sovrastante formazione di Utsira, un acquifero salino poroso. Il processo, iniziato nel 1996, è stato oggetto di progetti europei (SACS e SACS 2, GeoStore, CO2ReMoVe) che hanno studiato e studiano in dettaglio l’evoluzione della bolla di CO2, la sua visibilità, le interazioni con le rocce incassanti e tutte le possibili implicazioni per l’ambiente. Le sezioni sismiche ripetute nel tempo sul sito, che mostrano chiaramente posizione e limiti della “bolla” e la sua evoluzione nel tempo sono diventate il manifesto dello stoccaggio geologico della CO2, e possono essere trovate su tutti i siti ed articoli a riguardo. I buoni risultati raggiunti tuttavia, oltre che dall’accuratezza delle indagini svolte ed alle ricerche di punta effettuate per mettere in luce anche le più sottili variazioni del segnale sismico, dipendono anche dalle caratteristiche peculiari della formazione di Utsira. Questo va sottolineato, perché non è detto che ovunque e in tutte le condizioni si possano ottenere risultati altrettanto incoraggianti. La capacità di un rilievo sismico nell’evidenziare variazioni nella saturazione dei fluidi all’interno delle formazioni geologiche dipende infatti a) dalle caratteristiche geologiche del giacimento e degli strati sovrastanti; b) dai parametri sismici adottati per l’esperimento. Sulla base delle prime è possibile tuttavia effettuare un’opportuna modellazione che permetta di valutare come variazioni anche piccole nella saturazione dell’anidride carbonica iniettata possano riflettersi sulle caratteristiche delle onde sismiche che si propagano nel sottosuolo. Uno studio di fattibilità di monitoraggio sismico Nell’ambito del progetto europeo CASTOR (CO2 from CApture to STORage), il gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) coinvolto nel progetto ha effettuato un tale studio per due diversi siti: uno, AtzbachSchwanenstadt, in Austria, nel bacino delle Molasse nell’avanpaese della catena alpina, l’altro, Casablanca, al largo di Barcellona, in Spagna. Nel primo caso, gli strati di arenaria che attualmente contengono metano (il giacimento è in via di esaurimento), a circa 1600 m al di sotto della superficie topografica, si sono formati nel bacino di Puchkirchen, una fossa di acque profonde parallela al fronte alpino. La Rohoel AG sta prendendo in considerazione l’ipotesi di trasformare queste formazioni in un sito di stoccaggio, e sta testando la 9 possibilità di poter migliorare l’estrazione di metano (EGR) con l’iniezione dell’anidride carbonica. Le possibili fonti di CO2 possono essere una cartiera (che emette circa 200.000 tonnellate di CO2 all’anno) ed un impianto per la produzione di fertilizzanti (che emette circa 100.000 tonnellate di CO2 all’anno), mentre il trasporto avverrebbe su gomma (Polak et al., 2006). Nel caso specifico, la presenza di metano residuo nel giacimento potrebbe rendere meno facile controllare l’evoluzione della bolla di anidride carbonica nel sottosuolo rispetto al caso in cui essa venisse iniettata in uno strato saturo in acqua. Diverso è il caso di Casablanca: si tratta di un giacimento in rocce carbonatiche carsificate e fratturate, nell’area di rift della fossa di Valencia. Il bacino è costituito da un basamento mesozoico, coperto da sedimenti neogenici e in qualche tratto da formazioni del Paleocene-Eocene. Una sequenza di argille, calcari e marne e di nuovo argille costituisce il giacimento e il “caprock”. Questo giacimento maturo di petrolio a circa 2400 metri sotto il livello del mare, è in via di esaurimento: la Repsol sta valutando l’ipotesi di usare questo giacimento per iniettarvi circa 500.000 tonnellate di CO2 all’anno provenienti dalla raffineria di Tarragona a circa 43 km di distanza, sulla costa. Un sistema di tubi porterebbe la CO2 al punto di iniezione. A differenza del caso precedente, la CO2 verrebbe iniettata all’interno di un giacimento di petrolio: il contrasto di impedenza tra le fasi gassosa e liquida presenti nel giacimento dovrebbe essere sufficientemente forte da garantire un agevole riconoscimento della “bolla” di CO2 nel giacimento. Tuttavia, la notevole profondità alla quale si trova lo stesso, unitamente alle elevate velocità delle onde sismiche delle formazioni sovrastanti potrebbero ostacolare un classico rilievo sismico di superficie. In entrambi i casi, la fattibilità di un monitoraggio sismico ripetuto nel tempo, i suoi limiti e le sue possibilità sono stati studiati attraverso l’applicazione di un metodo integrato sviluppato dall’OGS che permette di valutare la sensibilità delle proprietà delle onde sismiche a piccole variazioni nel contenuto di CO2, petrolio o CH4, e verificare la fattibilità ed efficacia di un monitoraggio sismico nel tempo sul sito. Alla base del metodo c’è lo studio delle proprietà fisiche delle rocce e dei fluidi (acqua salata, petrolio, metano, anidride carbonica e le loro miscele) che si suppone vi siano contenuti, in modo da simulare i diversi scenari del processo di iniezione (Carcione et al., 2006). Parametri come densità e compressibilità dei fluidi, unitamente alle caratteristiche fisiche come per esempio densità o velocità delle onde sismiche delle rocce sovrastanti e costituenti il giacimento sono necessari per poter simulare acquisizioni sismiche, generando sismogrammi sintetici (Carcione e Helle, 1999; Carcione et al., 2003). L’analisi tomografica dei dati sintetici, effettuata con il pacchetto tomografico sviluppato dall’OGS (CAT-3D; Böhm et al. 1999; Vesnaver e Böhm 2000; Rossi et al., 2007), infine permette di verificare la fattibilità di un monitoraggio sul sito e di mettere a punto i parametri di acquisizione ottimali. I modelli fisici e le simulazioni Il modello geologico è stato costruito sulla base dell’interpretazione dei dati simici, conoscenze geologiche e dati di pozzo, e vi si sono associate le proprietà fisiche relative. La figura qui sotto illustra i due modelli geologici usati per il calcolo delle proprietà sismiche e le successive simulazioni. Per ogni strato presente nel modello, si sono calcolate le proprietà fisiche, e per gli strati interessati, quelle relative a diverse saturazioni dei fluidi presenti. Atzbach-Schwanenstadt Nel primo caso esaminato si è ipotizzato di iniettare la CO2 nello strato 5 del modello, un’arenaria siltosa. Si sono considerate diverse proporzioni di metano e di anidride carbonica, per poter valutare la sensibilità delle proprietà sismiche (per esempio la velocità delle onde). Inoltre si è anche ipotizzato che la CO2 potesse migrare in uno degli strati sovrastanti, per esempio attraverso un pozzo abbandonato, per poter valutare la possibilità di seguirne il cammino. I due modelli geologici (a) Atzbach-Schwanenstadt b) Casablanca, usati per le simulazioni. In arancio gli indici dei diversi strati. 10 Geoitalia 27, 2009 Come ci si poteva aspettare, le variazioni nelle proprietà sismiche sono rilevabili quando l’iniezione viene effettuata in uno strato che contenga solo acqua salata, mentre le variazioni sono molto più piccole in presenza di metano, vista la forte somiglianza delle proprietà fisiche. Una variazione della percentuale di CO2 dal 50% al 90% causa infatti una diminuzione della velocità delle onde P di solo 20 m/s, mentre la forte variazione di densità che vi si accompagna causa una variazione nell’impedenza acustica dello 0.3%. Le onde sismiche subiscono anche una certa variazione nel fattore di qualità Q (inverso dell’attenuazione), che si riflette in una variazione d’ampiezza e frequenza delle ondine sismiche. Questo significa che, se lo scopo dell’esperimento è quello di quantificare variazioni nella concentrazione di CO2 all’interno del giacimento, questo è molto difficile, dal momento che le variazioni relative di velocità ed ampiezza e frequenza delle onde sismiche sono molto piccole. Per verificare quanto sopra, si è simulata una linea sismica coincidente con una delle linee sismiche acquisite nel sito in precedenza. Si sono calcolati i sismogrammi sintetici per la situazione preiniezione (il giacimento è saturo al 66% di metano e acqua salata) e post-iniezione (90% CO2 + 10% metano + acqua salata, con una saturazione dei gas pari al 66%). Come si vede nella figura qui sotto, i sismogrammi mostrano la differenza, ben evidente nel caso che un pozzo permetta la migrazione di una piccola frazione di gas verso l’alto. Differenza in percentuale tra la sezione sismica preiniezione e quella in cui è presente il 90% CO2 e di 10% CH4 nel giacimento ed è ipotizzata una piccola migrazione di gas nello strato immediatamente superiore. a) Sezione sismica sintetica (near trace) pre-iniezione; b) dopo l’iniezione di CO2; viene simulato la migrazione di una piccola parte di CO2 nella formazione sopra il giacimento. Se però si volesse seguire il percorso della CO2 all’interno del giacimento, è da valutare se in presenza di rumore o di una ridotta ripetibilità dei rilievi sismici, le sottili differenze che ne derivano siano distinguibili dal rumore. La figura che segue permette di rispondere affermativamente: per il caso meno favorevole tra tutte le simulazioni, la differenza in ampiezza e frequenza delle ondine tra la sezione sismica senza CO2 e successiva alla sua migrazione verso l’alto sarebbe comunque superiore a quella legata al rumore ipotizzabile. Nonostante quindi le difficoltà che si possono avere nel garantire la ripetibilità di un esperimento sismico, l’eventuale migrazione Geoitalia 27, 2009 di parte del gas dovrebbe essere riconoscibile anche nelle sue primissime fasi, e quindi permettere di seguirne l’evoluzione a garanzia e tutela dell’ambiente. Casablanca In questo caso, si suppone di iniettare la CO2 nei calcari fratturati e carsificati che costituiscono il giacimento (lo strato 3 del modello). Per valutare le variazioni nel tempo delle proprietà sismiche sono state calcolate per lo stato di pre-iniezione (puro petrolio) e dopo l’iniezione, quando si suppone che il petrolio assorba parte della CO2, (come ci si aspetta in un processo EOR), mentre il resto si accumula come gas libero nella parte più alta del giacimento. A causa di questo parziale assorbimento della CO2 da parte del petrolio si ha una variazione di velocità inizialmente forte ma che poi varia molto poco. Questa è però accompagnata da una variazione di densità sufficientemente da dare un contrasto di impedenza che dovrebbe permettere l’identificazione del gas libero. Una forte attenuazione delle onde sismiche al crescere della saturazione in CO2 e della sua presenza in forma di gas libero, inoltre, dovrebbe essere rilevabile da altrettanto forti variazioni in ampiezza e in frequenza del segnale sismico. Le modeste variazioni di velocità che possiamo aspettarci, unitamente alla grande profondità, ne rendono difficile l’esatta rilevazione, anche quando si simuli un’acquisizione con due navi, che potrebbero permettere un ampio intervallo di offset, garanzia per una corretta valutazione delle velocità sismiche. Si è allora proceduto a simulare un diverso rilievo, “cross-hole”, 11 utilizzando due pozzi abbandonati ai margini del giacimento, uno per porvi delle sorgenti, l’altro dei ricevitori in ascolto. Le onde sismiche quindi attraversano il giacimento, portando la diretta informazione sul mezzo attraversato e sulle eventuali variazioni nel tempo. Si sono calcolati i sismogrammi sintetici prima dell’iniezione (solo petrolio) e dopo. Per simulare in maniera realistica il progressivo rilascio di gas-libero nella parte alta del giacimento, le proprietà di questo passano gradualmente dallo stato di olio saturo in CO2 (al fondo) a quelle di petrolio oltre il limite di saturazione, per finire con CO2 libera (in alto). Nella figura qui a lato la sfumatura è indicativa di questo graduale passaggio. Una sezione 2D attraverso il modello. Il rettangolo blu indica l’area della modellazione. Le proprietà del giacimento passano gradualmente dalle condizioni di olio saturo in CO2 al fondo, a quelle di CO2 libera (in alto). Due istanti del processo di modellazione. a) a 200 ms dallo scoppio, l’energia si propaga in entrambe le direzioni a partire dal pozzo 3 (linea rossa sulla sinistra). b) 4000 ms dopo lo scoppio: l’energia si sta propagando verso il pozzo 14 (linea rossa sulla destra). Nella figura qui sopra si può vedere come l’energia sismica si propaghi più rapidamente nella parte più profonda del modello, a causa delle alte velocità. I sismogrammi calcolati prima e dopo l’iniezione (Figura successiva, a e b) mostrano le differenze che ci si aspettava (Figura successiva, c), confermando la bontà dell’ipotesi di un rilievo cross-well per un efficace monitoraggio all’interno del giacimento. Conclusioni I due casi analizzati sono due casi di stoccaggio della CO2 ben diversi dal caso di Sleipner, dal punto di vista di un monitoraggio sismico. Il primo è un giacimento di gas a terra, in cui le variazioni nella saturazione in CO2 possono essere mascherate dalla presenza di metano residuo nel giacimento, e dove le fluttuazioni stagionali della tavola d’acqua, per esempio, possono rendere difficile l’individuazione di piccole variazioni nel tempo dei caratteri sismici. Il secondo è un giacimento di petrolio in rocce carbonatiche a grande profondità. La pur marcata variazione di velocità che si ha iniettando una fase gassosa nel petrolio può essere mascherata in un rilievo 12 sismico dalla superficie a causa delle grandi profondità, e della velocità relativamente alta degli strati sovrastanti. In entrambi i casi tuttavia, un’accurata modellazione come quella qui proposta permette di valutare difficoltà e possibilità di un rilievo sismico e di mettere a punto un opportuno dispositivo di acquisizione, nonché di effettuare un’elaborazione (processing) che rispetti al massimo i rapporti di ampiezza e frequenza. Sia per il giacimento poroso che per quello carbonatico si è visto infatti come possa essere attraverso l’esame di variazioni in impedenza acustica o in ampiezza e frequenza che si possono mettere in luce piccole variazioni di CO2 indicative di possibili migrazioni della stessa. Se per il secondo caso l’uso di un rilievo cross-well rappresenta l’unico modo per poter seguire con sufficiente accuratezza l’evoluzione della bolla di CO2 all’interno del giacimento, nel primo caso anche un rilievo di superficie può essere sufficiente, purché vengano effettuati tutti gli accorgimenti possibili per garantire il massimo della ripetibilità dello stesso. Questi sono solo due casi possibili: parte delle conclusioni qui Geoitalia 27, 2009 a) Sezione sismica sintetica da una simulazione ad onda piana corrispondente al rilievo pre-iniezione. b) lo stesso, dopo l’iniezione. c) La differenza tra a e b. riassunte possono essere utili in casi simili, ma per garantire un efficace monitoraggio sismico in un sito è necessario procedere ad una modellazione del tipo qui proposto, che prenda in considerazione le specifiche caratteristiche geologiche del sito. Ringraziamenti. Il lavoro è stato effettuato nell’ambito del progetto CASTOR: si ringraziano tutti i partner ed in particolare Rohoel AG e Repsol per gli utili suggerimenti e per la collaborazione. Riferimenti bibliografici Arts, R., Eiken, O., Chadwick, A., Zweigel, P., Van der Meer, B. e Kirby, G. [2004] In: Baines S. J. e Worden R. H. (eds). Geological storage of carbon dioxide, Geological Society London, Special Publications 233, 181-191. Baines, S. J. e Worden, R. H. [2004] In: Baines S. 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Roberto Menia, il Ministro plenipotenziario per gli Affari Esteri Daniele Verga, l’Ambasciatore di Norvegia e rappresentanti degli altri enti di ricerca - colleghi danesi e norvegesi inclusi - i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS hanno esposto, presso la sede del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, i risultati della Campagna scientifica EGLACOM, svoltasi alle Isole Svalbard (8 luglio-4 agosto 2008) a bordo della nave OGS EXPLORA. Cinque gli obiettivi messi in agenda. Capire l’evoluzione del clima del passato esaminando le tracce dei cambiamenti climatici racchiuse nei fondali marini. Studiare la stabilità dei fondali, per comprendere quali sono le condizioni destabilizzanti che possono favorire il verificarsi di tsunami. Capire le dinamiche che regolano lo scambio di acque artiche fredde e dolci, e quelle atlantiche calde e salate. Indagare il “ciclo del carbonio” e il suo influsso sugli organismi marini. Studiare i gas idrati intrappolati nei fondali marini, che risentono dei cambiamenti climatici e che potrebbero risalire in superficie accumulandosi in atmosfera. Al di là dei molti risultati scientifici, preme sottolineare le sinergie che si sono create fra mondo della ricerca e industria, sinergie che stanno alimentando nuovi progetti e stimolando nuove idee. … e la festa continua. Cristina Serra doi: 10.1474/Geoitalia-27-07 Geoitalia 27, 2009 13 Minerografia, una scienza da riscoprire IDA VENERANDI PIRRI Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze della Terra “A.Desio”, [email protected] Tra le discipline facenti parte delle Scienze della Terra, la Minerografia ovvero lo studio in luce riflessa delle paragenesi metallifere, è certamente una delle più trascurate, se non misconosciute, almeno in Italia. Del resto la tendenza generale degli specialisti è quella di affidarsi prioritariamente alle tecniche di microscopia elettronica piuttosto che alla microscopia ottica in luce riflessa la quale certamente fornisce, dei singoli minerali, caratteri ottici soltanto qualitativi che risultano però identificativi anche per le specifiche tessiture e per il contesto in cui essi si trovano associati. In contrasto con la generale tendenza a dedicare meno tempo all’insegnamento dell’ottica cristallografica, il giacimentologo canadese Clark (2007), esperto di giacimenti a Cu-Ni, e il geologo americano Watson (2007) lamentano la perdita o la riduzione, nei programmi curriculari delle lauree di primo grado successivi agli anni ’80, di alcune materie fondamentali quali la mineralogia e la petrologia che, anche attraverso la microscopia ottica, costituiscono un background essenziale per la conoscenza delle rocce e dei processi geologici che le hanno generate, in considerazione poi del fatto che la maggior parte degli studenti universitari diplomati in geolo- a b c d e a b c d f Figura 1 - Paragenesi legate a rocce ignee mafiche e ultramafiche: a Cr. a) Cromite cumulitica (1N, 25x, Transition Lake-Canada); b) Solfuri di intercumulus tra i cristalli di cromite: (rispettivamente da sinistra a destra) cubante, calcopirite, pentlandite+ mackinawite, pirrotina (1N, imm.,15 x, Transition Lake-Canada); a Cu-Ni–Fe: c) Mineralizzazione a calcopirite (giallo), pirrotina (grigio rosato), pentlandite (giallo crema) sostituita da violarite, con magnetite di neoformazione (grigio scuro) (1N, 80x, Fei di Doccio-Valsesia); d) Pirrotina (crema rosato), pentlandite, in vene e fiamme, Ti-magnetite. Sostituita selettivamente da pirrotina (1N, imm., 75x, Sudbury-Ontario); e) smistamenti di mackinawite in pentlandite, entro pirrotina + cubante (in celeste) (1N, imm., 75x, Valmaggia-Valsesia); f) Calcopirite in lamelle di inversione entro pirrotina i n tessitura di smistamento in due fasi (N+, 70x, Fei di Doccio-Valsesia). 14 gia durante la propria carriera non avrà mai accesso a una microsonda elettronica mentre potrà ricorrere utilmente alla pratica della microscopia. Occorre tuttavia notare come ultimamente, almeno a Milano, oltre a un rinnovato interesse verso la Minerografia da parte degli studenti della laurea specialistica, anche su Riviste quali Mineralium Deposita siano sempre più frequentemente riportate microfotografie in luce riflessa di paragenesi metallifere. Naturalmente la qualità delle osservazioni dipende strettamente dalla raffinatezza delle tecniche di preparazione delle sezioni. A questo proposito è necessario poter disporre di superfici perfettamente lucide, senza graffi e senza rilievo, che si ottengono attraverso la lucidatura su disco di piombo e ciò comporta la presenza di un laboratorio attrezzato allo scopo e di un tecnico capace. Se infatti la preparazione delle sezioni sottili non comporta particolari difficoltà, quella delle lucide richiede una serie di passaggi delicati per evitare di danneggiare le superfici da trattare e di creare “dislivelli” lungo il contatto tra minerali duri e teneri. Origine della Minerografia Dopo il primo tentativo del chimico Berzelius di lucidare un campione di pirrotina per studiarne la composizione chimica, la scienza della Minerografia si è sviluppata in ambito anglosassone dove vanta studi assai raffinati da parte di Schneiderhöhn e Ramdohr, co-autori di un Trattato sulla microscopia in luce riflessa e autore quest’ultimo di una fondamentale opera (Ramdohr, 1960) successivamente tradotta in inglese e ritenuta la Bibbia del giacimentologo. Ma, sempre in ambito anglosassone, altri importanti manuali sono opera di Cameron, Craigh & Vaughan, Ixer, Uytenbogaardt, per non citare che i principali. In Italia si deve a Dino di Colbertaldo l’aver raccolto e messo in pratica negli anni ’40 del secolo scorso gli insegnamenti dell’amico Schneiderhöhn, gra- Figura 2 - Paragenesi vulcano-sedimentarie a Cu-Fe-Zn legate a complessi ofiolitici VMS non metamorfiche. g) Tessitura brecciolare della mineralizzazione a calcopirite (giallo), pirite (giallo pallido) e blenda cristallina (grigio bluastro) finemente concresciuta con calcopirite. In nero ganga (1 N, 70x, Corchia, Toscana); h) Tessitura brecciolare e d’incrostazione di pirite (giallino chiaro), calcopirite (giallo zolfo) e subordinata blenda (1N, 70x, Corchia, Toscana); VMS metamorfiche. i) Pirite zonata con relitti di calcopirite lungo le zone di accrescimento -1N, 65x, Ollomont - Valle d’Aosta; l) - Aggregati di solfuri (pirite, calcopirite, pirrotina, blenda) e magnetite orientati entro la matrice silicatica (1N, 37x, S.Valentino di Predoi - Valle Aurina). Geoitalia 27, 2009 ti su giacimenti di differenti tipologie, sia della Sardegna che della Penisola, lo studio in luce riflessa, spesso congiunto ad analisi alla microsonda, è stato determinante, sia per definire le paragenesi, le tessiture, l’eventuale zonalità e l’evoluzione dei processi metallizzanti, sia per individuare nuovi minerali. È stato così possibile individuare nel Devonico della Catena Carnica una zonalità dell’orizzonte mineralizzato a Pb-Zn-Cu corrispondente a singole aree paleogeografiche oppure individuare per la prima volta nel giacimento dell’Argentiera, ma successivamente anche in altri giacimenti sardi, la willyamite, un minerale nuovo per l’Italia, descritto per la prima volta a Broken Hill e poi segnalato in Europa soltanto a Tunaberg in Svezia e a Espeland in Norvegia. a b Fig. 4 - Orlo di accrescimento di willyamite attorno a ullmannite (N+, imm., 85x. L’Argentiera – Nurra). c d Figura 3 - Paragenesi sedimentarie: a Pb – Zn. a) Successive deposizioni con sostituzioni reciproche di blenda (grigio scuro), galena (grigio chiaro), pirite (giallino e giallo-bruno) in più generazioni (1N, 70x. Raibl); b) Particolare di un cristallo cubico di galena sostituito pseudomorficamente da blenda gialla colloforme fino alle “strutture primarie” altamente cristalline (N+, 15x. Salafossa); c) Mineralizzazione polifasica a blenda (grigio), pirite colloforme zonata e galena (in frammenti nella breccia e in relitti nella blenda) (1N, 15x. Raibl); a Fe-oolitico. d) Ooliti a magnetite ricristallizzata in blasti a spese di un’originaria siderite. La matrice è costituita da siderite (più chiara) e chamosite (1N,10x. Canaglia – Nurra). zie anche alla lungimiranza e al supporto economico del Direttore della Raibl-Società Mineraria del Predil, ing. Nogara. Insegnamenti introdotti poi nei Corsi di Giacimenti Minerari tenuti a Padova e Milano mediante una parte irrinunciabile costituita dalla pratica della microscopia in luce riflessa e grazie all’allestimento di un laboratorio attrezzato secondo le più moderne tecniche. Successivamente a partire dal 1980 la Minerografia ha acquisito dignità di insegnamento indipendente. Scopi e finalità della Minerografia Scopo principale della Minerografia è lo studio in luce riflessa delle paragenesi metallifere, volto a individuare i diversi minerali e le loro associazioni e tessiture, i loro rapporti reciproci e quelli con la roccia incassante e in definitiva a contribuire all’interpretazione della genesi di un dato giacimento integrando la parte di laboratorio con i risultati del rilevamento sul terreno e in sottosuolo. Una panoramica delle associazioni più caratteristiche è esposta nelle figure. In alcuni casi, già un primo riconoscimento delle paragenesi e delle tessiture può servire a identificare i vari ambienti di deposizione, ma i dati riscontrati, essenziali per ricostruire l’evoluzione del processo metallizzante attraverso i rapporti tra i vari minerali, costituiscono la base per ulteriori analisi microchimiche volte a precisare la composizione chimica delle paragenesi metalliche. Inoltre l’applicazione della microscopia ottica in luce riflessa è utile per definire quei minerali delle rocce che spesso vengono genericamente ”liquidati” dai petrografi come “opachi”. Negli studi a prevalente carattere minerografico da me effettuaGeoitalia 27, 2009 Nello stesso giacimento dell’Argentiera la galena, apparentemente omogenea sul campione a mano, si è rivelata invece ricchissima di inclusioni orientate di aghi di boulangerite, mentre i principali portatori di Ag sono costituiti da tetraedrite argentifera e freibergite, come confermato dalle analisi alla microsonda. Così pure lo studio comparativo minerografico e microanalitico a b c d e f Figura 5 – Skarn a solfuri misti. a) Inversione di struttura con paramorfosi in lamella di cubante smistata in calcopirite. Plaga poligonale di pirrotina e plaghette bianche di mackinawite e valleriite (sul bordo della calcopirite) (N+ sfasati, imm., 110x, Traversella); b) Lamelle di molibdenite in calcopirite con struttura a lamelle di geminazione (N+, imm., 85x. Traversella); c) Calcopirite contenente sottili lamelle di smistamento di mackinawite, sostituita da valleriite (bruno). In grigio magnetite. In nero i silicati dello skarn (1N, imm., 100x. Traversella); d) Lamelle di ematite con tipici riflessi interni (N+, imm., 110x. Campiglia Marittima); e) Smistamenti scheletrici e stellari di blenda in calcopirite (1N, 65x. Sa Marchesa – Sulcis); f) Mineralizzazione a solfuri misti entro i silicati lamellari (1N, 50 x. Traversella). 