Università della Calabria - Dipartimento di Economia, Statistica e

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Università della Calabria - Dipartimento di Economia, Statistica e
Università della Calabria
Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza
(già Dipartimento di Economia e Statistica)
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Gruppo CALCOM
La carenza di competitività della Calabria
lezioni dalla crisi dell’area euro
Antonio Aquino
Giugno 2013
1
La carenza di competitività della Calabria
lezioni dalla crisi dell’area euro
Antonio Aquino
Università della Calabria
Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza
(già Dipartimento di Economia e statistica)
Sommario: 1. Introduzione. 2. L’euro: come e perché. 3. Il principale
indicatore della crisi dell’area euro: lo spread sui rendimenti dei titoli
di stato a lungo termine. 4. Le cause principali dello spread: squilibri
di finanza pubblica e squilibri competitivi. 4.1. Gli squilibri di finanza
pubblica. 4.2 Squilibri macroeconomici interni ed esterni. 4.3 Squilibri
competitivi fra i paesi dell’area euro. 4.4 Cause degli squilibri
competitivi fra i paesi dell’area euro. 4.5 Alcuni approfondimenti sulle
cause fondamentali dello squilibrio competitivo fra Italia e Germania.
5. Fattori che hanno contribuito a determinare la perdita di
competitività dell’Italia. 6. Come riportare in equilibrio competitivo i
paesi dell’Unione monetaria europea. 7. Una nuova “politica
industriale” per la Calabria. 8. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Due sono gli indicatori di sintesi che più efficacemente illustrano la
situazione economica della Calabria: il tasso di occupazione e il tasso di
dipendenza.
Il tasso di occupazione è pari al numero di persone occupate (in modo
sia regolare sia irregolare) per ogni cento abitanti in età da lavoro (tra 15 e 64
anni). Nel 2000, nel vertice di Lisbona, i capi di Governo dei paesi
dell’Unione europea avevano fissato come obiettivo per il 2010 un tasso di
occupazione del 70 per cento. Nel 2012 il tasso di occupazione è stato in
media di quasi il 68 per cento in Emilia Romagna (non molto distante
2
dall’obiettivo di Lisbona nonostante gli effetti della crisi finanziaria
internazionale), di circa il 65 per cento in media nelle regioni del Nord
dell’Italia, del 61 per cento nelle regioni del Centro, del 44 per cento nelle
regioni del Mezzogiorno, del 41,6 per cento in Calabria (valori ancora più
bassi che in Calabria sono stati registrati nel 2012 in Sicilia (41,2 per cento) e
in Campania (40 per cento)). (Banca d’Italia, l’economia delle Regioni
Italiane, giugno 2013, pag. 70).
Il tasso di dipendenza è pari alle importazioni nette in percentuale del
prodotto interno lordo; esso negli ultimi anni ha oscillato in Calabria intorno al
30 per cento, un valore che indica che per ogni 100 euro di beni prodotti in
Calabria ne sono utilizzati in Calabria per consumi e per investimenti per un
valore di circa 130 euro. Questo eccesso strutturale delle utilizzazioni rispetto
alla produzione interna viene finanziato automaticamente attraverso la finanza
pubblica, per il fatto che le spese pubbliche primarie sono proporzionali al
numero di abitanti delle diverse regioni italiane, mentre le entrate tributarie
crescono in modo progressivo al crescere del reddito delle diverse regioni. Le
importazioni nette delle diverse regioni italiane nel lungo periodo
corrispondono essenzialmente alla differenza fra entrate tributarie e spese
pubbliche primarie (“residuo fiscale”). Le importazioni nette positive della
Calabria e delle altre regioni del Mezzogiorno (in media circa il 20 per cento
del prodotto interno lordo) sono compensate da importazioni nette negative (e
quindi entrate tributarie maggiori delle spese pubbliche primarie) in gran parte
delle regioni del Nord dell’Italia, e in particolare in Lombardia (esportazioni
nette pari a quasi il 15 per cento del prodotto interno lordo).
In Calabria, nonostante una politica fiscale fortemente espansiva
(entrate tributarie per imposte e contributi sociali dell’ordine di meno della
metà della spesa pubblica “primaria”), gli indicatori di sintesi del mercato del
lavoro evidenziano un’accentuata carenza della domanda di lavoro; al
contrario, in Lombardia, nonostante una politica fiscale fortemente restrittiva
(entrate tributarie per imposte e contributi sociali di circa il 30 per cento più
elevate della spesa pubblica “primaria”), gli indicatori di sintesi del mercato
del lavoro evidenziano una domanda di lavoro molto elevata. Questo
“paradosso” deriva essenzialmente da un forte squilibrio competitivo fra
Calabria e Lombardia, e, più in generale, fra regioni del Nord e del Sud
dell’Italia. La insufficiente competitività delle produzioni calabresi fa sì che
per gran parte dei prodotti facilmente trasferibili nello spazio (soprattutto
prodotti dell’industria manifatturiera) il potere di acquisto disponibile in
Calabria si trasformi in domanda di beni (e quindi di lavoro) al di fuori della
Calabria. Al contrario, la forte competitività delle produzioni nelle regioni del
Nord dell’Italia, fa sì che in queste regioni vi sia una forte domanda di beni
facilmente trasferibili nello spazio in esse prodotti, proveniente non soltanto
3
dai residenti in quelle regioni, ma anche da residenti in altri paesi e in altre
regioni, anche del Mezzogiorno d’Italia.
Considerata l’attuale situazione dell’Italia dal punto di vista economico
e politico, sarebbe del tutto irrealistico pensare di poter stimolare una crescita
della domanda di lavoro in Calabria mediante una politica fiscale ancora più
espansiva (meno tasse e/o più spesa pubblica). Appare quindi essenziale
concentrare le risorse disponibili per stimolare una maggiore competitività
delle produzioni calabresi di beni facilmente trasferibili nello spazio
(manufatti, servizi informatici, servizi turistici, ecc.). In particolare,
andrebbero riservati alle produzioni di beni facilmente trasferibili nello spazio,
sia gli incentivi all’occupazione, sia quelli volti a stimolare le innovazioni. Nei
paragrafi successivi di questo lavoro vengono analizzati alcuni aspetti
essenziali della crisi dell’area euro, al fine di trarne delle utili indicazioni per
quel che riguarda le principali debolezze strutturali dell’economia della
Calabria.
2. L’euro: come e perché
Il regolamento monetario degli scambi rappresenta l’aspetto storicamente
più complesso e controverso delle relazioni economiche internazionali. La
moneta internazionale più utilizzata in passato è stata l’oro, una moneta
comune per gran parte dei paesi del mondo, in diversi paesi affiancata in
alcuni periodi dall’argento. Anche quando i pagamenti avvenivano non
mediante trasferimenti di oro o monete auree, ma con monete cartacee o
biglietti di banca, la rilevanza dell’oro come moneta internazionale derivava
dalla convertibilità, diretta o indiretta, delle monete cartacee in oro a un
rapporto di cambio predeterminato, e quindi dal legame fra disponibilità di oro
e quantità di moneta cartacea che ciascun paese poteva emettere. L’oro è
rimasto alla base del sistema dei pagamenti internazionali fino al 1971, quando
fu abbandonato gradualmente il sistema di regolamento dei pagamenti
internazionali concordato nel 1944 a Bretton Woods fra i principali paesi ad
economia di mercato. Il sistema di Bretton Woods prevedeva la possibilità per
le banche centrali dei paesi aderenti di convertire i dollari USA in oro al
prezzo di 35 dollari per oncia, e la convertibilità in dollari delle monete dei
paesi aderenti diversi dagli Stati Uniti a tassi di cambio fissi, modificabili
soltanto nel caso di “squilibri fondamentali” delle bilance dei pagamenti, con
il consenso di tutti i paesi. (La nozione di “squilibri fondamentali” di bilancia
dei pagamenti tuttavia non fu mai definita concretamente).
Nella conferenza del 1944 a Bretton Woods John Maynard Keynes, il
grande economista che partecipava alla conferenza in rappresentanza del
Regno Unito, aveva proposto come base del sistema monetario internazionale
4
fra i principali paesi ad economia di mercato una moneta internazionale
cartacea unica (il “bancor”) emessa da una banca centrale mondiale; prevalse
tuttavia la proposta americana, basata sull’utilizzazione dell’oro e del dollaro
USA come base del sistema monetario internazionale. Il sistema concordato a
Bretton Woods venne attuato gradualmente, e soltanto nel 1960 fu stabilita la
convertibilità in dollari delle monete di tutti i paesi aderenti.
Due furono le cause principali del crollo del sistema di Bretton Woods:
1) la crescita della produzione mondiale di oro fu del tutto insufficiente
rispetto alle esigenze di liquidità internazionale derivanti dalla fortissima
crescita del reddito e degli scambi internazionali negli anni cinquanta e
sessanta. Questa carenza avrebbe potuto essere colmata dal forte aumento
della disponibilità di dollari provocata dai crescenti disavanzi della bilancia
dei pagamenti americana; tuttavia, ma mano che crescevano le riserve in
dollari delle banche centrali non americane in rapporto alle riserve in oro degli
Stati Uniti, risultava sempre più evidente la difficoltà degli Stati Uniti di
mantenere l’impegno di convertire in oro le riserve in dollari delle banche
centrali degli altri paesi, al prezzo stabilito a Bretton Woods di 35 dollari per
oncia. Nel 1969 si pensò di poter rimediare a questo inconveniente istituendo
una sorta di moneta virtuale internazionale emessa dal Fondo Monetario
Internazionale (i “diritti speciali di prelievo”) per rimpiazzare gradualmente
l’oro come base del sistema dei pagamenti internazionali (“oro-carta”).
2) Forti squilibri nelle bilance dei pagamenti di alcuni fra i principali paesi,
e in particolare forti disavanzi di bilancia dei pagamenti per Francia, Regno
Unito e Stati Uniti, e forti avanzi per la Germania resero necessarie variazioni
rilevanti nei tassi di cambio fra le monete di questi paesi. Una volta che i
mercati si resero conto della possibilità che i tassi di cambio venissero
modificati, la speculazione finanziaria internazionale, resa sempre più potente
dalla crescita dei capitali finanziari e dalla sempre maggiore mobilità
internazionale di questi capitali, cominciò a seguire con grande attenzione ogni
possibile segnale premonitore delle difficoltà di bilancia dei pagamenti di
singoli paesi, a volte imponendo variazioni dei tassi di cambio, anche in
assenza di veri e propri squilibri fondamentali di bilancia dei pagamenti
(“aspettative auto-realizzantesi”).
Dopo alcuni tentativi di preservare il controllo dei governi e delle banche
centrali sui tassi di cambio, sia pur nell’ambito di più ampie fasce di
oscillazione, nel corso degli anni settanta i principali paesi passarono a un
sistema di tassi di cambio flessibili, vale a dire determinati esclusivamente dai
mercati. I paesi della Unione europea, tuttavia, cercarono di preservare la
stabilità dei tassi di cambio, prima prevedendo fasce di oscillazione meno
ampie (il “serpente monetario” europeo nell’ambito del “tunnel monetario”
mondiale), e poi mediante un vero e proprio “sistema monetario europeo”.
5
L’esperienza mostrò tuttavia l’impossibilità di mantenere a lungo stabili i tassi
di cambio fino a quando i diversi paesi continuavano ad avere monete diverse.
Il motivo fondamentale era che fino a quando i paesi avevano monete diverse
l’impegno dei governi di non consentire modifiche dei tassi di cambio non era
credibile, e quindi la speculazione finanziaria internazionale era in grado di
cogliere qualsiasi segnale premonitore di crisi di bilancia dei pagamenti per
imporre variazioni dei tassi di cambio. Si pensò allora di poter risolvere alla
radice il problema della variabilità dei tassi di cambio mediante l’adozione da
parte di diversi paesi dell’Unione europea di una moneta comune, ed
escludendo implicitamente la possibilità per i diversi paesi di uscire
dall’Unione monetaria. Purtroppo l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato
che neppure questa soluzione estrema è in grado di sradicare la possibilità che
si formino aspettative di variazioni dei tassi di cambio, poiché, anche se non
previsto esplicitamente, non si può escludere del tutto la possibilità che alcuni
paesi abbandonino la moneta comune per tornare ad adottare monete diverse.
