Università della Calabria - Dipartimento di Economia, Statistica e
Transcript
Università della Calabria - Dipartimento di Economia, Statistica e
Università della Calabria Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza (già Dipartimento di Economia e Statistica) ______________________________________________ Gruppo CALCOM La carenza di competitività della Calabria lezioni dalla crisi dell’area euro Antonio Aquino Giugno 2013 1 La carenza di competitività della Calabria lezioni dalla crisi dell’area euro Antonio Aquino Università della Calabria Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza (già Dipartimento di Economia e statistica) Sommario: 1. Introduzione. 2. L’euro: come e perché. 3. Il principale indicatore della crisi dell’area euro: lo spread sui rendimenti dei titoli di stato a lungo termine. 4. Le cause principali dello spread: squilibri di finanza pubblica e squilibri competitivi. 4.1. Gli squilibri di finanza pubblica. 4.2 Squilibri macroeconomici interni ed esterni. 4.3 Squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro. 4.4 Cause degli squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro. 4.5 Alcuni approfondimenti sulle cause fondamentali dello squilibrio competitivo fra Italia e Germania. 5. Fattori che hanno contribuito a determinare la perdita di competitività dell’Italia. 6. Come riportare in equilibrio competitivo i paesi dell’Unione monetaria europea. 7. Una nuova “politica industriale” per la Calabria. 8. Considerazioni conclusive. 1. Introduzione Due sono gli indicatori di sintesi che più efficacemente illustrano la situazione economica della Calabria: il tasso di occupazione e il tasso di dipendenza. Il tasso di occupazione è pari al numero di persone occupate (in modo sia regolare sia irregolare) per ogni cento abitanti in età da lavoro (tra 15 e 64 anni). Nel 2000, nel vertice di Lisbona, i capi di Governo dei paesi dell’Unione europea avevano fissato come obiettivo per il 2010 un tasso di occupazione del 70 per cento. Nel 2012 il tasso di occupazione è stato in media di quasi il 68 per cento in Emilia Romagna (non molto distante 2 dall’obiettivo di Lisbona nonostante gli effetti della crisi finanziaria internazionale), di circa il 65 per cento in media nelle regioni del Nord dell’Italia, del 61 per cento nelle regioni del Centro, del 44 per cento nelle regioni del Mezzogiorno, del 41,6 per cento in Calabria (valori ancora più bassi che in Calabria sono stati registrati nel 2012 in Sicilia (41,2 per cento) e in Campania (40 per cento)). (Banca d’Italia, l’economia delle Regioni Italiane, giugno 2013, pag. 70). Il tasso di dipendenza è pari alle importazioni nette in percentuale del prodotto interno lordo; esso negli ultimi anni ha oscillato in Calabria intorno al 30 per cento, un valore che indica che per ogni 100 euro di beni prodotti in Calabria ne sono utilizzati in Calabria per consumi e per investimenti per un valore di circa 130 euro. Questo eccesso strutturale delle utilizzazioni rispetto alla produzione interna viene finanziato automaticamente attraverso la finanza pubblica, per il fatto che le spese pubbliche primarie sono proporzionali al numero di abitanti delle diverse regioni italiane, mentre le entrate tributarie crescono in modo progressivo al crescere del reddito delle diverse regioni. Le importazioni nette delle diverse regioni italiane nel lungo periodo corrispondono essenzialmente alla differenza fra entrate tributarie e spese pubbliche primarie (“residuo fiscale”). Le importazioni nette positive della Calabria e delle altre regioni del Mezzogiorno (in media circa il 20 per cento del prodotto interno lordo) sono compensate da importazioni nette negative (e quindi entrate tributarie maggiori delle spese pubbliche primarie) in gran parte delle regioni del Nord dell’Italia, e in particolare in Lombardia (esportazioni nette pari a quasi il 15 per cento del prodotto interno lordo). In Calabria, nonostante una politica fiscale fortemente espansiva (entrate tributarie per imposte e contributi sociali dell’ordine di meno della metà della spesa pubblica “primaria”), gli indicatori di sintesi del mercato del lavoro evidenziano un’accentuata carenza della domanda di lavoro; al contrario, in Lombardia, nonostante una politica fiscale fortemente restrittiva (entrate tributarie per imposte e contributi sociali di circa il 30 per cento più elevate della spesa pubblica “primaria”), gli indicatori di sintesi del mercato del lavoro evidenziano una domanda di lavoro molto elevata. Questo “paradosso” deriva essenzialmente da un forte squilibrio competitivo fra Calabria e Lombardia, e, più in generale, fra regioni del Nord e del Sud dell’Italia. La insufficiente competitività delle produzioni calabresi fa sì che per gran parte dei prodotti facilmente trasferibili nello spazio (soprattutto prodotti dell’industria manifatturiera) il potere di acquisto disponibile in Calabria si trasformi in domanda di beni (e quindi di lavoro) al di fuori della Calabria. Al contrario, la forte competitività delle produzioni nelle regioni del Nord dell’Italia, fa sì che in queste regioni vi sia una forte domanda di beni facilmente trasferibili nello spazio in esse prodotti, proveniente non soltanto 3 dai residenti in quelle regioni, ma anche da residenti in altri paesi e in altre regioni, anche del Mezzogiorno d’Italia. Considerata l’attuale situazione dell’Italia dal punto di vista economico e politico, sarebbe del tutto irrealistico pensare di poter stimolare una crescita della domanda di lavoro in Calabria mediante una politica fiscale ancora più espansiva (meno tasse e/o più spesa pubblica). Appare quindi essenziale concentrare le risorse disponibili per stimolare una maggiore competitività delle produzioni calabresi di beni facilmente trasferibili nello spazio (manufatti, servizi informatici, servizi turistici, ecc.). In particolare, andrebbero riservati alle produzioni di beni facilmente trasferibili nello spazio, sia gli incentivi all’occupazione, sia quelli volti a stimolare le innovazioni. Nei paragrafi successivi di questo lavoro vengono analizzati alcuni aspetti essenziali della crisi dell’area euro, al fine di trarne delle utili indicazioni per quel che riguarda le principali debolezze strutturali dell’economia della Calabria. 2. L’euro: come e perché Il regolamento monetario degli scambi rappresenta l’aspetto storicamente più complesso e controverso delle relazioni economiche internazionali. La moneta internazionale più utilizzata in passato è stata l’oro, una moneta comune per gran parte dei paesi del mondo, in diversi paesi affiancata in alcuni periodi dall’argento. Anche quando i pagamenti avvenivano non mediante trasferimenti di oro o monete auree, ma con monete cartacee o biglietti di banca, la rilevanza dell’oro come moneta internazionale derivava dalla convertibilità, diretta o indiretta, delle monete cartacee in oro a un rapporto di cambio predeterminato, e quindi dal legame fra disponibilità di oro e quantità di moneta cartacea che ciascun paese poteva emettere. L’oro è rimasto alla base del sistema dei pagamenti internazionali fino al 1971, quando fu abbandonato gradualmente il sistema di regolamento dei pagamenti internazionali concordato nel 1944 a Bretton Woods fra i principali paesi ad economia di mercato. Il sistema di Bretton Woods prevedeva la possibilità per le banche centrali dei paesi aderenti di convertire i dollari USA in oro al prezzo di 35 dollari per oncia, e la convertibilità in dollari delle monete dei paesi aderenti diversi dagli Stati Uniti a tassi di cambio fissi, modificabili soltanto nel caso di “squilibri fondamentali” delle bilance dei pagamenti, con il consenso di tutti i paesi. (La nozione di “squilibri fondamentali” di bilancia dei pagamenti tuttavia non fu mai definita concretamente). Nella conferenza del 1944 a Bretton Woods John Maynard Keynes, il grande economista che partecipava alla conferenza in rappresentanza del Regno Unito, aveva proposto come base del sistema monetario internazionale 4 fra i principali paesi ad economia di mercato una moneta internazionale cartacea unica (il “bancor”) emessa da una banca centrale mondiale; prevalse tuttavia la proposta americana, basata sull’utilizzazione dell’oro e del dollaro USA come base del sistema monetario internazionale. Il sistema concordato a Bretton Woods venne attuato gradualmente, e soltanto nel 1960 fu stabilita la convertibilità in dollari delle monete di tutti i paesi aderenti. Due furono le cause principali del crollo del sistema di Bretton Woods: 1) la crescita della produzione mondiale di oro fu del tutto insufficiente rispetto alle esigenze di liquidità internazionale derivanti dalla fortissima crescita del reddito e degli scambi internazionali negli anni cinquanta e sessanta. Questa carenza avrebbe potuto essere colmata dal forte aumento della disponibilità di dollari provocata dai crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti americana; tuttavia, ma mano che crescevano le riserve in dollari delle banche centrali non americane in rapporto alle riserve in oro degli Stati Uniti, risultava sempre più evidente la difficoltà degli Stati Uniti di mantenere l’impegno di convertire in oro le riserve in dollari delle banche centrali degli altri paesi, al prezzo stabilito a Bretton Woods di 35 dollari per oncia. Nel 1969 si pensò di poter rimediare a questo inconveniente istituendo una sorta di moneta virtuale internazionale emessa dal Fondo Monetario Internazionale (i “diritti speciali di prelievo”) per rimpiazzare gradualmente l’oro come base del sistema dei pagamenti internazionali (“oro-carta”). 2) Forti squilibri nelle bilance dei pagamenti di alcuni fra i principali paesi, e in particolare forti disavanzi di bilancia dei pagamenti per Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e forti avanzi per la Germania resero necessarie variazioni rilevanti nei tassi di cambio fra le monete di questi paesi. Una volta che i mercati si resero conto della possibilità che i tassi di cambio venissero modificati, la speculazione finanziaria internazionale, resa sempre più potente dalla crescita dei capitali finanziari e dalla sempre maggiore mobilità internazionale di questi capitali, cominciò a seguire con grande attenzione ogni possibile segnale premonitore delle difficoltà di bilancia dei pagamenti di singoli paesi, a volte imponendo variazioni dei tassi di cambio, anche in assenza di veri e propri squilibri fondamentali di bilancia dei pagamenti (“aspettative auto-realizzantesi”). Dopo alcuni tentativi di preservare il controllo dei governi e delle banche centrali sui tassi di cambio, sia pur nell’ambito di più ampie fasce di oscillazione, nel corso degli anni settanta i principali paesi passarono a un sistema di tassi di cambio flessibili, vale a dire determinati esclusivamente dai mercati. I paesi della Unione europea, tuttavia, cercarono di preservare la stabilità dei tassi di cambio, prima prevedendo fasce di oscillazione meno ampie (il “serpente monetario” europeo nell’ambito del “tunnel monetario” mondiale), e poi mediante un vero e proprio “sistema monetario europeo”. 