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RASSEGNA STAMPA mercoledì 11 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da CinemaItaliano del 10/03/15 "N-Capace" ad Astradoc "N-Capace" ad Astradoc Proseguono con grande successo di pubblico gli appuntamenti del venerdì sera al cinema Astra di via Mezzocannone con Astradoc 2015 – Viaggio del Cinema del Reale, rassegna sul documentario d’autore a cura di Arci Movie e Parallelo 41 Produzioni in collaborazione con Università degli Studi di Napoli Federico II e COINOR. Venerdì 13 marzo, sempre alle 21.00, in anteprima nazionale a Napoli, N-CAPACE di Eleonora Danco, premiato al 32° Torino Film Festival con una menzione speciale della Giuria. Autrice, regista, attrice, performer, Eleonora Danco, che ha scritto diretto e interpretato il film, sarà presente in sala per salutare il pubblico. Prodotto e distribuito da Bibi Film in collaborazione con Rai Cinema, N-CAPACE racconta di una donna, un’anima in pena, che si aggira tra Roma e Terracina, dove vive l'anziano padre. Vaga tra campagne, mare e città, con un letto e in pigiama. Spesso con un piccone in mano, vorrebbe distruggere la nuova architettura che ha tradito i suoi ricordi. Il rapporto con il tempo e la memoria è motivo di struggimento per lei, unico personaggio lucido del film, il più sofferente. Comunica solo con adolescenti e anziani, compreso suo padre, interrogandoli sull’infanzia, la morte, il sesso, attraverso delle provocazioni, degli stimoli, anche fisici. Il corpo e i luoghi diventano sogni, incubi, ricordi. Una intimità tanto personale quanto universale. Da Adn Kronos dell’11/03/15 Festival nazionale teatro spontaneo: XX edizione Il Festival Nazionale di Teatro Spontaneo, la manifestazione teatrale che caratterizza la primavera aretina, nella sua XX edizione, regalerà agli amanti del palcoscenico spettacoli di alta qualità artistica, grazie a compagnie provenienti da molte regioni italiane: Lazio, Veneto, Marche, Toscana e Campania. “Da un felice intuizione oramai del 1996 - ha sottolineato l'assessore Barbara Bennati - è nata questa manifestazione per promuovere esperienze di teatro popolare. L'aspetto più innovativo è stato fin da subito quello di uscire dalla consuetudine di fare teatro a teatro a favore di spettacoli diretti a una platea più vasta possibile, dai giovani ai meno giovani, dalle casalinghe alle famiglie. È oramai un evento di tutta la città che rilancia il ruolo dei centri di aggregazione sociale che dopo la fine delle circoscrizioni si pongono come spazi essenziali della vita comunitaria”. “Lo sforzo per il centro di aggregazione sociale - hanno dichiarato il suo rappresentante Franco Guidelli e Donato Caporali dell'Arci - è enorme, anche economico. Il centro non ha grandi risorse, ma le convogliamo tutte in questo evento per il quale, attualmente, lavorano 68 persone”. Il direttore artistico Sandra Guidelli: “otto le serate a concorso ma undici gli spettacoli: dal teatro sociale al dialetto chianino. Chi porta i classici, potrà pure chiamarsi 'compagnia dilettantistica' ma poi dimostra una qualità da poter competere con i professionisti. L'aspetto artistico è importante ma ricordo che con questo evento, in questi due decenni, si è creato un pubblico di cittadini disponibili all'ascolto. Dunque, buon teatro a tutti”. Anche quest’anno il Festival sarà a ingresso gratuito e si svolgerà ogni venerdì alle 21,15 2 al Centro di Aggregazione Sociale Fiorentina, Via Vecchia 11 (dentro porta San Clemente). Otto saranno le compagnie in gara che si contenderanno il premio per il miglior spettacolo in lingua italiana e in vernacolo, oltre ai premi per il miglior attore e la migliore attrice decisi dalla giuria di esperti. Altri ambiti premi sono quello di gradimento del pubblico e quello alla regia dedicati rispettivamente a due pilastri della manifestazione: Mauro Nocentini e Attilio Vergni, morto prematuramente lo scorso anno. Molte delle opere a concorso sono frutto di drammaturghi contemporanei italiani, caratterizzati da un forte senso dello humour, come Antonella Zucchini, Bruno Alvino, Pietro Romagnoli e Gaetano Troiano - gli ultimi tre sono anche registi - e di stranieri di fama mondiale quali Pascal Quignard e Roger Ruef. Non potevano mancare autori classici come Eduardo De Filippo con “Natale in casa Cupiello” (venerdì 24 aprile) e Victor Hugo con “Notre Dame de Paris”, da cui la bravissima Roberta Costantini ha tratto l’imperdibile spettacolo “La Cattedrale” (venerdì 15 maggio), vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Il Festival è già partito con due serate fuori concorso, dedicate al teatro sociale con la compagnia di ragazzi e adulti, diversamente abili e non, “I Contaminati” di Barbara Peruzzi e con una versione della “Mandragola” di Machiavelli, tradotta in dialetto chianino da Giulio Vignoli, regista della compagnia di Montagnano. Terminerà il 22 maggio con la serata di premiazione, presentata dal giornalista Luca Caneschi, dal presidente Sergio Franchi e dalla direttrice artistica Sandra Guidelli. Durante la festa finale si esibirà la Compagnia Primancera, diretta da Moreno Betti, nello spettacolo “Le comiche”, testi di Eduardo de Filippo, Lunari, Wolinsky, Claude Bretecher, Fabrizi, Pietro de Vico, Nino Taranto. Prossimo appuntamento: venerdì 13 marzo. Una cicogna che tarda a portare i suoi frutti, i malevoli pettegolezzi dei paesani curiosi, vecchi screzi familiari che tornano a riaccendersi, il tutto condito dalla irresistibile simpatia del dialetto maceratese: ecco gli ingredienti dello spettacolo “Che carogna la cicogna!” messo in scena dalla compagnia Teatrale G. Lucaroni di Mogliano (Mc). Le altre date, oltre a quelle suddette, sono: venerdì 20 marzo con “La panacea di tutti i mali” di Antonella Zucchini, regia di Michele Coppelli. Venerdì 27 marzo, “Nun la voglio mmaretà!” di Gaetano Troiano, che firma pure la regia. Venerdì 10 aprile, “E tutti risero felici e contenti”, di Bruno Alvino, che è anche regista. Venerdì 17 aprile, “Hospitality suite” di Roger Rueff, regia di Antonio Moselei e Bruno Alvino. Venerdì 8 maggio, “Una pura formalità” di Pascal Quignard, regia di Alfredo Scarpato. 3 ESTERI dell’11/03/15, pag. 1/33 Lettera a Teheran Lo sgambetto dei repubblicani al presidente Indegno, mai visto niente di simile nei 36 anni che ho passato al Senato: le parole durissime del vicepresidente Joe Biden riflettono l’umore furibondo della Casa Bianca per la lettera aperta che 47 senatori repubblicani hanno inviato al regime di Teheran con l’obiettivo esplicito di far fallire i negoziati Usa-Iran sul nucleare. Per loro Obama non può siglare accordi non concordati con le Camere. Falso, replica Biden: quando Nixon riconobbe la Cina e poi per la fine della guerra in Vietnam e il rilascio degli ostaggi detenuti in Iran, l’America ha preso impegni senza un voto del Congresso. Ma è di inaudita violenza anche la replica da destra: i veti incrociati che bloccano da anni la politica interna Usa rischiano ora di paralizzare anche le iniziative internazionali di Washington. Sono anni che i repubblicani costringono la Casa Bianca a combattere una guerra di trincea su tutte le questioni interne, a cominciare dalla riforma sanitaria che la destra ha cercato di bloccare in ogni modo anche dopo la sua attuazione: interventi del Congresso, dei governatori dei singoli Stati e anche dei magistrati conservatori. Sulla politica estera, però, Barack Obama ha sempre goduto di maggiore autonomia sia perché quella della sicurezza nazionale è una responsabilità ampiamente affidata, nel sistema costituzionale Usa, alla presidenza, sia perché almeno a livello internazionale la superpotenza ha cercato, almeno fino a due anni fa, di mostrarsi compatta. Le cose sono cambiate col ritiro Usa da Iraq e Afghanistan, le incertezze di Barack Obama nella crisi siriana, l’emergere della minaccia dello Stato islamico e, soprattutto, col negoziato con l’Iran sul nucleare che, secondo i conservatori, rischia di consentire a Teheran di dotarsi, tra qualche anno, di armi atomiche: una trattativa condivisa dalle capitali occidentali, dalla Russia e dalla Cina, ma avversata, oltre che dai Paesi arabi sunniti, dal governo israeliano di Benjamin Netanyahu che parla di minaccia mortale. Una lettera davvero illegittima e senza precedenti, quella dei 47 senatori? In realtà, come detto, i repubblicani da tempo hanno messo in piedi una sorta di diplomazia parallela a quella della Casa Bianca: basti pensare ai tanti viaggi di John McCain in Medio Oriente per cercare di aiutare i ribelli siriani anti-Assad che la Casa Bianca, pur ostile al dittatore di Damasco, non ha mai voluto armare. Ma gli atti clamorosi delle ultime settimane — prima l’invito a Netanyahu a parlare davanti al Congresso all’insaputa del presidente degli Stati Uniti, poi la lettera mirante a far fallire un negoziato internazionale — rappresentano di certo un salto di qualità inquietante. Senza precedenti? Su questo i pareri possono divergere. I repubblicani, ad esempio, ricordano che nel 2006, riconquistata la Camera, la speaker democratica Nancy Pelosi promise di costringere il presidente Bush a ritirare le truppe dall’Iraq. L’anno dopo Pelosi — sarcasticamente chiamata dai conservatori «general Pelosi» — andò, contro la volontà della Casa Bianca, a Damasco a negoziare con Assad (che allora i democratici volevano coinvolgere in una soluzione per l’Iraq, mentre Bush lo voleva isolare). Ci sono anche altri precedenti, dal conflitto del Kosovo (il Congresso vietò a Bill Clinton di mettere truppe in campo) al blocco degli aiuti di Reagan ai Contras in Nicaragua (un voto parlamentare del 1987, aggirato dal governo di allora con atti che portarono allo scandalo Iran-Contra). 4 La differenza, stavolta, è che la lettera, più che a incidere su un negoziato specifico, sembra destinata, col suo linguaggio che trasuda disprezzo nei confronti del presidente, a minare il ruolo della Casa Bianca in una fase diplomatica delicatissima. Un precedente assai grave per la credibilità negoziale degli Usa, già messa in dubbio in altre trattative recenti come quelle per gli accordi di libero scambio. dell’11/03/15, pag. 14 Iran, la destra Usa boicotta Obama La rabbia della Casa Bianca per la lettera dei senatori repubblicani a Teheran DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Delle due l’una: o i repubblicani volevano aiutare gli ayatollah nella trattativa Usa-Iran sul nucleare o volevano minare la posizione del commander-in-chief degli Stati Uniti. In tutti e due i casi l’episodio è di una gravità inaudita». Dopo il vicepresidente Joe Biden, anche Hillary Clinton, ex segretario di Stato e probabile candidato democratico alla Casa Bianca nel 2016, condanna con durezza la lettera aperta scritta da 47 senatori conservatori ai leader iraniani: una missiva che trasuda disprezzo nei confronti di Obama e nella quale si sostiene che, in termini giuridici, il presidente non ha il potere di siglare accordi internazionali senza il consenso del Parlamento. La missiva ha il tono di una lezione di diritto costituzionale, ma il vincolo di ratifica degli accordi con un voto del Congresso riguarda i trattati internazionali. Al di fuori di questi, avvertono i senatori, ci sono semplicemente accordi esecutivi che possono essere cancellati. La lettera, scritta dal senatore Tom Cotton dell’Arkansas, esemplifica: «Un’intesa sul nucleare iraniano sarebbe un accordo esecutivo tra il presidente Obama e Khamenei che il successore di Obama potrebbe revocare in ogni momento». Insomma, i senatori della destra che solo dieci giorni fa hanno fatto parlare al Congresso il premier israeliano Netanyahu, ostile all’accordo, ora avvertono Teheran: non vi conviene negoziare con un presidente «azzoppato». Inaudito, insorge Biden, che cita una sfilza di accordi internazionali raggiunti senza voti del Congresso, a partire dal riconoscimento della Cina da parte dell’amministrazione Nixon. Biden usa parole di fuoco: accusa i senatori di voler compromettere i poteri di un presidente in carica con un comportamento «che è al di sotto della dignità di un’istituzione, il Senato, per la quale ho un profondo rispetto. Ma nei 36 anni che ho passato in quell’aula non ho mai visto niente di simile». Teheran sembra non volersi far influenzare da una lettera considerata un atto di lotta politica interna, ma l’accusa mossa da Biden ai repubblicani di minare i poteri presidenziali in materia di sicurezza nazionale suona quasi come il preavviso di una possibile crisi istituzionale. E tuttavia, anche se 7 senatori della destra hanno preferito non firmare la lettera, il grosso del fronte conservatore tira dritto e replica al vicepresidente con ancora maggior durezza: «Hai sbagliato tutto in politica estera per 40 anni» dice il governatore della Louisiana (e possibile candidato repubblicano alle presidenziali) Bobby Jindal. E invita Biden a scusarsi con Cotton (l’estensore della lettera, ndr ) che, «almeno, è un veterano che ha combattuto in Iraq». Lo stesso Cotton replica: «Ma cosa ne sa Biden di politica estera?». Domanda curiosa, quella rivolta da un neosenatore eletto quasi solo perché ha rischiato la pelle in Iraq, all’ex presidente della Commissione Esteri del Congresso. Effetti di una conflittualità politica esasperata che ora invade anche il terreno delicato delle relazioni internazionali. M. Ga. 5 dell’11/03/15, pag. 14 L’ultimo video dell’orrore Il boia bambino dell’Isis giustizia la «spia del Mossad» E in Nigeria fa strage la kamikaze ragazzina di Boko Haram Ancora bambini utilizzati come boia dallo Stato Islamico, l’Isis, per minacciare e uccidere. Nel nuovo video, diffuso ieri sera sui siti jihadisti, un ragazzino dall’apparente età di 12 o 13 anni punta senza tremare la pistola alla testa di un giovane uomo descritto come «agente del Mossad», il servizio segreto israeliano. Accanto a lui un guerrigliero barbuto con l’accento della Francia meridionale (a Parigi si sospetta possa essere cugino di quel Mohamed Merah responsabile dell’attacco alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012, che causò quattro morti) minaccia Israele e le comunità ebraiche della diaspora. «Oh ebrei! Presto i leoni del Califfato attaccheranno le vostre terre e le vostre roccaforti in Francia per liberare Gerusalemme!» recita il jihadista. Il ragazzino resta impassibile, dice di essere stato spinto ad agire dalla famiglia. Il suo viso sembra lo stesso del piccolo boia che un paio di mesi fa venne filmato da Isis mentre sparava alla nuca di due uomini, allora definiti «spie russe». Questa volta però la sua vittima la guarda in faccia. Nel momento cruciale il video gira al rallentatore, lo sparo, il piccolo foro nella fronte e il prigioniero che rantola a terra. Quindi nuovi colpi alla testa e al corpo. Ancora ieri, una bambina kamikaze inviata da Boko Haram ha fatto strage di civili nel mercato di Maiduguri, nel nord-est della Nigeria, i morti sono almeno una quindicina. Il nuovo video dell’Isis dura quasi 14 minuti ed è parecchio sofisticato. Isis lo presenta come fosse un file dell’intelligence. Si richiama al suo annuncio un paio di mesi fa dell’arresto di Mohammad Said Ismail Musallah, un palestinese diciannovenne di Gerusalemme est e cittadino israeliano. Allora il giovane veniva fatto confessare di fronte alla telecamera di essere «un agente del Mossad» inviato in Siria. Ma questa volta il racconto è articolato: dice che in passato era un vigile del fuoco, poi reclutato dai servizi israeliani da un vicino poliziotto con il pieno assenso del padre e del fratello. Spiega i suoi primi incarichi da informatore contro «quelli che tirano pietre a Gerusalemme». Quindi l’offerta di fingersi volontario di Isis col fine specifico di «individuare le loro basi, i centri di addestramento, i depositi di armi e soprattutto fornire le identità dei palestinesi militanti con il Califfato». Il video continua con la sua descrizione dell’arrivo alla «casa di accoglienza» di Isis. Sino alla sua decisione di comunicare con il padre, rimasto a Gerusalemme, dal vicino internet caffè. È allora che apparentemente i jihadisti si insospettiscono. Lo arrestano, interrogano. Lui cede presto. La sua fine è segnata. Il video termina con la diffusione di una decina di nomi e foto di arabi ed ebrei descritti da Isis come «uomini del Mossad». 6 dell’11/03/15, pag. 16 Noi ragazze del campo prigione Nella città dei profughi in Giordania, dove la gente soffre e i bambini ridono, tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po’ stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. «Voglio fare il soldato». Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà. Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d’acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi. Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Dara’a, in Siria, l’11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all’ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d’affitto – l’80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle «host communities» – o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l’esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte. Gli ultimi arrivati — pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo — finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare («il Paese ha già troppi disoccupati» spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro. «Io non voglio restare» assicura Muhammad, 34 anni, che s’è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. «Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra». Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. «Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie». Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante. Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall’organizzazione internazionale non governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall’altra quelli per le donne. Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. «In Siria avevano il bagno in casa, l’acqua corrente, la tv satellitare, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo» spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al campo. «Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l’acqua ai container. Ora costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna». Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrutture. Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le «abitazioni» messe a disposizione dall’Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono 7 la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis. Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattate perché «quando c’è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta», avverte la responsabile dell’oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l’ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L’ordine è non stare in giro troppo, da sola. «Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono» dice la preside di una delle sei scuole gestite dall’Unicef con i fondi dell’Unione europea. Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi , la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l’insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettenti. «Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato».Vuoi continuare? « Akeed…Taba’an , certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica. Ma l’università costa, ci sono pochissime borse di studio». Ti manca la Siria? «Là c’era il verde, qua è solo deserto». I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent’anni in tre, «in Siria ci andavamo, ma qui...». Si arrabattano a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d’oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall’entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all’aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d’affari da 10 milioni al mese. C’è pure la «boutique» di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, «ma fuori lo paghi 15». Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di So’ad che prende 7 dinari per taglio e meche . Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni. Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l’imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, «ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzano». Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittimi. Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. «Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria». Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? «No, sarebbe un tradimento. Lo amavo». Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il 8 parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. «Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui» sussurra. Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: «Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci». Perché non può? «Ha quasi 15 anni...». Sara Gandolfi Dell’11/03/2015, pag. 8 Una Lista Araba Unita, per esistere Elezioni 17 marzo. Le forze che rappresentano gli arabo israeliani si presentano unite al voto della prossima settimana, con la possibilità di ottenere un risultato mai raggiunto in passato. E' la risposta alle politiche del governo e all'offensiva dell'estrema destra rappresentata dal ministro degli esteri Lieberman Michele Giorgio Nei comizi elettorali, nei dibattiti televisivi e nelle interviste, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu, descrive gli arabo israeliani, i palestinesi con cittadinanza israeliana, come «terroristi» da cacciare via, da «cedere» all’Anp di Abu Mazen. E negli ultimi anni ha promosso leggi discriminatorie e punitive contro questo 20% della popolazione israeliana. Ha anche ottenuto l’innalzamento della soglia di sbarramento per l’ingresso alla Knesset dal 2 al 3,25%, allo scopo proprio di cancellare la presenza araba in Parlamento. Il risultato è stato opposto. I partiti arabi hanno reagito dando vita alla Lista Unita che, secondo gli ultimi sondaggi, otterrà al voto del 17 marzo tra i 12 e i 13 seggi e diventerà il terzo o quarto gruppo parlamentare. «Lierberman è riuscito a realizzare quello che litigi, rivalità e differenze ideologiche avevano impedito per decenni. Ha messo insieme come voleva la nosra gente liberali e conservatori, comunisti e islamisti e persino arabi ed ebrei», commenta Hassan Jabarin, del centro arabo di assistenza legale “Adalah”. Certo la Lista Unita è parecchio eterogenea, tiene insieme formazioni distanti fra loro. Eppure l’alleanza elettorale nata inizialmente per non scomparire dal Parlamento, nel corso delle settimane si è rivelata qualcosa di più, una sorta di proposta di “modello sociale” fondato sulla piena uguaglianza e una idea di cittadinanza ben diversa da quella che caratterizza oggi Israele. Su questo punto batte Ayman Odeh, il 40enne avvocato di Haifa, per anni vicino all’ex leader del partito comunista Mohammed Barakeh, che guida la Lista Unita. Odeh ha messo in luce doti politiche che hanno sorpreso molti. In un recente dibattito elettorale in tv non ha raccolto le provocazioni, non è sceso sul terreno dello scontro verbale con Lieberman e gli altri rappresentanti della destra. Ha scelto invece di spiegare con tono pacato che la Lista Unita non è solo un riferimento elettorale per la minoranza palestinese in Israele ma una forza politica che offre un’alternativa anche agli ebrei che non si riconoscono nei partiti sionisti. «Tanti ci discriminano, altri vorrebbero negarci diritti fondamentali. A questi (israeliani) noi rispondiamo non solo rafforzando l’unità degli arabi ma proponendo agli ebrei democratici di unirsi a noi nella realizzazione di uno Stato per tutti», dice Odeh, che durante la campa9 gna elettorale ha chiesto e ottenuto una posizione di basso profilo dai suoi compagni di lista sulla scena politica da anni, come Jamal Zahalka e Hanin Zoabi del partito nazionalista-progressista Tajammo (Balad) e Ahmad Tibi (Ram) famoso per le sue risse con Lieberman e il resto della destra alla Knesset. Nelle scorse settimane è giunta l’adesione alla Lista Unita, senza dubbio clamorosa, dell’ex presidente della Knesset e dell’Agenzia Ebraica, Avraham Burg. Ebreo osservante e a lungo esponente di primo piano della politica e delle istituzioni israeliane, Burg dopo un esilio volontario in Europa, ha annunciato la “fine” del Sionismo e l’appoggio a uno Stato binazionale. La linea inclusiva adottata da Ayman Odeh convince soprattutto la classe media arabo israeliana che vive a cavallo tra il nazionalismo che attira i più giovani e una maggiore integrazione nello Stato vista con più favore da chi ha superato i 40 anni. Raccoglie invece consensi decisamente più modesti nelle aree del paese, come il Triangolo, la bassa Galilela a ridosso della Cisgiordania, il Neghev, dove le comunità palestinesi sono profondamente deluse anche dal comportamento dei partiti arabi e denunciano con forza le politiche discriminatorie e punitive dello Stato. In queste zone è ancora fresco il ricordo dell’uccisione sommaria da parte della polizia, lo scorso novembre a Kufr Kana, di un giovane Khayr al Din Hamdan. «Odeh e i suoi compagni sbagliano, il boicottaggio del voto, della Knesset, delle istituzioni deve essere la nostra vera battaglia — spiega Mohammed Kabha, attivista e membro di una associazione progressista di Arara, vicino a Umm el Fahem, la città che Lieberman vorrebbe “cedere” all’Anp – lo Stato di Israele così come è stato concepito e realizzato dal movimento sionista farà sempre e soltanto gli interessi della maggioranza ebraica e negherà la piena uguaglianza alle minoranze. Partecipare alle elezioni – afferma il giovane attivista – significa legittimare l’apartheid israeliano». Kabha è convinto che la maggioranza degli 835mila elettori palestinesi d’Israele (il 15% di tutti gli aventi diritto) non andrà alle urne il 17 marzo. Per il boicottaggio spinge anche il movimento islamico del nord della Galilea, che contesta la “scelta di partecipare” fatta dagli islamisti di Kufr Qassem, più a sud. Nel 2013 votò appena il 56% degli arabo israeliani. Ayman Odeh si dice fiducioso. «L’affluenza alle urne (degli arabi) raggiungerà il 70% e la Lista Unita otterrà 15 seggi», prevede Odeh, aggiungendo che il fronte arabo unito dopo il 17 marzo non darà appoggio ad alcun governo. E’ anche vero però che gli altri partiti rifiutano l’idea di una coalizione con gli arabi, che dal 1948 non hanno mai formalmente fatto parte di un governo: una regola non scritta vuole che nell’esecutivo israeliano ci siano solo partiti sionisti. «I voti e i seggi arabi alla Knesset comunque saranno importanti e non potranno essere ignorati – afferma la giornalista Nahed Dirbas – perchè diranno in modo molto chiaro che gli arabi, i palestinesi sono uniti ed esistono in questo Paese». dell’11/03/15, pag. 1/5 La strategia di Tsipras e la troika Ue Trattativa continua Dimitri Deliolanes La strategia seguita finora da Tsipras è coerente con il suo programma preelettorale: instaurare una dura trattativa con i grandi sacerdoti di Bruxelles e i loro «azionisti di riferimento» tedeschi. Strappare concessioni e resistere fino alla fine alle pressioni per tornare alla vecchia politica di austerità. Al contrario di quello che si vuole far credere, Atene ha ottenuto sia successi, sia pareggi. Tra i successi c’è l’accettazione (anche se obtorto collo) da parte dell’eurogruppo del piano di misure di Varoufakis. Un piano che non contiene neanche una misura di austerità. 10 Il pareggio è il controllo da parte della troika, che comincia oggi. Ma con la differenza importante che ora abbiamo emissari tecnici che si confrontano con i tecnici greci, lasciando fuori le questioni politiche. Negli ultimi giorni è diventato evidente che Bruxelles e Berlino non hanno rinunciato al loro disegno di costringere Tsipras a tornare sui suoi passi. Anzi, fare finta che abbia già fatto il grande salto. «Il governo greco avrà grosse difficoltà a spiegare agli elettori l’accordo», aveva dichiarato Scheuble. L’avvenimento che ha messo in allarme il governo di Atene è stato l’annuncio da parte di Draghi che la Grecia sarebbe stata esclusa dal quantitative easing, accompagnato dalla– del tutto ingiustifcata– decisione della Bce di non restituire ai greci i circa 1,9 miliardi di guadagni sui bond greci. Da quel momento ogni mossa di Bruxelles e di Berlino è stata attentamente esaminata e ponderata. Il disegno che si intravede è il seguente: evitare la strategia iniziale di considerare le politiche di austerità come conditio sine qua non per l’appartenenza all’eurozona. Accettare le proposte di Atene, spingere per la loro realizzazione, ma evitare di sganciare i soldi. Tsipras ha parlato di «corda attorno al collo». Il fine è provocare il lento logoramento del governo fino alla sua delegittimazione, in modo da arrivare a una crisi politica, possibilmente all’annullamento del risultato delle elezioni di gennaio. Fino a quando non ci sarà una restaurazione, attraverso una (improbabile) vittoria elettorale delle forze neoliberiste. È questo il segreto che si nasconde dietro al cocciuto rifiuto dell’ex premier di destra Antonis Samaras di lasciare la poltrona di presidente di Nuova Democrazia: è convinto, ne ha ricevuto precise assicurazioni, che il governo Tsipras sarà solo una «breve parentesi». Paradossalmente, a questo progetto partecipano involontariamente anche le forze interne a Syriza che contestano la strategia del governo. Finora la contestazione non ha avuto grande impatto, anche perché l’opposizione di sinistra non è in grado di proporre una strategia alternativa. Negli ultimi giorni inoltre i toni si sono abbassati molto e le eventuali contestazioni si esprimono a livello di Consiglio dei ministri sui provvedimenti da prendere. Quest’ultimo è un aspetto di debolezza del governo della sinistra greca. Dal 25 gennaio a oggi sembra che l’attenzione di tutta la squadra di Tsipras si sia concentrata sulle trattative con Bruxelles e si è fatto pochissimo sul piano interno. Finora sono stati presentati in Parlamento i (doverosi) provvedimenti per l’emergenza umanitaria e il progetto legge per la ricostruzione della Tv pubblica Ert. Cosa si farà con le forze di polizia fortemente infiltrate dai nazisti di Alba Dorata? Il ministro Panoussis non l’ha chiarito. Eppure, ogni ritardo è pericoloso: la settimana scorsa un generale di polizia ha organizzato una provocazione rigurdante i rifugiati. E a Exarchia, il quartiere ribelle di Atene, succede che bande di anarchici incontrollabili provochino violenze gratuite e la polizia non ha alcuna indicazione su come deve comportarsi. Lo stesso vale anche in altri settori: il potere latita e nel vuoto si inseriscono gruppi d’interesse, di solito corporativo. Bisogna anche ammettere che Dijsselbloem ha ragione quando accusa Atene di «aver perso tempo». Il piano di Varoufakis non esige grandi spese, solo un tenace lavoro di riorganizzazione e di indirizzo della caotica amministrazione pubblica greca. Tsipras ha rimproverato il suo ministro di dare troppe interviste invece di lavorare. Ha ragione. Il piano è opera del suo ministero, prevede provvedimenti giusti e necessari, non si capisce cosa si aspetta a cominciare a presentare i relativi progetti legge. È un passaggio cruciale nella strategia di Tsipras: se si punta tutto sulla negoziazione, bisogna che i risultati raggiunti si trasformino in realtà. Non per far contento Scheuble — il quale, al contrario, masticherà amaro — ma per fare contenti i greci. Lo scontro con gli 11 oligarchi non è solo un punto concordato con Bruxelles, è il primo e il più importante mandato dato dall’elettorato alla sinistra. Varoufakis deve preparare al più presto il nuovo sistema delle imposte, con esenzioni importanti per i più poveri e meccanismi efficienti per combattere la scandalosa evasione dei più ricchi. Se lo farà in tempi rapidi, quel 60–80% che oggi sostiene il governo si trasformerà in uno scudo fortissimo contro ogni ipotesi di destabilizzazione e di strangolamento del paese. Dell’11/03/2015, pag. 5 Blockupy, una coalizione «ibrida» per bloccare l’austerità e il suicidio dell’Europa Austerity. Sindacati tedeschi, italiani, centri sociali e movimenti sociali stanno preparando la mobilitazione contro la Bce del 18 marzo Beppe Caccia Per una curiosa coincidenza storica, non vi è né vi sarebbe mai stato momento più appropriato di questo per l’inaugurazione a Francoforte della faraonica Eurotower, nuova sede della Banca Centrale Europea. Manca infatti una settimana esatta alla cerimonia, seppur ridimensionata rispetto agli annunci iniziali. E l’appuntamento cade nel mezzo delle nuove tensioni che attraversano l’Eurogruppo, alla ripresa di quel braccio di ferro tra governo greco e ministri dell’Unione coincidente con l’avvio delle procedure di quantitative easing da parte della Banca Centrale, i cui termini stanno mostrando l’inconsistenza di tanta chiacchiera sulla sua presunta «tecnica indipendenza». Il fermo rifiuto opposto dalla Bce all’acquisto dei soli titoli di Stato ellenici chiarisce infatti come Draghi stesso stia giocando una partita tutta politica, certo non corrispondente nei modi a quella degli oltranzisti à la Schäuble, ma altrettanto orientata a condizionare le scelte di Atene. Pressione mediatica, ricatto dei mercati finanziari e minacce esplicite di governi e istituzioni continentali hanno lo scopo preciso di impedire che il cambio in Grecia possa dischiudere una prospettiva d’alternativa per tutta Europa. Ma sono pure sette i giorni che separano dalla prima grande mobilitazione transnazionale convocata dopo la vittoria elettorale di Tsipras: da mesi la coalizione Blockupy sta lavorando per fare di mercoledì 18 marzo una giornata di mobilitazione per contestare la cerimonia della Bce. E l’iniziativa interviene all’interno di quella «finestra di possibilità per il cambiamento in Europa», che lo scontro inter-governativo intorno alla rinegoziazione dei memoranda per la Grecia sta tenendo aperta. Non è quindi fuori luogo l’ultimo appello lanciato dall’alleanza che raccoglie movimenti sociali e organizzazioni della società civile, sindacati e partiti anti-austerity, quando afferma che «è giunto il momento di agire!». In Germania intorno al 18 marzo si è allargata la partecipazione: oltre alle reti di movimento della sinistra radicale, ad associazioni come Attac e a un partito come Die Linke, a tutte le iniziative prenderanno parte sia il sindacato dei metalmeccanici IG Metall sia la confederazione Dgb. E, nonostante il giorno infrasettimanale, i primi riscontri parlano di migliaia di persone in arrivo a Francoforte, anche con treni speciali. La giornata nella city finanziaria tedesca, sulla base della profonda condivisione dell’«action consensus» raggiunta all’interno di Blockupy, sarà articolata in quattro distinti momenti: alle 7 del mattino i blocchi, che attraverso la pratica della disobbedienza civile, cingeranno il perimetro della Eurotower con l’esplicito obiettivo di «impedire che sia un normale giorno di lavoro» e che la cerimonia d’apertura possa svolgersi indisturbata. Poi, verso mezzogiorno, singole iniziative diffuse in città rivolte a istituzioni, banche private e multinazionali, 12 indicate come «responsabili nella gestione capitalistica della crisi». A partire dalle 15 la piazza della centralissima Römerberg vedrà susseguirsi interventi e comizi (tra questi quello, sulla connessione tra battaglia anti-austerity e cambiamento climatico, della giornalista Naomi Klein), fino alle 17 quando da lì si muoverà per le strade del centro il corteo conclusivo, una marcia «colorata e determinata» che non accetterà divieti a manifestare per un’«Europa delle lotte e dal basso», aperta proprio da un contingente transnazionale di donne. Ma anche dall’Italia si annuncia una presenza più numerosa e politicamente a più