RIVISTA DI STUDI ITALIANI 587 CINEMA VITTORIO DE SICA: UN

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RIVISTA DI STUDI ITALIANI 587 CINEMA VITTORIO DE SICA: UN
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CINEMA
VITTORIO DE SICA:
UN GENIO DEL CINEMA TUTTO ITALIANO
ANNARITA CURCIO
Roma
Ora ti dirò una cosa sola. Tu “albeggi”
Noi (tutti noi registi italiani) “tramontiamo”.
Da una lettera di Mario Soldati a Vittorio De Sica,
Roma, 16 Novembre 1948
I
ntervistato da Leone Piccioni alla radio nel 1950, Cesare Pavese afferma:
“Il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann, e, tra gli italiani,
Vittorio De Sica”. Che il celebre scrittore avesse riconosciuto nell’autore
de I Buddenbrook (1901) e de La montagna incantata (1924) un sommo
maestro dell’ars narrandi non stupisce affatto, meraviglia invece che al
romanziere tedesco, premio Nobel per la letteratura nel 1929, Pavese
affiancasse un uomo di cinema. Tuttavia questa affermazione, che sulle prime
può sembrare azzardata, risulta essere a nostro avviso quanto mai indovinata.
Infatti, Vittorio De Sica non è soltanto una delle figure più significative della
cultura italiana del Novecento, ma del cinema mondiale di sempre, basti
pensare che resta a tutt’oggi il regista più premiato a Hollywood per il
migliore film straniero.
Con i suoi 30 film realizzati come regista e le sue oltre 140 interpretazioni
da attore (a tal proposito ci sembra doveroso citare alcuni dei film più famosi
nei quali egli ha recitato: Processo di Frine di Alessandro Blasetti, Cuore di
Duilio Coletti o il Generale della Rovere di Roberto Rossellini, su un soggetto
di Indro Montanelli), De Sica ha saputo creare una memorabile galleria di
“caratteri” che è entrata di prepotenza nel nostro immaginario e patrimonio
culturale. Egli si è imposto immediatamente come uno dei padri del
Neorealismo, movimento cinematografico eterogeneo nato in Italia
nell’immediato secondo dopoguerra, noto per aver rivoluzionato il linguaggio
narrativo che allora andava per la meglio nel genere comico-sentimentale che
è passato alla storia con il nome di “telefoni bianchi”. A questo maestro del
cinema nostrano è stata recentemente dedicata una mostra dal titolo Tutti De
Sica presso il Museo dell’Ara Pacis (Roma). La mostra, voluta dalla
Sovrintendenza di Roma Capitale con il sostegno del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali e prodotta dalla Fondazione Cineteca di Bologna, è stata
possibile grazie al generoso contributo dei tre figli Emi, Manuel e Christian,
che hanno svelato l’archivio personale di Giuditta Rissone, prima moglie di
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De Sica, e della figlia Emi, nonché grazie alla disponibilità di numerosi
archivi pubblici e privati italiani che hanno fornito molto del materiale in
esposizione: oltre 600 fotografie, più di 300 lettere, documenti personali e
manifesti, di cui più di venti originali e inoltre costumi, oggetti di culto,
registrazioni sonore e cinematografiche. Dunque una mostra multimediale il
cui grande merito è stato quello di tributare al regista laziale-partenopeo il
giusto ruolo all’interno della storia del cinema, nonché di offrire allo
spettatore un ritratto a tutto tondo del De Sica uomo di spettacolo, attore di
rivista, cantante, attore cinematografico, regista e uomo privato, andando così
a colmare parzialmente un vuoto generato da un inspiegabile disinteresse della
critica nostrana di questi ultimi due decenni, eccezion fatta per gli studi di
Orio Caldiron (1975)1, Lino Miccichè (1992)2 e Giancarlo Governi (1993)3.
I suoi esordi come attore teatrale lo vedono affianco di Tatiana Pavlova,
attrice e regista russa, chiamata a Roma nel 1935 da Silvio D’Amico a
dirigere i corsi di regia nella neo-fondata Accademia Nazionale d’Arte
Drammatica. Successivamente, passa alla compagnia formata da Sergio
Tofano, Luigi Almirante e Giuditta Rissone. Se con la compagnia della
Pavlova De Sica interpreta un numero incalcolabile di “vecchi” e si trova a
dover affrontare per lo più un repertorio classico russo, con la compagnia
diretta da Tofano & Co., invece, si dedica al teatro italiano ed europeo: da
Pirandello4 a Ugo Betti a Ferenc Molnar.
