E. Rohmer La - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
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E. Rohmer La - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
E. Rohmer La «summa» di André Bazin da E. Rohmer, Il gusto della bellezza, a cura di Cristina Bragaglia, Parma, Pratiche 1991, pp. 154-171 Già solo l’idea di scrivere questo articolo mi dava gioia. Non sospettavo affatto che dovesse uscire in una simile circostanza. La pubblicazione del primo volume di Che cosa è il cinema? non soltanto mi avrebbe permesso di pagare un immenso debito di riconoscenza verso il mio maestro e amico, ma anche di segnalare un avvenimento importante per la storia del cinema, quanto l’uscita di un dato film, o la messa a punto di un dato procedimento tecnico. Speravo anche che avrebbe spiegato, o giustificato, la scarsa cura con cui, qui ai «Cahiers», abbiamo abitualmente tenuto la rubrica dei libri, nonostante i rimproveri dello stesso Bazin. All’uscita di ogni nuova opera — e sono state molte in questi ultimi tempi — non finivo mai di constatare con amarezza che, per quanto questa fosse seria o intelligente, la nuova pietra che aggiungeva all’edificio della teoria del cinema era quasi inutile, poiché mancava l’impalcatura. Le navate laterali e le cappelle secondarie di un’Estetica in piena costruzione troneggiavano nelle vetrine dei librai, mentre i progetti della navata centrale non avevano ancora trovato altro confidente che la carta dei giornali Si pubblicavano opere che sarebbero divenute illeggibili in due o tre anni, se non lo erano fin dal principio, e chi aveva saputo rendere la meditazione sul cinema accattivante quanto la lettura di un romanzo, aveva firmato solo due libri, e per di più in collaborazione! Un esordiente qualunque dava alle stampe la summa delle sue riflessioni, mentre il pensiero del più grande critico contemporaneo doveva essere districato da un ammasso di settimanali, riviste e opuscoli. Questo libro, dunque, avrebbe costituito il portico introduttivo all’opera futura di André Bazin, che non sarebbe più stata quella di un giornalista, per quanto esemplare, bensì quella di uno scrittore. Purtroppo, ora dobbiamo forzatamente considerare questo vestibolo come l’opera tutta, dobbiamo contemplare una summa là dove non volevamo scorgere altro che delle premesse! Ci apprestavamo a salutare una partenza, una nascita, ed ecco che siamo costretti a commemorare un morto. Ma è giusto parlare di morte, quando non si tratta più dell’uomo, ma dell’opera? Lo so: ciò che teniamo fra le mani non è che un piccolo frammento di quanto avevamo osato sperare. Eppure, al di là di tutta la tristezza e di tutti i rimpianti, avremo almeno la consolazione che i testi lasciati da Bazin ci appaiono, grazie a questo sguardo retrospettivo, più importanti, più compiuti di quando era in vita. Mentre leggevo il primo volume e le bozze del secondo1 maturava in me una certezza: non si tratta di un insieme di appunti, di schizzi. Questa costruzione, pur non essendo coronata da un fastigio, poggia nondimeno su solide basi; non solo l’impalcatura, ma anche i tramezzi sono al loro posto, ed alcuni nel loro stato definitivo da diverso tempo. Questo punto è importante. Permettete che mi ci soffermi, prima di passare al contenuto dell’opera. Nonostante le apparenze, non abbiamo a che fare con una raccolta. Certo, si è fatta una scelta, ma tutto si configura come se i diversi articoli conservati, il più delle volte senza alcun ritocco, fossero stati stilati in vista di questa scelta. Nessuna traccia delle contingenze del mestiere di giornalista che pure Bazin praticava con il fervore e il senso dell’opportunità che sappiamo. Questi testi, originati da una precisa circostanza, 1 L’autore stesso aveva raccolto e messo in ordine il materiale di quattro raccolte che dovevano essere pubblicate sotto il titolo generale di Qu’est-ce que le cinéma? I. Ontologie et Langage. II. Le Cinéma et autres arts. III. Cinéma et société. IV. Le Néoréalisme (Editions du Cerf — Collection 7e Art). Speriamo che la serie si accresca di nuovi volumi, perché quasi tutti gli articoli meritano una riedizione. nello stesso tempo erano parte dello sviluppo di un progetto metodico, che ora ci viene rivelato. E non c’è dubbio che si tratti proprio di un progetto stabilito a priori, e non di una sistemazione effettuata solo in un secondo tempo. L’ordine logico che si ritrova qui non corrisponde necessariamente a quello cronologico, eppure è significativo che il testo riprodotto