Intermedio ritmo e movimento 3

Transcript

Intermedio ritmo e movimento 3
Lezione 3
RITMO E MOVIMENTO NEL DIALOGO – PRIMA PARTE
In questa lezione e nella successiva ci soffermeremo sull’uso del ritmo e del
movimento nel dialogo. Ma prima facciamo un passo indietro. A cosa serve
un dialogo? Un buon dialogo deve riuscire a svelarci, attraverso gli scambi
di battute dei personaggi, il loro carattere, le loro debolezze e i loro punti di
forza. Nello stesso tempo un buon dialogo deve anche essere in grado di
portare avanti la storia. Cioè non deve contentarsi di mettere a segno solo
delle belle battute tra i personaggi rischiando intanto di fermare il racconto e
il suo sviluppo di storia. Quando un dialogo è ben realizzato si devono
riconoscere e distinguere le voci in campo. Ogni personaggio deve
trasmettere attraverso le sue battute una psicologia e una lingua fatta di tic,
ripetizioni, modi di dire. E la voce che apparirà tra le virgolette del discorso
diretto dovrà corrispondere in tutto e per tutto a un solo personaggio in
carne e ossa.
Venendo al nostro tema generale bisogna dire che possono convivere, nella
stessa pagina, ritmi e movimenti diversi tra quelli sprigionati dalla voce
narrante e quelli espressi dai dialoghi tra i personaggi. Per esempio,
soprattutto se il racconto è in terza persona, può accadere che la voce
narrante della storia abbia un linguaggio elevato e di ampio respiro mentre,
al contrario, quello esposto dai dialoghi tra i personaggi risulti formato da
frasi povere linguisticamente e dalle proporzioni limitate. È il caso dello
straordinario racconto di Guy de Maupassant Deux amis, Due amici, del
1885, da Racconti e novelle, ed. Garzanti 1988, traduzione di Mario Picchi,
pag. 174-180.
In questo racconto l’amicizia porta due piccoli borghesi parigini amanti
della pesca a rischiare la vita durante l’assedio prussiano. I due amici
decidono di andare a pesca, nonostante i cannoneggiamenti ormai prossimi a
Parigi. Le battute dei loro stringati dialoghi sono inserite in un contesto
dilatato a dismisura dal paesaggio che li circonda. Una natura minacciata
dalla guerra che si combatte tutto intorno. Le parole di intimo buonsenso dei
due amici si perdono così, tra i suoni bucolici della campagna parigina e il
brontolio lontano delle artiglierie.
All’inizio del racconto Maupassant ci informa che prima della guerra i due
amici già si frequentavano. Ce lo dice, come potete verificare nel passo
successivo tratto dal suo racconto, con una descrizione diffusa e accurata su
come i due personaggi siano inseriti nel loro contesto ambientale. Quando
Maupassant fa dialogare i due personaggi le loro battute sono talmente
impregnate di semplicità e buon senso che lo “stacco”, esistente tra il ritmo
e il movimento esposto dalla voce narrante e quello rappresentato dal
dialogo, provoca nel lettore un effetto voluto di simpatica e benevola
reazione. Verrebbe da dire “ma guarda questi buontemponi come se la
godono mentre lì vicino è in corso una guerra”. Ma forse i più avvertiti
conoscitori di drammaturgia potrebbero già pensare: “sento puzza di
bruciato”. Adesso iniziamo ad assaggiare le differenze di ritmo e
movimento tra descrizione “alta” e dialoghi “bassi” :
Due amici
[…] Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro
chiacchiere. Ma andavano benissimo d’accordo anche senza dir nulla,
poiché avevano gli stessi gusti e un’identica sensibilità. Nelle mattine di
primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva galleggiare sul
fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre insieme all’acqua, e riversava
sulla schiena dei due accaniti pescatori il benefico calore della nuova
stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino.
ed ecco che arriva puntuale nel dialogo il crollo del ritmo e del movimento
ampio e prolungato che c’era nella descrizione appena letta:
- Che dolcezza, eh? - e Sauvage rispondeva: - Non c’è nulla di meglio. E di nuovo, passando dalla primavera all’autunno, la descrizione di taglio
paesaggistico classico di Maupassant, quasi alla maniera del pittore Jean
Baptiste Corot, ribadisce con l’uso della ripetizione il contrasto tra
narrazione distesa e preziosa e dialogo corto e pieno di attonita stupidità.
Dialogo che porta a mettere in luce una coppia di inconsapevoli attori da
farsa. In qualche modo delle vittime predestinate, annunciate solo attraverso
il rigore narrativo di Maupassant.
