Schede delle opere in mostra
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Schede delle opere in mostra
Schede delle opere in mostra Vincenzo Agnetti Progetto per un Amleto Politico, 1973 Nel suo insieme si inserisce in quel tipo di operazione che ho già avuto occasione di chiamare 'teatro statico'. Teatro statico inteso come spettacolo senza movimento senza personaggi e senza testo... Qualunque scambio avviene sempre al di fuori se non si vuole operare a circolo chiuso. Forse è per questo che alla fine, per evitare una disciplina, un settore implicito nell'arte (il teatro in questo caso), ho escluso anche la rappresentazione della persona che arringa la folla con dei numeri. Mi sono limitato all'impatto visivo dell'opera. Ho riprodotto le bandiere di alcune nazioni; le ho allegate a dei testi formati da soli numeri che visivamente sottointendevano diversità d'intonazione; le ho completate con la didascalia che indica i sette punti del Progetto per un Amleto politico. Bibliografia catalogo Galleriaforma, Genova, 1973 catalogo Premio Pascali, Bari, 1973 catalogo Contemporanea, Roma, 1973 Giovanni Anceschi Ambiente a shock luminosi, Palais du Louvre, Pavillon de Marsan, Parigi 1964 Lo spettatore percorre due corridoi accostati (pareti, pavimenti e soffitto bianchi). Al di sopra del velario, sono collocate due fonti luminose molto forti. Due timer programmati secondo due ritmi leggermente sfasati le accendono e spengono ritmicamente. Lo spettatore passa successivamente attraverso due situazioni percettive: nell'avvicinarsi alla fonte luminosa, effetto di scomparsa delle demarcazioni dell'ambiente, mentre quando si trova ai due estremi del doppio corridoio, effetto di condensazione e diluizione del tempo dei colpi di luce. Le foto di Antonio Ria documentano la versione realizzata per la mostra L'ultima Avanguardia, Milano, 1985. Alberto Biasi Grande tuffo nell'arcobaleno del 1999 è una variante di un Light Prisms realizzato nel 1962 per le mostre di “Arte Programmata” Dal punto di vista fisico l'opera é costituita da raggi di luce bianca che attraversando prismi di cristallo si scindono e appaiono nei colori dell’iride su un pavimento bianco. Nel buio alcuni cristalli sfaccettati, opportunamente collocati al centro e in rotazione, ne rifrangono ai bordi i puri colori che si riflettono nuovamente all’interno della superficie per effetto di carambola sui lati a specchio. Le rotazioni dei cristalli centrali, con tempi e sensi di rotazione diversi, provocano uno sciabolare continuo di raggi che si saturano oppure si svuotano di colore, mutando in tutta la scala cromatica, dal rosso al violetto, aprendosi al disordine oppure ricomponendosi in rigorose geometrie. Il Grande tuffo nell'arcobaleno, così come tutti i Light prisms, realizzati da Biasi in decine di varianti, provoca grande stupore e coinvolge il visitatore, in modo quasi ipnotico, nell'esplorazione degli arcobaleni che sono nella luce ma che normalmente sfuggono ai nostri occhi. Davide Boriani Ambiente Sbroboscopico n. 5, 1967-2010 Ambiente a pianta quadrata, di 4 x 4 x 3 m, delimitato da 16 pannelli che portano sul lato interno 16 specchi di cm 100 x 250. Il pavimento è formato da 16 pedane da 1 mq Le 12 pedane perimetrali sono a bande alternate di colore rosso e verde complementari. Le 4 centrali sono rivestite da specchi su cui i visitatori possono camminare. In ogni pedana è inserito un sensore che rileva la presenza e la posizione nell’ambiente di una persona. Nel soffitto, all’altezza di 2.50 m sono collocati 5 proiettori stroboscopici, a flash di luce rossa e verde alternata, e frequenza variabile da 1 a 30 lampi al secondo. Al centro dell’ambiente quattro pannelli di 100 x 250 cm, rivestiti da specchi su entrambe le facce, delimitano uno spazio di 2 x 2 x 2,50 m, di cui anche il pavimento e il soffitto sono rivestiti da specchi. I quattro pannelli centrali possono ruotare sul proprio asse verticale, ognuno a velocità leggermente diversa. Quando un sensore rileva la presenza di una persona, sono inviati due segnali elettrici: uno accende il motore che fa ruotare uno dei 4 pannelli centrali; l’altro accende il proiettore che sta sopra alla persona. La frequenza, inizialmente lenta, dei flash di luce rossa e verde dà al pavimento (verde e rosso) un effetto di movimento apparente, a scatti. Aumentando la frequenza l’effetto di movimento a scatti si trasforma in un effetto di vibrazione: per sintesi additiva dei complementari, la luce colorata in luce bianca vibrante. Questi effetti sono ovviamente più complessi quando nell’ambiente sono presenti più persone. L’AMBIENTE STROBOSCOPICO n. 5 è una variante progettata da Boriani nel 2010, dei precedenti ambienti stroboscopici, n. 3 (Parigi 1967), e n. 4 (Frankfurt 2007) Rispetto a questi ambienti, vi sono due innovazioni non secondarie: 1 – E’ stato inserito un quinto stroboscopio nella zona centrale del soffitto. 