ampio spettro rispetto agli anni passati. Cinque sono gli appelli più significativi. Quello dei centri sociali che, insieme alla rete tedesca della Interventionistische Linke, promuovono il percorso della «Comune d’Europa», protagonisti lo scorso 2 marzo del blocco «arcobaleno» alla sede di Venezia della Banca d’Italia: «solo respingendo il ricatto “o la borsa o la vita”, può cominciare l’inverno per le élite d’Europa». Quello lanciato dallo Strike meeting e dai laboratori locali dello «sciopero sociale», che scommettono sull’estensione a scala transnazionale di pratiche inedite e diffuse di blocco della produzione, promuovendo proprio a Francoforte un incontro con i «facchini» dei magazzini tedeschi di Amazon in lotta ed altre realtà lavorative da tutto il continente. Quello della Brigata Kalimera che, dopo aver raggiunto la Grecia nei giorni della vittoria elettorale di Syriza, «non poteva mancare all’appuntamento sotto la Bce» perché «vogliamo insieme creare un comune movimento europeo, unito nella diversità, che rompa le regole dell’austerità e inizi a costruire democrazia e solidarietà dal basso». Quello dei metalmeccanici della Fiom–Cgil, che hanno deciso di aderire nell’intento di «allargare il dialogo con sempre più soggetti a livello europeo sui temi del lavoro, della cittadinanza, della sanità, dell’immigrazione e della sostenibilità produttiva; poiché queste sono battaglie transnazionali che hanno bisogno della discussione più aperta possibile tra chi in Europa si batte per chiedere che le priorità delle persone diventino quelle della politica». Quello, infine, di Sel Europe che insiste su una «scelta radicalmente europeista, per conquistare una Costituzione europea, una tassazione progressiva dell’intera Eurozona che colpisca grandi patrimoni e rendite finanziarie, un Welfare europeo fondato sul reddito di cittadinanza, un New Deal verde all’altezza delle sfide ecologiche contemporanee». In questo quadro si inserisce anche la richiesta, a fianco di Syriza e Podemos, della Conferenza europea sulla rinegoziazione del debito, visto come il primo passo del «processo costituente di una nuova Europa democratica». Certo è che, per un giorno, le voci di Syntagma e di Puerta del Sol in lotta contro i «signori dell’austerity» si faranno sentire sotto le finestre del presidente Draghi e proprio a casa della cancelliera Merkel. E cercheranno di verificare come una coalizione «ibrida» possa provare a rovesciare la tendenza suicida dell’Europa. Dell’11/03/2015, pag. 1-13 Le idee. Le nuove destre di Front National e Lega hanno il potere di disorientare il dibattito politico deformando la realtà, ponendo le domande sbagliate, mettendo un marchio sopra ogni paura, dalla crisi economica all’immigrazione. Questo continuo “rebrand” è il segreto del loro successo Dall’archeofascismo al neofascismo il marketing nazionalista della Le Pen CHRISTIAN SALMON 13 L’OMBRA di Marine Le Pen aleggia sulle prossime elezioni locali. Il primo ministro Manuel Valls è arrivato ad affermare che il Front National è alle porte del potere. Il presidente della Repubblica parla di strappare a Marine Le Pen i suoi elettori. Sono trent’anni che la classe politica francese agita lo spauracchio frontista per riportare all’ovile gli elettori smarriti. In questo modo Jacques Chirac fu rieletto nel 2002 contro Jean-Marie Le Pen con più dell’80% dei voti in un clima di mobilitazione antifascista artificiale che all’epoca il filosofo Jean Baudrillard etichettò come appartenente all’opera buffa: la lotta del bene contro il male, la difesa dei “valori” contro il vizio spudorato. Da trent’anni ci si allea contro lo spettro del veterofascismo, non sapendo come chiamare e analizzare il neofascismo marinista, una costruzione politica originale che comincia a ispirare operazioni simili in altre parti d’Europa, come il “rebranding” politico della Lega Nord per opera di Matteo Salvini, che Repubblica ha recentemente chiamato “fascioleghismo”. Che cos’è oggi un’operazione di rebranding politico? L’esperienza francese può dare qualche indizio per interpretarne altre. Pierre Poujade diceva di Jean-Marie Le Pen, che fece eleggere deputato nel 1956 sotto l’etichetta del movimento per la difesa di artigiani e commercianti (UDCA): «Le Pen è la bandiera francese sul registratore di cassa». Di fatto, fin dalle origini, la piccola impresa familiare “Le Pen” ha prosperato rivestendo con la bandiera francese le cause più diverse e la loro clientela, i “registratori di cassa” elettorali. Salito opportunamente sul “treno poujadista” che gli aprì le porte del Parlamento sul finire della Quarta Repubblica, Le Pen si fece difensore di commercianti e artigiani. Poi, quando De Gaulle tornò al potere e l’Algeria ottenne l’indipendenza, sposò la causa dei perdenti della decolonizzazione, i rimpatriati dell’Africa del Nord la cui frustrazione fu canalizzata sotto forma di razzismo contro gli immigrati, vero vivaio del Front National, quindi, sfruttando a proprio favore il vento della rivoluzione neoliberista all’inizio degli anni ‘80, cercò di diventare il Reagan francese nel momento in cui la sinistra saliva al potere, riciclando certe parole d’ordine del breviario neoliberista come il “Buy american” o “l’America, o la ami o te ne vai” e le storielle alla Reagan sulla “Welfare Queen”, la “Regina assistenza” che si era comprata una Cadillac con il sussidio di disoccupazione... Dall’inizio degli anni ’80 il Front National si è costruito aggregando le clientele successive che le crisi politiche, economiche e sociali gli hanno servito su un piatto d’argento. A ogni tappa i suoi perdenti: prima la “piccola gente” del poujadismo contro i “grandi”, il fisco, i notabili e gli intellettuali, poi è stato il turno dei perdenti della colonizzazione, i rimpatriati dell’Africa del Nord che forniranno i battaglioni elettorali del Front National nell’attesa che le crisi economiche e finanziarie che si sono succedute negli ultimi trent’anni andassero a gonfiare le file dei perdenti della globalizzazione. L’abilità del Front National consiste da sempre nell’offrire a tutti i suoi perdenti non un programma politico, che potrebbe migliorare la loro situazione, bensì dei capri espiatori comodi per appagare la loro sete di rivalsa. Da trent’anni il Front National ricicla le frustrazioni in schede elettorali. Mette un marchio alle paure. È un franchising, un marchio depositato che “fissa” sotto un’etichetta comune (la bandiera nazionale) gli elettorati volubili, le cause perse: dalle più antiche, nate dalle guerre coloniali e dall’anticomunismo, alle più recenti, contro le élite globali; dalle più fuori moda alle più in voga che ispirano lo storytelling di questo Front National new look. Da Maurras all’Algeria francese, dal fascismo tra le due guerre al vecchio fondo pétainista, dal neoliberismo reaganiano al “sovranismo” antieuropeo. Il Front National è il partito della protezione nazionale che promette al contempo il “ritorno a casa” del franco e la mobilitazione patriottica contro gli invasori. Qualunque cosa si muova! Marine Le Pen può cacciare di frodo a suo piacimento nelle riserve della sinistra e in quelle della destra, prendendo a prestito dalla sinistra la critica della globalizzazione 14 neoliberista e dalla destra neoliberista la denuncia degli immigrati profittatori, dei Rom senza fede e senza legge, di quelli che gabbano lo stato assistenziale. Lungi dal combattere questi argomenti, la sinistra li ha convalidati dopo le cosiddette “giuste domande” poste sull’immigrazione dal Front National negli anni ’80 fino al programma di “raddrizzamento nazionale” tuttora difeso dalla “sinistra popolare”, senza dimenticare la partizione tricolore strombazzata dalla destra e dalla sinistra sul ritornello del “non lasciamo al Fronte nazionale il monopolio dell’identità, della Nazione, della sicurezza e dell’immigrazione”. La xenofobia del Front National, quindi, più che un razzismo congenito che si dovrebbe combattere in nome dei valori repubblicani, è un prisma deformante che dà una falsa immagine della società, delle sue disuguaglianze e delle sue ingiustizie. Il Front National non ha mai posto le domande giuste. Al contrario, è il suo potere di disorientamento e di deviazione che da trent’anni gli garantisce il successo. Volge male le domande che si presentano e alle quali destra e sin istra non trovano ris poste. Getta sul dibattito pubblico una specie di sortilegio che condanna destra e sinistra al ruolo di gregari e di amplificatori del grande consenso nazional-securitario in via di costituzione. Relegato ai margini del sistema elettorale, il “diavolo” perseguita la coscienza democratica. È il brutto sogno della società francese traumatizzata dalla batosta del 1940. È la coscienza sporca del “pétainismo” e del collaborazionismo. È la “vergogna” della tortura in Algeria e della fama che gli è sopravvissuta. È l’arto fantasma dell’impero dilaniato dalle guerre d’indipendenza. È il (brutto) sogno francese che agita la notte della democrazia con il suo seguito di simboli e di emblemi: vestigia di vecchie lotte ideologiche del secolo trascorso, caschi coloniali, croci celtiche colorate di bianco rosso e blu, statue di Giovanna d’Arco... e il suo popolo di spettri: i vinti della storia nazionale che gridano vendetta, reduci dell’Algeria francese, cattolici tradizionalisti, nazionalisti rivoluzionari o monarchici, alcuni riapparsi nelle manifestazioni contro le nozze gay. Altrimenti la longevità del Front National non si spiega. È “l’inconscio collettivo” che, invece di essere analizzato, si applica e si esprime nel fenomeno lepenista quale si manifesta attraverso certi giochi di parole, calembour che non sono semplici sviste o errori che la ragazza potrebbe correggere per guadagnarsi il diritto di entrare nella realtà politica, vale a dire “nel sistema”. Sono invece il marchio di un fenomeno politico che si radica nell’inconscio collettivo, infatti, proprio come l’inconscio, anche il lepenismo è strutturato come un linguaggio. Le sue battaglie, il Front National non le combatte più per le strade, ma sui media e sul significato delle parole: sono “battaglie semantiche”, dove la posta in gioco è il controllo dell’agenda mediatica, l’inquadratura e la gestione di quello che gli anglosassoni chiamano la conversazione nazionale. Marine Le Pen ha spinto l’ideologia della “rivoluzione nazionale” nell’era del marketing politico. Capisce d’istinto i codici del sampling ideologico. Da JP Chevènement alla Nouvelle droite non c’è che un passo e lei non esita a citare Karl Marx o Bertolt Brecht, Victor Schoelcher, George Orwell, Serge Halimi di Le Monde diplomatique o perfino il Manifesto degli economisti atterriti. Il Rassemblement bleu Marine è un partito camaleontico, capace di adattarsi a tutte le frustrazioni e di captare tutte le pulsioni in una logica di marketing, perché le adesioni politiche non si ottengono più sulle note delle ideologie e delle convinzioni ma su quelle del desiderio e delle attenzioni. «Appartengo alla generazione Disney», confessava un tempo suo padre. La figlia è della generazione Madonna, la sua unica vera rivale sullo scacchiere della notorietà (la stessa Madonna non si è sbagliata, usandola come bersaglio durante il suo ultimo concerto a Parigi...). All’epoca della “Cool Britannia” di Tony Blair, Kate Moss si era fatta fotografare avvolta nella Union Jack per incarnare, sotto le insegne del vecchio marchio Burberry, la trasformazione della vecchia Inghilterra in un paese giovane e cool. Marine Le Pen agisce allo stesso modo ma avvolgendo nella bandiera francese le frustrazioni nazionali. 15 Probabilmente è questa la chiave del suo irresistibile successo. ( Traduzione di Elda Volterrani) Dell’11/03/2015, pag. 19 La campagna. È partita una mobilitazione per la successione a Ban Ki-moon nel 2016. Da Kofi Annan a Melinda Gates: “È tempo che il lui sia una lei”. E tra i nomi che circolano spuntano quelli di Merkel e Lagarde Onu, sfida al tabù sul segretario generale “Ora serve una donna per guidare il mondo” VITTORIO ZUCCONI DATEMI una donna e vi solleverò il mondo: dopo quasi 70 anni di delusioni e di mancate promesse e dopo otto Segretari Generali dell’Onu tutti maschi e tutti condannati a parlare a un mondo che non li ha mai ascoltati, è partito un movimento per portare una donna al vertice delle Nazioni Unite e in cima a quel Palazzo di Vetro dove il soffitto invisibile ha sempre bloccato la loro ascesa. Si stanno mobilitando ex segretari generali come Kofi Annan, che ne ha scritto in un editoriale sul New York Times chiedendo che il nuovo segretario generale, dopo Ban Ki-moon, sia una segretaria generale, ed ex primi ministri come il norvegese Gro Brundtland, già capo di quella nazione che diede all’Onu il primo segretario, appunto il norvegese Trygve Lie. Con loro, naturalmente, signore di diversa, ma immensa fama ed estrazione come Hillary Clinton e Melinda Gates, la moglie del fondatore di Microsoft. «È tempo che il “lui” sia una “lei”» ha scritto Annan, una frase che va oltre il semplice gioco di pronomi. Maschile è infatti il genere al quale la Risoluzione emessa nel 1946 per stabilire le procedure di elezione fa esplicitamente riferimento quando disegna le caratteristiche di colui che dovrà essere eletto al pontificato laico dell’Onu. « A man », un uomo, recita, non una persona, «di grande prestigio e di alte realizzazioni », un mandato al maschile che l’Organizzazione ha religiosamente seguito, dopo Lie, con Hammarskjold, ucciso in un incidente aereo, U Thant, il controverso Waldheim, già ufficiale della Wehrmacht sul fronte russo, Pérez de Cuéllar Guerra, Boutros- Ghali, Annan e il titolare di oggi Ki-moon. Un elenco dal quale spiccano due assenze: la mancanza di una donna, apparentemente bloccata dall’indicazione per «un uomo », e di un segretario generale venuto dall’Europa dell’Est, un’assenza spiegabile con gli effetti collaterali della Guerra Fredda e dunque con l’ostracismo a ogni candidato venuto dal blocco sovietico. Ma quello scontro geopolitico è finito e il maschilismo del profilo scritto 69 anni or sono è anacronistico, di fronte a un mondo nel quale ormai donne sono alla guida di 20 nazioni e forse presto 21, se la corsa di Hillary Clinton alla Casa Bianca non incespicherà, prima che nell’avversario repubblicano, lungo il sentiero accidentato della sua lunga e movimentata vita politica. Negli straw poll , nei sondaggi di paglia che gli alti burocrati e i rappresentanti delle 193 nazioni riconosciute al Palazzo di Vetro, cominciano quindi a circolare nomi di donne, specialmente di nazioni dell’Europa Orientale, scarabocchiati su foglietti informali che le attiviste raccolte nella non troppo segreta Carboneria del “WomanSG”, “donna Segretario Generale”, conteggiano. Arrivando a studiare la calligrafia degli autori per capire chi, fra i 193 Paesi, sia a favore di quale candidata. Si trovano frequentemente votati, secondo la 16 ricerca fatta dalla Associated Press , i nomi di Helen Clark, già capa del governo neozelandese, della cilena Michelle Bachelet, della premier danese Helle ThorningSchmidt. E poi, ecco il fronte delle signore dell’Est, ormai affrancate dal marchio sovietico, la presidente lituana Dalia Grybauskaite, molto appoggiata dagli americani e molto avversata dai russi. La commissarie Ue Kristalina Georgieva, bulgara, che non dispiacerebbe al Cremlino e naturalmente avrebbe il voto dell’eurozona e della sua connazionale Irina Bokova, direttrice dell’Unesco, il braccio culturale delle Nazioni Unite. Alle spalle di queste donne si alza però l’ombra alta di signore che già hanno il proprio nome sulle prime pagine dei giornali e che potrebbero incassare voti e appoggi da nazioni che nella loro carriera hanno condizionato. La più eminente, quella che, tolta ogni pregiudiziale grammaticale del 1946, risponderebbe al criterio di grande curriculum, è Christine Lagarde, oggi presidente del Fondo Monetario Internazionale, poltrona dalla quale molti amici, ma anche molti nemici, si è sicuramente fatta. Circola inevitabilmente anche il nome di colei che oggi è la leader politica più potente del mondo, Angela Merkel. Una sua ascesa a segretariato generale dell’Onu sarebbe, visti i precedenti di tragica irrilevanza, sicuramente una buona notizia per i suoi molti nemici e la grafia di chi ne scrive il nome sui bigliettini testimonia il segreto desidero di farla ascendere fino al vertice della più solenne irrilevanza. Ma la mobilitazione delle donne che, dentro come fuori il Palazzo di Vetro, spingono per infrangere uno degli ultimi “soffitti di vetro” politici che ancora fermano l’ascesa delle donne — insieme con la Casa Bianca o, fatte le debite proporzioni, il Quirinale o Palazzo Chigi — va oltre il nome della candidata e punta al genere. «Una per sette miliardi », quanti sono gli abitanti della Terra, è uno degli slogan e sarebbe una formidabile coincidenza se una “lei” salisse all’ultimo piano del Palazzo di Vetro nel dicembre del 2016, quando scadrà il mandato di Ban Kimoon, pochi giorni prima che un’altra donna entri, ma da presidente, nello Studio Ovale della Casa Bianca, il 20 gennaio dello stesso anno. Dell’11/03/2015, pag. 9 Obama: «Il Venezuela è una minaccia per la sicurezza nazionale» Caracas. Maduro nomina ministro degli Interni giustizia e pace un generale sanzionato da Washington Geraldina Colotti <<IL Venezuela è una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati uniti». Così, senza paura del ridicolo, si è espresso il presidente Barack Obama. Il Venezuela di Nicolas Maduro — ha aggiunto — è una minaccia «inusuale e straordinaria» per la politica estera nordamericana. Un pericolo persino per la «salute del sistema finanziario» Usa. Le Forze armate venezuelane non partecipano a missioni di guerra, né accettano sul proprio suolo basi straniere. Il socialismo bolivariano esporta petrolio a prezzi solidali e invia aiuti umanitari senza