[…] In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal
sole al tramonto rifletteva nell’acqua le nuvole scarlatte, imporporava tutto
il fiume, infiammava l’orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a
loro, gli alberi già imbionditi, e frementi del brivido dell’inverno, Sauvage
guardava sorridendo Morissot e diceva…
di nuovo l’idiota buonsenso dei due:
- Che spettacolo! - E Morissot rispondeva senza levar gli occhi dal sughero:
- È meglio del boulevard, no?
Quando si rincontrano per caso a Parigi, ormai in pieno tempo di guerra,
decidono di tornare a pesca nonostante i prussiani assedino la città.
Maupassant risolve coerentemente nei dialoghi l’atteggiamento
d’incosciente superficialità che i due amici hanno per i gravi rischi che
devono affrontare:
Sauvage mostrando a dito le alture mormorò: - Lassù ci sono i prussiani.
[…] - E se li incontrassimo? - balbettò Morissot.
Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:
- Gli offriremo un po’ di fritto.
Superati gli avamposti col permesso di un colonnello, divertito per la loro
bonaria follia, tornano a pescare insieme e parlano amichevolmente, mentre
sulle colline intorno si sente il rumore sordo dei cannoni e i brontolii della
guerra:
Morissot brontolò: - Bisogna essere dei veri imbecilli per ammazzarsi
così!…
- Son peggio delle bestie - rispose Sauvage.
E Morissot, che aveva pescato allora un’argentina, dichiarò: - Purtroppo
sarà sempre così, fintanto che ci saranno i governi…
Sauvage lo fermò: - La Repubblica non avrebbe dichiarato la guerra…
- Coi re c’è guerra all’interno; con la repubblica c’è la guerra all’esterno, lo interruppe a sua volta Morissot.
Le ultime frasi di dialogo dei due amici sono:
- Così è la vita - disse Sauvage.
- Piuttosto dite che è la morte - aggiunse ridendo Morissot.
Arriva all’improvviso alle loro spalle una pattuglia di soldati prussiani
guidati da un ufficiale. L’ufficiale in buon francese chiede ai due amici la
parola d’ordine utile per superare gli avamposti, ma i due amici, tremanti,
restano zitti. Anche quando l’ufficiale prussiano cerca di corromperli non
cedono. Nella scena dell’esecuzione militare con la fucilazione dei due
protagonisti si incontrano in modo struggente e antiretorico le descrizioni
naturalistiche e preziose di Maupassant e le parole semplici e banali dei due
amici. Adesso il rapporto tra le due parti fin qui staccate del racconto
diventa formidabilmente contiguo. Da queste righe parte un finale
magnifico e di massimo livello di narrazione eroica quando alle parole di
stupido, ma coerente commiato tra due personaggi simili, si sostituisce una
gestualità fraterna che finisce assimilata e metabolizzata nella parte
descrittiva alta:
[…] Si ritrovarono un’altra volta a fianco a fianco.
L’ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
Lo sguardo di Morissot cadde casualmente nella rete piena di ghiozzi che
era rimasta sull’erba a qualche passo da lui. Un raggio di sole faceva
luccicare i pesci ammassati, che si muovevano ancora. Fu preso dallo
smarrimento. Nonostante i suoi sforzi gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Balbettò: - Addio, signor Sauvage.
Sauvage rispose: - Addio, signor Morissot.
Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da brividi irreprimibili.
L’ufficiale gridò: - Fuoco!
Sauvage cadde di schianto con la faccia contro la terra. Morissot, più alto,
oscillò, girò su se stesso, e cadde di traverso sul suo compagno, col viso
rivolto al cielo, mentre dalla giacca forata sul petto gli usciva un fiotto di
sangue.
Morti i due semplici, ma eroici piccolo borghesi, la natura e la descrizione
classicheggiante si impadroniscono totalmente del racconto trasformando la
storia da farsa in tragedia. Il racconto finisce in modo terribile, ma
verosimilmente autentico, con un gesto di pacifica rilassatezza militare che
diventa così l’ossimoro bestiale dell’insensatezza della guerra:
[…] Un soldato accorse. Il prussiano ordinò, gettandogli la pesca dei due
fucilati: - Fammi friggere subito questi animaletti finché sono vivi. Saranno
deliziosi.
E riprese a fumare la pipa.