Dopo qualche anno conosce Mario Mattoli, futuro prolifico regista di
cinecommedie ed entra a far parte della sua impresa di spettacoli Za Bum,
sigla onomatopeica di un’impresa di spettacoli commerciali di grande
successo. Esordisce anche come cantante; tra le sue incisioni discografiche più
popolari una è sicuramente Parlami d’amore, Mariù5.
1
Orio Caldiron, Vittorio De Sica, Roma: Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri,
1975.
2
Lino Miccichè (a cura di), De Sica: autore, regista, attore, Venezia:
Marsilio, 1992.
3
Giancarlo Governi, Parlami d'amore, Mariù. La vita e l’opera di Vittorio
De Sica, Roma: Gremese, 1993.
4
De Sica ha sempre manifestato una sorta di debito di gratitudine nei
confronti di Pirandello: “Il grande autore siciliano è stato alla base del mio
primo grande amore teatrale. Il cinema, in seguito, mi ha rapito al teatro, ma
ogni volta che ho meditato un ritorno sul palcoscenico ho pensato a
Pirandello”, in Vittorio De Sica, “La mia vita meravigliosa”, Gente, 28
novembre, 1974.
5
Secondo Tullio Kezich il primo vero successo di De Sica in teatro non è da
attore ma da cantante: “Un tenorino dotato di una voce non poderosa ma
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Nel 1932 trionfa alla prima Mostra di Venezia con Gli uomini, che
mascalzoni... Con questo film ha inizio il sodalizio tra l’attore e il regista
Mario Camerini. Insieme realizzeranno altri quattro film, tra cui Il signor Max
(1937)6. Questi sono anni durante i quali il governo fascista porta avanti una
linea protezionistica nei confronti dell’industria cinematografica italiana, tanto
da convertire in legge, nel 1939, un decreto in base al quale viene bloccata la
distribuzione dei film stranieri. In quest’ottica è comprensibile che Cinecittà
sia a caccia di volti nuovi e De Sica, così come Totò, comincia a giocare un
ruolo sempre più decisivo nel cinema benché non abbia ancora del tutto
abbandonato l’attività teatrale. Egli interpreta in questi anni qualcosa come
trenta ruoli, lavorando freneticamente in un tour de force di personaggi e
cambi d’identità.
A partire dagli anni ’40 esordisce alla regia. I suoi primi film hanno tutti
successo e tra questi quello più significativo è I bambini ci guardano (1943),
nel quale sono ravvisabili i segni di un’epoca che giunge al suo compimento.
Esso rappresenta inoltre una tappa cruciale nella carriera del De Sica regista,
giacché è il suo primo film drammatico, il primo in cui non recita ed è infine
la prima collaborazione ufficiale con Cesare Zavattini, altra anima indiscussa
del Neorealismo. La pellicola affresca una realtà sociale intrisa di cupo
pessimismo, dove vengono evocati un’infanzia infelice, un adulterio
femminile e un suicidio.
È in questi anni che De Sica realizza quattro capolavori del Neorealismo:
Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1950) e
Umberto D. (1952). Insieme a Ossessione (1943) di Luchino Visconti e Roma
città aperta (1945) di Roberto Rossellini, Sciuscià è il film che dà il via
storicamente al Neorealismo. Questi tre film hanno in comune la volontà di
descrivere la realtà senza infingimenti, mettendone a nudo gli aspetti più
crudi, inoltre si caratterizzano per un utilizzo sistematico di esterni reali e le
storie si focalizzano sulla vita di persone normali esposte alle ingiustizie
sociali. Altro aspetto fondamentale è il ricorso ad attori non professionisti che
tuttavia riescono a identificarsi completamente con il loro personaggio, è il
caso di Rinaldo Smordoni e Franco Interlenghi in Sciuscià o di Enzo Staiola e
Lamberto Maggiorani in Ladri di biciclette. Il critico francese Andrè Bazin ha
scritto a tal proposito: “Un cinema senza interpretazione, in cui non è più
neppure questione che una comparsa reciti più o meno bene, tanto l’uomo si
intonata e musicale”. Lo stesso De Sica ricorda come fino alle sue ultime
apparizioni pubbliche gli sia sempre stato chiesto di cantare Parlami d'amore,
Mariù. Cfr. Gian Luca Farinelli (a cura di), Tutti De Sica, Bologna: Edizioni
Cineteca di Bologna, 2013.
