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RASSEGNA STAMPA giovedì 26 febbraio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE DIRITTI CIVILI BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA. INFANZIA E GIOVANI CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da AskaNews del 25/02/15 Arci: Salvini confonde 'mafia capitale' con onesta accoglienza Vero business trafficanti, prospera grazie a posizioni come Lega Roma, 25 feb. (askanews) - Nell'ultima puntata di 'Quinta colonna' su Rete 4, il leader della Lega Matteo Salvini ha accusato dirigenti e soci di un circolo Arci toscano, "colpevoli" di gestire una struttura di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, "un vero business" secondo Salvini. Nella giornata della sua 'discesa' a Roma l'Arci risponde per le rime al leader della Lega, "cui non par vero - affermano dall'Arci - di poter confondere gli spettatori mettendo insieme lo scandalo di mafia capitale, le occupazioni delle case popolari, e l'onesto e generoso lavoro svolto dai volontari e dagli operatori Arci". Salvini, secondo l'associazione, deve farsene una ragione: "l'Arci sta dalla parte dei disperati che fuggono da guerre e violenze e che cercano rifugio e asilo in Italia e in Europa. Pochi per la verità desiderosi di fermarsi nel nostro paese, dove le condizioni dell'accoglienza e la crisi economica sono peggiori che in altri paesi europei". L'Italia per l'accoglienza "spende molto meno di altri Paesi - continua l'Arci - e la stragrande maggioranza delle associazioni cui viene affidata la gestione dei centri economicamente ci rimettono, visto che i pagamenti arrivano costantemente in ritardo e a malapena coprono i costi dei servizi offerti da operatori che quasi sempre sono volontari". Il vero business, conclude l'Arci "è quello dei trafficanti, che prospera grazie a posizioni come quelle della Lega, che predica la chiusura delle frontiere, l'abbandono in mare dei profughi, l'impossibilità di entrare legalmente in Italia". Da Redattore Sociale del 25/02/15 Immigrati, Arci a Salvini: "Il vero business è quello dei trafficanti" L'associazione risponde al segretario della Lega che nell'ultima puntata di Quinta colonna ha attaccato "un circolo toscano", "colpevole" di gestire una struttura di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo ROMA - "Ospite ormai fisso di talk show e telegiornali, il segretario della Lega Matteo Salvini continua a dare il peggio di sé, contando sull’audience e il consenso che il suo becero razzismo raccoglie". E' quanto si legge in una nota dell'Arci. "Nell’ultima puntata di ‘Quinta colonna’, una trasmissione che va in onda su Rete 4, il suo bersaglio sono stati dirigenti e soci di un circolo Arci toscano, 'colpevoli' di gestire una struttura di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, un vero ‘business’ secondo Salvini, a cui non par vero di poter confondere gli spettatori mettendo insieme lo scandalo di mafia capitale, le occupazioni delle case popolari, e l’onesto e generoso lavoro svolto dai volontari e dagli operatori Arci. Ebbene sì, Salvini se ne faccia una ragione, l’Arci sta dalla parte dei disperati che fuggono da guerre e violenze e che cercano rifugio e asilo in Italia e in Europa. Pochi per la verità desiderosi di fermarsi nel nostro paese, dove le condizioni dell’accoglienza e la crisi economica sono peggiori che in altri paesi europei. E infatti i dati dimostrano che le domande d’asilo sono nettamente inferiori a quelle presentate in Germania, o in Francia o in Svezia". 2 "La verità - prosegue l'Arci - è che l’Italia per l’accoglienza spende molto meno di altri paesi, e che la stragrande maggioranza delle associazioni a cui viene affidata la gestione dei centri economicamente ci rimettono, visto che i pagamenti arrivano costantemente in ritardo e a malapena coprono i costi dei servizi offerti da operatori che quasi sempre sono volontari. E tuttavia ci si continua a impegnare, per rendere la vita nei centri più sopportabile e sviluppare quel tessuto di relazioni positive tra rifugiati e territorio indispensabile per una buona integrazione". "Il vero business - conclude la nota - è quello dei trafficanti, che prospera grazie a posizioni come quelle della Lega, che predica la chiusura delle frontiere, l’abbandono in mare dei profughi, l’impossibilità di entrare legalmente in Italia. Noi invece non chiudiamo gli occhi di fronte ai drammi che si consumano a pochi chilometri dalle nostre frontiere, e continuiamo a chiedere canali di ingresso umanitari, la ripresa di Mare Nostrum e maggiori investimenti per un’accoglienza che garantisca diritti e dignità ai profughi". Da NewsWeek.com del 25/02/15 Migrants Face ‘Extreme Danger’ in Italy By Felicity Capon Italian Carabiniere supervise migrants as they wait a transfer to another immigration centre by a ferry boat on the southern Italian island of Lampedusa Several leading human rights groups have warned that alarming levels of hostility directed towards migrants in Italy could soon turn to violence, and that anti-migrant rhetoric from both politicians and the Italian media is exacerbating the problem. According to the most recent data from the Italian Ministry of Interior and Save the Children, 3,528 migrants reached the Italian coast in January of this year, including 195 women and 374 children, a rise of 60% compared to the number of migrants arriving in January 2014. The crossing is highly dangerous: earlier this month it was reported that 300 migrants had drowned in a single week in treacherous weather conditions. However, despite their plight the migrants have been poorly received in some parts of the country. According to the Times, a recent survey suggests that a third of Italians believe that migrants should be abandoned at sea and there have been reports of angry scenes at locations across the country as migrants are distributed at various refugee centres. In Venice last week, a furious chain of people barricaded a group of Syrians inside a bus, according to the Times, and a local councillor, Giorgio Vianello, upon hearing that 37 Syrians were to be put up in a centre on the Lido in Venice, argued that residents should be given licences to carry guns on request. According to Matteo de Bellis, a campaigner at Amnesty International, there are increasing discussions in the media about how much migrants are costing Italy. Several prominent political figures have publicly declared that migrants should stay in their home countries, and that search and rescue operations should not be implemented. De Bellis gave the example of Matteo Salvini, head of the anti-immigrant Northern League party, calling for migrant vessels to be ignored, rather than rescued. “Anti-migrant rhetoric has been a problem clearly in Italy for several years and it is very strong at the moment, perhaps stronger than ever,” says de Bellis. “Several reasons explain this. Certain political leaders are clearly using anti-immigrant rhetoric to attract attention, which is extremely dangerous. Local authorities are having to respond to their citizens because of the economic downturn, and we have also seen an increase in arrivals by ship.” 3 But de Bellis, who returned last week from the island of Lampedusa, just 100 miles off the coast of Libya, says that the fear held by some that the country will be swamped by migrants is unfounded, as the increase in those seeking asylum in Italy in the past year has not made the situation unmanageable for a country of Italy’s size and wealth. “Nothing justifies the use of anti-migrant rhetoric by political authorities,” says de Bellis.“But we cannot exclude the possibility that violent attacks may take place in the near future particularly because of this anti-migrant rhetoric. The government has a responsibility to avoid hate speech, and the government could be doing more to this end.” Valentina Itri, of the Italian NGO ARCI Nazionale, an Italian association which helps migrants, is similarly concerned. “Increasing numbers of Italians are hostile to the migrants due to a racist cultural background in Italy and because many right-wing parties are using this issue for their electoral interests. I am very worried that the hostility against migrants will turn into violence, because the media speaks in an irresponsible way and politicians use anti-immigrant propaganda.” Yet the vitriol on display in the mainland reportedly stands in stark contrast to the attitude of those on the island of Lampedusa. According to Gemma Parkin of the charity Save the Children who is currently on the island, the attitude of the island locals is far more warm and welcoming. "There is a kind of culture within the Lampedusa population where they refer to themselves as 'the almost last', as they are located halfway between Europe and Africa,” explains Parkin. “They feel very isolated and cut off from Italy and empathise with the migrants.” Parkin says there have been cases of locals inviting migrants to their homes for meals. Parkin is particularly concerned about the wellbeing of children who are turning up on the island. She says there are currently 80 children at the refugee centre on the island, mostly from Eritrea, who have travelled in extremely dangerous circumstances entirely unaccompanied, some of them as young as nine. “The kids here been there in reception centre for 11 days, which is far too long. They should only be in here a night or two, as the centre is not geared up to cater for children’s needs. They need children's home or foster families, with carers who know how to treat children. Their medical needs are being seen to but not their emotional needs.” Parkin says that Save the Children are currently lobbying the authorities about the issue, but says the issue is compounded by the fact there is not enough space in children's homes across Italy, due to the mass influx of migrants that has put a strain on Italian services. This increase in the numbers of those fleeing to Italy has been blamed on the deteriorating situation in Libya, which has led to a surge in the number of migrants departing for Europe in recent months. In recent years Libya has become the point of departure for thousands of people fleeing poverty and conflict in western and sub-Saharan Africa and the ongoing conflict in Syria. The dire humanitarian situation has been compounded by the fact that Italy’s search and rescue mission, known as Mare Nostrum, was abandoned last year, partly over public concern about the £85m (€114m) cost of the mission in its first year. The EU now runs a border control operation called Triton, but it has far fewer ships and covers a much smaller area. Human rights groups have repeatedly warned that many more lives are in danger as a result of the closing of Mare Nostrum. http://www.newsweek.com/migrants-face-extreme-danger-italy-309424 4 Da RomaToday del 25/02/15 Gioco d'azzardo: arriva il bollino per i locali slot free e a breve delibera in Aula L'iniziativa del coordinamento regionale Mig - Mettiamoci in Gioco arriva nel Lazio, insieme al bollino 'Liberi dal gioco d'azzardo' che verrà distribuito nei locali senza slot machine Il simbolo di una farfalla contro slot machine e gioco d'azzardo, e un bollino per riconoscere i locali "virtuosi". L'iniziativa del coordinamento regionale Mig - Mettiamoci in Gioco arriva nel Lazio, insieme al bollino "Liberi dal gioco d'azzardo" che verrà distribuito ai locali "slot free" del territorio per esporlo sulle proprie vetrine. La campagna del coordinamento Mig nata nel 2012, è promossa da istituzioni, organizzazioni di terzo settore, associazioni di consumatori e sindacati: Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shakerpensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati e Uisp. "Liberi dal gioco d’azzardo" è uno di quei messaggi positivi che ci sentiamo di sostenere – dichiara l’assessore a Roma Produttiva Marta Leonori – Nel nuovo regolamento degli impianti pubblicitari abbiamo con forza voluto inserire per gli impianti pubblici o privati, affidati in concessione da Roma capitale, il divieto di pubblicità con messaggi che incitino al gioco d’azzardo. Ci avvarremo di un’Authority esterna che definirà quali messaggi non sono accettati". Schermata 2015-02-26 alle 08.32.40-2 Poi l'annuncio di un provvedimento attesa da tempo. "Sta per arrivare all’esame dell’Assemblea Capitolina la delibera che vede primo firmatario il consigliere Dario Nanni e che disciplina slot machine e sale gioco". Un lavoro da svolgersi in sinergia con l’assessore al Sociale e l’assessore alla Legalità per assistere le persone affette dalla patologia del gioco. "Inoltre - conclude Leonori - vogliamo dare un seguito a questa campagna di sensibilizzazione attraverso tutti i canali istituzionali e attraverso le associazioni di categoria per coinvolgere gli esercenti. Chiederemo alla Camera di Commercio che le associazioni possano essere promotrici del bollino Liberi dal gioco d’azzardo. Non nascondiamo, comunque, che una legge nazionale ci aiuterebbe molto per darci gli strumenti per intervenire nella maniera migliore contro un fenomeno dilagante". http://www.romatoday.it/economia/bollino-locali-slot-free.html Da Sky.it del 25/02/15 La National Gallery in tour. Nei cinema italiani Un fitto programma di iniziative e collaborazioni anticipa l'arrivo nei cinema italiani di National Gallery, il film di Frederick Wiseman, regista Leone d'Oro alla Carriera Anteprime, rassegne cinematografiche, lezioni magistrali: al calendario di National Gallery in tour non manca niente, per tenere viva l’attenzione del pubblico italiano in attesa dell’uscita del film di Frederick Wiseman nelle sale di tutto il Paese. Dalla Cineteca di Bologna all’Arci Movie – Parallelo 41 con l’Università Federico II a Napoli, dal Bergamo Film Meeting all’Accademia Carrara: musei, istituzioni, festival e 5 associazioni hanno preso parte a questo progetto, che approfondisce l’opera del regista statunitense prima dell’unica data di proiezione italiana, il prossimo 11 marzo. National Gallery di Frederick Wiseman, il regista Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2014, è un film che coltiva il gusto della lentezza e della contemplazione, riservando nel mentre sorprese continue. Presentato lo scorso anno al Festival di Cannes, permette allo spettatore di immergersi nel museo londinese, guidandolo in un viaggio nel cuore dell’istituzione di Trafalgar Square e dei capolavori dell’arte occidentale che vi sono custoditi. Non si tratta del “solito” documentario, perché il regista porta in scena molti dei momenti quotidiani vissuti dallo stesso staff del museo: le riunioni di marketing, i dibattiti sulle scelte di illuminazione delle sale o del restauro di alcune opere, la gestione della dimostrazione di protesta da parte di Greenpeace… i cui attivisti si sono arrampicati sulla facciata del museo. I 180 minuti di proiezione condensano le oltre 170 ore di riprese, mostrando con la maggiore ampiezza di visione possibile la National Gallery come non si era mai vista: come organismo, creatura con una sua vita a cui concorrono anche “organi” nascosti al primo sguardo. Proprio questo è, in sintesi, l’intento di Wiseman: raccontare il museo come oggetto a sé stante, invece che considerarlo un mero contenitore di oggetti d’arte. http://arte.sky.it/2015/02/national-gallery-film-documentario-frederick-wiseman-cinemaitalia/ 6 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 26/02/2015, pag. 29 Slot, le nuove regole I sindaci perderanno la possibilità di limitarle ROMA A Ravenna bisogna fare come Cenerentola, tutti a casa prima di mezzanotte perché a quell’ora le slot machine vanno spente. A Padova, invece, non si può andare oltre le 10 di sera. In Lombardia le macchinette devono stare ad almeno 500 metri da scuole e chiese, mentre in Abruzzo ne bastano 300. A partire dal prossimo anno tutto questo potrebbe non esserci più. Stop al federalismo dell’azzardo, fine del diritto di veto per sindaci e assessori. Con la scomparsa delle barriere tirate su per arginare quella che, tra passioni antiche e crisi moderne, è la terza industria del Paese e copre il 12% della spesa delle famiglie. È questa la vera sostanza del decreto legislativo sui giochi, un testo ancora allo studio che potrebbe arrivare in Consiglio dei ministri la prossima settimana. Le nuove sale da gioco Il numero totale delle macchinette dovrebbe scendere entro l’inizio del prossimo anno dalle 350 mila di adesso a 250 mila. Mentre, entro il 2017, tutte le slot dovrebbero essere collegate a un sistema centrale in grado di limitare truffe e leggere i comportamenti border line senza però alzare il livello minimo delle giocate. Su tutto il territorio nazionale, sempre per le slot, devono valere le stesse tre regole. La prima: vanno limitate nei bar e nelle tabaccherie, dove ce ne può