15 tra i componenti delle sabbie ferrifere e gli opachi delle formazioni vulcaniche oligo-mioceniche del litorale di Bosa è servito a evidenziare una certa loro consanguineità per la comune presenza, sia di un termine manganesifero di ilmenite, sia di particolari tessiture di smistamento negli aggregati ilmenite-ematite e/o rutilo. Inoltre la presenza di note manifestazioni manganesifere nella zona di C. Marargiu localizzate sia entro le vulcaniti stesse, sia al contatto con i sovrastanti calcari miocenici, è stata correlata alla presenza nelle vulcaniti di vene di circolazione tardiva contenenti sciami di pirolusite attorno all’ilmenite in stretto rapporto di sostituzione dell’ilmenite stessa. a b c d e f Applicazione della Minerografia alla risoluzione di problemi di trattamento La microscopia in luce riflessa, corredata all’occorrenza dal dispositivo ultraopaco, costituisce inoltre uno studio di fondamentale importanza ai fini della valutazione delle potenzialità economiche di un giacimento. Non bastano infatti le sole analisi chimiche effettuate sui campioni selezionati a caratterizzare la valenza economica di una mineralizzazione pur promettente dal punto di vista geologico, geografico, strategico. Dagli esempi qui proposti si può rilevare come l’esame al microscopio, oltre a consentire l’identificazione dei minerali formati dagli elementi determinati per via chimica, permetta di valutare il loro tipo di concrescimento, le dimensioni dei singoli granuli, la geometria delle superficie Fig. 7 – Vene di circolazione tardidi contatto tra i diversi minerali, il va di pirolusite attorno a plaghe di ematite con lamelle di Mn-ilmeniloro grado di liberazione, tutti te (1N, imm., 110x. C. Marargiu – parametri importanti per la scelta Bosa). dei processi di trattamento (tipo di macinazione primaria, flottazione, separazione magnetica, gravimetrica, dissoluzione, ecc.) più idonei a ricavare tenori in metallo confrontabili con quelli determinati dalle analisi chimiche e ottenere concentrati mercantili il più possibile puri, di monitorare le variazioni di composizione della mineralizzazione col procedere della coltivazione e di controllare i processi di estrazione e di trattamento metallurgico dei metalli. Uno studio microscopico preliminare serve anche a identificare i “minerali paganti”, come i solfosali di argento di solito associati alla galena, l’oro nella calcopirite o al contrario i cosiddetti “ospiti indesiderati”, come ad es. il bismuto nella galena, o ancora quei minerali sia metallici che di ganga che sono di ostacolo a determinati processi di ricupero e di arricchimento. Anche in mancanza di metodi standard applicabili a ogni tipo di mineralizzazione, alcune linee guida sono contenute nelle classiche opere di Amstutz, Rehwald, Schwartz, Edwards. In ogni caso occorre disporre di campionature abbondanti e accurate e lavorare su sezioni prive di rilievo onde evitare di scambiare come caratteristiche fisiche (porosità, fessure) soltanto difetti di lucidatura. Bibliografia g h Figura 6 - Mineralizzazioni problematiche ai fini del trattamento in laveria. g) Blenda finemente infiltrata da calcopirite lungo i piani strutturali. Galena e calcopirite di neoformazione (plaghe grigie) sono qui indistinguibili (N+ sfasati, 170x. Baccu Locci Gerrei); h)La galena, ricca di finissime inclusioni orientate di boulangerite è sostituita selettivamente da siderite. In nero il quarzo (1N, 90x. L’Argentiera – Nurra); i)Cementazione meccanica di nodulo di pirite brecciato e stirato lungo la scistosità, da parte di antimonite contenente paghette di oro (1N, 500x.Villasalto – Gerrei); l)Concrescimento mirmechitico di pirite e magnetite, parzialmente ossidata in ematite (grigio azzurro), sviluppatesi a spese di pirrotina. Sulla sinistra vena di ilvaite. In associazione blenda (plaghe grigio bluastre) e calcopirite (giallo) (1N, imm.75x. Campiglia Marittima); m) Blenda con inclusioni e pellicole intergranulari di calcopirite (la cosiddetta “chalcopyrite disease”) (1N, 70x. Perda Majori - Salto di Quirra); n) Tessitura milonitica e di ricristallizzazione in pirrotina, blenda (grigio bluastro), galena (grigio chiaro) e calcopirite (giallo) con pirite pecilitica e arsenopirite (bianco a losanga) (1N, 70x. Valleille Gran Paradiso); o)Pentlandite in plaghe e smistamenti a fiamma entro pirrotina. In grigio magnetite, in giallo calcopirite. Con la separazione magnetica, le fiamme vengono eliminate insieme alla pirrotina (1N, 75x. Sudbury); p) La tessitura “cellulare” della mineralizzazione in skarn a solfuri misti finemente implicati con i silicati fibrosi rende difficoltosa la separazione dei solfuri (1N, 50x. Sa Lilla – Sarrabus). 16 Amstutz, G.C. (1961) – Microscopy applied to mineral dressing. Colo.School of Mines, 56, 443-484 Cameron (1960) – Ore microscopy, Clark T. (2007) - Elements, 3, n.3, p.156 Craigh J.R.& Vaughan D.J. (1981) - Ore microscopy and ore petrography. Wiley & Sons, New York. Edwards A.B. (1954) – Textures of the Ore Minerals and their significance. Aust.Inst.Min.Metall., Melbourne Ixer R.A. (1990) – Atlas of opaque and ore minerals in their associations. Open University Press, Buckingham. Ramdohr P. (1960) – Die Erzmineralien und ihre Verwachsungen. Akademie Verlag, Berlin. Rehwald,G. (1965) – The application of ore microscopy in beneficiation of ores of the precious metals and of the nonferrous metals. In H.Freund, ed. Applied Ore microscopy.Macmillan,New York Schneiderhöhn H. & Ramdohr P. (1931) - Lehrbuch der Erzmikroskopie. Verlag von Gebrüder Borntraeger, Berlin. Schwartz, G.M. (1938) – Review of the application of microscopic study to metallurgical problems. Econ. Geol. 33, 440-453 Uytenbogaardt, W.& E.A..J.Burke (1971) – Tables for microscopic identification of ore minerals. Amsterdam: Elsevier. Venerandi I. (1999) – Corso di Minerografia, ISU-Università degli Studi di Milano, pagg.236 Watson E. B. (2007)– Geoscience Curricula for the 21stCentury – Editorial,. Elements, 3, n.6, p.371. doi: 10.1474/Geoitalia-27-08 Geoitalia 27, 2009 Padre Benedetto Castelli, il pluviometro e il lago Trasimeno LUCIO UBERTINI, CESARE RODA Sapienza, Università di Roma; Università di Udine Benedetto Castelli, insigne benedettino discepolo, amico fedele e strenuo difensore del Sommo Pisano Galileo, nacque a Brescia nel 1578 ed entrò a diciassette anni nell’Ordine benedettino. Della sua vita nei primi trenta anni non si hanno molte notizie certe. È probabile, ma non sicuro, che passò qualche anno a Firenze accanto a Galileo, prima di insegnare Matematica a Pisa dal 1613 e di essere chiamato da Papa Urbano VIII, dal 1626 alla Sapienza di Roma “ … collo stipendio di 150, poi di 200 scudi”. In una lettera scritta da Galileo il 30 dicembre 1610 viene invitato a Firenze: “Ho con grandissimo gusto sentito il Suo pensiero di venire a stanziare a Firenze, il quale mi rinnova la speranza di poterla ancor godere e servire per qualche tempo ………. Orsù venga a Firenze, che ci godremo, e avremo cose nuove e ammirande da discorrere”. Benedetto Castelli fu sempre in corrispondenza con Galileo, e numerose sue lettere si sono conservate. Nel 1628 viene pubblicata l’opera più importante di Benedetto Castelli: Della misura dell’acque correnti, trattato di riferimento per tutti gli studi successivi di idraulica fluviale. Nel 1639 a Perugia egli ideò, presso l’abbazia di S. Pietro, il pluviometro per misurare l’intensità di pioggia, la cui sperimentazione fu oggetto di un intenso scambio di opinioni e interpretazioni con Galileo per studiare le oscillazioni del lago Trasimeno. Nel Box a lato è riportata la Lettera di Padre Benedetto Castelli a Galileo Galilei (ad Arcetri), Roma 18 Giugno 1639, nella quale sono descritte le operazioni di misura e le sue deduzioni. L’invenzione del pluviometro è stata fondamentale per associare alla misura della pioggia il tempo. Sembra che studiosi di altri Paesi, tra i quali un coreano durante il regno del re Seiong (14191450), avessero già introdotto la misura della precipitazione con un “vaso” cilindrico, ma l’aspetto fondamentale della durata della pioggia non sembra fosse stato mai considerato prima di Benedetto Castelli. Comunque, dopo quattro secoli, il pluviometro, pur essendo stato realizzato in diversi modi, è ancora l’unico strumento per misurare la pioggia in maniera diretta. In una lettera del 1639, avendo perduta la speranza di vedere applicate le sue conoscenze alla corretta gestione del lago Esemplare di pluviometro Corea anno 1770 Geoitalia 27, 2009 Trasimeno, Benedetto Castelli così scrive a Galileo: “Io ho risoluto di attendere da qui avanti al vino e lasciar l’acqua; dico di attenderci in prattica; ma in speculativa, da diversi accidenti che si sono osservati nella corrente siccità e da alcune osservazioni mie particolari, congiongendo tutto con le conseguenze dependenti da quel poco che io ho scoperto nel mio trattato “Della misura dell’acque”, inclino assai ad affermare che l’origine dei fiumi e di fontane dependa tutto da queste conserve d’acqua, delle quali parte si scoprono manifeste, come sono i gran laghi, e parte sono riposte nelle segretissime viscere della natura. La materia è bella, assai vasta e sin hora ci trovo di gran riscontri. Non so come mi riuscirà spiegarla: andarò faticando e farò quello che potrò, e di tutto darò parte a V. S. Ecc.ma, alla quale fo riverenza.” Castelli esprime più volte il Suo affetto e stima verso il Maestro e l’ultima sua lettera del 1640, ispirata ad alcune osservazioni fatte intorno a Saturno, cosi conclude: “Non posso al vivo esprimere tutto quello che è passato intorno al mio negozio nella licenza proccurata di venire a Firenze ma spero ancora, che un giorno V.S. Molto Illustre Modello di pluviometro a bascula resterà meravigliata. Basta: non si poteva fare di più di quello che si è fatto: cui conviene abbassar la testa ed avere pazienza: piace così a Dio; dee piacere anche a me”.* Castelli morì a Roma nel 1643 “lasciando immortal memoria di se medesimo non solo nelle sue opere, ma ancora ne’ valorosi discepoli che’ ci venne fornendo, tra’ quali ottennero gran nome il Torricelli e il Borelli e il p. Cavalieri”. *Antonio Favano, Le Opere di Galileo Galilei, Società Editrice Fiorentina, 1848. 17 Molto Ill.re Sig.re e P.ron Col.mo Per soddisfare a quanto promisi a V. S. molto Ill.re con le passate mie, di rappresentargli certa mia considerazione fatta sopra il lago Trasimeno, li dico che a’ giorno passati ritrovandomi a Perugia, dove si celebra il nostro Capitolo generale, havendo inteso che il lago Trasimeno, per la gran siccità di molti mesi era abbassato assai, mi venne curiosità di andare a riconoscere oculatamente questa verità, e per mia particolare sodisfazione ed anco per potere riferire, venendo l’occasione a’ Padroni il tutto con la certezza della visione del loco. E così gionto alla bocca dell’emissario del lago, ritrovai che il livello della superficie del lago era abbassato cinque palmi romani in circa della solita sua altezza, in modo che restava più basso della solia dell’imboccatura dell’emissario quanto è lunga la seguente linea (39 mm.); e però non usciva dal lago punto d’acqua, con grandissimo incomodo di tutti i paesi e castelli circonvicini, per rispetto che l’acqua solita di uscire dal lago fa macinare 22 moli di molini, le quali non macinando necessitavano tutti gli habitatori di quei contorni a caminare lontano una giornata e più per macinare al Tevere. Ritornato che fui in Perugia, seguì una pioggia non molto grossa, ma continovata assai ed uniforme, quale durò per ispazio di otto hore in circa; e mi venne in pensiero di volere essaminare, stando in Perugia, quanto con quella pioggia poteva essere cresciuto il lago e rialzato, supponendo (come haveva assai del probabile) che la pioggia fosse universale sopra tutto il lago, ed uniforme a quella che cadeva in Perugia: e così preso un vaso di vetro, di forma cilindrica, alto un palmo in circa e largo mezzo palmo, ed havendogli infusa un poco d’acqua, tanta che coprisse il fondo del vaso, notai diligentemente il segno dell’altezza dell’acqua del vaso, e poi l’esposi all’aria aperta a ricevere l’acqua della pioggia, che ci cascava dentro, e lo lasciai stare per ispazio d’un’hora; ed havendo osservato che nel detto tempo l’acqua si era alzata nel vaso quanto la seguente linea (9 mm.), considerai che se io havessi esposti alla medesima pioggia altri simili ed eguali vasi, in ciascheduno di essi si sarebbe rialzata l’acqua secondo la medesima misura: e per tanto conclusi, che ancora in tutta l’ampiezza del lago era necessario che l’acqua si fosse rialzata nello spazio d’un’hora la medesima misura. Qui però mi sovvennero due difficoltà, che potevano intorbidire ed alterare un tale effetto, o almeno renderlo inosservabile, le quali poi considerate bene e risolute, come dirò più abbasso, mi lasciorono nella conclusione ferma che il lago doveva essere cresciuto nella spazio di otto hore, che era durata la pioggia, otto volte tanto. E mentre io, di nuovo esponendo il vaso, stava replicando l’operazione, mi sovvenne un ingegno per trattare meco di certo interesse del nostro monasterio di Perugia; e ragionando con seco, li mostrai il vaso dalla finestra della mia camera, esposto in un cortile, e li comunicai la mia fantasia, narrandogli tutto quello che io havevo fatto. All’hora m’avviddi che questo galant’huomo formò concetto di me che io fossi di assai debole cervello, imperocchè sogghignando disse: Padre mio, v’ingannate, io tengo che il lago per questa pioggia non sarà cresciuto nemmeno quanto è grosso un giulio. Sentendolo io pronunziare questa sua sentenza con gran franchezza e resoluzio ne, li feci istanza che mi assegnasse qualche ra gione del suo detto, assicurandolo che io avrei mutato parere alla forza delle sue ragioni; ed egli mi rispose, che aveva grandissima prat tica del lago, e che ogni giorno ci si trovava sopra, e che era molto bene sicuro che non era cresciuto niente. E facendoli io pure istanza che mi significasse qualche ragione del suo detto, mi mise a considerazione la gran siccità passata, e che quella pioggia era stata come un niente per la grande arsura: alla qual cosa io risposi: “Signore, io pensavo che la superficie del lago, sopra della quale era cascata la pioggia, fosse bagnata”, e che però non vedevo come la siccità sua, che era nulla, potesse havere sorbito, per così dire, parte nessuna della pioggia. In ogni modo, persistendo egli nella sua opinione senza punto piegarsi per il mio discorso, mi concesse alla fine (credd’io per farmi favore) che la mia ragione era bella e buona, ma che in prattica non poteva riscire. All’hora, per chiarire il tutto, io feci chiamare uno, e di lungo lo mandai alla bocca dell’emissario del lago, con ordine che mi portasse semplicemente raguaglio come stava l’acqua del lago in rispetto alla solia dell’imboccatura. Hora qui, sig. Galileo, non vorrei che V. Sig.ria pensasse che io mi avessi accomodata la cosa fra le mani per stare su l’honor mio; ma mi creda (e ci sono testimoni viventi), che ritornato in Perugia la sera il mio mandato, portò relazione che l’acqua del lago cominciava a scorrere per la cava, e che si trovava alta sopra la solia quasi un dito in grossezza; in modo che congionta questa misura con quella che misurava prima la bassezza della superficie del lago sotto la solia avanti la piaggia, si vedeva che l’alzamento del lago cagionato dalla pioggia era stato a capello quelle quattro dita che io avevo giudicato. Due giorni dopo, abbattutomi di nuovo con l’ingegnero, li raccontai tutto il fatto, e non seppe che replicarmi. Le due difficoltà poi, che mi erano sovvenute, potenti a conturbarmi la mia conclusione o almeno la osservazione, erano le seguenti. Prima, considerai che poteva essere che spirando il vento dalla parte dell’emissario verso le riviere opposte del lago, havrebbe caricata la mole, e la massa dell’acqua del lago verso le riviere contrapposte, sopra delle quali alzandosi l’acqua, si sarebbe sbassata all’imboccatura dell’emissario, e cosi sarebbe oscurata assai l’osservazione. Ma questa difficoltà restò totalmente sopita dalla grande tranquillità dell’aria, che si conservò in quel tempo, perchè, non spirava vento da parte nessuna, nè mentre pioveva, nè meno dopo la pioggia. La seconda difficoltà, che mi metteva in dubbio l’alzamento, era che havendo io osservato costì in Firenze ed altrove quei pozzi che chiamano smaltitoi, nei quali concorrendo le acque piovane de’ cortili e case non li possono mai riempire, ma si smaltisse tutta quella copia d’acqua, che sopraviene, per le medesime vene che somministrano l’ac- qua al pozzo, in modo che quelle vene, che in tempo asciutto mantengono il pozzo, sopravenendo altra copia d’acqua nel pozzo, la ribevono e l’ingoiano; cosi ancora un simile effetto poteva seguire nel lago, nel quale ritrovandosi (come ha del verosimile) diverse vene che mantengono il lago, queste stesse vene haverebbero potuto ribevere la sopravenente copia d’acqua per la pioggia, e in cotal guisa annichilare l’alzamento, overo scemarlo in modo che si rendesse inosservabile. Ma simile difficoltà risolsi facilmente con le considerazioni del mio trattato: Della misura delle acque correnti. Imperocchè, havendo io dimostrato che l’abbassamento del lago alla velocità del suo emissario ha reciprocamente la proporzione che ha la misura della sezzione dell’emissario del lago alla misura della superficie del lago, facendo il conto e calcolo alla grossa, con supporre che le vene sue fossero assai ample e che la velocità dell’acqua per esse fosse notabile nell’ingiottire l’acqua del lago, in ogni modo ritrovai che, per ingoiare la sopravenuta copia d’acqua per la pioggia, si sarebbero consumate molte settimane e molti mesi: di modo che restai sicuro che sarebbe seguito l’alzamento come in effetti è seguito. E perchè diversi di purgato giudicio mi hanno di più posto in dubbio questo alzamento, mettendo in considerazione che essendo per la gran siccità, che haveva regnato, disseccato il terreno, poteva essere che quella striscia di terra che circondava gli orli del lago, ritrovandosi secca, assorbendo gran copia d’acqua del crescente lago, non lo lasciasse crescere in altezza; dico pertanto che se noi consideraremo bene questo dubbio che viene proposto, nella medesima considerazione lo troveremo risoluto. Imperocchè, concedasi che quella striscia di spiaggia di terreno che verrà occupata dalla crescenza del lago, sia un braccio di larghezza intorno al lago, e che, per essere secca, s’inzuppi d’acqua, e però questa porzione di acqua non cooperi all’altezza del lago; conviene ancora in ogni modo che noi consideriamo, che essendo il circuito d’acqua del lago 30 millia, come si tiene comunemente, cioè m./90 braccia fiorentine di circuito, e per tanto ammettendo che ciaschedun braccio di questa striscia beva due boccali d’acqua, e che di più per l’allagamento suo ne ricerchi tre altri boccali, haveremo che tutta la copia di questa porzione di acqua, che non viene impegnata all’alzamento del lago, sarà m./450 boccali di acqua; e ponendo che il lago sia 60 millia riquadrate, di 3000 braccia longhe, trovaremo che per dispensare l’acqua occupata dalla striscia intorno al lago sopra la superficie totale del lago, doverà essere distesa tanto sottile, che un boccale solo d’acqua venga sparso sopra m./10 braccia riquadrate di superficie: sottigliezza tale che bisognarà che sia molto minore di una sottilissima foglia d’oro battuto, ed anco minore di quel velo d’acqua che circonda le bollicine della stessa acqua; e tanto sarebbe quello che si dovesse detrarre dall’alzamento del lago. Ma aggiongasi di più, che nello spazio di un quarto d’ora del principio della pioggia, tutta quella striscia si viene ad inzuppare della stessa pioggia, in modo che non habbiamo bisogno, per bagnarla, di impiegarci punto di quell’acqua che casca nel lago. Oltre che noi non habbiamo posto in conto quella copia d’acqua che scorre, in tempo di pioggie, nel lago dalle pendenze dei poggi e monti che lo circondano, la quale sarà sufficientissima per supplire a tutto il nostro bisogno; di modo che nè meno per questo si doverà mettere in dubbio il nostro preteso alzamento. E questo è quanto mi è occorso intorno alla considerazione del lago Trasimeno. Dopo la quale, forse con qualche temerità inoltrandomi troppo, trapassai ad un’altra contemplazione, la quale voglio rappresentare a V. S., sicuro che ella la riceverà, come fatta da me, con quelle cautele che sono necessarie in simili materie, nelle quali non dobbiamo assicurarci di affermare mai cosa nessuna di nostro capo per certa, ma tutto dobbiamo rimettere alle sane e sicure deliberazioni della S. Madre Chiesa; come io rimetto questa mia e tutte le altre, prontissimo a mutarmi di sentenza e conformarmi sempre con le determinazioni dei Superiori. Continovando dunque il mio di sopra spiegato pensiero intorno all’alzamento dell’acqua del vaso di sopra adoperato, mi venne in mente, che essendo stata la sopranominata pioggia assai debole, poteva molto bene intravenire che cadesse una pioggia cinquanta e cento e mille volte maggiore di questa, e molto maggiore ancora (il che sarebbe seguito ogni volta che quelle gocciole cadenti fossero state quattro o cinque o dieci volte più grosse di quelle della sopramentovata pioggia, mantenendo il medesimo numero); ed in tal caso è manifesto che nello spazio di un’hora si alzerebbe l’acqua del nostro vaso due o tre braccia e forsi più: e conseguentemente, quando seguisse una pioggia simile sopra un lago, ancora quel tal lago si alzerebbe secondo l’istessa misura, e parimente, quando la pioggia simile fosse universale intorno intorno a tutto il globo terrestre, necessariamente sarebbe intorno intorno al detto globo, nello spazio di un’hora, un alzamento di due e di tre braccia. E perchè habbiamo dalle Sacre Memorie che al tempo del Diluvio piobbe quaranta giorni e quaranta notti, cioè per ispazio di 960 hore, è chiaro che quando detta pioggia fosse stata grossa 10 volte più della nostra di Perugia, l’alzamento dell’acqua sopra il globo terrestre sarebbe arrivato e passato un millio di perpendicolo; oltre che le prominenze dei poggi e monti concorrerebbero ancora essi a fare crescere l’alzamento. E per tanto conclusi che l’alzamento dell’acque del Diluvio tiene ragionevole convenienza con i discorsi naturali; delli quali so benissimo che le verità eterne delle Divine Carte non hanno bisogno; ma in ogni modo mi pare degno di considerazione così chiaro riscontro, che ci dà occasione di adorare ed ammirare le grandezze di Dio nelle grandi opere Sue, potendole ancora noi tal volta in qualche modo misurare con le scarse misure nostre. E li cacio le mani, pregandogli dal Cielo le vere consolazioni. Di V. S. molto Ill.re ed Ecc.ma Devotiss.mo ed Oblig.mo Ser.re e Dis.lo. D. BENEDETTO CASTELLI doi: 10.1474/Geoitalia-27-09 18 Geoitalia 27, 2009 Libri & Riviste M. Avanzini & F.M. Petti Editors Italian Ichnology Proceedings of the Ichnological session of Geoitalia 2007 che possono essere ritrovate addirittura nelle osservazioni di Leonardo da Vinci e di Ulisse Aldrovandi, al cui sguardo acuto non sfuggirono i segni misteriosi che si ritrovano nelle rocce sedimentarie, interpretati con stupefacente acume e rigore scientifico. Le radici rinascimentali dell’icnologia, si rafforzano nel grande interesse di molti studiosi italiani della fine dell ‘800 e dell’inizio del ‘900 (periodo nel quale il campo degli studi icnologici costruisce il suo corpo-base di dati e di interpretazioni), che ha portato alla descrizione e all’istituzione di alcuni degli icnotaxa più famosi (Zoophycos, Paleodyction, Nemertilites). La ricerca sulle tracce di vertebrati assume grande sviluppo in Italia più recentemente, a partire dalla seconda metà del secolo scorso ed è attualmente in piena espansione, anche in relazione alla scoperta di numerosi e straordinari siti con impronte dinosauriane nel Giurassico-Cretacico anche dell’Italia peninsulare. Il volume, edito dal Museo Tridentino di Scienze Naturali, sotto l’egida della Società Paleontologica Italiana, è molto godibile anche per la sua realizzazione grafica oltre che per i suoi contenuti e rappresenta bene lo stato degli interessi della ricerca italiana in campo icnologico e i suoi notevoli risultati e prospettive. R. M. doi: 10.1474/Geoitalia-27-10 Studi trentini di scienze naturali - Acta geologica, vol. 83, pp.1-347, Trento, 2008 http://www.mtsn.tn.it/pubblicazioni/default.asp € 20,66 (Estero € 41,32) La ricerca icnologica in Italia Lo studio delle tracce che il vivente produce con la sua attività, e che spesso si conservano fossili, ha assunto valenza di scienza autonoma, l’Icnologia, costituita da campi di interesse anche molto diversificati (neoicnologia e paleoicnologia; icnologia del continentale - dei vertebrati e degli invertebrati - e del marino - dei fondi molli e dei fondi duri - micro- e nanoicnologia), ma caratterizzati da solidi elementi di unitarietà metodologica e di obiettivi. La ricerca sulle tracce fossili ha un ampio spettro di applicazioni, quali, ad esempio la conoscenza della storia della vita, la ricostruzione degli eventi e degli ambienti, la geoarcheologia, la divulgazione scientifica e il richiamo turistico. La ricerca italiana è oggi molto attiva, come testimonia il bel volume “Italian Ichnology”, che raccoglie i lavori della specifica sessione di Geoitalia 2007; essa ha radici molto antiche, Modello 3D da rilievo fotogrammetrico di un orma di dinosauro teropode (Giurassico inferiore, Coste dell’Anglone, Trentino Alto Adige). Principali tracce prodotte da coleotteri perforatori (genere Anobium). Oltre ai 2 contributi dedicati alla storia dell’icnologia italiana (Baucon, Leonardi), il volume ne contiene altri 24 (per un totale di 347 pagine di grande formato), che sviluppano numerosi dei più attuali temi dell’icnologia moderna, dalle radici fondative della ricerca icnologica nella discussione del concetto di icnofacies e delle sue applicazioni (Nicosia e Santi), alla rappresentazione delle più moderne metodologie strumentali per la rilevazione