6
Il figlio Christian dirige nel 1991 il film Il conte Max che si ispira
dichiaratamente al ruolo interpretato da suo padre Vittorio ne Il signor Max.
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identifica col suo personaggio”7.
Ladri di biciclette è indubbiamente l’opera più celebre del Neorealismo. La
trama si concentra sulle sfortunate peripezie di Antonio Ricci (Lamberto
Maggiorani), un disoccupato che trova lavoro come attacchino municipale, al
quale viene rubata la bicicletta. La ricerca infruttuosa del suo indispensabile
strumento di lavoro porta Antonio a imbattersi in una lunga sequenza di
situazioni e personaggi attraverso i quali emerge uno spaccato particolarmente
dettagliato dell’Italia del dopoguerra, in un precario equilibro tra le macerie
del secondo conflitto mondiale e i primi segnali di una lenta e faticosa
rinascita. La vicenda drammatica di Antonio incarna in maniera esemplare la
vita quotidiana delle classi popolari avvinte da innumerevoli avversità. Come
le mondine nel film Riso Amaro (1949) di Giuseppe De Santis o la famiglia
Valastro ne La terra trema (1948) di Luchino Visconti, anche il protagonista
di Ladri di biciclette sembra essere il prodotto ineluttabile del contesto socioeconomico cui appartiene che infligge con gelida crudeltà innumerevoli
condizionamenti sul piano psicologico, morale e spirituale. È come dire che
non ci si può ribellare né affrancare dall’identità sociale del mondo nel quale
si è nati e di cui si patiscono le ingiustizie8. Inoltre, sul piano della costruzione
drammaturgica il film obbedisce alla tesi zavattiniana del pedinamento, che
consiste nell’“inseguire” con la macchina da presa i personaggi come in
tempo reale (l’ultima mezz’ora del film è quasi completamente priva di salti
temporali).
A tal proposito non ci si può non soffermare sul lungo e ininterrotto
sodalizio tra De Sica e Cesare Zavattini. Per trent’anni, a partire dal 1943,
essi daranno vita a una carrellata inesauribile di storie e personaggi mai
uguali, attinti direttamente dalla realtà9. Scrittore, redattore e direttore di
numerosi periodici illustrati, Zavattini dà un contributo determinante
all’affermazione anche sul piano teorico del Neorealismo10, avvia le sue
7
André Bazin, Vittorio De Sica, Parma: Guanda, 1953, p. 27.
Cfr. Giaime Alonge, Vittorio De Sica. Ladri di biciclette, Torino: Lindau,
1997.
9
La longeva e feconda collaborazione tra Zavattini e De Sica dura fino alla
scomparsa di quest’ultimo, avvenuta nel 1974. Il giorno della morte di
Vittorio, Zavattini scrive: “Una grande parte della mia vita se ne va. [...]
Eravamo radicalmente diversi per geografia, carattere, formazione culturale,
atteggiamento verso la vita e la società. Eppure ci siamo intesi, fummo
complementari l’uno all’altro”. Cfr. Gian Luca Farinelli (a cura di), Tutti De
Sica, Bologna: Edizioni Cineteca di Bologna, 2013, p. 36.
10
Si veda il testo fondativo di Mario Verdone, “Il contributo di Zavattini”, in
Cinema, n. 27, 1949.
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ricerche in campo cinematografico a vantaggio di una sperimentazione diretta
della realtà che si riassume nella nota teoria del sopracitato “pedinamentoˮ e
che attua soprattutto in alcuni film-inchiesta a episodi in sodalizio con registi
vari, continuando, nel frattempo, senza sostanziali interruzioni la sua
collaborazione con De Sica.
Già nel 1940, con l’intervento “I sogni migliori” apparso sulla rivista
Cinema, egli si pone in maniera interrogativa rispetto al cinema romanzesco e
ai soggetti spettacolari, invocando piuttosto un paradosso, quello dello
sguardo del cieco, capace di elaborare modi inediti di raccontare la realtà. Lo
sceneggiatore auspica, in altri termini, una sorta di rivoluzione dello sguardo,
in cui quest’ultimo non si limiti a riprodurre passivamente la realtà ma tenti
piuttosto di comprenderla e spiegarla, facendo del cinema un mezzo
conoscitivo del mondo.