per primo, Ontologia dell’immagine fotografica, sia uno dei più vecchi. Bazin non ci offre una serie di approssimazioni successive sullo stesso argomento, ma soluzioni ogni volta definitive su problemi ogni volta diversi. Più di ogni altra cosa gli importava di avere pienamente risolto un problema prima di passare al seguente, per lo meno all’interno di una stessa sezione. E’ questo aspetto scientifico della sua opera che vorrei prima di tutto mettere in luce, senza peraltro sminuire quello artistico su cui tornerò. Si può ricordare l’esempio delle scienze naturali, che egli chiamava spesso in suo aiuto, e contemporaneamente quello del metodo matematico. Ogni articolo, ma anche l’opera nel suo insieme, possiede il rigore di un’autentica dimostrazione. E certo che l’intera opera di Bazin ruota intorno alla medesima idea, l’affermazione dell’«oggettività» cinematografica, ma lo fa un po’ allo stesso modo in cui tutta la geometria ruota intorno alle proprietà della linea retta. Non si tratta di un principio tattico, di un «argomento preferito» ripetuto in un’infinità di forme diverse, bensì di un’ipotesi fondamentale che l’abbondanza delle verifiche eseguite dall’ autore ci spinge a considerare come un vero assioma. Implicito o esplicito, il costante riferimento a quest’ultimo, lungi dal generare monotonia, garantisce al contrario la eterogeneità dell’opera. Che è una costruzione allo stesso titolo di quella di Euclide. Ciò che più ammiro in Bazin, è che ogni suo nuovo articolo non serve a completare, precisare un pensiero per metà già espresso altrove, e neppure semplicemente a illustrano con esempi più convincenti. Esso aggiunge, il più delle volte crea, un nuovo ambito di riflessione di cui non si sospettava l’esistenza. Genera vere e proprie «entità» critiche, così come il matematico genera figure o teoremi. Quante categorie sono state inaugurate grazie a lui, a cominciare da quella dell’ontologia (non parlo del termine, ma del concetto), assolutamente ignorata dai teorici prima del 1940? Se Bazin non si ripete, non si contraddice neppure. Gli è accaduto senza dubbio di ritornare su alcuni dei suoi particolari giudizi su dati film. E in questo caso, gli piace farlo non furtivamente, ma con scalpore, secondo le regole di un’onestà che non oso elogiare troppo per timore di nuocere ad altri suoi meriti. Infatti, se Bazin ama fare onorevole ammenda, questo scrupolo è da ascrivere non tanto al suo carattere quanto alla solidità del suo sistema. Il fatto è che per lui, come per lo scienziato, esistono una verità e un errore obiettivi, mentre non ce ne sono affatto per il dottrinario o l’impressionista. Se può dire «mi sono sbagliato», è perché l’ha fatto raramente. Ai testi che ci propone, non ha assolutamente portato alcun ritocco di fondo, eppure faticheremmo a scoprirvi la minima contraddizione, non più di quante ne scopriremmo nei libri di Euclide. Dalla parte della verità fin dal primo istante — o se si preferisce della più feconda delle ipotesi, come dice la scienza moderna — l’analisi delle diverse ramificazioni, venute ad innestarsi sul tronco della sua riflessione iniziale, non l’ha mai incitato a fare ammenda di quest’ultima. Certo, il metodo deduttivo comporta dei pericoli. So bene quel che si può obiettare: se Bazin non ha mai corso il rischio di veder inficiare le sue teorie, è perché aveva più g meno forgiato un cinema ad uso esclusivo della loro verifica. E certo che, in merito a questo o quel film, ci ha proposto alcune costruzioni troppo seducenti, perché aderissero effettivamente alla realtà. Talmente seducenti, che non p0’ tremino essere in collera con lui, affascinati come siamo dalla perfezione intrinseca dell’edificio critico. Ma è dello scienziato che parlo, per il momento, non dell’artista, anche se è vero che si è dovuto attendere la sua venuta perché la critica cinematografica accedesse alla stessa perfezione «letteraria» di quella delle altri arti. Celebrare Bazin in questo modo, è fargli un elogio ben al di sotto di quel che merita. Il metodo è pericoloso, certo, ma la rilettura di questi testi mi ha appena persuaso, ammesso che non ne fossi ancora del tutto convinto, che i suoi pericoli, incessantemente sfiorati, nei momenti più importanti sono sempre stati evitati. E possibile non essere d’accordo con Bazin, quando giudica questo o quel film. Nessuno può illudersi di prescindere dai propri gusti personali: lui, che era tutto il contrario di un arido teorico, non ha mai dissimulato i propri, così come non lasciava