3. Il principale indicatore della crisi dell’area euro: lo spread sui
rendimenti dei titoli di stato a lungo termine
Il principale indicatore della crisi dell’area euro è lo spread, vale a dire la
differenza fra i tassi d’interesse sui titoli di stato a lungo termine
(convenzionalmente a 10 anni) dei diversi paesi dell’area euro. Il termine di
riferimento è la Germania, ritenuto il paese finanziariamente più affidabile
dell’area euro, i cui titoli di stato a lungo termine hanno il tasso di rendimento
più basso fra i paesi dell’area euro (circa l’1,47 per cento annuo a marzo
2013). Le tabelle 1 e 2 evidenziano che fino al 2007 lo spread fra titoli di stato
italiani e titoli di stato tedeschi a 10 anni ha oscillato, come media annua,
intorno a 0,3 punti percentuali o 30 punti base. Lo spread dell’Italia rispetto
alla Germania è poi aumentato gradualmente fino a un massimo di 4 punti
percentuali (400 punti base) nella media del 2012 (con punte superiori a 500
punti base negli ultimi mesi del 2012), per diminuire poi verso 320 punti base
nel marzo 2013 (a febbraio 2013 la differenza era diminuita fino a un minimo
di circa 250 punti base). La tabella 1 evidenzia che, nonostante il forte
aumento dello spread rispetto alla Germania, il tasso d’interesse sui titoli di
stato italiani a 10 anni era nel marzo 2013 anche più basso che nei primi anni
dell’euro; ciò perché il tasso d’interesse sui titoli di stato tedeschi a 10 anni ha
toccato nel 2012-2013 livelli storicamente estremamente bassi (circa 1,5 per
cento all’anno) per effetto della forte diminuzione della domanda di beni per
investimenti provocata dalla crisi finanziaria internazionale.
6
Tabella 1 - Tasso d'interesse sui titoli di stato a 10 anni.
Germania
Italia
Francia Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
1998
4,6 4,9
4,6
4,8 8,5
4,9
4,7 5,3
1,5
5,6
1999
4,5 4,7
4,6
4,7 6,3
4,8
4,8 5,6
1,7
5,1
2000
5,3 5,6
5,4
5,5 6,1
5,6
5,5 6,0
1,7
5,3
2001
4,8 5,2
4,9
5,1 5,3
5,2
5,0 5,0
1,3
4,9
2002
4,8 5,0
4,9
5,0 5,1
5,0
5,0 4,6
1,3
4,9
2003
4,1 4,3
4,1
4,1 4,3
4,2
4,1 4,0
1,0
4,5
2004
4,0 4,3
4,1
4,1 4,3
4,1
4,1 4,3
1,5
4,9
2005
3,4 3,6
3,4
3,4 3,6
3,4
3,3 4,3
1,4
4,4
2006
3,8 4,0
3,8
3,8 4,1
3,9
3,8 4,8
1,7
4,5
2007
4,2 4,5
4,3
4,3 4,5
4,4
4,3 4,6
1,7
5,0
2008
4,0 4,7
4,2
4,4 4,8
4,5
4,6 3,7
1,5
4,6
2009
3,2 4,3
3,6
4,0 5,2
4,2
5,2 3,3
1,3
3,6
2010
2,7 4,0
3,1
4,2 9,1
5,4
6,0 3,2
1,1
3,6
2011
2,6 5,4
3,3
5,4 15,7 10,2
9,6 2,8
1,1
3,1
2012
1,5 5,5
2,6
5,9 22,9 11,0
6,0 1,8
0,8
1,9
2013
03
1,5 4,7
2,1
4,7 10,7
5,9
3,6 2,0
0,6
2,2
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 35;
The Economist, 22 marzo 2013.
Lo spread della Spagna rispetto alla Germania è stato leggermente più
basso di quello dell’Italia fra il 1998 e il 2009, sostanzialmente uguale nel
biennio 2010-2011, leggermente più alto nel 2012-2013. Gli anni migliori per
la Spagna sono stati quelli fra il 2003 e il 2007, quando il tasso d’interesse sui
titoli di stato spagnoli era sostanzialmente uguale a quello su titoli di stato
tedeschi; l’anno peggiore è stato il 2012, con uno spread medio annuo di circa
440 punti base. Pure nel caso della Spagna il tasso d’interesse sui titoli di stato
decennali si è mantenuto anche negli anni più difficili su livelli analoghi a
quelli dei primi anni dell’euro. Situazioni molto più critiche sono evidenziate
dallo spread per l’Irlanda, il Portogallo e, soprattutto, la Grecia. Per questi tre
paesi lo spread rispetto alla Germania si è mantenuto fino al 2007 su livelli
molto bassi; nel 2005 il tasso d’interesse sui titoli di stato decennali era in
Portogallo allo stesso livello che in Germania e in Irlanda addirittura
7
leggermente più basso che in Germania. Lo spread di questi tre paesi rispetto
alla Germania ha cominciato ad aumentare gradualmente a partire dal 2008,
raggiungendo un massimo di 700 punti base in Irlanda nel 2011, 950 punti
base in Portogallo nel 2012 e addirittura di 2.140 punti base in Grecia nel
2012. Negli anni successivi la situazione è migliorata sensibilmente,
soprattutto per l’Irlanda il cui spread rispetto alla Germania è diminuito a 450
punti base nel 2012 e a 210 punti base nel marzo 2013, ma anche per il
Portogallo (440 punti base a marzo 2013) e per la Grecia (920 punti base a
marzo 2013). Leggermente critica appare anche la situazione della Francia, il
cui spread rispetto alla Germania è stato pari a 110 punti base in media nel
corso del 2012, diminuendo poi a circa 60 punti base a marzo 2013.
Tabella 2 - Spread rispetto alla Germania nel tasso d'interesse
sui titoli di stato a 10 anni.
Italia
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013 03
0,3
0,2
0,3
0,4
0,2
0,2
0,3
0,2
0,2
0,3
0,7
1,1
1,3
2,8
4,0
3,2
Francia Spagna
0,0
0,1
0,1
0,1
0,1
0,0
0,1
0,0
0,0
0,1
0,2
0,4
0,4
0,7
1,1
0,6
0,2
0,2
0,2
0,3
0,2
0,0
0,1
0,0
0,0
0,1
0,4
0,8
1,5
2,8
4,4
3,2
Grecia
Portogallo
3,9
1,8
0,8
0,5
0,3
0,2
0,3
0,2
0,3
0,3
0,8
2,0
6,4
13,1
21,4
9,2
0,3
0,3
0,3
0,4
0,2
0,1
0,1
0,0
0,1
0,2
0,5
1,0
2,7
7,6
9,5
4,4
Irlanda
Stati
Uniti
0,1 0,7
0,3 1,1
0,2 0,7
0,2 0,2
0,2 -0,2
0,0 -0,1
0,1 0,3
-0,1 0,9
0,0 1,0
0,1 0,4
0,6 -0,3
2,0 0,1
3,3 0,5
7,0 0,2
4,5 0,3
2,1 0,5
Giappone
-3,1
-2,8
-3,6
-3,5
-3,5
-3,1
-2,5
-2,0
-2,1
-2,5
-2,5
-1,9
-1,6
-1,5
-0,7
-0,9
Regno
Unito
1,0
0,6
0,0
0,1
0,1
0,4
0,9
1,0
0,7
0,8
0,6
0,4
0,9
0,5
0,4
0,7
Fonti: Elaborazioni su dati tabella 1.
8
4. Le cause principali dello spread: squilibri di finanza pubblica e
squilibri competitivi.
4.1 Gli squilibri di finanza pubblica
Lo spread fra i rendimenti dei titoli di stato dei diversi paesi dell’area euro
fino al 2010 è stato principalmente attribuito a differenze dal punto di vista
della finanza pubblica, e in particolare all’ammontare di debito pubblico
accumulato in passato e al disavanzo corrente delle amministrazioni pubbliche
in rapporto al prodotto interno lordo. Questa spiegazione dello spread non
sembra essere tuttavia del tutto coerente con i valori degli indicatori di finanza
pubblica riportati nelle tabelle 3 e 4. Per quel che riguarda i valori del debito
delle amministrazioni pubbliche in percentuale del prodotto interno lordo
riportati nella tabella 3, la percentuale relativa all’Italia per il 2012 (127,6), pur
molto elevata, è tuttavia più bassa di quella del 1998 (131,8). Inoltre, mentre il
debito pubblico dell’Italia in rapporto al prodotto interno lordo è tornato nel
2012-2013 verso i livelli dei primi anni dell’euro, dopo essere diminuito fino a
un minimo del 112% del prodotto interno lordo nel 2007, il debito pubblico
della Germania è aumentato dal 60% del prodotto interno lordo nel 2001, al
66% nel 2007, all’88% nel 2012. Un aumento del debito pubblico ancora più
forte è stato registrato dalla Francia dal 70% del prodotto interno lordo nel
1998, al 73% nel 2007, al 105% nel 2012, mentre anche la Spagna, così come
l’Italia, aveva fino al 2011 un debito pubblico in rapporto al PIL analogo a
quello del 1998 (75-77 per cento).
Guardando ad alcuni grandi paesi al di fuori dell’area euro, fortissimi
aumenti del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo sono stati
registrati, soprattutto per effetto della crisi finanziaria internazionale, dagli
Stati Uniti (dal 54% del PIL nel 2000-2001, al 66% nel 2007, al 110% nel
2012) e dal Regno Unito (dal 40% del PIL nel 2001, al 47% nel 2007, al 105%
nel 2012), e ancora di più dal Giappone (dall’88% del PIL nel 1995, al 162%
nel 2007, al 214% nel 2012). Ciononostante, il tasso d’interesse sui titoli di
stato a lungo termine è stato negli ultimi anni soltanto di poco più alto che in
Germania in Francia, Stati Uniti e Regno Unito, e addirittura più basso che in
Germania in Giappone. Guardando al saldo delle amministrazioni pubbliche
nel 2012, troviamo un disavanzo sensibilmente più basso in Italia (3% del PIL)
che in Francia (4,5%), Spagna (8%), Stati Uniti (8,5%), Giappone (9,9%), e
Regno Unito (6,6%). Sembra quindi difficile poter spiegare in termini di
squilibri di finanza pubblica tassi d’interesse sui titoli di stato a lungo termine
molto più alti in Italia e Spagna che in Francia, Stati Uniti, Regno Unito, e
Giappone.
9
Tabella 3 - Debito lordo delle amministrazioni pubbliche
in percentuale del prodotto interno lordo.
Germania
Italia
Francia
Spagna
Greci Porto Irlana
-gallo
da
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
55,7
121,9
62,6
69,3
101,1
66,7 nd
70,7
87,7
51,0
75,5
1996
58,8
128,1
66,4
76,0
103,1
66,5 nd
69,9
95,4
50,8
80
1997
60,4
129,6
68,9
75,0
100,0
65,2 nd
67,4
102,0
51,7
81
1998
62,3
131,8
70,4
75,4
97,7
64,6
62,4
64,2
114,9
52,3
81,6
1999
61,8
125,7
66,8
69,4
101,5
62,3
51,5
60,5
129,0
47,4
78,2
2000
60,8
120,8
65,7
66,5
115,3
62,4
39,3
54,5
137,6
45,2
76
2001
60,1
120,1
64,3
61,9
118,1
64,2
36,5
54,4
144,7
40,5
74,4
2002
62,5
118,8
67,5
60,3
117,6
68,0
35,5
56,8
153,5
41,1
75,4
2003
65,9
116,3
71,7
55,3
112,3
70,2
34,2
60,2
158,3
41,6
76,1
2004
69,3
115,8
74,1
53,3
114,8
73,5
32,8
67,8
166,3
43,9
77,3
2005
71,8
119,4
76,0
50,8
113,4
77,7
32,7
67,4
169,5
46,1
78,2
2006
69,8
117,0
71,2
46,2
117,2
77,5
28,8
66,1
166,8
45,9
74,7
2007
65,6
112,4
73,0
42,4
115,2
75,5
28,7
66,5
162,4
47,0
71,9
2008
69,9
114,9
79,3
47,7
118,5
80,8
49,7
75,4
171,1
57,1
77,1
2009
77,5
128,0
91,2
62,9
134,3
93,5
70,7
88,8
188,7
72,0
87,8
2010
86,3
126,7
95,5
67,7
153,0
103,9
98,1
97,8
192,7
85,6
93,1
2011
86,4
119,8
100,0
76,9
175,2
118,1
112,2
102,2
205,3
99,9
95,2
2012
87,6
127,0
105,1
93,8
181,3
125,6
123,2
109,8
214,3
105,3
100,6
2013(*)
86,2
129,6
108,2
100,2
193,2
133,1
127,7
113,0
224,3
110,4
102,5
2014(*)
85,1
131,4
109,7
105,3
199,9
134,6
127,8
114,1
230,0
113,9
103,4
nd: non disponibile; (*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 32.
10
Tabella 4 - Saldo delle amministrazioni pubbliche in percentuale del prodotto interno lordo.
