Anno 2 Numero 05
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andato in pezzi oltre la fisica, oltre le tre dimensioni, e che ha sparso i suoi frammenti anche sui piani del tempo (4a dimensione) e della coscienza (5a). Anno 2 Numero 05 - 09.02.2009 Deus ex machina Editoriale di Gian Maria Tosatti Effettivamente l’immaginario è un mondo molle, fatto di mercurio, attraversabile, rapido, sfuggente, liquido, fatto desideri e paure, incubi e sogni. E’ come nel romanzo di Alice, che attraversa lo specchio per trovarci la realtà stessa nel suo più profondo stato di autocoscienza. Ed essa è sempre popolata di mostri con cui spesso iniziano lunghissime lotte che lasciano imbrigliati, che non fanno più uscire. Eppure talvolta entrare nel mondo dell’immaginario, attraversarlo, diventa un passaggio obbligato – come nel caso della psicanalisi - per proseguire una certa direzione, per poter veramente andare oltre. L’immaginario diventa il fiume che si deve superare a nuoto e che divide due tronconi di strada, quella da cui si viene e quella verso cui si va. Ed esso è il luogo multidimensionale, in cui ci si deve immergere per ricostruire qualcosa che è Per finire dentro lo specchio ci sono molte trappole sparse. Una delle più irresistibili è l’Otello di Shakespeare, la cui lettura non è lineare. Essa contiene in più punti delle botole dentro cui cadere per procedere in un percorso parallelo al libro in cui si sostituiscono ai volti della storia e alle circostanze drammatiche altri volti e altre situazioni vissute dal lettore, impresse o obliate. La tragedia del Moro di Venezia, effettivamente, è una specie di sofisticata spirale che riproduce il meccanismo della caduta irreparabile. La sua tensione parabolica costituisce una forza centrifuga che attrae il lettore trascinandolo forzatamente verso la fine contro la sua volontà. Ad un certo punto dell’intreccio, un punto che può variare a seconda del lettore e di quale delle diverse trappole drammaturgiche possa essergli fatale, si comincia ad avere il “sentimento” della fine, ossia si comincia a realizzare come tutto porterà all’inevitabile morte di Desdemona. A quel punto si inizia ad opporre una sfiancante resistenza al libro. Una resistenza inutile, ogni volta, che tuttavia si consuma in un campo che non è quello letterario. La resistenza del lettore non è dentro il libro, è fuori, in uno spazio parallelo appunto, uno spazio ibrido che segue ineluttabilmente il plot shakespareano (perché esso è in accordo con le leggi dell’esistenza), ma che si contamina delle immagini riprodotte in tutte le carte coperte che stanno nel mazzo identitario del lettore. Carte che neppure lui conosce, carte che ha coperto nel tempo, e che pure lo fanno temere per l’epilogo. Il mazzo delle carte coperte, una sull’altra, costituisce una lunga colonna vertebrale, la colonna che tiene l’edificio umano, coi piedi per terra, in ordine alla gravità della vita. Tutte le volte che si legge l’Otello finisce nello stesso modo. Desdemona muore, innocente, per mano del suo sposo e con essa muore anche l’innocenza del Moro e quella del lettore che in esso si identifica. Non si scappa mai. Ogni volta, la lettura di Otello ci macchia. Però a ben guardare, leggendo con una attenzione particolare, una volta di più si può scoprire come alla fine ci sia un punto, una botola ulteriore che William Shakespeare ha lasciato aperta, ma che nessuno ha mai avuto la fortuna di trovare. E’ l’uscita di emergenza. Un salto di fede che esce dalla legge della vita e anche da quella della drammaturgia elisabettiana evitando lo schianto, lasciando che tutta la resistenza accumulata si liberi in una propulsione verso l’alto. Questa botola l’ha trovata Gaetano Ventriglia, che nel suo Otello (in scena in questi giorni all’Ambra Jovinelli di Roma) ha identificato il momento in cui il Moro passa attraverso lo specchio, il momento in cui esso si trova al di là della vita e della morte, quando l’oscurità del suo gesto cala sui suoi occhi come una cataratta di mercurio. In quell’istante egli non appartiene più a nulla, egli si immerge nel regno dell’immaginario per trovare una via d’uscita alla spirale portandosi dietro tutti gli spettatori, unendo con loro la forza della resistenza per far decollare un’astronave. Sì, un’astronave che aspetta lui e Desdemona sulla spiaggia di Cipro, per portarli via dalla miseria del delitto in cui sono precipitati. E c’è da giurare