essere una ogni sette metri quadri e comunque non più di sei. La seconda: vanno eliminate dagli altri locali come cinema, ristoranti, alberghi e circoli privati, a meno che non richiedano una specifica licenza sui giochi di cui oggi non hanno bisogno (e infatti sono arrivate persino nelle lavanderie). La terza: vanno concentrate nelle cosiddette gaming hall , sale giochi di almeno 50 metri quadri con una macchinetta ogni tre metri quadri e il controllo di una persona. Tutte le altre regole «locali» cadranno, dopo un periodo cuscinetto di sei mesi: «Naturalmente discuteremo con gli amministratori locali per trovare un accordo — dice Pier Paolo Baretta, il sottosegretario all’Economia che ha in mano la questione — ma l’obiettivo è avere regole omogenee su tutto il territorio nazionale. Altrimenti si rischia di alimentare il gioco in nero, che per definizione sfugge a qualsiasi controllo, fiscale o di legalità». Ma questo non era anche l’obiettivo delle cosiddette campagne no slot? «Per carità, i sindaci hanno sicuramente reagito a un problema reale e con le migliori intenzioni» dice Massimo Passamonti, presidente di Confindustria sistema gioco, che rappresenta gran parte delle aziende del settore presenti in Italia. «Ma ragionare solo in termini di divieti e restrizioni — continua — significa davvero fare un favore all’offerta illegale». Qualcosa di vero c’è. Il gioco in nero In Liguria, una delle zone dove il federalismo dell’azzardo ha messo più limiti alle slot, si stanno moltiplicando i cosidetti totem: macchinette che permettono di giocare direttamente su internet, su siti stranieri non autorizzati nel nostro Paese, con tanti saluti a tutte le regole di buona volontà e anche al fisco italiano che non incassa nemmeno un euro. Ma non tutti sono convinti. Matteo Iori fa parte di «Mettiamoci in gioco», campagna contro i rischi dell’azzardo partita due anni fa: «Non mi piace che non si voglia ascoltare chi vive questi problemi sul territorio. E credo che dietro tutto questo ci sia uno scambio: da una 7 parte lo Stato fa in modo che le aziende del settore possano esercitare la loro attività senza intralci locali, dall’altra chiede alle stesse aziende di pagare un po’ di tasse in più». Le tasse Sulle slot, secondo i calcoli dell’agenzia specializzata Agipro, il decreto farebbe salire il prelievo fiscale dal 13,1% al 15,6%. In realtà il confronto è complicato perché la tassa non si calcola più sulle somme giocate ma sul «margine», cioè la differenza tra quanto le aziende incassano con le puntate e quanto pagano con le vincite. Una tassa sul profitto, in sostanza, simile a quelle usate nel resto del mondo e che dovrebbe favorire i gruppi più grandi. «Alla fine — dice ancora il sottosegretario Baretta — tra calo del numero delle macchinette e aumento della tassazione il gettito dello Stato dovrebbe rimanere più o meno stabile». E, considerando tutte le voci dell’azzardo, bisogna ricordare che nelle casse pubbliche entrano ogni anno 8 miliardi di euro, il doppio della Tasi sulla prima casa. Ma la vera scommessa è vedere se quelle nuove regole nazionali riusciranno davvero a controllare gli 800 mila italiani per i quali l’azzardo è già una malattia, e gli altri 2 milioni considerati a rischio. Ancora Iori, il tipo della campagna contro i rischi dell’azzardo, che il problema lo conosce da vicino: «È vero che limitare le slot nei bar può aiutare perché sarà più difficile che le persone si avvicinino alle scommesse per caso. Ma è anche vero che nelle nuove sale gioco ci sarà meno controllo sociale. Saranno tutti giocatori, sarà normale puntare più forte. Vantaggi e svantaggi, insomma, e non so quali saranno più forti». In fondo anche questa è una scommessa. Lorenzo Salvia 8 ESTERI del 26/02/15, pag. 16 Is, allarme per l’Italia: “Siamo a rischio” I cristiani rapiti in Siria deportati a Raqqa Il capo della Polizia Pansa: “Pericoli accentuati” Tre fermati a New York: progettavano attacchi L’Austria vara “l’Islam europeo”: è polemica “Ferito il capo militare del Califfato Al Shishani” LA SORTE degli assiri presi in ostaggio dal cosiddetto Stato islamico (Is) tiene col fiato sospeso la comunità cristiana e internazionale: si sa che sono almeno 150, contro i 90 dichiarati ieri, e sarebbero stati trasportati in diverse località: i maschi adulti sul monte Abd al Aziz; anziani, donne e bambini probabilmente a Raqqa, la capitale designata dall’Is in Siria. Stando a un testimone, il 70 per cento dei sequestrati appartiene a una stessa famiglia. Ai telefonini rispondono i jihadisti, facendosi scherno degli appelli alla salvezza. La Cnn s’aspetta un video con le immagini dei rapiti e le pretese dei terroristi rivolte a Obama. Una delle chiese più antiche in Siria, a Tal Shamira nella valle del Khabur abitata dagli assiri, è stata data alle fiamme dai vandali di Al Baghdadi. I quali, però, perdono terreno se è vero che i curdi siriani dell’Ypg hanno riconquistato oltre 10 villaggi assiri attorno a Tal Tamer. Nei combattimenti sarebbe stato ferito in modo grave il capo militare dell’organizzazione terroristica, Abu Omar Al Shishani, “il Ceceno”, e l’uomo che ha guidato l’assalto agli assiri. Un ennesimo sequestro a opera dell’Is è avvenuto in Iraq: 118 uomini, stavolta musulmani sunniti, e nove bambini sono stati fatti prigionieri in un villaggio vicino a Tikrit. Sarebbe una rappresaglia dopo il sostegno del clan alle forze di sicurezza irachene. Mentre a Mosul sono stati dati alle fiamme 10mila libri e 700 manoscritti. Su questo sfondo America e Europa rafforzano la sorveglianza: a Brooklyn, l’Fbi ha fermato tre cittadini uzbeki pronti a partire per la Turchia e quindi per la Siria. I tre avevano postato su Facebook dichiarazioni inneggianti all’Is, e l’intenzione di progettare attentati in America. L’Austria vara una legge intesa a promuovere “l’Islam europeo”: vietati fondi stranieri agli imam e obbligo della lingua tedesca nelle moschee, ma anche nuovi diritti come il cibo halal a scuola e giorni di ferie nelle festività islamiche. Un testo che scontenta la destra, ma anche i musulmani che denunciano norme più restrittive rispetto a quelle applicate alle altre religioni. A Roma Alessandro Pansa, il capo della Polizia, alza il livello d’allarme: «I rischi per l’Italia sono più accentuati », dice davanti alle commissioni congiunte Giustizia e Difesa della Camera. «Non limitiamo la nostra attenzione all’Is. Al-Nusra (Al Qaeda in Siria) è più pericolosa dell’Is, e Boko Haram sta arrivando al confine Sud dell’Europa». ( a. v. b.) 9 del 26/02/15, pag. 17 Vali Nasr: “Pulizia etnica per ridisegnare la mappa dell’intero Medio Oriente e stravolgere l’Islam” ALIX VAN BUREN «LA BARBARIE dello Stato islamico è volutamente selvaggia: le uccisioni di massa, le disumane esecuzioni, le pulizie etniche con l’annientamento di intere comunità cancellate dalla carta geografica, fanno parte di una strategia militare. L’Occidente trova più facile appuntare la responsabilità all’Islam, anziché riconoscere che questo è il prodotto della guerra civile in Siria e in Iraq. E invece, per proteggere le popolazioni civili è urgente risolvere il conflitto». Vali Nasr, consulente del Dipartimento di Stato, decano della John Hopkins a Washington, è fra gli esperti di mondo islamico più citati. Nel suo La rivincita sciita prefigurava le lacerazioni che vanno ridisegnando il Levante; in La nazione superflua ammonisce dei pericoli di una ritirata della politica estera americana dal Medio Oriente. Professore Nasr, di fronte alle notizie dei massacri e ai rapimenti di donne e bambini, l’Onu denuncia “azioni disumane su scala inimmaginabile”; Amnesty parla di “pulizia etnica di proporzioni storiche”. Quale disegno c’è dietro queste violenze? «L’Is applica con calcolo la strategia dello “ shock and awe”, del colpisci e terrorizza, per riprendere una famigerata frase di Rumsfeld durante la guerra in Iraq. Si tratta di prendere a bersaglio, letteralmente, la popola- zione, d’infondere terrore nelle zone che l’Is controlla. Era stato Osama Bin Laden nel 2004-2005 a teorizzare il ricorso alla ferocia estrema, indispensabile a suo avviso quando si dispone di una forza militare limitata. Ora i jihadisti controllano un territorio molto ampio, dai confini dell’Iraq alla Turchia passando per la Siria, e sono impegnati su più fronti contro l’esercito siriano, l’Iraq, la coalizione guidata dagli Usa. Con 50 mila combattenti all’incirca, il terrore agevola il compito di governare. Lo stesso vale per le raccapriccianti esecuzioni, pubblicizzate apposta dai media dell’Is». Lei sta pensando al pilota giordano? «Quel video è quanto di più selvaggio si possa ideare. Però, la tattica funziona nel breve termine: quale soldato ora vorrebbe combattere l’Is, col rischio di finirne prigioniero? A prima vista, i governi s’impegnano contro i jihadisti, ma in realtà Paesi come la Turchia e la Giordania ci penseranno due volte prima di schierare i propri militari. Se poi parliamo delle popolazioni civili in Siria e in Iraq, sono pietrificate dall’orrore. Alcune delle più antiche minoranze etniche e religiose sono già scomparse dalla carta geografica». L’elenco delle minoranze colpite è impressionante: cristiani, sciiti, yazidi, drusi, ismaeliti, turcomanni, shabak, kaka’i, sabei... alcuni radicati in Siria e Iraq dai tempi della Mesopotamia. Degli alawiti si dice che quasi l’intera giovane generazione sia stata spazzata via. Che parallelo c’è nella storia per una pulizia etnica di queste proporzioni? «Si può pensare all’Europa della Seconda guerra mondiale, a quel che s’è visto nei Balcani negli Anni Novanta, o in Ruanda per quanto riguarda gli alawiti. L’Is vuole obliterare ogni traccia delle comunità non-arabe, nonislamiche, non-sunnite, ma anche dei molti sunniti moderati: tutti “infedeli” nella visione radicale dell’Is. Ma come nel passato in Europa, i jihadisti hanno sfruttato rivalità e pregiudizi locali ». Vale a dire? «Che l’Is ha trovato sostegno in alcuni villaggi arabi contro il popolo yazida, i curdi, gli sciiti, pescando nel risentimento scaturito dalla guerra civile in Iraq dopo Saddam. Ogni organizzazione violenta e crudele sfrutta i pregiudizi locali. È accaduto in Europa riguardo 10 agli ebrei. E nella pulizia etnica dei musulmani bosniaci di Sarajevo, spesso hanno collaborato i vicini di casa croati e serbi. Però, nel caso dell’Is c’è un elemento in più». Quale? «L’ideologia radicale si mescola alla crudeltà più efferata. L’Is rispecchia la visione salafita, wahabita, ristretta e intollerante. Per questo vengono distrutti anche i santuari sufi, le chiese cristiane, i mausolei di mistici e santi. L’Is si spinge più avanti di Al Qaeda, piega l’Islam ai propri fini, lo reinventa, come fa l’autoproclamatosi califfo Al Baghdadi». Lei cita l’ideologia salafita, wahabita: è quella propugnata da alcuni Paesi alleati della coalizione contro l’Is. Non è una contraddizione? «Piuttosto, c’è una dose di ipocrisia nella politica occidentale: Paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, i primi responsabili del’estremismo in Siria e della proliferazione dell’ideologia salafita nel mondo sono trattati come parte della soluzione, anziché del problema. L’Arabia Saudita da decenni finanzia fondamentalismi d’ogni tipo. Ma se l’Europa e l’America sono tanto scontenti, perché non intervengono? Quanti hanno richiamato gli ambasciatori per protestare? ». Le organizzazioni umanitarie chiedono un intervento deciso della comunità internazionale. Si materializzerà? o resteremo a guardare? «Per frenare le pulizie etniche c’è un solo modo: porre fine alla guerra civile in Siria e sconfiggere l’Is con le armi. Non si può arrestare la distruzione totale delle popolazioni senza fermare i combattimenti. Come proteggere, infatti, le popolazioni senza un cessate il fuoco?» La comunità internazionale si muove in vista di una soluzione politica? «Niente affatto. Ciascun Paese protegge i propri alleati, si concentra ora su Assad, ora sull’Iran, o su Hezbollah, senza curarsi della popolazione. Se poi le mi chiede il perché, la risposta più breve è che forse nessuno vuole coinvolgersi nel conflitto più di tanto». Del 26/02/2015, pag. 10 Verso la battaglia di Mosul Così si farà guerra all’Isis Pronti i piani americani per strappare al Califfato la città dell’Iraq Manovra a tenaglia di curdi e governativi, raid e truppe speciali Maurizio Molinari Liberare Mosul dagli artigli del Califfo per far crollare lo Stato Islamico in Iraq: è il piano che l’ex generale americano John Allen, coordinatore della coalizione anti-Isis, e il premier iracheno Haider Al Abadi hanno concordato, affidandolo ad un’operazione militare che sta prendendo corpo. Obiettivo sul Tigri L’obiettivo è Mosul perché è la maggiore città dello Stato Islamico (Isis) in Iraq e fu la sua cattura, nel giugno 2014, a porre le basi per la creazione del Califfato. Ha quasi 2 milioni di abitanti ed è divisa dal Tigri: a Est ci sono i curdi, che si spera partecipino alla sollevazione, mentre a Ovest i sunniti. Ed è questa la roccaforte di Isis obiettivo dell’offensiva. Piano a tenaglia Nella «war room» della coalizione a Tampa, in Florida, c’è accordo sull’attacco in primavera e le mosse militari in corso preparano il terreno, mettendo sotto pressione Isis su più fronti. I guerriglieri curdi-siriani di «Ypg», dopo aver preso Kobane, avanzano nel 11 Nord-Est della Siria verso il confine iracheno. I curdi-iracheni avanzano intorno a Kirkuk per impegnare forti contingenti di Isis. E le truppe governative irachene fanno progressi dentro Al Baghdadi. Basta guardare la cartina per accorgersi che è una pressione a tenaglia, curda e irachena, puntando a eliminare miliziani e armamenti del Califfo. L’ex base dei marines A marciare su Mosul sarà un contingente di 20-25 mila uomini composto in gran parte da reparti iracheni addestrati da 2900 istruttori americani e, in misura minore, da peshmerga curdi. La formazione di queste «unità d’assalto» avviene nella base di Ayn al Asad, creata per l’aviazione di Saddam e divenuta dopo l’invasione del 2003 la seconda maggiore installazione Usa in Iraq. Il Secondo corpo di spedizione dei Marines vi mise il quartier generale e poiché si trova nell’Anbar sunnita è da qui che il generale David Petraeus dal 2007 coordinò le operazioni che sconfissero l’insurrezione jihadista di «Al Qaeda in Iraq». Ponte aereo di armi L’addestramento degli iracheni è in fase avanzata e il Pentagono sta facendo arrivare armi per quasi 20 milioni di dollari: 10 mila mitra M16, 10 mila puntatori a luci rosse, 100 mila caricatori, migliaia di elmetti Kevlar e giubbotti antiproiettili, 250 blindati capaci di resistere alle mine e oltre 2000 missili Hellfire oltre ad altri imprecisati «equipaggiamenti». Armi a parte, la preoccupazione dei comandi della coalizione riguarda l’etnia delle truppe irachene: avanzare solo con sciiti e curdi significherebbe spingere i sunniti nelle braccia del Califfo. Da qui la necessità di formare in fretta unità sunnite anti-Isis. Il contributo francese La Francia ha inviato nel Golfo la portaerei Charles de Gaulle preparandosi a dare un contributo massiccio ai raid aerei con cui la coalizione sosterrà l’assalto a Mosul. Le basi dei jet Usa, europei ed arabi sono in Giordania, Arabia Saudita ed Emirati. Una valutazione prudente, di fonti Usa, parla di «almeno 2000 raid» necessari per piegare Isis a Mosul, tentando di ripetere quanto avvenuto a Kobane. In Giordania vi sono anche le basi delle unità di soccorso per recuperare piloti caduti e delle truppe speciali - Usa e arabe - con il compito di eliminare i leader di Isis. Bunker e scudi umani Il Califfo Abu Bakr al Baghdadi si prepara a difendere Mosul trasformandola in un bunker difeso da una muraglia di scudi umani. Le testimonianze che rimbalzano dalla città parlano di punizioni per le famiglie che non danno soldati a Isis, arruolamenti forzati, costruzioni di tunnel, falò di libri «infedeli» e caccia alle «spie» fermando a caso le auto nel traffico. Il Califfo ricorre al pugno di ferro per trasformare Mosul in un bunker che avrà come scudo la popolazione civile locale e probabilmente anche le centinaia di ostaggi che Isis sta catturando ovunque: dai 107 componenti di una tribù di Tikrit, bambini inclusi, ai 150 assiri-cristiani in Siria. I militari Usa si aspettano una ripetizione più cruenta della battaglia di Fallujah dell’aprile 2004, anche perché Isis controlla cinque centri minori fra Mosul e Baghdad. Ciò significa che la riconquista sarà lunga e aspra. del 26/02/15, pag. 6 Assassinata a Tripoli leader dei diritti umani Giuseppe Acconcia Libia. E Haftar si proclama comandante unico delle forze armate Il corpo senza vita dell’attivista libica, Intissar al-Hasaari, è stato ritrovato martedì a Tripoli. Militante per la difesa dei diritti umani, Intissar, 35 anni, aveva fondato il gruppo Tanwer (illuminazione), movimento