Quello che si può “rubare” dall’arte di Maupassant, e da uno dei più grandi
racconti mai scritti nella narrativa di tutti i tempi, è la capacità di evitare in
modo assoluto gli effetti retorici del dolore e della sofferenza. È fortissima
in questo racconto la “tenuta” drammatica del punto di vista che resta
inchiodato in una zona intermedia: non troppo vicina ai due amici, non
troppo vicina ai militari prussiani e ugualmente distante dalla natura
circostante. L’effetto è quello di far provare al lettore delle sensazioni forti
in completa autonomia. Senza che dal racconto, almeno apparentemente,
arrivi nessun condizionamento emotivo. La morte antieroica dei due
protagonisti avviene in un clima di terribile “normalità” di guerra. Il
semplice e consapevole addio dei due amici è quanto di più formidabile
possa offrire un racconto sulle atrocità della guerra. La forza del dialogo sta
nel continuo passaggio di concetti e parole da uno all’altro. Come se a
parlare fosse una voce sola. È la rappresentazione perfetta della sintonia e
dell’amicizia totali. Una battuta viene contenuta e ampliata dalla frase
successiva. Una sola voce mite e serena. Quando arriva la violenza delle
frasi militari le voci dei due amici sono annichilite e resta solo il tempo per
un addio fugace e per una stretta di mano.
Questo splendido racconto è stato preso come modello narrativo dallo
sceneggiatore Luciano Vincenzoni per il bellissimo finale del film di Mario
Monicelli La grande guerra, 1959, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman.
Chapeau!
Mi sembra giustamente ironico e provocatorio sottoporvi subito dopo
l’emozionante esempio di Maupassant quella bella invenzione di dialogo di
Raymond Carver che troviamo nel racconto Ancora una cosa, 1974, dalla
raccolta di racconti What we talk about when we talk about love, Di cosa
parliamo quando parliamo d’amore, ed. Garzanti, 1987, traduzione di Livia
Manera, pag. 138, in cui un uomo che sta abbandonando moglie e figlia
termina la discussione sulla soglia di casa in questo modo:
[…] Lui appoggiò la valigia per terra e la busta di plastica sulla valigia.
Raddrizzò le spalle e si piazzò davanti a loro. Rae e Maxine fecero un passo
indietro.
- Attenta, mamma - disse Rae
- Non mi fa paura - disse Maxine
L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia.
Disse: - Soltanto una cosa voglio ancora dire Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.
Beh, l’idea di Carver di far annunciare una battuta al personaggio e di
fargliela inceppare, e anzi di non riuscire nemmeno a fargliela pensare, è di
tutte le possibilità quella più estrema e geniale. Questa bella trovata agisce
sul vuoto drammatico e fa assumere al silenzio che ne deriva una struggente
insensatezza. Qui si creano una sintesi e una circolarità totale: tra il ritmo e il
movimento del dialogo del personaggio che si inabissa nel nulla e la battuta
finale della voce narrante. L’assenza di pensiero è testimoniata sia dalla
mancata frase tra virgolette che dalla negazione della voce narrante. Un
esempio di perfetta armonia letteraria tra ritmo e significato.
Adesso proviamo ad andare su qualcosa di completamente diverso dai
dialoghi visti fino a qui. Entriamo addirittura nel logorroico e farsesco
scambio di battute tra due prigionieri di un campo di riabilitazione sovietico.
L’autore è Sergej Dovlatov e il libro in questione è la raccolta di racconti
Čemodan, sorta di commedia autobiografica, scritto nel 1986 e pubblicato da
Sellerio col titolo La valigia nel 1999, tradotto da Laura Salmon. Il racconto
citato è La cintura da ufficiale, pag. 81-88.
Un dialogo preparatorio all’udienza di un processo militare si trasforma
gradualmente nel testo di una sceneggiatura di tono farsesco e paradossale. I
due dialoganti si assegnano da soli le battute di un copione, simulando anche
situazioni e clima psicologico che secondo loro troveranno nell’aula del
tribunale della corte marziale dove uno dei due sarà a breve processato.
L’effetto è quello di un gioco sofisticato che raddoppia il senso stesso della
forma dialogo. Il divertimento è assicurato dal fatto che il futuro imputato al
processo si affida così ciecamente al valore delle battute e al loro
meccanismo drammatico da sembrarne già vittima predestinata. Da questa
serie di dialoghi si possono apprendere i rudimenti della farsa. La scena
comica poggia sul carattere di un personaggio che non ha la minima
percezione della condanna che rischia e sul carattere di un altro che, pur di
assecondarlo, finisce per preparargli una serie di battute dal sicuro e
pericolosissimo effetto antimilitarista. Nel dialogo che si creano da scrittori
autodidatti, i due militari sotto processo accusano paradossalmente
l’apparato militare di non aver creato dei corsi di formazione utili a dare un
senso alla vita dell’intero esercito sovietico. Una vera follia difensiva! Il
capo d’accusa di aver colpito un commilitone alla testa con una cinghiata è
del tutto uscito dal “copione” dei due esaltati sceneggiatori. Farsa assicurata
e battute esilaranti ottenute per aver abbandonato il solco del ragionamento
ed essere diventate deliranti. Tutto questo è ottenuto con una velocizzazione
di ritmo e movimento provocata dall’ottusità e dalla mistificazione con cui si
rincorrono le voci in campo. Siamo di fronte a una classica coppia comica
formata da due caratteri opposti. Si fronteggiano un istruito irresponsabile e
un idiota aggressivo. La combinazione fortemente conflittuale dei due
caratteri è garanzia di potenziale comico rilevante, ma ancora insufficiente
per avere il massimo risultato nello sviluppo del movimento narrativo.