contropartita, prendendo rischi in prima persona. E’ accaduto così dopo il massacro di Israele a Gaza, quando il presidente Maduro ha convinto l’Egitto a lasciar passare degli aerei inviati da Caracas con cibo e medicinali. Ha ottenuto di portarli direttamente a Gaza. Una bomba israeliana è caduta vicino al velivolo, che però è riuscito a riportare a Caracas bambini palestinesi feriti per poterli curare. All’interno dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli dell’America, il Venezuela si è mosso per disinnescare 17 tutti i devastanti conflitti internazionali, proponendo un cammino di pace: dalla Libia, alla Siria, al conflitto israelo-palestinese. Da anni, attraverso un progetto organizzato con le succursali della petrolifera di stato Pdvsa negli Stati uniti, il Venezuela manda combustibile gratuito ai poveri del Bronx, che hanno riservato un’accoglienza calorosa a Maduro, come prima avevano fatto con Chavez. In che modo una politica di pace può costituire una minacca per gli Stati uniti? In che modo la sovranità di un piccolo paese latinoamericano ancora non completamente sviluppato può rappresentare un pericolo per la politica estera degli Usa? Questo Obama non lo ha chiarito, limitandosi a fornire un elenco di 7 funzionari venezuelani, sanzionati per aver «violato i diritti umani». Al primo posto, la magistrata che accusa alcuni membri dell’opposizione come la ex deputata filo-atlantista (e golpista), Maria Corina Machado. Machado, grande amica di George W. Bush, è stata in prima fila nel colpo di stato contro Hugo Chavez, nel 2002, ma successivamente amnistiata dall’ex presidente venezuelano insieme a un altro inquisito, Leopoldo Lopez. Quest’ultimo, secondo i documenti pubblicati dal sito Wikileaks, era a libro paga della Cia da almeno 10 anni, e ha continuato a rispondere ai suoi padrini per ogni operazione politica. Come ha documentato l’informazione indipendente, la lunga mano delle agenzie per la sicurezza Usa ha costruito il golpe contro Chavez e ha continuato a foraggiare le sue emanazioni a Caracas come nel resto dell’America latina. Finanziamenti erogati — spiega ogni anno il Congresso — alle organizzazioni «per la difesa dei diritti umani». Quelle stesse che hanno orchestrato la gigantesca campagna mediatica contro il governo Maduro: falsando dati e capovolgendo schemi, e silenziando la voce dei parenti delle vittime delle violenze orchestrate dall’estrema destra venezuelana. «La minaccia del chavismo in Europa», hanno titolato i grandi giornali spagnoli contro Podemos, come prima avevano fatto in Grecia contro Tsipras («il Chavez dei Balcani, secondo la stampa Usa»). La «minaccia «inusuale e straordinaria» sarebbe quella dell’esempio proveniente da un paese che custodisce le prime riserve di petrolio al mondo e che ha deciso di far pagare le grandi imprese per tutelare i diritti sociali? Così la vedono i movimenti e le sinistre, che esprimono solidarietà al Venezuela socialista, dentro e fuori l’America latina: e che temono l’arrivo di un golpe, dopo quello sventato di recente, orchestrato, secondo un video diffuso, ancora una volta negli Usa. Durissimo il commento dell’intellettuale argentino Atilio Boron: «Obama, figura decorativa della Casa Bianca, incapace di impedire che un energumeno come Netanyahu si dirigesse a entrambe le camere del Congresso per sabotare le conversazioni con l’Iran sul nucleare ha ricevuto un ordine imperativo dal complesso militare– industriale-finanziario per creare le condizioni che giustifichino un’aggressione armata al Venezuela». Da Cuba, Fidel Castro ha appoggiato la presa di posizione dell’Avana scrivendo una lettera di solidarietà personale a Maduro. Maduro ha reagito con orgoglio, nel solco di quanto aveva già fatto dopo la minaccia Usa di «torcere il braccio» al socialismo: ha convocato l’incaricato d’affari Usa, ha proclamato «eroi» i funzionari sanzionati e ne ha nominato uno, il generale Gustavo González López come ministro degli Interni. Dell’11/03/2015, pag. 13 Passaporti, moneta e parlamento Il Texas si sente nazione a sé Il movimento separatista alza i toni: non abbiamo mai aderito agli Usa 18 La Repubblica del Texas non chiede di diventare indipendente: pensa di esserlo già, perché non aveva mai aderito ufficialmente agli Stati Uniti. Perciò batte moneta, tiene riunioni del suo Parlamento, e i propri membri girano con documenti che li identificano come rappresentanti diplomatici della loro nazione, immuni a qualunque genere di ordine o azione emesso da Washington. Il raid di San Valentino Non stiamo parlando di un gioco, ma dell’ultima follia dei separatisti americani. Una follia così seria che durante l’ultima festa di San Valentino, a febbraio scorso, le forze dell’ordine locali e l’Fbi hanno lanciato un raid contro i membri di questo gruppo, rivelato ora dal «New York Times» perché sta avendo l’effetto di alzare il loro profilo a livello nazionale. Negli Stati Uniti le organizzazioni radicali, sette razziste e indipendentiste abbondano. Mettono in discussione l’autorità dello Stato, e nei casi migliori si isolano, ma nei peggiori diventano una minaccia per la sicurezza di tutti. Basti pensare all’attentato di Oklahoma City nel 1995, o anche alla strage di Waco. «Gioco» pericoloso Il Texas in effetti fu brevemente indipendente, dal 1836 al 1845, quando passò dal Messico agli Usa. Questo gruppo però non riconosce l’adesione e ritiene che sia ancora una nazione a parte. La «Republic of Texas» si era già fatta notare nel 1997, quando i suoi membri avevano rapito una coppia. La polizia era intervenuta, c’era stata una sparatoria in cui era morto uno dei militanti, e il «presidente» Richard McLaren era stato arrestato. Dopo questo scontro il gruppo era tornato nell’anonimato, ma non si era arreso. Nel 2011 aveva persino spedito una lettera alla governatrice dell’Oklahoma, informandola che in base ad una risoluzione del Parlamento della Repubblica del Texas era stata incriminata, perché il suo Stato aveva invaso i confini della nazione vicina. Nelle settimane scorse il gruppo si è rifatto vivo, intimando ad un giudice locale di interrompere un’azione di pignoramento in corso contro uno dei suoi membri, e questo è il reato che ha spinto l’Fbi ad intervenire. Molta gente locale dice che il raid era inutile, perché si tratta solo di vecchietti innocui che non sanno come riempire le loro giornate. È vero che coniano monete ed emettono passaporti, ma hanno rotto ogni rapporto con l’ala violenta di McLaren e non vanno oltre il folclore. L’attacco delle forze dell’ordine, invece, li ha resi popolari al punto di poter tornare ad essere pericolosi. È andato così in passato per troppe sette e gruppi, che sono passati dal gioco, magari ossessivo, all’azione. 19 INTERNI dell’11/03/15, pag. 2 La riforma va. Nei partiti si litiga ROMA Sulla riforma costituzionale che cancella il Senato elettivo — approvata ieri alla Camera in prima lettura con 357 sì, 125 no, 7 astensioni — è rientrato il dissenso plateale alimentato dalle minoranze del Pd e di FI. Ma nei due partiti, uniti fino a 40 giorni fa dal patto del Nazareno e ora divisi su sponde opposte, i distinguo e i mal di pancia non si placano. Nella minoranza dem, che ieri ha sostanzialmente sposato la disciplina di partito, si prepara la rivincita in vista del voto (la prossima estate) sull’Italicum «non più sottoposto ai veti di Berlusconi». Mentre in Forza Italia gli orfani del patto del Nazareno non si danno per vinti. Eppure Matteo Renzi può cantare vittoria perché il Pd, alla fine, ha retto con una manciata di assenti (tra i quali Fassina, Civati, Boccia, Pastorino) e pochissimi astenuti: «C’è ancora molto da fare ma con questo voto favorevole alla riforma abbiamo un Paese più semplice, più giusto», ha detto il premier. E anche Silvio Berlusconi, che ha convinto a uno a uno i 17 verdiniani dissenzienti, può dirsi soddisfatto: «Smentite le Cassandre, FI compatta nel dire no alla riforma costituzionale proposto dal governo Renzi». In ogni caso, ha aggiunto l’ex Cavaliere rivolto a Denis Verdini, «mi auguro che tutti lavorino per portare avanti la nuova era che si apre oggi, rinunciando a qualche protagonismo di troppo e a qualche distinguo dal sapore strumentale». In questo secondo passaggio parlamentare della riforma Renzi-Boschi — approvata lo scorso 8 agosto al Senato e dopo le regionali, se non addirittura a giugno-luglio, di nuovo all’esame di Palazzo Madama — il confronto muscolare tra Pd e Fi ha costretto Renzi a schierare in Aula in fase di dichiarazione di voto addirittura il vicesegretario del partito Lorenzo Guerini. Ed è la prima volta che succede: «Non riusciamo proprio a comprendere le motivazioni di chi non vota questa riforma dopo aver contribuito a farla crescere», ha detto Guerini che ha avuto l’ultima parola tra i big dei partiti. Per cui la replica è arrivata direttamente da Berlusconi che ha fatto scrivere nella sua nota: «Abbiamo rispettato i patti fino in fondo, altri non possono dire lo stesso. Siamo fieri del nostro lavoro ma non dobbiamo avere paure o nostalgia per una strada (il patto del Nazareno, ndr ) ormai impercorribile». Senza l’appoggio di FI, la minoranza del Pd diventa indispensabile per le riforme. E questo giustifica la cautela del ministro Maria Elena Boschi: «All’interno del Pd non mancano momenti di confronto... anche se è importante non interrompere il percorso delle riforme». Però sulla legge elettorale (che rimane in sonno in I commissione alla Camera) ora non tiene più l’escamotage usato mille volte dal ministro («Non ci sono le condizioni politiche per cambiare il testo perché FI non vuole...») per placare la minoranza dem. «Il voto favorevole sul ddl costituzionale è stato, da parte di chi ha ottenuto modifiche significative, una scelta di coerenza», ha detto il deputato Giuseppe Lauricella. È sottinteso che sull’Italicum la minoranza Dem presenterà un conto più salato al governo orfano del Nazareno. Dino Martirano 20 Dell’11/03/2015, pag. 11 Il nuovo Senato e il Titolo V Palazzo Madama avrà 100 membri non elettivi scelti tra consiglieri regionali e sindaci. Poteri paritari a quelli della Camera solo su leggi costituzionali e elettorali. Corsia preferenziale alle proposte del governo Bicameralismo addio in 40 articoli e lo Stato toglie poteri alle Regioni SILVIO BUZZANCA La Camera approva il progetto di legge costituzionale che prevede novità in ben 40 articoli della Carta e lo rimanda al Senato con la speranza che Palazzo Madama lo approvi in copia conforme e concluda il primo esame previsto dall’attuale articolo 138. Il provvedimento ruota intorno all’abrogazione del bicameralismo perfetto così come era stato concepito nel 1948, con Camera e Senato che avevano stessi poteri e prerogative. Il bicameralismo viene cancellato in favore di un sistema centrato sulla Camera, depositaria del rapporto fiduciario con il governo. Il Senato, eletto in maniera indiretta dai Consigli regionali, diventa il luogo di rappresentanza dei territori. Ma conserva poteri paritari nel campo delle leggi costituzionali ed elettorali. Questa divisione dei compiti ha portato però ad una complessa diversificazioni dei procedimenti legislativi per materie, con i presidenti di Camera e Senato che dovranno mediare in caso di conflitti di interessi. Il governo si vede invece riconoscere delle corsie preferenziali per i provvedimenti che ritiene fondamentali per l’attuazione del suo programma. Infine, vengono cancellate dalla Costituzione le Province. L’altra grande perno su cui ruota la riforma è la rivisitazione dell’articolo 117, quello che divide le competenze legislative fra Stato e Regioni. Viene cancellata la competenza “concorrente” e, in sostanza, un corposo pacchetto di materie torna allo Stato. Scelta che fa infuriare i sostenitori del federalismo come i leghisti. Forte opposizione ha suscitato anche la nuova previsione di una “clausola di supremazia”. Una norma che dà al governo il potere di chiedere al Parlamento di intervenire su materie di competenza regionale quando viene messo in discussione l’interesse nazionale. dell’11/03/15, pag. 11 Salvini e la rottura nella Lega: Tosi non è più un militante del partito La reazione del sindaco: il segretario mente, è Caino che si traveste da Abele MILANO Forse è la prima cacciata da un partito via agenzia stampa. Arriva alle 22 precise, dopo un’ennesima giornata di contorsioni. Flavio Tosi, il segretario della Liga veneta, ha terminato la sua apparizione a Otto e mezzo su La 7. Nel giro di qualche decina di minuti, le agenzie annunciano la folgore di Matteo Salvini: «Sono costretto a prendere atto delle decisioni di Tosi e quindi della sua decadenza da militante e da segretario della Liga Veneta». La risposta di Tosi è devastante: «Salvini mente sapendo di 21 mentire. Mai avrei pensato di vedere in Lega il peggio della peggior politica. Un Caino che si traveste da Abele». Il capo leghista ha deciso di mettere fine alle lacerazioni interne alla Lega, non a quelle che continueranno a investire il Veneto nelle settimane a venire. Il detonatore è l’intervista di Tosi a Lilli Gruber. In cui il segretario della Liga va diritto per la sua strada. Certo, dice di sperare che si trovi «una strada di mezzo». Lui, però, di concessioni ne fa pochine. E che quella sia la piega, lo si capisce subito: il sindaco di Verona inizia il suo intervento leggendo l’articolo dello statuto leghista che affida alle regioni, e non al movimento federale, la potestà sulle liste elettorali. Poi, arrivano i carichi: «Se la Lega mi dice che io devo lasciare la Fondazione “Ricostruiamo il Paese” perché è incompatibile con il movimento, e in Veneto c’è un commissario deciso da Milano, io non posso che dimettermi da segretario». A quel punto, prosegue, «potrei anche candidarmi a governatore». Contro Luca Zaia, del suo stesso partito. Quale può essere, dunque, la strada? «Se si accetta il fatto che esiste la Fondazione, se si toglie il commissariamento, poi sulle liste — non quelle della Lega — si discute». È troppo. La vicenda è andata troppo oltre, dispiegando il suo potenziale tossico sulla credibilità del movimento e dello stesso Matteo Salvini. Ed è per questo che da Bruxelles il segretario prende l’iniziativa, mettendo fine ai terzultimatum e ai penultimatum annunciati e rientrati nel giro di ore. Soltanto ieri il menù aveva visto una lettera che il mittente (Tosi stesso) dice di non avere scritto e il destinatario, Salvini, di non aver ricevuto. I contenuti, peraltro, vengono ampiamente, ma non ufficialmente, diffusi. Il sindaco scioglie il giallo: «Non è che siamo al livello di mandarci lettere, siamo una famiglia. Ci sono stati dei tentativi di mediazione, gente che ha cercato di fare da pontiere». Il nome che circola è quello di Giancarlo Giorgetti. Ma, appunto, è troppo tardi. Dice Salvini: «Non si può lavorare per un partito alternativo alla Lega, non si possono alimentare beghe, correnti o fazioni». E dunque, spiace che «da settimane Tosi abbia scelto di mettere in difficoltà la Lega e il governatore». E se il sindaco di Verona «insisterà nel volersi candidare contro Zaia, magari insieme ad Alfano e a Passera per aiutare la sinistra, penso che ben pochi lo seguiranno». Conclude Salvini: «Ovviamente le liste per il Veneto saranno fatte solo dai Veneti, dal commissario Gianpaolo Dozzo e da tutti i segretari del territorio veneto». Il governatore uscente Luca Zaia tira il fiato: «La buona notizia è che questa sera si mette la parola fine a beghe e polemiche incomprensibili che sono durate fin troppo. Resta l’amarezza per come è andata a finire, ma ora si deve voltare pagina». Marco Cremonesi Dell’11/03/2015, pag. 1-13 La tattica del premier: regionali al 31 maggio, Silvio mollerà la Lega FRANCESCO BEI GIOVANNA CASADIO Il vento del Nazareno, o qualcosa di molto simile, tornerà a gonfiare le vele dell’Italicum dopo il voto. Matteo Renzi ci conta e punta sul divorzio fra Berlusconi e Salvini. «Ora — spiega in privato — aspettiamo le regionali. Vedremo se Forza Italia rientrerà o esploderà». Incassato il sì alla fine del bicameralismo, il capo del governo prepara la strategia per portare a casa anche la legge elettorale. Una strategia che passa per il 22 recupero dei voti forzisti, a dispetto dell’aut-aut lanciato dalle minoranze dem in aula. Perché il premier ribadisce di non aver alcuna intenzione di «cambiare nemmeno una virgola» della riforma. Una fermezza su cui ha insistito del resto la ministra Boschi ieri sera: «Perché modificare una legge che è scritta bene con il rischio di peggiorarla?». Lo scontro con Bersani è dunque messo nel conto. Tanto più dopo che l’ex segretario ieri si è tagliato i ponti alle spalle avvertendo il presidente Mattarella (in un lungo colloquio mattutino al Quirinale) sui «rischi per la democrazia» legati all’accoppiata tra «una riforma costituzionale che crea una Senato di non eletti e una legge elettorale che, se passassero i capilista bloccati, produrrebbe una Camera di nominati alle dipendenze di un solo leader». Con la minoranza dem il segretario- premier non intende aprire ulteriori trattative. «Abbiamo già discusso in tutte le sedi e votato. Ora è il momento di concludere». Renzi non si piega anche perché è certo che, passate le regionali, una grossa novità è destinata a prodursi in Forza Italia. «Berlusconi — spiega un renziano — è stato costretto a votare no alla riforma costituzionale per preservare l’alleanza con Salvini. Ma dopo il voto è possibile che torni sui suoi passi». Il calcolo che si fa a palazzo Chigi è basata proprio sulla convenienza elettorale del leader forzista. Un rimaneggiamento dell’Italicum secondo i desiderata della sinistra del Pd porterebbe infatti a cancellare l’unico punto a cui l’ex Cavaliere tiene veramente: le liste bloccate. Ma se anche il capo di FI non dovesse ripensarci, a palazzo Chigi sono convinti che comunque gli azzurri non reggeranno alle tensioni di questi giorni. «La