che essa decollerà, come il carro del Sole che rapisce Medea. Ventriglia, in uno dei passaggi più poetici che il teatro contemporaneo abbia mai scritto, recupera il Deus ex machina, un elemento del teatro tragico greco che rappresenta appunto la via d’uscita, la salvezza dalla catastrofe. Un elemento che la tragedia moderna, quella sviluppatasi assieme alla retorica cristiana, ha deciso di non recuperare. D’altra parte il suo intervento evidenzia spesso l’ambiguità dell’elemento divino, la sua contraddizione spesso aperta con il senso di giustizia. Una prospettiva che ben si accordava col paganesimo politeista, ma che risulta inconciliabile con lo spirito delle religioni monoteiste, in cui l’elemento divino e il senso di giustizia coincidono fino ad incarnarsi l’uno nell’altro. Ma tutto questo è retorica. Nei fatti, ogni divinità, dal dio austero degli ebrei, alla cricca di ubriaconi dell’olimpo greco, fino al dio paterno dei cristiani, tirato sempre per la tunica da qualcuno, dimostra ogni giorno le sue infinite contraddizioni anche agli occhi dei suoi fedeli, agli occhi di quelli che, seguendo Sant’Agostino, capiscono come la pretesa di comprendere la Sua volontà per mezzo di un sistemino di comandamenti o di “circolari” del sacro ministero sia quanto di più ingenuo ed inutile. E’ per questo motivo che il Deus ex machina di Gaetano Ventriglia funziona, anche oggi, salvando tutti quelli che assieme all’artista foggiano stavano per finire definitivamente inchiodati alla croce delle proprie miserie. Eh già, Deus ex machina, ossia la liberazione per intervento delle macchine, un tema di grande attualità mentre si discute d’eutanasia. Gli impostori Lo stupro dell’immaginario #1 – I modelli americani di Luigi Coluccio Babbo Natale (un tiranno?) ferito a morte da un uomo (un rivoluzionario?) al grido di «Liberté, egalité, fraternité!»: zen inarrivabile, scena madre di uno spettacolo-allucinazione multicolore e corrosivo à la Ken Russel, l’ultimo lavoro dei Tony Clifton Circus è una parabola dissacrante sul mito, la leggenda, l’uomo, il prodotto Babbo Natale. In scena il 14 e 15 febbraio al Teatro Palladium, La morte di Babbo Natale è una produzione della rete ZTL-pro, serie di soggetti del circuito romano – Angelo Mai, Teatro Furio Camillo, Rialto S a n t a m b r o g i o , S a n t a s a n g r e / Ko l l a t i n o Underground, Triangolo Scaleno Teatro - uniti nell’arduo compito di ovviare alla mancanza di strutturalità produttiva - spazi, economie, platee - che attanaglia il teatro della capitale. Sostenuto dalla Provincia di Roma ed ospitato dalla Fondazione Romaeuropa, il progetto ZTL-pro conferma con la produzione del lavoro dei Tony Clifton Circus un’attenzione alle più disparate forme di fare teatro, in questo caso una sana e primordiale clownerie virata verso la forma teatrale senza la perdita della sua componente anarcoide, cattiva e assolutamente politicallyincorrect. Wim Wenders asseriva che il nostro immaginario collettivo è stato colonizzato dagli americani. Il Vecchio West e la parabola kennedyana, Hollywood e la musica rock hanno plasmato, ridefinendoli, annientandoli, corpi, visioni, geografie prima assolutamente puri, autarchici verrebbe da scrivere. E il lungo percorso di sovrapposizione di segni, estetiche, credenze compiuto (imposto?) dalla figura di Babbo Natale – percorso iniziato con la sottomissione di Odino alla figura di San Nicola di Myra - trova il suo punto di arrivo nell’identificare il vecchio Santa Claus con un uomo barbuto e di rosso vestito che guida interminabili camion carichi di una nota bevanda... Sembra proprio essere questo Babbo Natale colui che entra in scena accompagnato da procaci bodyguards all’inizio dello spettacolo. Un Babbo Natale conscio dei meccanismi di potere e di produzione - «Vuoi un regalo bambino? Per avere un regalo bisogna lavorare, perché lavorando ottieni i soldi, con i soldi puoi comprare il regalo, il regalo poi ti rende felice, e la felicità ti rende libero…vedi?» -, che suggella ogni suo intervento con al capezzale i bambini con una raggelante ma profetica «Il lavoro rende liberi!». L’amara frase, messa in bocca al buono per eccellenza, squarcia ogni riflessione patetica e consolatoria, chiarendo inconsapevolmente per il bambino cosa è il risultato di tutta questa baracconata multicolore che chiamiamo Società. E allora il frutto di una così razionale, perversa frase sembra essere l’uomo che urlando «Liberté, egalité, fraternité!» colpisce a morte il Vecchio Dispensatore di doni, sancendo il suo essere maschera, emblema, burattino di un Sistema che è apparenza e sopraffazione. L’immaginario, l’immaginazione, la fantasticheria: sezionarle sul tavolo della razionalità, analizzandone trame, visioni, contenuti è un po’ come stuprarle. Trascinarle nel fango di questo mondo, torturandole con la nostra presunta Re a l t à , l e r e n d e a u t o m a t i c a m e n t e , e d erroneamente, false. Ogni loro capacità taumaturgica viene meno, ed intitolare uno spettacolo La morte di Babbo Natale è uno shock emozionale di cui i Tony Clifton Circus sono pienamente coscienti. Il versante su cui agiscono Nicola Danesi de Luca e Iacopo Fulgi – duo nascosto dietro il nome d’arte rubato non ad Andy Kaufmann... - è prevalentemente quello della corporalità, con le sue innumerevoli varianti ed incarnazioni: la figura di Babbo Natale, multicolore totem-feticcio, viene mediatizzata dalla TV e sconquassata da proiettili, danze sguaiate, frenesie sessuali, forza fisica e umana che sembrano la somatizzazione del suo asservimento al Capitale. Si, perché al suono di Feliz Navidad e Jingle Bell rock il nostro Santa Claus prende finalmente coscienza del suo ruolo all’interno di questa Società dello Spettacolo e dei Canditi. Accanto a lui un’altra icona intrappolata in una cornice pop edulcorata e anestetizzante: l’Uomo Ragno. E vederli assieme sullo stesso palco, vittime inermi di un processo inarrestabile, dona al tutto un’aria di amarezza dolente e solitaria, che speriamo non venga seppellita, come i Tony Clifton Circus auspicano, da una semplice, e vuota, risata... Leave them kids alone! Lo stupro dell’immaginario #2: La morte del coniglio Assud di Mariateresa Surianello Mentre il suo storico modello statunitense Bugs Bunny si vendica con perfidia delle cattiverie ricevute, Coniglio Assud alza il tiro e inneggia alla jihad dagli schermi di Al Aqsa, la tv di Hamas che trasmette dalla Striscia di Gaza. Un pupazzo animato a grandezza umana che prende vita nelle fasce orarie destinate ai bambini, accanto alla piccola Saraa, una undicenne col velo che fa da spalla alle sue inquietanti apparizioni televisive. Fino alla sua ultima comparsa, i primi di gennaio, intubato e morente in un letto d’ospedale, vittima anch’esso dei bombardamenti israeliani. Ovviamente Assud muore - come altre migliaia di disgraziati abitanti di quella terra - ma in diretta, a uso e consumo dei giovani telespettatori arabi (non a caso Al Aqsa è stata oscurata sul saltellite di trasmissione in Europa). Non prima però di aver pronunciato con una vocina stridula la sua terribile arringa antisionista e scucito dalla bocca della povera Saraa l’impegno ad armarsi contro il nemico per la riconquista di tutte le città della Palestina, compresa Tel Aviv. Un quadretto girato in un piccolo studio - davvero bombardato dall’esercito israeliano – come fosse una misera televendita di un prodotto tanto inutile quanto facile da piazzare, condotta da un’imbonitrice bambina nei cui occhi si è spenda ogni luce di speranza. Quando si alza dal capezzale dell’ormai defunto coniglio, la piccola con freddezza guarda dritto la telecamera, lanciandosi in un proclama di morte. Come in trance si cala nei panni della Pioniera del domani, una dei tanti, troppi bambini, di quell’esercito indotto ad immolarsi nel nome di Allah. Coniglio Assud non è il primo pupazzo martire uscito dagli schermi di Al Aqsa, prima del suo arrivo i bambini palestinesi hanno subito la tragedia di Nahul, un’ape che muore disperata in un letto di Gaza dopo aver tentato di uscire da quella prigione a cielo aperto, che è la Striscia, per procurarsi cure mediche adeguate. Un’altra vittima dei check point isrtaeliani, certo, l’elemento realistico sussiste in tutte queste storie violentissime, che narrate dalla tv dei ragazzi è come se togliessero giorno dopo giorno l’ultima possibilità alle generazioni future di immaginare qualsiasi progetto di pacificazione e convivenza. Tolgono ossigeno al presente quotidiano dei bambini, educano solo all’odio e alla vendetta. Non sono favole senza morale, sono pezzi di realtà sbattuti in faccia a un’infanzia negata, alla quale si taglia ogni possibilità di giocare con la fantasia. E’ come se la tv pubblica italiana, “mamma Rai” negli anni 60 e 70 avesse mandato in onda i filmini animati di Don Bosco, quelli che molti si ricordano