unione giuristi cattolici di milano

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UNIONE GIURISTI CATTOLICI DI MILANO
DISCORSO DEL PAPA ALLA ROTA
E DEONTOLIGIA PROFESSIONALE
DI GIUDICI E AVVOCATI CATTOLICI
Convegno 8 luglio 2002
Matrimonialisti e non divorzisti, muovendo dal Vangelo secondo Matteo, come insegna
il supremo magistero della Chiesa.
È questo, in estrema sintesi, l'insegnamento che si può ricavare dal discorso del Papa alla
Rota del 29 gennaio 2002, che, interpretato da Don Barolo nell'incontro dei Giuristi
Cattolici di Milano dell'8 luglio 2002, diviene indirizzo autorevole di concreta deontologia
professionale per i giudici e per gli avvocati cattolici.
Chiediamo scusa ai colleghi lettori se abbiamo voluto anticipare, se pur genericamente, le
conclusioni che si può essere autorizzati a trarre dall'importante convegno organizzato
dall'Unione Giuristi Cattolici di Milano sul tema dell'indissolubilità del matrimonio in
rapporto agli istituti giuridici vigenti della separazione e della cessazione degli effetti civili
del matrimonio concordatario.
Perché occorre muovere dal Vangelo secondo Matteo?
Perché in Mt19, 3-9 è detto testualmente: «E gli si accostarono dei farisei e, per tentarlo gli
domandarono: ``È permesso ad un uomo ripudiare la propria moglie per un motivo
qualsiasi?''. Ed Egli (Gesù) rispose loro: ``Non avete letto come il Creatore da principio li
fece maschio e femmina?'' e disse: ``Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà
con la moglie, e i due saranno una sola carne. Quindi non sono più due, ma una sola carne.
Dunque non divida l'uomo quello che Dio ha Congiunto''. ``Ma perché allora'' gli replicano,
``Mosé ha ordinato di dare alla donna il libello del ripudio e di rimandarla?''. Risponde loro:
``Per la durezza del vostro cuore Mosé vi permise di ripudiare le vostre mogli; ma da
principio non fu così. Però io vi dico: chi rimanda la propria moglie, sia pure in caso di
fornicazione, e ne sposa un'altra, commette adulterio; e chi sposa la ripudiata, commette
adulterio''».
Il Papa nel suo discorso al Supremo Tribunale Rotale e quindi nell'esercizio del suo
magistero si rifà espressamente a questo passo del Vangelo di Matteo che riporta la parola
di Gesù stesso il quale rimanda alla Creazione per evidenziare che l'indissolubilità è
propria di ogni matrimonio, sia di quello naturale che di quello sacramentale.
Nel suo discorso il Papa precisa tuttavia che questo non significa che il matrimonio sia
assolutamente inscindibile, dal momento che, in determinati casi e a determinate condizioni,
esso può essere sciolto non dall'uomo, bensì da Dio stesso. Inoltre la tradizione Cattolica
riconosce che questo potere di intervento sul matrimonio, che è proprio di Dio, è esercitato
vicariamente, cioè in nome di Dio stesso, dal Sommo Pontefice, sia ope legis (cfr. il
privilegio paolino e le norme da esso derivate), sia direttamente, come nel caso del
matrimonio rato e non consumato o nello scioglimento in favorem fidei (quello che
qualcuno chiama privilegio petrino).
L'invito del Santo Padre è dunque diretto al fine di operare nel campo della legislazione
civile per l'affermazione del matrimonio indissolubile ma è lo stesso Sommo Pontefice, nel
suo perspicuo discorso, a introdurre la tematica deontologica che è diretta in modo
particolare ai giudici e avvocati cattolici, riportando così nell'ambito della concreta
operatività umana l'applicazione del principio sacrale.
Il Pontefice così si è espresso: «D'altra parte, gli operatori del diritto in campo civile
devono evitare di essere personalmente coinvolti in quanto possa implicare una
cooperazione al divorzio. Per i giudici ciò può risultare difficile, poiché gli ordinamenti non
riconoscono un'obiezione di coscienza per esimerli dal sentenziare. Per gravi e proporzionati
motivi essi possono pertanto agire secondo i principi tradizionali della ``cooperazione
materiale al male''. Ma anch'essi devono trovare mezzi efficaci per favorire le unioni
matrimoniali, soprattutto mediante un'opera di conciliazione saggiamente condotta. [A loro
volta] Gli avvocati, come liberi professionisti, devono sempre declinare l'uso della loro
professione per una finalità contraria alla giustizia com'è il divorzio; soltanto possono
collaboraree ad un'azione in tal senso quando essa, nell'intenzione del cliente, non sia
indirizzata alla rottura del matrimonio, bensì ad altri effetti legittimi che solo mediante tale
via giudiziaria si possono ottenere in un determinato ordinamento. In questo modo, con la
loro opera di aiuto e pacificazione delle persone che attraversano crisi matrimoniali, gli
avvocati servono davvero i diritti delle persone, ed evitano di diventare dei meri tecnici al
servizio di qualunque interesse».
In merito all'opportunità, per l'operatore cattolico, di non cooperare al divorzio, Don
Barolo affronta il problema della natura «intrinsecamente cattiva» di tale istituto giuridico.