nell’ombra le sue convinzioni filosofiche o politiche. Ciò che vi è di singolare in lui, è che i principi informatori dei suoi giudizi non devono mai concordare, costi quel che costi, con le idee sviluppatesi in qualche altra provincia dell’estetica: egli li traeva sempre dalla propria riflessione sul cinema. E questo che costituisce la forza delle sue conclusioni, la loro natura perenne. Così, per esempio, fa sempre molta attenzione a distinguere tra realismo di fatto e teoria. Se difende, poniamo, Wyler contro Ford, non è per fare proprio il grido di battaglia di Roger Leenhardt, ma per meglio approfondire la sua conoscenza del linguaggio cinematografico. Il suo studio sul Giansenista della messa in scena non ha perduto nulla del suo valore, e neppure della sua attualità: è l’opera di uno storico, non un manifesto. Di fronte alla naturale serenità di Bazin, tutto il resto non è altro che polemica; sicuramente gli articoli e le opere di noi tutti, suoi contemporanei ed emuli, ma anche le grandi teone d’anteguerra (comprese quelle di Balázs), troppo occupate a proporre una nuova poetica d’Aristotele per poter risa. lire alle evidenze primarie. E poi, il procedimento induttivo non presenta forse rischi ancora maggiori? Indurre una legge dall’esempio equivale a fare, nel campo dell’arte o della storia, una temeraria 1 opzione sull’avvenire. E volere definire il cinema unicamente attraverso ciò che è stato, rifiutare, per esempio, la paro la o il colore con il pretesto che per un certo periodo il cine; ma è stato muto oppure in bianco e nero. Prima di Bazin, la teoria del cinema non aveva saputo proporsi altro modello che quello delle scienze sperimentali, e non potendo eguagliarne il rigore, rimaneva empirica. Constatava l’esistenza di alcuni fatti — soprattutto procedimenti di linguaggio, il primo piano, il montaggio — senza poterne fornire la spiegazione. Bazin introduce una nuova dimensione «metafisica» (possiamo usare la parola, poiché l’ha fatto egli stesso, ben guardandosi dall’atteggiarsi a filosofo) o se si preferisce «fenomenologica». L’influenza di Sartre2, l’ha detto lui stesso, è stata determinante per il suo cammino: ammiriamo l’indipendenza che il discepolo ha saputo in seguito dimostrare nei confronti del maestro. Una prova di quanto perfetta sia questa costruzione è la precisione con cui Bazin ha saputo formulare gli assiomi di base. Tutto è racchiuso, se non detto, in una frase, poiché è questa stessa frase che consentirà di dire tutto. Essa racchiude la definizione del cinema, ma allo stesso modo in cui la definizione di linea retta contiene in nuce quelle di piano e di spazio. Senza dubbio, non si può andare oltre in «comprensione», ma l’estensione del concetto ci appare ormai infinita: «… il cinema», leggiamo, «appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica»3. Con questa piccola, modesta frase, Bazin compie nell’ambito della teoria cinematografica la propria rivoluzione copernicana. Prima di lui, al contrario, era sulla soggettività della «settima arte» che si era voluto porre l’accento. In genere, si faceva il seguente ragionamento: «Il cinema è un’ arte? Chi dice arte dice interpretazione: accumuliamo dunque le prove di infedeltà, mettiamo in risalto le tracce dell’intervento dell’arti sta» Utile e necessaria tappa della riflessione, che ci ha però 2 Anche quella di Malraux, da cui Bazin prende a prestito non tanto il metodo, quanto alcune idee. E questo perché l’articolo giustamente celebre di «Verve» fa il punto su tutta la riflessione critica precedente. Lo studio sull’Ontologia dell’immagine cinematografica ne è più l’antitesi che non il pendant. Una nuova età dialettica della teoria cinematografica ha inizio. 3 A. Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., p. 9. (NdT) a lungo occultato l’essenza di un’arte di cui negavamo l’originalità per volere coglierne le analogie con le altre. Ciò che interessa Bazin, non è in cosa il cinema somiglia alla pittura, ma in cosa ne differisce. Come la fotografia, è figlio della meccanica: Per la prima volta, tra l’oggetto iniziale e la sua presentazione, non si frappone nulla al di fuori di un altro oggetto. Per la prima volta, un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza l’intervento creativo dell’uomo. Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo. Solo nella fotografia traiamo profitto dalla sua assenza. È noto come, da tredici anni a questa parte, la straordinaria fecondità di questa impostazione sia stata ampiamente verificata. Da questo punto di vista, tutto acquista nuova luce ed emergeranno campi d’indagine inesplorati. I capitoli che seguono non sono affatto la parafrasi del primo, né delle variazioni su un tema comune, e neppure le applicazioni particolari di un tema generale. Come un esploratore, Bazin si dedica a un’autentica «prospezione» nell’essenza del cinema. Possiede il filo che lo guiderà lungo il labirinto, ma non conosce affatto in anticipo le ricchezze che l’aspettano e che noi scopriremo con la sua stessa meraviglia. Prendo a prestito dai capitoli seguenti queste poche frasi adatte a rendere l’unità e al tempo stesso la diversità estrema del suo discorso: Il mito che informa l’invenzione del cinema è dunque il compimento di quello che domina confusamente tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo, dalla fotografia al fonografo. E quello del realismo integrale, di una ricreazione del mondo a sua immagine, un’immagine sulla quale non pesasse l’ipoteca della libertà d’interpretazione dell’artista né l’irreversibilità del tempo. Se il cinema in culla non ebbe tutti gli attributi del cinema totale di domani, fu dunque proprio suo malgrado e solo perché le sue fate erano tecnicamente impotenti a dotarlo nonostante i loro desideri.4 Il fantastico al cinema è consentito solo attraverso il realismo irresistibile dell’immagine fotografica. E questa ad imporci la presenza dell’inverosimile, a introdurlo nell’universo delle cose visibili.5 Grazie al cinema, il mondo realizza un’astuta economia sul preventivo delle sue guerre poiché queste vengono utilizzate a due fini, la Storia e il cinema, come quei produttori poco coscienziosi che girano un secondo film nelle scenografie troppo dispendiose del primo. In questo caso, il mondo ha ragione. La guerra, con le sue messi di cadaveri, le sue immense distruzioni, le sue innumerevoli migrazioni, i suoi campi di concentramento, le sue bombe atomiche, si lascia di molto indietro l’arte d’immaginazione che pretendeva di ricostruirla.6 È questo il miracolo del film scientifico, il suo inesauribile paradosso. E al limite estremo della ricerca interessata, utilitaria, nella proscrizione assoluta delle intenzioni estetiche in quanto tali, che la bellezza cinematografica si sviluppa in sovrappiù come grazia naturale… Solo la macchina da presa possedeva l’«apriti Sesamo» di quest’universo in cui la bellezza suprema s’identifica al tempo stesso 4 Ibid., p. 15. (NdT) Ibid., p. 17. (NdT) 6 Ibid., p. 21. (NdT) 5 con la natura e col caso: vale a dire tutto ciò che una certa estetica tradizionale considera come il contrario dell’arte. Quale in lui stesso alfine il cinema lo cambia7, indurito e già come fossilizzato dalla bianchezza ossea dell’ortocromatica, un mondo passato ritorna verso di noi, più reale di noi stessi e tuttavia fantastico. Proust otteneva la ricompensa del Tempo ritrovato nella gioia ineffabile di sprofondare nel ricordo. Qui, al contrario, la gioia estetica nasce da una lacerazione, poiché questi «ricordi» non ci appartengono. Realizzano il paradosso di un passato oggettivo estraneo alla nostra coscienza. La rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica. Non si muore due volte. La fotografia su questo punto non ha il potere del cinema, essa non può rappresentare che un agonizzante o un cadavere, non il passaggio impercettibile dall’uno all’altro.8 Da queste poche citazioni si vede come Bazin sia spinto a farci scoprire un mondo di rapporti del tutto nuovi tra l’opera d’arte e la natura. Il cinema abolisce la distanza tradizionale tra la realtà e la sua rappresentazione. Il modello è integrato all’opera, in qualche modo è l’opera. È lui che giudichiamo contemporaneamente a quest’ultima, e viceversa. Se Le Monde du silence ci fa ammirare le profondità sottomarine, è da queste che deriva non solo la propria bellezza, ma anche il proprio valore di opera d’arte. Succede persino che il modello possa presentare un coefficiente di realtà inferiore a quello del film che lo riproduce. Questi casi limite — Il mito di Stalin nel cinema sovietico, Pasticcio e posticcio o il nulla per dei baffetti — sono stati oggetto di una cura tutta particolare. E su questo punto Bazin è inimitabile. Questo critico, serio tra i seri, ha saputo manifestare all’occorrenza un estro e una fantasia che non alteravano in nulla la profondità delle sue intuizioni. D’altronde non sono questi i soli momenti in cui è possibile ammirare l’umorismo di Bazin. A dire il vero, esso è dappertutto, non tanto in alcuni paradossi o battute di