5 L’esperienza mostrò tuttavia l’impossibilità di mantenere a lungo stabili i tassi di cambio fino a quando i diversi paesi continuavano ad avere monete diverse. Il motivo fondamentale era che fino a quando i paesi avevano monete diverse l’impegno dei governi di non consentire modifiche dei tassi di cambio non era credibile, e quindi la speculazione finanziaria internazionale era in grado di cogliere qualsiasi segnale premonitore di crisi di bilancia dei pagamenti per imporre variazioni dei tassi di cambio. Si pensò allora di poter risolvere alla radice il problema della variabilità dei tassi di cambio mediante l’adozione da parte di diversi paesi dell’Unione europea di una moneta comune, ed escludendo implicitamente la possibilità per i diversi paesi di uscire dall’Unione monetaria. Purtroppo l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che neppure questa soluzione estrema è in grado di sradicare la possibilità che si formino aspettative di variazioni dei tassi di cambio, poiché, anche se non previsto esplicitamente, non si può escludere del tutto la possibilità che alcuni paesi abbandonino la moneta comune per tornare ad adottare monete diverse. 3. Il principale indicatore della crisi dell’area euro: lo spread sui rendimenti dei titoli di stato a lungo termine Il principale indicatore della crisi dell’area euro è lo spread, vale a dire la differenza fra i tassi d’interesse sui titoli di stato a lungo termine (convenzionalmente a 10 anni) dei diversi paesi dell’area euro. Il termine di riferimento è la Germania, ritenuto il paese finanziariamente più affidabile dell’area euro, i cui titoli di stato a lungo termine hanno il tasso di rendimento più basso fra i paesi dell’area euro (circa l’1,47 per cento annuo a marzo 2013). Le tabelle 1 e 2 evidenziano che fino al 2007 lo spread fra titoli di stato italiani e titoli di stato tedeschi a 10 anni ha oscillato, come media annua, intorno a 0,3 punti percentuali o 30 punti base. Lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è poi aumentato gradualmente fino a un massimo di 4 punti percentuali (400 punti base) nella media del 2012 (con punte superiori a 500 punti base negli ultimi mesi del 2012), per diminuire poi verso 320 punti base nel marzo 2013 (a febbraio 2013 la differenza era diminuita fino a un minimo di circa 250 punti base). La tabella 1 evidenzia che, nonostante il forte aumento dello spread rispetto alla Germania, il tasso d’interesse sui titoli di stato italiani a 10 anni era nel marzo 2013 anche più basso che nei primi anni dell’euro; ciò perché il tasso d’interesse sui titoli di stato tedeschi a 10 anni ha toccato nel 2012-2013 livelli storicamente estremamente bassi (circa 1,5 per cento all’anno) per effetto della forte diminuzione della domanda di beni per investimenti provocata dalla crisi finanziaria internazionale. 6 Tabella 1 - Tasso d'interesse sui titoli di stato a 10 anni. Germania Italia Francia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito 1998 4,6 4,9 4,6 4,8 8,5 4,9 4,7 5,3 1,5 5,6 1999 4,5 4,7 4,6 4,7 6,3 4,8 4,8 5,6 1,7 5,1 2000 5,3 5,6 5,4 5,5 6,1 5,6 5,5 6,0 1,7 5,3 2001 4,8 5,2 4,9 5,1 5,3 5,2 5,0 5,0 1,3 4,9 2002 4,8 5,0 4,9 5,0 5,1 5,0 5,0 4,6 1,3 4,9 2003 4,1 4,3 4,1 4,1 4,3 4,2 4,1 4,0 1,0 4,5 2004 4,0 4,3 4,1 4,1 4,3 4,1 4,1 4,3 1,5 4,9 2005 3,4 3,6 3,4 3,4 3,6 3,4 3,3 4,3 1,4 4,4 2006 3,8 4,0 3,8 3,8 4,1 3,9 3,8 4,8 1,7 4,5 2007 4,2 4,5 4,3 4,3 4,5 4,4 4,3 4,6 1,7 5,0 2008 4,0 4,7 4,2 4,4 4,8 4,5 4,6 3,7 1,5 4,6 2009 3,2 4,3 3,6 4,0 5,2 4,2 5,2 3,3 1,3 3,6 2010 2,7 4,0 3,1 4,2 9,1 5,4 6,0 3,2 1,1 3,6 2011 2,6 5,4 3,3 5,4 15,7 10,2 9,6 2,8 1,1 3,1 2012 1,5 5,5 2,6 5,9 22,9 11,0 6,0 1,8 0,8 1,9 2013 03 1,5 4,7 2,1 4,7 10,7 5,9 3,6 2,0 0,6 2,2 Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 35; The Economist, 22 marzo 2013. Lo spread della Spagna rispetto alla Germania è stato leggermente più basso di quello dell’Italia fra il 1998 e il 2009, sostanzialmente uguale nel biennio 2010-2011, leggermente più alto nel 2012-2013. Gli anni migliori per la Spagna sono stati quelli fra il 2003 e il 2007, quando il tasso d’interesse sui titoli di stato spagnoli era sostanzialmente uguale a quello su titoli di stato tedeschi; l’anno peggiore è stato il 2012, con uno spread medio annuo di circa 440 punti base. Pure nel caso della Spagna il tasso d’interesse sui titoli di stato decennali si è mantenuto anche negli anni più difficili su livelli analoghi a quelli dei primi anni dell’euro. Situazioni molto più critiche sono evidenziate dallo spread per l’Irlanda, il Portogallo e, soprattutto, la Grecia. Per questi tre paesi lo spread rispetto alla Germania si è mantenuto fino al 2007 su livelli molto bassi; nel 2005 il tasso d’interesse sui titoli di stato decennali era in Portogallo allo stesso livello che in Germania e in Irlanda addirittura 7 leggermente più basso che in Germania. Lo spread di questi tre paesi rispetto alla Germania ha cominciato ad aumentare gradualmente a partire dal 2008, raggiungendo un massimo di 700 punti base in Irlanda nel 2011, 950 punti base in Portogallo nel 2012 e addirittura di 2.140 punti base in Grecia nel 2012. Negli anni successivi la situazione è migliorata sensibilmente, soprattutto per l’Irlanda il cui spread rispetto alla Germania è diminuito a 450 punti base nel 2012 e a 210 punti base nel marzo 2013, ma anche per il Portogallo (440 punti base a marzo 2013) e per la Grecia (920 punti base a marzo 2013). Leggermente critica appare anche la situazione della Francia, il cui spread rispetto alla Germania è stato pari a 110 punti base in media nel corso del 2012, diminuendo poi a circa 60 punti base a marzo 2013. Tabella 2 - Spread rispetto alla Germania nel tasso d'interesse sui titoli di stato a 10 anni. Italia 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 03 0,3 0,2 0,3 0,4 0,2 0,2 0,3 0,2 0,2 0,3 0,7 1,1 1,3 2,8 4,0 3,2 Francia Spagna 0,0 0,1 0,1 0,1 0,1 0,0 0,1 0,0 0,0 0,1 0,2 0,4 0,4 0,7 1,1 0,6 0,2 0,2 0,2 0,3 0,2 0,0 0,1 0,0 0,0 0,1 0,4 0,8 1,5 2,8 4,4 3,2 Grecia Portogallo 3,9 1,8 0,8 0,5 0,3 0,2 0,3 0,2 0,3 0,3 0,8 2,0 6,4 13,1 21,4 9,2 0,3 0,3 0,3 0,4 0,2 0,1 0,1 0,0 0,1 0,2 0,5 1,0 2,7 7,6 9,5 4,4 Irlanda Stati Uniti 0,1 0,7 0,3 1,1 0,2 0,7 0,2 0,2 0,2 -0,2 0,0 -0,1 0,1 0,3 -0,1 0,9 0,0 1,0 0,1 0,4 0,6 -0,3 2,0 0,1 3,3 0,5 7,0 0,2 4,5 0,3 2,1 0,5 Giappone -3,1 -2,8 -3,6 -3,5 -3,5 -3,1 -2,5 -2,0 -2,1 -2,5 -2,5 -1,9 -1,6 -1,5 -0,7 -0,9 Regno Unito 1,0 0,6 0,0 0,1 0,1 0,4 0,9 1,0 0,7 0,8 0,6 0,4 0,9 0,5 0,4 0,7 Fonti: Elaborazioni su dati tabella 1. 8 4. Le cause principali dello spread: squilibri di finanza pubblica e squilibri competitivi. 4.1 Gli squilibri di finanza pubblica Lo spread fra i rendimenti dei titoli di stato dei diversi paesi dell’area euro fino al 2010 è stato principalmente attribuito a differenze dal punto di vista della finanza pubblica, e in particolare all’ammontare di debito pubblico accumulato in passato e al disavanzo corrente delle amministrazioni pubbliche in rapporto al prodotto interno lordo. Questa spiegazione dello spread non sembra essere tuttavia del tutto coerente con i valori degli indicatori di finanza pubblica riportati nelle tabelle 3 e 4. Per quel che riguarda i valori del debito delle amministrazioni pubbliche in percentuale del prodotto interno lordo riportati nella tabella 3, la percentuale relativa all’Italia per il 2012 (127,6), pur molto elevata, è tuttavia più bassa di quella del 1998 (131,8). Inoltre, mentre il debito pubblico dell’Italia in rapporto al prodotto interno lordo è tornato nel 2012-2013 verso i livelli dei primi anni dell’euro, dopo essere diminuito fino a un minimo del 112% del prodotto interno lordo nel 2007, il debito pubblico della Germania è aumentato dal 60% del prodotto interno lordo nel 2001, al 66% nel 2007, all’88% nel 2012. Un aumento del debito pubblico ancora più forte è stato registrato dalla Francia dal 70% del prodotto interno lordo nel 1998, al 73% nel 2007, al 105% nel 2012, mentre anche la Spagna, così come l’Italia, aveva fino al 2011 un debito pubblico in rapporto al PIL analogo a quello del 1998 (75-77 per cento). Guardando ad alcuni grandi paesi al di fuori dell’area euro, fortissimi aumenti del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo sono stati registrati, soprattutto per effetto della crisi finanziaria internazionale, dagli Stati Uniti (dal 54% del PIL nel 2000-2001, al 66% nel 2007, al 110% nel 2012) e dal Regno Unito (dal 40% del PIL nel 2001, al 47% nel 2007, al 105% nel 2012), e ancora di più dal Giappone (dall’88% del PIL nel 1995, al 162% nel 2007, al 214% nel 2012). Ciononostante, il tasso d’interesse sui titoli di stato a lungo termine è stato negli ultimi anni soltanto di poco più alto che in Germania in Francia, Stati Uniti e Regno Unito, e addirittura più basso che in Germania in Giappone. Guardando al saldo delle amministrazioni pubbliche nel 2012, troviamo un disavanzo sensibilmente più basso in Italia (3% del PIL) che in Francia (4,5%), Spagna (8%), Stati Uniti (8,5%), Giappone (9,9%), e Regno Unito (6,6%). Sembra quindi difficile poter spiegare in termini di squilibri di finanza pubblica tassi d’interesse sui titoli di stato a lungo termine molto più alti in Italia e Spagna che in Francia, Stati Uniti, Regno Unito, e Giappone. 9 Tabella 3 - Debito lordo delle amministrazioni pubbliche in percentuale del prodotto interno lordo. Germania Italia Francia Spagna Greci Porto Irlana -gallo da Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 55,7 121,9 62,6 69,3 101,1 66,7 nd 70,7 87,7 51,0 75,5 1996 58,8 128,1 66,4 76,0 103,1 66,5 nd 69,9 95,4 50,8 80 1997 60,4 129,6 68,9 75,0 100,0 65,2 nd 67,4 102,0 51,7 81 1998 62,3 131,8 70,4 75,4 97,7 64,6 62,4 64,2 114,9 52,3 81,6 1999 61,8 125,7 66,8 69,4 101,5 62,3 51,5 60,5 129,0 47,4 78,2 2000 60,8 120,8 65,7 66,5 115,3 62,4 39,3 54,5 137,6 45,2 76 2001 60,1 120,1 64,3 61,9 118,1 64,2 36,5 54,4 144,7 40,5 74,4 2002 62,5 118,8 67,5 60,3 117,6 68,0 35,5 56,8 153,5 41,1 75,4 2003 65,9 116,3 71,7 55,3 112,3 70,2 34,2 60,2 158,3 41,6 76,1 2004 69,3 115,8 74,1 53,3 114,8 73,5 32,8 67,8 166,3 43,9 77,3 2005 71,8 119,4 76,0 50,8 113,4 77,7 32,7 67,4 169,5 46,1 78,2 2006 69,8 117,0 71,2 46,2 117,2 77,5 28,8 66,1 166,8 45,9 74,7 2007 65,6 112,4 73,0 42,4 115,2 75,5 28,7 66,5 162,4 47,0 71,9 2008 69,9 114,9 79,3 47,7 118,5 80,8 49,7 75,4 171,1 57,1 77,1 2009 77,5 128,0 91,2 62,9 134,3 93,5 70,7 88,8 188,7 72,0 87,8 2010 86,3 126,7 95,5 67,7 153,0 103,9 98,1 97,8 192,7 85,6 93,1 2011 86,4 119,8 100,0 76,9 175,2 118,1 112,2 102,2 205,3 99,9 95,2 2012 87,6 127,0 105,1 93,8 181,3 125,6 123,2 109,8 214,3 105,3 100,6 2013(*) 86,2 129,6 108,2 100,2 193,2 133,1 127,7 113,0 224,3 110,4 102,5 2014(*) 85,1 131,4 109,7 105,3 199,9 134,6 127,8 114,1 230,0 113,9 103,4 nd: non disponibile; (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 32. 