Anno 2 Numero 05

Transcript

Anno 2 Numero 05
andato in pezzi oltre la fisica, oltre le tre
dimensioni, e che ha sparso i suoi frammenti
anche sui piani del tempo (4a dimensione) e della
coscienza (5a).
Anno 2 Numero 05 - 09.02.2009
Deus ex machina
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
Effettivamente l’immaginario è un mondo molle,
fatto di mercurio, attraversabile, rapido,
sfuggente, liquido, fatto desideri e paure, incubi
e sogni. E’ come nel romanzo di Alice, che
attraversa lo specchio per trovarci la realtà stessa
nel suo più profondo stato di autocoscienza. Ed
essa è sempre popolata di mostri con cui spesso
iniziano lunghissime lotte che lasciano imbrigliati,
che non fanno più uscire. Eppure talvolta entrare
nel mondo dell’immaginario, attraversarlo,
diventa un passaggio obbligato – come nel caso
della psicanalisi - per proseguire una certa
direzione, per poter veramente andare oltre.
L’immaginario diventa il fiume che si deve
superare a nuoto e che divide due tronconi di
strada, quella da cui si viene e quella verso cui si
va. Ed esso è il luogo multidimensionale, in cui ci
si deve immergere per ricostruire qualcosa che è
Per finire dentro lo specchio ci sono molte
trappole sparse. Una delle più irresistibili è
l’Otello di Shakespeare, la cui lettura non è
lineare. Essa contiene in più punti delle botole
dentro cui cadere per procedere in un percorso
parallelo al libro in cui si sostituiscono ai volti
della storia e alle circostanze drammatiche altri
volti e altre situazioni vissute dal lettore,
impresse o obliate. La tragedia del Moro di
Venezia, effettivamente, è una specie di
sofisticata spirale che riproduce il meccanismo
della caduta irreparabile. La sua tensione
parabolica costituisce una forza centrifuga che
attrae il lettore trascinandolo forzatamente verso
la fine contro la sua volontà. Ad un certo punto
dell’intreccio, un punto che può variare a
seconda del lettore e di quale delle diverse
trappole drammaturgiche possa essergli fatale, si
comincia ad avere il “sentimento” della fine,
ossia si comincia a realizzare come tutto porterà
all’inevitabile morte di Desdemona. A quel punto
si inizia ad opporre una sfiancante resistenza al
libro. Una resistenza inutile, ogni volta, che
tuttavia si consuma in un campo che non è quello
letterario. La resistenza del lettore non è dentro
il libro, è fuori, in uno spazio parallelo appunto,
uno spazio ibrido che segue ineluttabilmente il
plot shakespareano (perché esso è in accordo con
le leggi dell’esistenza), ma che si contamina delle
immagini riprodotte in tutte le carte coperte che
stanno nel mazzo identitario del lettore. Carte
che neppure lui conosce, carte che ha coperto nel
tempo, e che pure lo fanno temere per l’epilogo.
Il mazzo delle carte coperte, una sull’altra,
costituisce una lunga colonna vertebrale, la
colonna che tiene l’edificio umano, coi piedi per
terra, in ordine alla gravità della vita.
Tutte le volte che si legge l’Otello finisce nello
stesso modo. Desdemona muore, innocente, per
mano del suo sposo e con essa muore anche
l’innocenza del Moro e quella del lettore che in
esso si identifica. Non si scappa mai. Ogni volta,
la lettura di Otello ci macchia. Però a ben
guardare, leggendo con una attenzione
particolare, una volta di più si può scoprire come
alla fine ci sia un punto, una botola ulteriore che
William Shakespeare ha lasciato aperta, ma che
nessuno ha mai avuto la fortuna di trovare. E’
l’uscita di emergenza. Un salto di fede che esce
dalla legge della vita e anche da quella della
drammaturgia elisabettiana evitando lo schianto,
lasciando che tutta la resistenza accumulata si
liberi in una propulsione verso l’alto. Questa
botola l’ha trovata Gaetano Ventriglia, che nel
suo Otello (in scena in questi giorni all’Ambra
Jovinelli di Roma) ha identificato il momento in
cui il Moro passa attraverso lo specchio, il
momento in cui esso si trova al di là della vita e
della morte, quando l’oscurità del suo gesto cala
sui suoi occhi come una cataratta di mercurio. In
quell’istante egli non appartiene più a nulla, egli
si immerge nel regno dell’immaginario per
trovare una via d’uscita alla spirale portandosi
dietro tutti gli spettatori, unendo con loro la
forza della resistenza per far decollare
un’astronave. Sì, un’astronave che aspetta lui e
Desdemona sulla spiaggia di Cipro, per portarli via
dalla miseria del delitto in cui sono precipitati. E
c’è da giurare che essa decollerà, come il carro
del Sole che rapisce Medea. Ventriglia, in uno dei