spirito («Kon-Tiki è il film più bello, ma non esiste») quanto piuttosto nel modo stesso di comprendere i problemi. È più un’attitudine di pensiero che di stile. La vera natura del cinema è contraddittoria. Si penetra nel suo tempio solo attraverso la porta del paradosso, e quindi dell’umorismo. E quest’umorismo è come un segno supplementare di rispetto. «D’altra parte», leggiamo come conclusione al primo capitolo,« il cinema è un linguaggio»9. Se Bazin ha fatto sorgere dal nulla la riflessione ontologica sul cinema, non è affatto il primo grammatico di quest’arte. Lo stesso termine di linguaggio compare fin dal 1918 nel lessico di Victor Perrot o di Canudo. È innanzitutto alle problematiche espressive che si sono dedicati Delluc, Ejzenštejn, Pudovkin, Arnheirn, Malraux, e poteva sembrare che su questo capitolo non restasse più molto da dire. Ma lo studio della sintassi era stato effettuato a detrimento di quello dei rapporti che l’arte del cinema intrattiene con la realtà. Forte delle scoperte da lui effettuate in quest’ultimo ambito, Bazin riuscirà a dare alle ricerche sul linguaggio un orientamento completamente nuovo. Così, in Montaggio proibito, studio su Il palloncino rosso e i film sugli animali, non esaminerà affatto il procedimento dal solo punto di vista della relazione delle immagini tra loro, ma del rapporto di queste con il reale: ciò che è permesso nei film di finzione non lo è nel documentario. Le regole sintattiche variano a seconda dell’applicazione che ne viene fatta. Perdono così il loro carattere assoluto. 7 La citazione poetica rimanda a un verso di Mallarmé: «Tel qu’en lui-même enfin l’éternité le change», con cui si apre la poesia Le tombeau d’Edgar Poe. Bazin inserisce la parola cinéma al posto di éternité. (NdT) 8 A. Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., 9 Ibid., p. 10. (NdT) E poi il linguaggio si evolve. È inutile insistere su questo punto. Lo stesso Bazin deve la maggior parte della sua fama al fatto di essere apparso come il campione di una nuova estetica, quella della «profondità di campo». Ciò vuol dire, ripeto, deformare sensibilmente la realtà. Bazin non può essere abbassato al rango di avvocato di una causa, foss’anche la più giusta. L’evoluzione del linguaggio è per lui un fatto, allo stesso titolo, per esempio, della grandezza del genere documentaristico. Del tutto imparziale, intende rendere conto di quello come di questo. È il motivo per cui, ripetiamolo pure, il suo studio su Wyler, che mi accingevo a rileggere non senza qualche timore, resta sempre valido. È certo che non si potrebbe spiegare l’evoluzione dello stile cinematografico dal 1940 attraverso la sola profondità di campo, o il solo amore per l’inquadratura fissa. Ma risaliamo alle fonti, cioè al testo. Non facciamo dire a Bazin ciò che non ha mai detto. Prendiamo atto che tutti gli emendamenti che altri hanno creduto di apportare alla sua teoria sono già stati formulati dallo stesso Bazin, che la famosa profondità di campo è considerata sempre e solo come uno dei segni di un certo percorso verso l’oggettività, la quale non è stata affatto rinnegata né dalle opere posteriori, né dalle novità tecniche, a cominciare dal cinemascope. Il penultimo capitolo, L’evoluzione del linguaggio cinematografico, realizzato dalla fusione di tre articoli, è in grado di soddisfare i più esigenti, tanto questo saggio di sedici pagine è denso e al tempo stesso ricco di sfumature. Si loda volentieri il talento da analista di Bazin. Credo però che passerà molto tempo prima che un altro possa offrirci una visione sintetica altrettanto chiara, seducente, difficilmente attaccabile. Ne sono testimonianza queste poche righe che traggo dalla conclusione: È, senza dubbio, soprattutto alla tendenza Stroheim-Murnau, quasi ovunque eclissata dal 1930 al 1940, che si rifà più o meno coscientemente il cinema da dieci anni in qua. Ma esso non si limita a prolungarla, bensì vi attinge il segreto di una rigenerazione realistica del racconto, che ridiviene capace di integrare il tempo reale delle cose, la durata dell’avvenimento, al quale il découpage classico aveva sostituito insidiosa- mente un tempo intellettuale e astratto. Ma lungi dall’eliminare definitivamente le conquiste del montaggio, esso dà loro al contrario una relatività e un senso. E solo in rapporto a un accresciuto realismo dell’immagine che un supplemento di astrazione diviene possibile. Il repertorio stilistico di un regista come Hitchcock, per esempio, va dalle possibilità del documentario grezzo