10 Tabella 4 - Saldo delle amministrazioni pubbliche in percentuale del prodotto interno lordo. Germania Italia Francia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 -9,5 -7,4 -5,5 -7,2 -9,1 -5,4 -2,2 -3,3 -4,6 -5,8 -7,5 1996 -3,3 -7,0 -4,0 -5,5 -6,6 -4,8 -0,3 -2,3 -4,9 -4,1 -4,3 1997 -2,7 -2,7 -3,3 -4,0 -5,9 -3,7 1,3 -0,9 -3,8 -2,2 -2,8 1998 -2,3 -2,9 -2,6 -3,0 -3,8 -3,9 2,1 0,3 -11,0 -0,1 -2,4 1999 -1 -2,0 -1,8 -1,2 -3,1 -3,1 2,5 0,7 -7,1 0,9 -1,5 2000 1,1 -0,9 -1,5 -1,0 -3,7 -3,3 4,8 1,5 -7,4 3,7 -0,1 2001 -3,1 -3,2 -1,7 -0,5 -4,4 -4,8 1,0 -0,6 -6,0 0,6 -2,0 2002 -3,6 -3,2 -3,3 -0,2 -4,8 -3,4 -0,3 -4,0 -7,7 -2,0 -2,7 2003 -4,1 -3,6 -4,1 -0,4 -5,7 -3,7 0,4 -5,0 -7,7 -3,7 -3,2 2004 -3,8 -3,6 -3,6 -0,1 -7,4 -4,0 1,4 -4,4 -5,9 -3,6 -2,9 2005 -3,3 -4,5 -3,0 1,3 -5,6 -6,5 1,7 -3,3 -4,8 -3,3 -2,6 2006 -1,7 -3,4 -2,4 2,4 -6,0 -4,6 2,9 -2,2 -1,3 -2,7 -1,4 2007 0,2 -1,6 -2,7 1,9 -6,8 -3,2 0,1 -2,9 -2,1 -2,8 -0,7 2008 -0,1 -2,7 -3,3 -4,5 -9,9 -3,7 -7,4 -6,6 -1,9 -5,0 -2,1 2009 -3,1 -5,4 -7,6 -11,2 -15,6 -10,2 -13,9 -11,9 -8,8 -10,9 -6,3 2010 -4,2 -4,3 -7,1 -9,7 -10,8 -9,8 -30,9 -11,4 -8,4 -10,1 -6,2 2011 -0,8 -3,8 -5,2 -9,4 -9,5 -4,4 -13,3 -10,2 -9,3 -8,3 -4,1 2012 -0,2 -3,0 -4,5 -8,1 -6,9 -5,2 -8,1 -8,5 -9,9 -6,6 -3,3 2013 03 0,1 -3,0 -4,5 -8,0 -6,6 -5,1 -8,3 -7,0 -9,8 -8,3 -3,3 2013(*) -0,4 -2,9 -3,4 -6,3 -5,6 -4,9 -7,5 -6,8 -10,1 -6,9 -2,8 2014(*) -0,7 -3,4 -2,9 -5,9 -4,6 -2,9 -5,3 -5,2 -7,9 -6,0 -2,6 (*) Previsioni. Fonti: OECD, Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 27; The Economist, 9 marzo 2013. 4.2 Squilibri macroeconomici interni ed esterni Nel definire gli impegni dei paesi aderenti all’Unione monetaria europea l’attenzione fu concentrata prevalentemente sugli equilibri di finanza pubblica (impegno a mantenere i disavanzi delle amministrazioni pubbliche entro il limite massimo del 3 per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico complessivo entro il limite massimo del 60 per cento del prodotto interno lordo, o comunque decrescente verso questo livello). Non venne prestata sufficiente attenzione alla possibilità che il mantenimento della moneta 11 comune potesse essere reso difficile dall’emergere di squilibri competitivi determinati da dinamiche differenziate del costo del lavoro, e quindi dei prezzi dei prodotti, nei diversi paesi. Forse ciò accadde perché si diede per scontato che una politica monetaria comune avesse come conseguenza automatica dinamiche analoghe dei prezzi dei prodotti nei diversi paesi. Purtroppo l’esperienza ha dimostrato che una politica monetaria comune non comporta automaticamente analoghe dinamiche dei prezzi dei prodotti nei diversi paesi, e la presenza di dinamiche differenziate del costo del lavoro e dei prezzi dei prodotti sembra essere stata la causa fondamentale della crisi dell’area euro1. Un altro motivo per cui fu data poca importanza agli squilibri competitivi fra paesi dell’area euro fu un eccesso di ottimismo sul processo di convergenza. Si riteneva cioè che i movimenti di capitale dai paesi più efficienti verso quelli meno efficienti, derivanti dagli avanzi correnti di bilancia dei pagamenti dei paesi più efficienti e conseguenti disavanzi dei paesi meno efficienti, avrebbero ridotto rapidamente le differenze di produttività, eliminando così gli squilibri competitivi. Questa convinzione si basava sull’ipotesi che le differenze di produttività fra i diversi paesi dell’ara euro derivassero esclusivamente, o almeno principalmente, da differenze nella dotazione di capitale per abitante (EEAG, 2013, capitolo 2) 2. Una convinzione 1 Secondo the EEAG Report on the European Economy per il 2013 (EEAG, 2013, capitolo 2) un altro motivo per cui fu data poca importanza agli squilibri competitivi fra paesi dell’area euro fu un eccesso di ottimismo sul processo di convergenza. Si riteneva cioè che i movimenti di capitale dai paesi più efficienti verso i paesi meno efficienti, derivanti dagli avanzi correnti di bilancia dei pagamenti dei paesi più efficienti e conseguenti disavanzi dei paesi meno efficienti, avrebbero ridotto rapidamente le differenze di produttività, eliminando così gli squilibri competitivi. Questa convinzione si basava sull’ipotesi che le differenze di produttività fra i diversi paesi dell’area euro derivassero esclusivamente, o almeno principalmente, da differenze nella dotazione di capitale per abitante. Una convinzione analoga sembra essere alla base delle politiche strutturali di riequilibrio regionale dell’Unione europea, anche in questo caso con risultati fortemente insoddisfacenti, almeno per il Sud dell’Italia. 2 Un’analisi teorica a sostegno di questa convinzione fu presentata nei primi anni duemila da Blanchard e Giavazzi: “.... we discuss whether the current attitude of benign neglect vis a vis the current account in Euro area countries is appropriate, or whether countries such as Portugal and Greece should worry and take measures to reduce their deficits. We conclude that, to a first order, they should not“ (Blanchard e Giavazzi, 2002, p. 149). Valutazioni negative sugli squilibri di bilancia dei pagamenti fra i paesi dell’area euro sono state però espresse successivamente da Giavazzi e Spaventa (2010), soprattutto per il fatto che gli afflussi di capitale consentiti dai disavanzi correnti di bilanci dei pagamenti hanno finanziato spesso non lo 12 analoga sembra essere alla base delle politiche strutturali di riequilibrio regionale dell’Unione europea, anche in questo caso con risultati fortemente insoddisfacenti, almeno per il Sud dell’Italia. A partire dal 2010, emerse sempre più chiaramente la consapevolezza che altri squilibri, e in particolare gli squilibri competitivi, possono essere pericolosi per la stabilità dell’Unione monetaria europea. A partire dagli ultimi mesi del 2011 fu concordata a livello europeo una procedura per la prevenzione e la correzione di eventuali squilibri di natura macroeconomica, sia interni che esterni (MIP = macroeconomic imbalance procedure). Questa procedura prevede la pubblicazione periodica dei rapporti aventi l’obiettivo di individuare segnali di eventuali squilibri macroeconomici nei paesi dell’Unione europea (Alert Mechanism Report). Ai paesi per i quali vengono evidenziati segnali premonitori di squilibrio macroeconomico vengono successivamente dedicate analisi più approfondite. I primi due rapporti di questo tipo sono stati pubblicati a febbraio e a novembre 2012 3. In seguito ai risultati del rapporto pubblicato a febbraio 2012 furono effettuate entro maggio 2012 delle analisi di approfondimento per 12 paesi dell’Unione europea: Belgio, Bulgaria, Danimarca, Spagna, Francia,Italia, Cipro, Ungheria, Slovenia, Finlandia, Svezia, Regno Unito. Sulla base di queste analisi approfondite furono formulate delle raccomandazioni specifiche per i singoli paesi da parte del Consiglio dell’Unione europea a luglio 2012. Nei rapporti periodici vengono considerati indicatori di squilibri macroeconomici sia esterni che interni. Quali indicatori premonitori di squilibri macroeconomici esterni vengono considerati il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in % del PIL per gli ultimi 3 anni, la posizione dal punto di vista degli investimenti internazionali netti, la variazione del tasso di cambio effettivo reale sulla base dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo negli ultimi 3 anni, la variazione della quota di mercato all’esportazione negli ultimi 5 anni, la variazione nominale del costo unitario del lavoro negli ultimi 3 anni. Gli indicatori premonitori di squilibri macroeconomici interni sono la variazione dell’indice dei prezzi delle case, il flusso dei crediti verso il settore privato, il debito complessivo del settore privato in % del prodotto interno lordo, il debito pubblico in % del sviluppo di settori produttivi a mercato internazionale ma il boom edilizio in Spagna e Irlanda e la crescita del numero e delle retribuzioni dei dipendenti pubblici in Grecia. Distorsioni analoghe a quelle verificatesi in Grecia sono state probabilmente generate dai flussi di risorse pubbliche verso il Sud dell’Italia (Alesina, Danninger e Rostagno, 2001). 3 European Parliament and European Council (2011), European Commission (2012a, 2012b) 13 prodotto interno lordo, il tasso di disoccupazione medio negli ultimi 3 anni, la variazione delle passività complessive del settore finanziario. Indicatori addizionali utilizzati nei rapporti periodici previsti dalla procedura per gli squilibri macroeconomici sono il tasso di crescita del PIL, gli investimenti lordi in % del PIL, la spesa in ricerca e sviluppo in % del PIL, il saldo corrente di bilancia dei pagamenti in % del PIL, l’indebitamento netto verso l’estero in % del PIL, il debito netto verso l’estero in % del PIL, gli afflussi di investimenti diretti esteri in % del PIL, le importazioni nette di prodotti energetici in % del PIL, la variazione per gli ultimi 3 anni del tasso di cambio effettivo reale nei confronti dell’Unione monetaria europea, la variazione della quota di mercato delle esportazioni in volume, la crescita della produttività del lavoro, la crescita dell’occupazione, la variazione del conto unitario nominale del lavoro negli ultimi 10 anni, la variazione negli ultimi 10 anni del costo unitario del lavoro in rapporto ai paesi dell’Unione monetaria europea, la variazione triennale nel prezzo nominale della case, le costruzioni residenziali in % del PIL, il debito consolidato del settore privato in % del PIL, il rapporto di leverage del settore finanziario (debito/azioni). 