passaggi più poetici che il teatro contemporaneo
abbia mai scritto, recupera il Deus ex machina,
un elemento del teatro tragico greco che
rappresenta appunto la via d’uscita, la salvezza
dalla catastrofe. Un elemento che la tragedia
moderna, quella sviluppatasi assieme alla retorica
cristiana, ha deciso di non recuperare. D’altra
parte il suo intervento evidenzia spesso
l’ambiguità dell’elemento divino, la sua
contraddizione spesso aperta con il senso di
giustizia. Una prospettiva che ben si accordava
col paganesimo politeista, ma che risulta
inconciliabile con lo spirito delle religioni
monoteiste, in cui l’elemento divino e il senso di
giustizia coincidono fino ad incarnarsi l’uno
nell’altro. Ma tutto questo è retorica. Nei fatti,
ogni divinità, dal dio austero degli ebrei, alla
cricca di ubriaconi dell’olimpo greco, fino al dio
paterno dei cristiani, tirato sempre per la tunica
da qualcuno, dimostra ogni giorno le sue infinite
contraddizioni anche agli occhi dei suoi fedeli,
agli occhi di quelli che, seguendo Sant’Agostino,
capiscono come la pretesa di comprendere la Sua
volontà per mezzo di un sistemino di
comandamenti o di “circolari” del sacro ministero
sia quanto di più ingenuo ed inutile. E’ per questo
motivo che il Deus ex machina di Gaetano
Ventriglia funziona, anche oggi, salvando tutti
quelli che assieme all’artista foggiano stavano per
finire definitivamente inchiodati alla croce delle
proprie miserie.
Eh già, Deus ex machina, ossia la liberazione per
intervento delle macchine, un tema di grande
attualità mentre si discute d’eutanasia.
Gli impostori
Lo stupro dell’immaginario #1 – I modelli
americani
di Luigi Coluccio
Babbo Natale (un tiranno?) ferito a morte da un
uomo (un rivoluzionario?) al grido di «Liberté,
egalité, fraternité!»: zen inarrivabile, scena
madre di uno spettacolo-allucinazione multicolore
e corrosivo à la Ken Russel, l’ultimo lavoro dei
Tony Clifton Circus è una parabola dissacrante sul
mito, la leggenda, l’uomo, il prodotto Babbo
Natale.
In scena il 14 e 15 febbraio al Teatro Palladium, La
morte di Babbo Natale è una produzione della
rete ZTL-pro, serie di soggetti del circuito romano
– Angelo Mai, Teatro Furio Camillo, Rialto
S a n t a m b r o g i o , S a n t a s a n g r e / Ko l l a t i n o
Underground, Triangolo Scaleno Teatro - uniti
nell’arduo compito di ovviare alla mancanza di
strutturalità produttiva - spazi, economie, platee
- che attanaglia il teatro della capitale. Sostenuto
dalla Provincia di Roma ed ospitato dalla
Fondazione Romaeuropa, il progetto ZTL-pro
conferma con la produzione del lavoro dei Tony
Clifton Circus un’attenzione alle più disparate
forme di fare teatro, in questo caso una sana e
primordiale clownerie virata verso la forma
teatrale senza la perdita della sua componente
anarcoide, cattiva e assolutamente politicallyincorrect.
Wim Wenders asseriva che il nostro immaginario
collettivo è stato colonizzato dagli americani. Il
Vecchio West e la parabola kennedyana,
Hollywood e la musica rock hanno plasmato,
ridefinendoli, annientandoli, corpi, visioni,
geografie prima assolutamente puri, autarchici
verrebbe da scrivere. E il lungo percorso di
sovrapposizione di segni, estetiche, credenze
compiuto (imposto?) dalla figura di Babbo Natale –
percorso iniziato con la sottomissione di Odino
alla figura di San Nicola di Myra - trova il suo
punto di arrivo nell’identificare il vecchio Santa
Claus con un uomo barbuto e di rosso vestito che
guida interminabili camion carichi di una nota
bevanda...
Sembra proprio essere questo Babbo Natale colui
che entra in scena accompagnato da procaci
bodyguards all’inizio dello spettacolo. Un Babbo
Natale conscio dei meccanismi di potere e di
produzione - «Vuoi un regalo bambino? Per avere
un regalo bisogna lavorare, perché lavorando
ottieni i soldi, con i soldi puoi comprare il regalo,
il regalo poi ti rende felice, e la felicità ti rende
libero…vedi?» -, che suggella ogni suo intervento
con al capezzale i bambini con una raggelante ma
profetica «Il lavoro rende liberi!». L’amara frase,
messa in bocca al buono per eccellenza, squarcia
ogni riflessione patetica e consolatoria, chiarendo
inconsapevolmente per il bambino cosa è il
risultato di tutta questa baracconata multicolore
che chiamiamo Società. E allora il frutto di una
così razionale, perversa frase sembra essere
l’uomo che urlando «Liberté, egalité, fraternité!»
colpisce a morte il Vecchio Dispensatore di doni,
sancendo il suo essere maschera, emblema,
burattino di un Sistema che è apparenza e
sopraffazione.