pacifista, contro l’uso della violenza da parte delle centinaia di 12 milizie attive nel paese. Intissar si opponeva ai movimenti islamisti radicali che hanno trovato terreno fertile in Libia, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato avviato dal generale Khalifa Haftar nell’estate scorsa. La donna è stata ritrovata nel bagagliaio della sua auto, crivellata di colpi. Per mesi una campagna di omicidi politici è stata condotta da gruppi salafiti a Bengasi. Lo scorso giugno venne assassinata, forse da milizie islamiste, la nota attivista per i diritti umani Salwa Bugaighis. La donna, avvocato, era vice presidente della Commissione per il Dialogo nazionale in Libia e attivista in prima linea nella difesa dei prigionieri politici. Neppure si placa il braccio di ferro tra islamisti e militari pro-Haftar. Ieri c’è stato un punto a favore di Haftar che ha visto rafforzato il suo ruolo politico. L’ex agente Cia e oppositore di Gheddafi non solo ha messo le mani sulla Cirenaica, si è anche auto-proclamato comandante generale dell’esercito. Secondo il portavoce delle Forze armate libiche, Mohamed Hegazi, si è creato così «un coordinamento fra le autorità libiche ed egiziane contro il terrorismo». Haftar, formatosi in Unione Sovietica, ha partecipato al colpo di stato del 1969 che portò al potere Gheddafi. Durante la guerra tra Libia e Ciad (1978–1987), fu imprigionato dall’esercito ciadiano e abbandonato al suo destino. Fu liberato con l’intervento degli Usa, dove ha vissuto per 20 anni. Accusato di spionaggio da Gheddafi e rientrato a Bengasi nel marzo 2011, Haftar venne nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt). Poco dopo la caduta di Gheddafi, 150 tra ufficiali e sottufficiali lo nominarono capo di stato maggiore. Operazione mai ufficializzata: nel febbraio 2014 Haftar aveva già annunciato in un video l’intenzione di promuovere un’iniziativa contro il governo libico. La nomina di Haftar a comandande unico dell’esercito era stata proposta dal presidente del parlamento libico di Tobruk, Aguila Saleh Issa. A Tobruk ha sede il parlamento eletto in fretta e furia la scorsa estate ma sciolto dalla Corte suprema. La comunità internazionale sembra simpatizzare per questa fazione, appoggiata dall’esercito egiziano, che ha attaccato Sirte la scorsa settimana con l’intento di favorire Haftar nella conquista di Tripoli. Eppure definire «legittimo» il parlamento di Tobruk è una forzatura mediatica in linea però con le tradizionali aspirazioni di controllo sulla Libia di Londra e Washington. Spesso si dimentica che la città di Tobruk fu la prima ad essere sottratta all’Asse Roma-Berlino dalle forze armate britanniche durante la seconda guerra mondiale. Non manca giorno poi in cui il premier di Tobruk, Abdullah al-Thinni, non ricordi la minaccia jihadista incombente in Libia. Secondo l’ex ministro della Difesa, dopo la conquista di Derna e di parte di Sirte dei terroristi, sedicenti Stato islamico (Is), ora il rischio è quello di infiltrazioni dei jihadisti nigeriani di Boko Haram. Per questo le forze speciali francesi avrebbero promosso da mesi incursioni nella zona del massiccio del Tibesti, al confine con il Ciad. E così il vertice dei cinque paesi del Sahel (Mauritania, Ciad, Niger, Mali e Burkina Faso) a Nouakchott si era concluso proprio con la richiesta di un intervento internazionale contro i gruppi armati in Libia, in accordo con Nazioni unite e Unione africana, ben prima dello scoppio della crisi a Sirte. Il tentativo negoziale promosso dalle Nazioni unite non decolla dopo l’uscita di scena dei politici di Tobruk che hanno boicottato il tavolo. Non solo, a causa del deteriorarsi della sicurezza, le Nazioni unite hanno ulteriormente ridotto la loro presenza nel paese. 13 Del 26/02/2015, pag. 18 Tunisia, la primavera araba riuscita Finestra per l’Europa sulla crisi libica TUNISI Cinque bicchieri d’acqua sul tavolo di cristallo, fra un librone dedicato alle bellezze di Tunisi e le angosce concentrate sugli orrori di Tripoli. Ebbene sì: esiste un Islam sobrio, se proprio non moderato, e alla fine d’una giornata d’incontri sta seduto di fronte a Paolo Gentiloni, sui divani della residenza dell’ambasciatore Raimondo De Cardona. Ha barba rada e parole quiete, si chiama Rashid Ghannouchi, è il leader della Fratellanza di Ennahda che due mesi fa ha perso le elezioni e però accettato di governare coi nuovi padroni laici, perfino restauratori del panarabismo di Bourghiba. «Noi siamo diversi dai Fratelli musulmani dell’Egitto — dice Ghannouchi — e anche da quelli di Alba libica. Noi non vogliamo lo scontro. C’è un Islam che cerca di sedersi a un tavolo e trovare una soluzione. Noi appoggiamo la mediazione dell’Onu tra le fazioni libiche». Il ministro degli Esteri annuisce: «Questo è un esperimento d’interesse enorme per il Mediterraneo». E’ qui che bisogna puntare? «Con Ennahda si ragiona. Coi Fratelli musulmani egiziani, la vedo un po’ più dura…». Avamposto Tunisia. Non combatteremo al Sud di Roma, dice Gentiloni, perché in Libia «non esiste una soluzione militare»: porterebbe solo nuove migrazioni. Non tocca solo a noi rimettere la sabbia nello scatolone, perché la strada è quella dell’Onu e d’un governo «inclusivo e di riconciliazione tra le milizie». Intanto però eccoci sulla linea del fronte: nella culla delle primavere arabe, l’unica cullata bene, dove la riconciliazione sta funzionando, dove andranno a tirare il fiato un po’ dei nostri funzionari evacuati di corsa dall’ambasciata di Tripoli, dove l’emergenza preme con un milione di profughi o forse più, dove l’Italia ha il più grande investimento di cooperazione (300 milioni) e il governo Renzi è venuto a promettere anche una cancellazione del debito. Qui non s’è ricorsi a un Putin arabo, com’è il generale Al Sisi al Cairo. E men che meno un Al Sisi libico, com’è il generale Haftar che il governo di Tobruk — quello che combatte la Fratellanza e l’Isis — ieri ha confermato capo delle forze armate. Nel Paese al mondo che esporta più jihadisti eppure è fra i più de-jihadizzati, la svolta passa per il 73enne Ghannouchi e per il novantenne Essebsi, uno dei più vecchi capi di Stato del mondo, che lo Stato islamico non vuole nemmeno chiamarlo così: da avvocato navigato, sa che «basta il nome per dare a questi folli una dignità giuridica che non hanno». E per combatterli bastano frontiere controllate, polizia efficiente, tunisini collaborativi. A capo dell’antiterrorismo, Essebsi ha ripescato il contrammiraglio Kamel Akrut, un duro che Ennahda aveva esiliato negli Emirati. Ma nel suo anno zero per la ricostruzione, l’ha detto anche agl’italiani, al presidente interessa discutere più d’aiuti dalla Banca europea o dal Fondo monetario, delle imprese chiamate a delocalizzare. E’ la disoccupazione, il vero fertilizzante della malerba terroristica: se volete estirparla mandate soldi, non soldati. del 26/02/15, pag. 19 Netanyahu negli Usa la Casa Bianca all’attacco “Una visita distruttiva” 14 GERUSALEMME . «La decisione di Netanyahu di parlare alle Camere riunite, incentrando il suo discorso sull’Iran, danneggia i rapporti tra Israele e Stati Uniti, impegnati in una difficile trattativa con gli ayatollah. Il fatto poi di farlo due settimane prima delle elezioni politiche in Israele ha introdotto un livello di partigianeria che credo sia non solo inopportuno ma anche distruttivo per il nostro rapporto». Le parole di Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama, testimoniano il gelo tra la Casa Bianca e il premier israeliano che, incurante della tempesta diplomatica e degli avvertimenti arrivati da Washington, si appresta a partire domenica alla volta degli Stati Uniti dove martedì prossimo è previsto il suo discusso speech al Congresso sui pericoli del nucleare iraniano. Secca la replica di Netanyahu, che non vedrà Obama e ha rifiutato anche di incontrare i senatori democratici nel corso della sua visita: «Rispetto la Casa Bianca e il presidente americano, ma su una questione seria è mio dovere fare il possibile per la sicurezza del mio Paese. Alla luce dell’accordo che si sta preparando, abbiamo ragione di preoccuparci». Poche ore prima un altro pesante affondo del premier israeliano: «Sembra che le potenze occidentali abbiano ceduto sul loro impegno di impedire che l’Iran ottenga armi nucleari». Del 26/02/2015, pag. 18 La minaccia di Putin: «Niente più gas a Kiev anche l’Europa rischia» E Bruxelles corteggia Azerbaigian e Turkmenistan MOSCA Mentre la tregua sembra finalmente entrare in vigore, per l’Ucraina si apre un nuovo fronte, quello del gas. E la nuova minaccia di taglio delle forniture avanzata da Vladimir Putin potrebbe coinvolgere anche il metano destinato all’Europa. Al di là delle cifre e delle accuse reciproche, il nodo del contenzioso sembra essere la decisione russa di fornire direttamente metano alle repubbliche autoproclamatesi indipendenti di Luhansk e Donetsk, addebitando il costo al governo ucraino. Kiev invece non accetta che sia un altro Paese, il fornitore di gas, a decidere che uso deve fare del prodotto il Paese acquirente. E così rifiuta di pagare ulteriormente, visto che considera il metano spedito a Luhansk e Donetsk come «non consegnato». Dopo giorni di disputa tecnica tra Gazprom e Naftogaz Ukraina, ieri è intervenuto pesantemente il presidente russo accusando i vicini di tentato genocidio nei confronti delle popolazioni russofone del Sudest ucraino. Questo perché Kiev non consegna il gas e non rifornisce di alimentari queste aree: «Immaginate questa gente lasciata senza gas nel mezzo dell’inverno, circa 4 milioni di persone. Non solo lì c’è già la fame; l’Osce ha constatato che c’è una catastrofe umanitaria… Questo già odora di genocidio», ha detto Putin. Così per alleviare la crisi delle due repubbliche alle quali Kiev ha anche sospeso i pagamenti degli stipendi pubblici e delle pensioni (visto che sono fuori dal suo controllo), Mosca ha deciso di intervenire direttamente. Ha dirottato una parte del metano verso due stazioni situate nel sudest dell’Ucraina che sono controllate direttamente dagli indipendentisti, Prokhorovka e Platovo. Ora Gazprom, secondo i suoi calcoli che tengono conto anche di queste quantità di metano, afferma di aver consegnato praticamente tutto il gas pagato in anticipo dall’Ucraina. Se non ci saranno nuovi versamenti, afferma Putin, «Gazprom sospenderà la consegna. E questo naturalmente può creare un pericolo al transito di metano verso 15 l’Europa». Se Kiev non accetta di pagare anche per le repubbliche ribelli, dunque, la Russia è decisa a chiudere per la quarta volta i rubinetti. A quel punto il rischio è che per non rimanere a sua volta al freddo (ingiustamente, secondo il suo punto di vista) l’Ucraina prelevi comunque gas dal tubo diretto verso l’Europa centrale e occidentale, come accaduto nel 2004 e nel 2009. Per l’Unione Europea, le forniture russe rappresentano il 27% dei consumi, più di un quarto. La nuova possibile crisi sta spingendo le autorità di Bruxelles ad accelerare i piani per forniture alternative. Morto il progetto di gasdotto Nabucco che avrebbe dovuto portare nel continente il gas dell’Azerbaigian e del Turkmenistan, ora si punta sulla linea Trans-adriatica TAP che dovrebbe far arrivare quel metano tramite Turchia, Grecia e Italia meridionale. Si parla però di solo 10 miliardi di metri cubi, pari al 2% dei consumi europei (con una prospettiva di raddoppio dopo il 2020). Finora, però, Mosca era riuscita ad ottenere la quasi esclusiva del gas azero e turkmeno. L’Europa sta corteggiando questi due Paesi per firmare contratti diretti, ma uno degli ostacoli principali è costituito dall’interpretazione russa degli accordi esistenti fra i paesi del Mar Caspio: possono esportare direttamente gas solo col consenso degli altri. Vale a dire che il Cremlino avrebbe il diritto di veto. Fabrizio Dragosei del 26/02/15, pag. 7 Il cambiamento in Grecia: con Syriza è storico Kapakos Stavros Grecia. Un sondaggio svolto in tutto il Paese dimostra la trasformazione delle ambizioni e dei sogni dei greci. e la fiducia nel nuovo governo Un cambiamento politico di dimensioni storiche, viene mostrato dai dati del sondaggio svolto in tutta la Grecia da Public Issue per l’Avgì, nel periodo dal 12 al 17 febbraio. L’immagine positiva del governo e il sostegno dei cittadini alla gestione delle trattative con i partner è quasi generale, e supera l’80%; lo stesso accade per quanto riguarda il sentimento di orgoglio nazionale, che avvertono i cittadini nei primi giorni del nuovo governo. Dopo la prima prova del premier, la popolarità di Alexis Tsipras e la sua adeguatezza come capo del governo sono salite, giungendo rispettivamente all’87% e al 73% . L’impressione positiva sul governo arriva all’81%, mentre nei confronti dell’opposizione il dato è appena al 16%. Le opinioni negative sul governo si attestano appena all’11%, mentre nei riguardi dell’opposizione balzano al 74%. L’approvazione delle manovre del governo nella trattativa raggiunge percentuali schiaccianti, con l’80% contro il 13% che non è d’accordo. Un cambiamento significativo lo mostrano anche i risultati sul sentimento di orgoglio nazionale, che balza all’86%, mentre appena il 13% «non si sente orgoglioso». La popolarità di Alexis Tsipras è aumentata del 42%, arrivando all’87%, mentre anche nell’adeguatezza alla guida del governo è forte il cambiamento, visto che la percentuale a favore giunge al 73% e aumenta di 41 punti. Al contrario la popolarità di Antonis Samarà (ex capo del governo, ndt) è scesa al 24% ed è diminuita di 19 punti, mentre la sua adeguatezza alla guida del governo scende al 12% dal 42%, che aveva prima delle elezioni. Val la pena a questo punto sottolineare che le opinioni negative sul capo della Nea Democratia (Samaràs, ndt) arrivano al 74%, e il dato mostra che l’indiscutibilità di Antonis Samaràs assume dimensioni esplosive — in negativo– dopo le elezioni. Aumenta la popolarità di Panos Kammenos (presidente del gruppo dei Greci Indipendenti, attuale 16 Ministro della Difesa, ndt) al 57% dal 25%, mentre quella di Stavros Theodorakis (presidente del gruppo parlamentare del partito Potami ndt) rimane stabile al 42%. Sale la popolarità di Dimitris Koutsouba (segretario del Kke, Partito Comunista Greco ndt) al 39% dal 31%. Mostra invece una forte caduta la popolarità di Evaggelos Venizelos (presidente del Pasok ndt): dal 17% al 28%. Molto alta è la popolarità di Ianis Varoufakis, che arriva al 74%, contro il 24% di opinioni negative. La popolarità del ministro greco dell’economia non può minimamente essere paragonata a quella di Evaggelos Venizelos, Iannis Stournara (direttore della Banca di Grecia) e Gkika Chardouveli (ministro dell’Economia nel precedente governo), nei confronti dei quali i cittadini non nutrivano fiducia; un bilancio positivo l’aveva avuto solo Giorgos Papandreou nel primo periodo di assunzione dell’incarico (di primo ministro, ndt). Un grande cambiamento mostra anche l’immagine che hanno i cittadini sulla direzione presa dal paese. Il 64% la ritiene giusta, il 20% errata. Prima delle elezioni, appena il 21% la riteneva giusta e il 71% errata. L’immagine si è ribaltata. Ed è un ribaltamento anche l’icona delle aspettative dei cittadini rispetto alla situazione economica dopo le elezioni. Il 49% ritiene che le cose andranno meglio, rispetto ad appena il 17% che aveva aspettative positive prima delle elezioni. Un indice delle aspettative positive, che hanno ormai i cittadini sul corso dell’economia con il nuovo governo, è che appena il 15% pensa che le cose andranno peggio, mentre con il precedente governo Samarà-Venizelos la percentuale arrivava al 39%. Allo stesso modo, positive sono le aspettative sulla situazione economica personale. Con il precedente governo quasi uno su quattro temeva che la situazione economica personale sarebbe peggiorata, mentre ora questa percentuale è del 13%. Le grandi aspettative dei cittadini si vedono anche nella valutazione del nuovo governo sotto la guida di Alexis Tsipras come il migliore per il paese con una percentuale del 69% contro il 10% appena del governo della Nea Democratia, che affonda dal 29% preelettorale, dato che mostra chiaramente il problema scottante dell’affidabilità della Nea Democratia sotto la guida di Samaràs. Al contrario il governo Syriza ha preso una percentuale pre-elettorale del 30%, quindi ha un’ascesa di 39 punti! La posizione dei cittadini rispetto al Memorandum rimane molto negativa risultando anzi aumentata. Prima delle elezioni il 67% era contro, mentre dopo le elezioni il rifiuto del Memorandum è arrivato all’83%. In effetti è caratteristico il fatto che il 6% appena dei cittadini si dichiari favorevole all’applicazione del Memorandum per il ripagamento del debito, mentre il 79% chiede al governo di negoziare con i creditori per pagarne una parte inferiore. L’11% degli intervistati chiede di smettere i pagamenti. È generale il rifiuto della troika da parte dei cittadini, con una percentuale del 90%, contro appena l’8%, che ne ha un’opinione positiva. I dati del sondaggio sono incoraggianti anche dal punto di vista del potere internazionale del paese. Il 43% ritiene che, con il nuovo governo, il paese diventerà più forte e solo il 19% più debole. Assolutamente diversa era l’immagine con il governo Samaràs. Il 39% pensava che il paese sarebbe diventato più debole e solo il 18% più forte. Un altro dato incoraggiante è quello dell’88% dei cittadini che si interessa ormai alla politica. Questo, insieme ad altri elementi qualitativi, che mostrano una grande accoglienza per il nuovo governo, e il sentimento di orgoglio, possono contribuire al massimo, assieme al lavoro del nuovo governo, per il superamento della crisi della rappresentanza politica e il rinnovamento della fiducia nel sistema politico, che deve cambiare per esprimere le aspettative e le speranza dei cittadini. 