4.3 Squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro La causa fondamentale della crisi dell’euro è uno squilibrio competitivo fra i paesi dell’area euro, e in particolare fra la Germania, l’Olanda e l’Austria da un lato, e Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna, e forse anche Francia, dall’altro. L’indicatore più significativo della situazione competitiva di un paese è il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Per l’Italia, il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero aveva registrato un avanzo massimo corrispondente al 3 per cento del prodotto interno lordo nel 1996, come conseguenza del forte aumento di competitività derivante dalla svalutazione della lira negli anni fra il 1992 e il 1995; nello stesso anno il saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi aveva registrato un avanzo pari a quasi 60 miliardi di dollari. Negli anni successivi, tuttavia, diminuì rapidamente sia l’avanzo degli scambi con l’estero di merci e servizi (47 miliardi nel 1997, 39 nel 1998, 23 nel 1999, 11 nel 2000) sia l’avanzo del conto corrente (2,7% del PIL nel 1997, 1,7% nel 1998, 0,7% nel 1999, - 0,5% nel 2000); al saldo negativo del conto corrente registrato nel 2000 contribuì forse anche un forte aumento della domanda interna che stimolò una crescita del PIL pari al 3,9%, il tasso annuo di crescita più elevato registrato dall’Italia negli ultimi 20 anni. Negli anni successivi l’Italia registrò disavanzi crescenti nel conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero, fino a un massimo 14 del 3,5% nel 2010; il disavanzo diminuì poi al 3,2% del PIL nel 2011 e allo 0,9% nel 2012, e l’OECD prevedeva a fine 2012 leggeri avanzi per il 2013 e il 2014 (l’Economist del 22 marzo 2013 prevede tuttavia per il 2013 un disavanzo corrente pari allo 0,7% del PIL). Il forte disavanzo corrente del 2010 fu determinato da disavanzi di 40 miliardi di dollari negli scambi con l’estero di merci e servizi, di 11 miliardi nei redditi da investimenti internazionali e di 22 miliardi nei trasferimenti internazionali unilaterali netti. Fra il 2010 e il 2012 si è avuto un fortissimo miglioramento nel saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi (da un disavanzo di 40 miliardi di dollari a un avanzo di 14 miliardi, mentre è rimasto sostanzialmente inalterato il disavanzo complessivo dei redditi da investimenti e internazionali e dei trasferimenti unilaterali. Per il 2013 l’OECD prevede un aumento a 32 miliardi di dollari del saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi, e leggere diminuzioni dei disavanzi dei redditi da investimenti e dei trasferimenti unilaterali. Al forte miglioramento del saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi nel 2012 ha contribuito certamente la forte riduzione della domanda interna, che ha comportato una diminuzione del prodotto interno lordo del 2,8%; anche la previsione di un ulteriore miglioramento del saldo corrente per il 2013 dipende dalla previsione di una diminuzione della domanda interna che potrebbe provocare una diminuzione del PIL di oltre l’1%; il problema è cosa accadrà al saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi, e più in generale al saldo corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero, dell’Italia quando la domanda interna di merci e servizi riprenderà ad aumentare. Il contributo della riduzione della domanda interna al miglioramento del saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi è evidente soprattutto per quel che riguarda le importazioni di merci, il cui valore complessivo è diminuito nel 2012 del 5,7%, in misura quindi circa doppia rispetto alla riduzione complessiva della domanda interna; le diminuzioni più forti si sono verificate per le importazioni di beni strumentali (-13%), di prodotti intermedi (-10%), di beni di consumo durevoli (-7%). Significativa è stata però anche la crescita del valore delle esportazioni di merci (+3,7%, in totale; +2,8% escludendo i prodotti energetici). 15 Tabella 5 - Saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in percentuale del prodotto interno lordo. Germania Italia Francia Spa- Grecia gna Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 -1,2 2,1 0,7 -0,3 -2,4 -0,1 2,5 -1,5 2,1 -1,4 0,7 1996 -0,6 3,0 1,3 -0,2 -3,7 -4,1 2,7 -1,6 1,4 -0,9 1,0 1997 -0,4 2,7 2,6 -0,1 -3,9 -5,9 2,4 -1,7 2,2 -0,1 1,4 1998 -0,8 1,7 2,6 -1,2 -2,8 -7,1 0,8 -2,4 3,0 -0,4 0,8 1999 -1,3 0,7 3,2 -2,9 -5,6 -8,7 0,6 -3,2 2,6 -2,7 0,3 2000 -1,8 -0,5 1,4 -4,0 -7,8 -10,3 0,0 -4,2 2,5 -2,9 -0,6 2001 0,0 0,0 1,8 -3,9 -7,2 -10,3 -0,6 -3,9 2,1 -2,3 0,1 2002 2,0 -0,9 1,2 -3,3 -6,5 -8,2 -1,0 -4,3 2,8 -2,1 0,6 2003 1,9 -1,4 0,8 -3,5 -6,5 -6,4 0,0 -4,7 3,2 -1,7 0,5 2004 4,6 -0,9 0,5 -5,2 -5,8 -8,3 -0,6 -5,3 3,7 -2,1 1,2 2005 5,0 -1,6 -0,5 -7,4 -7,6 -10,3 -3,5 -5,9 3,7 -2,1 0,4 2006 6,2 -2,5 -0,6 -11,4 -10,7 -3,5 -6,0 3,9 -2,9 0,3 -14,6 -10,1 -5,4 -5,1 4,8 -2,3 0,2 7,5 -2,4 -9,0 -1,0 10,0 2008 6,2 -3,1 -1,8 -9,6 -14,9 -12,6 -5,7 -4,7 3,4 -1,0 -0,7 2009 5,9 -1,9 -1,3 -4,8 -11,2 -10,9 -2,3 -2,7 2,9 -1,3 0,3 2010 5,9 -3,5 -1,6 -4,5 -10,1 -10,0 1,1 -3,0 3,7 -2,5 0,5 2011 5,7 -3,2 -2,0 -3,5 -9,9 -6,5 1,1 -3,1 2,1 -1,9 0,5 2012 6,4 -0,9 -2,1 -2,0 -5,5 -2,9 4,0 -3,0 1,1 -3,3 1,4 2013 03 6,0 -1,5 -2,1 -2,2 -2,9 -2,4 3,3 -3,0 1,0 -3,5 0,6 2013(*) 5,9 0,3 -2,0 0,5 -4,6 -1,5 5,2 -3 1,2 -3,5 1,9 2014(*) 5,3 0,7 -1,9 1,8 -2,3 -0,6 6,4 -3,2 1,5 -3,1 2,2 2007 (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 51; The Economist, 9 marzo 2013. 16 Tabella 6 - Saldo degli scambi con l'estero di merci e servizi (miliardi di dollari USA). Germa- Italia nia Fran-cia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 15,0 43,6 23,2 0,0 -12,6 -7,9 7,8 -90,7 73,1 6,6 116,8 1996 23,6 59,7 25,0 3,3 -14,4 -8,7 8,7 21,8 5,6 135,3 27,9 47,0 40,6 5,0 -13,3 -9,4 10,4 46,3 9,6 147,2 29,7 39,2 37,3 -15,0 -11,4 10,2 73,2 -9,0 128,2 18,2 23,2 31,3 -16,0 -13,0 13,3 70,6 -21,9 89,3 6,1 10,6 13,3 -17,6 -10,3 12,9 68,6 -27,1 39,3 37,7 15,5 15,4 -17,6 -12,3 16,3 26,6 -33,4 87,9 91,8 11,4 22,0 -20,5 -11,0 21,3 53,5 -43,8 167,3 96,5 8,3 16,1 -24,3 -11,0 25,5 71,7 -42,2 165,2 135,2 12,1 8,6 -23,5 -15,5 27,8 91,2 -60,4 194,8 143,6 -0,9 -13,0 -22,3 -18,1 23,9 64,6 -64,5 148,1 164,7 -15,1 -23,6 -30,0 -17,5 21,6 54,7 -64,5 122,1 236,0 -5,3 -40,5 -43,4 -18,6 23,4 73,7 -75,3 182,5 229,2 -19,1 -60,0 -50,0 -25,5 23,8 8,4 -62,6 126,9 163,7 -11,1 -47,8 -36,9 -17,4 36,3 18,8 -31,9 164,7 181,3 -39,8 -55,3 -27,4 -16,4 39,1 65,5 -48,7 161,6 180,4 -32,6 -77,7 -1,4 11,3 18,2 15,4 14,7 21,2 41,9 59,4 78,7 97,3 93,7 27,3 30,5 11,7 -23,5 -9,1 48,6 -54,6 -38,0 186,5 191,9 13,9 -14,7 0,2 52,2 -117,2 -68,7 306,2 241,9 13,9 -58,8 15,8 -86,1 39,6 -25,9 -13,7 55,3 -67,4 -109,1 104,4 175,7 32,5 -56,0 49,7 -10,0 5,0 56,6 159,5 41,5 -56,0 69,0 -3,5 6,9 61,4 -96,3 101,4 161,8 262,1 382,1 371,0 427,2 504,1 618,7 722,7 769,3 713,1 709,7 388,7 511,6 568,1 564,1 735,7 586,4 653,5 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 03 2013(*) 2014(*) -121,8 -77,0 365,0 -106,4 -70,6 404,7 (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 47; The Economist, 9 marzo 2013. Anche la crescita delle esportazioni è stata probabilmente spinta dalla riduzione della domanda interna, poiché molte imprese hanno presumibilmente reagito alla riduzione della domanda interna aumentando gli sforzi di vendita sui mercati esteri. 17 Tabella 7 - Saldo dei redditi da investimenti internazionali (miliardi di dollari USA). Germa- Italia nia Francia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 -2,8 -14,1 -8,4 -5,4 -1,9 0,2 -7,3 20,9 45,3 -3,1 -30,1 1996 0,7 -14,8 -1,9 -7,5 -2,4 -0,9 -8,2 22,3 53,3 -5,4 -27,5 1997 -2,7 -11,2 7,1 -7,4 -1,7 -1,3 -9,7 12,6 58,0 -1,9 -17,2 1998 -10,8 -12,3 8,7 -8,6 -1,6 -1,5 -10,5 4,3 54,3 17,1 -37,3 1999 -13,5 -11,1 22,8 -9,5 -0,7 -1,6 -13,5 11,9 57,5 -6,5 -22,8 2000 -9,2 -12,0 19,4 -6,9 -0,9 -2,4 -13,8 19,2 60,8 -0,4 -27,4 2001 -10,5 -10,4 19,5 -11,3 -1,8 -3,5 -16,4 29,7 68,7 8,4 -36,0 2002 -18,3 -14,6 8,7 -11,6 -2,0 -3,0 -22,4 25,2 65,8 23,6 -65,0 2003 -18,2 -20,2 14,9 -11,7 -4,5 -2,6 -24,8 43,7 71,8 26,5 -69,7 2004 23,6 -18,4 22,6 -15,1 -5,4 -3,7 -28,0 65,1 86,2 32,4 -16,2 2005 29,1 -17,1 29,5 -21,3 -7,0 -4,8 -30,9 68,6 105,2 39,1 -25,3 2006 55,0 -17,1 37,2 -29,2 -9,1 -7,9 -30,2 44,2 119,7 14,1 7,5 2007 59,1 -26,8 42,8 -41,3 -12,7 -9,7 -38,2 101,5 139,1 38,4 -44,6 2008 48,9 -28,3 48,6 -52,1 -15,6 -11,5 -36,9 147,1 156,6 62,4 -74,9 2009 82,2 -14,3 45,6 -35,5 -12,5 -12,2 -38,9 119,7 136,6 28,3 -6,4 2010 66,4 -11,0 53,9 -26,2 -10,2 -10,5 -34,4 183,9 143,0 22,6 26,0 2011 68,8 -16,6 65,3 -36,3 -12,0 -11,9 -44,3 227,0 178,2 27,5 20,2 2012 71,6 -9,1 45,2 -31,7 -5,4 -10,6 -42,1 217,3 180,9 21,3 17,4 2013(*) 75,9 -9,0 46,2 -35,0 -7,1 -11,4 -43,8 241,4 193,1 23,8 14,7 2014(*) 79,0 -9,0 46,2 -37,2 -8,1 -11,4 -45,7 253,8 197,7 23,5 11,9 (*) Previsioni. Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 48; The Economist, 9 marzo 2013. Fonti: OECD Economic 18 Tabella 8 - Saldo dei trasferimenti unilaterali internazionali (miliardi di dollari USA). Germa- Italia nia Francia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1995 -38,8 -4,1 -5,9 4,8 9,0 7,2 1,8 -38,1 -7,8 -11,6 -39,2 1996 -34,0 -7,2 -7,4 3,2 8,9 4,4 2,2 -43,0 -9,2 -7,1 -43,9 1997 -30,5 -4,2 -13,1 3,0 8,3 3,8 2,0 -45,1 -8,6 -9,0 -43,4 1998 -30,2 -7,3 -12,4 3,2 7,9 4,0 1,5 -53,2 -8,7 -13,8 -47,4 1999 -26,2 -5,5 -13,2 3,0 4,1 3,8 1,3 -50,4 -10,8 -11,0 -46,6 2000 -25,8 -4,4 -14,0 1,6 3,3 3,4 0,9 -53,8 -9,8 -14,7 -47,5 2001 -24,0 -5,9 -14,8 1,3 3,5 3,4 0,3 -64,6 -8,1 -9,4 -49,7 2002 -25,4 -5,4 -14,2 2,4 3,6 2,8 0,7 -65,0 -5,6 -13,3 -48,7 2003 -31,8 -8,0 -19,2 -0,6 4,3 3,3 0,5 -71,8 -7,7 -16,0 -68,1 2004 -34,3 -10,3 -21,8 -0,1 4,5 3,5 0,5 -88,2 -8,0 -18,9 -79 2005 -35,8 -12,5 -27,3 -4,2 3,8 2,8 0,3 -105,7 -7,4 -21,5 -95,8 2006 -35,9 -16,6 -27,5 -8,2 4,3 3,2 -0,6 -91,5 -10,8 -21,9 -106 2007 -45,0 -19,6 -32,1 -9,8 2,2 3,6 -1,4 -115,1 -11,6 -27,2 -131 2008 -48,5 -21,8 -36,5 -13,7 4,1 3,6 -1,7 -125,9 -13,1 -25,8 -149 2009 -46,5 -16,4 -46,3 -11,3 1,8 3,0 -2,0 -122,5 -11,9 -23,6 -145 2010 -50,8 -21,6 -44,6 -9,7 0,1 2,9 -1,9 -131,1 -12,5 -31,6 -154 2011 -46,7 -22,5 -50,9 -8,2 0,8 4,2 -1,6 -133,1 -15,0 -35,6 -156 2012 -49,5 -22,8 -48,2 -9,5 0,8 4,1 -1,7 -134,0 -14,1 -35,4 -157 2013(*) -48,4 -17,4 -47,8 -7,6 0,8 3,6 -1,8 -136,8 -12,0 -36,6 -149 2014(*) -50,2 -17,8 -47,8 -7,1 0,8 3,6 -1,9 -140,1 -11,1 -37,6 -151 (*) Previsioni. Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 49; The Economist, 9 marzo 2013. Fonti: OECD La situazione competitiva dell’Italia può essere meglio apprezzata svolgendo una disaggregazione per prodotti e per regioni degli scambi con l’estero. La disaggregazione per prodotti evidenzia che l’Italia nel 2012 è riuscita a registrare un avanzo di 11 miliardi di euro negli scambi con l’estero di merci, nonostante un maxi-disavanzo strutturale di circa 63 miliardi di euro negli scambi con l’estero di prodotti energetici, e un ulteriore disavanzo strutturale dell’ordine di circa 15 miliardi di euro negli scambi di altri prodotti 19 primari (minerali ferrosi e non ferrosi, prodotti delle foreste, prodotti agricoli). Ciò soprattutto grazie al forte avanzo negli scambi con l’estero di macchinari industriali, più che nei tradizionali prodotti del “made in Italy” (abiti, mobili, ecc.). Disavanzi negli scambi con l’estero sono invece tipicamente registrati dall’Italia nei prodotti chimici ed elettronici. La disaggregazione territoriale delle esportazioni mette in evidenza che l’Italia riesce a realizzare consistenti avanzi negli scambi con l’estero di manufatti, nonostante gran parte del Mezzogiorno, in cui risiede circa un terzo della popolazione italiana, registri una fortissima carenza di competitività. Secondo i dati Istat, nel 2012 circa il 70 per cento delle esportazioni italiane di merci è stato effettuato da imprese operati nelle regioni del Nord (in particolare Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, e Piemonte), e soltanto il 12 per cento da imprese operanti nelle regioni del Mezzogiorno (soprattutto Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna). In particolare, dalla Calabria, regione in cui risiede il 3,3% della popolazione italiana, proviene soltanto un millesimo delle esportazioni italiane! Oltre a ciò, c’è da considerare che più dei due terzi delle esportazioni della Sicilia e della Sardegna sono rappresentate da prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, il cui contributo in termini di valore aggiunto e di occupazione è relativamente modesto. Guardando alle previsioni dell’OECD sul saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti per il 2013 e il 2014, l’Irlanda, paese per il quale l’OECD prevedeva a fine 2012 avanzi pari, rispettivamente, al 5,2 e al 6,4 per cento del prodotto interno lordo per il 2013 e il 2014, dopo un avanzo del 4% nel 2012, sembra avere ormai superato la crisi dal punto di vista della competitività, la più rilevante dal punto di vista della permanenza nell’Unione monetaria europea, nonostante dal punto di vista della finanza pubblica le prospettive rimangano critiche, con un debito pubblico che l’OECD prevede ancora in crescita fino al 128 per cento del PIL nel 2013 e 2014, per effetto di disavanzi pubblici decrescenti lentamente dall’8,1% nel 2012 al 5,2% nel 2014. Questa valutazione sembra essere condivisa dai mercati finanziari, visto che lo spread sui titoli di stato a 10 anni rispetto alla Germania è diminuito per l’Irlanda da 700 punti base nel 2011, a 450 nel 2012, a 210 a marzo 2013. La situazione dell’Irlanda sembra essere positiva anche dal punto di vista della crescita del prodotto interno lordo, già positiva dal 2011 in poi, sia pure a tassi annui inferiori al 2%. Dal punto di vista del saldo di bilancia dei pagamenti le prospettive sembrano essere discretamente buone anche per l’Italia e la Spagna, paesi per i quali l’OECD a fine 2012 prevedeva per il 2013 e il 2014 leggeri avanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti; dal punto di vista della finanza pubblica, il debito pubblico dovrebbe stabilizzarsi nel 2013-14 intorno al 130% del PIL per l’Italia, mentre sarebbe 20 destinato a crescere ancora per la Spagna, dal 94% del PIL nel 2012 al 105% del PIL nel 2014. La crescita del PIL per entrambi i paesi dovrebbe essere ancora leggermente negativa nel 2013 e cominciare ad essere lievemente positiva nel 2014. Per Italia e Spagna lo spread dei rendimenti dei titoli di stato decennali oscilla a marzo 2013 fra i 300 e i 350 punti base. Ancora critiche, ma in sensibile miglioramento, appaiono le prospettive del Portogallo e della Grecia. Per entrambi questi paesi l’OCSE prevede disavanzi correnti fino al 2014, anche se per ammontari decrescenti e nettamente più bassi rispetto agli anni fra il 2005 e il 2011. La dinamica del PIL è prevista ancora negativa per entrambi i paesi nel 2013, mentre nel 2014 il PIL dovrebbe riprendere a crescere in Portogallo, ma non ancora in Grecia. Lo spread dei rendimenti dei titoli di stato rispetto alla Germania a marzo 2013 oscilla intorno ai 1000 punti base per la Grecia e ai 500 punti base per il Portogallo, livelli sicuramente ancora molto elevati, ma pari a circa la metà di quelli medi del 2012. Dal punto di vista delle previsioni dell’OECD sul saldo corrente della bilancia dei pagamenti, potrebbero peggiorare nei prossimi mesi le prospettive per la Francia; per questo paese, infatti, l’OECD prevede un disavanzo del conto corrente stabile intorno al 2 per cento del prodotto interno lordo fino al 2014, e un debito pubblico ancora in crescita dal 105% del PIL nel 2012 al 110 per cento nel 2014, nonostante tassi di crescita del PIL positivi, sia pure su livelli piuttosto bassi, fra il 2010 e il 2014. Alle prospettive economico-finanziarie della Francia è dedicato un approfondimento contenuto nel numero di febbraio 2013 del CESifo World Economic Survey (pagina 10). In particolare l’analisi presenta un confronto tra Francia, Germania e Italia dal punto di vista di diversi indicatori, per alcuni dei quali la situazione della Francia appare più critica di quella dell’Italia; in particolare, per quel che riguarda la finanza pubblica, nel 2012 l’Italia ha registrato un avanzo primario pari al 2,6% del PIL e la Francia un disavanzo primario dell’1,9%; pur essendo nel 2012 il debito pubblico della Francia sensibilmente inferiore di quello dell’Italia in rapporto al PIL, l’analisi mette in evidenza che fra il 1999 e il 2012 la Francia ha registrato un peggioramento di 31 punti percentuali del PIL e l’Italia di 13 punti; la spesa pubblica è pari al 56% del Pil in Francia e al 51% in Italia. Pur avendo la Francia passività nette verso l’estero, pari al 16% del PIL, minori dell’Italia (21% del PIL), il disavanzo corrente nei pagamenti con l’estero è stato pari nel 2012 al 2,2% del PIL per la Francia e all’1,2% per l’Italia, avendo registrato la Francia un peggioramento del saldo corrente pari a 4,8 punti percentuali del PIL fra il 1999 e 2012, a fronte di un peggioramento di 2,2 punti per l’Italia. Sulla base delle previsioni OECD sui saldi correnti di bilancia dei pagamenti, nel 2014 le passività nette verso l’estero di Italia e Francia in rapporto al PIL potrebbero eguagliarsi. Secondo le stime del CESifo World Economic Survey fra il 1999 e 21 il 2012, il livello medio dei prezzi dei beni prodotti all’interno dei diversi paesi (deflatore implicito del PIL) è cresciuto in Francia (26%) non molto meno che in Italia (31%), e molto più che in Germania (12%). Nello stesso periodo il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato dell’8% in Germania, del 29% in Francia e del 36% in Italia. Il tasso di disoccupazione complessivo nel 2012 era sostanzialmente uguale in Italia e in Francia (10,5%) e doppio rispetto a quello della Germania (5,5%), anche se il tasso di disoccupazione giovanile era molto più alto in Italia (34%) che in Francia (22%). Tabella 9 - Tasso annuo di crescita del prodotto interno lordo, 1988-2014. Germa- Italia nia Francia Spagna Grecia Portogallo 1988-1998 2,4 1,6 2,0 2,7 nd 1999 1,7 1,4 3,2 4,7 2000 3,3 3,9 3,8 2001 1,6 1,8 2002 0,0 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 3,2 6,7 3,1 2,0 2,5 2,2 3,4 4,1 11,0 4,7 -0,2 3,2 2,8 5,0 4,5 3,9 10,7 4,1 2,3 4,2 3,9 1,8 3,7 4,2 2,0 5,3 1,1 0,4 2,9 2,0 0,4 0,9 2,7 3,4 0,8 5,7 1,8 0,3 2,4 0,9 -0,4 0,0 0,9 3,1 5,9 -0,9 3,9 2,5 1,7 3,8 0,7 0,7 1,6 2,3 3,3 4,4 1,6 4,4 3,5 2,4 2,9 2,0 0,8 1,1 1,8 3,6 2,3 0,8 5,9 3,1 1,3 2,8 1,8 3,9 2,3 2,6 4,1 5,5 1,4 5,4 2,7 1,7 2,6 3,4 3,4 1,5 2,2 3,5 3,5 2,4 5,4 1,9 2,2 3,6 3,0 0,8 -1,2 -0,2 0,9 -0,2 0,0 -2,1 -0,3 -1,0 -1,0 0,3 -5,1 -5,5 -3,1 -3,7 -3,1 -2,9 -5,5 -3,1 -5,5 -4,0 -4,3 4,0 1,8 1,6 -0,3 -4,9 1,4 -0,8 2,4 4,5 1,8 1,9 3,1 0,6 1,7 0,4 -7,1 -1,7 1,4 1,8 -0,7 0,9 1,5 2012 0,9 -2,2 0,2 -1,3 -6,3 -3,1 0,5 2,2 1,6 -0,1 -0,4 2013(*) 0,6 -1,0 0,3 -1,4 -4,5 -1,8 1,3 2,0 0,7 0,9 -0,1 2014(*) 1,9 0,6 1,3 0,5 -1,3 0,9 2,2 2,8 0,8 1,6 1,3 1999-2007 1,7 1,6 2,2 3,7 4,1 1,8 6,4 2,8 1,3 3,2 2,3 2008-2012 0,7 -1,3 0,0 -0,8 -4,3 -1,3 -1,3 0,6 -0,2 -0,5 -0,2 1999-2012 1,2 0,4 1,3 2,0 1,0 0,6 3,6 1,9 0,7 1,8 1,3 nd: non disponibile; (*) previsioni. Fonte: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 1. 22 4.4 Cause degli squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro Due indicatori fondamentali per evidenziare come si sono accumulati gli squilibri competitivi fra alcuni paesi dell’area euro sono riportati nelle tabelle 10 e 11. Nella tabella 10 è riportato il tasso annuo di crescita dei prezzi medi dei beni prodotti nei diversi paesi o deflatore implicito del prodotto interno lordo. Nella tabella 11 è riportato l’indice di questi stessi prezzi con base 1998=100. Dalla tabella 11 si può vedere come gli squilibri competitivi fra Germania da un lato e Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna ( e anche Francia) dall’altro abbiano cominciato ad accumularsi fin dai primi anni dell’Unione monetaria europea. Fra il 1998 e il 2002 il livello medio dei prezzi dei beni prodotti all’interno aumentò soltanto del 2% in Germania, ma del 6% in Francia, del 7% nella media dell’area euro, del 10% in Italia, del 14% in Grecia, del 15% in Portogallo, del 16% in Spagna, del 22% in Irlanda. Nel 2007, l’ultimo anno normale prima dello scoppio della crisi finanziaria internazionale, l’indice dei prezzi dei beni prodotti in ciascun paese era arrivato a 107 in Germania, 118 in Francia, 119 nell’area euro, 123 in Italia, 131 in Grecia e Portogallo, 137 in Irlanda, 140 in Spagna. Nel 2012 l’indice arrivò a 112 in Germania, 126 in Francia, 126 nell’area euro, 127 in Irlanda, 133 in Italia, 137 in Portogallo, 143 in Grecia, 146 in Spagna. Questi dati evidenziano fra il 1998 e il 2012 aumenti dei prezzi nettamente più bassi che nell’insieme dell’area euro in Germania, in linea con la media dell’area euro in Francia e Irlanda, più alti della media in Italia, e ancora di più in Portogallo, Grecia e Spagna. Questi dati evidenziano i termini essenziali della crisi dell’area euro: per riportare in equilibrio competitivo i paesi dell’area euro, è necessario che si abbia una convergenza dei valori di questo indice. Mantenendo la moneta comune, ciò può avvenire accelerando il tasso di crescita dei prezzi della produzione interna in Germania e/o riducendo il livello, o almeno il tasso di crescita, dei prezzi in Francia, Irlanda, Italia, Portogallo, Grecia e Spagna. In qualche misura ciò ha cominciato a verificarsi, in particolare per l’Irlanda, paese in cui l’indice dei prezzi è diminuito da un massimo di 137 nel 2007 a 127 nel 2012, e in misura ancora appena percettibile in Spagna (tasso annuo di aumento dei prezzi leggermente minore che in Germania nel 2009 e il 2010 e dal 2012 in poi, anche in Grecia (leggera diminuzione dei prezzi registrata nel 2012 e prevista anche per il 2013 e il 2014), Portogallo (crescita dei prezzi minore che in Germania dal 2011 in poi), Italia (crescita dei prezzi minore che in Germania nel 2010 e 2012, e prevista anche nel 2013 e 2014), e dal 2013 in poi forse anche in Francia. Il problema è che diminuire il livello dei prezzi, o anche il suo tasso di crescita, nei paesi che 23 hanno perso competitività è estremamente costoso in termini di aumento di disoccupazione e perdita di produzione. Minore sarebbe il costo se il riallineamento potesse avvenire mediante un significativo aumento del tasso d’inflazione in Germania, ben oltre i tassi oscillanti intorno all’1,6% all’anno previsti dall’OCSE per 2013 e il 2014. Tabella 10 - Tasso di crescita dei prezzi dei beni prodotti nei diversi paesi (deflatore implicito del prodotto interno lordo). Germa- Italia nia 1988-98 Francia Spa- Grecia gna 2,5 4,9 1,8 4,9 nd 1999 0,2 1,8 0,2 2,6 2000 -0,7 1,9 1,6 3,5 2001 1,1 2,9 2,0 2002 1,4 3,2 2003 1,1 2004 2005 2006 2007 2008 Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 7,3 2,9 2,5 0,8 3,7 3,1 3,0 3,3 3,8 1,6 -1,3 2,1 1,0 3,4 3,3 5,3 2,2 -1,2 0,7 1,4 4,2 3,1 3,6 5,6 2,3 -1,2 1,6 2,4 2,2 4,4 3,4 3,7 5,3 1,6 -1,6 2,3 2,5 3,1 2,0 4,2 3,9 3,0 3,6 2,1 -1,7 2,5 2,2 1,1 2,4 1,7 4,0 2,9 2,5 2,2 2,8 -1,4 2,6 1,9 0,6 1,8 1,9 4,3 1,9 2,5 2,5 3,3 -1,3 2,4 1,9 0,3 1,7 2,2 4,1 2,4 2,8 3,4 3,2 -1,1 2,9 1,8 1,6 2,4 2,6 3,3 3,3 2,8 0,7 2,9 -0,9 2,2 2,3 0,8 2,5 2,5 2,4 4,7 1,6 -3,1 2,2 -1,3 3,0 1,9 2009 1,2 2,1 0,7 0,1 2,3 0,9 -4,6 0,9 -0,5 1,3 0,9 2010 0,9 0,4 1,1 0,4 1,1 1,1 -2,2 1,3 -2,2 2,8 0,8 2011 0,8 1,3 1,3 1,0 1,0 0,7 0,2 2,1 -2,1 2,7 1,2 2012 1,4 1,1 1,5 0,3 -0,6 -0,2 1,8 1,8 -0,9 2,1 1,2 2013(*) 1,6 1,3 1,1 0,7 -0,5 0,9 0,3 1,8 -0,5 1,7 1,3 2014(*) 1,6 0,6 0,7 0,4 -0,8 0,7 0,6 1,9 0,7 1,7 1,0 (*) Previsioni. OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 16 Fonti: 24 Tabella 11 - Indice dei prezzi dei beni prodotti nei diversi paesi (deflatore implicito del prodotto interno lordo) Germa- Italia Francia nia Spagna Grecia Portogallo Irlanda Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 1998 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 1999 100 102 100 103 103 103 104 102 99 102 101 2000 99 104 102 106 107 107 109 104 98 103 102 2001 101 107 104 111 110 111 115 106 96 104 105 2002 102 110 106 116 114 115 122 108 95 107 107 2003 103 114 108 120 118 118 126 110 93 110 110 2004 104 116 110 125 121 121 129 113 92 112 112 2005 105 118 112 131 124 124 132 117 91 115 114 2006 105 120 115 136 127 128 136 121 90 118 116 2007 107 123 118 140 131 131 137 124 89 121 119 2008 108 126 121 144 137 133 133 127 88 125 121 2009 109 129 121 144 140 134 127 128 87 126 122 2010 110 130 123 144 142 136 124 130 85 130 123 2011 111 131 124 146 143 137 124 133 84 133 125 2012 112 133 126 146 142 137 127 135 83 136 126 2013(*) 114 134 128 147 142 138 127 137 82 138 128 2014(*) 116 135 128 148 140 139 128 140 83 141 129 (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 16 4.5 Alcuni approfondimenti sulle cause fondamentali dello squilibrio competitivo fra Italia e Germania La causa fondamentale dello squilibrio competitivo che si è gradualmente accumulato fra Italia e Germania dopo la creazione dell’Unione monetaria Europea va identificata nella dinamica della produttività del lavoro e delle retribuzioni. Nel periodo fra il 1999 e il 2007 la produttività del lavoro è aumentata in Germania un tasso medio dell’1,2 per cento all’anno, mentre le 25 retribuzioni medie per addetto sono aumentate a un tasso medio dell’1 per cento all’anno. Tabella 12 - Tasso di crescita della produttività del lavoro. Germa- Italia nia Francia Spagna Grecia Porto- Irlanda gallo 1985-95 1,8 2,1 1,8 1,4 nd 1999-07 1,2 0,2 1,0 0,0 2008-12 Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 2,5 3,2 1,1 2,1 2,4 1,7 2,5 1,2 2,6 2,0 1,5 2,2 1,0 -0,1 -0,9 0,1 2,2 -1,1 0,5 2,2 1,3 0,2 -0,6 0,2 1996 0,9 0,4 0,5 0,7 1,1 2,0 5,7 1,8 2,2 2,2 0,9 1997 1,9 1,6 1,5 0,3 4,0 1,7 5,7 2,1 0,5 2,0 1,8 1998 0,5 0,3 1,7 0,0 -1,0 2,3 0,3 2,1 -1,4 2,5 0,9 1999 0,2 0,3 0,9 0,2 3,1 2,7 4,3 2,7 0,6 1,8 0,9 2000 1,6 1,9 1,2 0,0 3,0 1,8 6,0 2,4 2,5 3,0 1,6 2001 1,4 -0,3 0,3 0,4 4,1 0,2 2,1 1,2 0,9 2,0 0,7 2002 0,6 -1,2 0,4 0,2 1,2 0,2 4,0 3,0 1,6 1,7 0,4 2003 0,5 -1,4 0,8 -0,1 4,7 -0,3 2,0 2,5 1,9 2,8 0,4 2004 0,4 1,1 2,2 -0,4 1,9 1,6 1,0 2,4 2,2 1,8 1,3 2005 1 0,5 1,2 -0,5 -0,7 1,1 0,9 1,5 0,9 1,7 0,9 2006 3,3 0,3 1,5 0,1 3,6 0,9 1,0 0,9 1,3 1,7 1,8 2007 1,7 0,3 0,8 0,4 1,9 2,4 1,7 1,0 1,7 2,9 1,3 2008 -0,4 -1,4 -0,7 1,0 -1,0 -0,5 -1,1 0,4 -0,6 -1,7 -0,4 2009 -5,1 -3,9 -1,8 3,0 -2,9 -0,3 2,9 1,3 -4,0 -2,4 -2,6 2010 3,4 2,5 1,6 2,2 -3,1 3,0 3,6 3,1 5,0 1,6 2,4 2011 1,7 0,2 1,2 2,0 -0,4 -0,1 3,6 0,9 -0,5 0,4 1,2 2012 -0,1 -1,7 0,2 2,9 2,1 0,6 2,0 0,8 1,3 -1,1 0,2 2013(*) 0,6 -0,3 0,7 1,2 1,5 0,0 2,0 0,4 0,9 0,5 0,6 2014(*) 1,7 0,9 1,2 0,7 1,1 0,7 2,2 1,3 0,9 0,7 1,3 nd: non disponibile; (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 12 In Italia, invece, nello stesso periodo, la produttività del lavoro è aumentata a un tasso medio dello 0,2 per cento all’anno, mentre le retribuzioni 26 medie per addetto sono aumentate a un tasso medio del 2,4 per cento all’anno. Ciò ha implicato una perdita di competitività dell’Italia rispetto alla Germania nei primi nove anni dell’Unione monetaria europea dell’ordine del 2,4 per cento all’anno, corrispondente a una perdita cumulata dell’ordine di quasi il 24 per cento in nove anni. Tabella 13 - Tasso di crescita delle retribuzioni per addetto. Germa- Italia Frannia cia Spagna Grecia Porto- Irlanda gallo Stati Uniti Giappone Regno Unito Area euro 5,1 3,7 2,5 6,6 4,7 1985-95 4,2 6,7 3,4 7,7 1999-07 1,0 2,4 2,9 3,0 5,3 3,9 5,9 4,2 -1,1 4,6 2,6 2008-12 2,1 1,2 2,3 2,4 -0,8 0,7 0,6 2,4 -0,8 2,3 2,0 1996 1,1 5,7 1,8 4,3 8,8 6,0 4,4 2,9 0,1 3,2 3,1 1997 0,6 4,4 1,6 2,3 13,7 5,7 5,0 3,8 0,9 4,0 2,8 1998 0,9 -1,6 1,6 1,8 5,3 5,6 3,7 4,9 -0,9 6,5 1,6 1999 0,9 1,6 2,0 2,1 6,5 5,1 4,9 4,0 -1,5 4,7 2,1 2000 1,8 2,3 2,5 2,8 6,0 6,3 7,7 6,4 -0,2 5,7 3 2001 1,7 2,7 2,7 3,6 3,7 4,0 7,9 3,4 -0,9 5,2 2,9 2002 1,3 2,2 3,5 3,4 11,4 3,4 5,4 3,4 -2,1 3,3 2,9 2003 1,4 2,5 2,8 2,6 6,3 3,5 6,4 4,5 -2,0 4,7 2,6 2004 0,3 3,3 3,4 2,1 4,2 2,6 5,2 4,3 -1,4 3,8 2,4 2005 -0,1 2,7 3,1 2,8 2,6 4,7 5,5 3,5 -0,1 3,8 2,1 2006 1,0 2,2 3,2 3,2 2,4 1,8 4,6 4,0 -0,8 4,7 2,5 2007 0,8 2,0 2,5 4,6 4,6 3,6 5,9 4,1 -1,2 5,1 2,7 2008 2,1 3,0 2,6 6,7 4,4 3,0 5,4 3,2 0,4 1,5 3,5 2009 0,2 -0,1 1,8 4,4 3,3 2,8 -0,8 1,0 -3,7 2,8 1,5 2010 2,4 2,0 2,3 0,2 -3,4 1,4 -3,1 2,9 0,1 2,7 1,7 2011 3,0 1,0 2,8 0,5 -1,8 -0,8 0,2 2,9 0,0 2,0 1,9 2012 2,6 0,3 2,1 0,2 -6,4 -3,0 1,1 2,1 -0,7 2,6 1,4 2013(*) 3,0 0,8 1,9 -1,2 -5,6 -1,0 0,2 2,2 0,4 2,3 1,4 2014(*) 3,3 0,5 1,7 -0,7 -2,4 -0,3 1,5 2,9 0,9 2,9 1,5 14,4 nd nd: non disponibile; (*) Previsioni. Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 11. 27 Nel periodo fra il 2008 e il 2012 la produttività del lavoro è diminuita in Germania a un tasso medio dello 0,1 per cento all’anno, mentre le retribuzioni medie per addetto sono aumentate a un tasso medio del 2,1 per cento all’anno. In Italia, invece, nello stresso periodo, la produttività del lavoro è diminuita a un tasso medio dello 0,9 per cento all’anno, mentre le retribuzioni medie per addetto sono aumentate a un tasso medio dell’1,2 per cento all’anno. Ciò significa che nei cinque anni della crisi finanziaria internazionale i rapporti di competitività fra Italia e Germania sono rimasti in complesso sostanzialmente invariati rispetto alla situazione del 2007. Più in dettaglio, sulla base della dinamica della produttività del lavoro e della retribuzione per addetto, la competitività dell’Italia rispetto alla Germania è peggiorata ancora di quasi il 2 per cento nel 2008, è migliorata dell’1,5% nel 2009, è peggiorata ancora dello 0,5 per cento nel 2010, è migliorata dello 0,5% nel 2011 e dello 0,7% nel 2012. Il lieve miglioramento, a partire dal 2009, della competitività dell’Italia rispetto alla Germania, è stato determinato essenzialmente da un aumento del tasso di crescita delle retribuzioni per addetto in Germania a partire dal 2010 (2,9% all’anno fra il 2010 e il 2012, a fronte di una crescita media dell’1% all’anno fra il 1999 e il 2009), e da un diminuzione del tasso di crescita delle retribuzioni per addetto in Italia a partire dal 2009 (0,8% all’anno fra il 2009 e il 2012, a fronte di una crescita media del 2,4% all’anno fra il 1999 e il 2008); è rimasto invece sostanzialmente inalterato il gap nella dinamica della produttività dell’Italia rispetto alla Germania (crescita media dell’1,2% all’anno in Germania e dello 0,2% in Italia fra il 1999 e il 2007, diminuzione media dello 0,1% all’anno in Germania e dello 0,9% in Italia fra il 2008 e il 2012). 5. Fattori che hanno contribuito a determinare la perdita di competitività dell’Italia La causa principale per cui nel primo decennio dell’euro si è verificata una progressiva perdita di competitività dell’Italia, in particolare rispetto alla Germania, è stata la forte diminuzione della dinamica della produttività del lavoro, da una crescita media del 2,1 per cento all’anno fra il 1985 e il 1995, ad un aumento medio di appena lo 0,2 per cento all’anno fra il 1999 e il 2007. Pure in Germania si è avuto un rallentamento della dinamica della produttività del lavoro, ma in misura significativamente più contenuta che in Italia: dall’1,8 per cento all’anno nel periodo 1985-95, all’1,2 per cento all’anno fra il 1999 e il 2007. Agli effetti negativi sulle possibilità di crescita delle retribuzioni del sostanziale azzeramento della crescita della produttività si sono sommati in Italia altri fattori negativi, e in particolare: il fortissimo aumento del prezzo in 28 dollari del petrolio (da 13 dollari al barile nel 1998 a 97 dollari nel 2008, a 112 dollari nel 2012) e degli altri prodotti primari tipicamente importati dall’Italia (quasi triplicati fra il 1999 e il 2011); un aumento molto forte del prezzo in euro delle case, aumentati in Italia di circa l’80 per cento fra il 1998 e il 2008, mentre in Germania sono addirittura diminuiti di circa l’8% fra il 2002 e il 2005, e sono poi rimasti sostanzialmente stabili fino al 2009; un aumento dei prezzi delle assicurazioni per la circolazione delle automobili molto più forte in Italia che in Germania, che ha portato il livello di questi prezzi in Italia di circa l’80 per cento più alto che in Germania. 6. Come riportare in equilibrio competitivo i paesi dell’Unione monetaria europea Nei primi 10 anni del’Unione monetaria europea l’attenzione di economisti e politici era stata prevalentemente concentrata sugli equilibri di finanza pubblica necessari per mantenere l’unione monetaria. Gli squilibri di partite correnti di bilancia dei pagamenti erano considerati fisiologici, in quanto necessari per trasferire capitali dai paesi più efficienti verso quelli meno efficienti così da stimolare la convergenza in termini di produttività, e quindi di reddito per abitante, fra i paesi dell’area euro. Ciò si basava sulla convinzione che le differenze di produttività derivassero principalmente da differenze nella dotazione di capitale per abitante, e che quindi i flussi di capitale dai paesi più produttivi verso quelli meno produttivi, eliminando le differenze nella dotazione di capitale per abitante, avrebbero anche eliminato le differenze di produttività e di reddito, e a quel punto le partire correnti delle bilance dei pagamenti sarebbero tornate automaticamente in equilibrio. Questa visione ottimista sembrò essere confermata fino al 2007 da una crescita molto più rapida del prodotto interno lordo in Spagna, Grecia, e Irlanda rispetto alla Germania. A partire dal 2008 ci si rese però gradualmente conto che i flussi di capitale da Germania, Olanda e Austria erano stati utilizzati in Grecia, Spagna e Irlanda non per stimolare investimenti, e quindi incrementi di produttività in settori a mercato internazionale, ma prevalentemente per una crescita del numero dei dipendenti pubblici e delle loro retribuzioni in Grecia, e degli investimenti in abitazioni in Spagna e Irlanda. Di conseguenza, questi trasferimenti di capitale, invece di creare le premesse per un riequilibrio competitivo in grado di riportare in equilibrio gli scambi con l’estero di questi paesi, avevano determinato squilibri competitivi e negli scambi con l’estero sempre più forti. In qualche misura ciò si verificò anche nelle tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), e con un certo ritardo, anche in Italia, Francia, Slovenia e Slovacchia. A partire dal 2010 cominciò ad emergere 29 gradualmente la consapevolezza che questo squilibrio competitivo era diventato il principale fattore di crisi dell’Unione monetaria europea4, ma questa consapevolezza emerse quando l’entità degli squilibri competitivi era diventata molto elevata (rispetto