delle impronte di vertebrati (Petti et alii); 9 contributi sono dedicati alla icnologia degli invertebrati, compresi 3 dedicati alla bioerosione, 14 a quella dei vertebrati; altri 2 sono dedicati all’icnoarcheologia e alla icnologia nella divulgazione. Geoitalia 27, 2009 R. Alaimo, R. Giarrusso, G. Montana I materiali lapidei dell’edilizia storica di Palermo IlionBooks editore http://www.ilionbooks.com € 26,00 Le pietre da costruzione forniscono un contributo essenziale alla definizione dell’identità dell’edilizia storica di una città, mentre la varietà dei materiali litici di pregio per i decori fornisce la misura della massima ricchezza raggiunta dalla stessa. La conservazione del patrimonio edilizio di una città e dei beni artistici lapidei rappresenta pertanto uno strumento di valorizzazione delle radici e della identità di una comunità urbana. La conservazione presuppone l’adozione di tecniche di restauro rispettose delle caratteristiche originarie dei materiali sui quali si interviene. Conoscenza per il restauro è il filo conduttore del volume dedicato ai materiali lapidei dell’edilizia storica di Palermo: conoscere le caratteristiche petrografiche dei materiali utilizzati, conoscere le aree di provenienza di questi materiali, conoscere i processi di alterazione, conoscere infine gli effetti che i processi di pulitura e consolidazione hanno sui materiali lapidei. Il volume si rivolge prioritariamente ai professionisti del restauro che operano nell’area di Palermo, ma esso appare anche una utile guida metodologica per una estesa area del Mediterraneo nella quale i materiali utilizzati per le costruzioni sono litologicamente simili alle calcareniti usate nella città di Palermo. La prima parte del volume prende in considerazione le pietre da costruzione descrivendone i 19 metodi tradizionali di estrazione e lavorazione, le caratteristiche mineralogico-petrografiche e le proprietà fisiche. Vengono quindi descritti i diversi tipi di pietra estratti da otto cave dei dintorni di Palermo, fornendo anche l’indicazione dell’uso che è stato fatto di ogni tipo di pietra. La descrizione delle forme di alterazione e degrado e l’illustrazione di esempi di applicazione di prodotti consolidanti chiudono questa prima parte. La seconda parte del volume, dedicata alle pietre pregiate per il decoro architettonico, prende in considerazione sette calcari, un marmo, l’alabastro, i diaspri e due tipi di materiale di scarto prodotto nelle antiche fornaci. I calcari, solitamente utilizzati per realizzare pavimentazioni, colonne, balaustre, sono descritti a partire dall’area di cava e con l’indicazione dei più rilevanti utilizzi fatti nei monumenti di Palermo. Le cave di questi calcari sono distribuite, oltre che nella provincia di Palermo, nel Trapanese e nei Monti Sicani. La pietra più comune, il Grigio di Billiemi scavato nei rilievi alle spalle di Palermo, è stato diffusamente utilizzato nella pratica edilizia della Palermo barocca e neoclassica per realizzare pavimentazioni, scalinate, colonne, elementi architettonici di pregio. I due calcari di colore rosso: Rosso di Castellamare e Rosso di Contorrano provengono dal trapanese e sono stati ampiamente utilizzati per il bel colore e per la compattezza che permette di ricavare elementi architettonici di grande pregio. Anche nei pressi di Palermo sono scavati due calcari di colore rosso: Rosso di Piana dei Greci, apprezzato per il colore vivace, per la compattezza e la potenza dei banchi, e Rosso d’Ogliastro, di colore rosso arancio, talora attraversato da venature bianche. Due calcari di colore giallo (Giallo di Castronuovo e Giallo di Segesta), conosciuti e scavati sin da tempi molto antichi, sono stati utilizzati essenzialmente per realizzare balaustre, pavimentazioni, cornici, intarsi. Il Libeccio antico di Custonaci è un marmo variegato a struttura brecciata affiorante nel Trapanese, presente negli intarsi di quasi tutte le chiese di Palermo. Vene di alabastro calcareo con spessore anche di alcuni metri si trovano comunemente nelle formazioni calcaree dei Monti di Palermo. Col nome di diaspri sono indicate le rocce sedimentarie silicee che sono diffuse sotto forma di lenti, straterelli e noduli nelle formazioni calcaree. Essi hanno fornito elementi di piccola dimensione ma vivacemente colorati utilizzati per intarsi di grande eleganza. Ricercati per uso analogo sono anche gli Smaltini di Calcara, cioè scorie vetrose essenzialmente silicee trovate nel fondo delle antiche fornaci, e gli Stracotti di Calcara utilizzati nelle decorazioni a mosaico dei pavimenti. Infine la terza e ultima parte del volume è dedicata alle malte da intonaco ed agli stucchi. Il volume, riccamente illustrato, con belle foto a colori delle cave ancora attive, delle pietre, viste anche al microscopio, e delle pietre in opera è di facile e piacevole lettura. E. G. Non credo che sia facile trovare sui quotidiani la voce dell’Università, ovvero analisi scritte da universitari. Questa considerazione mi ha spinto a riflettere e a pensare a quello che noi potremmo (o dovremmo) dire come docenti, perché spesso si leggono analisi di parte, o decisamente sbagliate (fatte da giornalisti e politici), che denotano una scarsa conoscenza del mondo universitario. I compiti di un docente universitario La lettura degli articoli mi ha portato a fare alcune analisi che riguardano, in particolare, la figura del “Professore universitario”, i suoi compiti, la sua credibilità e la sua valutazione. Alcune considerazioni sembreranno ovvie, ma ritengo di doverle ribadire ugualmente, perché a me sembra che oggi la valutazione della “persona del docente” è concentrata unicamente sulla valutazione della ricerca che egli fa in ambito universitario, come se questa fosse l’unico compito degno di essere preso in considerazione. Questa è la prima obiezione che mi sento di fare e che svilupperò in seguito (punto 2). La seconda obiezione riguarda le modalità della valutazione della ricerca che egli fa, tutte concentrate nel dare la massima importanza solamente alle pubblicazioni su riviste ISI. Ma di questo ho già parlato più volte (e l’ultimo articolo è su Il Quaternario vol. 21(2) 2008). Quando a 30 anni mi fu conferito il primo incarico, ebbi il mio primo stipendio; da allora sono sempre stato pagato per questo motivo. Insomma, lo stipendio ce lo guadagniamo per svolgere uno o più insegnamenti in qualità di “Docenti universitari”. Se uno smette di fare ricerca, infatti, continua ad essere pagato. Se invece smettiamo di insegnare, non veniamo più pagati (o almeno così dovrebbe essere). Queste banali considerazioni portano però a concludere che, quanto meno, dovrebbe esserci anche una “valutazione della didattica” (a que- sto proposito vedasi l’articolo di Carlo Pellegrino “La didattica: non trattiamola come una cenerentola”, su Università Oggi, n. 59 – 2009). La ricerca universitaria è però un punto fondamentale nell’insegnamento universitario, perché l’esperienza sul campo, affrontare i problemi e risolverli, utilizzare metodi adeguati di analisi e leggere continuamente sulla materia porta ad un arricchimento che poi va trasferito nella didattica (per questi motivi penso che il mio primo insegnamento non sia stato il massimo!). In secondo luogo la Legge Universitaria prevede che la carriera universitaria si faccia superando concorsi mediante pubblicazioni frutto di ricerca. Riassumendo, la Ricerca è sempre obbligatoria: 1) per fare buona didattica; 2) per fare una buona carriera. Da ciò nasce la considerazione che ho sempre evidenziato con forza: tutti i docenti devono fare ricerca. Riporto una frase di Paolo Manzini (Università Oggi, op. cit.) che condivido pienamente: “il perno attorno a cui deve muovere l’università è la ricerca; la missione vera dell’Università è creare e trasmettere la conoscenza”. Poiché le nuove conoscenze si creano solamente con la ricerca, allora bisogna essere convinti che tutti i docenti devono avere i fondi necessari per svolgere ricerche nel campo di loro competenza. Il docente trasmette poi le conoscenze che ha acquisito direttamente agli studenti, ma ciò può essere fatto anche ad un pubblico più vasto, attraverso libri, giornali e televisione. Una buona didattica è quindi la logica attività, inscindibile dalla ricerca, di un docente universitario che ha il compito fondamentale di trsmettere la conoscenza (vedasi “Riflessione finale”). doi: 10.1474/Geoitalia-27-11 LETTERE Rapporti tra ricerca e didattica nelle Università LUIGI CAROBENE Dipartimento per lo Studio del Territorio e delle sue Risorse, Università di Genova Su questo complesso ma importante argomento esprimerò ovviamente le mie idee personali, maturate nell’arco di molti anni, consapevole di essere un modesto (ma onesto) ricercatore e un modesto (ma responsabile) docente. Quello che dirò è, in ogni caso, avallato dalla lettura di periodici sindacali e da mozioni del Cun, da articoli di giornali e, inoltre, dalle discussioni con colleghi. Proprio da queste discussioni è nato l’impulso di scrivere qualcosa sull’argomento ricerca e didattica, perché posso affermare (senza paura di essere smentito) che “molto si discute ma poco si fa”. Il docente è poco disponibile a perdere tempo per migliorare l’università nel suo complesso, ma concentra la propria azione alla salvaguardia del proprio personale campo d’interessi. Comincerò dai giornali, sui quali ultimamente sono usciti non pochi articoli sull’Università. Alcuni riguardano interviste al Ministro Gelmini (che si sta dimostrando decisamente più attiva dei suoi colleghi che l’hanno preceduta); altri riguardano manifestazioni di protesta o scioperi; altri ancora critiche o denunce piuttosto pesanti. Ad esempio: “Grande opera per attirare cervelli stranieri” (è una iniziativa del Ministro); “Aosta, l’università delle spese record”; “Università, lista nazionale per i professori”; “Tagli a Scuola e Università, a Bari gli studenti protestano in mutande”; “La Gelmini, il prof. Masia e la missione salva-baroni”; “Concorsi per prof - si alla lista nazionale - fondi a chi merita”; “Parenti in cattedra, Atenei da vergogna”; “Corsi di laurea ridotti del 20% - Già 32.000 richieste di pensionamento”, ecc. 20 Geoitalia 27, 2009 Il binomio ricerca-didattica In base all’esperienza acquisita e in base ai racconti di tanti colleghi, ognuno può però constatare che “un bravo ricercatore” non è sempre un bravo docente. Tutti potremmo fare esempi di bravi ricercatori che non brillano o non hanno brillato come docenti. In questi casi sarebbe doveroso chiedersi che interesse abbia l’Università a tenersi bravi ricercatori che però sono cattivi insegnanti! Vale però anche l’opposto: ci sono bravi docenti che non valgono molto come ricercatori. Io trovo che in questo caso bisogna distinguere: 1) Una persona molto erudita, con vastissima cultura, un grande studioso (uno di quelli che era già “secchione” a scuola) può essere senz’altro un bravo docente. Quando consulto uno di quei magnifici libri di Geologia scritti da autori solitamente stranieri, mi immagino che non possano aver fatto ricerca su tutto quello che hanno scritto e che però siano ugualmente ottimi docenti! 2) Bisogna valutare molto bene i criteri utilizzati da coloro che hanno giudicato come cattivo ricercatore il nostro bravo docente in questione. Spesso il geofisico parla male del paleontologo; il petrografo parla male del geologo applicato (e viceversa) ecc. Ma come si fa a valutare obiettivamente e con competenza la ricerca fatta da un ricercatore di un settore disciplinare completamente diverso dal nostro? Conclusione: 1) Non ci si può dimenticare che il compito primario di un professore universitario, associato e ordinario, è quello di …. insegnare. 2) Che la capacità di fare ricerca dipende dalla serietà, dalla preparazione e dall’ingegno dei singoli. È quindi importante la selezione delle persone basata sul merito. Se il Dottorato di Ricerca fosse riservato esclusivamente a bravi laureati che intendono fare la carriera universitaria, a 30 anni questi potrebbero già concorrere per un posto di ricercatore. Il concorso sarebbe in tal modo la seconda selezione basata sul merito, e all’Università entrerebbero solamente persone ”in gamba”. La valutazione dell’attività universitaria Entrando all’Università persone ben selezionate e in gamba, l’esigenza di una “valutazione della ricerca” come oggi viene proposta (ovvero come unico metro di misura del valore della persona) sarebbe meno sentita e meno necessaria. I buoni risultati che queste persone potranno un giorno fornire sarebbero la logica conseguenza della selezione operata nei concorsi per il passaggio in ruolo. Convinto di ciò, sono però del parere che, nel corso della carriera, una valutazione andrebbe fatta, perché ci sarà comunque sempre il più bravo e il meno bravo. Alle Olimpiadi (per fare un esempio) il gruppo dei migliori, selezionati per merito in tutto il mondo, partecipa alla gara finale, ma ci sarà sempre un primo e sempre un ultimo. Ma non per questo l’ultimo sarà poco bravo! Che all’università si faccia una valutazione basata solo sulla ricerca (con tutti i limiti che Geoitalia 27, 2009 questo esercizio comporta, come da molti notato, e che ora non ripeto) può essere controproducente e ingiusto. Ritengo che sia più giusto e più utile fare una valutazione “dell’attività universitaria” nel suo complesso. Le persone, per quanto brave, sono infatti tutte diverse; diverse per carattere, per serietà, per preparazione, per ideali, per intelligenza, per intuito, per fantasia, ecc. Pensare che il toccasana per l’Università sia la “valutazione della ricerca” fatta per tutti con lo stesso criterio, e credere che ciò sia l’unica cosa giusta da fare, è come pensare di valutare la bravura di un gruppo di animali (cavalli, cani, pecore, vacche, ecc., tutti messi assieme) e dire che il migliore è quello che arriva prima nella corsa. Noi docenti dell’Università siamo come quel gruppo di animali messi insieme: c’è chi è più portato per la sintesi, chi per l’analisi; c’è chi è più predisposto per le pubbliche relazioni, e chi non lo è; c’è chi ama lavorare da solo, chi in compagnia; c’è chi ama leggere ore e ore in biblioteca, e chi ama rilevare sul terreno; c’è chi ama dirigere e chi ama eseguire, ecc. Potrei riempire la pagina di differenze. Per questi motivi ritengo che puntare tutto sulla “valutazione della ricerca” (formulata con criteri rigidi e uguali per tutti) come unico metro per giudicare i docenti universitari sia una cosa riduttiva e non utile. L’unica cosa che otterremo sarà ….. una diminuzione dei fondi per la ricerca e per le università. È più giusto, più corretto e più produttivo puntare su una valutazione complessiva dell’attività universitaria. Valutare cioè tutto ciò che il singolo docente realmente fa e (oltre al necessario giudizio sulle pubblicazioni scientifiche) considerare quindi: 1) la didattica (numero delle ore di lezione, numero degli studenti, numero di tesi, numero di esami, ecc.); 2) gli incarichi accademici (incarico di Rettore, di Preside, di Direttore, di Presidente di qualche commissione, ecc.); 3) incarichi nelle Associazioni scientifiche nazionali e internazionali (direzione di Rivista, di Comitati di redazione, di Presidenza, di Segretario, ecc.); 4) incarichi nella Ricerca (Direzione o organizzazione di Congressi, Direzione di programmi di ricerca nazionali o internazionali, ecc.); 5) incarichi o attività con l’esterno (con Province, Regioni, aziende, musei, ecc.). Non tenere conto di tutte queste cose significa: 1) ingiustizia per chi questa attività le svolge comunque, non ripagato. 2) disincentivare chi le vorrebbe o le potrebbe fare; 3) sminuire l’importanza di queste attività agli occhi della pubblica opinione (che ormai oggi pensa che l’universitario sia un fannullone, oppure impegnato a far vincere un posto a qualche parente). Tener conto di tutte le attività elencate permetterebbe di compilare una graduatoria (variabile nel tempo e legata allo stipendio), obiettiva e basata sulla quantità reale di lavoro svolto e sul merito (concetti simili ho già scritto su Geoitalia, n. 12 – 2003). Cosa fare - Dobbiamo uscire dallo stato di assuefazione e di pessimismo in cui siamo caduti e che ci impedisce di essere attivi nel combattere i mali che impediscono un miglior funzionamento dell’Università. - Dobbiamo concordare documenti di analisi da mandare ai giornali e al Ministro. - Dobbiamo far conoscere a tutti il ruolo fondamentale dell’Università pubblica nella cultura, nella società e nell’economia del paese. - Dobbiamo fare proposte concrete per il suo miglioramento. - Dobbiamo cominciare a lottare uniti (assieme ai sindacati, ai ricercatori, agli studenti) per ottenere ciò che vogliamo. E qui, con tristezza, ripeto una cosa che dico e scrivo da 20 anni: le due fasce degli Associati e degli Ordinari hanno diviso il corpo dei docenti e l’hanno reso debole. Una cosa giusta e utile sarebbe modificare l’attuale stato giuridico dei docenti istituendo il Ruolo Unico dei professori Universitari (le due fasce degli Ordinari e degli Associati furono istituite con il d.p.r. n. 382 del 1980), in cui la progressione della carriera (e dello stipendio) avvenga per merito, in base a ciò che realmente ognuno fa. Un’analisi obiettiva dell’attuale situazione mostra come gli attuali 62.000 ordinari, associati e ricercatori lavorino praticamente sullo stesso piano, mentre le eccellenze o, al contrario, le mediocrità possono essere riscontrate in tutti e tre i diversi ruoli. Il ruolo unico eliminerebbe, inoltre, i giochi di potere utilizzati dagli attuali professori ordinari (soprattutto in occasione dei concorsi universitari), ma che non sono mai risultati utili per un miglior funzionamento né dei dipartimenti, né della didattica. A questo proposito ricordo che le ultime disposizioni ministeriali hanno eliminato i Professori Associati e i Ricercatori dalle Commissioni concorsuali! Ciò va in senso opposto a quanto auspicato da me e dalle persone di buon senso. È un dato di fatto (non un’interpretazione) che i docenti (oggi divisi) sono assolutamente incapaci di opporsi a quelle disposizioni ministeriali che essi, per primi, reputano ingiuste o sbagliate; che non riescono a reagire alla strapotenza dei burocrati; che non riescono a trovare soluzioni al decadimento complessivo della didattica; che non riescono a far valere i loro diritti nell’adeguamento stipendiale; che non riescono ad essere credibili e più forti nel richiedere un adeguato incremento dei fondi per la ricerca; che non riescono nemmeno più ad essere credibili ed autorevoli nei confronti della pubblica opinione. Il ruolo dei rettori (debole e discutibile) Negli ultimi 10-15 anni le riforme degli Ordinamenti didattici, la sparizione del Fuori Ruolo, le decurtazioni dello stipendio, l’abbassamento dell’età pensionabile, le modifiche sugli scatti biennali, i tagli al finanziamento alle Università e alla Ricerca non hanno certamente 21 avuto da parte dei nostri Rettori una valida opposizione. Anzi, su determinati interventi si sono visti i Rettori prendere provvedimenti contro professori Associati e Ricercatori anziani, travisando le leggi esistenti e ignorando le mozioni del CUN (vedasi V. Mangione su Università Oggi, op. cit.). Non mi sembra , inoltre, che ci sia da parte dei rettori la consapevolezza che l’attuale Didattica Universitaria (DM 509/99 e DM 270/04) è da considerarsi un fallimento. I danni visibili sono almeno due: da una parte la proliferazione di insegnamenti e di corsi di laurea (5959 nel 2007/08) e dall’altra la constatazione che la sola Laurea triennale non è né utile né sufficiente per il mondo del lavoro. Ciò ha obbligato e obbligherà ancora la quasi totalità dei laureati triennali a seguire per altri due anni anche la laurea Magistrale. Un altro rimprovero che si può fare a molti nostri (poco) Magnifici Rettori è quello di aver male amministrato le università, mandando in rosso gran parte dei Bilanci universitari italiani. Riflessione finale Ad articolo ormai finito apprendo, oggi 6 aprile 2009, del forte terremoto che ha devastato L’Aquila e la sua provincia. Una domanda ci dobbiamo fare, anche se può dare fastidio a qualcuno: “qual’è stato il beneficio della ricerca sismologica italiana nel comprendere la probabilità (o il grado di probabilità) che tale evento si verificasse; qual’è stato il grado di responsabilità nel riferire alle Autorità competenti le valutazioni sulla reale situazione in atto, al fine di arrivare ad un “preallarme” (o, se necessario, ad un vero e proprio “allarme”)? Ci sono situazioni in cui Geologi applicati, Vulcanologi e Sismologi si devono prendere le loro responsabilità, perché ciò può salvare la vita di molte persone. D’altra parte il preallarme o l’allarme esiste già in molte altre occasioni. Ricordo, ad esempio, che nel passato è stato più volte diramato “lo stato di all’erta” o “lo stato di emergenza” per varie situazioni: “allarme meteo”, “allarme valanghe”, “all’erta tsunami”, “emergenza mucca pazza”, “l’allarme per l’influenza aviaria” ecc. ecc. Preallarmare la popolazione significa soprattutto “informare”, significa “trasmettere conoscenza” al fine di attenuare le conseguenze del fenomeno, nell’indicare alla gente quel minimo di provvedimenti precauzionali da prendere (magari per nulla) per rendere meno pesanti le conseguenze di un (eventuale) sisma. A mio parere “assumersi le responsabilità” davanti ad eventi naturali potenzialmente in grado di produrre danni o di causare la morte delle persone, significa per i geologi diventare più importanti e più utili per il paese, per non rimanere attori di secondo piano che in TV si limitano a dire il grado preciso della magnitudo, o che “le scosse sono normali” o che siamo in presenza di “uno sciame sismico”. Mi immagino che i sismologi abbiano sicuramente lavorato bene e pubblicato quindi su riviste straniere ad alto Impact Factor le loro ricerche. Ma non sarebbe meglio pubblicare dati, analisi e conclusioni, con linguaggio semplice, chiaro e comprensibile a tutti, in italiano su rivi- 22 ste italiane, in modo che tutti, dagli studenti ai liberi professionisti, dai docenti delle scuole ai giornalisti e, soprattutto, i pubblici amministratori, capiscano fino in fondo cos’è un terremoto, come ci si può difendere, come lo si può comprendere, quali sono i provvedimenti da prendere? Forse il Ministro Gelmini, grande sostenitore delle pubblicazioni ISI, dovrebbe rivedere la sua posizione al riguardo, e forse anche tanti geologi che (con poca modestia), credono che tutti i loro lavori debbano essere scritti in inglese, su riviste internazionali, affinché tutto il mondo li legga. Tutti, fuorché studenti, liberi professionisti, docenti delle scuole, giornalisti e pubblici amministratori. Tutte quelle persone, insomma, alle quali dovremmo trasmettere le nostre conoscenze e alle quali potrebbero servire le nostre ricerche. Con questo esempio io voglio dimostrare l’importanza del legame inscindibile tra ricerca e didattica. La ricerca perde importanza se rimane chiusa nelle “torri d’avorio” e la trasmissione delle conoscenze non dovrebbe limitarsi alle lezioni in aula. doi: 10.1474/Geoitalia-27-12 Il terremoto in Abruzzo: alcune riflessioni al margine di grandi problemi e di grosse responsabilità SANDRA PIACENTE Dipartimento di Scienze della Terra Università di Modena e Reggio Emilia [email protected] Una concezione corretta di un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente si basa su due elementi fondamentali: la ricerca e l’informazione. La prima si sviluppa attraverso studi integrati e coordinati nei diversi settori delle scienze naturalistiche, umanistiche e sociali ed è indispensabile per giungere alla conoscenza; la seconda deve trovare i metodi e gli strumenti atti alla formazione delle coscienze. Sono infatti proprio le conoscenze della dinamica ambientale i presupposti indispensabili per capire equilibri, disequilibri e sviluppo e per tentare di formulare, almeno a livello cognitivo, scenari previsionali. Inoltre ogni conoscenza è carica di valori, e in quanto tale non può essere considerata neutrale rispetto ai bisogni, alle aspirazioni e alle aspettative umane. La richiesta di conoscenza, per una tutela e una corretta difesa dell’ambiente, e i modi e i mezzi della sua diffusione, è diventata negli ultimi anni una chiara domanda sociale, nella ormai radicata consapevolezza che essa può costituire la base essenziale, non solo per una migliore qualità della vita, ma, anche per la sopravvivenza del genere umano. In particolare, la conoscenza scientifica viene vista come indispensabile parte di quel bagaglio culturale che ogni individuo dovrebbe possedere, quel “valore in più”, che può rafforzare la partecipazione del singolo alla vita pubblica. Infatti la scienza ha in sè, e quindi dovrebbe trasmettere, una specifica immagine del mondo, che indica il modo in cui questo può essere concepito ed investigato e quale può essere il ruolo dell’uomo nella natura. Non va dimenticato che la scienza fornisce dei modelli sia di tipo concettuale che comportamentali, che spesso indirizzano e condizionano molti settori della vita sociale. La scienza è quindi una parte fondamentale della società, anche se questa forse non ne ha una percezione diretta, che investe sia direttamente che indirettamente tutti i suoi aspetti, non solo quelli tecnologici ma anche quelli culturali, e quindi morali e sociali. Tanto si è detto e tanto ancora si dirà su quanto è successo in Abruzzo, e il mio intervento vuole essere soltanto lo sfogo di chi per tanti anni si è occupato di educazione geologica e in particolare di educazione sismica. Le immagini che il terremoto del 6 aprile ci ha mostrato pensavamo proprio di non doverle più vedere, e comunque non nel nostro paese che vanta studi e ricerche di tutto rispetto sul rischio sismico e sulle tecniche e le modalità di prevenzione. La storia delle grandi catastrofi che hanno colpito l’Italia negli ultimi decenni ci ha insegnato infatti, che, per proteggere con efficacia la vita dei cittadini e il patrimonio delle comunità, non bisogna puntare solo su soccorsi tempestivi, ma occorre dedicare energie e risorse importanti anche alla previsione e alla prevenzione delle calamità. Bisogna comunque superare la tradizionale logica tutta