2 – Nelle due versioni precedenti la parte centrale del pavimento era in lastre di acciaio inox, la cui specularità, già inferiore a quella degli specchi in cristallo, era progressivamente ridotta col passaggio delle persone. L’inserimento di specchi in cristallo, su cui i visitatori possono camminare, aumenta e mantiene inalterato l’effetto di riflessione all’infinito dell’ambiente anche in senso verticale. Enrico Castellani Penso che sia illegittimo…, in AA.VV., Lo spazio dell'Immagine, catalogo della mostra, Palazzo Trinci, Foligno, Alfieri, Venezia 1967 Penso che sia illegittimo e pretenzioso voler deformare lo spazio in maniera definitiva ed irreversibile, con la presunzione oltre tutto di voler incidere nella realtà: si tratta nella migliore delle ipotesi di una operazione inutile. Al massimo è lecito strutturarlo in modo da renderlo percettibile e sensorialmente fruibile; lo spazio in fondo ci interessa e ci preoccupa in quanto ci contiene. Per questa operazione uso delle superfici monocrome, il più immateriali possibili, foggiate a doppia curvatura e ad elementi ripetuti: un succedersi di punti in rilievo e di punti in depressione, di poli negativi e positivi, un succedersi di minimi interventi operativi. Esse sono costituite da una membrana piana dalla quale l’opera di formazione non altera le caratteristiche fisiche di elasticità e di continuità spaziale (al limite si può benissimo immaginare che cessando l’intervento formativo essa ritorni alla primitiva dimensione neutra). Alle strutture risultanti da questa operazione ne corrispondono altre uguali e contrarie e quindi annullatisi nell’economia di una totalità spaziale. Anche la realtà ha sempre un dritto e un rovescio che combaciando si negano a vicenda. L'impostazione è molto interessante..., breve riflessione sulla mostra Lo spazio dell'Immagine, in "Flash Mensile d'Arte", n. 2, Roma, 2 luglio 1967 L’impostazione è molto interessante, specialmente come raggruppamento di artisti di varie correnti attorno ad un tema a loro congeniale; un tema che tutti sentivamo e che già si andava proponendo da qualche tempo in mostre o rassegne a cui qualcuno di noi ha partecipato. Il fatto più importante della mostra de Foligno è che qui tutti assieme abbiamo sviluppato questa problematica e che pertanto la mostra segna un punto fermo, una data storica e soprattutto penso anche a certi tipi di sviluppi, come la proposta accennata solo per ora, di trasportare la rassegna nel museo di Amsterdam. Inoltre ognuno di noi trae un notevole insegnamento dalla mostra poichè la cosa fatta si differenzia dalla cosa pensata come era, almeno complessivamente in partenza. Alik Cavaliere in Alik Cavaliere. I luoghi circostanti, Silvana Editoriale, 1992. Ho usato la parola inglese "surroundigs" perchè, con più precisione, riassume il senso delle "cose circostanti" e l'ho usata per quella parte del mio lavoro che intendeva sottolineare l'influenza dei fattori esterni, concomitanti, casuali o prevedibili, rendendoli spesso determinati per l'opera stessa (soprattutto, nello sforzo di lavorare fondendo i termini di spazio e di tempo, sia con l'estensione e la dilatazione degli elementi usati, sia con esempi inseriti nel più consueto quotidiano). Devo dire che tutto il lavoro è spesso rimasto con un valore di ipotesi, talora con opere da prendere e riusare per "altro". Gianni Colombo (Milano 1937 – Melzo, 1993) è stato esponente di spicco delle esperienze di arte cinetica e “programmata” in Italia. Dopo aver essersi confrontato con mezzi tradizionali e non (nel 1958, monocromi in ovatta, affini a quelli di Piero Manzoni), costituisce nel 1959-60 il Gruppo T. Dinamismi fisici con mezzi elettrici e magnetici, definizione percettiva di spazi, uso di luci industriali dal neon al laser, sono al centro di un’attività artistica che esalta le potenzialità estetiche del razionalismo tecnologico. Del gruppo fanno parte giovani autori come Boriani, Castellani, Devecchi, col sostegno autorevole di critici come Argan e Menna. Il gruppo si collega al movimento internazionale di Nouvelle tendance che si presenta in forze alla Biennale di Venezia del 1968, dove Colombo consegue il primo premio. Il 1967 era intanto stato l'anno della consacrazione ufficiale in Italia e in Europa del tema "ambiente spaziale". A Graz (Trigon '67) viene allestita una mostra di ambienti, tra cui Spazio elastico, il più noto dell’artista e anche quello più riproposto negli anni successivi, a cominciare dalla XXXVI Biennale di Venezia del 1968 dove questo l’opera il Primo Premio per la pittura. Lo stesso lavoro è presentato a Documenta 4 a Kassel. Negli anni ’70 si moltiplicano le sue personali in Italia e all’estero e si susseguono le opere ambientali, dalle Bariestesia alle Topoestesie. Nei primi anni Ottanta Colombo inizia a lavorare a una serie di ambienti intitolati Architetture cacogoniometrichearchi che presenta nella personale ordinata allo Stedelijk Van Abbe Museum di Eindhoven (1981) e alla mostra Arte italiana 1960-1982 alla Hayward