scissione è nell’aria», prevedono. Magari guidata da Denis Verdini e da quanti non condividono la linea di scontro totale imposta da Renato Brunetta al gruppo. Un malessere testimoniato dalla lettera aperta dei 17 dissidenti forzisti. Un documento in cui si rivolgono «con franchezza» al leader chiarendo che «situazioni simili in futuro non potranno vederci silenti». Ovvero questo pono. trebbe essere stato il loro ultimo voto negativo alle riforme targate Renzi. La tattica del premier, per ora, è lasciar decantare la situazione. E incassare prima una netta affermazione alle regionali, che saranno spostate con ogni probabilità dal 10 al 31 maggio. «Se riusciamo a conquistare la Campania e, magari, anche il Veneto — scommette — avremo una spinta potente pari a quella del 40 per cento alle Europee». Solo dopo quella data l’Italicum sarà fatto uscire dal congelatore e inizierà il suo cammino a Montecitorio. Oltretutto rinviare di qualche settimana potrebbe portare anche un altro vantaggio, quello di iniziare la discussione sulla riforma avendo cambiato i presidenti di commissione (vanno riconfermati a metà legislatura). L’obiettivo del Pd è far saltare il fittiano Francesco Paolo Sisto, che guida la commissione affari costituzionali, per garantirsi un atterraggio più morbido della legge elettorale. La sinistra dem non intende a sua volta arretrare. E proprio per questo punta all’opposto ad accelerare in Parlamento su entrambi i fronti, sia sulla riforma del Senato che sulla legge elettorale. «Renzi vuole sparigliare e tenere distinti i due piani, che sono invece strettamente connessi. Né si capisce perché, dopo tanta rincorsa, dobbiamo ora rallentare aspettando di recuperare i forzisti o una parte di loro», denuncia il bersaniano Alfredo D’Attorre. E Miguel Gotor, senatore, chiede che al più presto Palazzo Madama esamini il ddl Boschi approvato ieri a Montecitorio: «È importante che l’opinione pubblica abbia davanti entrambe le riforme così da rendersi conto che c’è un problema di funzionamento del sistema democratico se le cose non si cambia- Si creerebbe una sorta di gioco di società. Con l’Italicum la democrazia rischia di diventare un Monopoli gestito in stanze chiuse da pochi consiglieri regionali e sindaci, che magari mandano in Senato chi ha bisogno di immunità parlamentare. E da una Camera sempre di nominati». A Montecitorio i ribelli del Pd sono convinti di poter crescere fino a 60-70 voti contrari all’Italicum. Il voto segreto, in particolare sul premio di maggioranza alla coalizione (e non alla lista) per il governo sarebbe una trappola insidiosa. I primi fuochi della battaglia 23 saranno accesi il 21 marzo, nella grande convention di tutte le minoranze. Che sono riuscite a superare faticosamente le loro differenze tra “intransigenti” e “dialoganti” per fare fronte comune. All’assemblea, più che i singoli esponenti, si pensa di far parlare dal palco anche tutti quei costituzionalisti che pubblicamente hanno espresso le loro perplessità sulle nuove norme costituzionali ed elettorali. «Renzi deve per forza avere a cuore l’unità del partito e quindi aprire a un dialogo costruttivo sulla nuova legge elettorale », esorta ancora il capogruppo dem alla Camera, Roberto Speranza, leader della corrente “Area riformista” che si è data appuntamento sabato a Bologna. Ci sarà anche Bersani. E sarà la prima offensiva a tutto campo contro le politiche del governo Renzi. Dell’11/03/2015, pag. 9 Il partito di Berlusconi diviso in tre In Transatlantico si riuniscono in capannelli: i fittiani, i verdiniani e i pretoriani del leader Santanchè: “Sulle riforme la linea deve cambiare”. Abrignani: “Il capogruppo va eletto” Azzurri allo sbando, Brunetta a rischio alla Camera la fronda è maggioranza CARMELO LOPAPA Vagano in Transatlantico come anime nel purgatorio, li distingui solo per capannelli. I fittiani da una parte, i 17 tra verdiniani e non solo che firmano a sorpresa il documento dello “strappo”, dall’altra, i pretoriani del leader a tentare invano di tenere insieme tutti. Camera dei Deputati, mezzogiorno di caos in Forza Italia. Loro qui, in pena, Silvio Berlusconi, peggio di loro, blindato ad Arcore in attesa della sentenza di Cassazione. Avrebbe voglia di parlare solo coi suoi avvocati alla Corte, accantonare le sorti della riforma costituzionale. Ma non può. Nel pomeriggio sarà costretto a intervenire, perfino con una nota, per difendere il capogruppo Renato Brunetta. Scelta obbligata, quella. «Presidente, di fatto mi vogliono sfiduciare, o tu intervieni in mia difesa, anche perché ho difeso le tue posizioni in aula, oppure io mi dimetto, lascio», sembra sia stata la richiesta assai schietta. L’ex Cavaliere aveva impiegato ore per chiamare uno per uno i 17 pronti a rompere. I 5-6, più vicini a Verdini, addirittura intenzionati a votare a favore della riforma costituzionale. Gli altri, dalla Santanché alla Gelmini, dalla Prestigiacomo alla Ravetto, incerti tra astensione e diserzione del voto. Ai 17 nel frattempo si affianca Paolo Russo, rimasto a casa perché malato, «ma ho scritto al presidente una lettera personale per dire che avrei votato ma solo per la stima nei suoi confronti ». E a casa vorrebbero tutti mandarci Brunetta, è lui nel mirino, ed eleggere un nuovo capogruppo: Elio Vito, oppure Mara Carfagna. Anche perché i 18, sommati agli altri 18 vicini a Raffaele Fitto — anche loro in guerra con il presidente del gruppo e con tutti i vertici del partito — sarebbero maggioranza nella squadra di 69 deputati. Clima da guerriglia, più che da resa dei conti. «La testa di Brunetta? Ma no, io con quelli dell’Isis non voglio avere a che fare — dice Daniela Santanché, una delle firmatarie del documento, al centro del Transatlantico — La testa non va necessariamente tagliata, si può anche seppellire sotto la sabbia», sorride. «Il documento è senza precedenti, da oggi possono succedere tante cose, sulle riforme la linea deve cambiare». Berlusconi ha chiamato anche lei, come tutti gli altri. «Questo è stato un voto di fiducia solo nei suoi confronti, non potevamo tradirlo oggi, noi non siamo come Alfano». Argomento, quello del voto «come Angelino» che a quanto pare il capo ha usato in tutte le telefonate della notte. 24 Mariastella Gelmini scuote la testa men- tre vota in aula, nemmeno plaude a chiusura dell’intervento del capogruppo Brunetta. Laura Ravetto in Transatlantico non si dà pace. «Ma io mi riconosco in un movimento riformista, spero si cambi linea, ho votato lealmente ma non mi iscrivo al comitato dei no con grillini, Bindi, Fassina». Il solo Gianfranco Rotondi, vecchio lignaggio dc, sarà l’unico coerente con le perplessità e a votare a favore, in dissenso dal gruppo. Alle 9,30 la stessa Santanché e i “verdiniani” Abrignani, D’Alessandro, Fontana, Parisi e altri si ritrovano nella sede del partito di San Lorenzo in Lucina, nella stanza di Denis. Bisogna decidere che fare, si accorgono che il voto favorevole non cambierebbe le carte in tavola, soprattutto che solo mezza dozzina è disposta a farlo realmente. «Se fossimo stati 15-18 avrebbe avuto un senso, un peso, anche in prospettiva futura. Così, meglio non rompere con Silvio ma aprire il caso politico dentro il partito» sostiene cauto Verdini. Tradotto: 18 vorrebbe dire essere sul punto di dar vita a un gruppo (minimo 20 deputati), diversamente, meglio lasciare la minaccia in sospeso e intanto presentare le firme. Si premura lo stesso senatore toscano a chiamare Berlusconi ad Arcore per preannunciargli il passaggio, spacciandolo per un favore in una giornata così, «perché noi ti vogliamo bene». Ignazio Abrignani ha appena finito di votare «con sofferenza », esce dall’aula e spiega. «Noi chiediamo due cose: proseguire con le riforme e maggiore democrazia nella scelte politiche del gruppo, magari con l’elezione di un capogruppo. Intendiamoci, potrebbe essere lo stesso Brunetta ma, almeno, che passi da un’elezione e non da un'indicazione». Per un giorno, Raffaele Fitto non è al centro del ciclone. Si limita a liquidare la giornata con sarcasmo: «Benvenuti all’opposizione, ma ora niente scherzi al Senato». 25 LEGALITA’DEMOCRATICA Dell’11/03/2015, pag. 8 Dagli asili alle penne biro il ‘manuale’ del malaffare SICILIA, LE DENUNCE DEI CITTADINI: CI SONO ANCHE I RICATTI SULL’ACQUA CORRENTE, IL TARIFFARIO PER AVERE LE INVALIDITÀ E I TRAFFICI NELLE FORNITURE SANITARIE C’è uno strano passaggio di aziende che decadono, scorrono in graduatoria e poi risorgono sotto altro nome, ma a guidarle sono sempre le stesse persone che si aggiudicano appalti per svariati milioni di euro, dalla fornitura dei pasti al servizio di trasporto di degenti all’amministrazione di un grosso ospedale dell’agrigentino. E la regia sarebbe di un noto deputato regionale. C’è poi l’acquisto da parte di una scuola del palermitano di una licenza di un software costato 600 mila euro. Ma anche la fornitura per decine di migliaia di euro, di centinaia di pacchi di penne biro, del tutto inutili, a un ente di formazione professionale. Cento denunce nei primi tre giorni, oltre 250 nel primo mese di attività nel sito lanciato in Sicilia dal Movimento 5 Stelle (www. segnalazioni 5 stelle. it) rompono il tabù dell’omertà siciliana e formano un’istantanea aggiornata del malaffare a tutti i livelli denunciato dai cittadini sia in forma anonima sia firmando la segnalazione, con nome e cognome. Carriere facili e figli di primari Quelle più numerose arrivano dal mondo della sanità: nel reparto di Radiologia di un noto ospedale palermitano, i macchinari sono utilizzati da personale non specializzato e spesso rimangono anche fermi per mancanza di tecnici. E al Policlinico di Palermo sono una decina i nomi dei figli di primari che godono di corsie preferenziali di carriera, agevolati dai colleghi dei genitori e posti anche come strutturali senza averne i requisiti. Sei segnalazioni denunciano che al corpo Forestale un gruppo di dieci persone monopolizza la gestione di ferie, permessi premio, straordinari e malattie, spesso fasulle, a danno di tutti gli altri dipendenti. In un comune delle Madonie, in provincia di Palermo, le forniture di cancelleria per migliaia di euro sono affidate ad un’azienda di familiari di un componente della giunta comunale. A Palermo un asilo nido pubblico viene utilizzato come abitazione privata con allacciamenti abusivi. A Bagheria una cooperativa che si occupa di recupero di tossicodipendenti fa lavorare in nero di dipendenti e utilizza i beni confiscati alla mafia e i fondi destinati al banco alimentare per altri scopi. Formazione e corsi fantasma Nell’agrigentino sono più d’uno i comuni che avrebbero interrotto più volte l’erogazione dell’acqua pubblica ai cittadini creando artatamente i disservizi per indurli a scegliere il servizio alternativo, più costoso, garantito da una società privata. A Licata un uomo ha ottenuto la pensione d’invalidità pagando profumatamente il favore ricevuto e ad Agrigento un funzionario pubblico, vicino alla commissione che decide le invalidità civili, stabiliva un tariffario filtrando le richieste, poi esaudite. Su questo malcostume, assai diffuso in provincia di Agrigento, la procura ha aperto da tempo un’inchiesta arrestando medici e funzionari e portando a galla un vero e proprio sistema di corruttela. Decine di denunce sollevano il coperchio sulla formazione professionale: corsi fantasma, attestati a persone che non hanno mai frequentato, laboratori mai attivati. Tutti profumatamente pagati. Mazzetta selvaggia Decine di segnalazioni, tutte con nome e cognome, riguardano medici specialisti in tutta la Sicilia che non rilasciano fattura dopo le visite, dipendenti pubblici infedeli che chiedono un 26 cellulare o addirittura 100 euro per portare avanti una pratica amministrativa, favoritismi, clientele e ricatti sui posti di lavoro. Alcune decine, in tutti i settori, sono le denunce di gare di appalto ritagliate ‘ su misura’, con la scelta dei criteri identificativi di aziende precise, in qualche caso vicine anche a politici. La rabbia e i riscontri Il numero maggiore di denunce arriva da Palermo e Catania, seguono Agrigento, Caltanissetta e Enna, poche da Siracusa, nessuna da Trapani. “Nel primo mese c’è stata una partecipazione inaspettata e la nostra valutazione è molto positiva – dice Giulia Di Vita, deputato del Movimento 5 Stelle – è ovvio che tutto va preso con le pinze e analizzato con la massima attenzione, alla ricerca di riscontri. La Sicilia si conferma laboratorio nazionale, visto in molti ci chiedono di allargare quest’esperienza a livello nazionale. C’e ’ un interesse concreto in Toscana e Campania, ma pensiamo di estendere la possibilità di denunciare il malaffare a tutto il Paese’’. La fiducia e lo Stato E la fiducia dei siciliani nei grillini supera anche quella nello Stato: alla domanda finale del forum di compilazione del portale anticorruzione “se questa denuncia la faresti anche alle forze dell’ordine”, la raffica dei no surclassa i sì. Se ancora prevalgono le segnalazioni di illeciti e disservizi e non sono molte le denunce di scandali eclatanti, la Di Vita è ottimista: “In molti attendono di capire che fine faranno queste denunce: noi cerchiamo i riscontri, le passiamo al vaglio dei nostri consulenti legali e poi il loro approdo è in procura. Quando vedranno che facciamo sul serio, le denunce sulla corruzione si moltiplicheranno”. 27 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Dell’11/03/2015, pag. 9 America, Ferguson tutti i giorni Stati uniti. Selma, ieri, oggi e domani. Dopo il Wisconsin, un altro afroamericano ucciso dalla polizia Luca Celada Poco prima del ricordo di Obama della marcia di Selma, un altro nero veniva ucciso negli Stati uniti. E ieri, pochi giorni dopo le immagini dell’Alabama e il discorso del presidente Usa, un’altra vittima. Un altro afroamericano, disarmato, ucciso dalla polizia. Il messaggio sembra essere diretto proprio al presidente: la sua elezione non ha cambiato niente, o ha cambiato davvero poco. L’ennesimo caso La vittima è un uomo che — in stato confusionale, probabilmente malato di mente — si aggirava nudo nel complesso di appartamenti di Atlanta dove viveva. Un agente dopo averlo richiamato, anziché usare il taser, ha sparato due volte, uccidendolo. L’agenzia investigativa della Georgia, Gbi, ha avviato un’inchiesta. Secondo la ricostruzioni fornita da Cedric Alexander, direttore del dipartimento della pubblica sicurezza della contea di Atlanta, la polizia era intervenuta dopo che alcuni residenti del palazzo avevano denunciato la presenza di un «uomo sospetto» che bussava alle porte e si aggirava nudo. «Non è stata rinvenuta nessuna arma», ha ammesso Alexander, spiegando che l’uomo si è scagliato contro il poliziotto ed ha ignorato gli avvertimenti a fermarsi. Selma is now Un ponte intitolato ad un Grand Wizard del Ku Klux Klan questa settimana è tornato ad essere il centro d’America. Il Bloody Sunday sull’Edmund Pettus bridge fece di Selma, Alabama il simbolo mondiale del razzismo e della lotta per l’emancipazione dei neri americani; 50 anni dopo su quello stesso ponte il cinquantenario è stato commemorato da un presidente afroamericano. Quale evento potrebbe esprimere con più didascalica simmetria — con hollywoodiana perfezione — la narrazione americana di ingiustizia e redenzione e progresso sociale? Se fosse stata scritta in una sceneggiatura sarebbe probabilmente stata respinta come inverosimile. Lo stesso Martin Luther King il reverendo che su quel ponte aveva portato i suoi freedom fighters quando era profonda retrovia segregazionista non avrebbe potuto — pur con tutta la fede nel dream — immaginare una più simbolica ricorrenza. Emergenza razzismo Il cinquantenario è caduto nel mezzo una ennesima emergenza razzismo. Oggi un nuovi cortei invece di «we shall overcome» urlano «Black Lives Matter!». «Le nostre vite contano», scandiscono i militanti del movimento contro la strage non tanto silenziosa di neri ad opera della polizia. E le prigioni straripano di prigionieri dalla pelle scura. Dei quasi 2 milioni e mezzo di detenuti più del 40% sono discendenti di schiavi. E come ha detto John Legend dal palco degli Oscar, ci sono più neri (1.7 milioni) sotto restrizioni coatte oggi che schiavi nel 1850 (870.000). La lunga marcia dell’America dal peccato originale della schiavitù è diventato un sorta di misura mondiale di ingiustizia e progresso sociale. Giustamente, data la lampante contraddizione con la narrazione nazionale di libertà e felicità, predestinazione 28 e eccezzionalismo. La strada è tortuosa: 50 anni fa ha attraversato il Pettus e questo fine settimana è di nuovo passata per quel ponte. E grazie alla corte suprema alcune battaglie dovranno venire combattute da capo. Una recente sentenza ha abrogato l’articolo 5 del voting rights act la legge sulla pari opportunità di votostrappata col sangue di Selma. La clausola stabiliva che gli stati ex segregazionisti dovessero passare il vaglio federale prima di imporre limiti alla iscrizione elettorale. Ma i conservatori americani hanno ogni interesse a limitare il voto delle minoranze che sono parte integrante dell coalizione progressista e ora hanno un modo in più per farlo. Passi indietro È un grave passo indietro e non è solo questo. Nel weekend di Selma un ragazzo nero disarmato, l’ennesimo, in Wisconsin, è stato ammazzato da un poliziotto. Una comitiva di universitari dell’Oklahoma in gita è stata filmata mentre inneggiava al linciaggio dei neri. Legend l’oscar lo ha ricevuto per Glory, la canzone del film che rievoca Selma; la regista Ava Du Vernay lo ha dedicato ai ragazzi di Ferguson. Lo stesso Obama ha tenuto a dire «Selma is Now», tutto è ancora in gioco. La strada è ancora lunga e se c’è una ultima lezione da apprendere da Selma è che 50 anni dopo il Pettus, oggi non è più solo l’America a doverla percorrere — tutto l’occidente deve riuscire a fare lo stesso cammino. 