alla Germania, dell’ordine del 40-50 per cento per Grecia e Spagna, e del 20-30 per cento per Italia e Irlanda). Preservando sia l’Unione monetaria europea, sia l’obiettivo di un tasso di inflazione medio nell’area euro non superiore al 2 per cento, il riequilibrio competitivo potrebbe essere perseguito gradualmente mediante una tasso d’inflazione maggiore del 2 per cento in Germania, Austria e Olanda e minore del 2 per cento in Italia, Grecia, Spagna, ecc.. Al limite, escludendo la possibilità di un tasso di inflazione negativo, l’equilibrio potrebbe essere perseguito mediante un tasso d’inflazione vicino allo zero in Italia, Spagna, Grecia ecc., ottenibile mediante una crescita delle retribuzioni monetarie medie pari alla crescita della produttività, e un tasso d’inflazione pari a circa il 4 per cento in Germania, Austria e Olanda, mediante una crescita dei salari monetari in quei paesi maggiore di 4 punti percentuali rispetto alla crescita della produttività. Al riequilibrio potrebbero contribuire anche svalutazioni o rivalutazioni di natura “fiscale” (diminuzioni delle imposte sul lavoro, in particolare per le imprese che producono beni a mercato internazionale, compensate da aumenti dell’imposta sul valore aggiunto, in Italia, Spagna, Grecia, ecc. e aumenti delle imposte sul lavoro, in particolare per le imprese che producono beni a mercato internazionale, compensati da riduzioni della imposta sul valore aggiunto, in Germania, Olanda e Austria). L’uscita dall’Unione monetaria, e l’adozione di una moneta svalutata rispetto all’euro in Italia, Grecia, Spagna, ecc., potrebbe consentire di accelerare il processo di aggiustamento, a condizione però che fosse possibile evitare aumenti dei salari monetari in questi paesi maggiori degli aumenti di produttività, pur in presenza di aumenti dei prezzi dei beni a mercato internazionale, sia importati, sia esportati. In ogni caso sarebbe necessaria una crescita della domanda interna minore della produzione interna di merci e servizi in Italia, Spagna e Grecia, e un aumento della domanda interna maggiore della produzione interna di merci e servizi in Germania, Austria e Olanda. Avrebbe effetti sostanzialmente analoghi la uscita dall’area euro della Germania; anche in questo caso il riequilibrio competitivo richiederebbe in Italia aumenti delle retribuzioni monetarie non maggiori degli aumenti di produttività, anche in presenza di aumenti dei prezzi in euro dei beni a mercato internazionale provocati sia dal fatto che la Germania adotterebbe una moneta 4 Al riguardo si veda, per esempio, Giavazzi e Spaventa (2010), EEAG (2010, 2011, 2012, 2013), European Parliament and European Council (2011), European Commission (2012a, 2012b), Draghi (2012,2013). 30 che varrebbe più dell’euro (e di conseguenza aumenterebbero i prezzi in euro sia dei beni che l’Italia importa dalla Germania, sia dei beni che l’Italia esporta verso la Germania), sia perché con l’uscita dalla Germania l’euro si deprezzerebbe rispetto al dollaro e alle valute degli altri paesi, così che aumenterebbero i prezzi in euro sia dei beni importati dai paesi esterni all’area euro che dei beni esportati verso questi paesi. Nella sostanza non ci sarebbero quindi differenze significative dal punto di vista dell’Italia fra un riequilibrio graduale rimanendo nell’area euro e un riequilibrio più immediato uscendo dall’area euro. L’uscita dall’area euro per recuperare competitività potrebbe essere utile nel caso il recupero di competitività dovesse richiede una diminuzione dei salari monetari; considerato che il recupero di competitività potrebbe avvenire in modo graduale, almeno per l’Italia, ciò potrebbe non essere necessario. D’altronde, non si comprende come sarebbe possibile in Italia evitare aumenti dei salari monetari in presenza di significativi aumenti dei prezzi dei beni provocati dal passaggio a una unità monetaria deprezzata quando negli ultimi anni non si è riusciti a mantenere costanti i salari monetari in presenza di più contenuti aumenti dei prezzi, pur con tassi di disoccupazione elevati5. L’eventuale uscita di un paese dall’area euro, se da un lato potrebbe consentire un riequilibrio competitivo più rapido e forse meno costoso in termini di disoccupazione e perdita di produzione e reddito, dall’altro comporterebbe diversi problemi. Innanzitutto sarebbe molto difficile evitare che l’uscita di un paese dall’area euro, in particolare se ad uscire fosse non la Germania ma uno dei paesi in difficoltà, inneschi una catena di “effetti-contagio” tale da comportare la disintegrazione completa dell’area euro; ciò per motivi di natura sia psicologica sia di sostanza economica. Una volta che un paese in difficoltà esce dall’area euro è prevedibile che diminuisca la fiducia dei mercati finanziari internazionali sulla stabilità della rimanente parte dell’area euro; possono quindi innescarsi processi di speculazione destabilizzanti in grado di costringere altri paesi ad uscire dall’area euro. Dal punto di vista sostanziale, l’uscita dall’area euro di uno dei paesi in crisi potrebbe provocare un apprezzamento dell’euro, che renderebbe più grave la carenza di competitività 5 Comunque il tasso di crescita delle retribuzioni è diminuito sensibilmente in Italia da oltre il 2% all’anno fra il 1999 e il 2008 a meno dell’un per cento all’anno fra il 2009 e il 2012, e aumenti ancora più contenuti sono previsti per il 2013 e il 2014. Purtroppo questa riduzione nella dinamica delle retribuzioni non si è riflessa sul costo del lavoro a causa di una diminuzione della produttività del lavoro particolarmente forte nel 2008, 2009 e 2012. 31 degli altri paesi in difficoltà; inoltre gli istituti finanziari dei paesi che rimangono nell’area euro vedrebbero svalutarsi il valore dei loro crediti verso soggetti economici del paese uscito dall’area euro. Un paese che uscisse dall’area euro dovrebbe essere in grado di passare ad un’altra moneta in tempi rapidissimi, poichè nel periodo transitorio si avrebbe una grande fuga di capitali dal paese in procinto di adottare una moneta di minor valore. 7. Una nuova “politica industriale” per la Calabria Negli ultimi anni un nuovo interesse per le “politiche industriali”, vale a dire per politiche economiche volte a privilegiare alcuni specifici settori produttivi, e in particolare l’industria manifatturiera, è emerso sia negli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Obama, sia nell’Unione europea. Forti convincimenti riguardo l’importanza strategica dell’industria manifatturiera per lo sviluppo economico risalgono agli albori della scienza economica. In particolare, Alexander Hamilton, il primo ministro del tesoro degli Stati Uniti d’America, nel suo “Report on manufactures” del 1791 sostenne l’opportunità di stimolare lo sviluppo dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti, paese allora pressoché esclusivamente agricolo, anche mediante dazi sulle importazioni di manufatti producibili negli Stati Uniti e sussidi per i produttori di tali manufatti. Le argomentazioni di Hamilton furono riprese in Germania da Friedrich List, e influenzarono la politica industriale del governo tedesco, in particolare negli anni del cancelliere Bismark. Nella seconda metà del ventesimo secolo lo sviluppo dell’industria manifatturiera fu il motore di un rapido sviluppo economico in Giappone, Italia settentrionale, Corea del Nord, e a cavallo fra il ventesimo e il ventunesimo secolo, anche della Cina. Ancora più recentemente, la Germania è riuscita a recuperare rapidamente dopo la crisi finanziaria internazionale, soprattutto dal punto di vista dell’occupazione, principalmente in virtù degli effetti di stimolo delle attività manifatturiere derivanti da un forte deprezzamento del tasso di cambio reale rispetto a gran parte degli altri paesi dell’area euro. Negli Stati Uniti, in particolare con la Presidenza Obama, si è cercato di proteggere e stimolare le attività manifatturiere, sia mediante un deprezzamento competitivo del dollaro rispetto all’euro, sia cercando di contrastare la politica cinese di deprezzamento competitivo dello yuan, sia mediante aiuti specifici per grandi imprese manifatturiere in crisi come General Motors e Chrysler. Anche nel Nord dell’Italia la competitività dell’industria manifatturiera è stata fortemente sostenuta da una sorta di svalutazione competitiva. La determinazione di salari sostanzialmente uniformi nelle diverse regioni italiane mediante la contrattazione nazionale comporta infatti, per effetto della 32 maggiore produttività al Nord rispetto al Sud dell’Italia, un prezzo del lavoro nelle regioni del Nord dell’Italia di circa il 20 per cento più basso di quello di equilibrio competitivo. Specularmente, la contrattazione nazionale comporta per le regioni del Sud dell’Italia un prezzo del lavoro di circa il 20 per cento più alto di quello di equilibrio competitivo, che rappresenta un forte ostacolo per lo sviluppo delle attività manifatturiere in queste regioni. 8. Considerazioni conclusive Dopo la crisi valutaria dei primi anni novanta, undici paesi dell’Unione europea trovarono l’accordo verso la fine del secondo millennio per una svolta monetaria di portata storica: la rinuncia alle monete nazionali e l’adozione di una moneta unica e di una comune gestione della politica monetaria finalizzata a mantenere uno stesso tasso d’inflazione inferiore al 2 per cento all’anno in paesi che nei tre decenni precedenti avevano registrato dinamiche dei prezzi fortemente diversificate. Ciò avrebbe dovuto costituire il presupposto per una crescita stabile di occupazione, produzione e reddito. The Economist dedicò alla nascita dell’euro una copertina dal titolo suggestivo “The great adventure finally begins”. Nelle stesse settimane, un’altra copertina dello stesso settimanale inglese sembrò adombrare un presagio funesto per quella grande avventura: una copertina dedicata alla miseria in cui era sprofondata in quegli stessi giorni l’Argentina, un paese che dieci anni prima si era imbarcato in un’avventura per diversi aspetti analoghi: il tentativo di buttarsi alle spalle una lunga storia di fortissima instabilità monetaria legando “irrevocabilmente”, mediante una modifica costituzionale, il valore della propria moneta a quello del dollaro, e rinunciando ad una politica monetaria indipendente per adottare quella della Federal Reserve americana. L’aspettativa generale era che l’Unione monetaria europea avrebbe accelerato i tempi del sorpasso degli Stati Uniti da parte dell’Europa in termini di reddito per abitante, per effetto di una crescita della produttività che a partire dagli anni settanta era stata sistematicamente maggiore in Europa che in America. Le prime delusioni della nuova “età dell’euro” si ebbero proprio per questo aspetto: a partire dalla seconda metà degli anni novanta la dinamica della produttività rallentò in misura significativa in Europa, e in particolare in gran parte dei paesi dell’Unione europea, mentre accelerava negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Invece