italiana dell’imprevidenza, dell’emergenza, dell’intervento riparatori dei danni, che diventa (come è successo in occasione dell’Abruzzo) occasione politica per acquisire consensi, Evidentemente molte cose non hanno funzionato; grandi e gravi sono le responsabilità sia della comunità scientifica che non ha ancora trovato in se la forza di saper cercare le strade più consone per la conoscenza, la valorizzazione e la diffusione dei risultati della sue ricerche, sia di quanti sono rimasti sordi o indifferenti alle sollecitazioni che da varie parti, più che autorevoli, giungevano. Per affrontare adeguatamente e con speranza di risultati positivi, il problema va visto in un costante dialogo tra scienza e politica, ma anche con un indispensabile coinvolgimento dell’opinione pubblica attraverso interventi continui di informazione ed educazione, pur nella consapevolezza che la scienza è solo una delle forme del pensiero sviluppata dall’uomo e non necessariamente l’unica o la migliore: spesso è vistosa, rumorosa, arrogante, intrinsecamente superiore solo per quelli che l’hanno accettata senza aver considerato i suoi limiti. Il mondo scientifico e quindi quello politico, dovrebbero, come diceva trent’anni fa Pasolini, rendere “popolare”, soprattutto a chi non ha mai avuto occasione di partecipare alla “storia” in modo diretto, il “passato” e i “segni” che di esso sono la testimonianza: occorre creare intorno alla natura una sensibilità, e l’unica possibilità per farlo passa attraverso un forte mutamento culturale. Purtroppo è tuttora ancora difficile e insufficiente la comunicazione tra la ricerca e il mondo esterno, sia esso il grande pubblico o il mondo della scuola. Molti scienziati non vogliono “sporcarsi le mani” con la didattica e la divulgazione e questo compito, così delicato, Geoitalia 27, 2009 viene spesso delegato ad altre persone il più delle volte poco competenti e/o sprovveduti, che finiscono per banalizzare, se non addirittura a distorcere, il percorso concettuale e i risultati delle ricerche. È questa una consuetudine che deve essere assolutamente superata se vogliamo davvero fare uscire la tutela della natura e delle nostre comunità dalle remote stanze del sapere scientifico e far diventare il patrimonio naturale un credibile strumento di comunicazione della scienza e di sviluppo locale del territorio. La gestione del territorio diventa quindi il terreno preferenziale per il confronto tra interesse individuale o di pochi e interesse generale, partendo però dal presupposto che ogni ipotesi e ogni proposta di conoscenza devono partire non per dare necessariamente delle risposte immediate, ma per porre correttamente i termini del problema e quindi delle domande, che siano di supporto a nuovi stimoli e nuove idee. La storia degli ultimi decenni é storia di riflessione scientifica e sociale su questi problemi e dei conflitti creati dal non aver ancora potuto definire e misurare il “rischio” ambientale, continuamente ridiscusso e condizionato dai processi sociali che chiamano in causa lo stesso ruolo della scienza e degli scienziati. Occorre perciò trasformare la crisi della certezza in consapevolezza dei limiti - la monocultura infatti porta a non saper leggere il diverso o l’emergente e perde così la capacità di lettura del mutamento - per favorire il pluralismo delle idee e la ricerca di nuove prospettive e modelli. doi: 10.1474/Geoitalia-27-13 L’Antropocene siamo noi, nel bene e nel male GIUSEPPE TANELLI Ordinario di Georisorse e Mineralogia Ambientale. Università di Firenze Oggi, anche nelle pagine di Geoitalia (n. 23 giugno 2008, n.24 ottobre 2008, n. 26 marzo 2009), si assiste ad una montante dialettica fra “catastrofisti”, “negazionisti” e/o “scettici”, in merito alle cause del riscaldamento globale, alle variazioni climatiche, ed ai modi per contrastarle e prevenirne gli effetti ecologici, sociali ed economici. Dialettica quanto mai sana ai fini del progresso delle conoscenze sulle regole che governano l’evoluzione del Pianeta Terra, come del resto lo furono quelle fra “plutonisti” e “nettunisti”, nate agli albori della Rivoluzione industriale. Ma credo sia una consapevolezza sentita l’esigenza che il confronto sia condotto rifug- gendo da pregiudizi ideologici e battaglie antiIPCC e anti-Protocollo di Kyoto, così come da conflittualità disciplinari fra climatologia e geologia. Al riguardo possiamo ricordare che nella comunità geologica è oggetto di riflessione la proposta lanciata da P.J Crutzen – Premio Nobel per la chimica dell’atmosfera - e ripresa nel contesto della Geological Society of London e della Geological Society of America, di istituire l’epoca specifica dell’Antropocene, a segnare il tempo geologico successivo alla rivoluzione industriale (GSA Today. vol.18, n.2, febbraio 2008). Scrive P.J. Crutzen : “L’Antropocene siamo noi. Siamo noi, nel bene e nel male la variabile geologica oggi più importante, ed è nostra la responsabilità del futuro del Pianeta. Perché abbiamo gli strumenti teorici e pratici per invertire la tendenza al degrado”. È indubbio che la Terra passa un periodo di naturale riscaldamento – imputabile a fattori astronomici, all’attività solare e/o a fattori interni della Terra-, ma è difficile non ritenere che l’uso di combustibili fossili – che inevitabilmente accorciano i tempi del ciclo geochimico lungo del carbonio – le deforestazioni e le emissioni industriali e veicolari di gas serra, non incidano sul riscaldamento globale, e comunque non determinino fenomeni di degrado della qualità dell’area, a livello locale e regionale. Viene così ad essere fortemente discutibile promuovere iniziative sulla inutilità di incrementare l’uso di energie rinnovabili ed alternative, magari proponendo per risolvere i problemi energetici del nostro Paese, la costruzione di dieci centrali nucleari, come possiamo rilevare dai documenti editi sull’argomento da Galileo 2001, antesignana nella battaglia “negazionista”. Il tutto a prescindere dagli aspetti educativi e considerando solo i temi pratici dell’ampio dibattito che grava su queste opzioni: rischi ambientali e sanitari, pesanti costi economici, problemi dello smaltimento delle scorie, rischiose relazioni fra nucleare fissile civile e militare, facili esposizioni ad attacchi terroristici, difficile scelta dei siti esenti da rischio sismico ed idrogeologico, e infine, ma come bene sappiamo, non ultimo, il fattore “ Nimby” (never in my back yard) come bene ricordano i passati avvenimenti di Scanzano Jonico, e come emerge attualmente dopo la recente opzione per il nucleare di terza generazione, formulata dal Governo. Per quanto riguarda le devastanti ricadute economiche per il “mondo industriale” e per l’Italia, che si avrebbero con le “scellerate” pre- visioni di riconversioni industriali, tese a contenere le emissioni di anidride carbonica previste da Kyoto – formulate da alcuni economisti – eviterei di dargli troppo credito, constatando, per rimanere con i piedi per terra, i risultati che stiamo vivendo in conseguenza di troppo disinvolte e creative teorizzazioni finanziarie del recente passato. Del resto, si palesa sempre di più come una svolta industriale in chiave ecologica, sia in grado di aprire nuovi mercati e nuovi settori di ricerca scientifica, ivi compreso il campo geologico. È indubbio che l’applicazione del Protocollo di Kyoto muove grandi interessi finanziari, economici ed industriali, che confliggono, a mio parere giustamente, con quelli consolidati dai modelli di sviluppo fino ad oggi dominanti, e che sempre di più mostrano la loro insostenibilità ecologica, economica e sociale È vero che senza l’accordo degli Stati Uniti e dei grandi paesi ad economia emergente come la Cina e l’India, gli effetti Kyoto sono largamente vanificati, ma tutto ciò non comporta il rigettare un percorso cultuale, faticosamente attivato, in grado di contrastare il degrado ambientale e di aprire il mondo alla solidarietà ed allo sviluppo sostenibile. Del resto sembrano finiti i tempi durante i quali l’Hearthland Institute riceveva i complimenti della amministrazione statunitensi. L’organizzazione, come si legge nel suo sito web è stata fondata a Chicago nel 1984 per promuovere il libero-mercato e dal 2008 patrocina convegni anti-IPCC ritenendo che: “.. global warning is not a crisis and that immediate action to reduce emissioni is not necessary”. L’attenzione ai problemi dell’ambiente, alle responsabilità consolidate ed emergenti dei paesi del G20, ai bisogni del resto del mondo, segnano la politica del governo di Barack Obama. È la svolta ecologica della più grande potenza del mondo che in tempi più o meno lunghi è destinata a riverberare in tutto il Pianeta. La stessa Cina sta rivedendo i suoi contraddittori e tumultuosi modelli di sviluppo e forse non a caso, il Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo, ha bollato come “fuori dal tempo”, l’iniziativa del Senato tesa ad escludere il fattore antropico nelle variazioni climatiche. Bonatti E. (2009) Il clima che viene dal basso. Le Scienze, 489: 64-71. Crutzen P.J. (2005) Benvenuti nell’Antropocene. Mondadori, Milano. doi: 10.1474/Geoitalia-27-14 Il premio Wegener a Carlo Doglioni Il giorno 8 giugno 2009 il Prof. Carlo Doglioni, Presidente della Società Geologica Italiana, ha ricevuto ad Amsterdam il premio Wegener della EAGE (European Association of Geoscientists & Engineers). Questo importante riconoscimento internazionale è motivato nel seguente modo: Carlo Doglioni è un geologo specializzato in geologia strutturale, tettonica a placche, struttura crostale, subduzione e vulcanismo, con particolare riguardo all’area Mediterranea. Egli ha avuto una carriera rilevante in ambito accademico e di ricerca a partire dal 1981, insegnando in diverse univerità italiane e come ricercatore visitatore presso le università di Basilea (1984), Oxford (1985) e la Rice University (1988 e 1992). In aggiunta ai premi vinti in Italia, il suo lavoro è stato riconosciuto nternazionalmente. È stato AAPG distinguished lecturer nel 1994 e nel 2005. Ha inoltre ricevuto il premio Spendiarov nel 1994 della Accademia Russa delle Scienze. Ha pubblicato in modo estensivo sugli argomenti della sua ricerca. È anche membro dei consigli scientifici di varie riviste specialistiche nell’ambito geologico. doi: 10.1474/Geoitalia-27-15 Geoitalia 27, 2009 23 Le pietre lavorate A cura di Giuseppe Maria Bargossi Selenite GIUSEPPE MARIA BARGOSSI & MARTA MAROCCHI Dipartimento di Scienze della Terra e Geologico-Ambientali. Alma Mater Studiorum Università di Bologna. [email protected] Il nome selenite deriva dal latino selenítis, a sua volta derivato dal greco, e significa pietra di Luna per la credenza che questa pietra variasse la sua lucentezza a seconda delle fasi lunari e che lo sviluppo dei cristalli fosse favorito dalla luna crescente. Leggende a parte, non si può negare che questa pietra, dai magici riflessi madreperlacei e bagliori grigio argentei che richiamano la luce lunare, susciti tuttora curiosità ed affascini l’osservatore. Geologia e caratteri mineralogico-petrografici La “crisi di salinità del Messiniano” ha dato origine a quel complesso di depositi di grande interesse economico che fa parte del Gruppo della Gessoso-Solfifera, che si estende dal Piemonte all’Emilia Romagna e alle Marche fino alla Calabria ed alla Sicilia. La “formazione della Vena del Gesso” ne fa parte ed affiora estesamente nell’Appennino bolognese, romagnolo ed in lembi isolati nel modenese e riminese. Questa formazione è costituita da depositi di ambiente evaporitico del Miocene Superiore Banco di selenite tagliato con filo diamantato in cui spiccano cristalli di gesso di circa 20 cm, geminati a ferro di lancia, cava Ballarini a Montebello di Torriana, Rimini. (Messiniano) e comprende facies selenitiche e balatino-argilloso-solfifere a microscristalli e granuli sabbiosi di gesso. Essa appoggia in continuità e e frequenti geminazioni a ferro di lancia o a coda di rondine, e da concordanza di sedimentazione sulle marne preevaporitiche del Torminori quantità di argille marnose interstiziali. toniano sommitale-Messiniano inferiore ed è ricoperta dalla FormaEstrazione ed impiego zione a Colombacci che segna la reinvasione Atlantica del MediterFin dall’epoca romana il gesso selenitico ha interessato l’imraneo che si completa con le Argille Azzurre del Pliocene. La formapianto d’opere urbane a Faenza, Imola e soprattutto a Bologna, dove zione è costituita da una serie di banconi di gesso selenitico (sino a 15 m nel Bolognese) separati da livelli di argille fittamente laminaun importante teatro d’età repubblicana fu ampliato in epoca nerote, formatisi in condizioni generali di laguna sovrasalata. I banconi niana mediante la costruzione di una serie di muri radiali in blocchi di selenite sono costituiti prevalentemente da cristalli di gesso di squadrati di selenite. In epoca alto-medievale la prima cerchia di dimensioni da centimetriche a decimetriche, con perfetta sfaldatura mura, risalente molto probabilmente ai tempi di Teodorico ed Capitelli scolpiti: porta della Basilica dei protomartiri Santi Vitale e Agricola edificata nel V secolo e rimaneggiata nel VII e nel XI secolo; fa parte del complesso di edifici sacri noto come Basilica di Santo Stefano a Bologna, realizzato dove sorgeva il tempio dedicato alla Dea Iside. 24 Geoitalia 27, 2009 ampliata dai Longobardi, venne realizzata in blocchi scolpiti di selenite, “mura selenitiche”, che valse a Bologna l’appellativo di “città d’argento”. In età comunale i blocchi di gesso selenitico furono riutilizzati per i basamenti e le fondamenta delle numerose torri bolognesi, per argini di corsi d’acqua, basi di pilastri in legno, stipiti di porte, spalle di finestre, archivolti, mensole di appoggio e capitelli. È importante notare che la messa in opera di un corso di conci selenitici alla base delle murature in laterizio limitava la risalita capillare dell’acqua negli edifici e contribuiva attivamente nelle costruzioni alla resistenza alle sollecitazioni sismiche (Bargossi et alii, 2004). L’agevole reperimento della materia prima (le cave si trovavano immediatamente a sud di Bologna), la sua attitudine ad essere facilmente lavorata come pietra da taglio e scolpita come Banchi di gesso della potenza di 2-3 metri, inclinati di 45°, direzione N-S, immersione E, con intercalazioni decimetriche di peliti. Le superfici esposte all’azione delle acque sono interessate da un’incipiente elemento decorativo e la sua durevolezza modellazione carsica. Cava Ballarini a Montebello di Torriana, Rimini. resero questa pietra protagonista dell’edilizia bolognese medioevale. Calanchi dell’Abbadessa. L’affermarsi del gusto rinascimentale, orientato verso la ricerca L’unica cava attualmente attiva si trova a Montebello di Torriana di nuovi cromatismi e una maggiore raffinatezza nella lavorazione presso Rimini negli affioramenti della “formazione Gessosodelle superfici lapidee, determinò l’abbandono della selenite a favoSolfifera” che fanno parte delle Epiliguridi; produce un ottimo gesso re delle tenere arenarie gialle plioceniche e pleistoceniche cavate selenitico di un bel colore giallo-argento con cristalli da 10 a 40 cm, anch’esse nei pressi della città di Bologna. geminati a ferro di lancia, ricercato ed apprezzato per sculture ed Nel XX secolo si giunse all’estrazione parossistica del gesso opere ornamentali. come materia prima per l’industria; le principali cave erano Degrado e conservazione localizzate soprattutto in Romagna a Brisighella, a Borgo Rivola ed I blocchi di selenite collocati in opera nelle fabbriche cittadine a Borgo Tossignano e nel bolognese a Castel del Britti, al Farneto, in epoca medievale sono rimasti fino ad oggi sostanzialmente inalalla Croara ed a Zola Predosa. Oggi il gesso non si scava più e i terati, sfidando le intemperie e rivelando, nei confronti dell’inquinaluoghi sui quali sorgevano le cave si sono trasformati in un parco mento, un’insospettata resistenza, che le delicate arenarie gialle ricco di doline e di grotte: il Parco dei Gessi Bolognesi e dei hanno dimostrato di non possedere. Nei manufatti la morfologia prevalente è il degrado differenziale dovuto all’eterogeneità composizionale e strutturale della selenite, costituita da gesso macrocristallino facilmente sfaldabile, e da argilla. Nei blocchi aggettanti, a causa dello scorrimento dell’acqua piovana, si originano morfologie di carsismo superficiale a forma di Karren (solchi centimetrici subparalleli). Riconoscimenti. Ringraziamo la Ditta Ballarini per l’ospitalità e la cortesia e Federica Landini per i preziosi commenti critici. Bibliografia Bargossi G.M., Gamberini F., Gasparotto G.. Grillini G.C., Marocchi M. (2004). Dimension and ornamental stones from the ToscoRomagnolo and Bolognese Apennine. In “A showcase of the Italian research in applied petrology”. Periodico di Mineralogia. Vol. 73, pp. 171-195. Foto: Archivio fotografico Francesca Bargossi. Base della Torre degli Azzoguidi detta Torre Altabella a Bologna. Geoitalia 27, 2009 doi: 10.1474/Geoitalia-27-16 25 Acquiferi salini profondi: potenziali siti per il confinamento geologico della CO2 in Italia FEDERICA DONDA, VALENTINA VOLPI, SERGIO PERSOGLIA, MICHELA VELLICO Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale - OGS Il contenuto di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera nell’ultimo trentennio è cresciuto esponenzialmente. Nel 1999 la sua concentrazione era di 367 ppm, mentre nel 2005 essa era pari a 379 ppm. Nello stesso periodo si è registrato anche un incremento della temperatura. La maggior parte della comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che l’incremento della temperatura terrestre registrato a partire dall’inizio dell’Era Industriale sia legato all’immissione di gas serra nell’atmosfera, derivanti principalmente da un crescente utilizzo dei combustibili fossili. Tra i vari gas serra, l’anidrite carbonica gioca un ruolo essenziale. Simulazioni di “scenario” condotte nell’ambito dei lavori del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC, 2001), hanno fissato in 450 ppm e 650 ppm le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, in corrispondenza delle quali si avrebbe un aumento della temperatura media globale di 2° e di 4°C. Per contrastare tale processo, è stato formulato nel 1997 il Protocollo di Kyoto, il cui obiettivo era di ridurre entro il 2010 le emissioni di CO2 e di altri gas serra del 5,2 %, in media, rispetto ai livelli del 1990. Esistono diverse strategie di intervento a riguardo: Andamento delle concentrazioni di CO2 in epoca storica. Si noti l’aumento esponenziale degli ultimi 150 anni. 1. interventi di base, quali il miglioramento dell’efficienza energetica; 2. interventi di transizione, come la sostituzione dei combustibili impiegati attualmente, o la riforestazione; 3. interventi strategici di lungo periodo, come l’utilizzo di fonti rinnovabili. Il ricorso a tali strategie non sarà tuttavia sufficiente da solo a conseguire alla riduzione nelle emissioni di CO2 in atmosfera. Il confinamento geologico della CO2 può quindi rappresentare uno strumento importante per contribuire a limitare i cambiamenti climatici globali. La cosiddetta tecnica di “Carbon Capture and Storage” (CCS) consiste in tre principali fasi: 1) cattura della CO2 emessa dai principali impianti industriali; 2) suo trasporto e 3) iniezione in formazioni geologiche idonee per significativi periodi di tempo (fino alla scala di milioni di anni). Dal punto di vista operativo, l’ideale combinazione tra capacità volumetrica e iniettività si riscontra nei seguenti mezzi: • giacimenti esauriti di carbone; • giacimenti esauriti di idrocarburi (gas e olio); • acquiferi salini profondi. Altre opzioni possibili per il confinamento sono rappresentate dai basalti, che sono stati proposti come siti alternativi in quei Paesi che non possiedono bacini sedimentari (p. es. costa pacifica statunitense, pianura del Deccan, India). Il confinamento vero e proprio prevede che la CO2 venga iniettata nelle formazioni idonee in condizioni di stato supercritico. Tali condizioni avvengono a temperature di 31.1°C e pressioni di 72.8 atmosfere, che si raggiungono a profondità superiori a 800 m. In tali condizioni la CO2 ha una densità simile a quella di un fluido e una diffusività tipica di un gas, che, oltre a favorirne l’iniezione, porta anche ad una sua migrazione verso l’alto. Per questo, oltre ad una formazione geologica che presenti buone caratteristiche di porosità e permeabi- Rappresentazione schematica delle varie opzioni per il confinamento geologico della CO2 26 Geoitalia 27, 2009 lità (reservoir), è necessaria la presenza di una copertura costituita da strati impermeabili (caprock) che impediscano la migrazione della CO2 verso la superficie. Gli acquiferi salini profondi Gli acquiferi salini profondi rappresentano uno dei migliori serbatoi per il confinamento geologico della CO2, sia per la loro ubiquità sia in quanto possono contenere quantità di CO2 incredibilmente elevate. È stato infatti calcolato che gli acquiferi da soli potrebbero contenere più della totalità di CO2 emessa sulla Terra per i prossimi 100 o 350 anni, considerando tassi di emissione progressivamente più elevati di quelli attuali (fonti: U.S. Department of Energy e International Energy Agency). Gli studi condotti nell’ambito del progetto europeo GeoCapacity, mirato all’individuazione di siti potenziali per il confinamento geologico della CO2 in Europa (http://www.geocapacity.eu), hanno evidenziato come anche in Italia esistano condizioni potenzialmente idonee ai fini del CCS. Tale studio si è basato sull’analisi di circa 1650 stratigrafie di pozzo e 55000 km di profili sismici, sia a terra che a mare, acquisiti nell’ambito dell’attività di esplorazione petrolifera condotta in Italia a partire da fine anni 50. I dati sono stati resi disponibili grazie al progetto “Visibilità dei dati afferenti all’esplorazione petrolifera in Italia” (VIDEPI; Casero, 2006), sostenuto dalla Società Geologica Italiana e da Assomineraria, avente l’obiettivo di rendere facilmente accessibile la documentazione depositata presso l’Ufficio Nazionale Minerario per gli idrocarburi (UNMIG). L’analisi di tale dataset ha portato all’identificazione di 14 aree potenzialmente idonee per il confinamento geologico della CO2 nel sottosuolo italiano. Le principali si trovano a mare, nelle sequenze sedimentarie costituenti l’avanfossa adriatica. I potenziali reservoirs, di età prevalentemente pliocenica, consistono in acquiferi salini confinati o semi-confinati, costituiti da sedimenti terrigeni, principalmente sabbie da fini a grossolane, presenti in banchi spessi anche diverse decine di metri e intercalati a livelli siltosi e argillosi. Il caprock è generalmente rappresentato da argille del PliocenePleistocene. I siti potenzialmente idonei al confinamento della CO2 individuati nell’Italia centrale e nord-orientale e nell’Adriatico settentrionale sono comunemente trappole strutturali, costituite da formazioni sabbiose coinvolte nei sovrascorrimenti della catena alpina e appenninica. Quelli individuati nell’Italia meridionale sono invece trappole stratigrafiche, dove le unità sabbiose idonee sono state localizzate al fronte della catena appenninica. Ubicazione dei profili sismici e dei pozzi disponibili analizzati per l’individuazione di siti potenziali per il confinamento geologico della CO2 in Italia (www.videpi.it) Capacità di stoccaggio È stata effettuata una stima della capacità di stoccaggio dei potenziali reservoirs individuati, mediante la formula riportata di seguito, ampiamente utilizzata nell’ambito del progetto GeoCapacity. Il medesimo metodo di valutazione è stato inoltre impiegato dal U.S. Department of Energy per la stima della capacità degli acquiferi negli Stati Uniti e in Canada: dove: A è la superficie dell’areale, sp è lo spessore effettivo del serbatoio, ϕ è la porosità, σ è il cosiddetto coefficiente di storage efficiency. Line drawing di un profilo sismico acquisiti in uno dei maggiori bacini sedimentari dell’Italia meridionale (da Patacca e Scandone, 2001); il poligono arancione indica l’ubicazione del potenziale reservoir. Geoitalia 27, 2009 27 Tra i vari parametri, la densità della CO2 alla profondità del serbatoio è stata valutata sia in base a diagrammi noti dalla bibliografia, sia mediante l’utilizzo di un software implementato appositamente in ambito OGS (dott. D. Gei), che fornisce la variazione di densità della CO2 con la profondità ad intervalli pari a 10 m. Il coefficiente volumetrico di storage efficiency è attualmente il parametro di più difficile valutazione in quanto dipende dal modello di iniezione selezionato, dalle fratture presenti nel serbatoio, dai contatti tra olio e gas e tra olio e acqua, dallo spessore del serbatoio, dalla sua permeabilità e dall’eterogeneità orizzontale e verticale, dal tasso di mobilità del flusso presente nella formazione rocciosa, dalla differenza di densità tra il fluido dislocante e quello dislocato, Esempio di scheda di pozzo perforato nell’Adriatico settentrionale, in cui viene evidenziato il potenziale reservoir e caprock. 