Germania
Italia
Francia
Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
-9,5
-7,4
-5,5
-7,2
-9,1
-5,4
-2,2
-3,3
-4,6
-5,8
-7,5
1996
-3,3
-7,0
-4,0
-5,5
-6,6
-4,8
-0,3
-2,3
-4,9
-4,1
-4,3
1997
-2,7
-2,7
-3,3
-4,0
-5,9
-3,7
1,3
-0,9
-3,8
-2,2
-2,8
1998
-2,3
-2,9
-2,6
-3,0
-3,8
-3,9
2,1
0,3
-11,0
-0,1
-2,4
1999
-1
-2,0
-1,8
-1,2
-3,1
-3,1
2,5
0,7
-7,1
0,9
-1,5
2000
1,1
-0,9
-1,5
-1,0
-3,7
-3,3
4,8
1,5
-7,4
3,7
-0,1
2001
-3,1
-3,2
-1,7
-0,5
-4,4
-4,8
1,0
-0,6
-6,0
0,6
-2,0
2002
-3,6
-3,2
-3,3
-0,2
-4,8
-3,4
-0,3
-4,0
-7,7
-2,0
-2,7
2003
-4,1
-3,6
-4,1
-0,4
-5,7
-3,7
0,4
-5,0
-7,7
-3,7
-3,2
2004
-3,8
-3,6
-3,6
-0,1
-7,4
-4,0
1,4
-4,4
-5,9
-3,6
-2,9
2005
-3,3
-4,5
-3,0
1,3
-5,6
-6,5
1,7
-3,3
-4,8
-3,3
-2,6
2006
-1,7
-3,4
-2,4
2,4
-6,0
-4,6
2,9
-2,2
-1,3
-2,7
-1,4
2007
0,2
-1,6
-2,7
1,9
-6,8
-3,2
0,1
-2,9
-2,1
-2,8
-0,7
2008
-0,1
-2,7
-3,3
-4,5
-9,9
-3,7
-7,4
-6,6
-1,9
-5,0
-2,1
2009
-3,1
-5,4
-7,6
-11,2
-15,6
-10,2
-13,9
-11,9
-8,8
-10,9
-6,3
2010
-4,2
-4,3
-7,1
-9,7
-10,8
-9,8
-30,9
-11,4
-8,4
-10,1
-6,2
2011
-0,8
-3,8
-5,2
-9,4
-9,5
-4,4
-13,3
-10,2
-9,3
-8,3
-4,1
2012
-0,2
-3,0
-4,5
-8,1
-6,9
-5,2
-8,1
-8,5
-9,9
-6,6
-3,3
2013
03
0,1
-3,0
-4,5
-8,0
-6,6
-5,1
-8,3
-7,0
-9,8
-8,3
-3,3
2013(*)
-0,4
-2,9
-3,4
-6,3
-5,6
-4,9
-7,5
-6,8
-10,1
-6,9
-2,8
2014(*)
-0,7
-3,4
-2,9
-5,9
-4,6
-2,9
-5,3
-5,2
-7,9
-6,0
-2,6
(*) Previsioni.
Fonti: OECD, Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 27; The Economist, 9 marzo
2013.
4.2 Squilibri macroeconomici interni ed esterni
Nel definire gli impegni dei paesi aderenti all’Unione monetaria europea
l’attenzione fu concentrata prevalentemente sugli equilibri di finanza pubblica
(impegno a mantenere i disavanzi delle amministrazioni pubbliche entro il
limite massimo del 3 per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico
complessivo entro il limite massimo del 60 per cento del prodotto interno
lordo, o comunque decrescente verso questo livello). Non venne prestata
sufficiente attenzione alla possibilità che il mantenimento della moneta
11
comune potesse essere reso difficile dall’emergere di squilibri competitivi
determinati da dinamiche differenziate del costo del lavoro, e quindi dei prezzi
dei prodotti, nei diversi paesi. Forse ciò accadde perché si diede per scontato
che una politica monetaria comune avesse come conseguenza automatica
dinamiche analoghe dei prezzi dei prodotti nei diversi paesi. Purtroppo
l’esperienza ha dimostrato che una politica monetaria comune non comporta
automaticamente analoghe dinamiche dei prezzi dei prodotti nei diversi paesi,
e la presenza di dinamiche differenziate del costo del lavoro e dei prezzi dei
prodotti sembra essere stata la causa fondamentale della crisi dell’area euro1.
Un altro motivo per cui fu data poca importanza agli squilibri competitivi
fra paesi dell’area euro fu un eccesso di ottimismo sul processo di
convergenza. Si riteneva cioè che i movimenti di capitale dai paesi più
efficienti verso quelli meno efficienti, derivanti dagli avanzi correnti di
bilancia dei pagamenti dei paesi più efficienti e conseguenti disavanzi dei
paesi meno efficienti, avrebbero ridotto rapidamente le differenze di
produttività, eliminando così gli squilibri competitivi. Questa convinzione si
basava sull’ipotesi che le differenze di produttività fra i diversi paesi dell’ara
euro derivassero esclusivamente, o almeno principalmente, da differenze nella
dotazione di capitale per abitante (EEAG, 2013, capitolo 2) 2. Una convinzione
1
Secondo the EEAG Report on the European Economy per il 2013 (EEAG, 2013,
capitolo 2) un altro motivo per cui fu data poca importanza agli squilibri competitivi
fra paesi dell’area euro fu un eccesso di ottimismo sul processo di convergenza. Si
riteneva cioè che i movimenti di capitale dai paesi più efficienti verso i paesi meno
efficienti, derivanti dagli avanzi correnti di bilancia dei pagamenti dei paesi più
efficienti e conseguenti disavanzi dei paesi meno efficienti, avrebbero ridotto
rapidamente le differenze di produttività, eliminando così gli squilibri competitivi.
Questa convinzione si basava sull’ipotesi che le differenze di produttività fra i diversi
paesi dell’area euro derivassero esclusivamente, o almeno principalmente, da
differenze nella dotazione di capitale per abitante. Una convinzione analoga sembra
essere alla base delle politiche strutturali di riequilibrio regionale dell’Unione
europea, anche in questo caso con risultati fortemente insoddisfacenti, almeno per il
Sud dell’Italia.
2
Un’analisi teorica a sostegno di questa convinzione fu presentata nei primi anni
duemila da Blanchard e Giavazzi: “.... we discuss whether the current attitude of
benign neglect vis a vis the current account in Euro area countries is appropriate, or
whether countries such as Portugal and Greece should worry and take measures to
reduce their deficits. We conclude that, to a first order, they should not“ (Blanchard e
Giavazzi, 2002, p. 149). Valutazioni negative sugli squilibri di bilancia dei
pagamenti fra i paesi dell’area euro sono state però espresse successivamente da
Giavazzi e Spaventa (2010), soprattutto per il fatto che gli afflussi di capitale consentiti dai disavanzi correnti di bilanci dei pagamenti hanno finanziato spesso non lo
12
analoga sembra essere alla base delle politiche strutturali di riequilibrio
regionale dell’Unione europea, anche in questo caso con risultati fortemente
insoddisfacenti, almeno per il Sud dell’Italia.
A partire dal 2010, emerse sempre più chiaramente la consapevolezza che
altri squilibri, e in particolare gli squilibri competitivi, possono essere
pericolosi per la stabilità dell’Unione monetaria europea. A partire dagli ultimi
mesi del 2011 fu concordata a livello europeo una procedura per la
prevenzione e la correzione di eventuali squilibri di natura macroeconomica,
sia interni che esterni (MIP = macroeconomic imbalance procedure). Questa
procedura prevede la pubblicazione periodica dei rapporti aventi l’obiettivo di
individuare segnali di eventuali squilibri macroeconomici nei paesi
dell’Unione europea (Alert Mechanism Report). Ai paesi per i quali vengono
evidenziati segnali premonitori di squilibrio macroeconomico vengono
successivamente dedicate analisi più approfondite. I primi due rapporti di
questo tipo sono stati pubblicati a febbraio e a novembre 2012 3. In seguito ai
risultati del rapporto pubblicato a febbraio 2012 furono effettuate entro
maggio 2012 delle analisi di approfondimento per 12 paesi dell’Unione
europea: Belgio, Bulgaria, Danimarca, Spagna, Francia,Italia, Cipro,
Ungheria, Slovenia, Finlandia, Svezia, Regno Unito. Sulla base di queste
analisi approfondite furono formulate delle raccomandazioni specifiche per i
singoli paesi da parte del Consiglio dell’Unione europea a luglio 2012.
Nei rapporti periodici vengono considerati indicatori di squilibri
macroeconomici sia esterni che interni. Quali indicatori premonitori di
squilibri macroeconomici esterni vengono considerati il saldo del conto
corrente della bilancia dei pagamenti in % del PIL per gli ultimi 3 anni, la
posizione dal punto di vista degli investimenti internazionali netti, la
variazione del tasso di cambio effettivo reale sulla base dell’indice
armonizzato dei prezzi al consumo negli ultimi 3 anni, la variazione della
quota di mercato all’esportazione negli ultimi 5 anni, la variazione nominale
del costo unitario del lavoro negli ultimi 3 anni. Gli indicatori premonitori di
squilibri macroeconomici interni sono la variazione dell’indice dei prezzi delle
case, il flusso dei crediti verso il settore privato, il debito complessivo del
settore privato in % del prodotto interno lordo, il debito pubblico in % del
sviluppo di settori produttivi a mercato internazionale ma il boom edilizio in Spagna e
Irlanda e la crescita del numero e delle retribuzioni dei dipendenti pubblici in Grecia.
Distorsioni analoghe a quelle verificatesi in Grecia sono state probabilmente generate
dai flussi di risorse pubbliche verso il Sud dell’Italia (Alesina, Danninger e Rostagno,
2001).
3
European Parliament and European Council (2011), European Commission (2012a,
2012b)
13
prodotto interno lordo, il tasso di disoccupazione medio negli ultimi 3 anni, la
variazione delle passività complessive del settore finanziario. Indicatori
addizionali utilizzati nei rapporti periodici previsti dalla procedura per gli
squilibri macroeconomici sono il tasso di crescita del PIL, gli investimenti
lordi in % del PIL, la spesa in ricerca e sviluppo in % del PIL, il saldo corrente
di bilancia dei pagamenti in % del PIL, l’indebitamento netto verso l’estero in
% del PIL, il debito netto verso l’estero in % del PIL, gli afflussi di
investimenti diretti esteri in % del PIL, le importazioni nette di prodotti
energetici in % del PIL, la variazione per gli ultimi 3 anni del tasso di cambio
effettivo reale nei confronti dell’Unione monetaria europea, la variazione
della quota di mercato delle esportazioni in volume, la crescita della
produttività del lavoro, la crescita dell’occupazione, la variazione del conto
unitario nominale del lavoro negli ultimi 10 anni, la variazione negli ultimi 10
anni del costo unitario del lavoro in rapporto ai paesi dell’Unione monetaria
europea, la variazione triennale nel prezzo nominale della case, le costruzioni
residenziali in % del PIL, il debito consolidato del settore privato in % del
PIL, il rapporto di leverage del settore finanziario (debito/azioni).
4.3 Squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro
La causa fondamentale della crisi dell’euro è uno squilibrio competitivo fra
i paesi dell’area euro, e in particolare fra la Germania, l’Olanda e l’Austria da
un lato, e Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna, e forse anche Francia,
dall’altro.
L’indicatore più significativo della situazione competitiva di un paese è il
saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Per l’Italia, il saldo del
conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero aveva registrato un
avanzo massimo corrispondente al 3 per cento del prodotto interno lordo nel
1996, come conseguenza del forte aumento di competitività derivante dalla
svalutazione della lira negli anni fra il 1992 e il 1995; nello stesso anno il
saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi aveva registrato un avanzo
pari a quasi 60 miliardi di dollari. Negli anni successivi, tuttavia, diminuì
rapidamente sia l’avanzo degli scambi con l’estero di merci e servizi (47
miliardi nel 1997, 39 nel 1998, 23 nel 1999, 11 nel 2000) sia l’avanzo del
conto corrente (2,7% del PIL nel 1997, 1,7% nel 1998, 0,7% nel 1999, - 0,5%
nel 2000); al saldo negativo del conto corrente registrato nel 2000 contribuì
forse anche un forte aumento della domanda interna che stimolò una crescita
del PIL pari al 3,9%, il tasso annuo di crescita più elevato registrato dall’Italia
negli ultimi 20 anni. Negli anni successivi l’Italia registrò disavanzi crescenti
nel conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero, fino a un massimo
14
del 3,5% nel 2010; il disavanzo diminuì poi al 3,2% del PIL nel 2011 e allo
0,9% nel 2012, e l’OECD prevedeva a fine 2012 leggeri avanzi per il 2013 e il
2014 (l’Economist del 22 marzo 2013 prevede tuttavia per il 2013 un
disavanzo corrente pari allo 0,7% del PIL). Il forte disavanzo corrente del
2010 fu determinato da disavanzi di 40 miliardi di dollari negli scambi con
l’estero di merci e servizi, di 11 miliardi nei redditi da investimenti
internazionali e di 22 miliardi nei trasferimenti internazionali unilaterali netti.