17 Parere positivo sull’euro, Obama e Putin, molto negativo sulla Germania, la Merkel e Schäuble. Di particolare interesse sono i risultati del sondaggio riguardo l’euro, l’Unione Europea, gli alleati del paese e l’affidabilità dei leader politici stranieri. Il parere dei cittadini sull’euro rimane positivo con una percentuale del 76% contro il 20% che ha una posizione negativa. Il 75% ritiene improbabile l’eventuale uscita della Grecia dall’Eurozona; il 73% voterebbe in favore dell’euro in caso di referendum, mentre il 20% voterebbe contro. L’eventualità di ritorno alla dracma è vista favorevolmente dal 18%, mentre il 63% stima che le cose peggiorerebbero. Particolarmente negativa per l’opinione pubblica greca è l’immagine della Germania. Il 78% dà parere negativo, il 20% positivo. Negativa è anche l’immagine della Merkel, con una percentulae dell’82% , e di Schäuble con un 81%. C’è però un 16% che ha un’opinione positiva sulla cancelliera tedesca, e il 15% che pure vede positivamente il ministro dell’economia tedesco. Come principale alleato del paese, i cittadini vedono l’Unione Europea, con una percentuale del 43%, la Russia con il 13%, gli Stati uniti con il 4%, la Cina con il 3%, mentre il 37% non vede alleati o non si esprime. L’opinione sull’Unione Europea è positiva per il 61%, pur con una forte opinione negativa al 36%. Parere positivo esprimono i cittadini sugli Usa (61%), la Russia (68%) e la Francia (61%), mentre ancora piu’ positive sono le opinioni su Obama (72%) e Putin (70%). (Traduzione di Gianfranca Stornelli, da Avgì on line 24-02-2015) del 26/02/15, pag. 7 «Non svendiamo i gioielli», Atene ferma la privatizzazione della luce Governo. L’annuncio dei ministri Lafazanis e Varoufakis: bloccata la privatizzazione della compagnia elettrica Il vero atto di coraggio di Alexis Tsipras, nella giornata di ieri, è stato quello di sospendere il campionato di calcio dopo l’invasione di campo, domenica scorsa, dei tifosi del Panathinaikos nel derby ad alta tensione con i cugini dell’Olimpiakos, la squadra del Pireo. Un provvedimento che in Italia e nel resto d’Europa (vedi Roma-Feyenoord della scorsa settimana) sarebbe stato inimmaginabile. Ma il gesto politico più importante, a nemmeno ventiquattrore dall’accordo con l’Eurogruppo, è l’annuncio del ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis che la Grecia non privatizzerà la compagnia elettrica. L’offerta per Admie, l’operatore della rete elettrica, «non andrà avanti», ha spiegato Lafazanis, «perché non sono state presentate offerte vincolati, quindi non sarà completata. Lo stesso vale per Ppc», la società pubblica dell’elettricità. È ancora presto per prevedere quali conseguenze provocherà l’annuncio e se esso sarà effettivamente mantenuto, però quello che arriva da Atene è un segnale chiaro: al governo Syriza-Anel le privatizzazioni non piacciono e, nonostante i compromessi, non si vuole svendere il patrimonio pubblico ellenico. La notizia va di pari passo con l’annuncio di un’altra grana in arrivo per l’ex troika. Ad annunciarla è stato il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, che la Grecia avrà «problemi nel ripagare le rate a Fmi ora e alla Bce in luglio». Poco male. Da qui all’estate scadranno i quattro mesi supplementari concessi dalle istituzioni internazionali e l’annuncio della possibile mancanza di liquidità può essere interpretato come preliminare all’inizio della trattativa vera e propria per rinegoziare il debito. Varoufakis, che ha 18 assicurato che «non svenderemo i gioielli di famiglia», ha dichiarato che l’accordo ponte dà alla Grecia tempo per fare nuovi accordi con i creditori. Di tutto ciò pare consapevole pure la Germania, dove si dicono convinti che la Grecia avrà bisogno di un terzo pacchetto di aiuti, da luglio, per un ammontare di almeno 20 miliardi di euro. Ne pare convinto pure il falco Wolfgang Schauble, che ne ha parlato ieri ai parlamentari del suo gruppo, sostenendo che quest’ultimi saranno vincolati al «rispetto del programma». La partita a scacchi tra la Grecia e l’Ue, insomma, è appena cominciata. C’è poi il fronte interno, non meno rilevante. Tsipras si trova a dover convincere il suo partito, più riluttante, e l’opinione pubblica, propensa a concedergli maggiore fiducia, che la strategia adottata è la migliore. Ieri il premier greco ha parlato ai deputati di Syriza, esortandoli a a sostenere la lista di riforme presentata ai partner dell’eurozona per ottenere l’estensione di quattro mesi degli aiuti internazionali. «Dobbiamo portare avanti riforme rapide, perché la Grecia riacquisti la sua credibilità», ha detto. La base per ora è dalla sua parte: c’è molto pragmatismo e consapevolezza che la partita in gioco è enorme e che si tratta di una sfida ad armi impari, ma allo stesso tempo tutti si attendono che il governo dia qualche risposta alla crisi umanitaria. Tsipras e compagni giocano su questo crinale e ben presto dovranno rintuzzare gli attacchi degli armatori e di tutti quelli che saranno colpiti dalle misure antievasione e anticorruzione annunciate. Ieri ad Atene si è aperto il processo contro l’ex ministro greco delle Finanze George Papacostantinou, accusato di aver insabbiato la «lista Lagarde» con i nomi degli evasori fiscali ellenici con un conto in Svizzera. Titolare delle Finanze fra l’ottobre 2009 e il giugno 2011, il socialista Papacostantinou è accusato di falsificazione di documenti e di abuso di fiducia. Mentre era in carica, l’esponente del Pasok ricevette nel 2010 una lista con duemila nomi di greci che avevano depositi segreti, per un totale di 6 miliardi di euro nella banca svizzera Hsbc, inviata dalla collega francese Christine Lagarde (oggi presidente del Fmi). Secondo l’accusa, Papacostantinou non solo decise di non consegnare la lista alla Sdoe, la Finanza greca, ma cancellò anche i nomi di tre suoi familiari. In quanto ex politico, Papacostantinou è processato davanti a una Corte speciale composta da 14 magistrati del Consiglio di Stato e della Corte suprema. Comparso in aula, l’ex ministro si è detto innocente e ha respinto tutte le accuse. Il suo caso ha provocato grande scandalo in Grecia, dove l’esistenza della lista Lagarde fu rivelata solo nel 2012 grazie ad una inchiesta giornalistica. Del 26/02/2015, pag. 21 Le tre signore del Venezuela che guidano la lotta a Maduro Lilian, Corina e Mitzy in piazza: «Contro la violenza, per la libertà» «Il Venezuela è in lutto. Sono in piazza con le madri di questo Paese, pacificamente». Lilian Tintori è un’ex presentatrice tv e campionessa di kitesurf, con un fisico da pin up che fa onore ai suoi 36 anni. Ma quando twitta il grido di protesta e scende in strada, in jeans e T-shirt, a guidare la ribellione delle mujeres en blanco contro l’ennesima brutalità di regime — un ragazzino di 14 anni, Kluiver Roa, freddato martedì con un colpo alla testa da un agente antisommossa a San Cristobal — la sua bellezza diventa secondaria. Zittisce la folla dal palco, invita ad esporre alle finestre un telo bianco, «come simbolo di pace». E di colpo i muri di Caracas si vestono di drappi candidi. È la moglie di Leopoldo Lopez, leader del partito d’opposizione Voluntad Popular e delle oceaniche manifestazioni 19 di protesta dello scorso anno, chiuse con un saldo di 40 morti. Arrestato il 18 febbraio 2014 per «terrorismo ed omicidio», Lopez è oggi isolato in una cella di 2 metri per 3 nel carcere militare di Ramo Verde, in attesa di processo. «Leopoldo è solo un caso fra centinaia di migliaia di altri — dice al Corriere la moglie Lilian —. Il governo dice che l’opposizione è divisa perché vuole indebolirci, ma non siamo mai stati così uniti come ora. E abbiamo ricevuto anche l’appoggio di papa Francesco». Lilian non è sola. Da tempo al suo fianco c’è María Corina Machado, ex deputata incriminata in dicembre per «complotto» contro il presidente Maduro. E da otto giorni, a formare un trio ormai inseparabile, c’è anche una signora più anziana e pacata, figlia di quella borghesia illuminata che scende a fatica in piazza: Mitzy Capriles ha cambiato idea. È la moglie di Antonio Ledezma, leader del partito socialdemocratico Alianza Bravo Pueblo e sindaco di Caracas, arrestato il 19 febbraio dalla famigerata intelligence «bolivariana». Gli uomini della Sebin hanno fatto irruzione nel suo ufficio sparando alcuni colpi in aria. «Non avevano neanche un mandato giudiziario. Ma si sa che qui potere legislativo, esecutivo e giudiziario hanno un’unica voce, quella di Maduro», racconta Mitzy. Ledezma sarà processato per «attentato contro la pace, la sicurezza del Paese e la Costituzione». Secondo la ricostruzione ufficiale, Machado, Lopez (dal carcere) e Ledezma avrebbero lanciato il segnale del golpe dalle pagine di El Nacional , uno dei pochissimi giornali non allineati ancora in edicola. «Menzogne — ribatte la signora Ledezma —. Lo stavano seguendo, volevano incastrarlo. Ma lui è un combattente e il suo arresto ha compattato l’opposizione. Il popolo è in strada. Nelle lunghe code fuori da ogni negozio si sta criticando il governo. Noi non siamo golpisti come Hugo Chavez. Chiediamo un cambio democratico». In prima fila ora ci sono le donne. Lilian, María Corina, Mitzy e le madri di centinaia di giovani uccisi o in carcere. «Sono molto orgogliosa delle donne del mio Paese — dice Lilian Tintori —. Come Rosa Orozco, madre di Geraldine Moreno, assassinata da un funzionario di Stato. Rosa e le altre madri continuano a lottare per ottenere giustizia. Sono accanto a loro e a tutte le donne che giorno dopo giorno affrontano le avversità e gli abusi di Maduro». E che forse daranno la spallata a un governo già in crisi per la caduta del prezzo del petrolio, la corruzione dilagante, il crollo dell’economia. 20 INTERNI del 26/02/15, pag. 6 La rabbia dei magistrati “Responsabilità, il governo ci mette le dita negli occhi” Il ministro Orlando: così i cittadini saranno più tutelati. E il premier ritwitta la foto di Enzo Tortora SILVIO BUZZANCA ROMA . «Con questa legge sciagurata e punitiva il governo ci caccia le dita negli occhi, è una legge contro i magistrati». Il durissimo commento del giudice milanese Enrico Consolandi riassume lo stato d’animo delle toghe italiane dopo l’approvazione alla Camera della legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Parole pronunciate durante la riunione convocata da presidente dell’Anm milanese Federico Rolfi che ha chiesto ai colleghi di protestare interrompendo nei prossimi giorni le sedute e leggendo il comunicato contro la legge del Consiglio direttivo dell’Anm. Un clima pesante che si registra in tutto il paese. A Napoli i magistrati, che seguiranno l’esempio milanese, ieri hanno puntato il dito soprattutto contro l’abolizione del filtro di ammissibilità dei ricorsi. Toni duri arrivano anche dal profondo sud. Da Agrigento, per esempio «Una norma del genere ce l’aspettavamo da un governo diverso, non dal governo Renzi. — accusa il procuratore Renato Di Natale — Temo che possa paralizzare l’azione dei magistrati». Da Palermo, il procuratore aggiunto Leonardo Agueci attacca: «Questa legge mina l’indipendenza del giudice». A Caltanissetta il procuratore Sergio Lari dice che questa legge «finirà per intimidire i giudici. Nessun giudice può essere sereno se gli si potrà contestare una causa per travisamento del fatto e della prova. E un giudizio negativo arriva anche dal procuratore nazionale Antimafia. «Farà sentire tutti i soccombenti in diritto di citare i giudici per cercare di recuperare le cause perse, con un aumento del contenzioso civile. Con il rischio di condizionare l'indipendenza dei magistrati, dice Franco Roberti. I vertici nazionali dell’Anm rilanciano le critiche. «Ribadiamo la nostra contrarietà, il segnale è pessimo: la politica si compatta per dare una lezione, un messaggio che i problemi della giustizia siamo noi magistrati», dice il segretario Maurizio Carbone. Questa riforma, aggiunge il presidente Rodolfo Sabelli, «è contro le garanzie dei cittadini, soprattutto di quelli più deboli». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando però non la pensa così. «Siamo di fronte ad un passaggio storico», dice il ministro, perché «la giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati». Nel frattempo Matteo Renzi ritwitta la fotografia di Enzo Tortora, postata dalla figlia Gaia, che fa il segno della vittoria. Una vittoria che i socialisti, il disegno di legge porta il nome del senatore Enrico Buemi, rivendicano come battaglia storica. «Non c’è nessun attacco all’indipendenza e all’autonomia dei magistrati e nessun intento punitivo» dice Riccardo Nencini E il ministro dell’Interno Angelino Alfano twitta: «Legge di buon senso. Noi siamo il paese che cambia». del 26/02/15, pag. 1/37 LA LEGGE MANIFESTO 21 GIANLUIGI PELLEGRINO IL RISCHIO di una giustizia meno attenta agli interessi deboli e collettivi. Di un giudice meno vigile nel controllo sull’abuso del potere. IL rischio di assecondare insieme la peggiore politica e la peggiore giurisdizione, quella più remissiva e corriva. Sono questi i grandi assenti nel dibattito intorno alla nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati. Slogan deformati da due mistificazioni di fondo che la destra italiana è riuscita abilmente a far diventare fattor comune nella narrativa quotidiana: lo sguardo volto al solo processo penale e la conseguente esistenza di una guerra tra politica e giustizia che come tale richiederebbe i suoi regolamenti di conti. E così il dibattito su indipendenza e responsabilità nella funzione giurisdizionale piuttosto che cercare gli equilibri più avanzati si trasforma nella ricerca di una norma «manifesto», che vuol dire l’uso dello strumento legislativo per declamare un messaggio o, peggio, per lanciare un avvertimento. Quello di una limitazione del controllo giurisdizionale e dello svilimento della parte più nobile della funzione, che non è una inesistente meccanica applicazione della legge ma la costante ricerca nella sua interpretazione applicativa di ambiti sempre più avanzati di tutela. Andrebbe ricordato che senza tutto questo sarebbe mancata buona parte dell’affermazione di diritti oggi diventati patrimonio comune. E sarebbe mancata anche una leva fondamentale nella difesa della nostra convivenza civile. Il potere giurisdizionale o è insensibile (e non sempre avviene) alla forza del potere e delle parti che ha davanti o semplicemente non è. La sua ontologica funzione è nella tutela dei diritti collettivi e degli interessi deboli non solo nel penale ma ancor di più nel civile e nell’amministrativo. Ovviamente questo non vuol dire in alcun modo che il cittadino, il soggetto dell’ordinamento non debbano avere tutela contro i sempre possibili errori giudiziari. Vuol dire se mai il contrario, essendo esclusivamente questa l’esigenza sottolineata dagli organismi europei, e giammai come invece si è voluto far credere con ulteriore mistificazione, che venisse posto il minaccioso accento su una personale esposizione del magistrato. Qui la scelta, lungi dall’essere imposta dall’Europa, è stata tutta politica e tutta italiana, del resto dichiaratamente volta ad ammiccare a quel messaggio di ridimensionamento della funzione giurisdizionale, con l’effetto paradossale che mentre si dice di voler dare maggiore garanzia al cittadino nei confronti della giurisdizione, lo si colpisce proprio sul versante della principale funzione di tutela che nel suo interesse quel potere è chiamato a svolgere. Perché va da sé che un giudice personalmente più esposto non può che tendere conservativamente ad un indirizzo decisionale più corrivo meno incline alla tutela degli interessi deboli. Per fortuna il Partito democratico e il ministro Orlando hanno scongiurato l’azione diretta della parte contro il suo giudice, che avrebbe istituzionalizzato la prassi deteriore del processo al processo, in un terribile