Bisogna che i dialoghi mandino avanti l’azione e la trama e nello stesso
tempo mostrino al lettore tutta la fragilità dell’accordo raggiunto dalla coppia
comica, dopo estenuanti e assurdi batti e ribatti. E Dovlatov riesce benissimo
anche in questa seconda impresa:
[…] - Tu sei istruito, inventa qualcosa. Cava un ragno dal buco. Altrimenti
quei bastardi passano i documenti al tribunale. Questo significa tre anni di
battaglione disciplinare. E il battaglione disciplinare è peggio del lager.
Quindi tirami fuori...
Fece una smorfia cercando di mettersi a piangere.
- Sono anche figlio unico... mio fratello è in galera, le mie sorelle sono
sposate...
Gli dissi:
- Non so cosa si può fare. C'è una possibilità...
Čurilin si rianimò:
- Quale?
- Al processo io faccio una domanda. Chiedo: «Čurilin, lei, da civile, svolge
una qualche professione?». Tu rispondi: «No». Allora io dico: «Cosa dovrà
fare lui dopo il congedo, rubare? Dove sono i corsi da autista e bulldozerista
che ci avevate promesso? Perché dovremmo essere peggio dell'esercito
regolare?». E così via. A questo punto, naturalmente, ci sarà un gran vocìo
Magari ti rilasceranno su cauzione.
Čurilin si rianimò ancora di più. Si sedette sul mio letto ripetendo:
- Che testa che hai! La tua sì che è una testa! Con una testa come la tua, in
generale, si può anche non lavorare.
- Soprattutto - dissi – se la prendi a fibbiate.
- È acqua passata - disse Čurilin – tutto dimenticato... Scrivimi quello che
devo dire.
- Ti ho già detto tutto.
- Beh, ora scrivimelo. Altrimenti mi confondo subito.
Čurilin mi allungò un mozzicone di matita copiativa, poi strappò un pezzo
del giornale murale:
- Scrivi.
Io con grande accuratezza scrissi «No».
- Come sarebbe «No»? - chiese lui.
- Mi hai detto «scrivimi quello che devo dire». E io ho scritto: «No». Al
processo io ti chiedo se tu hai una professione da civile. Tu mi rispondi:
«No». Poi io dico dei corsi da autista. Dopo inizia il vocìo.
- Allora, io dico solo la parola «no»?
- Direi di sì.
- Un po' pochino - disse Čurilin.
- Non escludo che ti facciano anche altre domande.
- Quali?
- Come faccio a saperlo?!
- E io cosa rispondo?
- Dipende da quello che ti chiedono.
- E cosa possono chiedermi? Per esempio?
- Beh, per esempio: «Tu Čurilin, ammetti la tua responsabilità?».
- E io cosa rispondo?
- Tu rispondi: «Sì».
- Tutto qui?
- Puoi anche rispondere: «Sì, naturalmente, la riconosco e sono
profondamente pentito».
- Così va già meglio. Scrivi. Prima la domanda, poi la mia risposta. Le
domande scrivile normali, le risposte in stampatello. Così non mi confondo...
Čurilin restò con me fino alle undici. L'infermiere voleva mandarlo via, ma
Čurilin gli disse: - Potrò far visita a un compagno d'armi no?!...
Alla fine avevamo scritto un intero dramma. Avevamo previsto decine di
domande e di risposte. E come se non bastasse, Čurilin aveva insistito che io
annotassi tra parentesi: «lucido», «pensieroso», «imbarazzato».
Questo dialogo rappresenta il caricamento di una molla comica che tiene
nella sua spira il lettore. Vediamo ora come scatta il meccanismo farsesco
preparato nella prima fase. Il testo che è stato preparato, come avete letto,
prevede un vero e proprio copione con domande e risposte. Però al processo
della corte marziale tutta la sceneggiatura naturalmente salta. Il maggiore
Afanas’ev, che rappresenta il pubblico ministero nel processo militare, dice
una semplice battuta imprevista e fa cadere tutto l’intreccio elaborato dai due
commilitoni. È come quando ci si era preparati come bestie per
un’interrogazione a scuola e poi ci facevano una domanda a piacere.
