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TRASFERTA E TRASFERTISMO
Dopo la finanziaria 2017
Trasferta
In mancanza di una precisa definizione normativa, la Giurisprudenza ha da sempre considerato la
trasferta o missione come “il cambiamento temporaneo del luogo in cui viene prestata l’attività
lavorativa con previsione certa di rientrare in quella che è, sin dall’origine conosciuta come sede di
lavoro”. È quindi la sede di lavoro, indicata nel contratto individuale di lavoro, il punto di
riferimento per individuare quando e se un lavoratore si trova in trasferta. Pertanto i caratteri
fondamentali della trasferta sono principalmente due:

il mutamento del luogo di lavoro, normalmente indicato nel contratto di assunzione o
desumibile in base all’effettivo luogo di svolgimento della prestazione;

la temporaneità dello stesso.
Il lavoratore in trasferta occasionale, ha ovviamente diritto, oltre alla retribuzione giornaliera,
anche ad una specifica indennità, regolata dai contratti collettivi, finalizzata in parte alla copertura
delle spese sostenute per lo spostamento, ed in parte connessa al maggior disagio vissuto dal
lavoratore per la diversa sede di lavoro, si parla in questo caso di diaria; la suddetta indennità
viene riconosciuta esclusivamente per quei giorni in cui si verifica lo spostamento,
indipendentemente dalle giornate lavorative del mese. Nello specifico il contratto collettivo di
categoria, od anche quello individuale, possono prevedere oltre che al rimborso a piè di lista delle
spese di viaggio, vitto, alloggio e delle altre spese vive strettamente necessarie per l'espletamento
della missione, in via alternativa od anche integrativa il riconoscimento di una diaria, determinata
generalmente in misura forfettaria.
L’art. 51, comma 5, D.P.R. n. 917/1986 prevede che le somme erogate ai lavoratori, a fronte di una
trasferta fuori dal comune di lavoro, siano esenti fino alla soglia giornaliera di euro 46,48 in Italia e
di euro 77,47 all’estero. Tali esenzioni sono ridotte di un terzo nel caso in cui al lavoratore venga
riconosciuto un rimborso a piè di lista delle spese di vitto o di alloggio e di due terzi nel caso in cui
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l’azienda rimborsi a piè di lista sia le spese per il vitto che per l’alloggio. Le indennità per trasferte
all’interno del comune di lavoro concorreranno, invece, alla formazione del reddito imponibile per
il lavoratore.
Pertanto le somme riconosciute, anche con carattere di continuità, ai lavoratori delle imprese di
autotrasporto, non correlate ad una specifica trasferta, ma contrattualmente attribuite per tutti i
giorni retribuiti:
a) non rivestono natura meramente retributiva;
b) rientrano solo in parte nella base imponibile (ai fini fiscali e contributivi);
c) più precisamente vi rientrano non già nella misura del 50%, bensì nella misura eccedente gli
importi di cui all’art. 51, comma 5, TUIR e cioè nella misura di euro 46,48 al giorno, elevate a euro
77,47 per le trasferte all’estero.
Sono sempre esenti le spese di viaggio e di trasporto, compresi i rimborsi chilometrici.
Secondo l’Interpello n. 14/2010, l’indennità di trasferta risulterà totalmente esente da
contribuzione e IRPEF nei limiti previsti dai contratti collettivi nazionali o di secondo livello
(territoriali o aziendali). Il Ministero ricorda che si dovrà operare il deposito di tali contratti
collettivi presso la competente Direzione Provinciale del Lavoro e presso gli Enti previdenziali
entro 30 giorni dalla stipula.
Le maggiori somme riconosciute a titolo d’indennità di trasferta dall’azienda al lavoratore in base
ad accordo individuale, dovrebbero essere gestite alla stregua di un “superminimo individuale
(eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari)” e quindi soggette ad imposizione fiscale
e contributiva. In questo passaggio il Ministero non si pone l’obiettivo di analizzare la reale
gestione dell’istituto della trasferta da parte delle aziende ma, a prescindere dalla natura effettiva
dell’emolumento erogato al lavoratore, si limita a darne una differente tipizzazione e veste
retributiva, e tutto questo senza aver dimostrato alcun intento evasivo.