Fra il 2010 e il 2012 si è avuto un fortissimo miglioramento nel saldo degli
scambi con l’estero di merci e servizi (da un disavanzo di 40 miliardi di dollari
a un avanzo di 14 miliardi, mentre è rimasto sostanzialmente inalterato il
disavanzo complessivo dei redditi da investimenti e internazionali e dei
trasferimenti unilaterali. Per il 2013 l’OECD prevede un aumento a 32 miliardi
di dollari del saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi, e leggere
diminuzioni dei disavanzi dei redditi da investimenti e dei trasferimenti
unilaterali.
Al forte miglioramento del saldo degli scambi con l’estero di merci e
servizi nel 2012 ha contribuito certamente la forte riduzione della domanda
interna, che ha comportato una diminuzione del prodotto interno lordo del
2,8%; anche la previsione di un ulteriore miglioramento del saldo corrente per
il 2013 dipende dalla previsione di una diminuzione della domanda interna che
potrebbe provocare una diminuzione del PIL di oltre l’1%; il problema è cosa
accadrà al saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi, e più in generale
al saldo corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero, dell’Italia quando la
domanda interna di merci e servizi riprenderà ad aumentare.
Il contributo della riduzione della domanda interna al miglioramento del
saldo degli scambi con l’estero di merci e servizi è evidente soprattutto per
quel che riguarda le importazioni di merci, il cui valore complessivo è
diminuito nel 2012 del 5,7%, in misura quindi circa doppia rispetto alla
riduzione complessiva della domanda interna; le diminuzioni più forti si sono
verificate per le importazioni di beni strumentali (-13%), di prodotti intermedi
(-10%), di beni di consumo durevoli (-7%). Significativa è stata però anche la
crescita del valore delle esportazioni di merci (+3,7%, in totale; +2,8%
escludendo i prodotti energetici).
15
Tabella 5 - Saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in percentuale del prodotto interno lordo.
Germania
Italia
Francia
Spa- Grecia
gna
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
-1,2
2,1
0,7
-0,3
-2,4
-0,1
2,5
-1,5
2,1
-1,4
0,7
1996
-0,6
3,0
1,3
-0,2
-3,7
-4,1
2,7
-1,6
1,4
-0,9
1,0
1997
-0,4
2,7
2,6
-0,1
-3,9
-5,9
2,4
-1,7
2,2
-0,1
1,4
1998
-0,8
1,7
2,6
-1,2
-2,8
-7,1
0,8
-2,4
3,0
-0,4
0,8
1999
-1,3
0,7
3,2
-2,9
-5,6
-8,7
0,6
-3,2
2,6
-2,7
0,3
2000
-1,8
-0,5
1,4
-4,0
-7,8
-10,3
0,0
-4,2
2,5
-2,9
-0,6
2001
0,0
0,0
1,8
-3,9
-7,2
-10,3
-0,6
-3,9
2,1
-2,3
0,1
2002
2,0
-0,9
1,2
-3,3
-6,5
-8,2
-1,0
-4,3
2,8
-2,1
0,6
2003
1,9
-1,4
0,8
-3,5
-6,5
-6,4
0,0
-4,7
3,2
-1,7
0,5
2004
4,6
-0,9
0,5
-5,2
-5,8
-8,3
-0,6
-5,3
3,7
-2,1
1,2
2005
5,0
-1,6
-0,5
-7,4
-7,6
-10,3
-3,5
-5,9
3,7
-2,1
0,4
2006
6,2
-2,5
-0,6
-11,4
-10,7
-3,5
-6,0
3,9
-2,9
0,3
-14,6
-10,1
-5,4
-5,1
4,8
-2,3
0,2
7,5
-2,4
-9,0
-1,0 10,0
2008
6,2
-3,1
-1,8
-9,6
-14,9
-12,6
-5,7
-4,7
3,4
-1,0
-0,7
2009
5,9
-1,9
-1,3
-4,8
-11,2
-10,9
-2,3
-2,7
2,9
-1,3
0,3
2010
5,9
-3,5
-1,6
-4,5
-10,1
-10,0
1,1
-3,0
3,7
-2,5
0,5
2011
5,7
-3,2
-2,0
-3,5
-9,9
-6,5
1,1
-3,1
2,1
-1,9
0,5
2012
6,4
-0,9
-2,1
-2,0
-5,5
-2,9
4,0
-3,0
1,1
-3,3
1,4
2013 03
6,0
-1,5
-2,1
-2,2
-2,9
-2,4
3,3
-3,0
1,0
-3,5
0,6
2013(*)
5,9
0,3
-2,0
0,5
-4,6
-1,5
5,2
-3
1,2
-3,5
1,9
2014(*)
5,3
0,7
-1,9
1,8
-2,3
-0,6
6,4
-3,2
1,5
-3,1
2,2
2007
(*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 51; The Economist, 9 marzo 2013.
16
Tabella 6 - Saldo degli scambi con l'estero di merci e servizi (miliardi di dollari USA).
Germa- Italia
nia
Fran-cia Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
15,0
43,6
23,2
0,0
-12,6
-7,9
7,8
-90,7
73,1
6,6
116,8
1996
23,6
59,7
25,0
3,3
-14,4
-8,7
8,7
21,8
5,6
135,3
27,9
47,0
40,6
5,0
-13,3
-9,4
10,4
46,3
9,6
147,2
29,7
39,2
37,3
-15,0
-11,4
10,2
73,2
-9,0
128,2
18,2
23,2
31,3
-16,0
-13,0
13,3
70,6
-21,9
89,3
6,1
10,6
13,3
-17,6
-10,3
12,9
68,6
-27,1
39,3
37,7
15,5
15,4
-17,6
-12,3
16,3
26,6
-33,4
87,9
91,8
11,4
22,0
-20,5
-11,0
21,3
53,5
-43,8
167,3
96,5
8,3
16,1
-24,3
-11,0
25,5
71,7
-42,2
165,2
135,2
12,1
8,6
-23,5
-15,5
27,8
91,2
-60,4
194,8
143,6
-0,9
-13,0
-22,3
-18,1
23,9
64,6
-64,5
148,1
164,7
-15,1
-23,6
-30,0
-17,5
21,6
54,7
-64,5
122,1
236,0
-5,3
-40,5
-43,4
-18,6
23,4
73,7
-75,3
182,5
229,2
-19,1
-60,0
-50,0
-25,5
23,8
8,4
-62,6
126,9
163,7
-11,1
-47,8
-36,9
-17,4
36,3
18,8
-31,9
164,7
181,3
-39,8
-55,3
-27,4
-16,4
39,1
65,5
-48,7
161,6
180,4
-32,6
-77,7
-1,4
11,3
18,2
15,4
14,7
21,2
41,9
59,4
78,7
97,3
93,7
27,3
30,5
11,7
-23,5
-9,1
48,6
-54,6
-38,0
186,5
191,9
13,9
-14,7
0,2
52,2
-117,2
-68,7
306,2
241,9
13,9
-58,8 15,8
-86,1 39,6
-25,9
-13,7
55,3
-67,4 -109,1
104,4
175,7
32,5
-56,0 49,7
-10,0
5,0
56,6
159,5
41,5
-56,0 69,0
-3,5
6,9
61,4
-96,3
101,4
161,8
262,1
382,1
371,0
427,2
504,1
618,7
722,7
769,3
713,1
709,7
388,7
511,6
568,1
564,1
735,7
586,4
653,5
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013 03
2013(*)
2014(*)
-121,8
-77,0
365,0
-106,4
-70,6
404,7
(*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 47; The Economist, 9 marzo 2013.
Anche la crescita delle esportazioni è stata probabilmente spinta dalla
riduzione della domanda interna, poiché molte imprese hanno
presumibilmente reagito alla riduzione della domanda interna aumentando gli
sforzi di vendita sui mercati esteri.
17
Tabella 7 - Saldo dei redditi da investimenti internazionali (miliardi di dollari USA).
Germa- Italia
nia
Francia
Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
-2,8
-14,1
-8,4
-5,4
-1,9
0,2
-7,3
20,9
45,3
-3,1
-30,1
1996
0,7
-14,8
-1,9
-7,5
-2,4
-0,9
-8,2
22,3
53,3
-5,4
-27,5
1997
-2,7
-11,2
7,1
-7,4
-1,7
-1,3
-9,7
12,6
58,0
-1,9
-17,2
1998
-10,8
-12,3
8,7
-8,6
-1,6
-1,5
-10,5
4,3
54,3
17,1
-37,3
1999
-13,5
-11,1
22,8
-9,5
-0,7
-1,6
-13,5
11,9
57,5
-6,5
-22,8
2000
-9,2
-12,0
19,4
-6,9
-0,9
-2,4
-13,8
19,2
60,8
-0,4
-27,4
2001
-10,5
-10,4
19,5
-11,3
-1,8
-3,5
-16,4
29,7
68,7
8,4
-36,0
2002
-18,3
-14,6
8,7
-11,6
-2,0
-3,0
-22,4
25,2
65,8
23,6
-65,0
2003
-18,2
-20,2
14,9
-11,7
-4,5
-2,6
-24,8
43,7
71,8
26,5
-69,7
2004
23,6
-18,4
22,6
-15,1
-5,4
-3,7
-28,0
65,1
86,2
32,4
-16,2
2005
29,1
-17,1
29,5
-21,3
-7,0
-4,8
-30,9
68,6
105,2
39,1
-25,3
2006
55,0
-17,1
37,2
-29,2
-9,1
-7,9
-30,2
44,2
119,7
14,1
7,5
2007
59,1
-26,8
42,8
-41,3
-12,7
-9,7
-38,2
101,5
139,1
38,4
-44,6
2008
48,9
-28,3
48,6
-52,1
-15,6
-11,5
-36,9
147,1
156,6
62,4
-74,9
2009
82,2
-14,3
45,6
-35,5
-12,5
-12,2
-38,9
119,7
136,6
28,3
-6,4
2010
66,4
-11,0
53,9
-26,2
-10,2
-10,5
-34,4
183,9
143,0
22,6
26,0
2011
68,8
-16,6
65,3
-36,3
-12,0
-11,9
-44,3
227,0
178,2
27,5
20,2
2012
71,6
-9,1
45,2
-31,7
-5,4
-10,6
-42,1
217,3
180,9
21,3
17,4
2013(*)
75,9
-9,0
46,2
-35,0
-7,1
-11,4
-43,8
241,4
193,1
23,8
14,7
2014(*)
79,0
-9,0
46,2
-37,2
-8,1
-11,4
-45,7
253,8
197,7
23,5
11,9
(*) Previsioni.
Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 48; The Economist, 9 marzo 2013.
Fonti: OECD Economic
18
Tabella 8 - Saldo dei trasferimenti unilaterali internazionali (miliardi di dollari USA).
Germa- Italia
nia
Francia
Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1995
-38,8
-4,1
-5,9
4,8
9,0
7,2
1,8
-38,1
-7,8
-11,6
-39,2
1996
-34,0
-7,2
-7,4
3,2
8,9
4,4
2,2
-43,0
-9,2
-7,1
-43,9
1997
-30,5
-4,2
-13,1
3,0
8,3
3,8
2,0
-45,1
-8,6
-9,0
-43,4
1998
-30,2
-7,3
-12,4
3,2
7,9
4,0
1,5
-53,2
-8,7
-13,8
-47,4
1999
-26,2
-5,5
-13,2
3,0
4,1
3,8
1,3
-50,4
-10,8
-11,0
-46,6
2000
-25,8
-4,4
-14,0
1,6
3,3
3,4
0,9
-53,8
-9,8
-14,7
-47,5
2001
-24,0
-5,9
-14,8
1,3
3,5
3,4
0,3
-64,6
-8,1
-9,4
-49,7
2002
-25,4
-5,4
-14,2
2,4
3,6
2,8
0,7
-65,0
-5,6
-13,3
-48,7
2003
-31,8
-8,0
-19,2
-0,6
4,3
3,3
0,5
-71,8
-7,7
-16,0
-68,1
2004
-34,3
-10,3
-21,8
-0,1
4,5
3,5
0,5
-88,2
-8,0
-18,9
-79
2005
-35,8
-12,5
-27,3
-4,2
3,8
2,8
0,3
-105,7
-7,4
-21,5
-95,8
2006
-35,9
-16,6
-27,5
-8,2
4,3
3,2
-0,6
-91,5
-10,8
-21,9
-106
2007
-45,0
-19,6
-32,1
-9,8
2,2
3,6
-1,4
-115,1
-11,6
-27,2
-131
2008
-48,5
-21,8
-36,5
-13,7
4,1
3,6
-1,7
-125,9
-13,1
-25,8
-149
2009
-46,5
-16,4
-46,3
-11,3
1,8
3,0
-2,0
-122,5
-11,9
-23,6
-145
2010
-50,8
-21,6
-44,6
-9,7
0,1
2,9
-1,9
-131,1
-12,5
-31,6
-154
2011
-46,7
-22,5
-50,9
-8,2
0,8
4,2
-1,6
-133,1
-15,0
-35,6
-156
2012
-49,5
-22,8
-48,2
-9,5
0,8
4,1
-1,7
-134,0
-14,1
-35,4
-157
2013(*)
-48,4
-17,4
-47,8
-7,6
0,8
3,6
-1,8
-136,8
-12,0
-36,6
-149
2014(*)
-50,2
-17,8
-47,8
-7,1
0,8
3,6
-1,9
-140,1
-11,1
-37,6
-151
(*) Previsioni.
Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 49; The Economist, 9 marzo 2013.
Fonti: OECD
La situazione competitiva dell’Italia può essere meglio apprezzata
svolgendo una disaggregazione per prodotti e per regioni degli scambi con
l’estero. La disaggregazione per prodotti evidenzia che l’Italia nel 2012 è
riuscita a registrare un avanzo di 11 miliardi di euro negli scambi con l’estero
di merci, nonostante un maxi-disavanzo strutturale di circa 63 miliardi di euro
negli scambi con l’estero di prodotti energetici, e un ulteriore disavanzo
strutturale dell’ordine di circa 15 miliardi di euro negli scambi di altri prodotti
19
primari (minerali ferrosi e non ferrosi, prodotti delle foreste, prodotti agricoli).
Ciò soprattutto grazie al forte avanzo negli scambi con l’estero di macchinari
industriali, più che nei tradizionali prodotti del “made in Italy” (abiti, mobili,
ecc.). Disavanzi negli scambi con l’estero sono invece tipicamente registrati
dall’Italia nei prodotti chimici ed elettronici.
La disaggregazione territoriale delle esportazioni mette in evidenza che
l’Italia riesce a realizzare consistenti avanzi negli scambi con l’estero di
manufatti, nonostante gran parte del Mezzogiorno, in cui risiede circa un
terzo della popolazione italiana, registri una fortissima carenza di
competitività. Secondo i dati Istat, nel 2012 circa il 70 per cento delle
esportazioni italiane di merci è stato effettuato da imprese operati nelle regioni
del Nord (in particolare Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, e Piemonte), e
soltanto il 12 per cento da imprese operanti nelle regioni del Mezzogiorno
(soprattutto Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna). In particolare, dalla
Calabria, regione in cui risiede il 3,3% della popolazione italiana, proviene
soltanto un millesimo delle esportazioni italiane! Oltre a ciò, c’è da
considerare che più dei due terzi delle esportazioni della Sicilia e della
Sardegna sono rappresentate da prodotti derivanti dalla raffinazione del
petrolio, il cui contributo in termini di valore aggiunto e di occupazione è
relativamente modesto.
Guardando alle previsioni dell’OECD sul saldo del conto corrente della
bilancia dei pagamenti per il 2013 e il 2014, l’Irlanda, paese per il quale
l’OECD prevedeva a fine 2012 avanzi pari, rispettivamente, al 5,2 e al 6,4 per
cento del prodotto interno lordo per il 2013 e il 2014, dopo un avanzo del 4%
nel 2012, sembra avere ormai superato la crisi dal punto di vista della
competitività, la più rilevante dal punto di vista della permanenza nell’Unione
monetaria europea, nonostante dal punto di vista della finanza pubblica le
prospettive rimangano critiche, con un debito pubblico che l’OECD prevede
ancora in crescita fino al 128 per cento del PIL nel 2013 e 2014, per effetto di
disavanzi pubblici decrescenti lentamente dall’8,1% nel 2012 al 5,2% nel
2014. Questa valutazione sembra essere condivisa dai mercati finanziari, visto
che lo spread sui titoli di stato a 10 anni rispetto alla Germania è diminuito per
l’Irlanda da 700 punti base nel 2011, a 450 nel 2012, a 210 a marzo 2013.
La situazione dell’Irlanda sembra essere positiva anche dal punto di vista
della crescita del prodotto interno lordo, già positiva dal 2011 in poi, sia pure a
tassi annui inferiori al 2%. Dal punto di vista del saldo di bilancia dei
pagamenti le prospettive sembrano essere discretamente buone anche per
l’Italia e la Spagna, paesi per i quali l’OECD a fine 2012 prevedeva per il
2013 e il 2014 leggeri avanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti;
dal punto di vista della finanza pubblica, il debito pubblico dovrebbe
stabilizzarsi nel 2013-14 intorno al 130% del PIL per l’Italia, mentre sarebbe
20
destinato a crescere ancora per la Spagna, dal 94% del PIL nel 2012 al 105%
del PIL nel 2014. La crescita del PIL per entrambi i paesi dovrebbe essere
ancora leggermente negativa nel 2013 e cominciare ad essere lievemente
positiva nel 2014. Per Italia e Spagna lo spread dei rendimenti dei titoli di stato
decennali oscilla a marzo 2013 fra i 300 e i 350 punti base. Ancora critiche,
ma in sensibile miglioramento, appaiono le prospettive del Portogallo e della
Grecia. Per entrambi questi paesi l’OCSE prevede disavanzi correnti fino al
2014, anche se per ammontari decrescenti e nettamente più bassi rispetto agli
anni fra il 2005 e il 2011. La dinamica del PIL è prevista ancora negativa per
entrambi i paesi nel 2013, mentre nel 2014 il PIL dovrebbe riprendere a
crescere in Portogallo, ma non ancora in Grecia. Lo spread dei rendimenti dei
titoli di stato rispetto alla Germania a marzo 2013 oscilla intorno ai 1000 punti
base per la Grecia e ai 500 punti base per il Portogallo, livelli sicuramente
ancora molto elevati, ma pari a circa la metà di quelli medi del 2012.
Dal punto di vista delle previsioni dell’OECD sul saldo corrente della
bilancia dei pagamenti, potrebbero peggiorare nei prossimi mesi le prospettive
per la Francia; per questo paese, infatti, l’OECD prevede un disavanzo del
conto corrente stabile intorno al 2 per cento del prodotto interno lordo fino al
2014, e un debito pubblico ancora in crescita dal 105% del PIL nel 2012 al
110 per cento nel 2014, nonostante tassi di crescita del PIL positivi, sia pure su
livelli piuttosto bassi, fra il 2010 e il 2014.
Alle prospettive economico-finanziarie della Francia è dedicato un
approfondimento contenuto nel numero di febbraio 2013 del CESifo World
Economic Survey (pagina 10). In particolare l’analisi presenta un confronto tra
Francia, Germania e Italia dal punto di vista di diversi indicatori, per alcuni dei
quali la situazione della Francia appare più critica di quella dell’Italia; in
particolare, per quel che riguarda la finanza pubblica, nel 2012 l’Italia ha
registrato un avanzo primario pari al 2,6% del PIL e la Francia un disavanzo
primario dell’1,9%; pur essendo nel 2012 il debito pubblico della Francia
sensibilmente inferiore di quello dell’Italia in rapporto al PIL, l’analisi mette
in evidenza che fra il 1999 e il 2012 la Francia ha registrato un peggioramento
di 31 punti percentuali del PIL e l’Italia di 13 punti; la spesa pubblica è pari al
56% del Pil in Francia e al 51% in Italia. Pur avendo la Francia passività nette
verso l’estero, pari al 16% del PIL, minori dell’Italia (21% del PIL), il disavanzo corrente nei pagamenti con l’estero è stato pari nel 2012 al 2,2% del PIL
per la Francia e all’1,2% per l’Italia, avendo registrato la Francia un
peggioramento del saldo corrente pari a 4,8 punti percentuali del PIL fra il
1999 e 2012, a fronte di un peggioramento di 2,2 punti per l’Italia. Sulla base
delle previsioni OECD sui saldi correnti di bilancia dei pagamenti, nel 2014 le
passività nette verso l’estero di Italia e Francia in rapporto al PIL potrebbero
eguagliarsi. Secondo le stime del CESifo World Economic Survey fra il 1999 e
21
il 2012, il livello medio dei prezzi dei beni prodotti all’interno dei diversi paesi
(deflatore implicito del PIL) è cresciuto in Francia (26%) non molto meno che
in Italia (31%), e molto più che in Germania (12%). Nello stesso periodo il
costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato dell’8% in Germania, del
29% in Francia e del 36% in Italia. Il tasso di disoccupazione complessivo nel
2012 era sostanzialmente uguale in Italia e in Francia (10,5%) e doppio
rispetto a quello della Germania (5,5%), anche se il tasso di disoccupazione
giovanile era molto più alto in Italia (34%) che in Francia (22%).
Tabella 9 - Tasso annuo di crescita del prodotto interno lordo, 1988-2014.
Germa- Italia
nia
Francia
Spagna
Grecia Portogallo
1988-1998
2,4
1,6
2,0
2,7 nd
1999
1,7
1,4
3,2
4,7
2000
3,3
3,9
3,8
2001
1,6
1,8
2002
0,0
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
3,2
6,7
3,1
2,0
2,5
2,2
3,4
4,1
11,0
4,7
-0,2
3,2
2,8
5,0
4,5
3,9
10,7
4,1
2,3
4,2
3,9
1,8
3,7
4,2
2,0
5,3
1,1
0,4
2,9
2,0
0,4
0,9
2,7
3,4
0,8
5,7
1,8
0,3
2,4
0,9
-0,4
0,0
0,9
3,1
5,9
-0,9
3,9
2,5
1,7
3,8
0,7
0,7
1,6
2,3
3,3
4,4
1,6
4,4
3,5
2,4
2,9
2,0
0,8
1,1
1,8
3,6
2,3
0,8
5,9
3,1
1,3
2,8
1,8
3,9
2,3
2,6
4,1
5,5
1,4
5,4
2,7
1,7
2,6
3,4
3,4
1,5
2,2
3,5
3,5
2,4
5,4
1,9
2,2
3,6
3,0
0,8
-1,2
-0,2
0,9
-0,2
0,0
-2,1
-0,3
-1,0
-1,0
0,3
-5,1
-5,5
-3,1
-3,7
-3,1
-2,9
-5,5
-3,1
-5,5
-4,0
-4,3
4,0
1,8
1,6
-0,3
-4,9
1,4
-0,8
2,4
4,5
1,8
1,9
3,1
0,6
1,7
0,4
-7,1
-1,7
1,4
1,8
-0,7
0,9
1,5
2012
0,9
-2,2
0,2
-1,3
-6,3
-3,1
0,5
2,2
1,6
-0,1
-0,4
2013(*)
0,6
-1,0
0,3
-1,4
-4,5
-1,8
1,3
2,0
0,7
0,9
-0,1
2014(*)
1,9
0,6
1,3
0,5
-1,3
0,9
2,2
2,8
0,8
1,6
1,3
1999-2007
1,7
1,6
2,2
3,7
4,1
1,8
6,4
2,8
1,3
3,2
2,3
2008-2012
0,7
-1,3
0,0
-0,8
-4,3
-1,3
-1,3
0,6
-0,2
-0,5
-0,2
1999-2012
1,2
0,4
1,3
2,0
1,0
0,6
3,6
1,9
0,7
1,8
1,3
nd: non disponibile; (*) previsioni.
Fonte: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 1.
22
4.4 Cause degli squilibri competitivi fra i paesi dell’area euro
Due indicatori fondamentali per evidenziare come si sono accumulati gli
squilibri competitivi fra alcuni paesi dell’area euro sono riportati nelle tabelle
10 e 11. Nella tabella 10 è riportato il tasso annuo di crescita dei prezzi medi
dei beni prodotti nei diversi paesi o deflatore implicito del prodotto interno
lordo. Nella tabella 11 è riportato l’indice di questi stessi prezzi con base
1998=100.
Dalla tabella 11 si può vedere come gli squilibri competitivi fra Germania
da un lato e Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna ( e anche Francia)
dall’altro abbiano cominciato ad accumularsi fin dai primi anni dell’Unione
monetaria europea. Fra il 1998 e il 2002 il livello medio dei prezzi dei beni
prodotti all’interno aumentò soltanto del 2% in Germania, ma del 6% in
Francia, del 7% nella media dell’area euro, del 10% in Italia, del 14% in
Grecia, del 15% in Portogallo, del 16% in Spagna, del 22% in Irlanda. Nel
2007, l’ultimo anno normale prima dello scoppio della crisi finanziaria
internazionale, l’indice dei prezzi dei beni prodotti in ciascun paese era
arrivato a 107 in Germania, 118 in Francia, 119 nell’area euro, 123 in Italia,
131 in Grecia e Portogallo, 137 in Irlanda, 140 in Spagna. Nel 2012 l’indice
arrivò a 112 in Germania, 126 in Francia, 126 nell’area euro, 127 in Irlanda,
133 in Italia, 137 in Portogallo, 143 in Grecia, 146 in Spagna. Questi dati
evidenziano fra il 1998 e il 2012 aumenti dei prezzi nettamente più bassi che
nell’insieme dell’area euro in Germania, in linea con la media dell’area euro in
Francia e Irlanda, più alti della media in Italia, e ancora di più in Portogallo,
Grecia e Spagna. Questi dati evidenziano i termini essenziali della crisi
dell’area euro: per riportare in equilibrio competitivo i paesi dell’area euro, è
necessario che si abbia una convergenza dei valori di questo indice.