Gallery di Londra (1982). Nel 1984 tiene una mostra personale al PAC di Milano dove presenta l'ambiente Architettura cacogoniometricacolonne. Lo stesso ambiente è riproposto alla Biennale di Venezia. Nel 1985 assume la direzione dell’Accademia di Brera dove insegna Strutturazione dello spazio. Nel 1987 inizia a collaborare con la FIAM, per conto della quale realizza alcuni allestimenti presso la Galleria Schubert di Milano, la Intemationale Mobelmesse di Colonia (1989) e lo Show Room Gherardini di Milano (1992). S’impegna anche in scenografie di avanguardia (Operntheater di Francoforte, 1986) e in progettazioni di architetture virtuali (le Architetture cagoniometriche, gli Spazi curvi). Nel 1992 – anno che precede la sua prematura scomparsa – l’artista nel suggestivo spazio della Galerie Hoffmann a Friedberg, presenta il suo ultimo lavoro ambientale, Spazio diagoniometrico, realizzato con grandi coni di carta fotografica alti circa tre metri mossi da motori elettrici. Mostre personali (dove è stato esposto Spazio elastico): Gianni Colombo, L'Attico, Roma, 1968; Gianni Colombo, Galleria Schwarz, Milano, 1968; Spazio elastico, Studio di Informazione Estetica, presso negozio Gavina, Torino, 1968; Gianni Colombo, Van Abbemuseum, Eindhoven, 1981; I colombo. Joe Colombo 1930-1971. Gianni Colombo 19371993, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, 1995; Gianni Colombo. Spazi, Fondazione Stelline, Milano, 1999; Gianni Colombo. L'artista e il suo mondo, Sogetsu Art Museum, Tokio, 1999; Gianni Colombo Ambienti, Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz, 2008; Gianni Colombo. Ambienti, Haus Konstruktiv, Zurich, 2009; Gianni Colombo, Castello di Rivoli, 2009-2010. Mostre collettive (dove è stato esposto Spazio elastico): Trigon 67, Künstlerhaus, Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz, 1967; XXXIV Biennale di Venezia, 1968; Konstruktive Kunst: Elemente und Prinzipien Biennale 1969 Nürberg, , Kunsthalle, Künstlerhaus, Rathaus, Norimberga, 1969; Konstruktiva Umetnost: Elementi i principi, Muzej Savremene Umetnosti, Belgrado, 1969; La ricerca estetica dal 1960 al 1970, X Quadriennale, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1973; Teatro e musica per tutta Cesano, Cesano Maderno, 1975; L'arte di ispirazione scientifica e tecnologica, Premio Nazionale di Pittura Città di Gallarate, 10a edizione, Civica Galleria d'Arte Moderna, Gallarate, 1975; Recent International Forms in Art, Biennale di Sydney, Art Gallry of New South Wales, Opera House, Sydney, 1975; Electra, MAM Musée d'Arte Moderne de la Ville de Paris, 1983-1984; Gianni Colombo, PAC, Milano, 1984; 1960-1985. Aspekte der italienischen Kunst, Frankfurter Kunstverein, Frankfurt, 1986; Roma anni '60. Al di là della pittura, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1991; Imagination, perception in art, Kusnthaus, Graz, 2003-2004; Gli ambienti del gruppo T, G.N.A.M., Roma, 2005; L’oeil Moteur, art optique et cinetique, 1950-1975, Les Musees de Strasburg, 2005; Die Neuen Tendenzen, Museum fur Konkrete Kunst, Ingolstadt, 2006-2007; Faster!Bigger!Better!, Museum Kunst Palace, Dusseldorf, 2006-2007; Light Art and Space, Museum Zurf naar Z33, Hasselt, 20062007; Revolutions forms that of turn, 16esima Biennale di Sydney, Sydney, 2008; Italics: Arte italiana fra tradizione e rivoluzione, 1968-2008, Palazzo Grassi, Venezia, 2008-2009; Italics: Art between Tradition and revolution, 1968-2008, Museum of Contemporary Art, Chicago, 2009-2010; ILLUMInazioni, 54a Biennale di Venezia, 2011; Erre (Variations labyrinthiques), Centre Pompidou Metz, 2011-2012; Laboratory Space Brian,Institute d’art Contemporaine,Villeurbanne/RhoneAlpes, 2011; Tracing the Grid, Stiftung Museum , Stuttgart, 2012; Ghost in the machine, New Museum, New York, 2012; Lumineux! Dynamique! Espace et vision dans l’art de nos jours à 1913, Galeries Nationales du Grand-Palais, Paris, 2013; ZERO in South America, Museu Oscar Niemeyer, Fundação Iberê Camargo,Pinacoteca do Estado de São Paulo, 2013-2014. Gino De Dominicis Nell’anno 1947 d.C. nacque nella città di Ancona l’artista Gino de Dominicis, più precisamente il primo giorno del mese di aprile e, di conseguenza, sotto il segno zodiacale dell’ariete. Trasferitosi a Roma nel 1968 conobbe il gallerista Fabio Sargentini, nella cui galleria L’Attico espose due anni dopo proprio un ariete, non più segno, bensì realtà vivente, animale irrequieto che scalpitava in compagnia di un toro, di due gemelli con pantaloni neri, maglione giallo e braccia conserte, seguiti da un granchio, un leone in gabbia, una vergine vestita d’azzurro, una grande bilancia, uno scorpione, un arciere, un capricorno, due anfore e due pesci morti disposti sul pavimento. In tal modo De Dominicis trasformò lo spazio espositivo in un ambiente zodiacale, una materializzazione dello zodiaco che per cinque giorni fu presente nella galleria; così l’odore dei pesci morti si mescolava ai versi dell’ariete, ai ruggiti del