L’adrenalina se ne andava sotto le scarpe. E così succede a Čurilin. Ormai
nel pieno della farsa la scuola è evocata in pieno, compresi i compagni di
classe che cercano di dare l’aiutino all’interrogato. Solo che qui stiamo
nell’Unione Sovietica dei Gulag e della Siberia e Dovlatov riesce
nell’impresa di dissacrare pezzi interi della mostruosa macchina burocratica
comunista.
[…] – Dobbiamo decidere se Čurilin resterà con noi o se le sue carte
andranno al tribunale. È una faccenda seria, compagni!... Čurilin,
racconti come sono andate le cose.
Tutti osservarono Čurilin. Tra le sue mani comparve un pezzetto di
carta stropicciata. Lo rigirava, gli dava delle occhiatine e borbottava
qualcosa sottovoce.
- Racconti – ripeté il maggiore Afanas’ev.
Čurilin smarrito mi lanciò un’occhiata. Evidentemente c’era qualcosa
che non avevamo previsto. Avevamo trascurato qualche particolare del
copione.
Il maggiore alzò la voce:
- Vuol farci attendere ancora a lungo?!
- Non ho fretta- disse Čurilin.
Si oscurò. Il suo volto diventava sempre più rabbioso e cupo. Ma
anche nella voce del maggiore vibrò l’irritazione. Fui costretto ad
alzare la mano:
- Posso raccontare io.
- Non se ne parla nemmeno – urlò il maggiore – ci manca solo lei!
- Proprio così – disse Čurilin – ecco … desidero … cioè …
frequentare un corso per bulldozeristi.
Il maggiore si girò verso di lui:
- Cosa cazzo c’entrano i corsi, porca d’una Eva! Ma sentitelo! Si è
ubriacato, ha storpiato il suo amico e ora sogna un corso da
bulldozerista!… Non è che, per caso, vorrebbe essere ammesso
all’università? O al conservatorio?…
Čurilin diede un’altra occhiata al pezzetto di carta e proferì cupamente:
- Perché dovremmo esser peggio dell’esercito regolare?
Il maggiore trasalì dalla rabbia:
- Quanto durerà ancora tutto questo? Gli vanno incontro e lui parla
da solo! Gli dicono “racconta” e lui non vuole!…
- Ma non c’è niente da raccontare! – saltò su Čurilin. – Devo
inventarmi una saga tipo Forsyte?! Racconta! Racconta! Ma cosa
c’è qui da raccontare?! Ma che cazzo mi rodi il cranio, bastardo?!
Posso dartela anche a te una ritoccata!…
Il maggiore afferrò con la mano il fodero della pistola. Sui suoi zigomi
comparvero delle macchie rosse. Respirava a fatica. Alla fine riuscì a
controllarsi:
- Alla giuria è tutto chiaro. Dichiaro chiusa la seduta!
Due raffermati presero Čurilin per le braccia. Io mi avviai all’uscita
tirando fuori le sigarette…
Altro dialogo da cui poter imparare qualcosa è quello orchestrato dalla
scrittrice A. M. Homes nel racconto di genere fantastico A real doll, dalla
raccolta di racconti The safety of objects, 1990, Una vera bambola, 1990, da
La sicurezza degli oggetti, ed. Minimum fax, 2001, traduzione di Martina
Testa, pag. 142-164.
Questo racconto è la dimostrazione lampante che le fantasie erotiche di un
adolescente, con le bambole o con qualunque altro oggetto del desiderio,
possono diventare una sfida narrativa a tutto campo. Nel dialogo le battute
del ragazzino sono inzuppate dall’autrice nelle più accese colorazioni
ormonali destinate alla conquista e al possesso fisico nientemeno che di
Barbie in persona. Cioè, di Barbie la vera bambola. L’incipit, come si
conviene in questi casi, non perde tempo in inutili preamboli e va al sodo:
Esco con Barbie. Tre pomeriggi a settimana, mentre mia sorella è a lezione
di danza, porto Barbie via da Ken.
Partendo da questo incredibile presupposto ecco come ci viene raccontato il
primo approccio con Barbie e il dialogo che ne scaturisce:
All’inizio ero seduto in camera di mia sorella e guardavo Barbie, che viveva
con Ken posata su un centrino sopra il ripiano del comò. La stavo
guardando e a un tratto mi accorsi che mi stava fissando. Era seduta accanto
a Ken che strusciava distrattamente la coscia, coperta dal pantalone beige,
contro la gamba nuda di lei. Lui si stava strusciando, ma lei guardava me.