29 WELFARE E SOCIETA’ Dell’11/03/2015, pag. 14 Pillola dei 5 giorni dopo L’Italia contro l’Europa: servirà la ricetta medica Il parere del Consiglio Superiore della Sanità spiazza tutti Flavia Amabile L’Italia prende le distanze dall’Europa su quella che tutti chiamano «pillola dei 5 giorni dopo». Nessuna libertà di vendita, ci sarà ancora bisogno della prescrizione di un medico. Lo ha deciso il Consiglio superiore di Sanità stabilendo che «il farmaco EllaOne debba essere venduto in regime di prescrizione medica indipendentemente dall’età della richiedente». Come spiega il ministero della Salute, si vogliono «evitare gravi effetti collaterali nel caso di assunzioni ripetute in assenza di controllo medico». Prudenza, insomma, stando a quanto sostiene il ministero. In gioco, infatti, c’è un farmaco da anni al centro di polemiche. La pillola EllaOne, pur agendo con un meccanismo simile alla pillola del giorno dopo, può essere assunta fino a 5 giorni dopo il rapporto a rischio. In base agli studi più recenti pubblicati non perde di efficacia per tutto il tempo in cui può essere somministrata. In Italia è considerato un farmaco inserito tra quelli di fascia C, con ricetta ma a carico dell’utente. Ma nell’Ue c’è il via libera In realtà a questo punto la situazione si complica e non mancheranno conseguenze. L’azienda chiede chiarezza su come procedere e annuncia difficoltà nella futura vendita. L’Unione Europea, infatti, ha dato il via libera pieno alla vendita senza alcun tipo di obbligo. A novembre è arrivato il sì dell’Agenzia del farmaco europea (Ema), a gennaio si è espressa la Commissione Europea con un parere totalmente in linea con l’Ema, nessuna ricetta medica perché la pillola sia disponibile in farmacia. La decisione dovrebbe essere applicabile a tutti gli Stati membri, ma in accordo alle procedure nazionali. E la procedura nazionale italiana sembra avviarsi in senso totalmente opposto rispetto alla normativa europea. L’ultima decisione spetta all’Aifa. «Può ancora renderci un Paese europeo» è l’appello rivolto all’Agenzia italiana del farmaco da Alberto Aiuto, amministratore delegato della Hra Pharma, l’azienda che produce la pillola. Aiuto ha sottolineato che il parere del Css non è vincolante e che quindi l’Aifa può decidere «in autonomia che cosa fare». In realtà l’agenzia nella maggior parte dei casi si adegua al parere del Consiglio. In questo caso sarebbero possibili anche problemi tecnici nella vendita della pillola dei cinque giorni dopo in Italia. Problemi con il bugiardino «L’Aifa - ricorda Aiuto - dovrà farci sapere come agire dato che gli Stati non possono mettere in commercio farmaci con scatola e foglietto interno difformi da quelli approvati a livello europeo. Tecnicamente una scatola e un foglietto in cui si dice che c’è obbligo di ricetta non possiamo venderli. Dovranno dirmi che cosa fare». «A due giorni dall’8 marzo per le donne italiane è in arrivo un pessimo regalo - avverte Laura Garavini dell’Ufficio di Presidenza del gruppo Pd della Camera - Solo pochi giorni fa il Parlamento tedesco ha approvato una legge nata da un’iniziativa legislativa del governo che permette la vendita di 30 EllaOne senza prescrizione medica. Ci auguriamo perciò che il ministro Lorenzin decida guardando all’Europa e con l’obiettivo di dare più diritti e libertà alle donne italiane». dell’11/03/15, pag. 1/15 Sanità, le regioni rosse non amano il pubblico di Ivan Cavicchi Addio solidarietà. A rimettere in discussione il fondamento della nostra sanità pubblica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe catalogato tra le cose che si stingono cambiando di colore «il rosso è diventato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scrupoli che colpiscono alle spalle l’etica egualitaria del welfare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esempio a tutti. Vale a dire Emilia Romagna e Toscana, ma anche Liguria e anche altre. Messe alle corde dalle restrizioni finanziarie, stanno aprendo la strada alla privatizzazione della sanità, incapaci di trovare soluzioni alternative pur avendone a disposizione un bel po’. Tradimenti quindi, cioè controriforme, in nulla giustificati dai contesti avversi e che si spiegano con la malafede politica, la disonestà intellettuale, i limiti culturali, lo spirito controriformatore del tempo e un cedimento al pensiero speculativo dell’intermediazione finanziaria. La Toscana, la regione con il più alto tasso di copayment cioè di compartecipazione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, è anche la Regione che di fatto ha praticamente appaltato la diagnostica e buona parte della specialistica ambulatoriale ai privati, incoraggiandoli a proporsi con prezzi competitivi e promozionali per battere il pubblico, oggi alle prese con un riordino esplicitamente contro riformatore. L’Emilia Romagna, da tempo al lavoro per costruire fondi integrativi, recentemente ha raggiunto un’intesa con Coop e Unipol per fornire sistemi assistenziali paralleli e lo stesso presidente Bonaccini nel suo programma politico ha dichiarato di voler «spezzare la concezione ideologica che contrappone pubblico e privato». La Liguria è sulla medesima strada e da tempo. Che senso hanno queste politiche? Mettere in conflitto due generi di solidarietà: quella mutualistica che dipende dai redditi delle persone e che per sua natura è discriminativa e quella pubblica che dipende dai diritti delle persone e che per sua natura è egualitaria. Cioè stanno contrapponendo la diseguaglianza alla eguaglianza facendo della prima un valore e della seconda un disvalore. Un gioco apertamente neoliberista a somma negativa. C’è da chiedersi con una certa urgenza cosa fare per combattere queste tendenze. Rodotà recentemente con un suo libro (“Solidarietà, un’utopia necessaria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con determinazione il tema dei principi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costituzionalismo» per ribadire «la connessione tra principi e diritti» per non «rassegnarsi alla subordinazione alle compatibilità economiche»? A che serve ribadire il valore della solidarietà quale “principio generale” quando esso è già normato, e quando il vero problema che abbiamo è la sua inosservanza se non la sua negazione? Temo che la strada dei principi non basti. In sanità come dimostrano le “Regioni gialle” la rottura del legame solidaristico inizia dai limiti anche culturali di una classe dirigente che non è capace di provvedere ad un pensiero riformatore e che vede nella controriforma l’ unica possibilità di gestire un limite economico. In sanità la solidarietà è in crisi per tante ragioni: economiche , culturali, sociali filosofiche e antropologiche, politiche . Il più grande sindacato dei medici di medicina 31 generale al suo ultimo congresso si è dichiarato favorevole a ridurre la solidarietà dello Stato ai soli indigenti. Il sindacato confederale si trova dentro una contraddizione imbarazzante: da una parte difende il sistema sanitario solidale e universale e dall’altra per via contrattuale stipula per le “categorie forti” accordi per l’assistenza mutualistica. La più grande rottura della solidarietà nel mio campo si ha con la crescita esponenziale del conflitto tra società e sanità, definita altrimenti “contenzioso legale”. I cittadini malati portano i medici in tribunale cioè rompono i legami di solidarietà che li ha sempre giustapposti ai propri terapeuti per millenni. Questi antichi legami si sono rotti anche perché l’uso della medicina oggi è fortemente condizionata da comportamenti apertamente antisolidaristici degli operatori come sono quelli agiti in modo opportunistico a difesa dei rischi professionali (medicina difensiva). La solidarietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprattutto da sinistra, come di tipo fondamentalmente fiscale ma in realtà di solidarietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pensiero riformatore in grado di ricomprenderle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri proprio nel senso indicato dall’art 2 della Costituzione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che riconducono tutto ad una questione di scarsità delle risorse ma neanche con coloro che parlano del controllo delle risorse come una priorità costituzionale. Lorenza Carlassare, ad esempio, ci propone di distinguere «fondi doverosi» «destinazioni consentite» e «destinazione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le differenze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costituiscono un campo minato e poi allocare risorse con questa logica non è molto diverso da chi propone di finanziare la sanità per priorità che come è noto è il presupposto di partenza dell’universalismo selettivo. Se ragioniamo per “priorità” addio solidarietà. Penso che la contraddizione solidarietà/risorse sia innegabile ma non giustifica il “tradimento” delle regioni nei confronti dell’universalismo. L’art 2 della costituzione ci invita a considerare la solidarietà come «dovere», mentre le regioni si sottraggono a questo dovere 32 DIRITTI CIVILI dell’11/03/15, pag. 21 «Impegno per la legge sulle unioni civili» Il tweet del premier: è già in discussione in Parlamento. No di Ncd, si lavora a un voto trasversale Oggi il divorzio breve in Senato. Contrari venti cattolici del Pd, si punta sull’area laica di Forza Italia ROMA Matteo Renzi ieri ha risposto a un tweet, senza esitazione: «Ho preso un impegno con gli italiani, la legge è già in discussione in Parlamento». Stava parlando di unioni civili, il presidente del Consiglio, una legge che è entrata fin da subito nel programma di governo e che il premier rilancia adesso con il suo consueto decisionismo riassunto nell’hastag: #lavoltabuona. Il premier è convinto: farà questa legge che nessuno, in Italia, è mai riuscito a fare. «E nessun presidente del Consiglio prima di lui aveva mai preso un impegno pubblico e così esplicito in favore dei diritti degli omosessuali», dice soddisfatto Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme. Quindi spiega: «Il testo in discussione al Senato è quello delle unioni civili alla tedesca e riguarda direttamente gli omosessuali. Questa posizione di Renzi è una vera innovazione politica, una crescita culturale. L’Italia, come al solito, è il fanalino di coda in tema di diritti. Mentre nel mondo si parla di matrimonio fra gay (l’ultimo ad approvarlo è stata la Slovenia), qui noi omosessuali non siamo riusciti ad avere nemmeno i diritti più elementari ». Non sembra essere un cammino facile quello della legge sulle unioni civili alla tedesca. Per poterla approvare c’è bisogno di una maggioranza trasversale, visto che dentro la maggioranza di governo l’Ncd è da sempre apertamente contrario e proprio ieri il ministro Angelino Alfano dopo il tweet del premier si è affrettato a prendere le distanze dalla legge. Ha detto, infatti, il ministro dell’Interno e leader dell’Ncd: «Non sono d’accordo nel concedere la pensione di reversibilità alle coppie omosessuali. I primi conti che sono stati fatti dicono che queste pensioni costerebbero circa 40 miliardi e con la situazione dei conti pubblici italiani non credo proprio che questa sia la priorità delle priorità. Se ci sono a disposizione 40 miliardi è ovvio che abbasso le tasse». Ad Alfano ha replicato Sergio Lo Giudice, senatore pd, ricordando che «la Corte di giustizia europea (le cui sentenze sono vincolanti per gli Stati membri) sin dal 2008 ha stabilito che negare le pensioni di reversibilità alle unioni civili costituisce una violazione della direttiva contro le discriminazioni sul lavoro». Questa legge in discussione al Senato trasferisce alle coppie omosessuali praticamente tutti i diritti delle coppie sposate, con alcune esclusioni importanti; primo fra tutti, il diritto di adozione. «Non vorrei che il premier per via di questa legge si trovasse a dover scrivere un nuovo hashtag: #speriamochemelacavo», ironizza Francesco Nitto Palma, senatore di Forza Italia, capo della commissione Giustizia. Che, però, subito dopo aggiunge: «Adesso dobbiamo finire l’esame della norma contro la corruzione, ma subito dopo metterò in calendario la discussione sul disegno di legge sulle unioni civili». È da sempre un tema che spacca i partiti quello dei diritti alle coppie omosessuali. Il mondo cattolico in Parlamento è lo spartiacque su tutti i temi etici, anche sulla legge sul cosiddetto divorzio breve, che sarà in aula del Senato oggi e che ha già spaccato il Partito democratico, al cui interno si è formato un fronte contrario di una ventina di senatori 33 cattolici. Ma sui temi etici non si spacca solo il Pd, ampio il fronte dei laici azzurri di Forza Italia, una truppa di voti che uniti a quelli di Sel e di una buona parte del Movimento Cinquestelle potrebbero far raggiungere la maggioranza per l’approvazione. Un banco di prova potrebbe essere proprio oggi la discussione sulla legge del divorzio breve (oggi da tre anni passerebbe a un anno, ma anche a sei mesi nel caso di coppia consensuale senza figli minori), immediato (in questo caso si annullerebbe la fase di separazione, sempre per le coppie senza figli) e anche facile (con la possibilità di discutere la causa di divorzio nello studio di un legale e non in tribunale). Alessandra Arachi 34 BENI COMUNI/AMBIENTE Dell’11/03/2015, pag. 19 Sardegna, cubature sulla riva OGGI IN REGIONE LA PROPOSTA PD: SI POTRÀ EDIFICARE A MENO DI 300 METRI DAL MARE Non è un proconsole berlusconiano, ma un governatore renziano a riportare l’incubo del cemento sulle coste della Sardegna. Nuove cubature potranno sorgere anche nei primi – finora inviolabili – 300 metri dal mare, dove non potranno vedere la luce altri posti letto, ma nuovi servizi sì. E anche vecchi progetti, congelati nel 2006 dal rigoroso Piano paesistico regionale (Ppr) dell’allora governatore Renato Soru, potrebbero tornare validi. Lo spettro delle speculazioni edilizie sulla costa sembra materializzarsi nella proposta di legge della giunta di centrosinistra guidata dal renziano Francesco Pigliaru che oggi sarà discussa dal consiglio regionale. La norma cancellerà il vecchio “piano casa” targato centrodestra, anche se gli ambientalisti sono già sulle barricate: “Il centrosinistra sta facendo peggio di Ugo Cappellacci”, il governatore berlusconiano sconfitto da Pigliaru un anno fa. QUELLA per i litorali non è l’unica minaccia contenuta nel testo di legge: le betoniere potrebbero tornare a farsi largo nei centri storici, anche questi blindati da Soru – patron di Tiscali, attuale segretario regionale del Pd ed europarlamentare. La discussione su – come vuole la dicitura esatta – “Norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia” verrà avviata oggi. La prima versione del testo era stata varata dalla giunta il 23 ottobre dell’anno scorso, su proposta dell’assessore regionale agli Enti locali, Cristiano Erriu del Pd. Dopo il vaglio della commissione Urbanistica del consiglio regionale la norma è stata modificata, ma la sostanza non cambia e lascia molti scontenti. Se nelle dichiarazioni l’obiettivo era – come si legge nella relazione – una regolamentazione improntata alla certezza delle norme, il contenimento del consumo del territorio e la riqualificazione del patrimonio esistente, il risultato sembra diverso. Con la minoranza di centrodestra che mostra il pollice verso (voleva un maggiore impulso al settore) e parte del Pd che storce il naso per il rischio di tradimento al Ppr. Così gli emendamenti, anche amici, sono dietro l’angolo. E, come sempre in Sardegna quando si parla di urbanistica e cubature, gli animi sono già infuocati. MENTRE Pigliaru, professore di economia, cita l’edilizia tra i motori della sua ricetta keynesiana per far uscire l’economia dell’isola da una crisi nerissima, gli ambientalisti lo accusano: “Il consiglio regionale della Sardegna si appresta a esaminare una proposta di legge che fa da coperchio alla più retriva speculazione immobiliare. Un salto indietro di 30 anni”, è l ’ attacco di Stefano Deliperi, leader delle associazioni Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra. Il cavallo di Troia per il grande ritorno del cemento nella fascia ultra tutelata dei 300 metri si chiama turismo. In nome dello sviluppo di quella che dovrebbe essere la maggiore industria sarda saranno permessi ampliamenti del 25 per cento di volumetria per le attività esistenti, anche a ridosso del mare: il tabù dell’intangibilità della battigia potrebbe dunque cadere. Il perché lo spiega un esponente del Pd, Antonio Solinas, relatore di maggioranza: “Si è ritenuto meritevole prevedere incrementi volumetrici maggiori, a condizione che tali incrementi diversifichino e riqualifichino le dotazioni e i servizi delle strutture ricettive al fine di promuovere la destagionalizzazione dell’offerta turistica”. Mentre ci si interroga sull’esistenza del cemento 35 destagionalizzante, sul punto sono arrivate anche le critiche di segno opposto del centrodestra che non condivide il divieto, previsto dalla legge, di creare nuovi posti letto. Si fa invece notare il silenzio dell’ala del Pd legata a Soru, che tace anche sulla violazione di un caposaldo del suo piano paesistico regionale, l’intangibilità dei centri storici, finora vincolati. La nuova normativa consentirebbe incrementi volumetrici fino al venti per cento, anche se subordinati a un apposito piano particolareggiato delegato al Comune. Il punto che più agita gli animi e su cui le associazioni ambientaliste vanno giù dure è quello delle cementificazioni zombie: “Pare un testo che punta a resuscitare i progetti edilizi morti e sepolti dal Ppr, e a render permanente la disciplina permissiva che era provvisoria nel pessimo piano del 2009 di Cappellacci”. Le lottizzazioni finora paralizzate sarebbero rimesse in corsa da norme transitorie, che consentono il completamento degli interventi già autorizzati prima dell’intervento anti-cemento di Soru: Arzachena, Costa Smeralda e Villasimius sono le tre zone a maggior