Untitled - Ciclofrenia

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Untitled - Ciclofrenia
Titolo originale dell’opera: Delitto e Castigo
Supervisione e adattamento del plagio a cura di Daniele Luttazzi
Photo credits: o-nobody-o.deviantart.com (copertina) e agnakamura.deviantart.com (quarta di copertina)
Progetto grafico francamente discutibile di Claudio Delicato
© 2013 Claudio Delicato aka Mr. Tambourine
ciclofrenia.it
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è da ritenersi del tutto
casuale.
La grandezza di questo paese
non è più nelle piazze, non è nelle chiese
non è Roma di marmi, fontane e potere
né Milano, tradita da chi se la beve
Non è Genova o Taranto, signore del mare
non è Napoli, e questo è perfino più grave
non è più divertente tirare a campare
soprattutto, non è più originale.
Daniele Silvestri, QUESTO PAESE
Agli amici
ai sorrisi
al sole
alle rose
Claudio Delicato
Chi se ne frega di No Logo
Per Natale volevo regalare ad Alessia un capodanno a San Pietroburgo, ma Skyscanner
mi ha detto di no.
La soluzione più conveniente è un volo che parte prima che il gallo canti, ci mette dieci
ore e mezza all’andata e undici al ritorno, fa scalo a Vienna dove dovremo fare trenta
flessioni, tre serie di addominali da trenta e recitare il Cantico dei cantici di re Salomone
in equilibrio su una gamba sola. Costa trecentoquaranta euro.
Per Natale volevo regalare ad Alessia un capodanno a Oslo, ma il Big Mac Index mi ha
detto di no.
Il viaggio lo pagherei meno ma il costo della vita è ributtante, Riccardo mi ha detto che
per un panino e una pinta ha pagato prezzi che neanche un Giapponese a piazza San
Marco.
Per Natale volevo regalare ad Alessia un capodanno a Ladispoli, 12 euro menu non-stop
dal Cinese di via La Spezia – spese ospedaliere escluse – e Peroni al sacco comprata calda
al Tigre di viale Italia. Ma stavolta sono stato io a dirmi di no. Non mi regge la figura.
Così ho fregato una vecchia.
Sebastiano lo fa da anni e mi ha spiegato come. Scegli un’ultraottantenne, la segui un
paio di volte per capire le sue abitudini, poi il trenta del mese ti metti un cappello, una
camicia blu e un tascapane a tracolla, stampi un tesserino farlocco dell’Enel, le citofoni e
le dici che c’è un problema con l’ultima bolletta, se per favore può fartela vedere.
“Ti dirà certo, ti farà entrare.”
“Ok.”
“Poi trovi un modo per farla andare in un’altra stanza. E inizi a cercare.”
“E se non trovo?”
“Se non trovi chiedi di usare il bagno.”
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Dice Sebastiano che all’inizio si sentiva una merda. Che la prima volta, appena uscito dal
portone, è addirittura tornato indietro e gli ha infilato i soldi sotto la porta. Poi la seconda
ne ha devoluto la metà a un centro anziani, così, per mettersi la coscienza a posto. E da lì
è stata una strada in discesa: come tutte le cose brutte della vita, dopo un po’ ti ci abitui e
smetti di sentirti in colpa.
“Facciamo cose orribili in continuazione. Ogni giorno. L’hai mai tradita Alessia?”
“Sì.”
“Hai mai incolpato un collega di qualcosa che avevi fatto tu?”
“Sì.”
“E allora.”
Il collega era Manolo. Finché c’era Manolo andava tutto bene. Era uno che si confondeva
spesso e metteva un Lövbacken dove andava un Lack, così i clienti sbagliavano gli acquisti e Sandro, il principale, s’infuriava. Diciamo che io ci ho marciato un po’ sopra:
ogni volta che mi sbagliavo dicevo a Sandro che era stato lui. Manolo è rincoglionito, non
si ricorda mai nulla e finiva per convincersi che l’errore fosse davvero suo.
Il problema è che ora non ho più un collega.
Sandro a luglio ci ha detto che non avrebbero rinnovato un sacco di contratti perché le
vendite negli ultimi mesi si erano abbassate un bel po’. “Prima la crisi ci faceva comodo,
la gente non comprava più i mobili dall’artigiano ma da noi, perché costano meno,” ha
detto, “ma ora ha iniziato a non comprare proprio più i mobili. Se li passano in famiglia.
Poi con questa moda del vintage, ormai si arreda casa dal robivecchi.”
Tutti noi abbiamo finto di bercela perché i sindacati ci hanno detto che non c’erano le
condizioni per protestare, ma lo sappiamo bene che dietro ‘sta storia ci sono i Rumeni.