L’immaginario, l’immaginazione, la fantasticheria:
sezionarle sul tavolo della razionalità,
analizzandone trame, visioni, contenuti è un po’
come stuprarle. Trascinarle nel fango di questo
mondo, torturandole con la nostra presunta
Re a l t à , l e r e n d e a u t o m a t i c a m e n t e , e d
erroneamente, false. Ogni loro capacità
taumaturgica viene meno, ed intitolare uno
spettacolo La morte di Babbo Natale è uno shock
emozionale di cui i Tony Clifton Circus sono
pienamente coscienti. Il versante su cui agiscono
Nicola Danesi de Luca e Iacopo Fulgi – duo
nascosto dietro il nome d’arte rubato non ad Andy
Kaufmann... - è prevalentemente quello della
corporalità, con le sue innumerevoli varianti ed
incarnazioni: la figura di Babbo Natale,
multicolore totem-feticcio, viene mediatizzata
dalla TV e sconquassata da proiettili, danze
sguaiate, frenesie sessuali, forza fisica e umana
che sembrano la somatizzazione del suo
asservimento al Capitale. Si, perché al suono di
Feliz Navidad e Jingle Bell rock il nostro Santa
Claus prende finalmente coscienza del suo ruolo
all’interno di questa Società dello Spettacolo e dei
Canditi. Accanto a lui un’altra icona intrappolata
in una cornice pop edulcorata e anestetizzante:
l’Uomo Ragno. E vederli assieme sullo stesso
palco, vittime inermi di un processo inarrestabile,
dona al tutto un’aria di amarezza dolente e
solitaria, che speriamo non venga seppellita,
come i Tony Clifton Circus auspicano, da una
semplice, e vuota, risata...
Leave them kids alone!
Lo stupro dell’immaginario #2: La morte del
coniglio Assud
di Mariateresa Surianello
Mentre il suo storico modello statunitense Bugs
Bunny si vendica con perfidia delle cattiverie
ricevute, Coniglio Assud alza il tiro e inneggia alla
jihad dagli schermi di Al Aqsa, la tv di Hamas che
trasmette dalla Striscia di Gaza. Un pupazzo
animato a grandezza umana che prende vita nelle
fasce orarie destinate ai bambini, accanto alla
piccola Saraa, una undicenne col velo che fa da
spalla alle sue inquietanti apparizioni televisive.
Fino alla sua ultima comparsa, i primi di gennaio,
intubato e morente in un letto d’ospedale, vittima
anch’esso dei bombardamenti israeliani.
Ovviamente Assud muore - come altre migliaia di
disgraziati abitanti di quella terra - ma in diretta,
a uso e consumo dei giovani telespettatori arabi
(non a caso Al Aqsa è stata oscurata sul saltellite
di trasmissione in Europa). Non prima però di aver
pronunciato con una vocina stridula la sua
terribile arringa antisionista e scucito dalla bocca
della povera Saraa l’impegno ad armarsi contro il
nemico per la riconquista di tutte le città della
Palestina, compresa Tel Aviv. Un quadretto girato
in un piccolo studio - davvero bombardato
dall’esercito israeliano – come fosse una misera
televendita di un prodotto tanto inutile quanto
facile da piazzare, condotta da un’imbonitrice
bambina nei cui occhi si è spenda ogni luce di
speranza. Quando si alza dal capezzale dell’ormai
defunto coniglio, la piccola con freddezza guarda
dritto la telecamera, lanciandosi in un proclama di
morte. Come in trance si cala nei panni della
Pioniera del domani, una dei tanti, troppi
bambini, di quell’esercito indotto ad immolarsi
nel nome di Allah.
Coniglio Assud non è il primo pupazzo martire
uscito dagli schermi di Al Aqsa, prima del suo
arrivo i bambini palestinesi hanno subito la
tragedia di Nahul, un’ape che muore disperata in
un letto di Gaza dopo aver tentato di uscire da
quella prigione a cielo aperto, che è la Striscia,
per procurarsi cure mediche adeguate. Un’altra
vittima dei check point isrtaeliani, certo,
l’elemento realistico sussiste in tutte queste
storie violentissime, che narrate dalla tv dei
ragazzi è come se togliessero giorno dopo giorno
l’ultima possibilità alle generazioni future di
immaginare qualsiasi progetto di pacificazione e
convivenza. Tolgono ossigeno al presente
quotidiano dei bambini, educano solo all’odio e
alla vendetta.
Non sono favole senza morale, sono pezzi di realtà
sbattuti in faccia a un’infanzia negata, alla quale
si taglia ogni possibilità di giocare con la fantasia.
E’ come se la tv pubblica italiana, “mamma Rai”
negli anni 60 e 70 avesse mandato in onda i filmini
animati di Don Bosco, quelli che molti si ricordano
pieni di “comunisti che si mangiano i bambini”.