cortocircuito. E però si deve evitare che uscita dalla finestra, quella mina rientri dalla porta a mezzo di un preteso automatismo dell’azione di rivalsa. Il testo della norma lascia spazio alla possibilità di evitarlo in sede applicativa, ma a tal fine è evidente che quel filtro dalle azioni temerarie che si è voluto togliere, deve mantenere la sua sostanziale efficacia attraverso esemplari e rapide decisioni contro iniziative proditorie e valorizzando l’eccezionalità dei casi di colpa grave e inescusabili in cui soltanto la rivalsa è possibile. Tutto questo per scongiurare che la nuova norma piuttosto che giusto mezzo di tutela diventi, come vuole il suo “messaggio”, strumento di minaccia, il cui conto a ben vedere non lo pagherebbero i giudici che agevolmente potrebbero accomodarsi su una giurisprudenza sempre docile e corriva, ma la società e gli utenti con una perdita secca e irreparabile di affermazione e tutela dei diritti. È questa a ben vedere la vera posta in gioco, tristemente assente dal dibattito di queste ore. 22 del 26/02/15, pag. 2 Saltato il Nazareno, Berlusconi all’attacco sulla tv e sui libri della Rcs ETTORE LIVINI MILANO . Il patto del Nazareno è saltato. I salotti buoni, ormai, sono materia da archeofinanza. Le casseforti di casa Berlusconi - orfane dei dividendi Mediaset – sono a corto di liquidità. E la Fininvest, ritrovatasi all’improvviso con le mani libere, è partita all’attacco. In una partita in cui finanza, politica e questioni di famiglia – come capita sempre quando c’è di mezzo l’ex Cavaliere – vanno a braccetto. Che qualcosa bollisse in pentola era chiaro da qualche mese: sottotraccia, senza proclami, il Biscione ha iniziato a mettere fieno in cascina da fine 2013, varando quella che – fino a poche settimane fa – sembrava solo una campagna di saldi per sistemare i conti e girare un po’ di liquidità ad Arcore. Sul mercato sono finiti il 5% di Mediolanum, il 7,7% di Mediaset, una quota di Ei Towers, tv digitali in Spagna, il 10% di Premium e persino il Milan, i cinema e il golf di Tolcinasco. Incasso totale: 1,5 miliardi. Buoni per tappare il buco del lodo Mondadori, dicevano gli analisti, e riportare il sorriso in famiglia visto che il leader di Forza Italia e i suoi cinque figli, complice le difficoltà finanziarie delle tv, non incassano un euro da Fininvest dal lontano 2011. Si sbagliavano. Via Paleocapa, è vero, ha girato a fine dito cembre un dividendo straordinario di 81 milioni ai suoi soci, di cui 50 finiti in tasca all’ex premier. Subito dopo però, appena si è chiuso l’ombrello del Nazareno, il Biscione ha capito che il futuro doveva costruirselo da solo. E sciolto da lacci e laccioli della politica e con la cassa piena ha sferrato l’uno-due Rcs Libri-Rai Way che sta facendo traballare i fragili equilibri della finanza e dei palazzi romani. Il fine “industriale” del doppio blitz è chiaro: costruire sotle il cappello di Arcore “campioni nazionali” in settori dove la crisi ha limato i margini (l’editoria) o dove non c’è spazio per troppi concorrenti (le reti di trasmissione). Con l’obiettivo – dicono i maligni – di renderli più appetibili in vista di un’eventuale vendita. La novità sono i mezzi: l’era delle leggi ad Biscionem , causa trasloco dell’ex- Cavaliere all’opposizione, è finita. I presunti benefici per le aziende di famiglia del Patto del Nazareno, complice la sua rottura, non ci sono più. Fininvest è stata costretta a uscire allo scoperto, calando l’asso in una partita a poker che – con l’aria che tira – promette sviluppi anche sul fronte delle televisioni. L’offerta della Mondadori per i libri Rizzoli è stata un segnale chiarissimo. Ad Arcore hanno messo in conto le proteste degli scrittori e le accuse di monopolismo. Aspettare però era inutile. I soci di via Solferino passano il tempo a tirarsi per la giacchetta tra loro. Segrate invece, dopo aver rimesso in sesto i suoi conti, può mettere i soldi sul piatto e puntare secca al Bingo. Sperando – con qualche buona ragione – che quel che resta dei vecchi salotti buoni non sia più un ostacolo serio ai suoi sogni di grandezza editoriale. L’Opa (apparentemente impossibile) su Rai Way è un altro tassello dello stesso puzzle. Il no del Governo, in qualche modo, era in preventivo. L’obiettivo reale – è il sospetto che serpeggia tra le fila dell’esecutivo – è un altro, segnaletico: dimostrare che Fininvest è viva e imporre la sua presenza al delicatissimo tavolo dove la politica sta riscrivendo in questi mesi il futuro di tlc, banda larga e televisioni nazionali. Rai Way ed Ei Tower sono solo un capitolo di questa partita. In ballo ci sono il destino di Metroweb, i grandi investimenti sulla 23 rete digitale, il riassetto di viale Mazzini e il futuro della Telecom, dove l’azionariato è in rapido movimento. Berlusconi è il convitato di pietra a questo tavolo. Se perde il treno, Mediaset e EiTower rischiano di diventare protagonisti marginali – e a rischio declino – sul palcoscenico tricolore. L’Opa su Rai Way è solo la prima salva: «Ci siamo – è il messaggio –. Oggi potete chiuderci la porta in faccia. Ma se e quando si penserà a mettere assieme un solo grande gestore unico delle antenne non potrete lasciarci fuori». La politica non è più al servizio delle sue aziende. Ma le sue aziende possono provare a condizionare le decisioni della politica. Forzandole la mano, magari nel nome della difesa dell’italianità di settori vitali per l’economia nazionale. Le antenne e i libri sono l’aperitivo. Il Biscione ha cambiato pelle. Ed è pronto a venderla carissima. Specie quando – pare a brevissimo – il governo Renzi metterà mano al destino della Rai e ai progetti sulla banda larga e sulle tlc. del 26/02/15, pag. 2 Fiumi e canguri, Renzi detta legge Andrea Fabozzi Camere. Tutti gli strumenti, le procedure e i trucchi per mettere fuorigioco i parlamentari. E trasferire a palazzo Chigi il potere legislativo La riforma costituzionale che sta per essere approvata in seconda lettura alla camera prevede un nuovo strumento a disposizione del governo per imbrigliare il parlamento: il voto a data certa. Vale a dire che sui disegni di legge che l’esecutivo considera essenziali per il programma (a suo insindacabile giudizio) le camere saranno chiamate a votare tassativamente entro 60 giorni. Come dovranno votare non è detto, non potendosi prescrivere in costituzione l’obbligo di approvare quel che chiede il governo. Per quello c’è il voto di fiducia. Non è un istituto nuovo (è nei regolamenti dagli anni Settanta) ma con il governo Renzi è diventato la regola: 32 fiducie in un anno (più le due iniziali sul programma di governo). Persino una fiducia in negativo, al senato, per bloccare un emendamento. Riguardava la responsabilità civile dei magistrati, l’ultima legge approvata dalle camere nonché una delle pochissime di iniziativa parlamentare. Com’è prassi da anni, ma se nella scorsa legislativa la percentuale delle leggi di iniziativa governativa si fermava al 74% con il governo Renzi siamo già all’82% delle leggi approvate. Persino la riforma che riscrive un terzo della Costituzione è firmata direttamente dal presidente del Consiglio. La fiducia è stata applicata a dismisura, anche su una legge delega, cioè su un atto con il quale il parlamento rinuncia al potere legislativo per affidarlo al governo entro limiti (che dovrebbero essere) precisi. Parliamo del cosiddetto Jobs act e anche in quel caso l’esecutivo Renzi ha silenziato il dibattito nella maggioranza e oltre: niente modifiche o crisi di governo e tutti a casa. In più nello scrivere i decreti delegati al termine del percorso, è cronaca recente, l’esecutivo ha tranquillamente ignorato i pareri delle commissioni parlamentari. Paradossale dunque che proprio sull’argomento Renzi abbia respinto le critiche della Cgil dicendo che «le leggi non le fa il sindacato, le fa il parlamento». E invece il Jobs act l’ha fatto il governo dal principio alla fine, così come fa con i decreti legge che dovrebbero servire «in casi straordinari di necessità e urgenza» e invece sono già a quota 23, vale a dire un paio al mese in un anno di governo, e su materie che vanno dalla finanza locale alla giustizia alla scuola alle concessioni autostradali. Sulle leggi di conversione dei decreti, poi, viene posta regolarmente la questione di fiducia. E anche quando l’iniziativa è parlamentare, come nel caso che abbiamo citato della responsabilità 24 civile dei magistrati, il ministro della giustizia ha presentato un maxiemendamento che ha riscritto la legge. Qualche parlamentare ha timidamente protestato, la risposta è stata: o lo votate così o facciamo un decreto. Ma oltre agli strumenti ci sono le procedure. Ha fatto clamore la decisione della presidente della camera Boldrini di far scattare la cosiddetta ghigliottina nel dibattito sul decreto ImuBankitalia nel gennaio 2014 (erano gli ultimi giorni di Letta a palazzo Chigi). Il sistema per far decadere tutti gli emendamenti non è previsto dal regolamento della camera, ma è stato applicato per analogia con il regolamento del senato. Prendendone però solo un pezzo: è previsto per la prima lettura ed è stato utilizzato per impedire la decadenza del decreto, che invece è un esito del tutto fisiologico previsto dalla Costituzione. Boldrini ha successivamente detto che non si è pentita di quella scelta, ma anche che non la rifarà. Il trucco di prendere dall’altra camera solo un pezzo del regolamento si è poi ripetuto a parti inverse, quando il presidente del senato Grasso ha avuto il problema di superare l’ostruzionismo contro la riforma costituzionale. E ha importato il cosiddetto canguro — che consente di saltare con un solo voto migliaia di emendamenti, ma al senato non è previsto — dalle regole della camera, dove però è esplicitamente vietato per le leggi costituzionali. Per le leggi di revisione costituzionale proprio la Costituzione impone di seguire sempre «la procedura normale», invece la discussione è stata ogni volta limitatta dai tempi contingentati, e nel caso dell’ultimo passaggio alla camera è stata prevista una seduta di Montecitorio sotto natale al solo scopo di «incardinare» il provvedimento per sveltirne l’esame nel mese successivo. Lo stesso trucco utilizzato per la nuova legge elettorale. Malgrado tutto questo, la riforma costituzionale firmata da Renzi e dalla ministra Boschi ha avuto bisogno di un’ultima spinta a Montecitorio. E l’ha trovata nella seduta fiume, decisa dalla presidente Boldrini contro la logica che vedrebbe l’utilità di legare i deputati ai banchi notte e giorno solo per provvedimenti urgentissimi e scadenze dietro l’angolo. In questo caso si trattava invece delle riforma più delicata destinata a entrare in vigore tra tre anni e dopo un referendum. E infatti alla sera le sedute si sono tranquillamente interrotte, non «chiuse» ma solo «sospese» in modo che le opposizioni non potessero presentare nuovi emendamenti ostruzionistici alla riapertura. E la camera ha marciato al ritmo di palazzo Chigi. del 26/02/15, pag. 15 Renzi convoca i gruppi Pd “Più idee che correnti” Stop di Bersani: serve serietà L’ex segretario: “Non si parla di fisco in un’ora, così si fa finta” La sinistra vuol disertare l’incontro. Riunione dei catto-renziani ANNALISA CUZZOCREA ROMA . Alle sette di sera, intorno al divanetto della minoranza pd a Montecitorio, ci sono solo posti in piedi. Pier Luigi Bersani, Davide Zoggia, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, riguardano su telefonini e ipad la lettera inviata da Matteo Renzi ai parlamentari del partito. «Siamo al limite, è ora di fare le cose seriamente!», è sbottato poco prima l’ex segretario. «Bisogna capire come concepiamo la democrazia e il rapporto tra governo e Parlamento» A suscitare sconcerto, l’e mail in cui il premier dice: «Vorrei che il nostro confronto fosse sui contenuti più che sulle etichette. Che fiorissero più idee che correnti». Per poi convocare deputati e senatori al Nazareno - domani - in vista di un pomeriggio di studio su Scuola 25 (dalle 14 alle 15), Rai (15-16), Ambiente (16-17), e infine Fisco, nell’ora successiva. «Poi cosa? Merendina?», chiede Zoggia sorridendo amaro. I contributi possono anche essere inviati per iscritto, ma «brevi e in un linguaggio semplice - chiede Renzi - astenetevi dal burocratese ». Un passaggio che indispettisce Gianni Cuperlo: «Vorrei esprimere il mio massimo consenso per la missiva inviataci... », ironizza. Poi serio: «L’autonomia dei gruppi parlamentari è un valore anche per il governo, perché consente un lavoro di miglioramento delle riforme. Esisteva perfino nel Pci. È nell’interesse del premier avere più fiducia nel Parlamento ». È lo stesso ragionamento di Bersani: «Da 40 anni vige un principio che andrebbe ristabilito per cui sono i capigruppo a convocare le riunioni e invitare i segretari. E poi, non è più tempo di far finta di discutere. Bisogna farlo davvero. In 400 non si parla di fisco!». Così, la minoranza ha intenzione di diserta- re la riunione: «Io ho judo», dice ridendo Pippo Civati. E D’Attorre: «Magari mi esercito in tweet che sono la misura giusta per incontri di un’ora su temi complessi». Da Palazzo Chigi si guardano le reazioni con manifesta sorpresa. «Facciamo le cose da soli e si arrabbiano perché non li coinvolgiamo», ragiona chi è vicino a Renzi. «Li coinvolgiamo e si arrabbiano perché le forme non sono quelle che vogliono. Ma se lo ricordano che abbiamo vinto le primarie con il 68% e portato il Pd dal 25 al 41 in un anno? Ma li frequentano i circoli? Li vedono i sondaggi? Lo sanno che i nostri non ne possono più di divisioni?». Questa l’aria, che mette in difficoltà anche la neonata corrente dei catto- renziani. «Siamo laici, laicissimi » andava spiegando ieri Matteo Richetti, prima della riunione in sala Berlinguer. Il passaggio in cui Renzi chiede idee non correnti aveva fatto serpeggiare, nei corridoi della Camera, la paura di una sconfessione. Insieme alle voci di un giglio magico tutt’altro che entusiasta dell’iniziativa. Ma da palazzo Chigi arrivano chiarimenti: nessuno stop, se si organizzano aree nel pd - però - sia su idee, temi, non per fare conte interne. Così, l’area si rinomina «Spazio democratico». E alla fine, a sera, insieme a Richetti e Delrio ci sono anche il vicesegretario Lorenzo Guerini, il fedelissimo Luca Lotti e 60 deputati. «Abbiamo anche qualche civatiano - raccontava prima dell’inizio Richetti - il nostro manifesto dice chiaro che il leader è Renzi, la presenza di Delrio e Guerini circoscrive l’area, ma è chiaro che chi vuole collaborare è benvenuto». L’idea è quella di svuotare le vecchie correnti. Le due principali, però, restano sul divanetto. Sicure di non perdere pezzi. del 26/02/15, pag. 9 CAMPANIA, VELENO DI PRIMARIE PD TRA OMBRE NERE E IMMIGRATI DOPO QUATTRO RINVII, DOMENICA SI VOTA PER IL CANDIDATOGOVERNATORE FORZISTI DI COSENTINO E “ROM- DEM” POTREBBERO AIUTARE I FAVORITI di Fabrizio d’Esposito Senatore D’Anna, se scriviamo che lei e i suoi amici andrete a votare alle primarie del centrosinistra, scriviamo una corbelleria?”