leone, al movimento delle palpebre dei gemelli e al rumore degli zoccoli del toro sulle piastrelle. Proprio la vita, sotto forma di flusso vitale, creò un ambiente imprevedibile e sinestetico, non un mero contenitore, ma un insieme di relazioni contestuali. De Dominicis indaga l’origine arcaica della simbologia zodiacale, addentrandosi in un passato mitico dove si dissolve il confine tra uomo e animale; infatti furono proprio i Sumeri, oltre a fondare la prima civiltà della storia circa 5000 anni fa, ad inventare lo zodiaco, collegando dodici divinità ai dodici segni zodiacali e alle rispettive costellazioni. Il costante interesse di Gino de Dominicis per la cultura dei Sumeri è presente anche in un altro celebre ambiente creato dall’artista nel 1988 nella galleria di Lia Rumma a Napoli e intitolato Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi. Nella galleria era esposto un quadro che raffigurava Gilgamesh, il re sumero che cercava l’immortalità, e Urvasi divinità indiana bella e immortale; di fronte al dipinto uno specchio appeso alla parete rifletteva la stanza e il quadro, ma non i visitatori presenti nella galleria, che si muovevano in uno spazio che sembrava negare ostinatamente la loro presenza. In verità lo specchio era solo un vetro trasparente oltre il quale l’artista aveva replicato lo spazio della galleria contenente una copia speculare del dipinto appeso alla parete; per mezzo di questo trucco complesso De Dominicis crea così un ambiente che, a differenza della vitalità dello Zodiaco, nega la presenza umana e dunque esclude la vita dall’opera per raggiungere l’immortalità. Infatti soltanto l’immagine del quadro viene riflessa dallo specchio, acquistando in tal modo un’esistenza immortale e atemporale propria dell’opera d’arte. Colui che non si vede riflesso nello Specchio è un essere vivente, effimero, destinato a morire e del tutto irrilevante per uno specchio che contempla solo l’eternità dell’arte. Tanto l’ambiente dello Zodiaco era umano, mortale e carnale, tanto l’ambiente di Specchio è un asettico congegno dell’immortalità. L’artista stesso è destinato a morire e, se Gilgamesh morì a ben 126 anni, Gino de Dominicis morì prematuramente a soli 51 anni nel 1998 d.C. . Michele Savino Gabriele Devecchi Ambiente a strutturazione plastico cromatica (o Ambiente a intermittenza cromatica), 1965 Porzione di spazio limitata da una copertura e 4 pareti della misura in pianta di 4x1 m priva di illuminazione artificiale e naturale. In una delle pareti minori sono sistemate all’altezza di 160 cm da terra 2 fonti luminose affiancate di diverso colore ad accensione intermittente isocrona tra loro indipendente. Si vuole considerare l’immagine postuma che viene ad impressionare la retina dell’occhio e le dimensioni cromatiche risultanti dalle sovraimpressioni delle immagini medesime. La distanza tra le 2 fonti luminose provoca con l’alternarsi delle accensioni lievi spostamenti dell’occhio con la seguente meccanica: all’immagine postuma della fonte 1 si sovrappone quella della fonte 2 spostata e di colore diverso, alle quali verrà a sovraimpressionarsi una terza immagine ancora spostata dovuta alla prima fonte e così fino ad ottenere una strutturazione media compresa tra l’immagine reale e la prima postuma ancora visibile. La progressiva diminuzione dell’intensità luminosa delle immagini postume fino all’impossibilità percettiva genera una gerarchia di successione dei luoghi delle immagini così da determinare una strutturazione retinica polidimensionale. I colori sono scelti fra i complementari affinché possano efficacemente interagire e per effetto della complementarietà ottica interferire nella somma delle sovraimpressioni postume retroagendo sulla organicità della strutturazione che altrimenti rischierebbe di scivolare nel meccanismo. In una situazione a-spaziale –corridoio buio e nero di 1x3 m - lo spettatore riceve un duplice e alternato stimolo luminoso - un quadrato rosso e uno verde di 5 cm di lato affiancati alla distanza di 13 cm - il succedersi degli stimoli, per il contrasto simultaneo dei colori e la persistenza retinica, strutturano una immagine virtuale con profondità spaziale. Lucio Fontana (Rosario di Santa Fè, Argentina, 1899 – Comabbio, 1968) Il padre Luigi, italiano, in Argentina da una decina d'anni, è scultore e la madre, Lucia Bottino, di origine italiana, è attrice di teatro. A sei anni, con il padre, viene a Milano per frequentare le scuole. Già nel 1910 inizia il suo apprendistato artistico nella bottega paterna. Si iscrive poi a una scuola per Maestri Edili che lascia per arruolarsi come volontario nella prima guerra mondiale. Ferito, è congedato con medaglia d'argento al valore militare; riprende quindi gli studi e si diploma. Nel 1921 torna in Argentina, a Rosario di Santa Fè e inizia la sua attività di scultore nella bottega di scultura del padre. Apre poi un proprio studio a Rosario. Tra il 1925 e il 1927 vince alcuni concorsi e realizza, tra