Non che fosse in quegli anni vietata la proiezione
di questi prodotti di spicciola propaganda
anticomunista, ma venivano somministrati in dosi
controllate e in contesti chiusi, nelle parrocchie
più fondamentaliste o nei “ritiri spirituali” di
preparazione alla Prima Comunione e alla
Cresima. In televisione trionfava però quel
romantico e tenerissimo Topo Gigio, in compagnia
di Mago Zurlì o di Raffaella Carrà, che non
inneggiava alla lotta di classe, ma qualche pillola
di dolcezza la dispensava ai ragazzacci che poi
avrebbero almeno scritto sui muri “La fantasia
distruggerà il potere e una risata vi seppellirà”.
Ecco, lo stupore che è centrale nella ricerca del
Teatro delle Apparizioni ha a che vedere con la
meraviglia. E la meraviglia è un’emozione
immediatamente corporea, e quindi intimamente
connessa al percorso che questa formazione
romana ha intrapreso nel corso degli anni con il
teatro sensoriale, segno distintivo dell’esordio e
dei primi spettacoli del Teatro delle Apparizioni.
In anni più recenti lo sguardo della compagnia si è
spostato verso il teatro ragazzi. Un’evoluzione in
qualche modo naturale, che ha permesso di
proseguire il percorso intrapreso attorno a questa
esplorazione della meraviglia senza reiterare
all’infinito le formule legate all’esplorazione
sensoriale, contemporaneamente recuperando la
frontalità della visione. D’altronde il lavoro del
Teatro delle Apparizioni non ha nulla a che vedere
con l’intrattenimento per bambini con cui spesso,
purtroppo, coincide la formula del teatro ragazzi.
Piuttosto, il loro teatro è la materializzazione di
una zona di confine, dove il linguaggio della scena
sposa le tematiche dell’infanzia, ma lo fa
inventando codici e creando suggestioni
esattamente come nel teatro “adulto”. E anzi,
attingendo a un terreno immaginifico così fecondo
e allo stesso tempo così diffuso (poiché il
passaggio dell’infanzia è una dimensione comune
a tutti), in qualche modo si allinea all’idea di
teatro popolare d’arte proposta qualche tempo fa
da Massimiliano Civica.
Le immagini smaccate che Al Aqsa confeziona con
pochi mezzi di produzione – quindi anche molto
kitsch - e con un trasporto sadomaso non alleviano
il dolore dei bambini palestinesi. Non curano le
ferite della guerra, anzi, al contrario, gettano sale
sulle loro piaghe, mentre scarnificano la crescita
di un pensiero libero da condizionamenti. E’
proprio in gioco la libertà per quelle giovani vite
di svilupparsi in quanto soggettività. E ancora
peggio la libertà di immaginare un modo diverso
per vivere in questo mondo.
L’inciampo nella realtà
Dialoga a distanza con Capossela e Chaplin
l’ultimo spettacolo del Teatro delle Apparizioni
di Graziano Graziani
Nel Teatro delle Apparizioni un ruolo centrale lo
ha sempre rivestito la ricerca dello stupore. Non
stiamo parlando del sensazionalismo, della ricerca
dell’effetto, ma di quella sensazione epidermica
che solletica il corpo quando ci si imbatte in
qualcosa di bello ma totalmente inaspettato.
Uno, l’ultima produzione del Tda appena andata
in scena al Duncan 3.0 di Roma, è forse l’esempio
migliore di questa fusione di piani. Non a caso si
tratta di un lavoro che, oltre ad aver vinto il
primo premio nel Festival internazionale di teatro
ragazzi di Lugano, è risultato finalista al Premio
Extra, dedicato alla nuova scena di ricerca
italiana. Una capacità di commistione di registri e
che si realizza grazie a una facoltà che il
cantautore Vinicio Capossela, nelle sue canzoni,
ha definito “l’incanto”. Qualcosa che non ha nulla
a che vedere con la retorica dell’innocenza, ma
piuttosto con la capacità di guardare il mondo con
occhi diversi (una facoltà che, ha dichiarato
Capossela in un’intervista, «se la sai conservare,
poi te la ritrovi»).
Uno (Dario Garofalo) è il personaggio senza nome
e (quasi) senza parole che entra sulla scena con il
fare un po’ sgonfio e pierrottesco degli attori da
film muto. È povero, trasandato, palesemente non
ha un soldo in tasca e per di più ha fame e non ha
nulla da mangiare. Si aggira per un vasto campo di
rifiuti col dondolio luminoso dei derelitti e degli
esclusi chapliniani. Comincia a rovistare in mezzo
al pattume, nella speranza di trovare qualcosa da
mangiare, ma tra i rifiuti trova solo cartacce e
rottami. Eppure lì, nella disperazione della
solitudine e della fame scatta qualcosa. Uno si
illumina, e con lui si illuminano gli oggetti lì
attorno. Se non è possibile mangiare si può
sempre… fare finta. Così comincia a ingozzarsi di
fogli di giornale, accartocciati e infilati sotto la
maglia, finché non formano una grande pancia.