rischio. Dell’11/03/2015, pag. 13 «Fa la cosa giusta», la scommessa di un consumo critico SanaMente. Non poteva che partire da Milano il cammino della rubrica durante i mesi dell’Expo 2015. Seguiremo la ciclopica kermesse con sguardo attento; racconteremo cosa succede dentro e intorno ai padiglioni; ci occuperemo delle decine di manifestazioni italiane collegate a Expo dalla presenza del marchio o dalla comunione di intenti Luciano Del Sette Non poteva che partire da Milano il cammino di SanaMente durante i mesi dell’Expo 2015. Seguiremo la ciclopica kermesse con sguardo attento; racconteremo cosa succede dentro e intorno ai padiglioni; ci occuperemo delle decine di manifestazioni italiane collegate a Expo dalla presenza del marchio o dalla comunione di intenti; proveremo a interpretare le declinazioni della parola cibo nelle tante regioni del mondo. Avremo, poi, un occhio di riguardo per chi i discorsi di Expo li fa da sempre, con pochi quattrini e molta buona volontà, riuscendo a conquistarsi la stima e l’affetto del pubblico. È il caso di «Fa la cosa giusta», fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, al traguardo dell’edizione numero dodici. Ragguagli pratici, cui segue il racconto dei tre giorni dal 13 al 15 di marzo: «Fa la cosa giusta» si svolge alla Fiera di Milano, viale Scarampo, Gate 8, fermata Lotto Fiera della M1. Informazioni sul sito falacosagiusta.org, ingresso gratuito per chi ha meno di quattordici anni. Come è ormai consuetudine, nei 29mila metri quadri occupati da oltre settecento espositori, i quartieri, le piazze, le vie della piccola città provvisoria ospiteranno botteghe, laboratori, stand, aree verdi, ristoranti, incontri e spettacoli. Le tematiche spazieranno dal biologico al chilometro zero, dall’abitare green al vestire seguendo i canoni della moda etica, dalla mobilità a basso impatto ai giochi per i bambini, dal commercio equo e solidale ai progetti associativi e cooperativi no profit. Il settore della sharing economy (il nostro idioma la traduce in economia condivisa), spiega le varie possibilità di scambiare e, appunto, condividere, servizi, beni, oggetti nei settori del cohousing, del bike e car sharing, dell’alimentazione. Senza dimenticare i Gruppi di Acquisto, realtà che si sta affermando anche da noi, e la lotta agli sprechi di vario genere. Utile e divertente l’area del baratto, dove passeranno da una mano all’altra oggetti ritenuti ingombranti o caduti in disuso. Da non confondere con l’autarchia è l’autoproduzione di cosmetici femminili 36 e maschili, dentifricio in polvere, repellenti per insetti, benefiche alchimie naturali come il siero di kefir. I bambini, dal canto loro, si cimenteranno con le tecniche casearie e l’arte della pasta fresca; mentre, sulla pista ciclabile, faranno tesoro delle regole e dei comportamenti da rispettare in sella a una bici. Di ampio respiro la sezione dedicata al welfare territoriale, servizi e idee rivolti alle comunità dei singoli territori. La Cittadella della Pace sarà luogo di mostre, confronti, approfondimenti sulle guerre in corso, sul superamento dei confini, sulle soluzioni possibili per arrivare alla pace. Utopia? Forse. Ma discuterne fa comunque bene. Gli incontri vedranno scrittori, trekker, architetti, giornalisti parlare di psicogeografia, percorsi urbani nascosti, nuove culture nelle città. Segnando sul calendario i tre giorni di «Fa la cosa giusta», farete la cosa giusta anche voi. [email protected] Dell’11/03/2015, pag. 8 Fukushima, 4 anni da sfollati Giappone. Nella ricorrenza del terremoto e dello tsunami sono 230 mila le persone ancora senza casa Marco Zappa All’ingresso della città di Futaba, provincia di Fukushima, ad appena quattro chilometri di distanza dalla centrale nucleare Numero 1, campeggia una scritta: «nucleare: l’energia per un futuro più luminoso». A quattro anni dal disastroso incidente dell’11 marzo 2011, l’insegna, installata con i soldi di Tepco, l’azienda elettrica di Tokyo che gestiva l’impianto e oggi cerca di portare avanti una difficile opera di smantellamento e bonifica, verrà smontata a breve. Insieme alla sua gemella — che recita: «l’energia nucleare porterà allo sviluppo regionale e ad un futuro prospero» — l’insegna ancora oggi accoglie i pochi evacuati autorizzati a fare brevi visite alle proprie case. Il paradosso è che gli stessi operai che saranno incaricati dello smantellamento delle due insegne potranno restare in città solo per poche ore, data la radioattività della zona. Futaba, per la sua vicinanza all’impianto, è stata infatti designata come «zona in cui sarà difficile tornare», una città fantasma sulla statale che collega Tokyo a Sendai. Quattro anni dopo terremoto, tsunami e incidente nucleare, sono città fantasma come Futaba il simbolo di una ripresa che prosegue a fatica. La cifra simbolo di questo quarto anniversario del grande disastro del Nordest del Giappone è proprio quella degli sfollati: sono circa 230 mila – secondo dati dell’agenzia governativa per la ricostruzione – le persone che attendono l’assegnazione di abitazioni pubbliche o hanno ottenuto i permessi per costruirsi una nuova dimora. Quasi la metà di loro ha deciso di non tornare al proprio alla propria casa. «È importante che le autorità garantiscano il sostegno agli evacuati per ritornare alle loro amate case», si legge in un editoriale pubblicato dallo Yomiuri Shimbun, il primo quotidiano giapponese. «I progetti di decontaminazione da radiazioni hanno fatto progressi in queste aree — prosegue l’editoriale — ma molte persone non si fidano a tornare per paura dell’inquinamento radioattivo». Alcuni piccoli passi verso un ritorno alla normalità delle zone interessate dalle fughe radioattive si erano visti lo scorso anno con la fine del divieto di accesso in alcune zone comprese nella zona di esclusione a 30 chilometri dalla centrale di Fukushima, ma gli abitanti rimangono scettici. Per convincerli a tornare, oltre a un impegno da 3,4 mila miliardi di yen, circa 25 miliardi di euro per la ricostruzione, il governo di Tokyo ha avviato un programma specifico per la ripresa economica delle aree colpite dal disastro: Atarashii Tohoku (Nuovo Tohoku). 37 I pilastri del programma sono cinque: la crescita dei bambini in un ambiente sicuro e sano; la rivitalizzazione di una società che invecchia a ritmo sempre più veloce; lo sfruttamento di energie sostenibili; la messa in sicurezza delle infrastrutture pubbliche; l’utilizzo di risorse regionali (in particolare alimentari in una regione principalmente rurale) che abbiano appeal al di fuori della dimensione locale. «Il programma è molto attraente – ha spiegato al manifesto Takaharu Saito, amministratore delegato di Communa, una start-up di Sendai da anni impegnata ad aiutare aziende locali a presentarsi al pubblico internazionale – ed è buono sulla carta. Le iniziative più innovative ricevono sussidi e finanziamenti. Tuttavia, temo che non cambierà davvero le cose». Secondo un recente sondaggio dell’Asahi Shimbun, oltre il 70 per cento dei residenti nella provincia di Fukushima sono insoddisfatti di come il governo ha fin qui gestito la situazione. Il primo ministro Shinzo Abe, alla vigilia del quarto anniversario dall’incidente nucleare, ha promesso entro l’estate un nuovo programma per la ripresa da qui al 2020, anno delle Olimpiadi di Tokyo. «Avremo pronto entro l’estate un piano per un futuro autosufficiente della provincia». Più che sul governo è in particolare su Tepco che si concentrano le critiche dopo le rivelazioni riguardo alle tonnellate di acqua contenente materiali radioattivi riversate nell’oceano nell’ultimo anno e mezzo — per errori di valutazione del personale addetto al controllo delle cisterne di stoccaggio disposte all’interno dell’area della centrale. Fatti che però non sembrano toccare la prima azienda elettrica del paese. Nonostante nel 2012 la commissione d’indagine sull’incidente avesse dichiarato esplicitamente che Fukushima era stato un disastro provocato da errore umano», nessuno dei dirigenti è stato indagato per l’incidente. L’ex presidente dell’azienda, Tsunehisa Katsumata e i suoi ex vice Sakae Muto e Ichiro Takekuro erano stati accusati da una speciale commissione popolare di inadempienza nella protezione della centrale in caso di tsunami di grande portata. Simbolo di una sorta di intoccabilità politica e giudiziaria di cui gode Tepco – oltre che prima azienda elettrica del Sol levante, quarta al mondo. Il genshiryoku mura, il «villaggio nucleare», come è soprannominata la lobby del settore, non si tocca e il ritorno al nucleare del paesearcipelago — entro giugno dovrebbero ritornare attivi i due reattori della centrale di Satsuma-Sendai, a Sud – ne è la dimostrazione più lampante. Dell’11/03/2015, pag. 8 «Mettiamo al bando le armi nucleari» Campagna Senzatomica. Una mostra a Roma Raffaella Cosentino Settant’anni di era atomica e una nuova incombente minaccia all’orizzonte. Nel mondo esistono più di 16mila bombe nucleari, di cui più di 70 in Italia, custodite nelle basi militari statunitensi di Ghedi e Aviano. Delle 180 armi nucleari schierate dagli Usa in Europa, il nostro paese ne ospita, in proporzione, il numero più alto. Il terrore di un conflitto nucleare, che durante la Guerra fredda era al centro del dibattito pubblico, nell’ultimo quarto di secolo è finito nel dimenticatoio. L’ultimo numero dell’Economist (uscito il 7 marzo) dedica invece la copertina alla «nuova era nucleare». La corsa agli armamenti atomici non è mai finita e anzi il club degli Stati che detiene la «bomba» non bada a spese per rifornire l’arsenale. Rispetto a quelle di tipo A sganciate su Hiroshima e Nagasaki, oggi esiste la bomba H all’idrogeno, la bomba N al neutrone (il cui scopo è uccidere gli esseri viventi lasciando la maggior parte delle strutture nemiche intatte), la bomba G, al cobalto, e le «bombe sporche» come quelle all’uranio impoverito. «Bimbi nati in modo soddisfacente» è il telegramma che ricevette il presidente Truman 38 durante la conferenza di Potsdam il 16 giugno del 1945. Gli si comunicava la buona riuscita del primo esperimento atomico. «Mio Dio, che cosa abbiamo fatto?» disse invece Robert Lewis, uno dei piloti del bombardiere americano B-29 che sganciò «Little Boy» il 6 agosto del 1945 su Hiroshima. Il mondo non ha davvero mai visto cosa è successo sotto quel fungo atomico. Se non fosse per la testimonianza dei sopravvissuti o «hibakusha». Un’opera di rimozione collettiva sulla catastrofe nucleare. Anche oggi, con tutti i mezzi a disposizione nessuno potrebbe fronteggiare le conseguenze umanitarie di un uso deliberato o accidentale di armi nucleari. Nell’ambito del vasto fronte internazionale per il disarmo nucleare, la «Campagna Senzatomica» vuole sviluppare un movimento di opinione per la sottoscrizione, entro il 2015, di un trattato internazionale che bandisca totalmente le armi nucleari. Culmine della campagna è la mostra «Senzatomica», allestita in 48 città italiane per un totale di 190mila visitatori e aperta gratuitamente a Roma dal 6 marzo al 26 aprile nello spazio Factory La Pelanda dell’ex mattatoio di Testaccio. Una mostra che viaggia al ritmo di mille visitatori al giorno e di 16mila studenti delle scuole romane prenotati. L’obiettivo è di raggiungere i 75mila visitatori. È la più grande esposizione per il disarmo mai fatta a Roma, con oltre 50 pannelli, installazioni sonore e video su una superficie di 700 metri quadrati. L’iniziativa è promossa dall’Istituto buddista italiano Soka Gakkai sotto lo slogan «il disarmo parte da me». Dell’11/03/2015, pag. 18 Una colata di cemento con vista Appia Antica IL COMUNE DI ROMA REGALA 400 MILA METRI CUBI AI SOLITI COSTRUTTORI PERSINO UNA NECROPOLI DEL I SECOLO D. C. SOTTO 32 EDIFICI E UNA TANGENZIALE Dicono che a Roma, ovunque si faccia un buco nel terreno, si trovi qualcosa di antico. Forse è per questo che, con una frequenza impressionante, la Soprintendenza decide di ricoprire qualsiasi cosa venga alla luce al di fuori dal centro storico (anche perché lì è tutto già scavato). Non ci sono i soldi, si dice ancora, per mantenere aperti i nuovi siti. È vero. Ma forse nel caso dei ritrovamenti di Grottaperfetta, a pochi passi dall’Appia Antica, i soldi per una volta sarebbero entrati nelle casse del Comune e in misura molto maggiore rispetto alle uscite. UNA NECROPOLI risalente al I-II secolo dopo Cristo, completa di piccoli mausolei e recinti funerari, cospicue quantità di frammenti ceramici di età medio repubblicana, una fattoria evolutasi in villa suburbana, un lungo tratto di strada romana con rivestimento basolato ben conservato, un tratto di acquedotto e un’antica cava. Almeno per quello che si è scavato. Il tutto non solo beatamente ceduto al consorzio di costruttori Grottaperfetta, perché all’interno di un’area ceduta dal Comune di Roma in convenzione, ma altrettanto beatamente ricoperto da abbondanti strati di terra. Né i romani né i turisti potranno mai visitare quella necropoli. In compenso gli acquirenti dei lussuosi appartamenti nei megapalazzoni che sorgeranno a partire dal 2016 potranno dire di camminare sulla storia. La vicenda dell’intervento urbanistico n. 60 comincia nel lontano 1962, quando – nell ’ allora Piano regolatore – venivano destinati 180 mila metri cubi all’edilizia, in una zona ancora poco abitata. Siamo a pochi metri dal parco dell’Appia Antica, c’è soltanto una strada che divide le due aree. Ed è proprio l’Appia Antica, nello specifico la Tenuta di Tor Marancia, che determina 40 anni dopo l’ampliamento del regalo ai “palazzinari”: non potendosi 39 costruire in zona vincolata, il Comune, anzi che dire “scusate, ci siamo sbagliati”, decide di “compensare”. E così i metri cubi di Grottaperfetta passano da 180 mila a 400 mila all ’ inizio del 2000. Il gruppo che si aggiudica il premio è formato da una cordata in cui si sono alternati la famiglia Mezzaroma, Ciribelli, Calabresi, Rebecchini, Marronaro e il Consorzio di cooperative Aic. Nomi che i romani, ma non solo loro, conoscono bene. La convenzione con il Campidoglio viene siglata il 5 ottobre 2011 e integrata il 18 giugno 2012. I 400 mila metri cubi si traducono in altri numeri, che danno ancora di più la dimensione dell’affare: sull’area, che si estende per 23 ettari, si dovranno costruire 32 edifici a uso abitativo, un centro polifunzionale, due asili, una piazza, strade interne per la viabilità locale, parcheggi, una pista ciclabile, un sovrappasso in legno e, tanto per non farsi mancare nulla, una tangenziale di collegamento con la via Laurentina. L’hanno chiamata “Nuovo Rinascimento”, forse perché la popolazione aumenterebbe di 5. 000 unità. E del resto come dire di no a “piacevoli linee architettoniche”, “ampie terrazze” e “lussuosi appartamenti” che partono dalla modica cifra di 230 mila euro (box escluso, naturalmente)? Le vendite sono già in corso e pullulano le inserzioni sui giornali locali, a firma Immobildream di Roberto Carlino, quello che “non vende sogni ma solide realtà”. GLI UNICI che stanno tentando di opporsi a quest’immensa colata di cemento – in una città in cui Legambiente stima la presenza di 250 mila alloggi sfitti – sono i cittadini e il Municipio VIII. I primi si sono costituiti in un comitato, “Stop I-60” (che ha un proprio sito e una pagina Facebook), e da tempo cercano con ricorsi e manifestazioni di bloccare le ruspe. Il Municipio ha messo in campo tutte le iniziative legali possibili. “Nel febbraio dello scorso anno – racconta il presidente Andrea Catarci – abbiamo fermato le opere abusive di reinterro dello storico Fosso delle Tre Fontane, intorno al quale esiste un doppio vincolo: idraulico, sul quale abbiamo già vinto, e paesaggistico. A luglio 2014, il Gip di Roma ha disposto il sequestro preventivo dell’area, già sottoposta a sequestro probatorio dalla polizia giudiziaria di Roma Capitale, per consentire il ripristino del Fosso. La legge dice, oltre tutto, che si deve costruire a 150 metri dai corsi d’acqua”. Ma come sempre, quando ci sono di mezzo carte e pareri (e soprattutto cemento), la soluzione non è semplice. La giunta regionale del Lazio, su sollecitazione del Consorzio, ha approvato una delibera che toglie il vincolo esistente al Fosso delle Tre Fontane. Contro la giunta Zingaretti, si è espresso per ben due volte (l’ultima, a dicembre 2014) il ministero per i Beni culturali: “Si sottolinea – ha scritto – che la rettifica deliberata dalla Regione è motivata su un dichiarato errore di graficizzazione. Si conferma la rilevanza paesaggistica del corso d’acqua”. Anche l’Autorità di bacino del Tevere richiede che il Fosso venga “tutelato e valorizzato”. Come se non bastasse, la Procura di Roma sta indagando per capire se il re-interro del Fosso sia avvenuto attraverso “false” autorizzazioni e – scrive il Gip – il Corpo forestale ritiene il cantiere “‘ abusivo ’ poiché la convenzione, e con essa i progetti delle opere di urbanizzazione ed edificazione sono stati adottati su un presupposto falso, quale la dichiarazione di tombinamento del fosso”. “C’È UN’ALTRA anomalia, che se non fosse tragica sarebbe addirittura ridicola – prosegue Catarci –: due estati fa i sei antichi casali presenti sull’area della lottizzazione hanno deciso di suicidarsi tutti insieme. Sono crollati, si sono auto-demoliti, così ci è stato detto. Esiste, però, un vincolo della Soprintendenza per cui si può costruire a 50 metri dalle pre-esistenze”. Che sarà mai, sostiene Barbara Mezzaroma, che in una lettera alla cittadinanza parla di “argomentazioni pretestuose e prive di fondamento”. Quisquilie, insomma. E, se proprio volete ammirare i resti antichi, potete sempre fare un buco nel giardino di casa (nostra). 