alle sovrimpressioni e ai primissimi piani. Ma i primi piani di Hitchcock non sono quelli di C.B. De Mille in The Cheat10. Essi non sono che una figura di stile tra le altre11 Queste riflessioni mi sono state ispirate da una piccolissima parte dell’opera di André Bazin. Senza dubbio è a partire da quest’ultima che conviene accostarsi a essa, poiché egli stesso ha voluto così, ma per quanto ho potuto constatare dalla lettura delle bozze, la seconda raccolta — attualmente in corso di stampa — dedicata ai rapporti tra il cinema e le altre arti non è in nulla inferiore alla prima, sia per il valore di ogni capitolo, sia per la coesione dell’insieme. Il mio progetto iniziale era di fare una presentazione di tutta l’opera di Bazin, ma, per quanto mi sia familiare, ho presto rinunciato all’idea di portare a termine una simile impresa in un tempo limitato12. Non perché la suddetta opera sia diversificata al punto da risultare difficile trovarvi un filo conduttore, ma piuttosto perché i legami tra le diverse parti sono così forti, così necessari, che cercando di farne emergere le grandi linee, si ha paura di proporne di più trascurabili e contingenti. Mi si scuserà dunque, se questo riassunto è venato di soggettività, se propongo una certa interpretazione a 10 Il titolo italiano del film di Cccl B. De Mille è I prevaricatori (1915). (NdT) A. Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., . 92-93. (NdT) 12 Ho persino dovuto trascurare tutta una sezione, sebbene importante, quella della sociologia cinematografica. 11 detrimento di altre ugualmente legittime. Ciò che soprattutto vorrei mostrare è che questo pensatore, cui nessuno nega facoltà analitiche sorprendenti, possiede, come accennavo prima, una capacità di sintesi non meno ammirevole. Il mio collega polacco Jerzy Plazewski deplora che Bazin non abbia potuto lasciarci la sua summa. Anche noi l’abbiamo deplorato e questo rimpianto, sul momento, ha reso più acuto il nostro dolore. Ma ecco almeno una consolazione alla nostra pena: questa summa, la possediamo grazie alla semplice addizione delle diverse parti dell’opera, altrettanto omogenee, altrettanto irrefutabii, quanto entità matematiche. Non credo che le celebri opere di Ejzenštejn, Balász, Arnheim, possano competere in rigore e coerenza. Allo stesso modo che per i problemi di linguaggio, prima di Bazin si era parlato spesso dei rapporti del cinema con le altre arti, ma la loro vera natura era stata misconosciuta per il fatto che, come nell’altro caso, si impostava il problema alla rovescia. Si partiva da una certa concezione dell’arte in cui si voleva far rientrare il cinema, anche quando ci si preoccupava di mettere in evidenza alcuni dei suoi caratteri, specifici certo, ma secondari. Bazin, al contrario, fa tabula rasa di ogni preconcetto e propone un radicale cambiamento di prospettiva. Una conferma della, fecondità di questo nuovo punto di vista sta nel fatto che esso illumina non solo l’arte del cinema, ma anche, di riflesso, le altre. Bazin, con la sua consueta modestia, non pretende affatto di sconfinare in un ambito che non è il suo, ma i tornanti della sua ricerca ci scoprono all’improvviso, e quasi a insaputa dell’autore, preziose intuizioni sulla natura e l’evoluzione del romanzo, del teatro, della pittura. No, per lui non si tratta di fare sfoggio della sua cultura, di servirsi dell’aiuto specioso del ragionamento per analogia: perché è indubitabile che, se la conoscenza delle altre arti ha potuto e può gettare una luce proficua sulla natura del cinema, non è meno vero il contrario; per questo un’indagine approfondita come quella di Bazin, per quanto relegata nell’ambito di una ristretta specializzazione, non poteva essere svolta senza comportare una serie di scoperte sulla natura e il divenire dell’arte nella sua interezza. Alcune citazioni, raccolte a caso, mi dispenseranno da commenti più ampi: … il successo e l’efficacia di un Mounet-Sully erano senza dubbio dovuti al suo talento, ma sorretti dall’assenso complice del pubblico. Era il fenomeno del «mostro sacro», oggi quasi completamente ricaduto sul cinema. Dire che i concorsi dell’Accademia d’Arte Drammatica non producono più attori tragici non significa affatto che non nascono più delle Sarah Bernhardt, ma che l’accordo tra l’epoca e le loro doti non esiste più. Così Voltaire si dava pena di plagiare la tragedia del XVII secolo perché credeva che solo Racine fosse morto, e non la tragedia.13 La cornice di un quadro viene a formare una zona di disorientamento dello