pieni di “comunisti che si mangiano i bambini”. Non che fosse in quegli anni vietata la proiezione di questi prodotti di spicciola propaganda anticomunista, ma venivano somministrati in dosi controllate e in contesti chiusi, nelle parrocchie più fondamentaliste o nei “ritiri spirituali” di preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima. In televisione trionfava però quel romantico e tenerissimo Topo Gigio, in compagnia di Mago Zurlì o di Raffaella Carrà, che non inneggiava alla lotta di classe, ma qualche pillola di dolcezza la dispensava ai ragazzacci che poi avrebbero almeno scritto sui muri “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà”. Ecco, lo stupore che è centrale nella ricerca del Teatro delle Apparizioni ha a che vedere con la meraviglia. E la meraviglia è un’emozione immediatamente corporea, e quindi intimamente connessa al percorso che questa formazione romana ha intrapreso nel corso degli anni con il teatro sensoriale, segno distintivo dell’esordio e dei primi spettacoli del Teatro delle Apparizioni. In anni più recenti lo sguardo della compagnia si è spostato verso il teatro ragazzi. Un’evoluzione in qualche modo naturale, che ha permesso di proseguire il percorso intrapreso attorno a questa esplorazione della meraviglia senza reiterare all’infinito le formule legate all’esplorazione sensoriale, contemporaneamente recuperando la frontalità della visione. D’altronde il lavoro del Teatro delle Apparizioni non ha nulla a che vedere con l’intrattenimento per bambini con cui spesso, purtroppo, coincide la formula del teatro ragazzi. Piuttosto, il loro teatro è la materializzazione di una zona di confine, dove il linguaggio della scena sposa le tematiche dell’infanzia, ma lo fa inventando codici e creando suggestioni esattamente come nel teatro “adulto”. E anzi, attingendo a un terreno immaginifico così fecondo e allo stesso tempo così diffuso (poiché il passaggio dell’infanzia è una dimensione comune a tutti), in qualche modo si allinea all’idea di teatro popolare d’arte proposta qualche tempo fa da Massimiliano Civica. Le immagini smaccate che Al Aqsa confeziona con pochi mezzi di produzione – quindi anche molto kitsch - e con un trasporto sadomaso non alleviano il dolore dei bambini palestinesi. Non curano le ferite della guerra, anzi, al contrario, gettano sale sulle loro piaghe, mentre scarnificano la crescita di un pensiero libero da condizionamenti. E’ proprio in gioco la libertà per quelle giovani vite di svilupparsi in quanto soggettività. E ancora peggio la libertà di immaginare un modo diverso per vivere in questo mondo. L’inciampo nella realtà Dialoga a distanza con Capossela e Chaplin l’ultimo spettacolo del Teatro delle Apparizioni di Graziano Graziani Nel Teatro delle Apparizioni un ruolo centrale lo ha sempre rivestito la ricerca dello stupore. Non stiamo parlando del sensazionalismo, della ricerca dell’effetto, ma di quella sensazione epidermica che solletica il corpo quando ci si imbatte in qualcosa di bello ma totalmente inaspettato. Uno, l’ultima produzione del Tda appena andata in scena al Duncan 3.0 di Roma, è forse l’esempio migliore di questa fusione di piani. Non a caso si tratta di un lavoro che, oltre ad aver vinto il primo premio nel Festival internazionale di teatro ragazzi di Lugano, è risultato finalista al Premio Extra, dedicato alla nuova scena di ricerca italiana. Una capacità di commistione di registri e che si realizza grazie a una facoltà che il cantautore Vinicio Capossela, nelle sue canzoni, ha definito “l’incanto”. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con la retorica dell’innocenza, ma piuttosto con la capacità di guardare il mondo con occhi diversi (una facoltà che, ha dichiarato Capossela in un’intervista, «se la sai conservare, poi te la ritrovi»). Uno (Dario Garofalo) è il personaggio senza nome e (quasi) senza parole che entra sulla scena con il fare un po’ sgonfio e pierrottesco degli attori da film muto. È povero, trasandato, palesemente non ha un soldo in tasca e per di più ha fame e non ha nulla da mangiare. Si aggira per un vasto campo di rifiuti col dondolio luminoso dei derelitti e degli esclusi chapliniani. Comincia a rovistare in mezzo al pattume, nella speranza di trovare qualcosa da mangiare, ma tra i rifiuti trova solo cartacce e rottami. Eppure lì, nella disperazione della solitudine e della fame scatta qualcosa. Uno si illumina, e con lui si