L’immaginazione è meglio di niente, almeno dà
modo di sconfiggere lo scoramento e, soprattutto,
di guardare il mondo sotto una luce nuova.
È così che Uno, masticando uno strano gramelot,
si lancia in un’esplorazione della realtà attorno a
lui che ha completamente cambiato di segno.
Gioca con serpenti fatti di tubi di scarico, si fa la
doccia in una vasca ricavata da un televisore
scassato, fa parlare strani esseri fatti di calzini e
scopre tracce di nobili cavalieri del deserto tra
tende fatte di giornali, ornati di corone a foggia di
cestello di lavatrice.
Di colpo il mondo-pattume partorisce nuove
possibilità grazie all’immaginario di questo
personaggio stralunato che, grazie l’attenta regia
di Fabrizio Pallara, passa da un’immagine all’altra
come in una partitura musicale. Una sequenza che
muove con naturalezza da un piano di realtà
scarna e miserevole a uno di luminosa
immaginazione, complici le musiche e il disegno
luci, che senza simbolismi tracciano chiaramente
la temperatura delle emozioni di Uno.
Non c’è solo gioco nella reinterpretazione degli
oggetti, che pure suggerisce al mondo-adulto,
dissennato produttore di tutto quello “scarto” che
soffoca il pianeta, la possibilità di guardare oltre,
riciclando, reinventando, ovvero cambiando
prospettiva. Non si tratta solo sorprendersi a
sorridere di fronte al concerto per calzini che Uno
improvvisa da un sacco di abiti buttati (c’è forse
un legame con «Il paradiso dei calzini» di
Capossela?). C’è anche la dimensione fortemente
politica della volontà di cambiare le cose pur
davanti a un campo di macerie, di rovesciare un
punto di vista lucido, che ci mostra un mondo in
frantumi, grazie a quella lucidità ancora più fine
in grado di vedere che «c’è splendore in ogni
cosa» (come recitano i versi di una grande
poetessa prestata al teatro, Mariangela Gualtieri).
Ovvero la capacità di illuminare la realtà con la
lente dell’immaginazione, intravedendone così le
potenzialità più nascoste, che è una delle qualità
più preziose dell’animale uomo.
Eppure – e qui sta il lato più acuto dello
spettacolo – non c’è celebrazione, ma solo spinta
a mettersi in gioco. Non a caso ciò che muove Uno
è una spinta terrena, naturale e terribile come
l’istinto della fame. E quando danzando con
un’immaginaria compagna, ombrellone con il
cappello, Uno si imbatte in una mela reale, rossa
e succosa, lui la mangia avidamente, senza più
curarsi della sua “stanza dei giochi” e anzi
irrompendo – con un lievissimo ma sorprendente
coup de théatre – nella realtà degli spettatori.
Perché non c’è autismo né compiacimento nella
danza chapliniana di Uno; piuttosto la
dichiarazione di una scelta.
NB: Per chi volesse approfondire il percorso del
Teatro delle Apparizioni, è in libreria un bel
volume curato da Letizia Bernazza e uscito per
Editoria&Spettacolo. Si tratta di un libro prezioso
non soltanto perché ricostruisce dieci anni di
attività di questa formazione romana, giovane,
ma che già annovera radici profonde. Ma anche
perché è elaborato come una visione
multiprospettica del lavoro del TdA, che passa
per l’analisi dell’autrice fino ai racconti in prima
persona di chi ha fatto il Teatro delle Apparizioni,
o ne ha accompagnato il percorso: dal regista
Fabrizio Pallara agli attori Giuliano Polgar,
Margherita Lacché, dal drammaturgo Simone
Giorgi a chi si occupa delle scene, dei costumi,
dell’organizzazione come Sara Ferrazzoli,
Stefania Frasca, Laura Rhi-Sausi, passando per le
collaborazioni fisse, come col regista
cinematografico Marco Magiarotti e il musicista
Valerio Vigliar, e per quelle spuntate lungo il
cammino, con il Teatro dei Sassi di Matera e la
regista messicana Shaday Larios Ruiz.
Una visione polimorfa e reccia, alla quale si
aggiunge l’osservazione esterna degli interventi
critici, che hanno accompagnato il percorso delle
Apparizioni, dai docenti che hanno visto nascere
la compagnia come Giorgio Taffon e Giancarlo
Sammartano, allo sguardo dei critici teatrali che
si sono imbattuto nel lavoro di questa bandi di
“folletti” (come scrive Gianfranco Capitta) e sono
stati rapiti dalla loro naïveté, dal loro essere una
sorprendente anomalia (come spiega Paolo
Ruffini, curatore della collana) nel panorama
della scena contemporanea italiana.