gli altri, il monumento a Juana Blanco. Torna a Milano nel 1928 per iscriversi, come allievo di Adolfo Wildt, al 1° corso dell'Accademia di Brera: a fine anno è promosso al 4° corso. Partecipa intanto a esposizioni e concorsi in Italia, in Spagna e in Argentina. Nel 1930 conosce Teresita Rasini che diventerà sua moglie. Spaziando tra figurativo e astratto, la sua scultura, sia in terracotta sia in gesso, con o senza colore, diventa più libera e personale. In quegli anni, importantissimi per la sua ricerca artistica, sempre più riconosciuta dai maggiori critici, da Argan a Belli, Persico, Morosini, partecipa alla Triennale di Milano, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma; espone più volte alla Galleria del Milione, inizia l'attività di ceramista ad Albisola e, nel 1937, alla Manifattura di Sèvres dove realizza alcune sculture di piccolo formato che espone, e vende, a Parigi. Intensa, già in questo periodo, la sua attività con gli architetti più all'avanguardia. All'inizio del 1940 parte per Buenos Aires, dove si stabilisce, lavora intensamente e vince vari concorsi di scultura. Professore di modellato alla Scuola di Belle Arti, nel 1946 organizza con altri una scuola d'arte privata: l'Accademia di Altamira che diventa un importante centro di promozione culturale. E' proprio qui che, in contatto con giovani artisti e intellettuali, elabora le teorie di ricerca artistica che portano alla pubblicazione del Manifiesto Blanco. Rientrato a Milano nell'aprile del 1947, Fontana fonda il Movimento spaziale e, con altri artisti e intellettuali, pubblica il Primo Manifesto dello Spazialismo. Riprende l'attività di ceramista ad Albisola e la collaborazione con gli architetti. L'anno seguente vede l'uscita del Secondo Manifesto dello Spazialismo. Nel 1949 espone alla Galleria del Naviglio l'Ambiente spaziale a luce nera suscitando al tempo stesso grande entusiasmo e scalpore. Nello stesso anno nasce la sua invenzione più originale quando, forse spinto dalla sua origine di scultore, alla ricerca di una terza dimensione realizza i primi quadri forando le tele. Continua a essere invitato alle Biennali di Venezia, alle Triennali di Milano. Nel 1950 esce il Terzo manifesto spaziale Proposta per un regolamento. Nel 1951, alla IX Triennale, dove per primo usa il neon come forma d'arte, legge il suo Manifesto tecnico dello Spazialismo. Partecipa poi al concorso indetto per la quinta porta del Duomo di Milano vincendolo ex-aequo con Minguzzi nel 1952. Nello stesso anno firma con altri artisti il Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione ed espone per la prima volta in modo compiuto le sue opere spaziali alla Galleria del Naviglio di Milano. Scatenando di nuovo entusiasmo e sgomento, oltre a forarle, Fontana dipinge ora le tele, vi applica colore, inchiostri, pastelli, collages, lustrini, frammenti di vetro. E' ormai noto e apprezzato anche all'estero. Nel 1957, in una serie di opere in carta telata, oltre ai buchi e ai graffiti appaiono, appena accennati, i tagli ai quali arriverà compiutamente l'anno successivo: dalle tele a più tagli colorate a velature a quelle monocrome intitolate Concetto spaziale, Attesa. Mostre e partecipazioni a manifestazioni internazionali si susseguono a ritmo sempre più intenso: i musei, le gallerie e i collezionisti più sensibili acquistano le sue opere. Uomo di grande generosità, sempre pronto, anche quando materialmente non ne aveva ancora la possibilità, ad aiutare i giovani artisti, Fontana li incoraggia, ne acquista le opere, fa loro dono delle sue anche se, nella maggior parte dei casi, sa che saranno subito vendute. In quegli anni Fontana realizza, oltre a sculture in ferro su gambo, una serie di opere in terracotta, note come Nature: sorta di sfere su cui interviene con larghi squarci o ferite a taglio; continua anche a eseguire lavori in ceramica di grande e di piccolo formato e a collaborare con i maggiori architetti per opere di environnement, denominate Ambiente spaziale, in cui impiega la luce come elemento innovativo, secondo una tecnica ripresa poi da altri artisti. Negli anni '60, di ritorno da New York, Fontana, ispirato dalle luci della città, realizza una serie di opere su lastre di metallo. Si dedica poi a una serie di dipinti ovali, a olio, tutti dello stesso formato, monocromi e costellati di buchi, di squarci, a volte cosparsi di lustrini, che chiama Fine di Dio. Lo stesso tema si ritrova, nel 1967, in una serie di ellissi in legno laccato a colori squillanti, pezzi unici realizzati su suo disegno. Tra il 1964 e il 1966 inventa i Teatrini: cornici in legno sagomato e laccato che racchiudono tele monocrome forate. Non abbandona però i "tagli", cui rimane fedele sino all'ultimo, e nel 1966, per la sua sala bianca, con tele bianche segnate da un solo taglio verticale, la giuria internazionale della XXXIII Biennale di Venezia gli assegna il primo premio per la pittura. Lasciata Milano e trasferitosi a Comabbio, paese