Quelli lavorano il doppio delle ore nostre per trecento euro al mese. E chi se ne frega delle
condizioni dei lavoratori, dello sfruttamento, chi se ne frega di No logo.
Siamo andati tutti a casa ma Alessia ancora non lo sa. Non ho avuto il coraggio di dirglielo
perché stiamo pianificando di andare a vivere insieme, abbiamo visto un paio di case a
Centocelle ché gli affitti sono scesi parecchio, e se dovessi confessarle che dovremo
aspettare che trovi un altro lavoro sai le Madonne che mi tirerebbe. Così ogni mattina
all’ora di pranzo e alle sette di sera esco di casa e la chiamo, in modo che senta i rumori
della piazza e si convinca che sto al lavoro, ma in realtà resto a casa a mandare curriculum
e guardo compilation dei gol di Gervinho su YouTube.
“Chi è?”
“Eh, signora Antonelli?”
“Sì.”
“Enel, buonasera, mi può aprire per favore?”
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Vive in un vecchio palazzo a via dei Cappellari intitolato ai Baracchini, credo paghi un
affitto popolare dei tempi del fascismo, una cinquantina di euro al mese. Perderà la proprietà con la morte e qualche benestante dirigente tedesco della FAO se la comprerà. Il
palazzo ha piani alti almeno tre metri, scale in pietra grigia con muri vaniglia sporco e
ogni appartamento ha una grata che blocca l’entrata, perché altrimenti la gente ti occupa
casa in tua assenza e poi è dura cacciarla.
La porta si apre tanto quanto concesso dalla catenella che la lega allo stipite.
“Sì?”
“Enel signora, abbiamo un problema con l’ultima bolletta, me la può mostrare per favore?”
Tiro fuori rapido il tesserino falso e glielo sventolo sotto il naso, lei aggiustandosi gli
occhiali mi squadra dalla testa ai piedi. Il cappellino, la camicia e il tascapane la convincono, mi apre.
Appena entro in soggiorno inizio a scrutare ogni angolo visibile per capire dove tiene i
soldi, la pensione, i gioielli di famiglia, qualsiasi cosa che per me sia San Pietroburgo,
Oslo, Beirut, Sarajevo, qualsiasi cosa che non sia Ladispoli. L’arredamento è scarno, c’è
un tavolo rotondo anticato con quattro sedie imbottite di una fantasia verde e gialla con
ricami dorati. Un antico divano sfondato che guarda un televisore grigio a tubo catodico
che la vecchia avrà usato solo per guardare Affari tuoi. Tre quadri più che trascurabili alle
pareti, una libreria piena di manuali di cucina, Harmony e gialli in omaggio con
L’Espresso.
Alla destra della porta d’ingresso c’è la cucina.
“In cucina non vale manco la pena guardarci, non ci mettono mai niente.”
Accanto al divano c’è un corridoio che porta al resto della casa.
“Se non trovi nulla in soggiorno cerca in camera.”
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Mi chiede che problema ci sia con la bolletta. Le rispondo che sono stati fatti diversi errori
in zona per un guasto del sistema e ad alcuni utenti sono state recapitate le bollette di altri.
Aggiungo termini come “software”, “erogazione” e “data management” per dare un tono
al discorso.
“Non mi sembra che la bolletta fosse più alta.”
“Infatti è solo un controllo,” e mi chiede di aspettare mentre va a prenderla.
Appena sparisce in corridoio cerco di memorizzare il suono delle pantofole trascinate sul
pavimento per riconoscerla quando tornerà. Mi alzo in piedi e sollevo i cuscini del divano,
guardo sotto, sopra e dietro, dentro le federe. Niente. Corro verso la libreria, prendo tutti
i libri che posso e li scuoto frenetico per vedere se escono soldi. Niente. Dietro le cornici,
nei portapenne, niente. Cerco mattonelle da sollevare, buchi nel muro, pulsanti seminascosti che una volta premuti aprono pertugi che conducono a una dimenticata civiltà sotterranea che custodisce le pensioni della vecchia. Niente. In questa casa non c’è niente,
questa casa è il niente.
Torna dopo tre minuti. Mi porge la bolletta e non so che diavolo dirle. Tiro fuori un paio
di fogli a caso dal tascapane: sono stampe di biglietti elettronici Trenitalia di quando sono
andato ad Arezzo due anni fa, ma tenendole un po’ piegate non si riconoscono e comunque la vecchia non mi guarda molto. Faccio finta di confrontare un paio di dati mormorando numeri e facendo scarabocchi teatrali sui fogli, poi le confermo che è tutto a posto
e la ringrazio della disponibilità.