Nel 1952 è la volta di Umberto D.: i tempi sono cambiati, prova ne è
l’insuccesso commerciale della pellicola11. Benché essa rappresenti uno dei
vertici della stagione neorealista, tuttavia non viene accolta favorevolmente né
dalla critica né dal pubblico e suscita un vivace e acceso dibattito politico, tra
cui un intervento dell’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
Giulio Andreotti, il quale demonizza il “pessimo servigioˮ che il film rende
all’immagine dell’Italia all’estero12.
De Sica parte allora per gli Stati Uniti dove gli viene proposto di realizzare
una versione americana di Ladri di biciclette, ma rifiuta la proposta. Stringe,
tuttavia, proficui rapporti con uno dei più importanti produttori americani
dell’epoca, David O’Selznick, per il quale gira, a Roma, Stazione Termini, con
Jennifer Jones e Montgomery Clift, su un soggetto che Zavattini aveva scritto
già da qualche anno. Ma l’esperienza si rivela sul piano umano e professionale
piuttosto faticosa, in questi termini la ricorda lo stesso De Sica:
Mai come in quella occasione, dirigere un film mi costò tanta fatica. A
inguaiarmi furono proprio i due protagonisti. Monty, come ho già detto,
era nevrotico e andava preso con le molle. E Jennifer era di un’emotività
11
Ecco come lo stesso De Sica si esprime sull’insuccesso del film: “Confesso
che […] Zavattini ed io ci smontammo. Eravamo stufi di lottare contro i
mulini al vento. Non avevamo la vocazione del genio incompreso”, in Vittorio
De Sica, “C’è un solo regista, Visconti”, Novella 2000, 17 dicembre, 1974.
12
Giulio Andreotti, nominato, nel 1947, Sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio, svolgerà, anche a livello legislativo, un ruolo chiave per il rilancio
del cinema nostrano, uscito fatiscente dagli eventi bellici. Già nel 1954 la
produzione italiana occupa, con oltre 200 film realizzati, il secondo posto nel
mondo. Cfr. Giulio Andreotti, “Piaghe sociali e necessità di redimersi”, in
Libertas, n. 7, 28 febbraio 1952.
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talmente esasperata, che bastava rivolgerle la parola con un tono di voce
vagamente brusco per mandarla in crisi. Più che il regista, quindi, sul set
mi trovai a fare lo psicanalista. E riuscii nel mio intento, anche se alla fine
mi ritrovai io stesso con i nervi a pezzi13.
Negli anni ’50 De Sica si impone come una delle figure più rilevanti della
cosiddetta Commedia all’Italiana. Si veda il successo di Pane amore e
fantasia (1953) diretto da Luigi Comencini, i cui due successivi film (1954 e
1955) della serie rappresentano i primordi delle carriere proprio di Comencini
e di Dino Risi e la realizzazione di film come L’oro di Napoli (1954), nel
quale De Sica porta per la prima volta sullo schermo la città della propria
infanzia e lui stesso recita nell’episodio I giocatori, e Il tetto (1955), col quale
fa il tentativo di ritornare ai princìpi del Neorealismo e alle indagini
zavattiniane. Questi sono anche gli anni delle maggiorate, e quella che
raggiungerà la più alta popolarità è senza dubbio Sophia Loren. Assieme al
marito, il produttore cinematografico Carlo Ponti, De Sica è colui che riesce a
esaltare le doti attoriali, ampie e duttili dell’attrice partenopea, facendone
emergere la personalità di napoletana verace e sanguigna fin dall’episodio La
pizzaiola ne L’oro di Napoli, ispirato a due racconti di Giuseppe Marotta e
costruito su di lei. La loro collaborazione culmina con il trionfale successo de
La ciociara, coronato dal Premio Oscar (1960) e che varrà all’attrice anche il
premio come migliore attrice al Festival di Cannes. L’immagine della Loren
entra subito nella storia del costume, favorita anche dalla sua carriera
hollywoodiana14, così come accade per altre dive internazionali dell’epoca. Il
regista e l’attrice lavorano insieme in altre sei pellicole e l’interpretazione
della Loren in Ieri, oggi e domani (1963), piena di ironia e malizia femminile,
contribuisce in maniera determinante a far vincere a De Sica il suo terzo
Oscar.