. “Sì, scrivete una stronzata”. “Però lei è pronto a sostenere il centrosinistra alle Regionali”. “A patto che il candidato governatore sia Cozzolino o De Luca. Hanno le stimmate dei grandi amministratori. De Luca da sindaco, Cozzolino da assessore regionale”. Cosentiniani nel centrosinistra 26 Vincenzo D’Anna è stato eletto nel Pdl. Oggi è un autonomista del Gal e un fiero e dotto avversario delle riforme renziane. Molte sue frasi sono diventate aforismi nell’aula di Palazzo Madama. Ma su D’Anna grava quello che è considerato un marchio infame: è amico di Nicola Cosentino, ex ras berlusconiano della Campania oggi in galera per i suoi rapporti con la camorra dei casalesi. Alle prossime Regionali, D’Anna si schiererà contro il presidente uscente, l’azzurro socialista Stefano Caldoro. Ha già pronto il nome della civica: Patto per la Campania. L’addio di Paolucci: “Voto inquinato” I movimenti di D’Anna non sono estranei agli ultimi, clamorosi sviluppi della sceneggiata delle primarie campane del centrosinistra, domenica prossima. Ieri, infatti, l’eurodeputato Massimo Paolucci ha lasciato il Pd denunciando “l’i n q u inamento della destra cosentiniana” e “la trasformazione genetica” del partito. Insomma, “le primarie sono un disastro annunciato, un grande revival di Forza Italia”. A Napoli, Paolucci è un nome storico del bassolinismo. Nei mesi scorsi si è battuto con altri capibastone autoctoni per il superamento delle primarie e l’imposizione di un candidato unico, più che unitario, dall’alto. Un candidato che prima doveva essere Gennaro Migliore, ex comunista di Sel poi “leopoldino”, e poi Gino Nicolais, ex ministro e presidente del Cnr. Gli ex gavianei al comando Il problema è che Paolucci, anche a proposito di “trasformazione genetica” del Pd, ha propugnato il superamento delle primarie insieme a uno schieramento metafisico più che politico. Roba da Borges, non Eduardo: ex bassoliniani, ex dalemiani, renziani locali (da Vaccaro alla Picierno) e soprattutto ex democristiani dorotei della corrente di Antonio Gava buonanima. Quest’ultimi formano una sorta di cupola scudocrociata che governa il Pd campano. Nomi che non dicono nulla o quasi all’opinione pubblica nazionale: Lello Topo, i Casillo padre e figlio, Piccolo, la segretaria regionale Tartaglione. La mente, raccontano, è Topo, figlio dell’autista di Gava e indicato come “referente alla regione” da un pentito di camorra, Giuliano Pirozzi. Sarebbe sempre lui, Topo, l’ideatore di un documento corredato da firme false con cui avrebbe tentato di bloccare le primarie. Seicento seggi, due i favoriti Dopo quattro rinvii, alla fine si voterà domenica primo marzo, in 602 seggi. Certificato elettorale, documento d’identità e contributo di due euro. I candidati sono cinque, ma a lottare per la vittoria sono in due: Andrea Cozzolino, eurodeputato e altro storico pilastro del bassolinismo, e Vincenzo De Luca, sindaco decaduto di Salerno. Ed era proprio questo duello che il gruppone anti-primarie voleva impedire e superare. Il tentativo è fallito e uno dei due sarà il candidato-governatore del centrosinistra. Cozzolino fu già protagonista di primarie indecenti nel 2011, per la scelta del candidato-sindaco di Napoli. Un voto annullato per una combinazione letale: brogli, immigrati, soccorso azzurro, inquinamento camorrista. Sfortune renziane nel Mezzogiorno L’incognita De Luca è la più rischiosa. La sua condanna per abuso d’ufficio potrebbe azzopparlo da subito, qualora dovesse diventare presidente, per gli effetti della legge Severino. Il bacino elettorale di De Luca è Salerno, ovviamente, ma anche nel Napoletano sono molti i sindaci che fanno campagna per lui. Cozzolino invece ha l’appoggio dei giovani turchi di Orlando e Orfini. Se i votanti non raggiungeranno la soglia psicologica dei centomila, l’ex bassoliniano potrebbe farcela. Al contrario, oltre i centomila, il favorito è De Luca. Terzo annunciato è Gennaro Migliore, su cui potrebbero confluire i voti dei renziani spaesati e spiazzati. La verità è che Renzi non ha fortuna con le primarie al sud: in Calabria il suo candidato ha perso; in Puglia ha subìto lo sceriffo Emiliano. E adesso in Campania? La cinquina è completata dal socialista Marco Di Lello e dall’ex dipietrista Nello Di Nardo. 27 “Elenchi con centinaia di immigrati” Rivela un deputato campano del centrosinistra: “Negli elenchi degli elettori iscritti sono centinaia i nomi stranieri”. Ecco il pericolo. Lunedì prossimo uno dei due sconfitti tra De Luca e Cozzolino oppure lo stesso Renzi potrebbero chiedere l’annullamento del voto per le truppe cammellate di migranti. Qualcuno parla anche di “rom-dem”. La sceneggiata è ancora lunga. del 26/02/15, pag. 4 Ecco la Lega e Roma prepara la protesta Samir Hassan, Alessandro Barile Mai con Salvini. Alla conferenza stampa del leader leghista arrivano le prime contestazioni. Al corteo aderisce anche l’Anpi Dopo le passerelle mediatiche, Matteo Salvini ieri si è presentato al Campidoglio per la conferenza stampa di lancio della manifestazione, che sabato vedrà la Lega riunirsi in Piazza del Popolo. Ad attenderlo, però, non c’erano solo telecamere e la manciata di sostenitori romani del progetto «Noi con Salvini». Cartelli, urla e cori contro il leader leghista sono stati la scanditi da «studentesse e mamme precarie» che, nonostante l’ingente schieramento di forze di polizia, hanno gridato la loro «disapprovazione contro chi ha insultato questa città, contro chi per anni ha inneggiato alla secessione e ora si presenta come opposizione sociale scordandosi di essere stato al governo per 15 anni sostenendo politiche che hanno precarizzato il mondo del lavoro, che hanno istituito il reato di immigrazione clandestina», come riportato nel comunicato poi diffuso alla stampa. Anche una delegazione di Sel ha esposto striscioni contro il leader padano. «Non rispondo su quattro cretini, quattro poveretti. Piuttosto, spero di aiutare i romani a riprendersi questa città perché Marino è inadeguato», ha dichiarato il leader del Carroccio che ha poi chiosato: «Roma merita molto di più di un sindaco totalmente inadeguato. Per questo siamo qui». Una dichiarazione che cozza con la realtà dei fatti, visto che la campagna #MaiConSalvini è ormai un fenomeno che veleggia a spron battuto nella città, capace di radunare un variegato universo contrario alla visita di Salvini, reo di fomentare politiche d’odio e razziste e di flirtare con la destra neofascista di CasaPound. Per questo motivo alle 12 di ieri un centinaio tra i promotori di #MaiConSalvini ha fatto un blitz a Piazza Vittorio, improvvisando una partecipata conferenza stampa. «Siamo qui perché è il cuore meticcio della Roma antirazzista, perché è la piazza da cui inizierà il nostro corteo sabato e perché respingiamo senza timori la provocazione di CasaPound». Sullo sfondo un lungo striscione con il disegno del fumettista Zerocalcare: «No alle politiche d’austerity No al governo Renzi», si legge prima del più noto motto della campagna. «Uno slogan che rilancia il percorso di diverse soggettività unite dal rifiuto per questo governo e le sue misure anti-crisi e dalla netta opposizione a chi fomenta odio, razzismo e violenza sia Roma che in tutta la nazione», scrivono nel comunicato della conferenza stampa. Intanto, in attesa del Comitato di Ordine e Sicurezza pubblica, crescono le adesioni al corteo. Ieri è giunta la significativa adesione dell’Anpi di Roma che, congiuntamente all’Anppia (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti) e al Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane), ha dichiarato in una nota stampa: «Roma città Medaglia d’Oro per la Resistenza è stata già offesa in questi anni da personaggi come Salvini». 28 Del 26/02/2015, pag. 14 Lega in guerra, Salvini va avanti: «Tosi? Avrà il Veneto dopo Zaia» Blitz a Roma anti Marino. I suoi ricevuti al Colle: stop al dittatore Renzi ROMA C’era una volta la Lega di lotta e di governo. Ora è rimasta solo la prima e il nuovo corso di Matteo Salvini non fa sconti a nessuno. Ma c’era una volta anche la Lega della Roma ladrona. Le cose cambiano e così il leader del Carroccio alza il tiro: diserta il Quirinale, lasciando il presidente della Repubblica solo con i capigruppo, e si prepara alla discesa romana di sabato, con il corteo anti Renzi. Come antipasto, ieri ha organizzato una manifestazione al Campidoglio, contro il sindaco Ignazio Marino. Ma se il livello dello scontro si alza esternamente, anche nel partito il conflitto si fa duro, con il ribelle Flavio Tosi che non si vuole adeguare alla linea di opposizione dura e pura che mira a rompere le alleanze in vista delle Amministrative. E Salvini che lo bacchetta, appoggiato anche da Umberto Bossi. Il Senatùr sentenzia così: «Tosi cerca di stare a galla, ma ha fatto troppi sbagli. Zaia deve restare davanti agli altri». Il capogruppo alla Camera Gian Marco Centinaio dà atto al presidente Mattarella di averli ricevuti: «È un fatto molto positivo». La richiesta del Carroccio è di una «moral suasion» del capo dello Stato verso il «dittatore» Renzi: «Rispetti di più il Parlamento». Ma il territorio d’elezione dell’opposizione leghista è la piazza. Non a caso ieri Salvini ha voluto essere presente di persona al Campidoglio, insieme a una decina di sostenitori che indossavano una t-shirt con la scritta «Renzi a casa». «A casa» Salvini vorrebbe mandare anche il sindaco Marino, «una calamità». Contro il leader della Lega, alcuni contestatori di Sel hanno gridato «buffone», «fascista», «razzista». Ricevendo in cambio baci ironici diretti alle ragazze e una replica alla stampa a posteriori: «Erano solo quattro disadattati». Sul terreno delle alleanze, assicura il governatore veneto Zaia, «può ancora accadere di tutto». Ma Salvini conferma la linea: «Non saremo mai alleati con l’Ncd. Berlusconi farà le sue scelte». E le farà anche Tosi, che anche ieri non ha risparmiato attacchi ai vertici: «Quando c’era Bossi, per il Veneto decideva la Liga. Salvini vuole decidere tutto da Milano. E ha disatteso tutti gli accordi». L’ipotesi che Tosi si lanci in una corsa solitaria, contrapposto a Zaia, resta in piedi. Salvini scalpita. Da una parte sembra rassicurare, spiegando che «Tosi non rischia e non è fuori dalla Lega». Dall’altra però chiarisce: «Chi non appoggia Zaia in Veneto è fuori. Discutere la sua candidatura sarebbe sciocco. Ognuno ha le sue legittime ambizioni, ma se Tosi vuole fare il governatore potrà farlo dopo il secondo mandato di Zaia». E Tosi, spiega il sindaco di Padova Massimo Bitonci, «per me è già fuori dal partito». Il sindaco di Verona non la pensa così: «Io resto nella Lega». Sul versante piazza, Salvini si prepara al sabato romano. Questa volta, sotto accusa non è la matrona romana che accoglieva nel suo grembo le uova d’oro covate dal ricco nord (lo storico manifesto leghista), ma il governo. «Manifestazione pacifica e aperta a tutti, anche a Forza Italia», assicura Salvini. Ma il clima è teso. Da una parte Casa Pound si schiera con la Lega, dall’altra si annuncia una contromanifestazione «antagonista». Pronti a intervenire cento agenti. 29 Del 26/02/2015, pag. 14 Ora il sindaco progetta il blitz su liste e alleanze Zaia: mossa contro di me MILANO La mossa di Flavio Tosi è diretta e insidiosa. E la scacchiera che lo contrappone a Matteo Salvini e al governatore Luca Zaia attende ora una risposta meditata. Il segretario della Liga (nonché sindaco di Verona) ha infatti convocato per giovedì prossimo il consiglio veneto del movimento per «discutere e deliberare eventuali alleanze, le liste e la loro composizione, così come previsto dallo Statuto». Peccato che soltanto il giorno prima il segretario federale, Matteo Salvini, avesse ribadito che «le liste le deciderà il governatore. E le alleanze, il governatore insieme con il segretario federale». E difatti ieri sera il presidente veneto ha detto: «Voglio vedere chi voterà a favore di queste liste. Perché chi lo farà voterà contro il suo governatore». Una situazione complicata e delicatissima a tre mesi dalle elezioni regionali, che preoccupa anche il presidente lombardo Roberto Maroni. Il quale, da persona «interessata al bene della Lega», ritiene che la lotta fratricida possa essere superata soltanto «facendola risolvere dal Veneto, così come prevede peraltro lo statuto della Lega». L’ex segretario leghista si dice «cautamente ottimista» sull’esito della vicenda. Anche se non nasconde che «il sentiero è stretto e la questione va risolta molto rapidamente. Prima di sabato». Per quel giorno è infatti fissata la manifestazione «Renzi a casa» organizzata da Salvini. E certamente, prosegue Maroni, «se per esempio Tosi venisse contestato dalla piazza, tutto sarebbe finito». Il presidente della Lombardia mette in guardia da un altro rischio. Per lunedì è infatti convocato un consiglio federale della Lega. Da alcuni giorni, circola la possibilità che si chieda l’espulsione di Tosi o anche il commissariamento del Veneto. Secondo Roberto Maroni, mosse del genere «sarebbero una follia». Il nodo principale continua ad essere la possibilità che alla lista Zaia si affianchino, oltre a quella della Lega, altre liste civiche, tra cui quella intestata allo stesso Tosi. Il governatore, anche in considerazione dell’antica contesa con il sindaco di Verona, non ne vuole sapere: vorrebbe dire consegnare all’avversario il potere di condizionamento. Non solo. La convocazione del consiglio veneto chiede ai segretari provinciali «di produrre... una proposta di lista» elettorale. Insomma, Zaia rischia così di ritrovarsi sostenuto da una lista Tosi fatta da Tosi. E da una lista leghista fatta ancora da Tosi, attraverso i suoi uomini. La richiesta alle Province è anche utile al sindaco per far notare il suo rispetto dei territori contrapposto alle «ingerenze» di Salvini. per i protagonisti il braccio di ferro veneto rischia di diventare una sfida per la vita. E sarà dunque richiesto loro molto sangue freddo. Il mandato di Tosi da segretario veneto scadrà il prossimo giugno e la riconferma, dopo le ultime vicende, è tutt’altro che scontata. Per Salvini la vicenda è un battesimo del fuoco da cui, senza una soluzione politica, rischia di uscire ridimensionato. In qualunque maniera la contesa finisca, la fisionomia della Lega non sarà più quella di prima. Del 26/02/2015, pag. 5 Dal turpiloquio da bar agli insulti livorosi 30 Così Matteo rottama il vocabolario di Bossi Il Senatùr portò in politica le battute ironiche delle sagre paesane Nel linguaggio dell’erede c’è la litigiosità da riunione di condominio Mattia Feltri Il mese prima di diventare segretario federale, Matteo Salvini spiegò a La7 la dimensione politica che avrebbe dato al partito: «A differenza del M5S, la Lega ha superato la fase dei vaffa». Era il novembre del 2012, e ci sta che uno, molto tempo dopo, perda le staffe se la Corte Costituzionale non gli concede il referendum abrogativo della legge Fornero: «La decisione di oggi è un grande vaffanculo. Un provvedimento del cazzo. Una decisione schifosa e vigliacca». Un vaffa può sempre scappare. Ad agosto, su facebook, Salvini era intervenuto su un altro dei punti qualificanti della politica leghista: «In Italia ci sono centomila immigrati in più. Mavaffanculo». Non è che si sta sollevando un problema di turpiloquio. A quello dovremmo averci fatto tutti il callo, e in fondo il nostro Matteo Renzi è il primo presidente del Consiglio nella storia dell’umanità che si è preso dell’«imbecille» due volte in dieci giorni, dal deputato forzista Cosimo Latronico e dal senatore Maurizio Gasparri; ed è da un paio di decenni che si producono articoli su frequenza e qualità dell’insulto, la prima ballerina della Seconda repubblica. Anzi, la Seconda repubblica cominciò (psicologicamente) alla fine degli Anni 80 quando Umberto Bossi prese a girare il Nord e a tenere comizi nei quali dava dei ladri, dei corrotti e dei mafiosi a democristiani, socialisti e comunisti, portando fuori dall’osteria le dottrine politiche più in voga. Si era tutti abituati a dibattiti televisivi fra, diciamo, Giovanni Goria e Claudio Signorile, interamente giocati su prolungamenti di pause e intrecci d’avverbi. La gente al bar che faceva? Diceva «vaffanculo», e d’improvviso lo sentì risuonare nelle piazze, nelle emittenti locali e poi in quelle nazionali, fino al Parlamento. Era il sacrilegio. La profanazione del tempio per mano di uno che pareva davanti al bicchiere di bianco la domenica a mezzogiorno: giacche a quadretti su camicie a scacchi e cravatta regimental allentata, tutto questo nell’impero della grisaglia. Una sera, da Bruno Vespa, il povero Ciriaco De Mita si avventurò in una prova di metafisica primorepubblicana al termine della quale, invitato a un commento, Bossi lo fece e fu un epitaffio: «De Mita, tàches al tram». Dopo di che Bossi fu insolente e oltraggioso, cominciò a liquidare gli interlocutori con un «deficiente» o un «pezzo di m.», minacciava di massaggiare la schiena dei magistrati con nodosi randelli, invitava le contestatrici a usare il tricolore per pulirsi «il culo», annunciava un Nord in armi e una secessione presa con la forza. Però c’era qualcosa di comicamente e consapevolmente surreale in frasi come «quel cretino di Garibaldi», qualcosa di volutamente grottesco nell’uso di «bingo bongo» come sinonimo di immigrati, c’era un’ironia campestre nella riduzione di Gianfranco Miglio a «scoreggia nello spazio». In Salvini queste caratteristiche mancano. Lui è - orrida espressione, ma molto calzante - la versione 2.0 della rozzezza leghista. In Salvini non c’è la giocosa cattiveria delle feste di piazza, c’è la predisposizione d’animo della riunione di condominio, c’è la battuta sempre rabbiosa, Angelino Alfano è «ridicolo», è «sporco di sangue», ha i «cadaveri sulla coscienza», è «senza dignità», il nostro è «uno Stato di m.», gli avversari di Putin sono «deficienti», quelli dei centri sociali sono «bastardi», quelle di Renzi sono «prese per il culo», Giuliano Amato sarebbe «un presidente del cazzo», Elsa Fornero «si vergogni e taccia, che schifo». Come se i fiumi di rancore che quotidianamente percorrono il web, e si traducono in libertà d’offesa, fossero stati incanalati da Salvini in qualcosa di meno dispersivo del mondo di Beppe Grillo: ed è la nuova piazza con i suoi nuovi tribuni. 