Mantenendo la moneta comune, ciò può avvenire accelerando il tasso di
crescita dei prezzi della produzione interna in Germania e/o riducendo il
livello, o almeno il tasso di crescita, dei prezzi in Francia, Irlanda, Italia,
Portogallo, Grecia e Spagna. In qualche misura ciò ha cominciato a verificarsi,
in particolare per l’Irlanda, paese in cui l’indice dei prezzi è diminuito da un
massimo di 137 nel 2007 a 127 nel 2012, e in misura ancora appena
percettibile in Spagna (tasso annuo di aumento dei prezzi leggermente minore
che in Germania nel 2009 e il 2010 e dal 2012 in poi, anche in Grecia (leggera
diminuzione dei prezzi registrata nel 2012 e prevista anche per il 2013 e il
2014), Portogallo (crescita dei prezzi minore che in Germania dal 2011 in poi),
Italia (crescita dei prezzi minore che in Germania nel 2010 e 2012, e prevista
anche nel 2013 e 2014), e dal 2013 in poi forse anche in Francia. Il problema è
che diminuire il livello dei prezzi, o anche il suo tasso di crescita, nei paesi che
23
hanno perso competitività è estremamente costoso in termini di aumento di
disoccupazione e perdita di produzione. Minore sarebbe il costo se il
riallineamento potesse avvenire mediante un significativo aumento del tasso
d’inflazione in Germania, ben oltre i tassi oscillanti intorno all’1,6% all’anno
previsti dall’OCSE per 2013 e il 2014.
Tabella 10 - Tasso di crescita dei prezzi dei beni prodotti nei diversi paesi (deflatore implicito del prodotto interno
lordo).
Germa- Italia
nia
1988-98
Francia
Spa- Grecia
gna
2,5
4,9
1,8
4,9 nd
1999
0,2
1,8
0,2
2,6
2000
-0,7
1,9
1,6
3,5
2001
1,1
2,9
2,0
2002
1,4
3,2
2003
1,1
2004
2005
2006
2007
2008
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area euro
7,3
2,9
2,5
0,8
3,7
3,1
3,0
3,3
3,8
1,6
-1,3
2,1
1,0
3,4
3,3
5,3
2,2
-1,2
0,7
1,4
4,2
3,1
3,6
5,6
2,3
-1,2
1,6
2,4
2,2
4,4
3,4
3,7
5,3
1,6
-1,6
2,3
2,5
3,1
2,0
4,2
3,9
3,0
3,6
2,1
-1,7
2,5
2,2
1,1
2,4
1,7
4,0
2,9
2,5
2,2
2,8
-1,4
2,6
1,9
0,6
1,8
1,9
4,3
1,9
2,5
2,5
3,3
-1,3
2,4
1,9
0,3
1,7
2,2
4,1
2,4
2,8
3,4
3,2
-1,1
2,9
1,8
1,6
2,4
2,6
3,3
3,3
2,8
0,7
2,9
-0,9
2,2
2,3
0,8
2,5
2,5
2,4
4,7
1,6
-3,1
2,2
-1,3
3,0
1,9
2009
1,2
2,1
0,7
0,1
2,3
0,9
-4,6
0,9
-0,5
1,3
0,9
2010
0,9
0,4
1,1
0,4
1,1
1,1
-2,2
1,3
-2,2
2,8
0,8
2011
0,8
1,3
1,3
1,0
1,0
0,7
0,2
2,1
-2,1
2,7
1,2
2012
1,4
1,1
1,5
0,3
-0,6
-0,2
1,8
1,8
-0,9
2,1
1,2
2013(*)
1,6
1,3
1,1
0,7
-0,5
0,9
0,3
1,8
-0,5
1,7
1,3
2014(*)
1,6
0,6
0,7
0,4
-0,8
0,7
0,6
1,9
0,7
1,7
1,0
(*) Previsioni.
OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 16
Fonti:
24
Tabella 11 - Indice dei prezzi dei beni prodotti nei diversi paesi (deflatore implicito del prodotto interno lordo)
Germa- Italia Francia
nia
Spagna
Grecia
Portogallo
Irlanda
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
1998
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
1999
100
102
100
103
103
103
104
102
99
102
101
2000
99
104
102
106
107
107
109
104
98
103
102
2001
101
107
104
111
110
111
115
106
96
104
105
2002
102
110
106
116
114
115
122
108
95
107
107
2003
103
114
108
120
118
118
126
110
93
110
110
2004
104
116
110
125
121
121
129
113
92
112
112
2005
105
118
112
131
124
124
132
117
91
115
114
2006
105
120
115
136
127
128
136
121
90
118
116
2007
107
123
118
140
131
131
137
124
89
121
119
2008
108
126
121
144
137
133
133
127
88
125
121
2009
109
129
121
144
140
134
127
128
87
126
122
2010
110
130
123
144
142
136
124
130
85
130
123
2011
111
131
124
146
143
137
124
133
84
133
125
2012
112
133
126
146
142
137
127
135
83
136
126
2013(*)
114
134
128
147
142
138
127
137
82
138
128
2014(*)
116
135
128
148
140
139
128
140
83
141
129
(*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 16
4.5 Alcuni approfondimenti sulle cause fondamentali dello squilibrio
competitivo fra Italia e Germania
La causa fondamentale dello squilibrio competitivo che si è gradualmente
accumulato fra Italia e Germania dopo la creazione dell’Unione monetaria
Europea va identificata nella dinamica della produttività del lavoro e delle
retribuzioni. Nel periodo fra il 1999 e il 2007 la produttività del lavoro è
aumentata in Germania un tasso medio dell’1,2 per cento all’anno, mentre le
25
retribuzioni medie per addetto sono aumentate a un tasso medio dell’1 per
cento all’anno.
Tabella 12 - Tasso di crescita della produttività del lavoro.
Germa- Italia
nia
Francia
Spagna
Grecia Porto- Irlanda
gallo
1985-95
1,8
2,1
1,8
1,4 nd
1999-07
1,2
0,2
1,0
0,0
2008-12
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
2,5
3,2
1,1
2,1
2,4
1,7
2,5
1,2
2,6
2,0
1,5
2,2
1,0
-0,1
-0,9
0,1
2,2
-1,1
0,5
2,2
1,3
0,2
-0,6
0,2
1996
0,9
0,4
0,5
0,7
1,1
2,0
5,7
1,8
2,2
2,2
0,9
1997
1,9
1,6
1,5
0,3
4,0
1,7
5,7
2,1
0,5
2,0
1,8
1998
0,5
0,3
1,7
0,0
-1,0
2,3
0,3
2,1
-1,4
2,5
0,9
1999
0,2
0,3
0,9
0,2
3,1
2,7
4,3
2,7
0,6
1,8
0,9
2000
1,6
1,9
1,2
0,0
3,0
1,8
6,0
2,4
2,5
3,0
1,6
2001
1,4
-0,3
0,3
0,4
4,1
0,2
2,1
1,2
0,9
2,0
0,7
2002
0,6
-1,2
0,4
0,2
1,2
0,2
4,0
3,0
1,6
1,7
0,4
2003
0,5
-1,4
0,8
-0,1
4,7
-0,3
2,0
2,5
1,9
2,8
0,4
2004
0,4
1,1
2,2
-0,4
1,9
1,6
1,0
2,4
2,2
1,8
1,3
2005
1
0,5
1,2
-0,5
-0,7
1,1
0,9
1,5
0,9
1,7
0,9
2006
3,3
0,3
1,5
0,1
3,6
0,9
1,0
0,9
1,3
1,7
1,8
2007
1,7
0,3
0,8
0,4
1,9
2,4
1,7
1,0
1,7
2,9
1,3
2008
-0,4
-1,4
-0,7
1,0
-1,0
-0,5
-1,1
0,4
-0,6
-1,7
-0,4
2009
-5,1
-3,9
-1,8
3,0
-2,9
-0,3
2,9
1,3
-4,0
-2,4
-2,6
2010
3,4
2,5
1,6
2,2
-3,1
3,0
3,6
3,1
5,0
1,6
2,4
2011
1,7
0,2
1,2
2,0
-0,4
-0,1
3,6
0,9
-0,5
0,4
1,2
2012
-0,1
-1,7
0,2
2,9
2,1
0,6
2,0
0,8
1,3
-1,1
0,2
2013(*)
0,6
-0,3
0,7
1,2
1,5
0,0
2,0
0,4
0,9
0,5
0,6
2014(*)
1,7
0,9
1,2
0,7
1,1
0,7
2,2
1,3
0,9
0,7
1,3
nd: non disponibile; (*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 12
In Italia, invece, nello stesso periodo, la produttività del lavoro è
aumentata a un tasso medio dello 0,2 per cento all’anno, mentre le retribuzioni
26
medie per addetto sono aumentate a un tasso medio del 2,4 per cento all’anno.
Ciò ha implicato una perdita di competitività dell’Italia rispetto alla Germania
nei primi nove anni dell’Unione monetaria europea dell’ordine del 2,4 per
cento all’anno, corrispondente a una perdita cumulata dell’ordine di quasi il 24
per cento in nove anni.
Tabella 13 - Tasso di crescita delle retribuzioni per addetto.
Germa- Italia Frannia
cia
Spagna
Grecia Porto- Irlanda
gallo
Stati
Uniti
Giappone
Regno
Unito
Area
euro
5,1
3,7
2,5
6,6
4,7
1985-95
4,2
6,7
3,4
7,7
1999-07
1,0
2,4
2,9
3,0
5,3
3,9
5,9
4,2
-1,1
4,6
2,6
2008-12
2,1
1,2
2,3
2,4
-0,8
0,7
0,6
2,4
-0,8
2,3
2,0
1996
1,1
5,7
1,8
4,3
8,8
6,0
4,4
2,9
0,1
3,2
3,1
1997
0,6
4,4
1,6
2,3
13,7
5,7
5,0
3,8
0,9
4,0
2,8
1998
0,9
-1,6
1,6
1,8
5,3
5,6
3,7
4,9
-0,9
6,5
1,6
1999
0,9
1,6
2,0
2,1
6,5
5,1
4,9
4,0
-1,5
4,7
2,1
2000
1,8
2,3
2,5
2,8
6,0
6,3
7,7
6,4
-0,2
5,7
3
2001
1,7
2,7
2,7
3,6
3,7
4,0
7,9
3,4
-0,9
5,2
2,9
2002
1,3
2,2
3,5
3,4
11,4
3,4
5,4
3,4
-2,1
3,3
2,9
2003
1,4
2,5
2,8
2,6
6,3
3,5
6,4
4,5
-2,0
4,7
2,6
2004
0,3
3,3
3,4
2,1
4,2
2,6
5,2
4,3
-1,4
3,8
2,4
2005
-0,1
2,7
3,1
2,8
2,6
4,7
5,5
3,5
-0,1
3,8
2,1
2006
1,0
2,2
3,2
3,2
2,4
1,8
4,6
4,0
-0,8
4,7
2,5
2007
0,8
2,0
2,5
4,6
4,6
3,6
5,9
4,1
-1,2
5,1
2,7
2008
2,1
3,0
2,6
6,7
4,4
3,0
5,4
3,2
0,4
1,5
3,5
2009
0,2
-0,1
1,8
4,4
3,3
2,8
-0,8
1,0
-3,7
2,8
1,5
2010
2,4
2,0
2,3
0,2
-3,4
1,4
-3,1
2,9
0,1
2,7
1,7
2011
3,0
1,0
2,8
0,5
-1,8
-0,8
0,2
2,9
0,0
2,0
1,9
2012
2,6
0,3
2,1
0,2
-6,4
-3,0
1,1
2,1
-0,7
2,6
1,4
2013(*)
3,0
0,8
1,9
-1,2
-5,6
-1,0
0,2
2,2
0,4
2,3
1,4
2014(*)
3,3
0,5
1,7
-0,7
-2,4
-0,3
1,5
2,9
0,9
2,9
1,5
14,4 nd
nd: non disponibile; (*) Previsioni.