Il non-oggetto del desiderio
“Greed by Francesco Vezzoli”, il profumo che
esiste solo in pubblicità
di Attilio Scarpellini
Dura appena un minuto, Greed a New Fragrance
by Francesco Vezzoli, il video diretto da Roman
Polansky che introduce il percorso espositivo
attorno al readymade dell’artista bresciano alla
Gagosian Gallery di Roma. Ma condensa una tale
congerie di cliché pubblicitari – dalla patinatura
dell’immagine alla microstoria che racconta – che
non si sa bene come considerarlo: glamour e
ammiccante, è degno degli spot del peggior
Campari, ma bisognerà anche riconoscere in
questo l’unico vero segno di intelligenza
dell’intera operazione concettuale di Vezzoli.
Trattandosi di un non-prodotto, preso a prestito e
taroccato dalla Belle Haleine di Marcel Duchamp –
un cortocircuito originario tra l’arte e il sistema
della moda – Greed, l’eau de larmes che sulla
maxiboccetta espone l’immagine dello stesso
Vezzoli non ha nulla di nuovo, anche perché
l’unica fragranza che ha solleticato il naso dei
visitatori il giorno dell’inaugaurazione è stata
quella, volutamente nauseabonda che un qualche
buontempone ha sprigionato nella affollata Main
Exhibition Room dello spazio romano lanciando
una bomboletta puzzolente. Blanda provocazione,
che a fatica può essere registrata come una
notizia, visto che, a dispetto dell’apparato che
introduce e circonda Greed, che lo sostiene e lo
legittima, siamo decisamente nel campo
dell’aneddoto. E’ sufficiente leggere le poche
righe di presentazione che accompagnano il
progetto per rendersene conto: «Francesco Vezzoli
– si legge sul comunicato stampa – indaga
l’ambiguità del concetto di verità, la potenza
seduttiva della comunicazione e l’instabilità
dell’uomo (sic!) attraverso l’indubbio potere dei
media nella cultura contemporanea». Questo
potere è talmente indubbio (e tale deve restare)
che Greed può essere considerato la sua
celebrazione inerziale, la resa definitiva
dell’immaginario dell’arte a quello dei media,
dove l’unico richiamo alla diversità (della
bellezza, dell’arte e della stessa icona femminile)
è trattato in modo giustamente funerario dalla
galleria di testimonial involontarie che, affisse
alle pareti della sala, presiedono all’epifania del
bottiglione di cristallo ambrato by Francesco
Vezzoli. Da Frida Khalo a Leonor Fini, da Tina
Modotti a Giorgia O’Keefe, dieci rappresentanti
d’eccellenza (anche nelle sue performance dal
vivo, Vezzoli ha un debole per lo star-system)
dell’arte al femminile e del femminismo artistico
novecentesco, appaiono tirate in Inkjet su fondi di
broccato finemente ricamati. Le uniche lacrime
sopravvissute dell’eau de larmes di Rose Sélavy
sono quelle che pendono dai loro occhi sporgenti,
cristallizzate in pietre da bigiotteria o condensate
in piccole strisce di stoffa come sbavature di
rimmel.
La verità, come recita il comunicato, non
potrebbe essere più ambigua: dobbiamo credere
al volto severo della O’Keefe, forgiato dal vento
caldo del deserto del New Mexico in cui scelse di
ritirarsi a dipingere, o a quella “fotografia di una
fotografia”, per citare Don DeLillo, a quello “spot
degli spot” girato da Polansky dove Natalie
Portman e Michelle Williams si litigano con
aggressive (quanto fittizie) movenze lesbiche una
confezione della “brama” in cui – non oltre, ma
rassegnatamente dopo Duchamp – Francesco
Vezzoli ha sintetizzato il naufragio di cinque secoli
di arte? Se è allo statuto del desiderio che allude
il titolo del prodotto (e dell’annessa campagna di
marketing), è difficile spostarsi dalla riflessività in
cui esso appare imprigionato nello spot: due
donne elegantemente vestite (una bionda e una
castana) si accapigliano per impadronirsi della
bottiglietta di Greed, rotolandosi sul pavimento e
mimando persino una violenza brutale, fin quando
accanto al profumo rovesciato non compare la
scarpa di pelle di un uomo, intravisto soltanto di
spalle. E il perturbante di quell’agone, che inizia
in una vicinanza ambigua, quando una delle due
respira (qui ancora il senso letterale della
“haleine” duchampiana in qualche modo persiste)
un profumo estraneo sul corpo dell’altra, viene
riassorbito e vanificato dall’equilibrio apollineo di
un modello di comunicazione che lo utilizza come
gancio per rendere commerciabile anche il suo
fantasma. Il potere del brand vi è perfettamente
esemplificato: non vendiamo un profumo, ma per
l’appunto l’illusoria fragranza di un desiderio che
appartiene e a tutti e a nessuno. Più esattamente:
l’avidità della merce è l’accchiappasogni in cui si
impiglia qualunque desiderio, poiché, come
pensava Debord – ed era il 1967 – la sua
accumulazione totalizza l’intero immaginario. Lo
spettacolo è il “capitale a un tale grado di
accumulazione che diventa immagine”.