40 INFORMAZIONE Dell’11/03/2015, pag. 15 Wind-H3g, accelera il piano di fusione Raiway: Giacomelli, sottosegretario alle Comunicazioni, apre alla nascita di un operatore unico LUCA PAGNI L’anomalia tutta italiana nel settore della telefonia mobile, con quattro operatori a contendersi un mercato dove è sempre più difficile guadagnare, ormai ha le ore contate. Dopo oltre un anno di trattative, sarebbe vicina alla conclusione l’operazione che porterà alla fusione tra Wind e “3”. Una trattativa tra due aziende che operano in Italia ma che si sta svolgendo a Londra: perché, in realtà a controllare le due società sono gruppi stranieri. Wind appartiene a Vimpelcom, operatore il cui primo azionista è il miliardario russo Mikhail Fridman, mentre H3G è controllata dal imprenditore di Hong Kong Li Ka-shing. Secondo fonti citate dal sito del quotidiano finanziario britannico Financial Times, l’accordo prevede la fusione tra le due filiali italiane, con la società asiatica al 51 per cento e i russi al restante 49 per cento. L’operazione, annunciata da tempo, si inserisce nel quadro generale europeo, dove si sta assistendo a fenomeni di concentrazione in tutto il settore delle telecomunicazioni. E non soltanto in quello della telefonia mobile. E l’Italia ne è un caso esemplare, dove ci sono più discussioni aperte sulle tecnologie grazie alle quali passeranno in futuro sia contenuti media che informazioni. Due, in particolare, i dossier aperti: il primo riguarda la rete di nuova generazione per le comunicazioni via Internet, mentre il secondo vede al centro i ripetitori televisivi, con l’offerta lanciata da Ei Towers, società del gruppo Mediaset quotata in Borsa, per conquistare Rai Way, società di viale Mazzini appena approdata a Piazza Affari. Vicende complicate dal fatto che da una lato ci sono gruppi privati e dall’altra società controllate dallo Stato. Non a caso, ieri ci sono state due audizioni (quasi in contemporanea) alle commissioni di Camera e Senato dove sono stati ascoltati l’amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano, e il sottosegretario del governo Renzi con delega alle tlc, Antonello Giacomelli. Quest’ultimo ha parlato di entrambi i dossier. L’esponente politico ha aperta a una possibile alleanza tra i due operatori delle antenne: «Non sono spaventato dall’operatore unico nazionale», ha detto confermando voci secondo cui sarebbe allo studio una possibile soluzione in cui le due aziende possano mettersi insieme ma con il pubblico in maggioranza, visto che fino ad ora il premier Renzi ha detto che lo Stato non scenderà sotto il 51 per cento. Sul futuro della rete di nuova generazione Giacomelli ha detto che non ci sarà nessuno «scorporo» nei confronti di Telecom («termine nemmeno pronunciabile»). Allo stesso tempo ha sollecitato i privati, in primis la stessa Telecom: «Aspettiamo e sollecitiamo risposte più ambiziose di quelle che abbiamo visto». In altre parole: l’Italia ha bisogno di recuperare il divario con le altre nazioni sulla banda ultra-larga, e se i piani dei privati non saranno sufficienti a coprire la maggioranza della popolazione il pubblico potrebbe intervenire usando la società Metroweb, di cui è socio la Cassa Depositi Prestiti: «E i privati - ha concluso - non pensino di avere una sorta di diritto di veto» sul piano del Governo. 41 Dell’11/03/2015, pag. 14 L’assurdo patto Ri-Mediamo. La rubrica settimanale di Vincenzo Vita Vincenzo Vita Mentre si celebra — con tanto di cerimonia mediatica — la (contro)riforma della Costituzione, è in corso un’altra modifica materiale della Carta nel mondo della comunicazione. La sfera di competenza sulla Rai sembra tornare al potere esecutivo, peggiorando persino la legge Gasparri. Insomma, via i partiti, ma dentro con due scarpe il governo. Tuttavia, è un po’ strano questo governo. Pare ergersi a deus ex machina nella futura governance dell’azienda pubblica, ma sulla vicenda dell’Opas di Ei Towers su RaiWay ha avuto una prudenza che neanche Don Abbondio. E sì, perché l’annuncio dato nelle prime ore dello scorso mercoledì 25 febbraio dell’Offerta ha avuto una risposta ufficiale da parte del Ministro dell’Economia solo la successiva domenica 1° marzo. Come mai? Ci sarebbe materia per il tenente Colombo, che sui particolari ricostruisce l’architettura di una trama complessa. Quel prolungato silenzio ha verosimilmente due ragioni. La prima è l’esiguità della barriera giuridica presente nella normativa, che indubbiamente non fu pensata per reggere un ipotetico attacco di mercato. Ecco il punto. Tant’è che la sottile linea rossa è costituita da un Dpcm, che di per sé non ha la forza di una fonte primaria. E, quindi, la barriera alzatasi tardivamente è una scelta legittima, ma non certo sufficiente nel casinò borsistico. E poi, vi è il ragionevole dubbio che la sicumera di Mediaset/Ei Towers si poggiasse su qualche pour parler, patto del Nazareno a parte. Le chiacchiere con il Biscione durano da vent’anni. Ancora ieri il sottosegretario Giacomelli ripeteva che «diventa molto difficile e scorretto affrontare una discussione che possa disturbare l’iter dell’operazione». Governo Giano bifronte? Si vuol prendere la Rai solo nella corteccia mediatica (dove i due Matteo –Renzi e Salvini– hanno il Guinness dei primati), lasciando il corpo dell’impresa al mare periglioso del capitale finanziario? Sembra la metafora della politica di quest’età: potente e prepotente nel suo campo giochi, subalterna e fragile laddove la Storia e il Capitale procedono sul serio. Tant’è che l’ipotesi di cui ora si parla insistentemente è quella di un accordo tra le due aziende degli impianti, al di là delle maggioranze societarie. Ma, forse, era proprio l’obiettivo vero, «trainato» e «distratto» dal luccichio dell’annunciato assalto di Borsa. Naturalmente, si è in attesa delle valutazioni conclusive delle Autorità competenti — Consob, Antitrust, Agcom — che aspettiamo con religiosa pazienza. Sullo sfondo si muove il monopoli della nuova stagione della società dell’informazione, in cui il testimone sta passando dalla televisione alla rete. Insomma, che il servizio pubblico perda colpi nei punti alti non crea soverchi patemi a chi pure vorrebbe sedersi nella cabina di regia dell’apparato pubblico. E allora? Di che riforma si parla, se le decisioni reali passano altrove? E che avrebbe detto l’ex direttore generale plenipotenziario Ettore Bernabei, che ha scritto molte pagine del vecchio e riverito monopolio di stato? Probabilmente un no secco e immediato. Per di più, nell’oppressivo clima del conflitto di interessi. Di cui si parla solo nel dì di festa. Quando si fa sul serio, mai. Insomma, c’è qualcosa che sfugge in una sceneggiatura troppo prevedibile, troppo plateale, troppo banale. Per essere vera. Nel suo affascinante I valori e le regole(2014), Franco Rositi dedica un capitolo alla «Tolleranza della menzogna nella scena pubblica». E dice che è l’indice di una democrazia a grado zero. Ci siamo? 42 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI dell’11/03/15, pag. 21 Scuola, più poteri ai presidi «Si sceglieranno la squadra» ROMA Nessun decreto. Sulla Buona scuola il governo conferma la strada del disegno di legge, cioè sarà il Parlamento a decidere su assunzioni, maggiore autonomia dei presidi, stipendi dei prof legati al merito per il 70 per cento, materie da aggiungere o rinforzare. Dopo quasi due ore di incontro a Palazzo Chigi, ieri sera il premier Matteo Renzi e la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini hanno rivisto il testo che domani pomeriggio il Consiglio dei ministri dovrà licenziare e poi inviare alle Camere. E hanno deciso di andare avanti sulla linea decisa la settimana scorsa, evitando la decretazione d’urgenza, che però non viene ancora del tutto esclusa nel caso in cui i tempi si allungassero troppo (l’iter parlamentare partirebbe dopo il 17 marzo e l’esecutivo vorrebbe concluderlo per il 15 aprile). Il nodo dei precari da assumere rimane il punto chiave di tutto il ddl. «Sarà data una risposta importante al precariato» è stato detto alla fine dell’incontro. Tra Graduatorie a esaurimento, seconda fascia e vincitori del concorso 2012, le immissioni in ruolo potrebbero arrivare a 100 mila, di cui almeno la metà dal primo settembre 2015, il resto nel 2016. Ma il Miur intanto ha avviato le procedure per la quantificazione degli organici del prossimo anno — le scuole sapranno entro il 31 marzo quanti professori avranno a disposizione — e, per ora, sono stati confermati i numeri dello scorso anno. Non sono escluse perciò delle «nomine giuridiche», con precari al lavoro dal primo settembre 2015 ma assunti dal 2016. Per quanto riguarda il testo della Buona scuola, Renzi ha voluto alcuni aggiustamenti per rafforzare l’autonomia «strumento del merito e chiave per aprire la scuola al territorio e di pomeriggio». L’idea del premier è puntare sui presidi che, grazie ad un’autonomia sempre maggiore, possono «farsi la propria squadra», scegliendo i professori in base al progetto formativo della propria scuola. Idea bocciata da tutti i sindacati che dal 20 marzo sono in mobilitazione con una sorta di sciopero bianco. I precari sciopereranno il 17 marzo. E ieri l’Unione degli Studenti, chiedendo il ritiro del ddl, ha presentato «L’altra scuola»: progetto in sette punti che va dal diritto allo studio all’abolizione della bocciatura, dallo stop ai voti all’obbligo scolastico fino ai diciotto anni, e poi l’alternanza scuola-lavoro «finanziata e qualificata» e l’eliminazione della divisione tra scuola elementare e media. Domani scenderanno nelle principali piazze d’Italia per una giornata di mobilitazione nazionale. Claudia Voltattorni Dell’11/03/2015, pag. 7 Domani 40 città in piazza contro la scuola di Renzi Studenti. Giovedì il Cdm dovrebbe approvare il Ddl sulla "Buona scuola" più volte rinviato, l’Uds manifesta contro il Jobs Act e avanza la proposta alternativa dell'"Altra Scuola". Ieri alla Camera il documento in sette punti è stato presentato 43 con Landini, Vendola, Pantaleo, i comitati della Lip, genitori e sindacati di base. Ma il Pd attacca la Fiom e si propone come interlocutore degli studenti Roberto Ciccarelli Sei ore prima del consiglio dei ministri che domani dovrebbe approvare il disegno di legge sulla «Buona Scuola» (il condizionale è ormai d’obbligo per un governo come quello di Renzi), l’Unione degli Studenti (Uds), Link e la Rete della conoscenza scenderanno in piazza in almeno quaranta città. La data del 12 marzo era stata lanciata più di un mese fa per riprendere il filo delle manifestazioni del 10 ottobre 2014 quando 100 mila studenti medi hanno protestato contro il Jobs Act e una riforma della scuola giudicata autoritaria, aziendalista e neoliberista. La confusione che l’esecutivo ha mostrato fino a oggi – dal 27 febbraio al 10 marzo, tre sono stati i rinvii di una decisione sull’assunzione dei docenti precari – ha attribuito a questa giornata di protesta un significato politico più ampio. Lo si è visto ieri alla Camera dove in una conferenza stampa l’Uds ha presentato sette proposte per l’ «Altra Scuola», l’alternativa alla «Buona Scuola» di Renzi. Sono intervenuti, tra gli altri, il segretario della Fiom Maurizio Landini e Domenico Pantaleo della Flc Cgil, Nichi Vendola di Sel, Angela Nava (Genitori Democratici), Stefano D’Errico (Unicobas) e Marina Boscaino (comitato per la riproposizione della Legge d’Iniziativa Popolare — Lip). L’opposizione al Jobs Act e quella alla riforma della scuola si sono saldate nelle parole di Landini: «C’è una grande correlazione tra le istanze degli studenti e quelle dei lavoratori – ha detto — Nel nostro caso, ci siamo visti sottrarre i nostri diritti con il Jobs act, un provvedimento il cui testo è stato dettato direttamente al Governo da Confindustria. Nel vostro sta accadendo la stessa cosa: il Miur sta passando le proposte di Confindustria». Il segretario della Fiom ha voluto legare la manifestazione studentesca di domani con quella promossa dai metalmeccanici il 28 marzo a Roma. «Sulla scuola assistiamo ad una convergenza ampia – conferma Danilo lampis, coordinatore Uds – I presupposti per un’unità di intenti ci sono tra soggetti sociali e sindacali diversi. E ci sono anche le proposte concrete per creare una scuola alternativa a quella di Renzi e del Pd». Molto determinata è stata l’analisi di Marina Boscaino secondo la quale la riforma renziana è ispirata all’ideologia autoritaria dei «presidi-manager» (vecchio reperto berlusconiano con Brunetta e Aprea) e dalla burocrazia autoreferenziale del Miur: «La Lip, come del resto le proposte presentate dagli studenti, sono il frutto di processi che hanno lo scopo di coinvolgere il mondo della scuola in una consultazione reale, al contrario delle riforme imposte dall’alto da parte di questo governo». Per Pantaleo gli ultimi sei mesi hanno dimostrato «un fermento» nella scuola. Ora, si tratta di esprimerlo. «La discussione è chiusa nel governo, mentre il paese non discute – ha detto — C’è bisogno di riconquistare un terreno democratico per non cadere in un tecnicismo fine a se stesso». Ciò che continua a destare indignazione è il trattamento riservato dal governo ai 150 mila docenti precari iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Renzi li ha illusi con la prospettiva di una stabilizzazione che con ogni probabilità non ci sarà. «Trattare così i precari è angosciante – ha detto Vendola — hanno sopperito alla latitanza dello Stato e sono stati indispensabili per far mandare avanti la macchina». Le manifestazioni studentesche contro il governo, e l’invito di Landini a partecipare a quella della Fiom, preoccupano il Pd. Lo dimostrano le affermazioni di Simona Malpezzi (Pd). La componente della commissione Cultura della Camera ha invitato l’Uds a non costruire un’«altra scuola» con la Fiom che «non sembra aver messo in campo iniziative efficaci per tutelare milioni di giovani Neet». Cosa c’entrino i metalmeccanici con i Neet non è chiaro. Malpezzi forse li usa come una metafora per colpire come Renzi comanda il tentativo di «coalizione sociale» impostato da Landini. Pensare, come fa Malpezzi, che la critica degli studenti alla valutazione o alla chiamata diretta dei precari gestita dai «presidi-sindaci», all’assenza del diritto allo studio o al sistema di alternanza scuola-lavoro prospettata nella «Buona Scuola» sia un «punto 44 d’incontro» con il Pd è una grave sottovalutazione della protesta. Gli studenti si muovono su un terreno di critica radicale al governo, come dimostra anche la loro partecipazione ai laboratori dello «sciopero sociale» organizzati dai movimenti e dai centri sociali. 45 ECONOMIA E LAVORO Dell’11/03/2015, pag. 7 La crisi allarga il «sommerso»: quasi 300 miliardi Ricerca Cgil. L'economia informale sottrae 100 miliardi di gettito l'anno. Camusso: la quota del 3 per cento di Renzi come un condono, il sistema è una estorsione per i lavoratori costretti ad accettare il "nero" Una nuova espressione — economia non osservata — per misurare il lato oscuro del nostro paese, sempre più in espansione. Nella ricerca che Cgil e Associazione Bruno Trentin hanno commissionato a Tecnè e Cer si stimano numeri che farebbero accapponare la pelle: 290 miliardi di valore non dichiarato suddiviso in 185 miliardi di economia sommersa (i processi di produzione o transazioni economiche non sono contabilizzate), 80 di economia illegale (prostituzione e stupefacenti) e 25 di economia informale (produzione, vendita o fornitura è fatta da operatori non ufficiali) con un’evasione che si attesta sui 93 miliardi l’anno di cui 55 di mancato gettito. Ma chi — come Renzi e il suo governo in continuità coi governi Berlusconi — alimentare l’idea che una certa opacità sia legittima ha troppo pelo sullo stomaco per scomporsi. Dati che portano Susanna Camusso a parlare di «gravità assoluta della situazione. Di numeri che «sfatano alcuni luoghi comuni, primo fra i quali quello degli imprenditori eroi». Da qui parte l’attacco al governo: «Se la realtà ci dice che il 59 per cento dell’economia informale viene da imprese che hanno volumi d’affari sotto il milione di euro, significa che non si può ragionare per soglie: né sul falso in bilancio nè sull’evasione», attacca facendo riferimento al famoso 3 per cento che il governo voleva depenalizzare. È dunque «la logica del condono, comunque la si chiami», a dover essere rigettata: «Ogni comportamento va sanzionato salvo il ravvedimento operoso che implica una assunzione di iniziativa, sennò il messaggio del governo è: scomponete la vostra illegalità e la farete franca». L’economia non osservata per il segretario generale della Cgil è quindi «concorrenza sleale nel sistema delle imprese» e non a caso «sono state proprio le associazioni di impresa ad invocare le soglie». Un «sistema» che colpisce soprattutto i lavoratori, i più deboli, quei 3,8 milioni stimati che sono costretti a lavorare in nero perché con la crisi «almeno guadagniamo qualcosa». E «se molti usano la grandezza di quel numero di occupati per non affrontare il problema» per Camusso «invece il sistema è un’estorsione verso chi ha bisogno» e per combatterlo «bisogna partire dall’universalizzazione degli ammortizzatori» mentre «i voucher e il lavoro a chiamata che dovevano far emergere il lavoro nero, sotto la crisi hanno ulteriormente creato immersione, come la carenza di credito ha prodotto più usura». Un sistema che quindi «affonda la parte più debole del lavoro: gli appalti e le retribuzioni più basse». Come combatterlo? «Facendo diminuire la quota di popolazione che può essere estorta creando lavoro legale e ben pagato e allargando l’uso della moneta elettronica fin qui disincentivata dalle banche e potenziando le attività ispettive a riscossione immediata invece di diminuirle con l’Agenzia unica sul lavoro». La ricerca stima in 14 i miliardi recuperabili rendendo più efficaci gli strumenti di contrasto. Risorse che se divise tra estensione del bonus a incapienti e pensionati (7,3 miliardi) e ampliamento degli investimenti pubblici (6,7 miliardi) porterebbe una crescita in 4 anni di circa 150mila nuovi occupati, un più 1,5 per cento del Pil in quattro anni. 46
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