In Matrimonio all’italiana (1964), tratto dalla commedia Filumena
Marturano di Edoardo De Filippo, De Sica assegna all’attrice un altro celebre
13
Vittorio De Sica, “Volevo fare Ladri di biciclette, ma i produttori mi
ridevano in faccia”, Gente, 5 dicembre, 1974.
14
A partire dal 1956 Sophia Loren recita anche in inglese in produzioni
statunitensi di rilievo, affiancata da grandi star maschili di Hollywood. È
questo il periodo di film come Il ragazzo sul delfino (1957), Orgoglio e
passione (1957) a fianco di Frank Sinatra e Cary Grant, oppure Timbuctù
(1957) con John Wayne, La chiave (1958) con William Holden, il western Il
diavolo in calzoncini rosa (1959) con Anthony Quinn, Un marito per Cinzia
(1958) ancora con Cary Grant, e La miliardaria (1960) con Peter Sellers.
Grazie a questi film e a tanti altri, la Loren riesce a imporsi e farsi amare dal
pubblico statunitense e di tutto il mondo.
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personaggio, quello pugnace della prostituta Filumena, innamorata
dell’aristocratico Domenico Soriano interpretato da Marcello Mastroianni,
attore col quale la Loren manterrà negli anni un altrettanto solido legame
professionale. Con Il giardino dei Finzi Contini (1970) De Sica vince il suo
quarto Oscar15. Rimane invece incompiuto un progetto a lungo corteggiato,
quello di realizzare un film tratto dal romanzo Un cuore semplice di Gustave
Flaubert, in quanto colto da una morte improvvisa il 13 novembre 1974.
Di lui il critico Mario Verdone ha scritto: “[...] la personalità di Vittorio De
Sica è di una ricchezza che nel nostro cinema non ha precedenti. Vi
predominano l’elemento gioioso e vitale, ma anche, in pari misura, l’elemento
amaro, il senso dell’incertezza e della delusione”16. Forse proprio queste due
caratteristiche contrastanti, ben delineate da Verdone, sono all’origine di
un’affermazione di Bazin, il quale negli anni ’50 scrive a buon ragione:
“Nessuno oggi, può, più di De Sica, pretendere all’eredità di Chaplin”17.
In conclusione, è doveroso spendere qualche parola sull’enorme eredità
lasciata da De Sica: egli ha saputo “tradurre” meglio di chiunque altro
l’italianità, forse solo un altro attore ne è stato altrettanto capace, stiamo
parlando di Alberto Sordi, il cui repertorio complesso e poliedrico ha non
pochi tratti in comune con quello di De Sica. Entrambi infatti hanno in sé un
aspetto comico e uno tragico che sanno esprimere con uguale maestria a
seconda della situazione; il loro carattere è al tempo stesso amaro e disilluso,
sentimentale e con forti doti di humour. Entrambi hanno trasposto in non
poche pellicole un pessimismo di fondo incancellabile, lasciando forti
impronte sul cinema italiano. Tuttavia, mentre Alberto Sordi ha avuto quanto
meno un erede, Carlo Verdone, il quale ha raccolto metaforicamente il
testimone in un film la cui regia è firmata dallo stesso Sordi, In viaggio con
papà (1982); De Sica invece non ha avuto purtroppo epigoni, nessuno perciò
in grado di imitarne le immensi doti attoriali e registiche, forse perché il
destino dei veri maestri è la solitudine, brillare nel firmamento come stelle
solitarie.
15
Questo quarto Oscar è stato atteso dal regista con molta trepidazione tanto
che egli stesso così lo commenta dopo qualche anno: “La verità è che questo
Oscar mi fa veramente felice e che ci tenevo ad averlo, perché me lo ero
sudato e anzi le dirò qualcosa di più, io questo Oscar me lo sono sognato
anche la notte, altro che sorpresa, altro che alla sprovvista”, in Nino
Longobardi, “Incontro col Maestro”, Il Messaggero, 12 aprile 1972.
16
Gian Luca Farinelli (a cura di), Tutti De Sica, cit., p. 112.
17
André Bazin, Vittorio De Sica, cit., p. 56.
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