per quanto impalpabili, che scaturiscono dalla
mente e dalle sue paure. Quando cala il buio la
difficoltà a vedere con gli occhi stimola un diverso
tipo di sguardo, apre impreviste strade alla
percezione, in grado di materializzare un
differente tipo di realtà – se non proprio secondo
le leggi della fisica, almeno secondo quelle ancora
non del tutto conosciute della psiche. L’ora del
sonno è in grado di giocare con immagini e simboli
in modo assai più immediato, e non mentale, di
quanto accada durante il giorno – proprio come
avviene nel sogno (e non a caso i due termini,
sogno e sonno, in diverse lingue coincidono).
Bisognerà allora congratularsi con Vezzoli per aver
mostrato, per l’ennesima volta, il grado sempre
più estremo di vaporizzazione a cui è giunto il
valore d’uso nel momento in cui la merce assurge
a fantasma del desiderio e il desiderio non può
che investire, nel suo tragitto, la merce? No,
perché Greed non è che il rispecchiamento
anestetico (ripeto l’aggettivo: inerziale) di questo
processo e dunque la sua celebrazione attraverso
il sistema dell’arte che continua ad essere
puntato sulla realtà come un cannocchiale
rovesciato. Varcate le colonnine della Gagosian
Gallery, in realtà, nessuna critica è possibile, ma
solo una ricaduta su se stesso del mondo così
com’è. L’arte contemporanea è un treno fermo su
cui indugia un passeggero ancora indeciso se
credere alle indicazioni del capostazione, che si
ostina a non fischiare la fine del viaggio, o alla
mancanza di autorità della propria percezione.
Tra le pieghe della notte
Realismo e fughe oniriche in “Afterdark” di
Murakami
di Graziano Graziani
Nonostante l’avvento dell’elettricità, e il ritmo
ossessivo della produzione che si è esteso alla vita
privata, trasformando l’esistenza stessa nei paesi
industrializzati in un diffuso mega-store
twentyfour hours, la notte continua ad essere una
linea di demarcazione, meglio, un confine
attraversato il quale la percezione cambia
radicalmente, lo scorrere del tempo acquista
modalità impreviste e luoghi e oggetti conosciuti,
solitamente innocui, cambiano radicalmente di
segno.
Non a caso la sfera notturna, caratterizzata da
un’insondabilità che la ammanta di mistero e fa
sentire l’uomo più vulnerabile, è considerata il
momento del dì in cui si manifesta il non-umano,
l’ora dei fantasmi, per intenderci, quelli
spaventosi e immaginari di tante tradizioni e
culture, e quelli non meno angosciosi ma reali,
Nell’ultimo libro di Murakami Haruki, Afterdark,
la notte è una dimensione assoluta in cui due
ragazzi, Mari e Takahashi, trovano la giusta
curvatura nello spazio-tempo delle loro vite per
potersi incontrare, parlare, forse innamorare. Per
poter curvare i binari paralleli di due solitudini e
trovare un’intersezione da cui scaturisce la
comprensione dell’altro e del sé, forse da cui
scaturiscono nuove possibilità. Ma nel farlo
attraversano la landa ostile della notte, popolata
di yakuza aggressivi, giovani prostitute
clandestine, love hotel, motociclette che
squarciano l’aria e il silenzio per poi sparire di
nuovo nell’oscurità. Senza mai sprofondarci
dentro, ma consapevoli del fatto di stare
camminando lungo una soglia, dove passare
“dall’altra parte” è più facile di ciò che sembra, e
può avvenire in qualunque momento, senza
nemmeno rendersene conto.
La metropoli notturna disegnata da Murakami si
muove come un immenso animale, meno frenetica
del suo alter-ego diurno, ma altrettanto febbrile
nell’offerta di desideri da soddisfare. Lo scrittore
giapponese la descrive piombandoci dall’alto,
trasformandosi lui che scrive e noi che leggiamo in
un punto di osservazione, una telecamera mobile
in grado di spiare ciò che avviene senza realmente
farne parte. Con il suo stile fulmineo, che in
questo caso diventa filmico, Murakami ci
trasferisce da un momento all’altro della storia,
che si svolge tutta nell’arco di una notte in cui
Takahashi prova con la sua band e che Mari ha
deciso di passare fuori casa, per cambiare aria e
dimenticarsi per un po’ di “qualcosa”. L’effetto è
un blues metropolitano delicato e sofferente,
dove il fascino dell’oscurità, in grado di
materializzare come fanno i sogni stati d’animo e
pulsioni nascoste, non nasconde le molte
tumefazioni di cui soffre il lato buio
dell’esistenza.