28 Geoitalia 27, 2009 e dalla velocità di flusso. In base ad indicazioni fornite dai partners europei del network di eccellenza CO2 GeoNet, nella valutazione della capacità di stoccaggio dei siti da noi individuati sono stati considerati valori di storage efficiency molto conservativi e pari a 0.02 e 0.04, che forniscono una capacità totale di 5.5 e 11 Gt rispettivamente. Considerando che nel 2007, le emissioni di CO2 dai principali impianti industriali ammontava a circa 217 Mt, i potenziali reservoir da noi individuati potrebbero contenere la totalità della CO2 emessa dagli impianti industriali italiani per i prossimi 50 anni. È necessario sottolineare che la definizione di tale stima è al momento ancora speculativa, in quanto basata sull’analisi del dataset attualmente disponibile, che, per quanto ingente, rappresenta solo una parte della totalità dei dati acquisiti nel territorio italiano a fini industriali e scientifici e quindi ulteriori potenziali reservoirs potrebbero trovarsi in aree in cui ad oggi l’accesso ai dati è precluso. doi: 10.1474/Geoitalia-27-17 Boccheggiano nelle Colline Metallifere toscane: una storia di miniere, bonifiche, ecoturismo ed... ecologia GIUSEPPE TANELLI Ordinario di Georisorse e Mineralogia Ambientale. Università di Firenze La storia È noto come le Colline Metallifere della Toscana rappresentano una delle aree del nostro Paese di più antica e continua attività estrattiva. I primi lavori minerari sono attribuiti al periodo etrusco e nel Medioevo, Massa Metallorum, l’attuale Massa Marittima, rappresentò il centro di un ampio territorio minerario e metallurgico le cui attività erano regolate da uno dei più antichi Codici minerari pervenuti. In particolare, per quanto riguarda l’area di Boccheggiano – Montieri, restano gli scritti di Vannoccio Biringuccio, che nel XVI secolo diresse per la Repubblica di Siena le ferriere di Boccheggiano, e quelli di Giovanni Arduino che nel XVIII secolo studiò le mineralizzazioni argentifere e cuprifere di Montieri e della Valle del Merse. Nella seconda metà del XIX secolo la società Montecatini, appena costituita per la coltivazione a Montecatini Val di Cecina, di quello che era il più grande giacimento cuprifero europeo, iniziò le coltivazioni industriali del “ Filone quarzoso–cuprifero” associato alla “ Faglia di Boccheggiano”. Questa pone in contatto tettonico formazioni del Basamento metamorfico toscano (Filladi di Boccheggiano sl) con livelli argillitico-marnosi delle Liguridi (Argille a palombini). I lavori si protraggono fino al 1910 e lungo il Merse, ai piedi del vecchio paese che sui più alti affioramenti del filone alla quota di 675 m slm aveva edificato il suo castello e la sua Chiesa patronale, viene scavato il Pozzo Serpieri e varie gallerie fra le quote + 450 e + 320. I resti più evidenti di queste attività minerario-metallurgiche si hanno con la presenza, lungo il corso del Merse degli ormai celebri “ Calanchi rossi”, costituiti dalle roste del processo di arrostimento a cielo aperto del minerale che, come scrive Bernardino Lotti nel 1893 : ”…disperdeva nell’aria 30 tonnellate di solfo al giorno”. Le coltivazioni cuprifere, dopo una lunga interruzione riprendono nel 1952, sempre ad opera della Società Montecatini, per cessare definitivamente nel 1963. Nei primi anni del secolo passato iniziano anche, sempre da parte della Montecatini - con l’apertura della miniera di Gavorrano, seguita da quella di Niccioleta e dai numerosi centri estrattivi nell’area di Boccheggiano-Montieri - le coltivazioni dei giacimenti a pirite. Essenzialmente localizzati al contatto fra la “Formazione filladica di Boccheggiano” e il sovrastante Calcare Cavernoso (Anidrite di Burano) o nelle zone più alte delle formazioni filladiche, in associazione con livelli di anidrite e skarn. Nella zona di BoccheggianoMontieri, vengono aperti numerosi centri estrattivi (Baciolo, Bagnolo, Ballarino, Molignoni, Rigagnolo, Fontebona, Fontalcinaldo fra i principali), serviti da chilometri di gallerie, ivi compresa una galleria di drenaggio, lunga attorno ai 10 Km, che dalla zona di Boccheggiano porta le acque di miniera a scaricarsi nel torrente Carsia, in prossimità di Perolla e della galleria di drenaggio di Niccioleta. Agli inizi degli anni 60 l’industria mineraria in Italia, così come Geoitalia 27, 2009 in tutti i paesi industrializzati europei, entra in crisi. La relativa facilità di approvvigionamento delle materie prime, a bassi costi, dai paesi extra-europei ed il progressivo sviluppo dell’economia italiana, con conseguente aumento del costo del lavoro, determinano il graduale disimpegno delle imprese private dall’attività mineraria. Fa eccezione a questo quadro, il settore pirite che, nelle Colline Metallifere, rappresentava una realtà economica e sociale che assorbiva migliaia di lavoratori. La Montecatini, che fino ad allora aveva espletato in Maremma soltanto attività estrattive e primo trattamento (frantumazione e concentrazione) - inviando i concentrati di pirite ai suoi vari stabilimenti per la produzione di acido solforico, utilizzando la sola componente solfo e trascurando la componente ferro ed il recupero energetico - studiò la possibilità di realizzare un processo di trattamento per una utilizzazione integrale dei componenti della pirite. Viene così realizzato, fra il 1960 ed il 1965, lo stabilimento del Casone nella Piana di Scarlino, dove è convogliata e trattata, in un processo integrale di utilizzazione, la pirite dei giacimenti maremmani. Zona mineraria Merse (Pozzo Serpieri) – Campiano (Pozzi di estrazione e Rampa Ribudelli), con indicata la traccia della sezione. 29 Nel 1970 a Campiano, circa 1 km a nord di Boccheggiano, dalle quote di +500 m (Pozzi di estrazione) e di +412 m (Rampa Ribudelli), iniziano i lavori per la coltivazione del giacimento, della consistenza di circa 25 Mt di pirite associata a solfuri polimetallici, individuato mediante sondaggi fra le quote di +50 e –500 m in apparente prosecuzione verso il basso della faglia di Boccheggiano. Nel corso degli anni ‘70 la Montedison, costituita nel frattempo dalla fusione fra Montecatini ed Edison, realizzava nell’area industriale del Casone di Scarlino, uno stabilimento per la produzione di biossido di titanio, per utilizzare in loco una parte dell’acido solforico prodotto e poco dopo decise di abbandonare le attività di estrazione trattamento della pirite. La Società Solmine (gruppo Montedison), che gestiva le attività passate dal settore privato a quello pubblico, entra nel gruppo Egam, creato nell’ambito delle Partecipazioni Statali per la gestione delle aziende minerarie nazionali in crisi, e successivamente nell’Eni. Vengono chiusi i cantieri storici della Miniera di Boccheggiano e nel contempo si sviluppano i lavori a Campiano, dove viene intercettata nel 1977, alla quota di +38 la faglia di Boccheggiano. Da questa scaturisce una venuta di acque calde (50° - 60 ° C) che provoca l’allagamento dei lavori fino alla quota attorno a + 330 ed il contemporaneo svuotamento dei vuoti della vecchia Miniera del Merse. Si ritrova così una situazione già vissuta all’inizio del secolo, quando i lavori nella Miniera del Merse intercettano, fra le quote di + 345 e + 320 m, la parte alta della faglia di Boccheggiano, dalla quale si ebbe una fuoriuscita di circa 17 l/s di acque calde (36°45° C) ed alta pressione (7, 5 atm). In conseguenza dell’allagamento del 1977, viene riaperta la galleria di drenaggio a quota + 418 m della Miniera del Merse e si provvede allo scavo di una nuova galleria a quota + 300 m che drena le acque della Miniera del Merse verso la Miniera di Campiano, dalla quale vengono rimosse mediante pompaggio. Finalmente nel 1983, dopo tredici anni di lavori preparatori, viene raggiunto il corpo minerario ed inizia la produzione della miniera di Campiano dotata di impianti e tecnologie estrattive d’avanguardia. Nello stesso anno, per onorare il cinquantesimo della scomparsa di Bernardino Lotti, si tennero a Massa Marittima, sua città natale, due convegni sulla Storia e l’Archeologia mineraria, e sulle risorse minerarie della Toscana, per offrire, come si legge nella presentazione degli Atti del Convegno: “…ad operatori scientifici, industriali ed amministrativi l’occasione per fare il punto sulle attuali conoscenze della geologia e giacimentologia toscana e sulle ricadute che tali conoscenze possono avere in relazione alle attività economiche e sociali del territorio”, ivi comprese quelle inerenti la valorizzazione culturale delle antiche tradizioni e vestigie minerarie del territorio. Una esigenza di valorizzazione che si concretizzerà agli inizi del Duemila, con la creazione del Parco Tecnologico e Archeologico delle Colline Metallifere, e con le recenti iniziative tese a costituire una rete fra le numerose realtà di valorizzazione culturale ed ecoturistica che si sono sviluppate nel tempo nelle antiche aree minerarie toscane: dall’Elba, alle Apuane, Amiata, Colline Metallifere, Campigliese, Volterrano, Valle del Cecina e Larderello. Nel convegno di Massa Marittima del 1983, vennero fra l’altro illustrati da parte della Società Solmine, i nuovi piani di utilizzo della pirite di Campiano. I suoi concentrati si caratterizzavano per un alto contenuto di piombo e zinco (attorno allo 0,30%, circa dieci volte superiore a quella dei giacimenti “ storici” ), che impedivano l’utilizzazione delle ceneri e dei derivati pellets ferrosi nei processi siderurgici indiretti. Era stato quindi progettato un impianto per la produzione di spugne di ferro, economicamente valido per la preparazione di acciaio al forno elettrico; oltre a recuperare, sotto forma di fanghi, il piombo e lo zinco contenuti nei concentrati di pirite. Si prevedeva altresì, allo scopo di massimizzare l’utilizzazione in loco di acido solforico, la creazione di un impianto, da affiancare a quello per il biossido di titanio, per la produzione di superfosfati per impieghi agricoli. 30 Dopo l’entrata in produzione di Campiano, si esaurisce nell’arco di qualche anno l’estrazione di pirite da Niccioleta e Gavorrano, ma la programmata produzione di spugne di ferro non ha un seguito, e le ceneri provenienti dall’arrostimento della pirite, con contenuti in arsenico, rame, piombo e zinco dell’ordine delle centinaia di mg/kg, non trovano più una loro utilizzazione come materia seconda ferrosa e vengono accumulate a piè di stabilimento. Si provvede ad un loro parziale smaltimento come inerti nei conglomerati cementizi, nella preparazione di rilevati stradali e nella arginatura di canali, nonché come materiale di ripiena, frammisto a sterili di coltivazione, negli stessi vuoti della Miniera di Campiano, fra i livelli – 20 e – 180 m. Nei vuoti vengono inoltre smaltiti i fanghi del depuratore delle acque di pompaggio della miniera, in funzione fra il 1991 ed il 1993 in associazione all’impianto di decantazione che raccoglieva le acque prima del loro scarico nel Fosso Ribudelli. La gestione della miniera negli anni è caratterizzata da vari passaggi societari, sempre all’interno del Gruppo Eni: da Solmine, a Nuova Solmine e infine Mineraria Campiano. Le attività estrattive vengono scisse societariamente da quelle di produzione dell’acido solforico. Le prime restano nel gruppo Eni con la Società Mineraria Campiano, e le seconde sono conferite alla Nuova Solmine che viene privatizzata e rileva lo stabilimento del Casone di Scarlino. Oggi la Nuova Solmine è parte del Gruppo Solmar Spa, ed è leader in Italia nella produzione di acido solforico e di oleum, usando come materia prima lo zolfo proveniente dai processi di raffinamento del petrolio. Nel 1994 cessano le attività estrattive a Campiano, giunte ad una quota di – 257 m, e si conclude la millenaria storia mineraria delle Colline Metallifere, lasciando un prezioso patrimonio culturale inserito in un contesto di lavori minerari, opifici e discariche, bisognoso di marcati interventi di bonifica ambientale. La Provincia di Grosseto e la Regione Toscana, in un quadro normativo, al tempo ricco di incertezze e foriero di contenziosi e ricorsi vari, inizia l’iter per la predisposizione del Piano provinciale di bonifica degli ex-siti minerari, e nell’alto Merse si attivano, da parte del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, le prime ricerche scientifiche sulle caratteristiche mineralogiche e chimiche di acque suoli e materiali di discarica. Le bonifiche A Campiano nel 1996 cessa il pompaggio delle acque e la miniera subisce un lento allagamento che culmina nell’aprile del 2001 quando dalla rampa di accesso Ribudelli posta a quota + 412 m, fuoriescono “acque rossastre” acide (pH 4,07) e calde (38°C), con notevoli quantità di particolato ocraceo in sospensione ed elevato contenuto in arsenico, cadmio, cromo, ferro, manganese, rame, zinco, alluminio e solfati. Le acque, con portate iniziali attorno a 15 l/s, che si stabilizzano attorno agli 8-10 l/s, si riversano nel limitrofo torrente Ribudelli e da lì, in un percorso di poche decine di metri nel sottostante fiume Merse. A seguito dei controlli espletati dalla Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpat), il Comune di Montieri richiede alla Società Mineraria Campiano di effettuare i necessari interventi di messa in sicurezza d’emergenza. La richiesta non viene accolta, per cui la Regione Toscana e gli Enti territoriali interessati, si sostituiscono in danno al soggetto responsabile delle bonifiche, provvedendo alla costruzione e alla gestione di un depuratore- che entra in funzione nell’agosto del 2001 - in grado di abbattere il carico inquinante portato dalle acque di miniera in risalita. Dall’agosto 2001 le acque che si scaricano nella Merse, monitorate da Arpat, sono depurate entro i limiti tabellari del D. Lgs. 152/06 per gli elementi pericolosi, e il monitoraggio regionale ai sensi della DGRT 225/03 indica che il fiume Merse, pur avendo punti di criticità per il solfato ed episodicamente per ferro ed alluminio nel tratto iniziale di attraversamento della zona mineraria, presenta a valle di Geoitalia 27, 2009 Sezione schematica SW-NE delle miniere del Merse e Campiano (da : Interventi di bonifica dell’area mineraria Merse - Campiano, Regione Toscana, 2005). questa e fino all’immissione nell’Ombrone, caratteristiche chimicofisiche e biologiche delle acque tali da definire uno Stato Ecologico “buono”. La Regione Toscana provvede inoltre alla istituzione di un ufficio commissariale allo scopo di dare corso agli interventi di messa in sicurezza e bonifica della Miniera di Campiano e dell’intera area exmineraria del Merse ai sensi del D.M 471/99. Vengono così elaborati il Piano di caratterizzazione, il Progetto preliminare ed il Progetto definitivo di bonifica, raccogliendo una notevole mole di dati geologici, geochimici, mineralogici, idrogeologici, minerari, impiantistici e biologici sulle caratteristiche delle acque superficiali e sotterranee, suoli, discariche, impianti di depurazione. Gli interventi coordinati dallo staff commissariale e verificati da un Gruppo di lavoro tecnicoscientifico e da una Commissione di vigilanza, ed approvati da specifiche Conferenze di servizi, sono stati espletati dietro assegnazione per bando pubblico, procedure di gara e negoziate, dal raggruppamento temporaneo di imprese Geoconsul, con specifiche integrazioni realizzate da Geoscience srl, Biochemie srl, GeoGav srl, Arpat e dal Dipartimento Scienze Ambientali della Università di Siena. Gli interventi sostanziali, per la bonifica ambientale e la salvaguardia ecologica dell’intero comprensorio dell’alto bacino del Merse, riguardano: rimozione o copertura impermeabile e regimazione delle acque di ruscellamento per le discariche, con specifici interventi previsti per i “calanchi rossi” allo scopo di coniugare salvaguardia ecologica e valorizzazione ecoturistica di un rappresentativo resto di archeologia industriale; ripiene dei vuoti superficiali creati da fenomeni di crollo dei vecchi lavori della miniera del Merse con materiali carbonatici; copertura e setti impermeabili allo scopo di contenere l’infiltrazione delle acque meteoriche e la formazione di acque acide di lisciviazione; canalizzazione delle acque di miniere del sistema Merse- Campiano nel depuratore di Ribudelli potenziato nei suoi parametri di efficienza; canalizzazione delle acque in uscita dal depuratore a valle di Ciciano e sistema di monitoraggio chimico-fisico e biologico. Nel periodo in cui sono state espletate queste attività, i cui costi sono stati sostenuti dalle strutture pubbliche, si è sviluppato il contenzioso giudiziario con l’Eni in merito alle responsabilità dei dissesti ambientali ed ai conseguenti costi di ripristino e bonifica, sia per il Merse sia per altri siti ex-minerari previsti nel Piano Provinciale di Bonifiche approvato dalla Provincia di Grosseto. Finalmente il 20 marzo scorso, a seguito di una lunga serie di confronti sugli aspetti giacimentologici, minerari, ecologici e legali, vengono firmati nella sede della Provincia di Grosseto gli accordi di programma, fra la Società Syndial del gruppo Eni – erede delle diverse società Eni che nel tempo hanno espletato le attività di coltivazione e trattamento dei giacimenti a solfuri polimetallici (Cu-Pb-Zn-Ag…) e pirite delle Colline Metallifere toscane - la Regione Toscana, le Provincie di Grosseto e Siena ed i Comuni di Montieri, Chiusdino, Massa Marittima, Gavorrano e Scarlino, per gli interventi di bonifica e salvaguardia nelle ex-aree minerarie e nell’area industriale della Piana di Scarlino. L’accordo Merse prevede interventi immediati di monitoraggio e ottimizzazione del depuratore di Ribudelli, nonchè la redazione del Piano esecutivo di bonifica e la sua realizzazione entro cinque anni dalla firma dell’accordo. L’Eni si assume le spese degli interventi già espletati (attorno a 10 milioni di euro, quasi totalmente imputabili alla costruzione e gestione del depuratore) e da espletare (attorno a 15 milioni di euro). È un risultato di grande rilevanza, che corona lunghi anni di lavoro, crea un precedente di notevole significato operativo, offre nuove opportunità professionali e permette lo sviluppo di interventi tesi a trasformare ciò che furono dei giacimenti minerari in giacimenti culturali, da “coltivare” ai fini ecoturistici ed educativi. Un prezioso mezzo, affinché le fragilità dell’ambiente geologico ed i limiti del Pianeta Terra, così come quelli della sfera biologica, sempre di più penetrino nelle consapevolezze della pubblica opinione e da lì nelle azioni di governo dei territori. Riferimenti bibliografici Benvenuti M., Mascaro I., Corsini F., Lattanzi P., Parrini P. e Tanelli G. (1997) Mine waste dumps and heavy metal pollution in abandoned minino district of Boccheggiano. Env. Geology, 30: 238-243. Lotti B. (1893) Descrizione geologico-mineraria dei dintorni di Massa Marittima in Toscana. R.. Uff. Geologico, Roma Rossato L. e Tanelli G. (2009) Arsenico nelle acque della Piana di Scarlino (GR) e fai portatrici del semimetallo: Nuovi contributi dal Pozzo profondo La Botte. Atti 3° Cong. Naz. AIGA, 404-405. Salvadori A., Reggiannini A., Nannucci M. e Fianchisti G. (2009) Bonifica dell’area mineraria Merse-Campiano: Fattori di rischio e strategie d’intervento (Grosseto, Toscana). Atti 3° Cong. Naz. AIGA, 412-413. Tanelli G. (a cura di) (1983) Atti delle giornate di studi geologici, petrologici e giacimentologici sulla Toscana: Bernardino Lotti. Mem.Soc. Geol. It., 25: 1- 285. Tanelli G. e Rossato L. (2007) – Quel filo che unisce: dai parchi minerari dell’Isola d’Elba, Val di Cornia e Colline Metallifere ad una rete dei parchi minerari toscani. Atti 3° Congr. Naz. Geo. & Tur. Rel., 108-110 Tanelli G. (2009) Georisorse ed Ambiente. Aracne Ed, Lanuvio (Roma) (in stampa). doi: 10.1474/Geoitalia-27-18 PCMIP, Palaeocarbon Modelling Intercomparison Project Presso l’Università di Bristol, una delle più stimate Università nel campo della ricerca, sono attivi due gruppi che si occupano dei cambiamenti climatici e dei loro effetti: BRIDGE (Bristol Research Iniziative for the Dynamic Global Environment, http://www.bridge.bris.ac.uk/about) per migliorare la conoscenza sulla variabilità del clima e dell’ambiente, QUEST (Quantifying and Understanding the Earth System, http://quest.bris.ac.uk/index.html) con l’obiettivo di quantificare i processi del Sistema Terra. I due gruppi hanno avviato un programma comune di ricerca sulla reattività del ciclo Clima/CO2 alle modificazioni naturali o indotte; si tratta del progetto C4MIP (The Coupled Carbon Cycle Climate Model Intercomparison Project). Il workshop di avvio del nuovo progetto internazionale PCMIP, Palaeocarbon Modelling Intercomparison Project (http://www.bridge.bris.ac.uk/projects/pcmip) ha definito la strategia per la raccolta e la omogeneizzazione dei dati al fine di modellare le interazioni tra clima e CO2 per il passato millennio e per chiarire le cause della riduzione della CO2 in corrispondenza dall’ultimo massimo glaciale. Un nuovo workshop sarà organizzato nel 2011 per discutere i risultati conseguiti. doi: 10.1474/Geoitalia-27-19 Geoitalia 27, 2009 31 Geoitalia, Fist Onlus Presidenza G.G. Zuffa 2007-08 Sintesi di fine mandato 21 Aprile 2009 Modificazioni statutarie e sede di rappresentanza Il biennio 2008-09 è stato contrassegnato da importanti realizzazioni per la Federazione Italiana di Scienze della Terra. Prima fra tutte è il passaggio al nuovo status acquisito con l’ iscrizione della FIST all’anagrafe ONLUS nel settore 08 – Tutela della Natura e dell’Ambiente. La Federazione ha così ottenuto la personalità giuridica che gli consente di svolgere, in regime fiscalmente migliorato, le attività che comportano entrate, come ad esempio l’organizzazione dei Forum di Scienze della Terra. La nuova FIST-Onlus potrà ora svolgere a pieno titolo i suoi compiti statutari in rappresentazione delle Geoscienze in Italia e nei confronti delle organizzazioni scientifiche internazionali. L’acquisizione di una sede di rappresentanza, collocata nel Museo Geologico Capellini di Bologna (via Zamboni, 61), oltre a costituire un elemento di riferimento ufficiale e stabile di visibilità per la Federazione, consentirà di conservare l’archivio dei documenti indipendentemente dai cambi di cariche direttive. Allargamento della Federazione Durante il biennio, la FIST ha ottenuto l’adesione di tre istituzioni: l’Associazione Nazionale degli Insegnanti di Scienze Naturali (ANISN), l’Associazione Georisorse e Ambiente (GEAM) e l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), passando così a federare 18 organismi. Queste nuove adesioni sono particolarmente importanti relativamente alla valorizzazione dell’insegnamento delle Scienze Naturali nelle scuole, all’ampliamento delle attività di collaborazione per le applicazioni delle Geoscienze ed infine al potenziamento delle attività di ricerca in cooperazione fra Università ed Enti. Rapporti della FIST con gli organi universitari nazionali Di rilievo è stata l’attività di interazione con il MIUR, CUN, CRUI e CIVR che si è espressa soprattutto con la stesura di documenti riguardanti la ricerca, la promozione delle lauree scientifiche, i requisiti e le modalità per la formazione degli insegnanti di scuola primaria e la riforma dei corsi di studio. All’inizio del 2007 la FIST ha insediato un Panel per la Valutazione con l’obiettivo di contribuire ad approfondire gli importanti temi della valutazione della ricerca e della didattica, le modalità di finanziamento alla ricerca e la riforma dei raggruppamenti disciplinari. In occasione del bando PRIN 2008, il Panel ha consultato le istituzioni federate affinché venissero indicati nominativi di ricercatori di elevata qualificazione scientifica e di riconosciuto prestigio ed equilibrio. Si é così arrivati, in collaborazione con i rappresentanti di Scienze della Terra nel CUN, all’indicazione di una rosa di ricercatori altamente qualificati a rappresentare le Scienze della Terra nella commissione di Garanzia per la valutazione dei progetti di ricerca nazionali. Per la prima volta la FIST ha acquisito la fiducia della comunità per intervenire a livello nazionale su questioni importanti e molto delicate. È questo un grande passo in avanti perché, finalmente, le Scienze della Terra hanno dato prova di sapersi presentare in sede nazionale come unite e coordinate. Forum Geoitalia I “Forum di Scienze della Terra” si sono affermati come una significativa e frequentata occasione d’incontro, come valido strumento per la diffusione della cultura geologica, come efficace veicolo per gli sviluppi della professione, come occasione per affrontare i temi della gestione sostenibile delle risorse naturali, della conservazione del territorio, della riduzione dei rischi legati ai fenomeni naturali e dello studio dei cambiamenti globali del pianeta. Dopo l’International Geological Congress di Firenze (2004), la presenza ai Forum FIST ha subito una triplicazione e ormai si guarda al traguardo dei 2000 partecipanti. I dati riportati nella figura e nella tabella, mostrano con evidenza l’incremento della partecipazione e del 32 numero di eventi scientifici in programma. La sede di Rimini ha caratteristiche logistiche e di prezzi degli alberghi particolarmente favorevoli per una larga partecipazione. Anche la scelta di mantenere i Forum nella stessa sede appare appropriata essendo essi caratterizzati come eventi scientifici dove le discipline si integrano per la soluzione di problemi scientifici complessi nel campo delle Geoscienze. Viceversa, il cambiamento di sede appare più consono ai congressi prevalentemente disciplinari delle associazioni federate, dove normalmente sono programmate escursioni sul terreno e dove gli organizzatori, a differenza della FIST, cambiano di volta in volta. “Outreach” Una importante realizzazione, dopo oltre due anni di preparazione, è stata l’apertura del sito Edu-Geo accessibile da www.geoitalia.org. Il sito è sostenuto dall’ANISN (Associazione Nazionale degli Insegnanti di Scienze Naturali) e raccoglie escursioni didattiche, distribuite sul territorio italiano e zone confinanti, organizzate e guidate da esperti del settore delle Scienze della Terra e rivolte principalmente agli ultimi anni della scuola superiore. Le scuole interessate al progetto Edu-Geo possono, tramite il collegamento al sito, effettuare richieste di prenotazione e/o scaricare il materiale delle singole escursioni. Chi intende proporre una nuova escursione trova nelle apposite sezioni del sito le norme, i suggerimenti ed esempi ai quali rapportarsi. Le proposte di escursione sono sottoposte alla revisione del Comitato di Redazione, ai fini della loro pubblicazione nel sito. Attraverso la collaborazione con istituti dedicati alla formazione Geoitalia FIST-Onlus è nelle condizioni, fin d’ora, di contribuire con idonee iniziative a promuovere la conoscenza del sistema Terra, l’eccellenza nella professione e standard etici per l’utilizzo corretto delle risorse naturali e per la difesa dai rischi naturali. Rapporti con l’Ordine Nazionale dei Geologi Il Consiglio Nazionale dei Geologi, nel proseguire la politica volta a contribuire allo sviluppo ed alle applicazioni delle Scienze della Terra ha riconosciuto la Federazione Italiana di Scienze della Terra come “Centro Italiano di Promozione e Riferimento per l’aggiornamento tecnico-professionale”. In occasione del VIIo Forum Italiano di Scienze della Terra la Federazione ha ottenuto, da parte dell’Ordine Nazionale dei Geologi il riconoscimento