illuminano gli oggetti lì attorno. Se non è possibile mangiare si può sempre… fare finta. Così comincia a ingozzarsi di fogli di giornale, accartocciati e infilati sotto la maglia, finché non formano una grande pancia. L’immaginazione è meglio di niente, almeno dà modo di sconfiggere lo scoramento e, soprattutto, di guardare il mondo sotto una luce nuova. È così che Uno, masticando uno strano gramelot, si lancia in un’esplorazione della realtà attorno a lui che ha completamente cambiato di segno. Gioca con serpenti fatti di tubi di scarico, si fa la doccia in una vasca ricavata da un televisore scassato, fa parlare strani esseri fatti di calzini e scopre tracce di nobili cavalieri del deserto tra tende fatte di giornali, ornati di corone a foggia di cestello di lavatrice. Di colpo il mondo-pattume partorisce nuove possibilità grazie all’immaginario di questo personaggio stralunato che, grazie l’attenta regia di Fabrizio Pallara, passa da un’immagine all’altra come in una partitura musicale. Una sequenza che muove con naturalezza da un piano di realtà scarna e miserevole a uno di luminosa immaginazione, complici le musiche e il disegno luci, che senza simbolismi tracciano chiaramente la temperatura delle emozioni di Uno. Non c’è solo gioco nella reinterpretazione degli oggetti, che pure suggerisce al mondo-adulto, dissennato produttore di tutto quello “scarto” che soffoca il pianeta, la possibilità di guardare oltre, riciclando, reinventando, ovvero cambiando prospettiva. Non si tratta solo sorprendersi a sorridere di fronte al concerto per calzini che Uno improvvisa da un sacco di abiti buttati (c’è forse un legame con «Il paradiso dei calzini» di Capossela?). C’è anche la dimensione fortemente politica della volontà di cambiare le cose pur davanti a un campo di macerie, di rovesciare un punto di vista lucido, che ci mostra un mondo in frantumi, grazie a quella lucidità ancora più fine in grado di vedere che «c’è splendore in ogni cosa» (come recitano i versi di una grande poetessa prestata al teatro, Mariangela Gualtieri). Ovvero la capacità di illuminare la realtà con la lente dell’immaginazione, intravedendone così le potenzialità più nascoste, che è una delle qualità più preziose dell’animale uomo. Eppure – e qui sta il lato più acuto dello spettacolo – non c’è celebrazione, ma solo spinta a mettersi in gioco. Non a caso ciò che muove Uno è una spinta terrena, naturale e terribile come l’istinto della fame. E quando danzando con un’immaginaria compagna, ombrellone con il cappello, Uno si imbatte in una mela reale, rossa e succosa, lui la mangia avidamente, senza più curarsi della sua “stanza dei giochi” e anzi irrompendo – con un lievissimo ma sorprendente coup de théatre – nella realtà degli spettatori. Perché non c’è autismo né compiacimento nella danza chapliniana di Uno; piuttosto la dichiarazione di una scelta. NB: Per chi volesse approfondire il percorso del Teatro delle Apparizioni, è in libreria un bel volume curato da Letizia Bernazza e uscito per Editoria&Spettacolo. Si tratta di un libro prezioso non soltanto perché ricostruisce dieci anni di attività di questa formazione romana, giovane, ma che già annovera radici profonde. Ma anche perché è elaborato come una visione multiprospettica del lavoro del TdA, che passa per l’analisi dell’autrice fino ai racconti in prima persona di chi ha fatto il Teatro delle Apparizioni, o ne ha accompagnato il percorso: dal regista Fabrizio Pallara agli attori Giuliano Polgar, Margherita Lacché, dal drammaturgo Simone Giorgi a chi si occupa delle scene, dei costumi, dell’organizzazione come Sara Ferrazzoli, Stefania Frasca, Laura Rhi-Sausi, passando per le collaborazioni fisse, come col regista cinematografico Marco Magiarotti e il musicista Valerio Vigliar, e per quelle spuntate lungo il cammino, con il Teatro dei Sassi di Matera e la regista messicana Shaday Larios Ruiz. Una visione polimorfa e reccia, alla quale si aggiunge l’osservazione esterna degli interventi critici, che hanno accompagnato il percorso delle Apparizioni, dai docenti che hanno visto nascere la compagnia come Giorgio Taffon e Giancarlo Sammartano, allo sguardo dei critici teatrali che si sono imbattuto nel lavoro di questa bandi di “folletti” (come scrive Gianfranco Capitta) e sono stati rapiti dalla loro naïveté, dal loro essere una sorprendente anomalia (come spiega Paolo Ruffini, curatore della collana) nel panorama della scena