“Si figuri, grazie a lei.”
“Posso usare un secondo il bagno?”
“Certo, in fondo al corridoio a destra.”
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Le pareti del corridoio sono tappezzate da una vecchia carta da parati verde sbiadito. È
buio come tutte le case delle persone anziane. C’è un vecchio telefono a disco appeso alla
parete. Quando arrivo alla porta del bagno entro, accendo la luce ed esco subito per fiondarmi nella stanza da letto.
C’è troppa roba e devo fare una selezione: la cassettiera, un armadietto con le porte a
vetro, un armadio più grande. Per prima cosa guardo sotto il materasso: “è un classico,
tutti i vecchi ci mettono i soldi,” mi ha detto Sebastiano, ma non trovo nulla. Neanche
sotto il letto. Rovisto nei cassetti, ma a parte milioni di vecchie mutande, scialli e maglie
di lana non c’è niente. Cerco allora nell’armadio, c’è una vecchia pelliccia ma non posso
portarmela via, e qualche paio di vecchie scarpe di valore meno che nullo.
Nel momento in cui realizzo che tra qualche secondo il tempo che ho trascorso in bagno
inizierà a sembrare troppo, guardo il comodino a fianco al letto. C’è un cassettino chiuso
a chiave. Cerco la chiave a terra accanto al comodino e nella cassettiera, ma non la trovo.
Decido quindi che forzarlo non dev’essere un’impresa titanica, appoggio il piede destro
sul piano del comodino, metto entrambe le mani sotto al cassetto e inizio a tirare.
Niente da fare. Non esce.
“Ma se è chiuso a chiave dev’esserci qualcosa.”
Sul comodino c’è uno specchio con manico. Il manico è sufficientemente sottile da entrare nel cassetto. Ce lo infilo e, con il piede ancora sul piano, faccio leva con lo specchio
spingendolo verso il muro. Proprio quando credo che il manico stia per spezzarsi la serratura del comodino salta, il cassetto scivola via e frana a terra facendo un casino bestiale.
Resto un secondo con il fiato sospeso valutando tutte le soluzioni: fuga dalla finestra
(siamo al terzo piano), ingegnosa scusa per giustificare la mia presenza in camera (non
brillo per inventiva), assassinio della vecchia (non ho un buon avvocato), era glaciale che
porta all’estinzione l’umanità e con essa il mio reato (finora l’ipotesi più probabile).
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Invece non si è accorta di nulla. Mi affaccio dalla camera e la vedo intenta a spolverare i
libri, allora rientro in camera.
Il cassetto era pieno di gioielli: collane, bracciali, anelli e così via. Non mi sembrano di
grande valore, ma forse il biglietto aereo per San Pietroburgo ci scappa. Arraffo tutto
quello che posso e me lo ficco in tasca, richiudo il cassetto alla bell’e meglio, entro rapido
in bagno, tiro la catena, faccio scorrere l’acqua per quattro secondi, spengo la luce, chiudo
la porta e torno in salotto.
“Grazie signora. Io ora la saluto.”
“Non vuole un caffè?”
“No grazie, non ho tempo…”
“E su, per così poco.”
“Davvero, la ringrazio però…”
“Mi faccia compagnia altri cinque minuti.”
Mentre la signora Antonelli armeggia in cucina prego che non le venga voglia di andare
in camera mentre aspetta che il caffè esca. “Potrei sgattaiolare dalla porta,” penso, ma
fortunatamente sembra che non abbia fiducia nella sveltezza del suo passo per tornare in
tempo ai fornelli se dovesse sentire la moka borbottare. Porta a tavola un vecchio vassoio
argenteo su cui sono appoggiate due tazzine dal bordo dorato e un ex barattolo di cannellini pieno di zucchero.
“E dimmi Paolo, sei sposato?”
“Fidanzato.”
“Oh, che bello. Quanti anni hai?”
“Ventitré.”
Mi fa altre sei o settecento domande sulla mia famiglia, sui miei lavori passati e la mia
educazione, e io rispondo a vanvera prendendo in prestito pezzi della vita delle persone
che conosco: la ragazza di mio cugino, la macchina di Sebastiano, il conto in banca di
Massimo. Così, per confondere le acque.
Mi accompagna alla porta e mi saluta con un bacio. Vedo gli occhi stringersi di commozione perché al momento dei saluti gli anziani si commuovono sempre, anche davanti a
uno sconosciuto. Io abbozzo un sorriso ma mi sento come se avessi appena derubato una
vecchia indifesa, perché… be’, perché ho appena derubato una vecchia indifesa.