del sorpasso europeo rispetto agli Stati Uniti in termini di reddito per abitante si invertì il processo di avvicinamento europeo all’America, e riprese ad ampliarsi il divario Europa-America in termini di reddito per abitante. Il rallentamento della dinamica della produttività si ebbe soprattutto in Italia, che a partire dal 2001 registrò in diversi anni tassi di 33 variazione della produttività addirittura negativi, ma interessò anche la Germania, la Francia, la Spagna e il Portogallo. Per alcuni anni, tuttavia, l’Unione Monetaria evidenziò significativi effetti positivi soprattutto in termini di convergenza in termini di reddito per abitante, e altri 6 paesi, fra cui la Grecia, entrarono a far parte successivamente dell’ara euro. In particolare, il reddito per abitante aumentò più della media europea in Grecia, Portogallo e Irlanda, per effetto principalmente di un più alto tasso di crescita della produttività, e in Spagna per effetto di un forte aumento del tasso di occupazione. Il processo di convergenza fu aiutato dalla possibilità dei paesi relativamente più poveri dell’Unione monetaria europea di ottenere flussi di capitali dai paesi relativamente più ricchi, a tassi d’interesse molto più bassi di quelli che dovevano pagare prima dell’Unione monetaria. Altri aspetti positivi furono la forte diminuzione del tasso d’inflazione in paesi, come l’Italia, che in passato avevano sperimentato fenomeni inflazionistici accentuati, e una graduale diminuzione del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo nei paesi che erano entrati nella Unione monetaria con un debito pubblico molto elevato. Per l’Italia, in particolare, il debito pubblico diminuì dal 132% del prodotto interno lordo nel 1998 al 112% nel 2007; una diminuzione ancora più forte, dal 75% del PIL nel 1998 al 42% nel 2007, si verificò in Spagna, il paese che, insieme all’Italia, aveva incontrato maggiori difficoltà a far parte fin dal 1999 dell’Unione monetaria europea, e in Irlanda dal 62 al 29% del PIL. Paradossalmente, in quel periodo il debito pubblico aumentò in Germania, dal 62% del PIL nel 1998 al 72% nel 2005; erano quegli gli anni in cui la Germania appariva, insieme all’Italia, The sick man of Europe”. La situazione cambiò radicalmente a partire dal 2008, l’anno in cui scoppiò la grande crisi finanziaria internazionale. I paesi dell’area euro più fortemente coinvolti direttamente nella crisi furono la Spagna, l’Irlanda, la Grecia e il Portogallo, che avevano sperimentato negli anni precedenti in misura più accentuata la “bolla immobiliare”, il cui scoppio creò gravissime difficoltà finanziarie per le principali banche, che dovettero essere salvate dai governi mediante finanziamenti che provocavano un forte aumento del debito pubblico (in Spagna dal 42% del 2007 al 68% nel 2010 e al 94% nel 2012), in Irlanda dal 29% nel 2007 al 98% nel 2010, in Grecia dal 115% del PIL nel 2007 al 175% nel 2011, in Portogallo dal 75% del PIL nel 2007 al 125% nel 2011). Le conseguenze dirette dello scoppio della bolla immobiliare furono meno rilevanti per l’Italia, sia perché i prezzi delle case erano aumentati in Italia meno che in gran parte degli altri paesi, sia perché la esposizione di gran parte delle banche italiane nei confronti dei mutui “subprime” era minore di quella delle banche degli altri paesi. Rilevanti conseguenze negative si ebbero tuttavia indirettamente anche per l’Italia, a causa della forte diminuzione del prodotto interno lordo nel 2008 e 2009, provocata principalmente dalla forte 34 riduzione della domanda di beni per investimenti e beni di consumo durevoli. Nonostante la gestione prudenziale della finanza pubblica, ciò determinò una significativa riduzione delle entrate pubbliche che, insieme all’aumento delle spese di natura assistenziale e alla diminuzione del PIL, determinò un aumento del debito pubblico italiano dal 112% del PIL nel 2007 al 128% nel 2009. L’aumento del debito pubblico in rapporto al PIL rese necessarie in Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia politiche fiscali fortemente restrittive che provocarono diminuzioni della domanda interna; ciò, in aggiunta ad una domanda estera netta negativa a causa della carenza di competitività di questi paesi, determinò riduzioni significative di produzione, reddito e occupazione. Il dualismo fra Germania da un lato e paesi deboli dell’area euro (GIIPS) dall’altra si manifestò clamorosamente soprattutto sul mercato del lavoro, con tassi di disoccupazione storicamente bassi in Germania (poco più del 5%), e molto alti nei GIIPS, dal 27% di Spagna e Grecia, al 17% del Portogallo, al 15% dell’Irlanda, all’11% di Italia e Francia. Le differenze appaiono ancora più drammatiche in termini di disoccupazione giovanile, con tassi di disoccupazione dei giovani fra 15 e 24 anni inferiori al 10% in Germania, superiori al 50% in Grecia e Spagna, di circa il 38% in Italia. Mentre nel primo decennio dell’era dell’euro l’attenzione era principalmente concentrata sugli squilibri di finanza pubblica, aggravati a volte in modo eccezionale dalle crisi bancarie, a partire dal 2010 l’attenzione si è gradualmente spostata verso gli squilibri di competitività determinati da dinamiche differenziate nel costo del lavoro e dei prezzi nei diversi paesi dell’area euro. Il problema è che il fatto di aver trascurato questi squilibri per molti anni, anche in base ad analisi eccessivamente ottimistiche di economisti di grande prestigio, ha fatto sì che essi assumessero dimensioni particolarmente elevate, fino a oltre il 30% per la Grecia e la Spagna rispetto alla Germania, e fino a circa il 20 per cento per l’Italia. Questi squilibri rappresentano il rischio più insidioso per la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea, perché la sua disgregazione, con il ritorno a monete differenti nei diversi paesi, potrebbe apparire come un modo relativamente indolore per Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, ecc. di recuperare in breve tempo la competitività persa fra il 1998 e il 2007. Ciò tuttavia sarebbe una soluzione tutt’altro che indolore, soprattutto nella fase iniziale, e comporterebbe il ritorno a monete nazionali diverse caratterizzate da tassi di cambio in balia della speculazione finanziaria internazionale. Negli anni recenti, pur con costi molto elevati in termini di occupazione e reddito, l’Irlanda, e in misura minore la Spagna, sono riuscite a registrare significativi recuperi di competitività anche mediante riduzioni dei salari monetari e dei prezzi dei prodotti in Irlanda e soprattutto mediante aumenti di produttività e salari monetari stabili in Spagna. Ultimamente anche la Grecia e il Portogallo 35 sembrano aver compiuto progressi in questa direzione, mentre l’Italia è riuscita finora soltanto a fermare la perdita di competitività rispetto alla Germania, e in un altro grande paese dell’Unione monetaria, la Francia, la dinamica della competitività è stata anche meno soddisfacente che in Italia. Per effetto di queste dinamiche differenziate della competitività, si prospetta concretamente il rischio che nei prossimi anni i paesi che presenteranno maggiori difficoltà di permanenza nell’area euro non siano più Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, ma l’Italia e la Francia. La crisi dell’area euro evidenzia la grande importanza di far sì che fra paesi che utilizzano la stessa moneta le differenze di produttività siano compensate da differenze nel prezzo del lavoro. Ignorare questa verità economica fondamentale ha condotto ad una crisi gravissima all’interno dell’area euro, con costi elevatissimi in termini di disoccupazione, soprattutto in Grecia, Spagna e Portogallo. Ciò che vale per i rapporti fra paesi diversi vale anche per i rapporti fra le regioni di uno stesso paese. Ignorare ciò per le diverse regioni italiane ha comportato costi elevatissimi in termini di disoccupazione per le regioni del Mezzogiorno, e in particolare in per la Calabria, nonostante una politica fiscale fortemente espansiva proprio nelle regioni del Mezzogiorno. Riferimenti bibliografici Alesina A., Danninger S., Rostagno M. (2001), “Redistribution Through Public Employment: The Case of Italy”, IMF Staff Papers, vol. 48, n. 3, pp. 447-473). Blanchard O., Giavazzi F. (2002), “Current accounts deficits in the Euro area: The end of the Feldstein-Horioka puzzle?”, Brooking Papers on Economic Activity, n. 33, pp. 147-210. Capital Economics (2012), “Leaving the Euro: A Practical guide”, London, Capital Economics limited. CESifo (2013), CESifo World Economic Survey, February 2013. Draghi M. (2012), “Speech by Mario Draghi, President of the ECB, at the colloquium “Les défis de la compétitivité”, organised by Le Monde and l’Association Française des Entreprises Privées (AFEP), Paris, 13 March 2012. Draghi M. (2013), “Euro area Economic Situation and the Foundations for Growth”, presentation by Mario Draghi, President of the ECB, at the Euro Summit, Brussels, 14 March 2013. EEAG (2010), The EEAG Report on the European Economy 2010. EEAG (2011), The EEAG Report on the European Economy 2011. EEAG (2012), The EEAG Report on the European Economy 2012. 36 EEAG (2013), The EEAG Report on the European Economy 2013. European Commission (2012a), “Report from the Commission, the Alert Mechanism Report”, Brussels, 14/2/2012. European Commission (2012b), “Report of the European Commission on the Alert Mechanism Report, 2013”, Brussels, 28/11/2012. European Parliament and European Council (2011), “Regulation on the Prevention and Correction of Macroeconomic Imbalances”, Official Journal of the European Union, 23/11/2011. Eurostat (2013), “Newsrelease Euroindicators”, 15 March. Freund C., Warnock F. (2007), “Current Account Deficits in Industrial Countries: The Bigger they are the Harder they fall?”, in: R. Clarida ed., G7 Current accounts Imbalances: Sustainability and Adjustments, Chicago, University of Chicago Press. Giavazzi F., Spaventa L. (2010), “Why the Current Account Matters in a Monetary Union: Lessons from the Financial crisis in the Euro Area”, CEPR Discussion Paper 8008. Goldman Sachs (2012), “Achieving Fiscal and External Balance (Part 14)”, European Economic Analyst, 15, 22, 29 March and 12 April. IMF (2010), “The IMF-FSB Early Warning Exercise: Design and Methodological Toolkit”, Washington: IMF. Jüppner M., Schneider R. (2012), “Eurozone: How large is the need for external Adjustment?”, Allianz Economic Research & Corporate Development, Working Paper n. 152. Krugman P., Taylor L. (1978), “Contractionary Effects of Devaluations”, Journal of International Economics, vol. 8, pp. 445-56. Krugman P. (2012), “Latvian Competitiveness”, New York Times, 10 June. Lane P. R., Pels B. (2012), “Current Account Balances in Europe”, IIIS Discussion Paper, n. 397. Praussello F., “The Eurozone Experience: Monetary Integration in the Absence of a European Government”, Franco Angeli, Milano, 2012. Sinn H. W. (2010), “Rescuing Europe”, CESifo Forum, Vol. 11. 37 38