Fonti: OECD Economic Outlook, 2012, n. 2, Statistical annex, tabella 11.
27
Nel periodo fra il 2008 e il 2012 la produttività del lavoro è diminuita in
Germania a un tasso medio dello 0,1 per cento all’anno, mentre le retribuzioni
medie per addetto sono aumentate a un tasso medio del 2,1 per cento all’anno.
In Italia, invece, nello stresso periodo, la produttività del lavoro è diminuita a
un tasso medio dello 0,9 per cento all’anno, mentre le retribuzioni medie per
addetto sono aumentate a un tasso medio dell’1,2 per cento all’anno. Ciò
significa che nei cinque anni della crisi finanziaria internazionale i rapporti di
competitività fra Italia e Germania sono rimasti in complesso sostanzialmente
invariati rispetto alla situazione del 2007. Più in dettaglio, sulla base della
dinamica della produttività del lavoro e della retribuzione per addetto, la
competitività dell’Italia rispetto alla Germania è peggiorata ancora di quasi il 2
per cento nel 2008, è migliorata dell’1,5% nel 2009, è peggiorata ancora dello
0,5 per cento nel 2010, è migliorata dello 0,5% nel 2011 e dello 0,7% nel
2012.
Il lieve miglioramento, a partire dal 2009, della competitività dell’Italia
rispetto alla Germania, è stato determinato essenzialmente da un aumento del
tasso di crescita delle retribuzioni per addetto in Germania a partire dal 2010
(2,9% all’anno fra il 2010 e il 2012, a fronte di una crescita media dell’1%
all’anno fra il 1999 e il 2009), e da un diminuzione del tasso di crescita delle
retribuzioni per addetto in Italia a partire dal 2009 (0,8% all’anno fra il 2009 e
il 2012, a fronte di una crescita media del 2,4% all’anno fra il 1999 e il 2008);
è rimasto invece sostanzialmente inalterato il gap nella dinamica della
produttività dell’Italia rispetto alla Germania (crescita media dell’1,2%
all’anno in Germania e dello 0,2% in Italia fra il 1999 e il 2007, diminuzione
media dello 0,1% all’anno in Germania e dello 0,9% in Italia fra il 2008 e il
2012).
5. Fattori che hanno contribuito a determinare la perdita di
competitività dell’Italia
La causa principale per cui nel primo decennio dell’euro si è verificata una
progressiva perdita di competitività dell’Italia, in particolare rispetto alla
Germania, è stata la forte diminuzione della dinamica della produttività del
lavoro, da una crescita media del 2,1 per cento all’anno fra il 1985 e il 1995,
ad un aumento medio di appena lo 0,2 per cento all’anno fra il 1999 e il 2007.
Pure in Germania si è avuto un rallentamento della dinamica della produttività
del lavoro, ma in misura significativamente più contenuta che in Italia: dall’1,8
per cento all’anno nel periodo 1985-95, all’1,2 per cento all’anno fra il 1999 e
il 2007. Agli effetti negativi sulle possibilità di crescita delle retribuzioni del
sostanziale azzeramento della crescita della produttività si sono sommati in
Italia altri fattori negativi, e in particolare: il fortissimo aumento del prezzo in
28
dollari del petrolio (da 13 dollari al barile nel 1998 a 97 dollari nel 2008, a 112
dollari nel 2012) e degli altri prodotti primari tipicamente importati dall’Italia
(quasi triplicati fra il 1999 e il 2011); un aumento molto forte del prezzo in
euro delle case, aumentati in Italia di circa l’80 per cento fra il 1998 e il 2008,
mentre in Germania sono addirittura diminuiti di circa l’8% fra il 2002 e il
2005, e sono poi rimasti sostanzialmente stabili fino al 2009; un aumento dei
prezzi delle assicurazioni per la circolazione delle automobili molto più forte
in Italia che in Germania, che ha portato il livello di questi prezzi in Italia di
circa l’80 per cento più alto che in Germania.
6. Come riportare in equilibrio competitivo i paesi dell’Unione
monetaria europea
Nei primi 10 anni del’Unione monetaria europea l’attenzione di economisti
e politici era stata prevalentemente concentrata sugli equilibri di finanza
pubblica necessari per mantenere l’unione monetaria. Gli squilibri di partite
correnti di bilancia dei pagamenti erano considerati fisiologici, in quanto
necessari per trasferire capitali dai paesi più efficienti verso quelli meno
efficienti così da stimolare la convergenza in termini di produttività, e quindi
di reddito per abitante, fra i paesi dell’area euro. Ciò si basava sulla
convinzione che le differenze di produttività derivassero principalmente da
differenze nella dotazione di capitale per abitante, e che quindi i flussi di
capitale dai paesi più produttivi verso quelli meno produttivi, eliminando le
differenze nella dotazione di capitale per abitante, avrebbero anche eliminato
le differenze di produttività e di reddito, e a quel punto le partire correnti delle
bilance dei pagamenti sarebbero tornate automaticamente in equilibrio. Questa
visione ottimista sembrò essere confermata fino al 2007 da una crescita molto
più rapida del prodotto interno lordo in Spagna, Grecia, e Irlanda rispetto alla
Germania. A partire dal 2008 ci si rese però gradualmente conto che i flussi di
capitale da Germania, Olanda e Austria erano stati utilizzati in Grecia, Spagna
e Irlanda non per stimolare investimenti, e quindi incrementi di produttività in
settori a mercato internazionale, ma prevalentemente per una crescita del
numero dei dipendenti pubblici e delle loro retribuzioni in Grecia, e degli
investimenti in abitazioni in Spagna e Irlanda. Di conseguenza, questi
trasferimenti di capitale, invece di creare le premesse per un riequilibrio
competitivo in grado di riportare in equilibrio gli scambi con l’estero di questi
paesi, avevano determinato squilibri competitivi e negli scambi con l’estero
sempre più forti. In qualche misura ciò si verificò anche nelle tre repubbliche
baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), e con un certo ritardo, anche in Italia,
Francia, Slovenia e Slovacchia. A partire dal 2010 cominciò ad emergere
29
gradualmente la consapevolezza che questo squilibrio competitivo era
diventato il principale fattore di crisi dell’Unione monetaria europea4, ma
questa consapevolezza emerse quando l’entità degli squilibri competitivi era
diventata molto elevata (rispetto alla Germania, dell’ordine del 40-50 per
cento per Grecia e Spagna, e del 20-30 per cento per Italia e Irlanda).
Preservando sia l’Unione monetaria europea, sia l’obiettivo di un tasso di
inflazione medio nell’area euro non superiore al 2 per cento, il riequilibrio
competitivo potrebbe essere perseguito gradualmente mediante una tasso
d’inflazione maggiore del 2 per cento in Germania, Austria e Olanda e minore
del 2 per cento in Italia, Grecia, Spagna, ecc.. Al limite, escludendo la
possibilità di un tasso di inflazione negativo, l’equilibrio potrebbe essere
perseguito mediante un tasso d’inflazione vicino allo zero in Italia, Spagna,
Grecia ecc., ottenibile mediante una crescita delle retribuzioni monetarie
medie pari alla crescita della produttività, e un tasso d’inflazione pari a circa il
4 per cento in Germania, Austria e Olanda, mediante una crescita dei salari
monetari in quei paesi maggiore di 4 punti percentuali rispetto alla crescita
della produttività. Al riequilibrio potrebbero contribuire anche svalutazioni o
rivalutazioni di natura “fiscale” (diminuzioni delle imposte sul lavoro, in
particolare per le imprese che producono beni a mercato internazionale,
compensate da aumenti dell’imposta sul valore aggiunto, in Italia, Spagna,
Grecia, ecc. e aumenti delle imposte sul lavoro, in particolare per le imprese
che producono beni a mercato internazionale, compensati da riduzioni della
imposta sul valore aggiunto, in Germania, Olanda e Austria).
L’uscita dall’Unione monetaria, e l’adozione di una moneta svalutata
rispetto all’euro in Italia, Grecia, Spagna, ecc., potrebbe consentire di
accelerare il processo di aggiustamento, a condizione però che fosse possibile
evitare aumenti dei salari monetari in questi paesi maggiori degli aumenti di
produttività, pur in presenza di aumenti dei prezzi dei beni a mercato
internazionale, sia importati, sia esportati. In ogni caso sarebbe necessaria una
crescita della domanda interna minore della produzione interna di merci e
servizi in Italia, Spagna e Grecia, e un aumento della domanda interna
maggiore della produzione interna di merci e servizi in Germania, Austria e
Olanda. Avrebbe effetti sostanzialmente analoghi la uscita dall’area euro della
Germania; anche in questo caso il riequilibrio competitivo richiederebbe in
Italia aumenti delle retribuzioni monetarie non maggiori degli aumenti di
produttività, anche in presenza di aumenti dei prezzi in euro dei beni a mercato
internazionale provocati sia dal fatto che la Germania adotterebbe una moneta
4
Al riguardo si veda, per esempio, Giavazzi e Spaventa (2010), EEAG (2010, 2011,
2012, 2013), European Parliament and European Council (2011), European
Commission (2012a, 2012b), Draghi (2012,2013).
30
che varrebbe più dell’euro (e di conseguenza aumenterebbero i prezzi in euro
sia dei beni che l’Italia importa dalla Germania, sia dei beni che l’Italia esporta
verso la Germania), sia perché con l’uscita dalla Germania l’euro si
deprezzerebbe rispetto al dollaro e alle valute degli altri paesi, così che
aumenterebbero i prezzi in euro sia dei beni importati dai paesi esterni all’area
euro che dei beni esportati verso questi paesi.
Nella sostanza non ci sarebbero quindi differenze significative dal punto di
vista dell’Italia fra un riequilibrio graduale rimanendo nell’area euro e un
riequilibrio più immediato uscendo dall’area euro. L’uscita dall’area euro per
recuperare competitività potrebbe essere utile nel caso il recupero di
competitività dovesse richiede una diminuzione dei salari monetari;
considerato che il recupero di competitività potrebbe avvenire in modo
graduale, almeno per l’Italia, ciò potrebbe non essere necessario. D’altronde,
non si comprende come sarebbe possibile in Italia evitare aumenti dei salari
monetari in presenza di significativi aumenti dei prezzi dei beni provocati dal
passaggio a una unità monetaria deprezzata quando negli ultimi anni non si è
riusciti a mantenere costanti i salari monetari in presenza di più contenuti
aumenti dei prezzi, pur con tassi di disoccupazione elevati5.
L’eventuale uscita di un paese dall’area euro, se da un lato potrebbe
consentire un riequilibrio competitivo più rapido e forse meno costoso in
termini di disoccupazione e perdita di produzione e reddito, dall’altro
comporterebbe diversi problemi.
Innanzitutto sarebbe molto difficile evitare che l’uscita di un paese dall’area
euro, in particolare se ad uscire fosse non la Germania ma uno dei paesi in
difficoltà, inneschi una catena di “effetti-contagio” tale da comportare la
disintegrazione completa dell’area euro; ciò per motivi di natura sia
psicologica sia di sostanza economica. Una volta che un paese in difficoltà
esce dall’area euro è prevedibile che diminuisca la fiducia dei mercati
finanziari internazionali sulla stabilità della rimanente parte dell’area euro;
possono quindi innescarsi processi di speculazione destabilizzanti in grado di
costringere altri paesi ad uscire dall’area euro. Dal punto di vista sostanziale,
l’uscita dall’area euro di uno dei paesi in crisi potrebbe provocare un
apprezzamento dell’euro, che renderebbe più grave la carenza di competitività
5
Comunque il tasso di crescita delle retribuzioni è diminuito sensibilmente in Italia
da oltre il 2% all’anno fra il 1999 e il 2008 a meno dell’un per cento all’anno fra il
2009 e il 2012, e aumenti ancora più contenuti sono previsti per il 2013 e il 2014.
Purtroppo questa riduzione nella dinamica delle retribuzioni non si è riflessa sul costo
del lavoro a causa di una diminuzione della produttività del lavoro particolarmente
forte nel 2008, 2009 e 2012.
31
degli altri paesi in difficoltà; inoltre gli istituti finanziari dei paesi che
rimangono nell’area euro vedrebbero svalutarsi il valore dei loro crediti verso
soggetti economici del paese uscito dall’area euro.
Un paese che uscisse dall’area euro dovrebbe essere in grado di passare ad
un’altra moneta in tempi rapidissimi, poichè nel periodo transitorio si avrebbe
una grande fuga di capitali dal paese in procinto di adottare una moneta di
minor valore.
7.