spazio. A quello della natura e della nostra esperienza attiva che lo delimita esteriormente, essa oppone lo spazio orientato verso l’interno, lo spazio contemplativo, che ha accesso solo alla parte interiore del quadro... Ciò che rivela Le Mystère Picasso non è quello che già sapevamo, la durata della creazione, ma che questa durata può essere parte integrante dell’opera stessa... Dopo tutto, questa temporalità della pittura si è sempre manifestata in maniera larvata, specialmente nei blocchi di schizzi, negli «studi» e nelle «prove» delle stampe, per esempio. Ma essa si è rivelata una virtualità più esigente della pittura moderna. Matisse, dipingendo più volte la Femme à la blouse roumaine, che altro fa se non dispiegare nello spazio, cioè nel tempo suggerito, come si farebbe con un mazzo di carte, la propria invenzione creatrice?14 13 14 La traduzione è in questo caso nostra. Lo stesso vale per le altre citazioni da Bazin prive di nota. (NdT) A. Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., pp. 192-193. (NdT) Uno dei contributi più originali di Bazin è la denuncia che, nel corso del libro, fa dei caratteri «specifici» con cui si pretendeva definire il cinema prima di lui. Difende la causa dell’arte che ama, senza forgiarle false virtù, rifiutando di lasciarsi sedurre da una certa originalità di superficie al fine di riconoscere meglio la verità. Non cerca di eludere i problemi più pericolosi ai quali noi critici, generalmente, forniamo solo una soluzione frammentaria e valida unicamente in una data circostanza, non avendo trovato la rispostachiave. Quest’ultima, che per parte mia non speravo più di scoprire, ecco che la trovo in un passaggio del primo capitolo dedicato alla difesa del «cinema impuro». È noto che André Bazin ha sempre attribuito un’estrema importanza al problema dell’adattamento. Il fatto è che si tratta di un problema capitale: Bazin lo dichiara innocente anche quando il cinema accumula contro di lui tutti gli indizi di colpevolezza. Ciò che conta, è che il cinema sia ancora il cinema, quando trae altrove il soggetto, e che questo prestito non sia per lui una prova irrefutabile di sterilità o di dipendenza. La risposta che Bazin fornisce a questo proposito può essere considerata l’«idea-madre» di questa seconda raccolta, così come l’oggettività fotografica lo è della prima. E a dire il vero esse sono sorelle, entrambe fondate sul riconoscimento dello stretto rapporto che quest’arte intrattiene con la realtà. Nel cinema insomma, anche la contingenza è un carattere necessario. … non lasciamoci ingannare in quest’occasione dall’analogia con le altri arti, soprattutto quelle la cui evoluzione verso un uso individualista ha reso quasi indipendenti dal consumatore... il cinema non può esistere senza un minimo (e questo minimo è immenso) di pubblico immediato. Anche quando il cineasta affronta il gusto del pubblico, la sua audacia è valida solo nei limiti in cui è possibile ammettere che è lo spettatore a sbagliarsi su ciò che gli dovrebbe piacere e che un giorno gli piacerà. Il solo paragone contemporaneo possibile sarebbe con l’architettura, poiché una casa ha un senso solo se è abitabile. Il cinema, anch’esso, è un’arte funzionale. Secondo un altro sistema di referenza, bisognerebbe dire che la sua esistenza precede la sua essenza. E da questa esistenza che deve partire la critica, anche nelle sue più avventurose estrapolazioni.15 Provo piacere a riscrivere con la mia penna queste frasi — come tutte quelle che ho citato. Di formule simili se ne trovano miriadi, e brillano non a causa di vuoti effetti di stile, ma per lo spessore della materia. Nuove prove di una rara capacità di sintesi su cui non credo superfluo insistere ancora, esse testimoniano un non meno sicuro talento di scrittore. Certamente nessuno potrà più parlare di cinema senza ispirarsi ai lavori di Bazin: ma penso che sarebbe non tanto impertinente quanto temerario intraprendere uno studio un minimo serio, senza citare almeno qualcuna delle sue frasi. Ed eccoci allo stile. E il riflesso del pensiero e ne porta impresse le stesse qualità. Ma questo elogio mi sembra ancora troppo insignificante. Certo, Bazin non è un purista: giornalista, teorico di un’arte del tutto nuova, non nutre nessun pregiudizio nei confronti dei neologismi di vocabolario e sintassi. Sicuramente vuole prima di tutto convincere, senza passare sotto silenzio alcuna tappa della sua dimostrazione, e neppure alcun cardine del ragionamento: i poiché, i dopo tutto, i dunque, i per questo, appaiono