Il Ministero ribadisce quanto sopra, con la nota del 21 aprile 2010, in cui precisa che quanto
dichiarato nell’interpello n. 14/2010 non ha carattere obbligatorio ma solo di indirizzo principale,
visto che le aziende potranno sempre erogare un’indennità di trasferta maggiore rispetto a quanto
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previsto dai singoli contratti collettivi, a fronte di un maggior disagio o di maggiori costi affrontati
dal lavoratore, e che le stesse saranno esenti fino alla capienza massima giornaliera prevista dal
Testo Unico.
L’indennità di trasferta viene riconosciuta dall’azienda al lavoratore a titolo di indennizzo
forfettario per le maggiori spese sostenute dallo stesso nell’espletamento delle proprie mansioni
ed infatti, pur rientrando a pieno titolo nei redditi da lavoro dipendente, come previsto dall’art. 51
comma 1, del TUIR, il legislatore riconosce a tali indennità un particolare regime di esenzione.
Anche la sentenza citata dal Ministero nella risposta all’interpello conferma che: «Per le attività
svolte fuori sede che diano diritto alla percezione della cd. “Indennità di trasferta”, in particolare,
rientrando nella normalità che il lavoratore sopporti spese superiori a quelle ordinarie, si è inteso,
con le disposizioni dell’art. 48, quarto comma (ora quinto), del TUIR, agevolare il contribuente,
prevedendo espressamente che le somme percepite in virtù di detta indennità siano in parte non
imponibili, perché forfettariamente destinate a coprire le particolari spese affrontate, stabilendo
però nel contempo che, ove esse (essenzialmente le spese di alloggio e vitto) non siano sopportate
dal dipendente (per essere, magari, i relativi servizi offerti dal datore di lavoro), o siano rimborsate
specificamente, la quota di non tassabilità dell’indennità di trasferta percepita sia ridotta rispetto a
quanto previsto in via ordinaria».
La trasferta, come previsto dall’art. 51, comma 5, del TUIR, resta tale anche al superamento dei
46,48 euro; unica differenza è il diverso assoggettamento dell’indennità stessa.
Trasfertisti
Diversa fattispecie è quella dei lavoratori cosiddetti “trasfertisti” coloro cioè, che, così come
definito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 3749 del 1988, data la particolarità della loro
attività lavorativa, sono chiamati ad eseguirla “tramite continui e successivi spostamenti in
differenti sedi di lavoro”. Per “compensare” questo disagio, il legislatore fiscale ha previsto,
al comma 6 dell’articolo 51, che le indennità e le maggiorazioni di retribuzione correlate a questa
particolare condizione non concorrano a formarne il reddito in misura pari al 50% del loro
ammontare.
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L’art. 51, comma 6 del TUIR dispone che “le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti
ai lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre
variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, le indennità di navigazione e di
volo previste dalla legge o dal contratto collettivo, nonché le indennità di cui all'articolo 133 del
Decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 1959, n. 1229 concorrono a formare il reddito
nella misura del 50% del loro ammontare. Con Decreto del Ministro delle Finanze, di concerto con il
Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, possono essere individuate categorie di lavoratori e
condizioni di applicabilità della presente disposizione”. Per quel che attiene all’ambito soggettivo di
applicazione, l’Amministrazione finanziaria, con la C.M. n. 326/E del 1997, ha specificato che il
comma 6 riguarda “quei lavoratori tenuti per contratto all’espletamento dell’attività lavorativa in
luoghi sempre variabili e diversi, ai quali, in funzione delle modalità di svolgimento dell’attività,
vengono attribuite delle somme non in relazione ad una specifica trasferta”.
Successivamente,
l’INPS,
con
messaggio
n.