di 8 Workshop, 5 corsi brevi e di oltre 65 sessioni scientifiche al fine dell’acquisizione di crediti nell’ambito dell’APC Regionale e Nazionale. Questo è un primo risultato molto importante per far crescere i rapporti fra professione, Geoitalia 27, 2009 mondo accademico ed enti di ricerca che potrà avere effetti positivi anche per migliorare gli sbocchi professionali dei laureati in Scienze Geologiche Anno Internazionale del Pianeta Terra e Manifestazioni La Presidenza della FIST-Onlus ha partecipato alle attività del Comitato Tecnico Scientifico, istituito dal Ministero dell’Ambiente per le celebrazioni dell’Anno Internazionale del Pianeta Terra, proclamato dalle Nazioni Unite per il triennio 2007-2009 ed inaugurato dal Presidente della Repubblica Italiana nel maggio 2008. Dopo la positiva esperienza di Firenze 2004. La FIST, l’APAT, Il CNR-DTA, l’INGV, Il DPC e l’OGS, hanno allestito al 33°-IGC di Oslo (Agosto 2008) uno stand denominato “Standitalia” strutturato in quattro aree tematiche di ampio respiro, individuate come: Earth, Oceans, Climatic Changes e Environmental Geo-sciences. Il materiale espositivo (poster, pubblicazioni, attrezzature, modelli, proiezioni, etc.) è stato collocato secondo due anelli, uno interno ed uno esterno, nei quali hanno trovato posto rispettivamente i) i risultati delle ricerche e ii) le strategie e i prodotti per l’intervento sul territorio e per la popolazione. Particolare attenzione è stata dedicata ai temi d’attualità evidenziati anche nell’ambito dell’Anno Internazionale del Pianeta Terra. Uno spazio in posizione iniziale dello StandItalia è stato dedicato alla presentazione delle sei istituzioni partecipanti con distribuzione di materiale scientifico/promozionale (mappe, brochure, libri in visione, ecc.). Durante il biennio, la Federazione ha sostenuto con il suo patrocinio oltre dieci manifestazioni nazionali. Attività editoriali Di forte risalto è il significativo rinnovo dei contenuti e della veste grafica subito dalla rivista Geoitalia. Questa è ora, simile agli standard europei equivalenti, stampata a colori ed esce con periodicità quadrimestrale, con possibilità di passare tra breve a trimestrale. Con i suoi articoli scientifici e le numerose notizie, distribuita in circa 6000 copie, essa costituisce un importante veicolo di diffusione dell’informazione ed anche un forte elemento di coesione identitaria per la comunità di Scienze della Terra. Il sostegno fornito per la stampa di due prodotti speciali sul terremoto di Messina (4° fascicolo di Geoitalia, 2008) e di Pietro Corsi (Earth Science History, 2007) ha aperto per la FIST-Onlus un campo volto a coprire l’esigenza di non disperdere contributi scientifici importanti di difficile pubblicazione in aree abbastanza libere nell’area dell’editoria geologica. Sito della FIST-Onlus Nel biennio 2007-08 il sito www.geoitalia.org è stato migliorato e reso più ricco con il collegamento al sito del progetto Edu-Geo (www.edu-geo.it) e con l’attivazione di un Forum per la discussione sui temi principali della valutazione della ricerca, dell’offerta didattica e della diffusione delle Scienze della Terra. Il link al sito del Cineca continua a sostenere la gestione elettronica dei Forum FIST basata sul software elaborato in occasione del 32o International Geological Congress di Firenze 2004. La situazione finanziaria Il successo del VIo Forum Geoitalia e l’appoggio della Fondazione Geoitalia hanno portato il bilancio della FIST nella condizione di attivare alcune nuove iniziative come quella del progetto Edu-Geo ed il sostegno ad iniziative editoriali tra cui il potenziamento della rivista Geoitalia. Il passaggio allo status di Onlus ha determinato la necessità di una gestione finanziaria per la quale è stata incaricata la GEFICONSULT S.a.s. che si occupa della tenuta della contabilità e della redazione delle dichiarazioni fiscali, dei pagamenti e della redazione dei bilanci annuali. L’adesione futura di altri Enti Patrocinatori (Corporate members), l’introduzione di piccole quote sociali destinate fondamentalmente a coprire i costi dell’invio della rivista ai membri delle associazioni federate ed auspicabili proventi derivati da inserzioni pubblicitarie dovrebbero consentire di sostenere in futuro i costi di allestimento, di stampa e di distribuzione della rivista Geoitalia. Informazioni legali ed amministrative Denominazione dell’Associazione: Geoitalia, Federazione Italiana di Scienze della Terra – ONLUS – Organizzazione non lucrativa di utilità sociale Geoitalia 27, 2009 Status dell’Associazione: dal 18 Giugno 2008 iscritta anagrafe ONLUS nel settore 08 – Tutela della Natura e dell’Ambiente Sede di Rappresentanza: Università di Bologna: Museo Geologico Capellini, C/o: Dipartimento di Scienze della Terra e GeologicoAmbientali, Via Zamboni, 61 – 40127 – BOLOGNA, tel. +39 051-209 45420/55 - fax +39 051-209 4522 Sede Legale: Geficonsult s.a.s., Via Manzini n.8, 33100 UDINE, [email protected], tel Ufficio 0432 287175 Organi di governo della FIST-Onlus (al 21 Aprile 2009) Consiglio di Presidenza Rosanna De Rosa (Presidente FIST-Onlus 2009-10) (Pres. comitato 1) Ruggero Matteucci (Vicepresidente) Silvio Seno (Tesoriere) (Pres. comitato 3) Cesare Roda (Pres.l comitato 2) Rodolfo Coccioni (Pres. comitato 4) Attilio Boriani (Pres. comitato 5) Comitati Permanenti 1. Comitato organizzativo dei Forum di Scienze della Terra: De Rosa (Pres.), Zuffa, Roda, Martelli, Donato, Scarciglia; 2. Comitato editoriale: Roda (Pres.), Dramis, Erba, Guidoboni, Lodolo, Marroni, Poli; 3. Comitato per la promozione finanziaria: Seno (Pres.), Serva, Cavarretta. 4. Comitato per la diffusione della cultura scientifica: Coccioni (Pres.), Coltorti, Soldati, Tintori; 5. Comitato per i rapporti con i mezzi di comunicazione di massa: Boriani (Pres.). Collegio dei Revisori Effettivi: Fabrizio Turchi, Laura Ficoroni, Erica Celotto – Supplenti: Carlo Casali, Roberto Foresti. doi: 10.1474/Geoitalia-27-20 33 Il centenario del Diplodocus carnegiei Bologna, 1909-2009 FEDERICO FANTI Dipartimento di Scienze della Terra e Geologico-Ambientali, Bologna Alle 13 in punto del 12 maggio 1905, il magnate e filantropo americano Andrew Carnegie omaggiava la Corona Britannica, gli amministratori e gli scienziati del British Museum di Londra con il calco di un dinosauro che portava il suo nome, Diplodocus carnegiei. Il magnifico scheletro, lungo 26 metri e alto quasi cinque all’altezza del bacino, era stato preparato assemblando repliche perfette delle ossa rinvenute sei anni prima nella pianure del Wyoming, poco lontano dal tracciato della linea ferroviaria transcontinentale della Union Pacific. Nel 1898, nel cuore di un periodo passato alla storia per la “Guerra delle ossa” tra Othniel Marsh e Edward Cope e per la scoperta di migliaia di ossa di dinosauri nell’ovest americano, la notizia del ritrovamento di un animale di dimensioni colossali aveva spinto Carnegie ad allestire una spedizione per collezionarne i resti fossili. Negli anni a seguire, il colosso del Wyoming sarebbe divenuto uno dei dinosauri più famosi di sempre e l’icona di prestigiose istituzioni di tutto il mondo. Dopo Londra, calchi gemelli realizzati da esperte mani italiane con iuta, gesso e colorante a base di pece, vennero donate dallo stesso Carnegie ai musei di storia naturale di Berlino (1908), Parigi (1908), Bologna (1909), Vienna (1909), La Plata (1911), Mosca (1913) e Madrid (1913/14). Dopo la morte del filantropo, la fondazione che porta il suo nome ne fece dono anche ai musei di Mexico City (1930), Monaco di Baviera (1934), e Vernal (1957). Ancora oggi lo scheletro originale è il fiore all’occhiello del Carnegie Museum di Pittsbourgh. Non deve sorprendere che in questa eletta compagnia di metropoli, e di conseguenza molte case regnanti, figuri ai primi posti anche la più modesta Bologna. I requisiti fondamentali infatti erano la presenza di un museo geologico o di storia naturale, sale adatte ad ospitare e promuovere un simile reperto, e un curriculum storico, scientifico e culturale di rilievo internazionale. Bologna assolveva a tutti questi requisiti, disponendo del museo geologico più ricco d’Europa e 34 godendo di una reputazione scientifica e accademica indiscussa, rappresentata da una delle più importanti figure della seconda metà dell’Ottocento: Giovanni Capellini. Requisito aggiuntivo, Bologna aveva ospitato nel 1881 il 2° Congresso Geologico Internazionale, ideato proprio da Capellini. Il Centenario dell’installazione del Diplodocus carnegiei nel piano nobile del Museo Capellini sembra l’occasione perfetta per la promozione internazionale della paleontologia e della geologia italiana. Il Museo Capellini vuole cogliere l’occasione per riproporsi sul piano internazionale non solo in virtù della sua storia pregressa ma in particolare per gli studi sulle tematiche che attualmente rivestono un ruolo di primo piano nell’ambito della geologia e della paleontologia. Pertanto il Museo Capellini ed il Dipartimento di Scienze della Terra e Geologico-Ambientali dell’Università di Bologna sono al lavoro per organizzare una serie di eventi che culmineranno con una Conferenza Internazionale sulla Paleobiogeografia dei Vertebrati nelle date del 28 e 29 settembre 2009 La nuova sala del Diplodocus Tra i tanti reperti esposti nelle sale del Museo Capellini, da sempre alcuni esercitano un fascino particolare agli occhi dei visitatori. Tra tutti, spicca certamente l’imponente scheletro del dinosauro. Ma il Diplodocus non rappresenta solo un catalizzatore per avvicinare il grande pubblico alla paleontologia e alla geologia: costituisce di fatto un elemento di altissima qualità sotto un profilo storico, museale e paleontologico. Il nuovo allestimento della sala del Diplodocus ha infatti avuto come principale protagonista il Diplodocus stesso. La vecchia postura basata sulle conoscenze dei primi del 1900 è stata notevolmente modificata grazie ad un significativo intervento di Geoitalia 27, 2009 restauro. La lunga coda è stata sollevata dal basamento su cui poggiava e si trova ora a oltre cinque metri di altezza; il collo, prima forzato in una posa del tutto innaturale dalle pareti stesse della sala, è stato assemblato in una postura anatomicamente corretta che permette anche una migliore visibilità ai visitatori. Il nuovo allestimento dello scheletro riflette quasi cento anni di studi su questi affascinanti animali e certamente contribuisce ad incuriosire, informare e stupire i visitatori. A completare la sala, il Museo Capellini ha recentemente acquisito il calco del cranio di un dinosauro carnivoro del Giurassico, il Torvosaurus tanneri. Questo magnifico cranio, lungo poco meno di due metri, ha colmato l’assenza di un dinosauro carnivoro all’interno del museo. Tra le diverse specie di dinosauri carnivori del periodo in cui è vissuto il Diplodocus, il Torvosaurus è stato scelto per due ragioni principali: in primo luogo, con una lunghezza complessiva di oltre 12 metri, il Torvosaurus rappresenta il più temibile e spettacolare tra i potenziali predatori del Diplodocus. In aggiunta, la scoperta di resti fossili di Torvosaurus sia in Nord America che depositi coevi del Portogallo rendono questo dinosauro carnivoro un perfetto esempio nell’ambito degli studi paleobiogeografici. Infine, per incoraggiare la ricerca e la conoscenza scientifica degli studiosi di tutto il mondo e la divulgazione didattica delle collezioni agli utenti del museo, si è fatto ampio uso delle più moderne tecnologie digitali. Grazie alla collaborazione con il centro DIAPReM (Università di Ferrara) i più importanti tipi paleontologici esposti in museo sono stati digitalizzati mediante diverse metodologie di rilievo al fine di garantire la massima precisione (che in alcuni casi raggiunge il decimo di millimetro), gestione e fruizione dei modelli ottenuti. L’elaborazione dei dati raccolti costituirà parte integrante degli allestimenti futuri all’interno del Museo Capellini: parallelamente, i diversi modelli morfometrici verranno resi disponibili on-line per essere accessibili a studiosi italiani e stranieri. Mostra “Dinosauri e vertebrati fossili Italiani” Nell’ambito delle celebrazioni per il centenario del Diplodocus, il Museo Capellini ospiterà per il periodo 5 settembre 2009 – 11 gennaio 2010 una mostra in cui per la prima volta verranno riuniti in un’unica sede i più importanti fossili di vertebrati rinvenuti nel nostro paese. La mostra, realizzata in collaGeoitalia 27, 2009 borazione con i musei di Storia Naturale di Milano, Napoli e Trieste, offrirà a esperti e semplici visitatori una grande opportunità per conoscere meglio il patrimonio paleontologico nazionale. In occasione della mostra, oltre alla rinnovata sala del Diplodocus verranno inaugurati i nuovi allestimenti delle sale del piano nobile del museo. entrambi i convegni durante la loro permanenza in Europa. La scelta di questa particolare tematica vuole riflettere un ampio spettro di ricerche Conferenza Internazionale sulla Paleobiogeografia dei Vertebrati e Ponti Continentali: Tetide, Mesogea e Mar Mediterraneo A completare le celebrazioni il Museo Geologico Giovanni Capellini ed il Dipartimento di Scienze della Terra e Geologico-Ambientali dell’Università di Bologna ospiteranno una conferenza internazionale sulla Paleobiogeografia dei Vertebrati nelle giornate del 28 e 29 settembre. La Conferenza segue direttamente il Symposium of Vertebrate Paleontology che si terrà a Bristol (G.B.) dal 23 al 26 Settembre 2009, per offrire ai colleghi d’oltremare l’opportunità di partecipare a 35 che negli ultimi decenni si sono trovate al centro di una densa rete interdisciplinare. Lo studio delle dinamiche paleogeografiche e paleobiogeografiche non solo abbraccia svariate tematiche di ricerca nell’ambito della geologia, paleontologia, biologia e antropologia, ma anche un intervallo di tempo considerevole che si estende dal Paleozoico superiore ai giorni nostri. L’obiettivo comune di migliorare la comprensione e l’interconnessione di queste discipline rispecchia alcuni dei più recenti sviluppi nell’ambito delle Scienze della Terra: ne sono un esempio il ruolo sempre più importante dei ritrovamenti a dinosauri, gli studi sulle faune mioceniche, e l’evoluzione dell’uomo nel Neogene e Quaternario. La conferenza sarà articolata infatti nelle seguenti sessioni: - paleogeografia e geodinamica - paleobiogeografia - paleontologia dei vertebrati - antropologia Il programma delle giornate prevede: Domenica 27 settembre 15 – 18 Diplodocus carnegiei. Celebrazione del Centenario: conferenze pubbliche di Matthew Lamanna (Carnegie Museum of Natural history, Pittsburgh) e Philip Currie (University of Alberta, Edmonton). 18 – 19 Apertura della Conferenza sulla Paleobiogeografia dei Vertebrati con l’in- tervento di Carlo Doglioni (Università la Sapienza, Roma) e Mario Tozzi (CNR, Roma). dalle 19 Ice-Breaker nell’atrio del Museo Geologico Giovanni Capellini. Lunedì 28 settembre 8.30 - 12.30 Morning Session: Paleogeografia e Geodinamica. Key Lecturers: Fabrizio Cecca (Università Pierre et Marie Curie, Parigi) e Gian Battista Vai (Università di Bologna). 12.30 – 14.30 Pranzo e Sessione Poster. 14.30 – 18.30 Afternoon Session: Paleobiogeografia. Key Lecturers: Eric Buffetaut (Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi) e Michael Caldwell (University of Alberta, Edmonton). Martedì 29 settembre 8.30 - 12.30 Morning Session: Paleontologia dei vertebrati. Key Lecturers: Cristiano Dal Sasso (Museo di Storia Naturale, Milano) e Philippe Taquet (Académie des Sciences, Paris). 12.30 – 14.30 Pranzo e Sessione Poster. 14.30 – 18.30 Afternoon Session: Antropologia. Key Lecturers: Ernesto Abbate (Università di Firenze) e Benedetto Sala (Università degli Studi di Ferrara). Mercoledì 30 settembre Escursione al Villaggio del Pescatore (Trieste) Tutte le informazioni relative alla Conferenza sono disponibili sul sito www.museocapellini.org. L’iscrizione alla Conferenza è gratuita: per motivi organizzativi si prega di confermare la partecipazione entro il 3 Luglio 2009. È possibile sottoporre abstract riferiti alle quattro sessioni tematiche (per presentazioni orali o per poster) all’indirizzo [email protected] entro il 29 Maggio 2009. Per qualsiasi informazione sulla mostra “Dinosauri e vertebrati fossili Italiani” e sulla Conferenza Internazionale è possibile contattare direttamente il comitato organizzatore: Federico Fanti Tel. +390512094565 E-mail: [email protected] Maria Cristina Perri Tel. +390512094560 E-mail: [email protected] Claudia Spalletta Tel. +390512094578 E-mail: [email protected] Gian Battista Vai Tel. +390512094552 E-mail: [email protected] Il Museo Geologico Giovanni Capellini si sta preparando per questa importante serie di eventi che certamente contribuiranno a rilanciare sul piano nazionale e internazionale la ricchezza del patrimonio geologico e paleontologico italiano. Vi aspettiamo a Bologna! doi: 10.1474/Geoitalia-27-21 Notizie da IODP-Italia ELISABETTA ERBA Dipartimento di Scienze della Terra, Università degli Studi di Milano Il 29 Aprile 2009 è stato formalmente costituito il COMITATO di Coordinamento IODP-Italia. Dopo la firma del Protocollo d’Intesa (15 Settembre 2008) da parte dei Presidenti di INGV, OGS, CoNISMa e CNR, la costituzione del Comitato fornisce alla comunità scientifica Italiana interessata ad IODP un referente per interagire a livello sia nazionale che internazionale. Il Comitato è composto in parte da delegati e sostituti che già facevano parte del precedente Gruppo informale di Riferimento (2004-2008), ma anche da delegati e sostituti che per la prima volta hanno dato la disponibilità a lavorare per mantenere ed implementare IODP-Italia. Il Gruppo di 36 Riferimento ha avuto come obiettivo la costituzione di un consorzio tra i quattro enti che sino ad ora hanno afferito ad ECORD versando quote individuali ad EMA sin dal FY 2004. Infatti, dopo la conclusione della fase ODP, la comunità scientifica italiana interessata al progetto IODP si è trovata in una situazione anomala in quanto formalmente divisa secondo l’ente d’appartenenza. In realtà i ricercatori hanno sempre agito in piena sintonia, cercando di minimizzare le criticità derivanti da una teorica indipendenza di CNR, INGV, OGS e CoNISMa nei confronti di ECORD-IODP e concordando invece le rappresentanze a livello nazionale ed internazionale come se IODP-Italia fosse effettivamente un unico referente. Il Comitato IODP-Italia non è un punto d’arrivo, anzi: si tratta del punto di partenza che tanto abbiamo aspettato per poter riportare i ricercatori italiani almeno alle condizioni di partecipazione della fase ODP (1986-2003). Le cose da fare sono tante ed impegnative: c’è bisogno dello sforzo convinto e congiunto di tutti. Nella riunione costitutiva abbiamo stilato la lista delle azioni prioritarie che ci prefiggiamo per il 2009. Innanzitutto dobbiamo prendere contatto con il MiUR e chiedere fondi ad hoc per IODP-Italia che comprendano la quota di partecipazione al progetto, fondi per il funzionamento, e fondi per le missioni di ricercatori sulle navi e nei panels. Per quanto riguarda e attività di divulgazione, abbiamo Geoitalia 27, 2009 programmato il rifacimento del sito-web, l’organizzazione del III Ciclo di conferenze itineranti, la pubblicazione del Notiziario IODP-Italia. La ripresa delle spedizioni con la nuova JOIDES Resolution (attualmente è in corso la seconda crociera, Exp. 321 in Oceano Pacifico) da uno stimolo importante, perché finalmente le idee e i proposals cominciano a concretizzarsi dopo una pausa di qualche anno. IODP (ed ECORD) sta già lavorando al post-2013 con l’usuale spirito d’innova- zione che ha caratterizzato il progetto fin dalla nascita del DSDP. IODP-Italia cercherà di dare opportunità più numerose e meglio supportate a tutti ricercatori italiani che vogliono contribuire (scientificamente e didatticamente), partecipare (a crociere, a panels, a workshops, a scuole) e imparare (c’è sempre qualcosa da scoprire) da IODP. Per il biennio 2009-2010 il Comitato di Coordinamento IODP-Italia è così composto: INGV: Delegati: L.Sagnotti, F. Florindo Sostituti: A.Bertagnini, P. Del Carlo OGS: Delegati: M.Rebesco, N. Wordell Sostituti: L. De Santis, S. Persoglia CNR: Delegati: F.Gamberi, M.Sacchi Sostituti: M.Taviani, C.Violante CoNISMa:Delegati: E.Erba, P.Vannucchi Sostituti: I.Raffi, P.Tartarotti Presidente: E.Erba Vice-Presidente : L.Sagnotti Segretario: M. Rebesco doi: 10.1474/Geoitalia-27-22 Attività dell’Associazione Italiana di Geologia e Turismo (G&T) MARIO PANIZZA Presidente di G&T L’Associazione Italiana di Geologia e Turismo è stata formalmente costituita a Bologna nel 2003, con lo scopo principale di valorizzare il patrimonio geologico italiano e di inserire questa componente del paesaggio nelle politiche di promozione di un turismo culturale qualificato ed integrato. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso l’attività dei Gruppi di Lavoro (Divulgare le Scienze della Terra, Cartografia geo-turistica, Editoria per Guide geo-turistiche, Geologia e vino, Una geologia per tutti, Geoarcheologia) e il riferimento a Delegati in ogni Regione italiana. Le attività sono prevalentemente svolte in collaborazione con vari Enti. Innanzitutto con la Regione Emilia-Romagna (Servizio geologico, sismico e dei suoli), grazie alla quale sono stati effettuati tre Congressi Nazionali a Bologna (il prossimo nel settembre 2010) e la pubblicazione dei relativi Atti e del Notiziario dell’Associazione. Altre preziose collaborazioni sono svolte con il Museo di Scienze Naturali di Bergamo, con vari Dipartimenti universitari, con il Consiglio Nazionale dei Geologi, con il Club Alpino Italiano, con vari Enti Parco (Geo-Parco del Beigua, Parco di Frasassi, Parco dei Peloritani ecc.), con l’ISPRA (Istituto Superiore Protezione Ricerca Ambientale). In riferimento a quest’ultimo e nell’ambito dell’Anno Internazionale del Pianeta Terra (IYPE), sono in atto due importanti Progetti di Ricerca, qui di seguito illustrati. Via GeoAlpina È un progetto che coinvolge i sei paesi dell’arco alpino: Austria, Francia, Germania, Italia, Slovenia e Svizzera. È un’iniziativa Geoitalia 27, 2009 che ha come obiettivo la diffusione della cultura geologica (in senso lato), attraverso alcuni itinerari anche transnazionali. In particolare verranno preparate e stampate delle Guide, che illustreranno con un linguaggio semplice e accessibile a tutti, ma rigorosamente scientifico, le caratteristiche geologiche di alcuni fra i paesaggi più suggestivi delle Alpi. Questo materiale potrà essere consultato e scaricato da uno specifico sito internet, oppure richiesto agli Uffici turistici, ai Parchi e agli altri enti che hanno aderito all’iniziativa. Potranno anche essere predisposti dei pannelli multilingue esplicativi delle caratteristiche più salienti degli itinerari. Per quanto riguarda l’Italia, l’Associazione Italiana di Geologia e Turismo ha assicurato la copertura di tutto l’arco alpino, dalle Alpi Giulie alle Alpi Marittime, grazie alla disponibilità di propri Soci particolarmente esperti per ciascun settore. Nel periodo estivo 2009 verranno organizzate delle giornate di inaugurazione dei vari itinerari e alcune escursioni guidate direttamente dagli autori degli stessi: la prima si effettuerà in Alta Badia nei giorni di martedì 21 luglio (Presentazione ufficiale presso il Municipio di Corvara, seguita da una Conferenza illustrativa) e di giovedì 23 luglio (Escursione al rifugio Kostner, sul Sella). Alla Via GeoAlpina dovrebbero seguirne altre: Via GeoAppenninica, Via GeoPirenaica ecc. L’Associazione G&T offre anche la disponibilità di trasferire questi itinerari nel Progetto EduGeo della FIST. Il “Viaggio in Italia” di J.W. Goethe e il paesaggio della geologia Viene ripercorso il viaggio che Goethe ha effettuato nella nostra penisola più di 220 anni fa, facendo un confronto tra le sue osservazioni geografiche e soprattutto geologiche e i più moderni risultati e le più avanzate teorie delle Scienze della Terra. In parallelo numerosi ricercatori, facenti capo a vari istituti di ricerca geologica, ripropongono l’itinerario dalle Alpi alla Sicilia, che il grande letterato tedesco aveva compiuto in carrozza o in battello. Ne risulta una duplice descrizione affascinante e sapiente: quella dei brani di Goethe e quella moderna. Questa è svolta in modo rigoroso dal punto di vista scientifico, ma accessibile anche ai non esperti in materia geologica. Il tutto corredato da una ricca iconografia tratta sia da disegni originali del poeta, che da moderne documentazioni. Fra i paesaggi che catturano la sua attenzione, quello dei vigneti è occasione per citare alcuni vini da lui particolarmente apprezzati e anche per metterne in risalto i 37 rapporti con le caratteristiche del terreno. Da questi spunti una parte della ricerca si sofferma anche su Goethe come cultore del “paesaggio del vino”. Su questo tema si ricordano i tre Convegni svolti a Perugia (il prossimo nel novembre 2009). Una prima presentazione della ricerca è stata effettuata nel dicembre scorso nella casa (ora Museo), che fu abitata da Goethe durante il suo soggiorno a Roma. Oltre ai due progetti sopra descritti, sono svolte anche altre attività a carattere nazionale (per esempio: la Mostra “Viaggio nella Geologia d’Italia” e il “Geologia e Turismo Day”, di seguito illustrate), a carattere locale (grazie all’attività dei Delegati Regionali) e a carattere internazionale (collaborazione con il già citato IYPE e con il W.G. ”Geomorphosites” della I.A.G.) e nell’organizzazione di convegni (La Valletta, Lesbo, Parigi). Viaggio nella Geologia d’Italia È una Mostra itinerante, realizzata in collaborazione con il Museo di Scienze Naturali di Bergamo e in occasione di un convegno nazionale qui svolto nel 2006. Dopo Bergamo è stata esposta in varie città d’Italia: Messina, Villa S.Giovanni, Agordo, Potenza, Siena, Firenze, Benevento e Matera. La Mostra espone poster su tematiche relative alle Scienze della Terra, integrate da aspetti bio-naturalistici, storici, arti- stici ed antropologici. È stata percorsa da migliaia di visitatori (appassionati, studenti, turisti ecc.) riscuotendo un grande e lusinghiero successo. G&T Day È organizzata una giornata di escursione geologica in varie località d’Italia, da svolgersi l’ultimo