Incastri e sequenze si snocciolano una dopo l’altra
come in un film di Scorsese (ricordate lo splendido
Out of time?), ma senza il sensazionalismo e i
colpi di scena del cinema di Hollywood: qui tutto
è ricondotto a un piano esistenziale, fortemente
quotidiano, e continuare sulla propria strada o
sprofondare in un abisso – come fa Shirakawa,
l’impiegato che picchia la giovane prostituta
cinese perché «non può fare diversamente» – non
è il risultato di una “combinazione” da
meccanismo di sceneggiatura, ma il crocicchio
obbligato in cui si trova a passare ogni esistenza.
Dall’altro lato della notte, e della storia, c’è Eri,
compagna di classe di Takahashi e sorella di Mari.
L’anello di congiunzione, che da giorni è
sprofondata in un sonno da cui non vuole più
uscire. Eri è una ragazza bellissima, adulata da
tutti, che già lavora in tv, posa come modella per
le riviste di “idol”, e spende tutto il suo tempo
appresso a borse e abiti firmati. Un mondo
incomprensibile per Mari, che avverte come un
muro tra la sua esistenza e quella di Eri. Un
mondo che, per antifrasi rispetto alla giovane
clandestina cinese costretta a prostituirsi,
rimanda a un fenomeno diffuso nel Giappone
contemporaneo (mai accennato direttamente da
Murakami), quello di una generazione di
adolescenti che hanno capito che i loro giovani
corpi possono essere merci di scambio molto
redditizie, e li barattano senza problemi per
comprare abiti firmati. A Eri probabilmente questa
dimensione non appartiene, guadagna a
sufficienza come modella, eppure intuiamo che
qualcosa nella sua esistenza la spinge a fuggire, a
rifugiarsi in un sonno dove non è più possibile farsi
raggiungere da nessuno. Murakami ci fa vedere la
bellissima ragazza distesa sul letto, con i lunghi
capelli a ventaglio sul cuscino, e di fronte la tv
accesa. Di colpo il suo corpo non è più sul letto,
ha scavalcato la soglia, è dall’altra parte, dentro
il televisore, nella scena del film. Poi anche il film
svanisce, e Eri si trova in un luogo che non ha
luogo, dove i suoni non sono suoni, e le sue urla
sono appena percettibili.
Se la storia di Mari e Takahashi si muove lungo il
solco del quotidiano, con il personaggio di Eri
Murakami torna a dare sfogo alla sua vena
visionaria, dove l’immaginario che si sprigiona
lascia un senso di inquietudine e non trova mai
una spiegazione cartesiana. Anzi, in questo caso
non c’è spiegazione alcuna, se non che Eri ha
oltrepassato una soglia, esattamente come
Shirakawa con la sua esplosione di violenza; sono
dall’altra parte, dove le coordinate dell’esistenza
seguono altre leggi. Questo è tutto ciò che
sappiamo.
Scadenzato dal tempo che scorre, raffigurato dagli
orologi che sovrastano ogni capitolo segnando
l’ora, il romanzo (e con lui la notte) si snoda lungo
l’intersezione di questi molteplici piani, di queste
molteplici esistenze, e il tempo diventa una soglia
ulteriore, che si scioglie con l’avvento del giorno,
dei treni, della gente che va a lavorare. Nel
raffigurarci questo intreccio, denso di emozioni
ma anche delicatamente ordinario, Murakami
sceglie di suggerirci che immagini abbinare, che
gradazione dare alle emozioni che ci racconta e
alle visioni che crea, abbinandoci, come si fa col
vino in un pasto raffinato, pezzi di un immaginario
diffuso, presi dal continuum di immagini/emozioni
immateriali ma realissime che scaturiscono dal
cinema, dalla musica, dalla letteratura. A partire
dal titolo, citazione del brano Five spot after
dark, dove Curtis Fullis suona il trombone in modo
così intenso da spingere Takahashi a sceglie
proprio quello strumento, e passando per
Alphaville di Godard, che dà il nome al love hotel
dove, come nella città distopica, ha luogo «un
sesso che non ha bisogno di né amore né di
ironia», Murakami dissemina il racconto di
emozioni che ha letto, ascoltato, vissuto altrove,
in qualità di spettatore. Proprio come noi che lo
stiamo a leggere, e diamo volti, colori, immagini e
suoni alle sue storie e ai suoi personaggi pescando
nel mare di visioni che ci sono care, che abbiamo
conservato lungo il percorso di storie che ci ha
accompagnato fino ad aprire la copertina del suo
libro.
In libreria: Murakami Haruki, Afterdark, Einaudi,
180 pagine, 18 euro.
la differenza
settimanale di cultura
on-line su www.differenza.org
direttore responsabile
Gian Maria Tosatti
in redazione
Graziano Graziani, Attilio Scarpellini,
Mariateresa Surianello.
La rivista è finanziata nell'ambito del progetto
Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di
Roma in collaborazione con il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.