d'origine della sua famiglia di cui aveva restaurato la vecchia casa colonica, muore nel 1968. Mostre principali Galleria del Naviglio, Milano, 1949; IX Triennale di Milano, 1951; XXXI Fiera di Milano; 1953; XXXII Fiera di Milano, 1954; XXVII Biennale di Venezia, 1954; IX Triennale di Milano, 1957; Galleria del Naviglio, Milano, 1957; Documenta II, Kassel, 1959; IV Tokyo Biennale, Metropolitan Art Gallery, Tokyo, 1961; XXXII Biennale di Venezia, 1964; XIII Triennale di Milano, 1964; Walker Art Center, Minneapolis, 1966; Stedelijk Museum, Amsterdam, 1967; Lo spazio dell’immagine, Foligno, 1967; XXXIV Biennale di Venezia, 1968; Documenta IV, Kassel, 1968; Galleria civica di Arte Moderna, Torino, 1970; Guggenheim Museum, New York, 1978; Forte Belvedere, Firenze 1980; Musée National d’Arte Moderne, centre Georges Pompidou, Paris, 1987; Galleria civica d’arte moderna, Modena, 1990; Burri e Fontana, 1949-1968, Centro Pecci per l’arte contemporanea, Prato, 1996; Lucio Fontana retospektive, Frankfurt, 1996-Wien, 1997; Lucio Fontana, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1998; Lucio Fontana entre materia y espacio, Fundacion “Caixa”, Museo Reina Sofia, Madrid, 1998; Lucio Fontana. La fine di Dio, Nature, Cubo di luce, Stadtische Galerie im Lenbachhaus, Munchen 1998; Lucio Fontana: idee e capolavori, PAC, Milano, 1999; Lucio Fontana, La Triennale, La luce, Triennale di Milano, 1999; Lucio Fontana oltre la materia, Museo Diocesano, Milano, 1999; Laboratorio Fontana, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, 1999; Lucio Fontana alla Scala, Museo teatrale alla Scala, Milano, 1999; Lucio Fontana Opere 1947-1965, Palazzo Leone da Perego, Legnano, 2004-2005; Lucio Fontana Venice/New York, Geggenheim Museum, New York, 2006-2007; Buenos Aires, 2008; MoMA, New York, 2009; Gagosian Gallery, New York, 2012. Bibliografia essenziale E. Persico, Lucio Fontana, Milano 1938; J. Zocchi, Lucio Fontana, Buenos Aires 1946; M. Tapis, Devenir de Fontana, Torino 1961; F. De Bartolomeis, Segno antidisegno di Lucio Fontana, Torino 1967; Lucio Fontana, catalogo della mostra Galleria civica di Arte Moderna di Torino, 1970; P. Fossati, I concetti spaziali di Lucio Fontana, Torino 1970; E. Crispolti, J. Van der Marck (a cura di), Lucio Fontana. Catalogue Raisonné des Peintures, sculptures et environnements spatiaux, 2 voll., La Connaissance, Bruxelles 1974; T. m. Missere, E. Billeter (a cura di), catalogo della mostra Guggenheim Museum, New York 1978; V. Bramanti, Lucio Fontana, catalogo della mostra Forte Belvedere, Firenze 1980; E. Crispolti (a cura di), Fontana. Catalogo generale, voll. 2 (seconda edizione), Electa, Milano 1986; B. Blistène (a cura di), catalogo della mostra Musée National d’Arte Moderne, centre Georges Pompidou, Paris 1987; F. Gualdoni (a cura di), Lucio Fontana, il disegno, catalogo della mostra Galleria civica d’arte moderna, Modena 1990; J. De Sanna, Lucio Fontana. Materia, spazio, concetto, Mursia, Milano 1994; Burri e Fontana, 1949-1968, catalogo della mostra Centro Pecci per l’arte contemporanea, Prato 1996; catalogo della mostra Lucio Fontana retospektive, Frakfurt 1996-Wien 1997; Lucio Fontana, catalogo della mostra Palazzo delle Esposizioni, Roma 1998; Lucio Fontana entre materia y espacio, catalogo della mostra Fundacion “Caixa”, Museo Reina Sofia, Madrid 1998; Lucio Fontana. La fine di Dio, Nature, Cubo di luce, catalogo della mostra Stadtische Galerie im Lenbachhaus, Munchen 1998; Lucio Fontana Opere 1947-1965, catalogo della mostra Palazzo Leone da Perego, Legnano, Charta, Milano 2004; E. Crispolti (a cura di), Fontana. Catalogo ragionato di sculture, dipinti, ambientazioni (terza edizione), 2 voll., Skira, Milano 2006. Pinot Gallizio (Alba 1902-1964) “Archeologo, botanico, chimico, aromatiere, partigiano, re degli zingari”. Così si definisce l’artista in una sua nota biografica del 1959. Dal 1955 è direttore del Laboratorio Sperimentale della “Bauhaus Imaginiste”, che nel 1957 diviene Laboratorio Sperimentale dell’Internazionale Situazionista. Nel febbraio del 1958 avvia la produzione della pittura industriale che espone a Torino nel maggio del 1958. La caverna dell’antimateria, 1958-1959 (catalogo generale 58dt38) Sette tele di dimensioni varie dipinte a tecnica mista: olio, resine plastiche, solventi, pigmenti, fili di ferro). Dimensioni ambiente. L’opera-ambiente è stata progettata e realizzata appositamente per gli spazi della Galerie René Drouin di Parigi dove venne esposta nel 1959 e ne rispecchia la planimetria e le dimensioni. L’ambiente è costituito dal rivestimento di tutto lo spazio espositivo tramite lunghi rotoli di tela dipinta. Con adattamenti agli ambienti, questo lavoro è stato esposto a: 2011, Milano, Museo Pecci 2005, Alba, Municipio 2000, Bassano del Grappa, “Sentieri Interrotti” 1992, Torino, Promotrice delle Belle Arti 1990, Torino, Galleria Martano 1990, Londra, ICA, Institute of Contemporary Arts 1989, Parigi, Centre Georges Pompidou 