27271
del
2008,
ha
precisato
che
costituiscono elementi riconducibili al trasfertismo:
1. la mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro intendendosi
per tale il luogo di svolgimento dell'attività lavorativa e non quello di assunzione (quest'ultimo,
infatti, può non coincidere con quello di svolgimento del lavoro);
2. lo svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (ossia
lo spostamento costituisce contenuto ordinario della prestazione di lavoro);
3. la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi
sempre variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa vale a
dire non strettamente legata alla trasferta poiché attribuita senza distinguere se il dipendente si è
effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta.
Secondo l’Istituto Previdenziale, in particolare, “le condizioni di cui ai punti 1) e 2), sebbene
costituiscano sostanzialmente gli elementi di distinzione tra l’attività in trasferta e quella di
trasfertista, devono essere valutate, ai fini dell’applicabilità del regime contributivo di cui al
comma 6 dell’art.51 del TUIR, unitamente alle modalità di corresponsione dei compensi (punto 3)”.
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In senso analogo, anche il Ministero del Lavoro che, nella nota 25/I/0008287 del 20 giugno 2008,
ha ritenuto che un lavoratore può qualificarsi come trasfertista ove nel contratto “non viene
indicata una specifica sede di lavoro, essendo egli tenuto a continui spostamenti a fronte dei quali
riceve una specifica maggiorazione sulla retribuzione, senza che a tal fine rilevino i luoghi e i tempi
di spostamento”.
La giurisprudenza, tuttavia, ha adottato un orientamento (oramai consolidato) di senso,
parzialmente contrario affermando, tra l’altro, che “l’art. 51, comma 6 del TUIR si riferisce al caso
in cui la normale attività lavorativa si debba svolgere contrattualmente al di fuori di una sede di
lavoro prestabilita - ancorchè l’assunzione del dipendente sia formalmente avvenuta per
una determinata sede - e con riguardo al pagamento un’ indennità o una maggiorazione
retributiva erogata in ragione di tale caratteristica, anche se non nei giorni di assenza dal lavoro
per ferie, malattia, etc. e anche se in misura variabile in relazione alle località di volta in volta
assegnate” (Cassazione, sentenze n. 392 del 2012, n. 22796 del 2013 e n. 3066 del 2016; resta
intenso che le argomentazioni contenute nelle citate sentenze sono più articolate di quanto, per
ragioni di spazio, succintamente riportato).
In buona sostanza, mentre secondo la prassi la distinzione tra trasferta e trasfertismo è
principalmente connessa alla fissazione o meno di una sede di lavoro nel contratto di assunzione,
la giurisprudenza ha ritenuto tale elemento non dirimente. Pertanto, anche un lavoratore
formalmente assunto presso una sede e che si reca frequentemente a svolgere la propria
prestazione al di fuori della stessa potrebbe (se ricorrono altre condizioni) essere considerato
come trasfertista. Le conseguenze fiscali (e contributive) sarebbero, in tale evenienza,
decisamente importanti posto che tutti i rimborsi spese erogati in esenzione dovrebbero essere
ripresi a tassazione (e contribuzione) con un aggravio sia in termini di netto percepito, che di costo
azienda.
In tale contesto, l’art. 7-bis, comma 1, del DDL di conversione in legge del Decreto Fiscale dispone
che “il comma 6 dell’articolo 51 del Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al Decreto del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che i lavoratori
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rientranti nella disciplina ivi dettata sono quelli per i quali sono presenti contestualmente le
seguenti condizioni:
a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi
sempre variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa,
attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa
si è svolta”.
Prosegue la norma specificando che “ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale
presenza delle condizioni di cui al comma 1 del presente articolo, non è applicabile la disposizione
di cui al comma 6 dell’articolo 51 del Testo Unico di cui al citato Decreto del Presidente della
Repubblica n. 917 del 1986 è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui
al comma 5 del medesimo articolo 51”.