31 del 26/02/15, pag. 5 Al via la «fabbrica» di Landini Adriana Pollice NAPOLI Pomigliano. Assemblea alla Fiat con il leader Fiom e Libera. Prima tappa della coalizione sociale. Il segretario delle tute blu: «Oltre i cancelli per una nuova politica dei diritti e del lavoro. Contro il modello MarchionneRenzi» Non la costruzione di un nuovo partito ma di una politica dei diritti e del lavoro all’interno di una coalizione sociale: Maurizio Landini ieri a Pomigliano d’Arco ha messo in fila i fatti che hanno spinto la Fiom a cercare fuori dalle fabbriche, anche oltre gli strumenti della contrattazione, sostegno e armi per contrastare il disegno che unisce il governo Renzi e Sergio Marchionne, Confindustria e la Bce. Si comincia dall’hinterland partenopeo, dove ha sede lo stabilimento Fiat Chrysler, perché è da qui che nel 2010 è partito il modello Marchionne: rinuncia alle pause, ritmi di lavoro serratissimi, azzeramento del conflitto sindacale fino all’esclusione delle organizzazioni dissenzienti, metà della forza lavoro in cassa integrazione, fuga dal contratto nazionale collettivo in cambio della promessa del rientro di tutti i lavoratori sulle linee entro il 2013. A oggi 2mila sono ancora fuori e solo metà di questi mette piede in fabbrica saltuariamente grazie al contratto di solidarietà, nessuna nuova vettura da affiancare alla Panda. Modelli differenti di lavoro: la Fiat tiene più tempo sulle linee un gruppo ristretto di operai, spremuti con turni extra anche grazie al governo che detassa gli straordinari; alla Ducati acquistata dalla Volkswagen gli operai hanno contrattato una riduzione da 40 ore settimanali a 30 in cambio di due turni in più, l’accordo ha prodotto cento assunzioni «mentre da Melfi gli operai Fiat scappano perché non reggono alla catena di montaggio — spiega Landini -. In Fca ogni quattro o cinque operai c’è un team leader che li segue, l’operaio è solo di fronte a chi rappresenta l’azienda. Questo modello di fabbrica è quello che il governo vuole replicare nella società azzerando i corpi intermedi. C’è stato un gran trambusto su quella che ho definito “coalizione sociale” perché fa paura, non vogliono che riuniamo ciò che hanno diviso». Renzi aveva liquidato Landini con un secco «ha perso nel sindacato, si dà alla politica» dopo l’intervista del leader Fiom al Fatto quotidiano, mentre la leader Cgil, Susanna Camusso, ieri ha ripetuto: «Con Landini non c’è alcuna polemica. La Cgil ha un progetto di tipo sindacale, non è nostra intenzione organizzare formazioni politiche o coalizioni sociali o altre modalità». Se l’esecutivo approva a colpi di maggioranza le ricette prescritte all’Italia nel 2011 dalla Bce (liberalizzazione dei servizi, abolizione provincie, tagli a enti locali e pensioni, licenziamenti facili, pareggio di bilancio) «ricette che hanno prodotto 25milioni di disoccupati in Europa, c’è proprio bisogno di fare politica» spiega il leader Fiom. Da Pomigliano parte la campagna per la creazione di un fondo in cui i lavoratori possono devolvere la maggiorazione dello straordinario a favore dei colleghi in difficoltà economica, a gestirlo Libera e don Peppino Gambardella, il parroco che con la Caritas sostiene già le famiglie in difficoltà. È la prima iniziativa messa in campo dopo lo sciopero del 14 febbraio contro i tre sabato di straordinario (la Fiom chiedeva un turno in più per far rientrare più operai a lavoro) a cui avevano aderito solo in cinque. Il Comitato cassintegrati e licenziati Fiat, con Mimmo Mignano, dà il proprio sostegno alla lotta della Fiom «ma Landini sbaglia 32 a levare dal tavolo l’arma dello sciopero. E’ un diritto anche quando lo esercitano in cinque, non dobbiamo farcelo togliere. Dobbiamo lottare per diventare maggioranza». Contestata invece dal comitato la Cgil, rappresenta dal segretario regionale Franco Tavella, intervenuto per rilanciare la mobilitazione contro la vendita di Alsaldo a Hitachi e la fuga di Finmeccanica dalla Campania. In sala anche i lavoratori Alenia della sede di Napoli, in via di dismissione. Il governo smantella lo Statuto dei lavoratori, con il Job Act mette soldi in tasca agli imprenditori lasciandoli liberi di licenziare, non dà il reddito di cittadinanza ma anzi tagli gli ammortizzatori sociali, non blocca la catena di appalti e subappalti che fa proliferare gli affari dei clan, allora «va bene tornare in piazza ma bisogna anche trovare nuove forme di protesta — argomenta Landini — a partire dai territori. Dobbiamo scrivere un nuovo Statuto dei lavoratori e ricorrere al referendum per abrogare le leggi sbagliate». Non è più una questione che riguarda le fabbriche ma tutti quelli che si oppongono alle politiche di Renzi, che vogliono tutelare i propri diritti e non si sentono rappresentati in parlamento. «Bisogna spezzare il ricatto continuo a cui siamo sottoposti con il paravento della crisi – conclude -, far emergere proposte su salute, lavoro, sviluppo ognuno con il proprio ruolo. Ci sono tanti “fenomeni” politici nuovi, come il superpolitico di Firenze, oppure Grillo, o altri. Io resto a fare il sindacalista». del 26/02/15, pag. 7 Stefano Rodotà “Un nuovo inizio, si fa politica anche senza partito” di Salvatore Cannavò Stefano Rodotà ha seguito con interesse la polemica nata attorno alle proposte di Maurizio Landini. Il termine “coalizione sociale” è di suo conio e qualche settimana fa, proprio con Il Fatto, aveva spiegato il senso della proposta. Dopo il clamore suscitato dall’intervi - sta del segretario Fiom, torna sull’argomento. Le sembra che quella lanciata da Landini sia una proposta politica? Assolutamente sì. Anche perché, questa “coalizione sociale”, che io stesso avevo proposto, è una formula che aiuta a fare chiarezza. Non si possono ripercorrere le vie del passato, quelle fallimentari della lista Arcobaleno, della lista Ingroia o, su altri piani, della listaTsipras. Il chiarimento migliore mi pare che sia venuto da Sergio Cofferati nell’intervista di ieri al Fatto . Cosa l’ha convinta di quella intervista? Tre elementi. Primo: dobbiamo guardare fuori dall’Italia ma né Podemos né Syriza sono modelli che possiamo importare. Secondo, il problema principale è individuare i temi e i princìpi dai quali partire per un lavoro comune. Il terzo passaggio messo in evidenza da Cofferati è che solo fatti questi primi due passi si può individuare il tema della rappresentanza e poi anche quello del leader. Fuori dai partiti, dunque? Non ho in mente un movimentismo al quadrato. Ma la coalizione sociale significa in primo luogo riconoscere quel lavoro consolidato e forte di molti soggetti che esiste già da diverso tempo e che è stato già vincente. 33 Esempi? Quando si fa riferimento a Luigi Ciotti si fa riferimento a un’esperienza, Libera, che anche con campagne come Miseria Ladra ha determinato un grande lavoro comune. Quando si fa riferimento al lavoro di Gino Strada, si fa riferimento a laboratori che già operano anche in Italia. Terzo caso possibile, i comitati per l’acqua e i beni comuni sono i più vincenti di tutti con il risultato del referendum. E la Fiom? In questo progetto la Fiom è un aggregatore che ha fatto una delle lotte più importanti per veder riconosciuti dei diritti. La sentenza della Corte costituzionale che l’ha riammessa nelle fabbriche del gruppo Fiat ha anticipato di sei mesi la sentenza che ha dichiarato illegittimo il “porcellum”. Entrambe quelle sentenze dicevano che non si può negare la rappresentanza ai lavoratori o ai cittadini. Ma a Landini si rimprovera di voler fare un partito, anche se ha sempre chiarito. Si tratta di un altro equivoco. Quando Landini dice che fa politica ma che non fa un partito, dice qualcosa che la cultura debole di questo periodo ha perduto: la politica non si chiude tutta dentro i partiti. Oggi c’è una società in cui i partiti sono diventati oligarchia e hanno espropriato i cittadini. Conferma quel giudizio di “zavorra ” che diede dei partiti alla sinistra del Pd? Qui ci sono due equivoci che vanno evitati. Il primo è ragionare in termini di ‘spazio a sinistra del Pd’. Il Pd prova a ribadire, spasmodicamente, che sta realizzando cose di sinistra ma si tratta di una excusatio non petita . Sulla base di provvedimenti come il Jobs Act o la responsabilità civile dei giudici ne viene fuori una grande restaurazione di centro. Più che uno spazio ‘a sinistra’, oggi ci sono una serie di principi e diritti che non trovano copertura politica. E l’altro equivoco? Riguarda il mondo della politica organizzata: qui siamo di fronte o a un problema di sopravvivenza (Prc e Sel) o a un problema di appartenenza (minoranza Pd). Noi invece abbiamo bisogno di un nuovo inizio. Non possiamo portarci dietro tutto quello che c’è stato nell'ambito della sinistra. Lei è critico anche con la lista Tsipras? È stata una buona occasione che non doveva essere perduta. Ma oggi abbiamo bisogno di una chiara discontinuità. Quello che lega le formazioni politiche esistenti non mi sembra adeguato alla situazione nuova. Quali saranno i primi passi di questa coalizione? È necessario che i diversi soggetti proponenti concordino un cammino che richiederà forme di contatto permanente, con la Costituzione come bussola ma calata nella lotta politica attuale. E come porsi di fronte alle elezioni? In questi anni diverse esperienze, penso a quella di Alba, sono state travolte dalle elezioni. Solo quando sarà maturato qualcosa di importante si può accettare di non tirarsi indietro. Quali sono le cose concrete da fare? Un lavoro comune potrebbe essere quello della legge di iniziativa popolare di modifica dell’articolo 81 che prevede il pareggio di bilancio. E che tempi immagina? Ragionevolmente brevi. 34 LEGALITA’DEMOCRATICA del 26/02/15, pag. 10 DI MATTEO, C’È IL PIANO B: UN CECCHINO NASCOSTO SUL TETTO NIENTE PIÙ TRITOLO. UNA SEGNALAZIONE ANONIMA AVVERTE: COSA NOSTRA CAMBIA STRATEGIA. PRONTO UN ATTENTATO IN STILE MILITARE PER UCCIDERE IL PM DI PALERMO Come nel film American sniper: un cecchino appostato sul tetto di un palazzo per eliminare Nino Di Matteo. È il contenuto della segnalazione top secret, arrivata nei giorni scorsi alla Procura generale di Palermo, e immediatamente trasmessa agli inquirenti di Caltanissetta, sull’ultimo piano di morte per il pm della trattativa Stato-mafia. Non più il tritolo, come aveva raccontato il pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo, ma un’operazione in puro stile militare mirata a eliminare chirurgicamente il magistrato bersaglio di un’escalation di minacce senza precedenti. È ANCORA allarme a Palermo in quella che da oltre due anni è diventata una vera e propria strategia della tensione: ancora una volta gli analisti dell’intelligence antimafia devono fare i conti con un progetto omicida che si presenta in una forma nuova e del tutto inedita. Martedì, nei saloni di villa Withaker, sede della Prefettura, si è svolta un’infuocata riunione del Cosp (il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza) per un’ennesima valutazione delle misure di protezione previste attorno al magistrato del pool Stato-mafia, quel cordone di sicurezza che più volte il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha definito “al massimo livello”. I vertici delle forze dell’ordine hanno studiato nuove regole per la scorta di Di Matteo, che comprende una decina di specialisti del Gis dei carabinieri, stabilendo nuovi tragitti, modificati continuamente, per impedire che i basisti di Cosa Nostra possano intercettare percorsi prevedibili e “bucare” la rete di protezione del magistrato: proprio quello che aveva pianificato di fare il cecchino mandato dai boss. Bocche cucite tra gli investigatori sull’origine della “soffiata”: si sa solo che il killer, munito di un fucile di precisione, sarebbe stato pronto a colpire Di Matteo da una considerevole distanza nei pochi secondi impiegati dal magistrato per scendere dalla jeep blindata ed entrare nel portone di una palazzina frequentata abitualmente. Tra gli elementi che hanno suscitato l’attenzione degli inquirenti, la zona scelta dal tiratore: si tratterebbe di una strada molto stretta che ricade nel territorio di pertinenza del boss Girolamo Biondino, fratello dell’ex autista di Totò Riina, e capo-mandamento della borgata di San Lorenzo, oggi detenuto. Era stato proprio lui, secondo le rivelazioni del pentito Galatolo, a comunicare al gotha di Cosa nostra l’ordine di morte per Di Matteo, arrivato con una lettera del latitante Matteo Messina Denaro, letta pubblicamente durante un summit convocato a Palermo il 9 dicembre 2012. Galatolo aveva specificato che Di Matteo doveva morire perché “era andato troppo oltre” e che a volere la sua eliminazione non era solo il boss di Castelvetrano, ma anche “entità esterne” a Cosa Nostra. Ora la scelta della zona dove far appostare il cecchino viene letta dagli investigatori come un’ulteriore conferma della credibilità del pentito dell’Acquasanta. COSA NOSTRA, insomma, non ha sospeso la sentenza di morte per Di Matteo. E mentre gli inquirenti sono ancora a caccia dei 200 chili di tritolo acquistati in Calabria per assassinare il pm e affidati al boss Vincenzo Graziano che li avrebbe occultati in un 35 nascondiglio di Palermo non ancora individuato, i killer di Cosa Nostra hanno già cambiato le loro intenzioni, studiando un piano che gli investigatori giudicano “più raffinato”. Lo stesso Galatolo aveva raccontato che i boss apparivano perplessi all’idea di eliminare Di Matteo con un’autobomba perché l’esplosione rischiava di provocare troppe vittime, suscitando una prevedibile reazione collettiva che non avrebbe certo giovato all’organizzazione criminale. Per questo motivo era stato elaborato un piano B che prevedeva, in un primo tempo, l’utilizzo di kalashnikov e altre armi pesanti per colpire a Roma, dove il livello di protezione era in quel periodo più basso rispetto a quello tenuto in Sicilia. Modalità che fu esclusa quando nel luglio 2013 il Viminale potenziò la scorta a Di Matteo, inviando al suo seguito le teste di cuoio. Del 26/02/2015, pag. 1-27 In quella reggia si capirà se possiamo dirci un Paese civile di Gian Antonio Stella «Piantatela di parlare di Carditello o siete morti». C’è una sola risposta che il governo può dare alle minacce contro Massimo Bray e Nadia Verdile, la cronista che da anni denuncia il degrado della reggia borbonica nella Terra dei Fuochi. Deve raddoppiare gli sforzi e gli investimenti e la presenza di agenti e carabinieri: la battaglia di Carditello va vinta. E la camorra deve uscirne umiliata. Ne va dell’onore dello Stato. Cosa fosse Carditello i nostri lettori, dopo vari reportage, lo sanno bene. Era la Versailles agreste dei Borbone, progettata come reggia di caccia da Francesco Collecini, braccio destro di Luigi Vanvitelli, e poi trasformata in una villa delle delizie al centro di una tenuta agricola di oltre duemila ettari bagnati dalle acque dei Regi Lagni. Un luogo magico, che spinse Goethe a scrivere affascinato che bisognava andar lì «per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra (...). La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l’aiuola di un giardino». Come sia stata trattata, quella meravigliosa residenza, è una vergogna. Prima l’abbandono dei Savoia che se n’erano impossessati, poi l’affidamento in gestione al capo della camorra locale, poi il frazionamento della tenuta col passaggio di immobili e arredi all’Opera nazionale combattenti, poi ancora l’occupazione dei nazisti e successivamente l’ingresso nel patrimonio immobiliare del Consorzio generale di bonifica del Volturno, un carrozzone sprofondato nei debiti. Il colpo di grazia, racconta Nadia Verdile nel libro La Reggia di Carditello. Tre secoli di Fasti e Feste, Furti e Aste, Angeli e Redenzioni , lo diede la politica cieca e collusa: «Nel 2008, nel pieno dell’emergenza rifiuti in Campania, il Real Sito di Carditello venne inglobato in quella che è passata alla storia con il nome di “Cittadella della monnezza”, una concentrazione di discariche collocate tra i comuni di Santa Maria La Fossa e di San Tammaro. Le due più vicine alla reggia, poche centinaia di metri, erano quelle di Ferrandelle, realizzata sui terreni sequestrati al criminale Francesco Schiavone, detto Sandokan, capo del clan camorristico dei Casalesi e quella di Maruzzella Tre, realizzata in tenimento santammarese, nell’ambito del sistema provinciale di smaltimento dei rifiuti che prevedeva la costruzione nell’area attigua di un sito di compostaggio e di un depuratore di percolato oltre al già esistente digestore anaerobico di Salerno. Accerchiato da due discariche di Stato, il Real Sito divenne, a causa del vergognoso abbandono a cui era ormai lasciato, anche discarica abusiva di rifiuti tossici e pericolosi...». 