Faccio gli scalini a due a due. Esco correndo dal palazzo aspettandomi di sentire le urla
della signora Antonelli appena rientrata in camera che scopre il furto, ma niente. Mi lancio
in macchina e tiro fuori un pezzo di foglio A4 dalla tasca su cui ho scritto un indirizzo:
via Paola Falconieri 43.
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L’indirizzo è di un gioielliere amico di Sebastiano che nel retrobottega fa affari loschi:
ricicla volentieri gioielli rubati. Sebastiano mi ha dato l’indirizzo perché sa che spesso
dalle case dei vecchi non si esce con banconote ma con oggetti di valore. Mi ha detto di
stare attento perché questo tizio punta sempre al ribasso. Posto che non credo di avere un
patrimonio nelle tasche, tengo a memoria quello che mi ha detto mia madre riguardo il
mercato di cartoline cui partecipa ogni domenica.
“Il prezzo di partenza che offro è sempre la metà di quello che sono disposta a pagare.
Ma comunque pagherei al massimo il cinquanta percento in più.”
Appena entro nel negozio dico il mio nome, il proprietario dice all’assistente di badare al
banco e mi fa cenno di seguirlo nel retrobottega. Gli rovescio sul tavolo tutti i gioielli che
ho rubato alla signora Antonelli, lui li osserva con le sopracciglia alzate. Pare dubbioso.
Mi guarda negli occhi, inforca un monocolo e inizia a scrutarli. Uno a uno. Se è una
collana analizza pietra per pietra, a volte alzandola per guardarla meglio in controluce.
Cerco di capire come li sta valutando. Cerco di leggere delle cifre nei suoi occhi in base
al livello di convinzione che il suo sguardo esprime. Sommo un sopracciglio alzato a una
sbuffata e una grattata di capo a una rovistata nel cassetto. Totalizzo più o meno duecento
euro. Non è male ma mi serve di più. Spero di uscirne con almeno il doppio.
Dopo aver studiato l’ultima collana si appoggia al bordo del tavolo e si spinge indietro
con la sedia, si sfila il monocolo e sbuffa. Con le mani incrociate sotto il mento tamburella
con il piede e resta in silenzio un minuto, e in quel momento le sue elucubrazioni mi sono
davvero sconosciute.
“Per una roba del genere…”
Cento?
“…posso arrivare a…”
Duecento?
Dà un pugno sul tavolo e mi guarda dal basso verso l’alto.
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“Non più di ventimila.”
Ventimila.
Ventimila euro.
Pensavo che mi fosse andata male a non trovare la pensione, invece in pratica ho rubato
l’intero patrimonio della vecchia. Quello che potrebbe impegnare per pagarsi una badante, per comprarsi una cucina nuova. Probabilmente quello che ho preso prima o poi
sarebbe diventato l’eredità di qualcuno.
Il rimorso mi strizza lo stomaco come uno straccio unto d’olio dopo aver pulito il piano
cottura di un kebabbaro e stavolta sono io a fare le valutazioni. Se questo regalo di Natale
in tempi di crisi vale davvero il gesto da merda infame di cui mi sto macchiando. Se non
è il caso di tornare indietro, lasciarle i gioielli davanti alla porta, suonare il campanello e
fuggire via.
La badante della signora Antonelli vs. il viaggio a San Pietroburgo. O New York. O Tokyo, a questo punto.
L’eredità di un suo figlio/nipote/pronipote vs. il sorriso di Alessia a Natale.
La chemioterapia quando le troveranno un cancro al pancreas vs.“il prezzo di partenza
che offro è sempre la metà di quello che sono disposta a pagare, ma comunque pagherei
al massimo il cinquanta percento in più.”
“Facciamo trentamila.”
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Claudio Delicato è nato a Roma il 3 marzo 1983 da Fabrizio Frizzi e la drum machine dei
CCCP, ereditando la risata dalla seconda e l’inclinazione al socialismo reale dal primo.
Il suo esordio letterario è il romanzo
pulp/grottesco Roma, lato B, edito da
Delirium Edizioni e giudicato da Andrea Bocelli “il libro più bello che abbia
mai letto da quando sono diventato
cieco.”
Dal 2005 scrive su ciclofrenia.it con lo
pseudonimo di Mr. Tambourine. Recentemente Umberto Eco ha proposto
di sostituire la lettura della Divina Commedia al liceo con alcuni estratti di questo blog ed è stato giustamente lanciato in pasto a
un branco di bull terrier affamati.
Batterista, suona in una band electro-rock, gli Starlette.
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