- Ciao - disse
- Ciao - dissi io.
- Mi chiamo Barbie - disse, e Ken smise di strusciarsi contro la sua gamba.
- Lo so.
- Tu sei il fratello di Jenny.
Annuii. La testa mi faceva su e giù come quella di un pupazzo con dentro un
contrappeso.
- Mi sta tanto simpatica tua sorella. È dolcissima - disse Barbie. Un amore
di bambina. Specie negli ultimi tempi, si mette sempre tutta carina, e ha
cominciato anche a farsi le unghie.
Da notare l’eccellente “auto-reificazione” del ragazzo che, per lo
sbalordimento derivato dalla situazione, si descrive irrigidito come un
pupazzo, proprio davanti alla bambola che gli si rivela, al contrario, viva e
vegeta. In un passo successivo, dopo che sono usciti in giardino in un tête à
tête che taglia fuori il povero Ken, il ragazzo avvia un discorso più diretto e
confidenziale con Barbie:
[…] - Allora, che tipo di Barbie sei? - chiesi.
- Come scusa?
- Beh, a forza di sentire Jennifer so che esistono Barbie Giorno e Notte,
Barbie Movimenti Magici, Barbie Regalo, Barbie Tropical, La Mia Prima
Barbie e altre ancora.
- Io sono Tropical- disse, con lo stesso tono con cui uno potrebbe dire “sono
cattolico” o “sono ebreo”.
Ecco la dimostrazione di quanto riescano verosimili, nei racconti inseriti in
una cornice surreale e assurda, i dialoghi che partono da banali situazioni di
imbarazzo psicologico. Momenti in cui un personaggio non sa da dove
cominciare per tirar fuori due parole sensate e aprire un canale di dialogo.
Potendo parlare con Barbie il nostro personaggio non porta la bambola su
un versante di ragionamento umano, ma per farla sentire a proprio agio le
pone l’equivalente della domanda che si fa di solito a una persona appena
conosciuta quando le si chiede dove è nata o di che segno zodiacale è. La
sua domanda d’apertura è: “che tipo di Barbie sei?”
Cosa ci insegna questo dialogo tra generi e categorie così lontani?
Intanto che un essere umano e un pupazzo o un burattino in letteratura
possono tranquillamente parlarsi. Ma questo lo sapevamo già avendolo visto
accadere, e anche in modo sublime, in Pinocchio.
E allora in più ci insegna che le proiezioni mentali di un ragazzino possono
dar vita e movimenti a una bambola che prenderà a comportarsi e a parlare
come una stupida ricca fighetta americana, quale l’hanno progettata quelli
della casa produttrice di bambole Mattel. Le prospettive di un dialogo tra un
adolescente e una Barbie idiota sex symbol vanno verso un inevitabile
scontro dialettico di stampo feticistico:
[…] - Allora, cosa c’è fra te e Ken? …
Fece una risatina.
- Niente, siamo solo buoni amici.
- No, dai, davvero, a me puoi dirlo. Come stanno le cose? Voglio dire, siete
o non siete una coppia?
- Sciete o non sciete una coppia? - disse Barbie lentamente, farfugliando.
La ripetizione della domanda storpiata da Barbie produce un effetto misto
tra lo stupore e lo svampito, come se il meccanismo sonoro della bambola si
fosse inceppato. Ma è solo un momento perché quando nella successiva
battuta il ragazzino diventa diretto e volgare:
- Cos’è frocio?
lei dimostra che la sua testolina è reattiva e anzi parte in quarta con un
flusso di particolari sulle caratteristiche intime di Ken che per contenuto e
forma sembrano proprio la proiezione delle fantasie sessuali del ragazzino.
[…] - Ma no, mi desidera eccome. Torno a casa la sera e lui è lì in piedi che
mi aspetta. Non porta le mutande, sai. Cioè, non ti pare strano? Ken non
possiede biancheria intima. Ho sentito Jennifer dire alle sue amiche che per
Ken non la fanno proprio. Comunque, dicevo, lui sta sempre lì ad aspettarmi
e io gli faccio: Ken, siamo amici e basta, ok? Cioè, non so se l’hai notato,
ma ha i capelli che sono un blocco di plastica. La testa e i capelli sono un
pezzo solo. Non posso uscire con uno così. Oltretutto, non credo che
sarebbe all’altezza, se capisci cosa intendo. Ken non è uno che definiresti
ben dotato… Non ha altro che un bozzetto di plastica, cioè, in realtà è più
una gobbetta, e una che cazzo ci deve fare con un coso del genere?