sabato del mese di maggio di ogni anno (con una tolleranza dovuta a situazioni contingenti). È rivolta soprattutto alle scuole e a turisti interessati alle Scienze della Terra. Iniziata nel 2008, sta avendo un buon riscontro, grazie all’attività di promozione e di organizzazione svolta dai Delegati Regionali. doi: 10.1474/Geoitalia-27-23 La variabilità del Clima nel Quaternario: la ricerca Italiana GIUSEPPE OROMBELLI, ANDREA SPOSATO Pochi campi di studio nelle Scienze della Terra presentano una varietà di oggetti analizzati come la Paleoclimatologia, e un necessario concorso di varie discipline per il loro studio. Tracce del clima e delle sue variazioni nel recente passato geologico si trovano infatti nei sedimenti marini e lacustri, nei suoli e paleosuoli, nelle concrezioni di grotta, nei depositi e nelle forme prodotte dai processi geomorfici continentali e litorali, nei resti fossili e subfossili di organismi, negli incrementi annui di tessuti o materiali vegetali e animali, nelle impronte lasciate dalle società umane ed infine nei ghiacci polari. Tranne che per questi ultimi, il nostro paese non ha rivali per ricchezza e varietà di archivi naturali del clima e delle condizioni ambientali nel Quaternario; ad essi vanno aggiunti elementi fondamentali per la loro datazione, quali tephra, livelli organici, resti archeologici, frutti di una storia geologica, di condizioni geografiche, di una presenza antica dell’uomo che hanno contrassegnato l’Italia, come bene avevano inteso i padri della geologia italiana. Visto il grande sviluppo della ricerca paleoclimatica internazionale e degli studi quaternaristici (mostrato dal proliferare delle riviste internazionali su questi temi), è parso opportuno all’AIQUA (Associazione Italiana per lo Studio del Quaternario) organizzare un convegno di paleoclimatologia che ponesse l’accento, appunto, sull’Italia. Così dal 18 al 20 febbraio si è tenuto a Roma presso la sede dell’ISPRA il convegno “La variabilità del Clima nel Quaternario: la ricerca Italiana”, promosso oltreché dall’AIQUA, dall’AIGEO e dal CNR. Al convegno hanno partecipato circa 150 ricercatori, con la presentazione orale di una cinquantina di contributi e l’esposizione di una trentina di poster. Il convegno si è, per così dire, auto-organizzato in una serie di sessioni tematiche, ciascuna promossa e presieduta da uno o più convener. La prima sessione, coordinata da Maria Bianca Cita e da Giancarlo Scardia, aveva per titolo “Quaternario: stratigrafia e cambiamenti climatici”. M.B. Cita, in apertura, ha ricordato, da un lato, il ruolo avuto dai ricercatori italiani nella formalizzazione degli stratotipi dei piani in cui è suddiviso il Quaternario (e più in generale il 38 Neogene), dall’altro i problemi ancora in discussione, quali il rango del Quaternario e il suo limite inferiore, o l’importanza di saldi concetti stratigrafici nella cartografia geologica delle unità stratigrafiche del Quaternario continentale, ove è opportuno sperimentare nuove vie nel confronto dei risultati via via raggiunti. Ha inoltre sollecitato i quaternaristi italiani ad essere presenti ed attivi su questi temi, proprio per la ricchezza e varietà della documentazione geologica presente in Italia. Le relazioni e i poster hanno poi messo in evidenza l’importanza in Italia della tefrostratigrafia come strumento di correlazione fine, anche con gli eventi climatici, o quella delle perforazioni nei sedimenti delle pianure alluvionali per indagini stratigrafiche multidisciplinari su successioni di maggiore continuità di quelle offerte dagli affioramenti. Così lo studio stratigrafico del sottosuolo della pianura veneto-friulana, mediante datazioni 14C, U/Th , OSL ed indagini palinologiche, pedologiche e geochimiche, ha prodotto un quadro dell’evoluzione tardo quaternaria della regione che è, attualmente, il meglio dettagliato per il versante meridionale delle Alpi. Una seconda sessione, “Indicatori geomorfologici di variazioni climatiche”, coordinata da Olivia Nesci e Gilberto Pambianchi, ha invece riguardato alcuni dei numerosi settori in cui la geomorfologia può contribuire alla ricostruzione delle variazioni climatiche e, soprattutto, dei loro effetti sull’ambiente. Glacialismo, processi periglaciali, fluviali, di versante, litorali, sviluppo dei suoli hanno lasciato tracce eloquenti delle modificazioni climatiche e ambientali, che debbono essere studiate per meglio valutare i cambiamenti passati e la sensibilità del territorio italiano, così minutamente articolato, per caratteri geologici, morfologici e climatici. Nell’Italia montana vi sono evidenze di una cadenza ritmata dalle fasi climatiche, della frequenza e severità dei fenomeni franosi, mentre nelle aree pedemontane, di pianura o litorali le variazioni del livello del mare hanno condizionato l’evoluzione dei sistemi fluviali. Paola Iacumin e Maria Rita Palombo hanno coordinato una sessione su “Isotopi e faune quale supporto per lo studio delle variazioni climatiche”. La ben nota valenza paleoambientale e paleoclimatiGeoitalia 27, 2009 ca delle associazioni a macro e micro-mammiferi, sia pure da valutarsi con attenta analisi critica, trae profitto dalle analisi geochimiche che la integrano con dati relativi sia alle componenti fisiche, sia a quelle biotiche. È questo un campo promettente per il nostro Paese, ricco di documentazione paleozoologica ma pure paleoantropologica. La sessione “Impatto delle forzanti orbitali e degli eventi ad alta frequenza sulla variabilità climatica glaciale-interglaciale” (conveners: Cesare Ravazzi e Gianni Zanchetta) ha messo in luce la ricchezza delle registrazioni delle frequenze milankoviane e submilankoviane nei sedimenti lacustri, marini e negli speleotemi del territorio italiano, che consentono una stratigrafia di elevato dettaglio ed una minuziosa ricostruzione delle variazioni climatiche. Diviene così possibile la correlazione con le più dettagliate sequenze e curve paleoclimatiche, a scala emisferica e globale, ed una più approfondita discussione sulle modalità e i tempi dei cambiamenti climatici. Particolarmente interessanti sono apparsi i nuovi dati ottenuti dalle concrezioni della Grotta del Corchia, che hanno permesso una dettagliata ricostruzione dei cambiamenti climatici nello stadio isotopico 5. Donatella Magri e Mario Sprovieri hanno coordinato la sessione sulle “Variazioni climatiche pleistoceniche nel bacino mediterraneo” che ha offerto una panoramica delle ricerche in corso e dei nuovi risultati in questo settore, tradizionalmente importante in Italia. Così le comunicazioni hanno spaziato dai sedimenti marini profondi del Mediterraneo, alle classiche successioni marine in affioramento, che ancora offrono spazio a nuovi studi e scoperte, alle successioni dei bacini lacustri appenninici, ai travertini, alle successioni lacustri e palustri raggiunte con perforazioni ai margini delle Alpi. A Cesare Corselli si deve l’organizzazione della più nutrita delle sessioni, quella sulle “Variazioni climatiche oloceniche nel bacino mediterraneo”. Si tratta di una tematica molto vivace in Italia, sia per la disponibilità di carote prelevate in Mediterraneo e nei mari attorno alla penisola, sia per la ricca e variata documentazione sedimentologica, geochimica, paleobiologica, pedologica ed archeologica in ambito continentale e litorale. Si può dire che l’Olocene italiano (e mediterraneo) replica, ad un dettaglio più elevato, la grande ricchezza e varietà di temi propri del Quaternario italiano. Mauro Cremaschi e Marco Peresani hanno organizzato la sessione “Clima e Civiltà dal Tardoglaciale all’Anno Domini: il clima da causa a conseguenza nel mutare delle Civiltà”. Si è così avuta una rassegna di indagini geoarcheologiche che hanno illustrato le possibili relazioni tra insediamenti umani e variazioni climatiche, con esempi dalle aree desertiche circum-mediterranee (o più remote), agli ambienti montani alpini ed appenninici, agli ambienti di pianura, spaziando nel tempo dal tardoglaciale fin quasi ai giorni nostri. Fabrizio Antonioli ha organizzato la sessione “Oscillazioni relative del livello e della temperatura superficiale del mare” e ha presentato una sintesi delle conoscenze sulle variazioni del livello del mare sulle coste italiane stabili negli ultimi tre cicli climatici, oltre a nuovi dati ottenuti dagli speleotemi sommersi. Nuove strade sono state esplorate per la valutazione delle variazioni della temperatura superficiale del mare, mentre altre relazioni hanno riguardato spiagge emerse in Patagonia o questioni di relazioni tra variazioni del livello del mare e subsidenza in aree archeologiche. Infine una sessione di tipo informativo, coordinata da Valter Maggi, è stata dedicata alla ricerca paleoclimatica italiana in Antartide. Sono stati così illustrati i principali risultati raggiunti dalle perforazioni in ghiaccio, la storia cenozoica del sistema glaciaGeoitalia 27, 2009 le antartico sulla base delle evidenza di terra, i risultati delle indagini di geologia marina nel settore della Terra di Giorgio V, i dati paleoclimatici (ultimo millennio) raccolti dalle spedizioni ITASE, che hanno attraversato con una ragnatela di tracciati l’interno del continente. In alcuni poster sono stati riportati esempi di nuovi risultati ottenuti dalle analisi isotopiche delle uova di pinguino subfossili, dalle analisi chimiche delle polveri e del ghiaccio ecc. Al successo del Convegno hanno contribuito i numerosi poster esposti. Una giuria costituita da L. Carobene, C. Carrara ed E. Chiarini ha premiato come poster concettualmente e graficamente più chiaro ed efficace quello di Falcucci, Fubelli, Gori, Pini & Porreca “Il bacino di Leonessa: ricostruzione dell’evoluzione geologica quaternaria attraverso un approccio multimetodologco” Il Convegno è stato preceduto il giorno 17 febbraio da una escursione di studio al bacino di Sulmona, dal titolo: “La successione lacustre olocenica del bacino di Sulmona: geomorfologia, stratigrafia e record paleoclimatico”, organizzata dall’IGAG CNR (Biagio Giaccio, Paolo Messina, Andrea Sposato e M. Voltaggio) in collaborazione con l’Università di Pisa (Giovanni Zanchetta). Durante l’escursione sono state illustrate le caratteristiche morfologiche, stratigrafiche, paleoclimatiche e strutturali del bacino di Sulmona ed in particolare sono stati visitati alcuni affioramenti nella parte settentrionale del bacino, nell’area compresa tra gli abitati di Popoli e Vittorito, in cui sono stati analizzati i limi lacustri olocenici ricchi in livelli di tephra. La successione lacustre olocenica, oggetto della escursione, è 39 costituita da almeno 40 metri di limi bianchi calcarei distribuita in due differenti unità (ca. 8m e ca. 32m) che rappresentano gli ultimi due episodi deposizionali di una serie di sei cicli sedimentari lacustri, ben distinti tra loro da superfici di erosione e/o paleosuoli, documentati nell’area a partire dal Pleistocene inferiore. L’inquadramento cronologico della successione olocenica è basato, oltre che sui rapporti morfologici e stratigrafici fra le varie unità, su sei datazioni U/Th effettuate sui limi calcarei e sull’analisi di numerosi livelli di tephra rinvenuti nelle unità, in parte riferibili all’attività del Somma-Vesuvio. I dati permettono l’attribuzione della successione affiorante ad un periodo di sedimentazione lacustre compreso tra ca. 8000 e 1000 BP con una lacuna sedimentaria di alcuni secoli intorno a 2000 anni BP. Durante l’escursione sono stati illustrati i dati paleoclimatici ricavati dall’analisi di questa successione (ca. 600 dati δ18O e δ 13C, campionati ogni 5 cm), che presenta un record continuo di estremo interesse ed unico per l’Appennino centrale. Un gruppo di partecipanti all’escursione al bacino di Sulmona; in primo piano i due leaders dell’escursione Biagio Giaccio (con il megafono) e Paolo Messina (con il microfono). Foto scattata da Gigliola Valleri. Dettaglio della successione lacustre olocenica del bacino di Sulmona. Foto scattate da Gigliola Valleri. I partecipanti all’escursione erano una cinquantina, provenienti da varie Università italiane o enti di ricerca con competenze disciplinari diversificate; presenti anche numerosi vulcanologi interessati ai livelli di tephra. Durante la giornata si sono sviluppate animate discussioni scientifiche, sia relative alle metodologie geocronologiche e paleoclimatiche, che alla ricostruzione dell’evoluzione ambientale e paleoclimatica dell’area. doi: 10.1474/Geoitalia-27-24 Riciclare i vecchi dati geofisici L’articolo di apertura del numero 15 del 14 Aprile di Eos illustra l’attività di integrazione di vecchi e nuovi dati sismici in Finlandia con l’obiettivo di mettere in evidenza le eterogeneità crostali nelle tre dimensioni. L’articolo sottolinea con enfasi due fatti. I vecchi dati geofisici, il cui costo di acquisizione e di archiviazione è già stato ammortizzato dall’incremento delle conoscenze che dagli stessi è stato ottenuto e che pertanto sono disponibili a costi modesti, possono essere utilizzati per ricavarne nuova conoscenza sia mediante l’applicazione di nuovi metodi di analisi, sia mediante l’integrazione con dati di nuova acquisizione. L’utilizzazione dei vecchi dati geofisici comporta il loro trasferimento su supporti di memoria coerenti con i moderni strumenti di calcolo, favorendo in tal modo la conservazione dei dati per le generazioni future. Le informazioni a suo tempo ricavate da singoli data set hanno utilizzato solamente una parte del potenziale di informazione dei dati stessi. L’integrazione tra diversi data set permette di sfruttare parte dell’informazione sino ad ora non esplorata. Le attuali grandi potenze di calcolo e le nuove capacità di visualizzazione in tre dimensioni possono fare rivivere i vecchi data set come complemento dei dati di nuova acquisiszione. Come può apportare nuova conoscenza l’integrazione di differenti data set? Le onde sismiche forniscono informazioni sulla densità e sulle proprietà elastichje degli ammassi rocciosi attraversati. Dal campo delle velocità sismiche possono essere ricavati mo, dal quale si può ricavare il coefficiente di Poisson, o anche asimetrie alle più varie scale, che determinano differenze di velocità. Si tratta di differenze solitamente inferiori al 10%, e pertanto esse sono state spesso trascurate. doi: 10.1474/Geoitalia-27-25 40 Geoitalia 27, 2009 100 anni di geologia italiana in Tierra del Fuego MARCO MENICHETTI Università di Urbino ([email protected]) L’Isola della Tierra del Fuego, che rappresenta la parte più meridionale del Sud America, è uno dei luoghi più lontani dal nostro paese, ed ha costituito fino al XVII secolo, l’estremo limite terrestre “finis terrae” delle conoscenze geografiche. Tutt’ora questa parte di mondo costituisce per l’immaginario collettivo un lontano territorio di confine noto anche per la sua capitale Ushuaia, città che negli ultimi decenni è divenuta un polo turistico a livello internazionale. Poco noto invece è che diverse generazioni di geologi italiani, soprattutto negli ultimi cento anni, hanno contribuito alla conoscenza di questo territorio così remoto, sia dal punto di vista geografico che geologico. L’intera regione della Tierra del Fuego si estende per oltre 73.000 km2 mentre l’Isla Grande ne copre i 2/3 con una superficie paragonabile a quella del Piemonte e della Lombardia. Il territorio è suddiviso politicamente tra le Repubbliche dell’Argentina e del Cile. La linea di confine è stata tracciata sulla base di un trattato tra i due paesi nel 1881, sottoscritto per redimere controversie basate su interessi economici rappresentati da giacimenti minerali e soprattutto petroliferi. La popolazione è di circa 100.000 abitanti, dei quali l’85% sono argentini con attività economiche prevalenti nell’industria manifatturiera, dove predomina l’allevamento del bestiame e nell’industria estrattiva del petrolio e del gas naturale. Negli ultimi anni il turismo sta incrementando progressivamente il suo apporto all’economia locale. L’Isola, dal punto di vista geografico, è separata a nord e nordovest dalla parte più meridionale della Patagonia, dallo Stretto di Magellano e i dai suoi numerosi canali e fiordi; ad oriente è lambita dall’Oceano Atlantico attraverso una estesa piattaforma continentale sulla quale si ha un’escursione di marea di oltre 10 metri. A meridione è frammentata in oltre mille tra isole ed isolotti che costituiscono l’Arcipelago Fuegino, che si disperde fino a Cabo de Hornos nello Stretto di Drake (Figura 1). La Tierra del Fuego è attraversata nella sua zona centrale dalla Cordillera delle Ande, con cime che nella parte occidentale superano i 2000 m di altezza con il Monte Darwin ed il Monte Sarmiento, per poi degradare progressivamente verso oriente fino a raggiungere Cabo S. Diego e, attraverso lo Stretto di Le Maire, la catena montuosa dell’Isla de los Estados. Il clima della regione è prevalentemente oceanico/subpolare, ed è fortemente influenzato dalle correnti oceaniche antartiche. Il limite altimetrico della vegetazione è intorno ai 700 m oltre i quali, per gran parte dell’anno, il terreno è ricoperto da neve o da ghiacciai. A parte una strada, che percorre l’Isola nella parte argentina, che si snoda da Rio Grande ad Ushuaia e la cui pavimentazione è stata terminata solo lo scorso anno, la restante viabilità è rappresentata solo da alcune piste. Per il resto, il territorio è difficilmente penetrabile. Se a questo aggiungiamo la presenza di vaste zone acquitrinose e coperte da torba, si comprende bene perché le conoscenze geologiche sono limitate alle parti più accessibili, lungo le coste ed in prossimità delle strade. La morfologia dell’Isola è caratterizzata da lineamenti morfostrutturali, ben visibili sulle immagini da satellite e costituiti da canali, fiordi, valli, laghi allungati prevalentemente in direzione estovest e che attraversano e delimitano l’Isola soprattutto nella sua parte più meridionale. Queste morfologie sono il risultato della modellazione glaciale su preesistenti strutture tettoniche costituite dall’insieme di faglie trasformi che distribuiscono la deformazione Geoitalia 27, 2009 Figura 1 - Provincie fisiografiche della Isla Grande de la Tierra del Fuego. Nella finestra in alto a destra è riportata la configurazione della tettonica a zolle: NP: placca di Nazca; CHT: Fossa del Cile; TdF: Tierra del Fuego; NSR: Dorsale settentrionale del Mare di Scotia; SSR: Dorsale meridionale del Mare di Scotia; SFZ: Zona di frattura di Shackleton. tettonica lungo il confine tra le placche del Sud-America a nord e di Scotia a sud (Figura 1). Questo limite di placca attraversa l’Isola della Tierra del Fuego proprio in corrispondenza del Lago Fagnano e prosegue verso ovest lungo il braccio occidentale dello Stretto di Magellano. La storia delle ricerche Il contributo italiano alle conoscenze geografiche di questa parte del pianeta iniziano con il vicentino Antonio Pigafetta (c.1491c.1534), cronista al seguito di Ferdinando Magellano che nella sua “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”, descrisse la scoperta dello Stretto che separa l’isola della Tierra del Fuego dal Sud America, fatta il 21 ottobre 1520 e poi attraversato il 28 novembre dello stesso anno sino all’Oceano Pacifico. Molti altri italiani in realtà facevano parte degli equipaggi delle navi al comando di Magellano. Pigafetta nella sua relazione pubblicata a Parigi nel 1525, descrive la regione della Tierra del Fuego come un territorio morfologicamente molto aspro “circondato da montagne altissime caricate de neve”. Nei secoli successivi, ad eccezione della spedizione scientifica cartografica spagnola del 1789 guidata dal toscano Alessandro Malaspina, nessun altro italiano si interessò direttamente delle regioni australi del Sud America. Nel corso del XVIII e XIX secolo si alternarono numerose spedizioni di esplorazione geografica da parte di olandesi, francesi ed inglesi. Tra queste certamente merita di essere ricordata quella idrografica del 1826 della HMS Adventure guidata da Parker King, che per prima riporta la descrizione di alcune caratteristiche geologiche della regione, ed alla quale fece seguito la più famosa spedizione guidata da Fitz Roy con la HMS Beagle (dal 1831 al 1836), alla quale partecipò Charles Darwin. Al naturalista inglese si deve la pubblicazione della prima carta geologica del Sud America nel 1846, dove riporta le prime osservazioni sui terremoti e vulcani della regione. Nel suo Diario di viaggio viene dettagliatamente descritta per la prima volta la geologia delle coste meridionali della Tierra del Fuego ed in particolare gli scisti filladici (Formazione Yaghàn del Cretaceo inferiore) che egli definisce “clay-slate formation”, affioranti lungo le sponde del Canal de Beagle. Nel XIX secolo, la colonizzazione della regione ebbe luogo a partire dalla città di Punta Arenas, avamposto cileno situato sulla sponda occidentale dello Stretto di Magellano. Da qui partirono 41 tutte le attività esplorative ed imprenditoriali, alle quali contribuirono anche molti italiani. La città di Ushuaia fu fondata solo nel 1884, con l’istituzione di un Governatorato che sviluppò in loco un’importante colonia penale. Nel corso del XIX secolo inizia inoltre un continuo flusso migratorio italiano verso l’Argentina, del quale fecero parte anche importanti naturalisti che si distinsero per ricerche e studi sulla geologia e sulle scienze naturali in genere. Tra i primi va ricordato l’esule politico Pedro Carta Molina di Torino, medico e fondatore nel 1823 del Museo di Storia Naturale di Buenos Aires. Nel 1854 il medico milanese Paolo Mantegazza (Monza, 1831- La Spezia 1910) studiò alcuni aspetti antropologici delle popolazioni della Tierra del Fuego. A questi succedette il naturalista, e uno dei fondatori della paleontologia italiana, Pellegrino Ströbel (Milano 1821-Parma, 1895), che insegnò geologia e mineralogia Pirocorvetta Magenta, prima nave italiana a circumnavigare il globo, visitò la Tierra del Fuego. Egli riporta tutta una serie di osservazioni naturalistiche, raccogliendo numerosi reperti etnografici, oggi conservati ed egregiamente esposti nel Museo Pigorini di Roma. In quegli anni, anche nell’ambito della fondazione della Società Geografica Italiana, si intrapresero i contatti, ad opera di Cristoforo Negri, per organizzare una prima spedizione italiana in Antartide. A questa iniziativa venne chiamato a collaborare il Tenente di Vascello della Marina Italiana, Giacomo Bove (Aqui Terme 1852-Verona 1887), che successivamente fu contrattato dal Governo Argentino per organizzare e guidare una spedizione scientifica nella Patagonia Meridionale e nella Tierra del Fuego. La spedizione, a bordo della nave Cabo de Hornos comandata da Piedra Buena, parte da Buenos Aires nel dicembre 1881 con a bordo anche il geologo Domenico Lovisato (Isola d’Istria 1842-Cagliari 1916) dell’Università di Sassari, lo zoologo del Museo di Storia Naturale di Genova, Decio Vinciguerra (1857-1934), il botanico Carlo Spegazzini (18581926) e il topografo della Marina Italiana Giovanni Roncagli. Nonostante varie vicissitudini, anche a causa della mancanza di un appoggio logistico concreto, la spedizione italo-argentina esplorò l’Isola de Los Estados, eseguì misure topografiche e ne studiò la geologia, la mineralogia unitamente ad altre osservazioni naturalistiche. Purtroppo poi la spedizione subì il naufragio sulle coste della Tierra del Fuego nella Bahia Slogget. Non ci furono vittime, ma andarono perduti molti campioni e rapporti di campagna. Lovisato, in alcune pubblicazioni della Società Geografica, riporta un’accurata descrizione delle rocce affioranti, riconoscendo gli Figura 2 – Riproduzione della carta geologica della Tierra del Fuego di Guido Bonarelli (1917). Legenda: A) scisti filladici scuri che caratterizBatolite; B) Tetto del Batolite; 2. - Scisti metamorfici; 3. - Scisti a feldspato (gruppo inf.); 4. - Scisti a feldspato zano la Formazione Yaghàn, attra(gruppo sup.); 5. - Microgranuliti; C) Rocce eruttive vecchie; 6.-Porfiroidi; D) Serie metamorfica con rocce intrusive ed eruttive; 7. – (Paleozoico) scisti; 8. – Granito (lacoliti) (Quens.); 9. – Porfiroidi quarzosi, tufi e rocce assoversati da numerose vene di quarciate; 10. – Serie Giurassica-Cretacea; 11.- Orizzonti marini del Cenozoico inferiore (argilloso-marnosi); 12. – zo e le rocce porfiriche della Fm. Orizzonti marini del Cenozoico superiore (arenaceo-conglomeratici) . 