quand’è necessario, non c’è modo di eliminarli. E tuttavia, nessuna aridità, nessuna pesantezza, nessuna pedanteria. Relativamente all’ambizione del discorso, i termini tecnici tratti dalla filosofia sono decisamente rari. Se un termine un minimo erudito si insinua, qualche riga dopo troviamo l’espressione familiare, ma non trasandata, che ne fornisce una sorta di 15 Ibid., r. 138. (NdT) contrappeso umoristico. Gli inizi sono lenti e discreti. Bazin, che per quanto ho potuto giudicare, avendolo visto spesso all’opera, scriveva in fretta e quasi senza cancellature, ama lasciare scorrere la penna. Poi, bruscamente, ecco l’idea brillante, la formula ammirevole che, ben lontano dal soddisfarlo, ne suscita una seconda, poi una terza, e a volte tutt’un susseguirsi di massime dense, colorite, esplosive e tuttavia piene di modestia. Anche qui devo scegliere. Tra tutti gli ornamenti del suo stile, se mai ce ne sono, i paragoni sono quelli che hanno suscitato in me la più viva ammirazione, non esente da un’autentica invidia. Sono davvero effetti di stile? No, se è vero che non è possibile considerarli come un puro ornamento, poiché sicuramente mai metafore furono meno gratuite. Sono lì per sostenere la dimostrazione, non arrossiscono mai per la loro origine didattica. All’inizio poi, non fanno mai la loro comparsa senza una qualche precauzione. Nel capitolo su Wyler, Bazin chiede che lo si scusi di andare alla ricerca delle sue argomentazioni nella mineralogia. Altrove, assumono un aspetto meno scientifico nella loro presentazione, anche se il loro contenuto è sempre improntato alla scienza preferita dell’autore, la storia naturale: zoologia, botanica o geologia. Ma gli antichi poeti didattici, a cominciare dall’autore del De rerum natura, non facevano forse lo stesso? Forti di questo esempio, ed anche di quello della Comédie humaine, possiamo senza timore rispondere «sì» alla nostra domanda. Questi paragoni rafforzano la nostra convinzione e al tempo stesso il fascino della lettura. Personalmente, li trovo più poetici e più persuasivi di quelli, tanto osannati, di Albert Thibaudet. La loro bellezza deriva a colpo sicuro (cosa rara nella letteratura moderna, preziosa per temperamento e necessità, poiché ogni buona metafora si basa su un’idea di finalità cui il nostro secolo non crede affatto) dalle corrispondenze che lasciano intravvedere tra il mondo naturale e quello dell’arte cinematografica; traducono indirettamente il tipo di supremazia che Bazin accordava all’universo dei fini rispetto a quello delle cause. Ne è testimone il sorprendente «cappello» che scrisse per l’intervista con Orson Welles e che sfocia in pieno fantastico balzacchiano. Cosa citare tra mille gioielli? Solo questo che segue, perché lo spazio manca, per la sua rara densità e la perfetta adeguatezza della metafora e dell’oggetto di studio. (Si tratta dei rumori «stilizzati» di Bresson): Sono lì per la loro indifferenza e la loro perfetta condizione di «estranei» come il granello di sabbia nella macchina per incepparne il meccanismo. Se l’arbitrarietà della scelta assomiglia ad un’astrazione, allora è quella del concreto integrale; quest’ultima scalfisce l’immagine per rivelarne la trasparenza, come la polvere di diamante. Ho appena riletto Bazin, e la lettura, oltre che un’esaltazione di cui ho saputo restituire qui solo un pallido riflesso, mi ha comunicato un altrettanto vivo scoramento. Lui ha già detto tutto e noi arriviamo troppo tardi. Noi, gente dei «Cahiers» che avevamo con lui colloqui quasi quotidiani, ci credevamo dispensati dal prendere ancora una volta in esame i suoi scritti, altrimenti, forse, non avremmo osato ripetere ciò che egli aveva detto in modo già definitivo, o contraddirlo a volte, dimenticando che aveva fornito in anticipo tutte le risposte alle nostre obiezioni. E d’altronde, noi tutti ci eravamo impegnati lungo le vie secondarie della polemica e delle fioriture, scaricando su di lui l’incombenza di porre la grande domanda: Che cos’è il cinema? e di rispondervi. Ora spetta a noi il difficile dovere di proseguire il suo compito: non ci tireremo indietro, anche se siamo persuasi che egli l’abbia portato molto più lontano di quanto sapremmo fare noi stessi. Se il cinema non avesse una sua evoluzione, saremmo forse tentati di rinunciarvi. Solo le sorprese del futuro autorizzano la speranza di diventare, se non i successori di André Bazin, per lo meno i suoi discepoli non troppo indegni. («Cahiers du cinéma», n. 91, Spécial André Bazin, gennaio 1939)