Questo sbilanciamento improvviso del dialogo porta il personaggio di
Barbie a una svolta. Il ritmo delle sue frasi era breve e stringato. Quasi con i
giri contati come quelli che hanno le bambole parlanti. E ora invece il suo
pensiero bambolesco si srotola in una serie di considerazioni triviali da
donna insoddisfatta sessualmente. Questo cambio di ritmo e di movimento
narrativo segna il tempo per una reazione anche nel ragazzino che infatti
passa dallo stupore ebete all’azione violenta.
Mi stava raccontando cose che pensavo non avrei dovuto sapere e
nonostante questo ero chino verso di lei, quasi sperassi che se mi fossi
avvicinato ancora lei mi avrebbe detto di più […]. Nel corridoio fra le scale
e la stanza di Jennifer mi ficcai la testa di Barbie in bocca, come un leone
con un domatore, Dio con Godzilla.
Ecco cosa possono provocare quelle bambole che osano cambiare il ritmo e
il senso degli eventi. Ma la colpa non è loro… certo, è degli scrittori che le
descrivono così.
Lasciamo il racconto fantastico tout court e spingiamoci in un’atmosfera
letteraria di tipo surreale col prossimo esempio letterario. Esempio che
riguarda un formidabile, e forse insuperato a tutt’oggi, saggio sugli effetti
linguistici portati dalla televisione sui suoi spettatori. Si tratta del romanzo
di Jerzy Kosinski Being there, 1971, Oltre il giardino, Feltrinelli 1996,
traduzione di Vincenzo Mantovani. In questo breve, e quasi incompiuto
romanzo, il linguaggio caratterizza a tal punto il protagonista della storia da
riempire esso stesso la scena più della presenza fisica del personaggio che lo
esprime. Il personaggio sparisce dietro la fisicità fortemente allusiva delle
sue parole. E questo accade perché l’autore assegna al protagonista un
impasto linguistico unico e corporeo che realizza fondendo tra loro due
codici linguistici professionali: quello del giardinaggio e quello dei
conduttori di talk show televisivi di basso profilo. Il risultato mostruoso
dell’ibrido linguistico fa sì che le battute del protagonista risuonino per gli
altri personaggi del romanzo, ma anche per il lettore, come una continua
metafora sul mondo e vengano interpretate, con una serie di fraintendimenti
e scambi di persona spettacolari, addirittura come una possibile linea
politica da seguire a livello governativo. In realtà il tono del racconto è
pieno di malinconia perché quelle che leggiamo sono le frasi pronunciate da
un uomo solo, un idiota gentile che ha vissuto per anni e anni recluso in una
villa a fare il giardiniere e a guardare la tv. Eppure le sue parole ascoltate dal
premier politico e poi trasmesse in prima serata tv vengono recepite da tutti
come illuminanti e geniali. Il ritmo e il movimento del romanzo ogni volta
che a parlare è Gardiner prendono un respiro ieratico, sacro. Le sue frasi
volano molto più alte rispetto alla prosa usata dagli interlocutori e questo
accade perché il suo linguaggio è pienamente allusivo e metaforico. Il lato
struggente della cosa, che solo il lettore conosce dalle pagine iniziali del
romanzo, è che si tratta del risultato di una degenerazione umana e solo poi
semantica.
Da Oltre il giardino, pag. 57-58:
[…] Gli uomini cominciarono una lunga conversazione. Chance non capiva
quasi niente di quello che dicevano, anche se guardavano spesso dalla sua
parte, come per sollecitare la sua partecipazione. Chance pensava che si
esprimessero di proposito in un’altra lingua per ragioni di segretezza,
quando a un tratto il Presidente si rivolse a lui:
- E lei signor Gardiner? Cosa pensa della brutta stagione nella Street?
Chance si fece piccolo piccolo. Aveva l’impressione che le radici dei suoi
pensieri fossero state improvvisamente divelte dalla loro terra umida e
spinte, in un groviglio, nell’aria ostile. Fissò il tappeto. Infine parlò.
- In un giardino - disse - ogni pianta ha la sua stagione. C’è l’estate e la
primavera, ma c’è anche l’autunno e l’inverno. E poi, ancora, la primavera e
l’estate. Purché le radici non vengano recise, tutto va bene e tutto andrà
bene.
Alzò gli occhi. Il Presidente pareva molto soddisfatto.