1974, Torino, Galleria d’Arte Moderna 1961, Stedelijk Museum, Amsterdam 1960, “Dalla natura all’arte”, Palazzo Grassi, Venezia, sala 15 n. 1 1960, Stedelijk Museum, Amsterdam. Mostra personale 1959, Parigi, Galerie René Drouin Dan Cameron, Piero Gilardi estratto dal catalogo della mostra alla Sperone Westwater Gallery, New York 1991 Entrando nell’ecosfera portatile di Piero Gilardi, non possiamo veramente chiamare in causa la realtà empirica di quanto stiamo sperimentando. Quella che viene trasformata nel tempo, comunque è la sensazione di certezza che le più grandi pretese dell’uomo ed i più profondi misteri della natura sono veramente lontani l’uno dall’altro. Forse questa esperienza ci avvicina di un passo alla comprensione della ragione per cui noi desideriamo ardentemente intravedere nelle opere d’arte qualche prova che le nostre vite interiori sono tanto sfaccettate, tanto infinitamente costrette, quanto l’ordine in cui esse pretendono di affondare le loro più profonde radici. Senza l’evidenziazione di qualche legame inconscio fra la natura e noi, ci pare di dimenticare che la nostra esistenza non è nient’altro che il vago riflesso di quanto abbiamo prodotto lungo la via. Forse perché la natura stessa fa molto più del semplice creare o distruggere, il nostro ruolo di iniziati nel giardino simulato di Gilardi deve anche coinvolgere lo stabilirsi del contatto con quella parte di noi stessi che più di ogni altra è in rapporto armonico con la natura. Gilardi, dopotutto, sembra voler dire che l’aver cura del mondo nel quale viviamo e la ricerca della felicità sono due modi di avvicinare lo stesso problema – una cosa sulla quale non avremmo mai dubitato se non fossimo stati scacciati dal giardino qualche millennio fa. Laura Larcan, La natura di Kounellis estratto da La Repubblica, 20 aprile 2006 Quando dodici cavalli veri divennero un'opera d'arte. Era il 1969, nella sala della galleria romana L'Attico. Gli animali furono legati attorno al perimetro della quattro mura che formava lo spazio rettangolare della sala espositiva. Pulsanti di energia vitale, col loro odore e la loro fisiologia attiva, quei cavalli diventarono un lavoro leggendario, l'ambigua e surreale installazione con cui il greco, ma romano d'adozione, Jannis Kounellis affermava il suo prorompente e provocatorio vitalismo creativo. Era il trionfo del "recupero della natura viva", dell'esplosione della vita nella sua attualità, raccontata in tempo reale. Con i cavalli, comparvero pappagalli veri su trespoli d'acciaio, donne coperte di un sudario e stese su un letto col becco a gas legato ad un piede, giochi di fuochi sprigionati da fiamme ossidriche, carbone, caffè e oro, sacchi e pietre, cactus e uccelli. Giuliano Mauri La Terra del Cielo, 1986, San Carpoforo Milano Disegna una struttura gotica dentro una chiesa di impianto barocco. L'abside viene occupata da un enorme corpo cilindrico che rivela una tessitura larga e un camminamento aereo-elicoidale, percorribile da terra sin quasi alla volta. “Ho dato nome La Terra Del Cielo a quell'intreccio di alberi e di terra proteso verso l'alto in una stretta metafora di meditazione”. Arianna Baldoni, Giulio Paolini, in catalogo della mostra Italian Beauty, Ronchini Gallery, Londra, 2012. La ricerca artistica di Giulio Paolini attraversa il movimento dell'Arte Povera negli anni sessanta, anche se vi si distingue per l'orientamento di matrice concettuale. Paolini è osservatore e interprete di tutto ciò che costituisce il fare artistico, inteso come esplorazione del ruolo dell'artista e del sistema di relazioni che si stabiliscono con lo spettatore. Se vogliamo definire l'incipit di tutto il lavoro di Paolini, è necessario ripercorrere la storia della sua attività arrivando sino al 1960 con la tela Disegno geometrico. La squadratura geometrica della superficie costituita da pochi segni è ciò che qualifica il supporto – ricordando le parole dell'artista - come “presenza assoluta e indeterminata”. Questo lavoro è l'archetipo di ogni possibile e successiva rappresentazione nella definizione dell'opera, che non è l'espressione del “sé” dell'artista, ma lo spazio in cui si raccolgono e al contempo si proiettano le inesauribili traiettorie dello sguardo e dell'immaginazione. Come scrive l'artista in una lettera a Germano Celant: “Il punto è, insomma, il come volgere lo sguardo (trascrivere la percezione che del mondo si ha), non il che cosa osservare (percorrere le strade dove già ci troviamo e concedersi al démone della comunicazione)”. L'opera è la rappresentazione di una soglia, del momento in cui ci si interroga sull'identità dell'immagine, nell'intervallo contingente e indefinito dove si manifestano quelle “assenze” che si rivelano solo nell'atto del vedere. L'immagine è come una ripresa fotografica che ferma l'istante e al contempo genera ripetuti rispecchiamenti visivi, è un'eco silenziosa in cui si nasconde la bellezza, che solo di rado appare nel tempo presente o passato. Paolo