13. – Conglomerati continentali basali del Lemaire. Cenozoico; 14. – Sabbie tufacee, argille tufacee e tufi (Serie di Santacruz)- Cenozoico continentale; 15. – Basalti; La prima sintesi geologica 16. – Morene distali; 17. – Depositi Quaternari; 18. – Vulcano Monte Burney. corredata anche da una carta geologica della Tierra del Fuego si all’Università di Buenos Aires. Molti altri seguirono nel corso degli deve a Guido Bonarelli (Ancona 1871-Roma 1951), pubblicata a anni successivi, incrementando le conoscenze geologiche e naturaBuenos Aires nel 1917 (Figura 2). Bonarelli si era recato in listiche del Sud America: i genovesi Giovanni Ramorino e Augusto Argentina nel 1911, su invito del Governo locale, segnalato per le Cesare Scala, Domenico Parodi, Pietro Scalabrini, Emilio Rossetti e sue qualità dal geologo Gaetano Rovereto dell’Università di Bernardino Speluzzi. Genova. La figura di Bonarelli in Argentina è stata di primo piano; Un importante contributo alla conoscenza idrografica e naturaliinfatti, al di là dell’importante apporto scientifico ed economico stica del Sud America è stato apportato da Clemente Onelli (Roma sulla conoscenza dei giacimenti petroliferi dell’Argentina nord1864–Argentina 1924), braccio destro del famoso Francisco orientale e della Tierra del Fuego, a lui si deve la fondazione della Pancrazio Moreno, più noto come “Perito Moreno”. divisione geologica della compagnia di stato petrolifera argentina Onelli, laureato all’Università di Roma, fu direttamente coinvolYacimientos Petroliferos Fiscales (YPF). Bonarelli si era anche adoto, soprattutto in maniera operativa, nella famosa disputa sul confiperato affinché altri italiani potessero continuare la sua attività in ne tra lo stato argentino e cileno nel quale venne utilizzato il criteArgentina, chiamando a collaborare il geologo marchigiano Enrico rio dello spartiacque idrografico andino. Fossa Mancini (Jesi 1884-La Plata, Argentina 1950) e il friulano La prima vera spedizione scientifica in queste regioni australi, Egidio Feruglio (Tavagnacco 1897-Roma 1954). Il primo fondò il organizzata dal neo Regno d’Italia nel 1867, era diretta da Enrico Museo di Storia Naturale a La Plata, mentre Feruglio contribuì alla Hillyer Giglioli (Londra 1845-Firenze 1909), che a bordo della conoscenza della geologia e della paleontologia della Patagonia 42 Geoitalia 27, 2009 pubblicando ben tre volumi sull’argomento. Merita di essere ricordato che la colonizzazione dell’Isola, tra il XIX e XX secolo, fu fatta a spese delle popolazioni indigene (Onas o Selk’nam, Yàmana, Alakaluf o Kawésquar) che lentamente ed inesorabilmente vennero sterminate dall’avanzata degli europei. A queste popolazioni, ridotte a poche migliaia di individui, vennero in soccorso, a partire dal 1875, soprattutto i Salesiani italiani a seguito di un progetto di S. Giovanni Bosco. Tra i numerosi che studiarono la regione australe del Sud America, un posto di rilievo lo ha certamente Padre Alberto Maria De Agostini (Biella 1883-Torino 1960) che esplorò molte regioni della Patagonia meridionale e della Tierra del Fuego, scalandone anche le cime principali con l’aiuto di guide alpine italiane. A lui si devono le prime carte topografiche dell’Isola, tante fotografie della regione, e delle popolazioni indigene ed un interessantissimo documentario cinematografico – Terre Magellaniche – girato già allora in 35 mm e restaurato recentemente dal Museo Nazionale della Montagna di Torino. Le ricerche più recenti Come ogni territorio di confine, la Tierra del Fuego costituisce una zona estremamente interessante dal punto di vista geologico, soprattutto perché si trova localizzata in una zona dove interagiscono tre placche tettoniche: quelle del Sud America, di Scotia e dell’Antartide (Figura 1). Queste interazioni hanno portato allo sviluppo della Cordillera delle Ande già a partire dal Mesozoico, lungo il margine attivo della porzione più meridionale del Gondwana. Questo processo di evoluzione tettonica, nel corso del Cenozoico, ha portato alla separazione del continente Sud Americano dalla Penisola Antartica. Ciò ha avuto importanti ripercussioni dal punto di vista della circolazione oceanografica, con la formazione della corrente circum-antartica, che regola gli scambi termici tra le medie latitudini a quelle più meridionali. Nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), da circa 20 anni sono state condotte ricerche geologiche, geofisiche ed oceanografiche, nella porzione del Sud America che va dal Passaggio di Drake alla Penisola Antartica, finalizzate alla definizione dell’evoluzione geodinamica della regione. A partire dagli anni ‘90 numerose crociere scientifiche hanno permesso di acquisire dati geofisici e geologici nell settore meridionale della Fossa Cilena, lungo la zona di frattura di Shackleton, nel Mare di Scotia meridionale e nella Penisola Antartica. Nello stesso periodo sono state condotte ricerche geologiche e geofisiche nella zona dello stretto di Magellano, riguardanti sia l’evoluzione della fascia costiera con la realizzazione di una carta morfologica di tutto il settore orientale dello Stretto, che lo studio dei bacini sedimentari terziari presenti lungo i diversi canali occidentali. A partire dalla fine degli anni ‘90 e l’inizio di questo secolo, l’esplorazione geofisica e geologica è stata estesa anche al margine Atlantico e meridionale della Tierra del Fuego, con una serie di progetti di cooperazione internazionali tra l’Istituto di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste, l’Università di Urbino, l’Università di Buenos Aires e l’Università di Santiago del Cile, il tutto nell’ambito del PNRA. Tra questi meritano di essere ricordati il TESAC (1999-2003), durante il quale sono stati acquisiti, oltre a molti dati geofisici e geologici a terra, circa 2.000 km di sismica multicanale nell’ off-shore Atlantico, utilizzando la nave argentina A.R.A. Puerto Deseado. Il progetto FORTE (2003-2007) finalizzato al rilevamento geologico e strutturale di differenti settori della Cordillera Fuegina e di alcune aree costiere. Va rilevato lo sforzo logistico e scientifico profuso per l’acquisizione della batimetria del Lago Fagnano e della mappa geologica delle aree circostanti, che ha impegnato geologi e geofisici Italiani ed Argentini per oltre 3 anni. Tra gli obiettivi generali di queste ricerche va annoverato infine lo studio delle geometrie superficiali e profonde della grande faglia trasforme che separa il Sud America dal margine settentrionale del Geoitalia 27, 2009 Mare di Scotia e che taglia trasversalmente la Tierra del Fuego. I risultati principali delle ricerche sono stati presentati nel corso di due simposi internazionali, organizzati dal gruppo di lavoro Italiano ed Argentino: il GEOSUR 2004, tenutosi a Buenos Aires con una escursione finale proprio in Tierra del Fuego, ed il GEOSUR 2007, svoltosi a Santiago del Cile, con l’escursione in Patagonia meridionale. Assetto geologico La regione della Tierra del Fuego, dal punto di vista geologico, è suddivisibile in alcune provincie morfostrutturali (Figura 1). La più interna di queste, a sud-ovest, è compresa tra la parte frontale del margine collisionale oceano/continente della Fossa del Cile e il suo cuneo di accrezione localizzato nell’Oceano Pacifico. Qui una complessa struttura rialzata, del Miocene Sup., raccorda il cuneo di accrezione con il grande Batolite Patagonico che borda tutta la parte esterna della Cordillera Andina. Il Batolite è costituito da una serie di plutoni calcalcalini messi in posto nel Cretaceo Sup. nella parte medio-alta della crosta in un complesso di basso grado metamorfico. La Cordillera Fuegina vera e propria, formatasi a partire dal Cretaceo Sup., ha il suo basamento metamorfico affiorante nella Cordillera Darwin, costituita da rocce sedimentarie e magmatiche metamorfosate in facies anfibolitica. Nella parte orientale affiorano una serie di strutture compressive più superficiali, con uno stile tettonico thick-skinned vergenti a nord-est, costituite da scisti e filladi in facies metamorfica da prehnite-pumpellyte a scisti verdi. La provincia più esterna è rappresentata dal bacino di avanfossa di Magellano, costituito da sedimenti terrigeni del Cenozoico, prodotti dallo smantellamento del cuneo tettonico andino. Il bacino è deformato attraverso un sistema di pieghe e sovrascorrimenti vergenti a nord-nordest che passano gradualmente all’avanpaese nella parte più settentrionale dell’Isola. Tutte queste province strutturali sono dislocate ed allungate in direzione est-ovest dall’azione di una tettonica trascorrente sinistra del Neogene e presumibilmente connessa all’apertura del Mare di Scotia. L’evoluzione geologica della regione inizia alla fine del Paleozoico con la frantumazione della parte meridionale del conti- Figura 3 – Ricostruzione palinspastica della parte meridionale del Gondwana. OS: Sarmiento Ophiolites; OT: Tortuga Ophiolites; AP:Antarctic Peninsula; SG: South Georgia; EWM: Ellsworth-Witmore Mountains; FI: Malvinas Islands; TI: Thurstone Island; BP: Bouvet plume. 43 nente di Gondwana attraverso la formazione, nel Giurassico sup., di un bacino marginale di retroarco noto come Rocas Verdes (Figura 3). Questo si sviluppa con strutture distensive che bordano bacini sedimentari asimmetrici all’interno dei quali si depositavano sedimenti vulcano-clastici associati a rocce da acide a mesosiliciche, vulcanico/piroclastiche e basaltiche della Fm. Lemaire. A queste erano associati sedimenti di mare profondo ed almeno tre corridoi di crosta oceanica del complesso ofiolitico, che attualmente sono distribuiti longitudinalmente per oltre 800 km dalla Cordillera Sarmiento alla Tierra del Fuego. Successivamente si depositarono riempimenti vulcano-clastici della Fm. Yaghàn, del Cretaceo inf., costituiti da diverse facies sedimentarie con marne scure, torbiditi fini e grossolane, rare arenarie e tufi. Tra il Cretaceo sup. e l’Oligocene le regioni continentali della parte meridionale del Sud-America e della Penisola Antartica non erano ancora fisicamente separate dal Gondwana. A partire dal Cretaceo sup., la convergenza localizzata lungo il margine Pacifico della placca Sud-Americana, portò allo sviluppo della Cordillera Andina. Questa fase tettonica compressiva è costituita da due eventi deformativi associati all’inversione del bacino di Rocas Verdes. Il primo evento ha prodotto pieghe isoclinaliche, ed un intenso “slaty cleavage” immergente a sud-est e nord-ovest, associato ad un metamorfismo in facies da prenhite-pumpellyte a scisti verdi (Figura 4). Il secondo evento deformativo è collegato alla formazione e messa in posto di un sistema di pieghe mesoscopiche con geometrie principalmente “chevron” con piano assiale a basso angolo immergente a sud-sudovest. A queste sono associati fronti di accavallamento vergenti a nord-est, con geometrie con basso angolo di incidenza sulla stratificazione ad ampie pieghe e un “crenulation cleavage” ad alto angolo molto pervasivo (Figura 5). La struttura della Cordillera Fuegina è costituita da un sistema di unità tettoniche vergenti a nord-est, sovrascorse le une sulle altre, attraverso una superficie di scollamento basale localizzata nelle litologie marnose e scistose del Giurassico Sup. e del Cretaceo. La geometria è costituita da blocchi monoclinalici immergenti a sud e delimitati da piani di sovrascorrimento, all’interno dei quali si possono riconoscere due gruppi di macro e meso-strutture: ampie pieghe e superfici di sovrascorrimento/scollamento a basso angolo e pieghe a chevron asimmetriche con sovrascorrimenti moderatamente inclinati immergenti a sud-sudovest che costituiscono la struttura principale della catena. Le superfici dei sovrascorrimenti sono marcate da zone di taglio con uno spessore di alcuni metri, con un raccorciamento complessivo che, su tutta la regione, può essere stimato in molte decine di chilometri. Nella parte più interna della Cordillera, Figura 4 – Schema dello stile strutturale e dei rapporti geometrici tra il clivaggio, le pieghe e le lineazioni nelle Ande della Tierra del Fuego come si osservano nell’area di Ushuaia nelle Fm. Yahgán e Lemaire. In alto a sinistra stereogramma equiareale proiettato nell’emisfero inferiore con la densità dei poli degli assi delle pieghe F1 e F2 . 44 il basamento è coinvolto nella deformazione con uno stile thick-skinned con rocce metamorfiche di alto grado dal Paleozoico Sup. al Terziario Inf., affioranti soprattutto nella Cordillera Darwin. Verso est, nel settore argentino della Tierra del Fuego, queste strutture compressive confluiscono in zone di taglio milonitiche, in facies metamorfica di scisti verdi (Figura 6). La Cordillera delle Ande, principale catena del conFigura 5 – Strutture compressive a pieghe nella tinente Sud Ameri- Cordillera Darwin. cano, segue per 3800 km un andamento N-S, che in corrispondenza della parte meridionale, nell’Isola della Tierra del Fuego, ruota di ~90°. Molti ritengono che il piegamento della Cordigliera Fuegina sia stato generato da una rotazione antioraria successiva al Cretaceo medio collegato a scala più ampia ad una zona di taglio trascorrente sinistra compresa tra il continente Sud Americano e quello Antartico. Recenti studi paleomagnetici, favoriscono un’interpretazione di un piegamento oroclinalico collegato strutturalmente a faglie trascorrenti. A partire dal Paleocene, l’area è interessata da una tettonica trascorrente, con deformazioni principalmente transtensive nella regione della Tierra del Fuego. Qui, a partire dall’Oligocene, un sistema di faglie trascorrenti sinistre connesse alla propagazione verso est del margine trasforme settentrionale del Mare di Scotia sviluppò una serie di bacini estensionali allungati in direzione est-ovest. Queste strutture si estendono per oltre 600 km, dall’Oceano Atlantico, attraverso la Tierra del Fuego ed il settore occidentale dello Stretto di Magellano, raggiungendo la fossa Cilena a sud del 50° parallelo nell’Oceano Pacifico (Figura 7). Queste faglie, prevalentemente di natura transtensiva, tagliano ed in parte riattivano le strutture compressive Cenozoiche e Mesozoiche, e sono distribuite in tutta la regione dal Canal de Beagle a sud fino allo Stretto di Magellano a nord. La geometria dei sistemi di faglie trascorrenti è distribuita su diversi segmenti, con sovrapposizioni e flessure che producono la formazione di strutture tettoniche a fiore nelle quali prevalgono bacini estensionali (pull-apart). Le principali strutture di questo tipo sono localizzate a sud lungo i diversi rami del Canal de Beagle e nelle isole dell’Arcipelago Fuegino. La parte centrale della Cordillera Fuegina è tagliata da queste faglie trascorrenti che hanno sviluppato anche localmente strutture positive che si estendono per oltre 100 km lungo la valle Carbajal-Lasifashaj. Nel settore centro-settentrionale dell’Isola, un’altra struttura trascorrente rilevante è costituita dal Lago Fagnano. Questo si sviluppa in senso longitudinale per circa 105 km con una larghezza media di 7 km, una profondità massima di 210 m ed occupa una superficie di 1650 km2. Il lago, situato a 37 m s.l.m., ha un volume di circa 150 km3 e costituisce la più meridionale massa d’acqua dolce del globo. Il suo nome è legato al Salesiano Italiano Monsignor Giuseppe Fagnano (Rocchetta Tanaro 1844-Santiago del Cile 1916) che, alla fine del XIX secolo, si adoperò per la sopravvivenza degli indigeni della Tierra del Fuego. Nella propria lingua, essi chiamavano queGeoitalia 27, 2009 Figura 6 – Zona di taglio milonitica nella Cordillera Fuegina all’interno della Formazione Lemaire del Giurassico sup. sto lago “Kami”, che significa appunto specchio d’acqua lungo. L’emissario del lago è ubicato ad ovest, nel breve corso del Rio Azopardo che drena le acque verso il Seno Almirantzago, un lungo fiordo della parte centrale dello Stretto di Magellano. Il bacino imbrifero del lago è di circa 1900 km2, con lo spartiacque regionale tra l’Oceano Atlantico e quello Pacifico che presenta una forma molto articolata, con una rete di drenaggio interessata da numerose anomalie, con gomiti di catture e inflessioni delle aste fluviali nella direzione est-ovest e subordinatamente nord-sud. La costa settentrionale è caratterizzata dalla presenza di una catena montuosa che corre parallela al lago, con corsi d’acqua brevi, ripidi ed incassati che indicano una rapida evoluzione del rilievo connessa presumibilmente al sollevamento tettonico lungo questo settore. I fiumi e torrenti a nord, hanno un andamento condizionato dalle strutture plicative, con valli che si sviluppano lungo le direzioni preferenziali nordovest-sudest. La rete di drenaggio è generalmente conseguente, ed attraversa le pieghe nella loro terminazione periclinale. Nelle estremità occidentale ed orientale del lago, il drenaggio è chiaramente influenzato dalla presenza di strutture tettoniche trascorrenti orientate est-ovest, con evidenti fenomeni di cattura fluviale lungo le aste principali. La batimetria del Lago Fagnano mostra due distinti bacini allungati in direzione est-ovest. Quello orientale, più profondo, che raggiunge i 210 m, si presenta asimmetrico con una ripida scarpata verso nord coincidente con una faglia transtensiva con direzione estovest. Il bacino occidentale, separato da quello orientale da una zona rialzata, è meno profondo, più articolato e raggiunge circa 110 m di profondità. In sintesi, il Lago Fagnano deriva dallo sviluppo di due bacini di pull-apart, contigui e giustapposti localizzati lungo il segmento transtensivo sinistro della faglia Magellano-Fagnano. La struttura tettonica del lago, sviluppatasi presumibilmente a partire dal Paleogene, è stata successivamente modellata dall’intensa attività glaciale e la morfologia del substrato, riconosciuta mediante esplorazione geofisica, è complessa ed articolata. I sedimenti sono costituiti da facies lacustri, subglaciali e proglaciali ed hanno uno spessore dell’ordine delle centinaia di metri. I più recenti si sono depositati alla fine dell’ultima Glaciazione durante la fase di ritiro del lobo orientale dei ghiacciai che scendevano dalla Cordillera Andina. In numerose località, e lungo l’allineamento dei diversi segmenti della faglia di Magellano-Fagnano, questi sedimenti glaciali, fluvio-glaciali e lacustri sono interessati da deformazioni recenti con sistemi di faglie dirette e trascorrenti. Queste indicando un’attività recente della faglia, come per altro evidenziato sia dalla sismicità che dalle misure di deformazioni crostale su stazioni DGPS. Queste ultime misure indicano uno spostamento relativo sinistro lungo il margine tra le due placche tettoniche Sud-Americana e di Scotia, di Geoitalia 27, 2009 Figura 7 – Schema tridimensionale dei diversi settori della faglia trascorrente Magellano-Fagnano, che attraversa la Tierra del Fuego, e dei relativi bacini di pull-apart associati (A,B,C,D). circa 0.5 mm/anno. L’attuale attività sismica lungo questo margine sembra essere relativamente modesta (M<3.5) con sismi prevalentemente crostali. Va ricordato comunque che nel 1949 la parte settentrionale della Tierra del Fuego è stata interessata da un evento sismico di M=7.7 con numerose frane nel Lago Fagnano, e alcuni piccoli tsunami nei canali più occidentali dello Stretto di Magellano. Le conoscenze geologiche della Tierra del Fuego, sia a terra che nei mari circostanti, restano tuttavia ancora frammentarie. Saranno necessari ulteriori studi e ricerche per chiarire molti degli aspetti della stratigrafia, dell’assetto strutturale superficiale e profondo, delle interazioni tra i margini di placca in questa regione che può considerarsi, per la sua complessità morfologica e strutturale, e per i suoi aspetti ambientali estremi, un vero e proprio laboratorio naturale. Riferimenti bibliografici essenziali Brambati, A., Mosetti, F., Michelato, A. (Eds), 1991. Strait of Magellan Project, Oceanography and Sedimentology. Boll. Ocean. Teorica Appl., Spec. Issue, 9 (2-3), 302. Bartole, R., De Muro, S., Morelli, D., Tosoratti, F., 2008. Glacigenic features and Tertiary stratigraphy of the Magellan Strait (Southern Chile). Geologica Acta, vol. 6, 85-100. Bonarelli, G., 1917. Tierra del Fuego y sus turberas. Anales del Ministerio de Agricultura de la Nación. Sección Geología, Mineralogía, Minería. Tomo XII, 3, 1-119, Buenos Aires. Lodolo, E., Lippai, H, Tassone, E., Zanolla, C., Menichetti, M., Hormachea J.L., 2007. Gravity map of the Isla Grande de Tierra del Fuego, and morphology of Lago Fagnano. Geologica Acta, vol. 5, 307-314. Lodolo, E., Menichetti, M., Bartole, R., Ben Avram, Z., Tassone, A., Lippai, H., 2003. Magallanes-Fagnano continental transform fault (Tierra del Fuego, southernmost South America). Tectonics, 22, 6, 1076, doi:1029/2003TC0901500,2003. Menichetti, M., Tassone A., (Eds). 2007. GEOSUR_2004: Mesozoic to Quaternary evolution of Tierra del Fuego and neighboring austral region I. Geologica Acta, vol. 5, 283-286. Menichetti, M., Lodolo, E., Tassone, A., 2008. Structural geology of the Fuegian Andes and Magallanes fold-and-thrust belt – Tierra del Fuego Island . Geologica Acta, vol. 6, 19-42. Polonia, A., Torelli, L., 2007. Antarctic/Scotia plate convergence off southernmost Chile: configuration of the subduction complex and different style of tectonic accretion. Geologica Acta, 5, 295-306. Esiste una vastissima letteratura di storie e racconti su questa parte di territorio che vanno dai racconti di Zweigh su Magellano a quelli di A.M. de Agostini, a Coloane e Sepulveda. Il Reparto di Cinematografia Scientifica del CNR-IRPI ha prodotto il film ”Le due Terre del Fuoco” per la regia di T. Mercuri. Ringraziamenti Si ringrazia la Famiglia Bonarelli per aver fornito l’originale della carta geologica della Tierra del Fuego pubblicata nel 1917. Un ringraziamento al Prof. A. Assorgia per le interessanti note sul Prof. Domenico Lovisato e alla Dott. Maria Antonietta Fugazzola Delpino, sovrintendente al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” per le informazioni fornite. doi: 10.1474/Geoitalia-27-26 45 La Geologia in una foto A cura di Luigi Carobene Le barene della laguna nord di Venezia ALDINO BONDESAN & SANDRA PRIMON Dipartimento di Geografia “G. Morandini” – Università degli Studi di Padova [email protected] Descrizione della foto Le barene si trovano in località Scanello, in prossimità dell’isola di Burano e a lato del canale omonimo. Le barene sono parte di un più composito ed esteso sistema di aree anfibie che si dispongono in corrispondenza dei principali canali lagunari e degli antichi delta endolagunari del Fiume Sile che marginano lo specchio acqueo lagunare. La foto è stata realizzata durante un rilievo aerofotografico eseguito per lo studio dei geositi della provincia di Venezia grazie ad un volo appositamente condotto con un elicottero della Guardia di Finanza. La foto è stata scattata il 16 Dicembre 2003 con una fotocamera digitale da 7 Mp Minolta DiMAGE 7Hi, distanza focale 18 mm, F/3,5, esposizione 1/1000 s e ISO-100. Glossario lagunare Barena: terreno lagunare che, quasi sempre emerso, solo talvolta viene sommerso dalle alte maree sigiziali; le barene ospitano una vegetazione caratteristica delle zone salmastre e costituiscono un habitat primario e insostituibile per la fauna della laguna (soprattutto per l’avifauna). Velma: sono rappresentate da tutte le aree lagunari intertidali a morfologia piatta e scarsa o assente copertura vegetale, emergenti solo durante le basse maree sigiziali. Canale di marea: canale distributore delle acque di marea. È generato dai processi erosivi determinati dal flusso e riflusso della marea. Può presentare argini di canale emersi o totalmente sommersi. Ghebo: piccolo, tortuoso canale naturale che solca le barene e nel quale, salvo il caso di basse maree eccezionali c’è sempre un livello d’acqua, non sufficiente però alla navigazione. Argine naturale di canale lagunare: si forma secondo processi analoghi a quelli dei dossi fluviali per deposito di sedimenti ai lati del canale lagunare interessato dalle correnti di flusso e riflusso mareale. Gli argini possono arrivare a emergere generando le barene di canale. L’apporto dei sedimenti deriva principalmente dalle bocche di porto. Velme e barene di canale ai lati del canale Cenesa in Chiaro: specchio acqueo in barelaguna nord di Venezia. Si osservino i canali secondari spesso collegati a specchi d’acqua interni (chiari). na, isolato o collegato attraverso ghebi al canale principale. Considerazioni generali Le aree della laguna nord situate lungo il canale di Burano, con le sue diramazioni nei canali secondari, e di San Felice fino al canale Cenesa, e ancora lungo i canali Rigà, dei Bari e della Civola, sono state interpretate come “argini naturali di canale lagunare”, vale a dire corpi sedimentari allungati nel senso del canale che contornano il tratto centrale e finale dei principali alvei lagunari. Tali corpi sedimentari sono evidenziati dalle barene, in questo caso definite come “barene di canale lagunare”, di cui fanno parte anche le isole di Torcello, Burano e Mazzorbo, e dalle velme attraverso le quali si passa in modo graduale dal canale al fondo lagunare. Il passaggio tra la barena e il canale avviene in corrispondenza di un gradino, detto “gradino di erosione” generato dall’azione erosiva delle acque incanalate e del moto ondoso all’interno dei canali. Il ciglio superiore del gradino, che corrisponde alla parte più elevata della barena, può situarsi fino a una quota posta a circa 30-35 cm sopra il livello medio del mare; le barene di canale lagunare presentano talora delle caratteristiche incisioni nella parte frontale, che si trasformano in veri e propri tagli delle barene, con la conseguente formazione di canali secondari che mettono in comunicazione il canale principale con la piana di marea. La quota alla quale la vegetazione fanerogama, che contraddistingue le barene, scompare per lasciare posto alle velme è indicata nella letteratura tra 0 e +10 cm sul livello del mare. Particolare della Carta geomorfologica della provincia di Venezia nel settore settentrionale del bacino lagunare (canale Cenesa) L’insieme dei corpi sedimentari che in laguna nord di Venezia si sviluppano a partire dalla bocca del porto di Lido verso l’interno formano un “delta di marea” I sedimenti che compongono il delta vengono trasportati dal mare lungo i canali durante la marea entrante e successivamente ridistribuiti, a seconda della granulometria, man mano che viene a mancare l’effetto della corrente di marea. La parte più grossolana della sospensione proveniente dal mare si deposita sul ciglio della barena, mentre le sedimenti che decantano sulla parte meno rilevata della barena (retrociglio) e sulle velme sono via via più fini. FAVERO (1992, p. 176) ipotizzava che le «isole sulle quali sorse Venezia fossero barene di canale lagunare connesse ad un delta di marea collegato con la bocca di porto di San Nicolò di Lido». Secondo questa ipotesi l’intero sistema di canali, isole e barene comprese tra Venezia e la palude Maggiore farebbe quindi parte di un complesso “delta di marea” del quale rimane oggi attivo solo il ramo orientale. Rappresentazione schematica dell'argine di canale lagunare lungo il canale Cenesa visto in sezione (AB nella cartina precedente). Esagerazione verticale 4x. Riferimenti bibliografici principali Bondesan A. & Meneghel M. (a cura di) 2004 Geomorfologia della provincia di Venezia. Note illustrative della Carta geomorfologica della provincia di Venezia. Esedra, Padova, 516 pp. Bondesan A. & Levorato C. (a cura di) 2008 - Geositi della provincia di Venezia. Provincia di Venezia SIGEA, 103-106 Albani A., Favero V., Serandrei Barbero R., 1983 – Apparati intertidali ai margini di canali lagunari. Studio morfologico, micro paleontologico e sedimentologico, I. V. S.L.A., ReS 9, 137-162. doi: 10.1474/Geoitalia-27-27 Nella foto a piena pagina, il paesaggio barenicolo della laguna nord di Venezia nei pressi di Burano. Si osservano le barene, le velme, i chiari e i ghebi (foto A. Bondesan - Provincia di Venezia) 46 Geoitalia 27, 2009 Geoitalia 27, 2009 47 www.geoitalia.org www.geoitalia.org
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