Una nuova “politica industriale” per la Calabria
Negli ultimi anni un nuovo interesse per le “politiche industriali”, vale a dire
per politiche economiche volte a privilegiare alcuni specifici settori produttivi,
e in particolare l’industria manifatturiera, è emerso sia negli Stati Uniti,
soprattutto durante la presidenza Obama, sia nell’Unione europea. Forti
convincimenti riguardo l’importanza strategica dell’industria manifatturiera
per lo sviluppo economico risalgono agli albori della scienza economica. In
particolare, Alexander Hamilton, il primo ministro del tesoro degli Stati Uniti
d’America, nel suo “Report on manufactures” del 1791 sostenne l’opportunità
di stimolare lo sviluppo dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti, paese
allora pressoché esclusivamente agricolo, anche mediante dazi sulle
importazioni di manufatti producibili negli Stati Uniti e sussidi per i produttori
di tali manufatti. Le argomentazioni di Hamilton furono riprese in Germania
da Friedrich List, e influenzarono la politica industriale del governo tedesco, in
particolare negli anni del cancelliere Bismark. Nella seconda metà del
ventesimo secolo lo sviluppo dell’industria manifatturiera fu il motore di un
rapido sviluppo economico in Giappone, Italia settentrionale, Corea del Nord,
e a cavallo fra il ventesimo e il ventunesimo secolo, anche della Cina. Ancora
più recentemente, la Germania è riuscita a recuperare rapidamente dopo la
crisi finanziaria internazionale, soprattutto dal punto di vista dell’occupazione,
principalmente in virtù degli effetti di stimolo delle attività manifatturiere
derivanti da un forte deprezzamento del tasso di cambio reale rispetto a gran
parte degli altri paesi dell’area euro. Negli Stati Uniti, in particolare con la
Presidenza Obama, si è cercato di proteggere e stimolare le attività
manifatturiere, sia mediante un deprezzamento competitivo del dollaro rispetto
all’euro, sia cercando di contrastare la politica cinese di deprezzamento
competitivo dello yuan, sia mediante aiuti specifici per grandi imprese
manifatturiere in crisi come General Motors e Chrysler.
Anche nel Nord dell’Italia la competitività dell’industria manifatturiera
è stata fortemente sostenuta da una sorta di svalutazione competitiva. La
determinazione di salari sostanzialmente uniformi nelle diverse regioni italiane
mediante la contrattazione nazionale comporta infatti, per effetto della
32
maggiore produttività al Nord rispetto al Sud dell’Italia, un prezzo del lavoro
nelle regioni del Nord dell’Italia di circa il 20 per cento più basso di quello di
equilibrio competitivo. Specularmente, la contrattazione nazionale comporta
per le regioni del Sud dell’Italia un prezzo del lavoro di circa il 20 per cento
più alto di quello di equilibrio competitivo, che rappresenta un forte ostacolo
per lo sviluppo delle attività manifatturiere in queste regioni.
8. Considerazioni conclusive
Dopo la crisi valutaria dei primi anni novanta, undici paesi dell’Unione
europea trovarono l’accordo verso la fine del secondo millennio per una svolta
monetaria di portata storica: la rinuncia alle monete nazionali e l’adozione di
una moneta unica e di una comune gestione della politica monetaria finalizzata
a mantenere uno stesso tasso d’inflazione inferiore al 2 per cento all’anno in
paesi che nei tre decenni precedenti avevano registrato dinamiche dei prezzi
fortemente diversificate. Ciò avrebbe dovuto costituire il presupposto per una
crescita stabile di occupazione, produzione e reddito. The Economist dedicò
alla nascita dell’euro una copertina dal titolo suggestivo “The great adventure
finally begins”. Nelle stesse settimane, un’altra copertina dello stesso
settimanale inglese sembrò adombrare un presagio funesto per quella grande
avventura: una copertina dedicata alla miseria in cui era sprofondata in quegli
stessi giorni l’Argentina, un paese che dieci anni prima si era imbarcato in
un’avventura per diversi aspetti analoghi: il tentativo di buttarsi alle spalle una
lunga storia di fortissima instabilità monetaria legando “irrevocabilmente”,
mediante una modifica costituzionale, il valore della propria moneta a quello
del dollaro, e rinunciando ad una politica monetaria indipendente per adottare
quella della Federal Reserve americana.
L’aspettativa generale era che l’Unione monetaria europea avrebbe
accelerato i tempi del sorpasso degli Stati Uniti da parte dell’Europa in termini
di reddito per abitante, per effetto di una crescita della produttività che a
partire dagli anni settanta era stata sistematicamente maggiore in Europa che
in America. Le prime delusioni della nuova “età dell’euro” si ebbero proprio
per questo aspetto: a partire dalla seconda metà degli anni novanta la dinamica
della produttività rallentò in misura significativa in Europa, e in particolare in
gran parte dei paesi dell’Unione europea, mentre accelerava negli Stati Uniti e
nel Regno Unito. Invece del sorpasso europeo rispetto agli Stati Uniti in
termini di reddito per abitante si invertì il processo di avvicinamento europeo
all’America, e riprese ad ampliarsi il divario Europa-America in termini di
reddito per abitante. Il rallentamento della dinamica della produttività si ebbe
soprattutto in Italia, che a partire dal 2001 registrò in diversi anni tassi di
33
variazione della produttività addirittura negativi, ma interessò anche la
Germania, la Francia, la Spagna e il Portogallo.
Per alcuni anni, tuttavia, l’Unione Monetaria evidenziò significativi effetti
positivi soprattutto in termini di convergenza in termini di reddito per abitante,
e altri 6 paesi, fra cui la Grecia, entrarono a far parte successivamente dell’ara
euro. In particolare, il reddito per abitante aumentò più della media europea in
Grecia, Portogallo e Irlanda, per effetto principalmente di un più alto tasso di
crescita della produttività, e in Spagna per effetto di un forte aumento del tasso
di occupazione. Il processo di convergenza fu aiutato dalla possibilità dei paesi
relativamente più poveri dell’Unione monetaria europea di ottenere flussi di
capitali dai paesi relativamente più ricchi, a tassi d’interesse molto più bassi di
quelli che dovevano pagare prima dell’Unione monetaria. Altri aspetti positivi
furono la forte diminuzione del tasso d’inflazione in paesi, come l’Italia, che
in passato avevano sperimentato fenomeni inflazionistici accentuati, e una
graduale diminuzione del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo
nei paesi che erano entrati nella Unione monetaria con un debito pubblico
molto elevato. Per l’Italia, in particolare, il debito pubblico diminuì dal 132%
del prodotto interno lordo nel 1998 al 112% nel 2007; una diminuzione ancora
più forte, dal 75% del PIL nel 1998 al 42% nel 2007, si verificò in Spagna, il
paese che, insieme all’Italia, aveva incontrato maggiori difficoltà a far parte
fin dal 1999 dell’Unione monetaria europea, e in Irlanda dal 62 al 29% del
PIL. Paradossalmente, in quel periodo il debito pubblico aumentò in
Germania, dal 62% del PIL nel 1998 al 72% nel 2005; erano quegli gli anni in
cui la Germania appariva, insieme all’Italia, The sick man of Europe”.
La situazione cambiò radicalmente a partire dal 2008, l’anno in cui scoppiò
la grande crisi finanziaria internazionale. I paesi dell’area euro più fortemente
coinvolti direttamente nella crisi furono la Spagna, l’Irlanda, la Grecia e il
Portogallo, che avevano sperimentato negli anni precedenti in misura più
accentuata la “bolla immobiliare”, il cui scoppio creò gravissime difficoltà
finanziarie per le principali banche, che dovettero essere salvate dai governi
mediante finanziamenti che provocavano un forte aumento del debito pubblico
(in Spagna dal 42% del 2007 al 68% nel 2010 e al 94% nel 2012), in Irlanda
dal 29% nel 2007 al 98% nel 2010, in Grecia dal 115% del PIL nel 2007 al
175% nel 2011, in Portogallo dal 75% del PIL nel 2007 al 125% nel 2011). Le
conseguenze dirette dello scoppio della bolla immobiliare furono meno
rilevanti per l’Italia, sia perché i prezzi delle case erano aumentati in Italia
meno che in gran parte degli altri paesi, sia perché la esposizione di gran parte
delle banche italiane nei confronti dei mutui “subprime” era minore di quella
delle banche degli altri paesi. Rilevanti conseguenze negative si ebbero
tuttavia indirettamente anche per l’Italia, a causa della forte diminuzione del
prodotto interno lordo nel 2008 e 2009, provocata principalmente dalla forte
34
riduzione della domanda di beni per investimenti e beni di consumo durevoli.
Nonostante la gestione prudenziale della finanza pubblica, ciò determinò una
significativa riduzione delle entrate pubbliche che, insieme all’aumento delle
spese di natura assistenziale e alla diminuzione del PIL, determinò un aumento
del debito pubblico italiano dal 112% del PIL nel 2007 al 128% nel 2009.
L’aumento del debito pubblico in rapporto al PIL rese necessarie in Grecia,
Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia politiche fiscali fortemente restrittive che
provocarono diminuzioni della domanda interna; ciò, in aggiunta ad una
domanda estera netta negativa a causa della carenza di competitività di questi
paesi, determinò riduzioni significative di produzione, reddito e occupazione.
Il dualismo fra Germania da un lato e paesi deboli dell’area euro (GIIPS)
dall’altra si manifestò clamorosamente soprattutto sul mercato del lavoro, con
tassi di disoccupazione storicamente bassi in Germania (poco più del 5%), e
molto alti nei GIIPS, dal 27% di Spagna e Grecia, al 17% del Portogallo, al
15% dell’Irlanda, all’11% di Italia e Francia. Le differenze appaiono ancora
più drammatiche in termini di disoccupazione giovanile, con tassi di
disoccupazione dei giovani fra 15 e 24 anni inferiori al 10% in Germania,
superiori al 50% in Grecia e Spagna, di circa il 38% in Italia.
Mentre nel primo decennio dell’era dell’euro l’attenzione era
principalmente concentrata sugli squilibri di finanza pubblica, aggravati a
volte in modo eccezionale dalle crisi bancarie, a partire dal 2010 l’attenzione
si è gradualmente spostata verso gli squilibri di competitività determinati da
dinamiche differenziate nel costo del lavoro e dei prezzi nei diversi paesi
dell’area euro. Il problema è che il fatto di aver trascurato questi squilibri per
molti anni, anche in base ad analisi eccessivamente ottimistiche di economisti
di grande prestigio, ha fatto sì che essi assumessero dimensioni
particolarmente elevate, fino a oltre il 30% per la Grecia e la Spagna rispetto
alla Germania, e fino a circa il 20 per cento per l’Italia. Questi squilibri
rappresentano il rischio più insidioso per la sopravvivenza dell’Unione
monetaria europea, perché la sua disgregazione, con il ritorno a monete
differenti nei diversi paesi, potrebbe apparire come un modo relativamente
indolore per Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, ecc. di recuperare in breve
tempo la competitività persa fra il 1998 e il 2007. Ciò tuttavia sarebbe una
soluzione tutt’altro che indolore, soprattutto nella fase iniziale, e
comporterebbe il ritorno a monete nazionali diverse caratterizzate da tassi di
cambio in balia della speculazione finanziaria internazionale. Negli anni
recenti, pur con costi molto elevati in termini di occupazione e reddito,
l’Irlanda, e in misura minore la Spagna, sono riuscite a registrare significativi
recuperi di competitività anche mediante riduzioni dei salari monetari e dei
prezzi dei prodotti in Irlanda e soprattutto mediante aumenti di produttività e
salari monetari stabili in Spagna. Ultimamente anche la Grecia e il Portogallo
35
sembrano aver compiuto progressi in questa direzione, mentre l’Italia è
riuscita finora soltanto a fermare la perdita di competitività rispetto alla
Germania, e in un altro grande paese dell’Unione monetaria, la Francia, la
dinamica della competitività è stata anche meno soddisfacente che in Italia.
Per effetto di queste dinamiche differenziate della competitività, si prospetta
concretamente il rischio che nei prossimi anni i paesi che presenteranno
maggiori difficoltà di permanenza nell’area euro non siano più Grecia,
Spagna, Portogallo e Irlanda, ma l’Italia e la Francia.
La crisi dell’area euro evidenzia la grande importanza di far sì che fra
paesi che utilizzano la stessa moneta le differenze di produttività siano
compensate da differenze nel prezzo del lavoro. Ignorare questa verità
economica fondamentale ha condotto ad una crisi gravissima all’interno
dell’area euro, con costi elevatissimi in termini di disoccupazione, soprattutto
in Grecia, Spagna e Portogallo. Ciò che vale per i rapporti fra paesi diversi
vale anche per i rapporti fra le regioni di uno stesso paese. Ignorare ciò per le
diverse regioni italiane ha comportato costi elevatissimi in termini di
disoccupazione per le regioni del Mezzogiorno, e in particolare in per la
Calabria, nonostante una politica fiscale fortemente espansiva proprio nelle
regioni del Mezzogiorno.
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