contemporanea italiana. Il non-oggetto del desiderio “Greed by Francesco Vezzoli”, il profumo che esiste solo in pubblicità di Attilio Scarpellini Dura appena un minuto, Greed a New Fragrance by Francesco Vezzoli, il video diretto da Roman Polansky che introduce il percorso espositivo attorno al readymade dell’artista bresciano alla Gagosian Gallery di Roma. Ma condensa una tale congerie di cliché pubblicitari – dalla patinatura dell’immagine alla microstoria che racconta – che non si sa bene come considerarlo: glamour e ammiccante, è degno degli spot del peggior Campari, ma bisognerà anche riconoscere in questo l’unico vero segno di intelligenza dell’intera operazione concettuale di Vezzoli. Trattandosi di un non-prodotto, preso a prestito e taroccato dalla Belle Haleine di Marcel Duchamp – un cortocircuito originario tra l’arte e il sistema della moda – Greed, l’eau de larmes che sulla maxiboccetta espone l’immagine dello stesso Vezzoli non ha nulla di nuovo, anche perché l’unica fragranza che ha solleticato il naso dei visitatori il giorno dell’inaugaurazione è stata quella, volutamente nauseabonda che un qualche buontempone ha sprigionato nella affollata Main Exhibition Room dello spazio romano lanciando una bomboletta puzzolente. Blanda provocazione, che a fatica può essere registrata come una notizia, visto che, a dispetto dell’apparato che introduce e circonda Greed, che lo sostiene e lo legittima, siamo decisamente nel campo dell’aneddoto. E’ sufficiente leggere le poche righe di presentazione che accompagnano il progetto per rendersene conto: «Francesco Vezzoli – si legge sul comunicato stampa – indaga l’ambiguità del concetto di verità, la potenza seduttiva della comunicazione e l’instabilità dell’uomo (sic!) attraverso l’indubbio potere dei media nella cultura contemporanea». Questo potere è talmente indubbio (e tale deve restare) che Greed può essere considerato la sua celebrazione inerziale, la resa definitiva dell’immaginario dell’arte a quello dei media, dove l’unico richiamo alla diversità (della bellezza, dell’arte e della stessa icona femminile) è trattato in modo giustamente funerario dalla galleria di testimonial involontarie che, affisse alle pareti della sala, presiedono all’epifania del bottiglione di cristallo ambrato by Francesco Vezzoli. Da Frida Khalo a Leonor Fini, da Tina Modotti a Giorgia O’Keefe, dieci rappresentanti d’eccellenza (anche nelle sue performance dal vivo, Vezzoli ha un debole per lo star-system) dell’arte al femminile e del femminismo artistico novecentesco, appaiono tirate in Inkjet su fondi di broccato finemente ricamati. Le uniche lacrime sopravvissute dell’eau de larmes di Rose Sélavy sono quelle che pendono dai loro occhi sporgenti, cristallizzate in pietre da bigiotteria o condensate in piccole strisce di stoffa come sbavature di rimmel. La verità, come recita il comunicato, non potrebbe essere più ambigua: dobbiamo credere al volto severo della O’Keefe, forgiato dal vento caldo del deserto del New Mexico in cui scelse di ritirarsi a dipingere, o a quella “fotografia di una fotografia”, per citare Don DeLillo, a quello “spot degli spot” girato da Polansky dove Natalie Portman e Michelle Williams si litigano con aggressive (quanto fittizie) movenze lesbiche una confezione della “brama” in cui – non oltre, ma rassegnatamente dopo Duchamp – Francesco Vezzoli ha sintetizzato il naufragio di cinque secoli di arte? Se è allo statuto del desiderio che allude il titolo del prodotto (e dell’annessa campagna di marketing), è difficile spostarsi dalla riflessività in cui esso appare imprigionato nello spot: due donne elegantemente vestite (una bionda e una castana) si accapigliano per impadronirsi della bottiglietta di Greed, rotolandosi sul pavimento e mimando persino una violenza brutale, fin quando accanto al profumo rovesciato non compare la scarpa di pelle di un uomo, intravisto soltanto di spalle. E il perturbante di quell’agone, che inizia in una vicinanza ambigua, quando una delle due respira (qui ancora il senso letterale della “haleine” duchampiana in qualche modo persiste) un profumo estraneo sul corpo dell’altra, viene riassorbito e vanificato dall’equilibrio apollineo di un modello di comunicazione che lo utilizza come gancio per rendere commerciabile anche il suo fantasma. Il potere del brand vi è perfettamente esemplificato: non vendiamo un profumo, ma per l’appunto l’illusoria fragranza di un