Egli richiama in proposito la risposta della morale tradizionale cattolica, confermata dal
Papa in questo suo ultimo discorso, secondo la quale il divorzio civile non è «intrinsice
malum». Infatti, in determinati casi, è ipotizzabile la liceità del ricorso al divorzio civile da
parte di cattolici e della cooperazione ad esso da parte di giudici e di avvocati.
Uno guardo storico ci porta a considerare che fu proprio l'attenzione al rischio di
estromissione ed autoisolamento dei cristiani dalla società civile a indurre a ritenere lecita la
cooperazione al male nell'assunzione ad esempio delle cariche di sindaco. Infatti se fosse
stato sempre moralmente illecito celebrare il matrimonio civile nessun cattolico sarebbe più
potuto diventare sindaco in quanto legittimato ad unire in matrimonio quale pubblico
amministratore.
La deroga fu giustificata sulla base del semplice ragionamento che non è il sindaco ad
unire in matrimonio ma egli si limita a dichiarare soltanto che due cittadini vogliono
avvalersi di una legge dello Stato che non si condivide. In tal senso è prevalsa nella
coscienza dei cattolici l'opportunità di una scelta che non escluda la maggior parte dei
cittadini cattolici dallo svolgimento dei compiti che un'importante carica pubblica richiede.
Analogamente, per quanto concerne i giudici, il Papa nota che essi, negli ordinamenti
attuali non possono invocare l'obiezione di coscienza contro il dovorzio. Tuttavia in
proposito Don Barolo osserva che nel nostro ordinamento il giudice civile non dichiara di
sciogliere il matrimonio ma si limita a dichiarare soltanto la cessazione degli effetti civili
di esso in applicazione di una legge dello Stato di cui si avvalgono i cittadini richiedenti. In
sostanza la fattispecie concreta è ben diversa dal caso dell'aborto dove il medico o il
paramedico è chiamato a compiere un gesto che, per la sua sensibilità corrisponde
all'omicidio. In quest'ultimo caso l'operatore non si limita cioè a dichiarare qualcosa, ma
compie (è autore di) qualcosa, nel senso che compie un gesto _ omicida _ che ha
conseguenze su un soggetto terzo rispetto a chi chiede l'intervento abortivo. Il relatore rileva
in proposito, per quanto riguarda il giudice, che il Papa ha giustamente fatto richiamo al
fatto che la legge possa prevedere degli spazi di intervento positivo sulla salvaguardia del
matrimonio.
Per quanto concerne l'attività degli avvocati il discorso del Papa chiarisce in modo ancor
più pregnante l'atteggiamento della Chiesa. Premesso che, trattandosi di liberi professionisti,
costoro non sono tenuti per legge a cooperare al male e quindi ad assistere un cliente, egli
compie una sottile distinzione riportandosi al Catechismo della Chiesa Cattolica.
È proprio il Catechismo che considera anche la questione della liceità del ricorso al
divorzio da parte di un fedele nel caso in cui egli, pur non credendo che sia nel potere dello
Stato sciogliere il vincolo contratto, abbia la necessità ineludibile di tutelare legittimamente,
anche dal punto di vista cristiano, alcuni suoi diritti, come quello relativo al rispetto della
sua dignità umana, dei figli, ecc. In questo caso, ci dice il Magistero, ciò che legittima al
ricorso ad un istituto negativo è l'intenzione positiva del fedele. Orbene, se in questi casi è
lecito al fedele il ricorso al divorzio, lo sarà anche per l'avvocato cattolico che l'assiste. In
ordine al discrimine che verrebbe così a porsi in relazione alla concreta intenzione del
cliente che chiede la prestazione del professionista, ci dice Don Barolo che, considerando
come lecita l'azione del legale diretta ad attenuare la litigiosità e a ricercare il bene possibile
in una situazione di grave crisi del matrimonio, è decisamente da escludersi un processo alle
intenzioni, essendo sufficiente che sussista, nel caso concreto, la possibilità di aiutare in una
situazione difficile e di fare il bene della famiglia, anche se per realizzare questi fini sia
necessario giungere al divorzio civile. In proposito è risultato particolarmente incisivo e
chiarificatore l'intervento del matrimonialista Avv. Brasca, il quale, dopo aver illustrato una
serie di casi specifici dell'esperienza quotidiana di un professionista, ha sottolineato che: «di
fronte a problemi particolarmente gravi» gli avvocati cattolici, per coerenza con il Vangelo
e con i valori rivelati dalla parola di Cristo, «non si possono fare da parte e lasciare ad altri il
compito esclusivo di gestire queste situazioni difficili». Infatti, così facendo, i professionisti
cattolici correrebbero il rischio di comportarsi come il sacerdote e il levita di fronte a chi ha
bisogno di un aiuto immediato e risolutivo. Egli ha aggiunto che «così facendo» si
lascerebbe ai così detti «divorzisti» l'unica voce in materia di separazione e di divorzio,
mentre la voce degli autentici matrimonialisti non avrebbe alcuna possibilità di farsi sentire.
In esito al convegno possiamo quindi dire che è stata ribadita dal Magistero quella
tendenza, già storicamente verificata, dell'opportunità che i cristiani non siano estromessi
dalla società, creando un vuoto facilmente colmabile da soggetti che operano invece nello
stesso settore ma con principi ben diversi da quelli dei credenti.
MATTEO DE STASIO
avvocato in Milano