Scirpa, Megalopoli consumistica, 1972 Gillo Dorfles, L’intervallo perduto, Einaudi, Torino, 1980 “L’artista ha reso qui l’effetto di accumulo oggettuale e di perdita intervallare rispecchiante la condizione del moderno panorama urbano attraverso un abile gioco dovuto alla specularità dell’immagine” Corrado Maltese, Il grande oggetto di Scirpa, Roma, 23 gennaio 1976 …Cosa sono infatti le scatole specchianti di Scirpa se non un Oggetto dove si pratica l’abolizione del limite tra il reale e l’illusorio? Cosa sono se non un Oggetto dove in perpetuo e senza remissione si apre la voragine di Dürrenmatt, l’abisso senza fondo, dove infiniti micro-oggetti, scatole, scatoline, barattoli, “cose” tipiche e proprie della nostra mitologia industrializzata, urbanizzata, consumistica precipitano in un ordine perfetto come in una via lattea perfettamente squadrata e scandita senza principio né fine?... Marco Meneguzzo, L’ottica dell’Infinito, Milano, 2010 …In questi anni, immediatamente precedenti l’autentica “svolta” che Scirpa attuerà coi “ludoscopi”, la sua ricerca viaggia su doppio binario, che testimonia di un interesse a vasto raggio: da un lato, l’analisi sempre più stringente del linguaggio della percezione, attuato secondo forme sempre più rarefatte e minimali, dall’altro, la constatazione di un mondo sempre più in preda ad ansie produttivistiche, a bisogni indotti, a deliri consumistici. E’ l’attenzione a questa condizione sociale che fa produrre a Scirpa le prime vere opere totalmente “sue” (non che le precedenti non lo fossero, ma queste costituiscono una “cifra”personalissima, inequivocabile): sono i grandi “oggetti”, quasi dei caleidoscopi che moltiplicano su superfici specchianti una miriade di scatole di prodotti, di involucri vuoti, assemblati insieme a costituire una sorta di città in miniatura, di skyline contemporaneo – non a caso, il primo di questi lavori si chiama “Megalopoli consumistica”, del 1972 -, dove il messaggio è sin troppo chiaro, e la città dell’uomo è diventata la città del consumo, e dove l’uomo stesso si identifica col consumo, anzi, col consumismo, che ne è la degenerazione. Di questo soggetto Scirpa si occuperà sempre, anche a distanza di molto tempo, con poche e mirate opere che, a partire dai primi anni Novanta, prenderanno l’aspetto di vere e proprie installazioni, assumendo cioè dimensioni tali da occupare fisicamente e idealmente uno spazio importante. Nanda Vigo Utopie (con Lucio Fontana), 1964, XII Triennale di Milano Ambiente di 12x3 m con commento di Umberto Eco. Pareti in foglio di alluminio rosso, pavimento ondulato (zona riposo) in moquette rossa; pareti terminali con vetri stampati e neon rosso. Foto Salvatore Licitra I labirinti (con Lucio Fontana), 1968, Galleria La Polena, Genova L’ambiente era costituito da due piccoli labirinti: uno positivo e uno negativo. Il positivo, che era il mio, era costituito da lastre di vetro stampate e illuminato da neon giallo, l’altro, di Fontana, aveva pareti nere, al buio totale, ma, giunti al termine, Fontana volle che il visitatore fosse colpito in pieno viso da un raggio di luce potente, quindi abbagliante. Non mi dimenticherò mai come mi descrisse l’effetto: diceva: come pugni di luce in faccia, battendo una mano contro l’altra a pugno chiuso, Voleva quindi che da un simbolico foro, come a riassunto del suo lavoro, uscisse la LUCE. Foto Marco Caselli Nirmal Ambiente cronotopico, 1968, Eurodomus, Torino L’ambiente rappresenta la “maya”, cioè l’illusione anche prospettica dello spazio in cui viviamo. (Vedi manifesto Informazione cronotopica, 1964) Foto Marco Caselli Nirmal Luca Vitone Galleria Pinta, Bologna 1990 “Galleria Pinta è la planimetria della galleria stessa in scala 1:1 su carta fotocopiata da 80 grammi posata sul pavimento. L’installazione è composta da strisce di 85 cm di larghezza parallele tra loro e perpendicolari alla parete d’entrata. L’operazione si svolge in più fasi. Nella prima si crea, mediante le fotocopie, una ideale simulazione indefinita e infinita dello spazio della galleria, spersonalizzandolo [“Galleria Pinta”, Galleria Pinta, Genova, 1988, ndr]. La seconda fase si ha si riconfermando questo spazio nel momento in cui il visitatore lascia l’impronta del suo passaggio sulla carta. A operazione avvenuta, i fogli vengono plastificati formando un quadro di cm 600x381 che, appeso in uno spazio avente la stessa funzione ma estraneo alla galleria, ne testimonia fisicamente l’esistenza, [“Galleria Pinta”, Studio Oggetto, Milano 1989]. Infine con la riproduzione di questa immagine, tramite fotolitografia di cm 50x70 in tiratura di cinquanta esemplari [“Galleria Pinta”, Galleria Neon, Bologna, 1990, ndr], si dà allo spazio espositivo la possibilità di uscire dal proprio contesto, sia fisico sia rappresentato, per testimoniarne l’esistenza contemporaneamente in luoghi diversi e si crea col foglio quel feticcio, legittimato da un processo lavorativo, che testimonia l’essere dell’artista”.