La disposizione, dunque, contiene una norma di interpretazione autentica che, come tale, è in
grado di operare anche per il passato e, dunque, dovrebbe risolvere la diatriba in via
tendenzialmente definitiva. L’intervento legislativo (nella speranza che possa essere confermato
durante l’iter parlamentare) non può che essere accolto con estremo favore.
Ulteriori misure di favore sono previste poi per i dipendenti che vengono trasferiti o distaccati.
Per i primi le spese di viaggio, comprese quelle dei familiari, e di trasporto delle cose, così come le
spese e gli oneri sostenuti per l’eventuale recesso dal contratto di locazione, se rimborsate dal
datore di lavoro, non concorrono a formare il reddito del dipendente trasferito.
Ai lavoratori che prestano la loro attività all’estero sono dedicati i successivi commi 8 e 8 bis.
La prima disposizione stabilisce che gli assegni di sede e le altre indennità percepite per servizi
prestati all’estero costituiscono reddito soltanto nella misura del 50%, mentre il comma 8 bis
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prevede che il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto
esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero
per un periodo superiore a 183 giorni, venga determinato sulla base delle retribuzioni
convenzionali.
Capita che talora venga fatta confusione fra queste situazioni e che il regime agevolativo previsto
per
i
dipendenti
in
trasferta venga
impropriamente
“esteso”
anche
ai dipendenti
trasfertisti o trasferiti.
La natura e, conseguentemente, il trattamento fiscale degli importi erogati dai datori di lavoro
sono però profondamente diversi.
Nel caso della trasferta, la somma corrisposta ha la funzione di indennizzare il dipendente delle
spese sostenute e quindi ha carattere “restitutorio”; quando invece il cambiamento della sede
lavorativa non è occasionale, gli importi in questione rappresentano una vera e propria forma
di remunerazione, anche se sottoposta ad una tassazione “agevolata”.
Un caso del genere è stata esaminato di recente dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 2699
del 6 febbraio 2014: i giudici hanno ritenuto censurabile il comportamento di un’impresa che ha
considerato in trasferta dipendenti, ai fini di erogare loro l’indennità giornaliera esente di euro
77,47, che erano stati distaccati all’estero per un anno.
Proprio per il loro regime fiscale e previdenziale agevolato, molto spesso queste voci di retribuzione
vengono inserite in busta paga per mascherare altri emolumenti riducendo il costo del lavoro. Il
fenomeno ha raggiunto una tale portata che la Direzione Generale per le attività Ispettive Del
Ministero del Lavoro con circolare prot. n. 37/0011885 ha affrontato il tema della
scritturazione/registrazione della voce trasferta, richiamando il regime differenziato relativo alle
somme che concorrano a formare il reddito a seconda che la trasferta sia avvenuta in ambito
comunale, fuori dallo stesso o all’estero, nonché sulla tipologia dell’indennità corrisposta ( rimborsi
analitici, indennità forfettaria, regime misto).
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Da ciò discende la coerente impostazione Ministeriale secondo cui l’infedele registrazione ricorre
sempre quando la stessa abbia determinato una differente quantificazione dell’imponibile
contributivo come nel caso in cui la trasferta non sia mai avvenuta o nel caso di fasi trasferisti.
L’INPS con messaggio n. 2682 del 16 giugno scorso, ha fatto proprie le conclusioni Ministeriali
diffondendole alle proprie sedi periferiche.
Vale la pena ricordare che il Jobs Act, contestualmente, ha inasprito le sanzioni per omessa o
infedele registrazione sul LUL, che determinino differenti trattamenti retributivi, previdenziali o
fiscali, con un importo compreso tra:

150,00 e 1.500,00 euro se la violazione si riferisce a meno di 5 lavoratori e per un periodo
non superiore a 6 mesi;

500,00 e 3.000,00 euro se la violazione si riferisce a più di 5 lavoratori e per un periodo non
superiore a 6 mesi;

1.000,00 a 6.000,00 euro se la violazione si riferisce a più di 10 lavoratori e per un periodo
non superiore a 12 mesi.
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