desiderio che appartiene e a tutti e a nessuno. Più esattamente: l’avidità della merce è l’accchiappasogni in cui si impiglia qualunque desiderio, poiché, come pensava Debord – ed era il 1967 – la sua accumulazione totalizza l’intero immaginario. Lo spettacolo è il “capitale a un tale grado di accumulazione che diventa immagine”. per quanto impalpabili, che scaturiscono dalla mente e dalle sue paure. Quando cala il buio la difficoltà a vedere con gli occhi stimola un diverso tipo di sguardo, apre impreviste strade alla percezione, in grado di materializzare un differente tipo di realtà – se non proprio secondo le leggi della fisica, almeno secondo quelle ancora non del tutto conosciute della psiche. L’ora del sonno è in grado di giocare con immagini e simboli in modo assai più immediato, e non mentale, di quanto accada durante il giorno – proprio come avviene nel sogno (e non a caso i due termini, sogno e sonno, in diverse lingue coincidono). Bisognerà allora congratularsi con Vezzoli per aver mostrato, per l’ennesima volta, il grado sempre più estremo di vaporizzazione a cui è giunto il valore d’uso nel momento in cui la merce assurge a fantasma del desiderio e il desiderio non può che investire, nel suo tragitto, la merce? No, perché Greed non è che il rispecchiamento anestetico (ripeto l’aggettivo: inerziale) di questo processo e dunque la sua celebrazione attraverso il sistema dell’arte che continua ad essere puntato sulla realtà come un cannocchiale rovesciato. Varcate le colonnine della Gagosian Gallery, in realtà, nessuna critica è possibile, ma solo una ricaduta su se stesso del mondo così com’è. L’arte contemporanea è un treno fermo su cui indugia un passeggero ancora indeciso se credere alle indicazioni del capostazione, che si ostina a non fischiare la fine del viaggio, o alla mancanza di autorità della propria percezione. Tra le pieghe della notte Realismo e fughe oniriche in “Afterdark” di Murakami di Graziano Graziani Nonostante l’avvento dell’elettricità, e il ritmo ossessivo della produzione che si è esteso alla vita privata, trasformando l’esistenza stessa nei paesi industrializzati in un diffuso mega-store twentyfour hours, la notte continua ad essere una linea di demarcazione, meglio, un confine attraversato il quale la percezione cambia radicalmente, lo scorrere del tempo acquista modalità impreviste e luoghi e oggetti conosciuti, solitamente innocui, cambiano radicalmente di segno. Non a caso la sfera notturna, caratterizzata da un’insondabilità che la ammanta di mistero e fa sentire l’uomo più vulnerabile, è considerata il momento del dì in cui si manifesta il non-umano, l’ora dei fantasmi, per intenderci, quelli spaventosi e immaginari di tante tradizioni e culture, e quelli non meno angosciosi ma reali, Nell’ultimo libro di Murakami Haruki, Afterdark, la notte è una dimensione assoluta in cui due ragazzi, Mari e Takahashi, trovano la giusta curvatura nello spazio-tempo delle loro vite per potersi incontrare, parlare, forse innamorare. Per poter curvare i binari paralleli di due solitudini e trovare un’intersezione da cui scaturisce la comprensione dell’altro e del sé, forse da cui scaturiscono nuove possibilità. Ma nel farlo attraversano la landa ostile della notte, popolata di yakuza aggressivi, giovani prostitute clandestine, love hotel, motociclette che squarciano l’aria e il silenzio per poi sparire di nuovo nell’oscurità. Senza mai sprofondarci dentro, ma consapevoli del fatto di stare camminando lungo una soglia, dove passare “dall’altra parte” è più facile di ciò che sembra, e può avvenire in qualunque momento, senza nemmeno rendersene conto. La metropoli notturna disegnata da Murakami si muove come un immenso animale, meno frenetica del suo alter-ego diurno, ma altrettanto febbrile nell’offerta di desideri da soddisfare. Lo scrittore giapponese la descrive piombandoci dall’alto, trasformandosi lui che scrive e noi che leggiamo in un punto di osservazione, una telecamera mobile in grado di spiare ciò che avviene senza realmente farne parte. Con il suo stile fulmineo, che in questo caso diventa filmico, Murakami ci trasferisce da un momento all’altro della storia, che si svolge tutta nell’arco di una notte in cui Takahashi prova con la sua band e che Mari ha deciso di passare fuori casa, per cambiare aria e dimenticarsi per un po’ di “qualcosa”. L’effetto è un blues metropolitano delicato e sofferente, dove il fascino