Il linguaggio di Gardiner è così banalmente limitato alle conoscenze di
giardinaggio e tv che non può esprimersi altrimenti. Per gli altri acquista un
senso vagamente profetico, da maestro di pensiero. Per tutto il romanzo di
Kosinski la voce di Gardiner ripete coerente e monotona la stessa sequenza
di concetti con piccole variazioni. Certe volte le risposte idiote di Gardiner
diventano delle meccaniche esplosioni di cinismo. Così quando una ragazza
in una festa mondana in suo onore gli chiede:
- E la guerra? - disse la ragazza seduta alla sinistra di Chance, sporgendosi
verso di lui.
- La guerra? Quale guerra? - disse Chance. - Ho visto molte guerre alla tv.
Così il ritmo e il movimento nell’eloquio di Gardiner si rarefanno ancor di
più e ce lo mostrano in difficoltà. L’assuefazione al linguaggio della guerra
vista in tv entra nelle parole dell’idiota Gardiner che non sa distinguere la
fiction dalla no fiction. Pian piano il suo linguaggio perde ritmo e
movimento e diventa un triste soliloquio che lo fa abbandonare da tutti. Le
ultime righe del romanzo vedono Gardiner fuggire, come nelle più classiche
storie di mostri, e le sue parole insensate diventano malinconicamente degli
sguardi intensi e muti. Gardiner, prima di uscire di scena, posa il suo
sguardo sui dettagli in movimento, dialoganti con lui, di un giardino agitato
dal vento. Il Giardino con la G maiuscola, quello che aveva nutrito finora il
linguaggio del protagonista, risucchia Gardiner divorandone per sempre
ogni parola.
[…] Gardiner spinse la pesante porta a vetri e uscì nel giardino. Rami
carichi di nuove gemme, esili steli con minuscoli germogli puntati verso il
cielo. Il giardino era calmo, ancora sprofondato nel riposo. Brandelli di
nuvole passarono nel cielo lasciando la luna allo scoperto. Ogni tanto i rami
stormivano e si scrollavano dolcemente dalle loro gocce d’acqua. Una
brezza investì il fogliame cercando riparo sotto le foglie umide. Non un
pensiero si levò dal cervello di Gardiner. La pace gli riempiva il petto.
Vale la pena ricordare la grandissima prova d’attore di Peter Sellers nei
panni di Gardiner nella riduzione cinematografica del 1979, per la regia
dell’ottimo Hal Ashby. Cosa possiamo imparare da questa lezione, ancora
oggi attualissima, sul linguaggio e sulle sue interpretazioni, specie negli
effetti deformanti apportati dalla televisione a ogni espressione di pensiero?
L’insegnamento che si può trarre da questo dialogo (che poi somiglia più a
un monologo, o meglio a un parlare tra sé e sé, perché Gardiner non entra
mai in vera sintonia con le altre voci) è che quando riusciamo a trovare un
personaggio che non ha uguali e che ha un suo modo di parlare e di gestire il
linguaggio possiamo sfruttarlo in lungo e in largo all’interno di una storia. E
anzi il suo vantaggio, oltre a qualche rischio di assuefazione e soffocamento
a furia di spremerne il potenziale, è quello di portare con sé un tale impatto
drammaturgico che in ogni situazione sarà sempre felicemente a contrasto
con l’ambiente esterno.
Esercizio 4
Prendete il dialogo di un autore letterario che non vi lascia indifferenti
(insomma che amate o detestate particolarmente) e leggetelo più volte. Quindi
“sfilate” dal dialogo tutte le battute di un personaggio, lasciando vive quelle
dell’altro dialogante. A questo punto ricreate a modo vostro le battute
soppresse. Che siano almeno una ventina. Dovete dare alle nuove battute il
senso e il ritmo che voi credete opportuno, cercando però di allontanarvi il più
possibile dalla versione originale. Non sentitevi obbligati al rispetto della trama
dell’opera scelta, ma solo a quello della concatenazione del dialogo. È quasi
scontato che ne verrà fuori una specie di dissacrazione o di parodia. Ma questo
esercizio vi dà la favolosa possibilità e il piacere di duellare alla pari con
qualsiasi autore della letteratura vi capiti a tiro!
Esercizio 5
Non prendeteci per matti, ma provate a far rivolgere la parola a un essere
umano da un qualunque oggetto presente nella stanza di una casa (poltrona,
posacenere, vaso cinese, lampada a stelo, ecc.) e date l’avvio a un dialogo
credibile (un botta e risposta di almeno una dozzina di battute) in cui l’oggetto
parlante dimostri una sua personalità e fisicità attraverso le battute usate.
Da questa lezione in poi è anche arrivato il momento di iniziare la stesura di un
racconto da concludere entro la fine delle sette lezioni.