dell’oscurità, in grado di materializzare come fanno i sogni stati d’animo e pulsioni nascoste, non nasconde le molte tumefazioni di cui soffre il lato buio dell’esistenza. Incastri e sequenze si snocciolano una dopo l’altra come in un film di Scorsese (ricordate lo splendido Out of time?), ma senza il sensazionalismo e i colpi di scena del cinema di Hollywood: qui tutto è ricondotto a un piano esistenziale, fortemente quotidiano, e continuare sulla propria strada o sprofondare in un abisso – come fa Shirakawa, l’impiegato che picchia la giovane prostituta cinese perché «non può fare diversamente» – non è il risultato di una “combinazione” da meccanismo di sceneggiatura, ma il crocicchio obbligato in cui si trova a passare ogni esistenza. Dall’altro lato della notte, e della storia, c’è Eri, compagna di classe di Takahashi e sorella di Mari. L’anello di congiunzione, che da giorni è sprofondata in un sonno da cui non vuole più uscire. Eri è una ragazza bellissima, adulata da tutti, che già lavora in tv, posa come modella per le riviste di “idol”, e spende tutto il suo tempo appresso a borse e abiti firmati. Un mondo incomprensibile per Mari, che avverte come un muro tra la sua esistenza e quella di Eri. Un mondo che, per antifrasi rispetto alla giovane clandestina cinese costretta a prostituirsi, rimanda a un fenomeno diffuso nel Giappone contemporaneo (mai accennato direttamente da Murakami), quello di una generazione di adolescenti che hanno capito che i loro giovani corpi possono essere merci di scambio molto redditizie, e li barattano senza problemi per comprare abiti firmati. A Eri probabilmente questa dimensione non appartiene, guadagna a sufficienza come modella, eppure intuiamo che qualcosa nella sua esistenza la spinge a fuggire, a rifugiarsi in un sonno dove non è più possibile farsi raggiungere da nessuno. Murakami ci fa vedere la bellissima ragazza distesa sul letto, con i lunghi capelli a ventaglio sul cuscino, e di fronte la tv accesa. Di colpo il suo corpo non è più sul letto, ha scavalcato la soglia, è dall’altra parte, dentro il televisore, nella scena del film. Poi anche il film svanisce, e Eri si trova in un luogo che non ha luogo, dove i suoni non sono suoni, e le sue urla sono appena percettibili. Se la storia di Mari e Takahashi si muove lungo il solco del quotidiano, con il personaggio di Eri Murakami torna a dare sfogo alla sua vena visionaria, dove l’immaginario che si sprigiona lascia un senso di inquietudine e non trova mai una spiegazione cartesiana. Anzi, in questo caso non c’è spiegazione alcuna, se non che Eri ha oltrepassato una soglia, esattamente come Shirakawa con la sua esplosione di violenza; sono dall’altra parte, dove le coordinate dell’esistenza seguono altre leggi. Questo è tutto ciò che sappiamo. Scadenzato dal tempo che scorre, raffigurato dagli orologi che sovrastano ogni capitolo segnando l’ora, il romanzo (e con lui la notte) si snoda lungo l’intersezione di questi molteplici piani, di queste molteplici esistenze, e il tempo diventa una soglia ulteriore, che si scioglie con l’avvento del giorno, dei treni, della gente che va a lavorare. Nel raffigurarci questo intreccio, denso di emozioni ma anche delicatamente ordinario, Murakami sceglie di suggerirci che immagini abbinare, che gradazione dare alle emozioni che ci racconta e alle visioni che crea, abbinandoci, come si fa col vino in un pasto raffinato, pezzi di un immaginario diffuso, presi dal continuum di immagini/emozioni immateriali ma realissime che scaturiscono dal cinema, dalla musica, dalla letteratura. A partire dal titolo, citazione del brano Five spot after dark, dove Curtis Fullis suona il trombone in modo così intenso da spingere Takahashi a sceglie proprio quello strumento, e passando per Alphaville di Godard, che dà il nome al love hotel dove, come nella città distopica, ha luogo «un sesso che non ha bisogno di né amore né di ironia», Murakami dissemina il racconto di emozioni che ha letto, ascoltato, vissuto altrove, in qualità di spettatore. Proprio come noi che lo stiamo a leggere, e diamo volti, colori, immagini e suoni alle sue storie e ai suoi personaggi pescando nel mare di visioni che ci sono care, che abbiamo conservato lungo il percorso di storie che ci ha accompagnato fino ad aprire la copertina del suo libro. In libreria: Murakami Haruki, Afterdark, Einaudi, 180 pagine, 18 euro. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.