36 Finché arrivò la razzia finale, compiuta dai camorristi della zona che per anni, dopo un parziale restauro, si sono portati via tutto: dai camini ai cancelli, dai pavimenti delle altane ai marmi delle scalinate, dalle colonnine delle balaustre a brandelli di affreschi che i casalesi, nella loro animalesca ignoranza, cercarono di strappare facendo danni irreparabili. Il tutto per «ingentilire» le loro ville pacchiane nella poltiglia urbanistica della provincia casertana. Per questo Carditello è diventata un simbolo. Perché a un certo punto è stato chiaro che lì lo Stato si giocava più di una splendida reggia. E che si imponevano tre risanamenti paralleli: quello artistico e monumentale della Real Delizia, quello ecologico del territorio ucciso dai veleni, quello etico di un territorio pesantemente infiltrato dalla criminalità organizzata. E per questo tutti gli italiani che hanno a cuore il nostro patrimonio salutarono con sollievo, nel gennaio 2014, la decisione dell’allora ministro dei Beni culturali Massimo Bray di acquisire la reggia di Carditello per ripulirla, restaurarla, restituirla a nuova vita dopo decenni di abbandono. Per farne cosa? Forse una tenuta agricola modello affidata all’università e rilanciata con l’ambizione di dimostrare come la Terra dei Fuochi possa tornare all’antica vocazione. Forse un centro di eccellenza per la ricerca scientifica o altro ancora. Certo uno spazio aperto al turismo più colto italiano e internazionale. In ogni caso, uno spazio «vissuto», col concorso degli enti locali e delle associazioni anti-camorra, tutti i giorni. Così da non ripetere l’errore del passato: guai se, dopo il nuovo restauro, la reggia fosse nuovamente lasciata vuota e abbandonata alle incursioni dei vandali camorristi per anni tenuti a bada, per quel po’ che poteva, solo da Tommaso Cestrone, il volontario della Protezione Civile che dedicò gli ultimi anni di vita, nonostante le minacce e le intimidazioni e l’uccisione delle sue pecore, a proteggere quanto restava della dimora. E qui è il punto: recuperati tre milioni di euro per il restauro dal ministero dei Beni culturali ai tempi di Bray più altri due annunciati mesi fa dall’assessore al Turismo e ai beni culturali della Regione Campania Pasquale Sommese, i restauri sono finalmente cominciati. Ma si stanno accumulando ritardi sul fronte della fondazione che dovrebbe gestire il «dopo». Ritardi così pesanti, di rinvio in rinvio, da spingere quanti hanno a cuore il progetto ad essere sempre più preoccupati. E a lanciare l’allarme: attenzione, rischia di nuovo di saltare tutto. Proprio ciò che sperano quanti, giorni fa, hanno inviato al Mattino una lettera a Bray («Smettila di interessarti di Carditello o sei morto») e una alla Verdile: «Smettila di scrivere di Carditello o sei morta». Sotto, una croce. Minacce serie, per gli investigatori. Al punto che si moltiplicano le testimonianze di solidarietà che sfoceranno domenica in una manifestazione di sostegno. A chi dà fastidio l’ipotesi che la reggia sia restaurata e restituita ai cittadini? A chi continua a gestire le discariche illegali e il traffico di rifiuti tossici e punta ora sull’affare del risanamento. Che potrebbe finire nelle stesse mani di quanti seminarono i veleni. Insomma, degli imprenditori della paura e della morte. Quelli che non possono accettare che la battaglia di Carditello venga vinta dallo Stato. Esattamente il motivo per cui lo Stato deve assolutamente vincere. 37 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 26/02/15, pag. 8 Droni sulle navi militari per controllare i barconi Eleonora Martini Immigrazione . Da settembre, pattugliamenti con Apr finanziati dall’Unione europea Si chiama Hero e più che un drone classico è un mini elicottero a controllo remoto, pensato per il mercato civile, quello che da settembre sarà imbarcato sulle navi della Marina militare italiana nell’ambito delle operazioni di controllo delle frontiere marittime meridionali dell’Europa, per monitorare i flussi migratori attraverso il Mediterraneo. Si tratta di un progetto sperimentale condotto da un consorzio di forze chiamato Closeye (Collaborative evaLuation Of border Surveillance technologies in maritime Environment bY pre-operational validation of innovativE solutions), finanziato dall’Unione europea, che è stato assegnato alla Marina militare italiana, a quella portoghese e alla Guardia civil spagnola. Le quali, insieme all’Agenzia europea Frontex, a Emsa, Europol e in collaborazione con l’Aeronautica militare, sperimentano così le nuove tecnologie direttamente sul campo. «Da settembre monteremo il nostro drone su una nave della Marina che pattuglierà le coste al largo di Lampedusa sia per prevenire le stragi di immigrati in mare, sia per prevenire che i flussi migratori diventino vettori di trasporto di elementi di terrorismo», racconta Matteo Sensini, manager della Ids (Ingegneria dei sistemi) l’azienda, del gruppo Agusta Westland, produttrice di Hero, un aeromobile a pilotaggio remoto (Apr) che ha un rotore di 3,5 metri, pesa circa 150 chili, monta sensori elettro-ottici e a infrarossi che lo rendono operativo anche di notte, un radar e altri sensori «di guerra elettronica» «in grado — spiega Sensini — di rilevare la presenza di una nave nemica anche oltre l’orizzonte». Il progetto a cui partecipa la Ids rientra nella «validazione pre-operativa» di Closeye, pensata per «testare le nuove tecnologie disponibili sul mercato direttamente negli scenari operativi», continua il manager dell’Ids. «Portare un drone su una nave è cosa abbastanza complessa — dice — per i problemi di decollo e atterraggio, per la logistica, per la compatibilità e le eventuali interferenze tra i software e i sistemi radar dell’Apr e quelli della nave». Ecco perché «se il velivolo da solo ha un prezzo dell’ordine di un milione di euro, il costo sale a oltre due milioni se si considera tutto il sistema Sapr», che comprende i vari sensori montati a bordo e la ground station, che controlla il drone da terra e ne registra le attività. «Particolare assolutamente necessario in tutte le operazioni di polizia o militari — riferisce ancora Sensini — perché non si può rischiare di perdere, eventualmente, assieme al drone anche le informazioni registrate che potrebbero arrivare in mano “nemica”».Insieme a Hero, l’Ids, che «lavora nel settore della difesa e della sicurezza da oltre trent’anni», imbarcherà sulla nave militare anche un pilota, un “operatore del sensore” e un tecnico manutentore, addestrati dalla stessa casa produttrice a gestire quel particolare modello. Per fare esattamente cosa è presto detto: «Di solito l’intelligence, tramite rilevamenti satellitari, è in grado di registrare nuovi addensamenti di persone lungo la costa nordafricana e dunque può allertare le autorità marittime di una probabile imminente partenza di migranti — racconta Sensini — Ma poi, siccome le nostre navi si tengono più lontane dalle coste nordafricane da quanto Triton ha preso il posto di Mare nostrum, quello 38 che è difficile scoprire è se e quanti natanti sono eventualmente partiti, e dove stanno andando». I droni come Hero, però, con i loro motori a scoppio possono allontanarsi dalla nave di un centinaio di chilometri circa, e montano radar e sensori in grado di registrare eventi distanti altrettanto, senza parlare dei moduli di «guerra elettronica» che si spingono anche molto oltre. Quindi il raggio di azione con gli Apr può arrivare a oltre 200 chilometri, senza inoltrarsi troppo in acque internazionali. 39 DIRITTI CIVILI del 26/02/15, pag. 1/37 È caposala al Careggi di Firenze, cattolico praticante, e ogni anno - dice - nel suo reparto si spengono le macchine per 30-40 malati terminali “La legge lo vieta, ma ce lo chiedono i familiari. Così tra loro e i medici si stringe un patto di buon senso: perché in Italia deve restare un segreto?” “Io, infermiere vi racconto l’eutanasia silenziosa nei nostri ospedali” MATTEO PUCCIARELLI FIRENZE . Come possiamo definirla? «“Eutanasia silenziosa”. Per noi è un fatto di tutti i giorni. Lo affrontiamo con grande difficoltà, ma sicuri di fare sempre la cosa più giusta», dice Michele (lo chiameremo così). Una laurea, la specializzazione, il master, la carriera infermieristica, oggi è caposala all’ospedale Careggi di Firenze. Ha voglia di raccontare quello di cui, chissà se per pudore o se per una congiura del silenzio, nessuno parla mai. E di farlo evitando la politica, «ma con il buonsenso di chi sta in prima linea». Premessa: Michele non è ateo, anzi, è un cattolico praticante, va a messa due volte alla settimana. Sorride di questa apparente contraddizione, «ma qui Dio non c’entra nulla. Sono un professionista, ho studiato. Se teniamo in vita artificialmente un paziente, siamo noi che ci stiamo sostituendo a Dio...». Ogni anno, in un grande reparto come quello dove lavora Michele, medici, infermieri e operatori sanitari hanno a che fare con almeno 30-40 casi di persone sospese in una terra di mezzo dove il confine tra cosa è eutanasia e cosa no è sottilissimo. «Dal punto di vista normativo siamo obbligati a nutrire e idratare anche un vegetale. In queste condizioni un paziente può andare avanti per mesi, o anni», spiega. Un po’ come avvenne con Eluana Englaro: «Ho perso il conto di quanti malati ho visto così. E da fuori, quando si sta bene, non ci si rende conto di quanto sia facile ritrovarsi in quelle condizioni. Il caso Eluana ci diede una lezione: nessun riflettore, silenzio sulla materia con l’esterno. Poi però mi chiedo se è giusto omettere la verità». Appunto, la verità: parenti e dottori sanno capirsi, a volte basta uno sguardo di intesa, di comprensione, di compassione. «Formalmente il medico non può dire “va bene, stacco la macchina” a chi ci chiede un intervento di questo tipo. Ma fa intendere che c’è la possibilità di non accanirsi. Bisogna saper comunicare un concetto ma senza esprimerlo fino in fondo. Tocca fare gli equilibristi con le parole». Ci sono farmaci che tengono su pressione arteriosa e funzionalità respiratorie: «Smettiamo di darli, per esempio. Non facciamo più le cosiddette procedure invasive. Se non c’è alcuna possibilità di ripresa, che senso ha?». Uno degli ultimi casi è avvenuto pochi giorni fa: un uomo di 54 anni con problemi di cuore. Un violento edema, le attività cerebrali azzerate. «Abbiamo aspettato due giorni. Ci siamo confrontati coi familiari, la compagna e la madre; i valori non ci lasciavano dubbi. “Non ci sono spiragli. Insistiamo?”. In pochi rispondono di sì, morire a volte è una liberazione». Insistendo, invece, quanto sarebbe restato ancora in vita? «Questione di giorni, al massimo due settimane». Spesso le famiglie sono preparate all’eventualità della morte di un congiunto: «Dipende sempre dal male che hanno di fronte. Se c’è un’operazione complicata davanti, per dire, capisci che si sono confrontati anche 40 con il caro, magari un’ora prima di entrare in sala. Sempre sottovoce: noi ce ne accorgiamo che stanno parlando dei “se”». Quel confine in realtà è pericoloso per chi ci lavora a cavallo: «Avessimo lo scudo del testamento biologico, sarebbe tutto più semplice. Capita che un parente ci faccia capire qualcosa e poi cambi idea. Ed è normale, perché subentrano sentimenti e paure, sensi di colpa, la speranza dell’impossibile o del miracolo. Oppure non tutta la famiglia è d’accordo, i genitori ad esempio tendono a non rassegnarsi, generi o nuore invece sono più pragmatici. Ma in tutto questo, tu medico da chi sei tutelato? Ci prendiamo dei rischi enormi ». Viene da chiedersi chi glielo faccia fare, ma Michele anticipa la risposta: «Sembrerò crudo, ma un posto letto in un reparto come il mio potrebbe servire a chi ancora, invece, ce la può fare». Fin qui però nessuno ha parlato di iniezioni letali, la Svizzera o le invasioni barbariche sono lontane. «Tra colleghi siamo tutti d’accordo, non c’è fede che tenga. Nei turni di notte parliamo: “Se capitasse a me e vedete che non c’è niente da fare, datemi una botta di morfina”. Però non so se avrei il coraggio di farlo io a un amico senza uno scudo giuridico», continua Michele, e abbassa lo sguardo per la prima volta. La questione è ancor più aperta in reparti come oncologia: lì la linea di demarcazione è molto più chiara, non ci sono ambiguità: «So solo che sarebbe bello dare la possibilità alle persone di scegliere quando andarsene. Scegliere di morire in maniera degna, in condizioni dignitose, lasciando un bel ricordo di sé agli altri». Non sarebbe complicato fare un primo passo: «C’è già adesso la possibilità di avere un tesserino che certifica la volontà di donare gli organi — ragiona Michele — perché non prevederne uno per il fine vita?». Domande senza una risposta, o forse sì, poco importa: «Prima il medico o un prete erano considerati i padroni della vita o della morte. Oggi non ci sono più tabù: il malato sa che ha dei diritti, compreso quello di gestire per sé anche l’ultimo passaggio». 41 BENI COMUNI/AMBIENTE del 26/02/15, pag. 43 Lo studio: così la moria di api e altri impollinatori spoglierà alberi e campagne Ambiente 2100, il mondo senza fiori la strage di insetti fa appassire la Terra ELENA DUSI SE VEDIAMO il mondo a colori è anche perché un’ape ha impollinato un fiore. Alla crisi degli insetti impollinatori che sbiadisce le nostre campagne l’Unione Europea ha dedicato un progetto che sta per concludere i suoi cinque anni di attività. Non è solo alla poesia dei colori, ma anche al valore economico dell’impollinazione che 15 Paesi e 21 istituzioni del programma Step si sono in realtà dedicati. «L’84% delle specie agricole europee trae beneficio da questi insetti e il 78% dei fiori selvatici nelle aree temperate ha bisogno di impollinazione » scrivono i ricercatori europei che hanno appena pubblicato il loro ultimo atlante sul declino dei bombi causato dal riscaldamento climatico sulla rivista Biorisk. In una ricerca precedente, gli autori di Step avevano calcolato che senza impollinatori scomparirebbe il 50% della vitamina A consumata in alcune aree del mondo, oltre al 15% di ferro e vitamina B. «Parlando di impollinatori pensiamo alle api da miele, ma ci sono tante altre specie non meno importanti» spiegano Antonio Felicioli, biologo dell’università di Pisa, e Marino Quaranta del Consiglio per la ricerca in agricoltura, membri italiani di Step. I bombi per esempio sono presenti in Europa in 56 diverse specie, ma il riscaldamento climatico rischia nel peggiore dei casi di portarne 25 all’estinzione entro il 2100. Per l’agricoltura si tratterebbe di una perdita enorme: gli impollinatori oggi sono essenziali per una produzione annua pari a 22 miliardi di euro, il 10% del valore delle coltivazioni in Europa. Nel mondo questa cifra raggiunge addirittura i 190 miliardi di euro. Una volta tanto in Italia la situazione è meno problematica rispetto al Nord Europa. «Nel nostro Paese le specie di Apoidei impollinatori sono un migliaio. In Gran Bretagna sono circa 250 e in Germania circa 500» proseguono Felicioli e Quaranta. Oltre ad aver identificato le aree di crisi in Europa, il progetto Step ha anche stilato una “lista rossa” degli Apoidei pronubi a rischio estinzione. Le specie di api native del nostro continente sono 1.951, di cui 7 classificate come “in grave pericolo”, 46 “in pericolo” e 22 “minacciate”. «Quando parliamo di animali a rischio estinzione pensiamo sempre ai mammiferi per una questione di somiglianza ed empatia. Ma anche gli insetti impollinatori meritano la nostra preoccupazione. Addirittura non c’è motivo perché non vengano considerati animali da compagnia» proseguono Felicioli e Quaranta. Alcune aziende in effetti hanno già messo in vendita delle casette per ospitare le api selvatiche in giardino, piantando anche semi specifici per nutrirle meglio. Ma i problemi che gli impollinatori devono affrontare oggi sono ben altri: «Da novembre in Italia abbiamo già registrato due nuove emergenze: un coleottero parassita e una vespa predatrice delle api mielifere» spiegano Felicioli e Quaranta. «Un’agricoltura meno estensiva, che usi meno pesticidi e dia più spazio alle siepi e ai fiori selvatici aiuterebbe molto gli insetti. Ma sull’altro versante ci sono anche coltivatori che ci chiedono delle colonie di api per migliorare le rese dei loro campi». Anche nei Paesi in cui il declino degli impollinatori è 42 meno marcato, come in Italia, il programma Step ha registrato che le esigenze di impollinazione di molte colture crescono a un ritmo troppo rapido, con le piccole api che faticano a farvi fronte. Tra il 2005 e il 2010, si è calcolato, avrebbero dovuto volare cinque volte tanto per mantenere intatti tutti i colori della nostra campagna. del 26/02/15, pag. 12 Energia. La Centrale ligure inizia la settimana prossima a svuotare il magazzino di carbone da 200mila tonnellate Tirreno power pianifica lo stop Gaz de France smentisce di voler abbandonare Vado ma aspetta modifiche all’Aia La Tirreno Power svuota il magazzino a prezzi di realizzo. La prossima settimana comincerà lo sgombero di una prima parte del piazzale (il carbonile) coperto dalle 200mila tonnellate di carbone che fino a un anno fa — la centrale è chiusa per decisione della magistratura di Savona dal marzo 2014 — alimentavano la centrale elettrica di Vado Ligure. La conclusione cui molti sono arrivati è che la società controllata dal gruppo francese Gaz de France Suez ha deciso di arrendersi e smobilita per non riaprire più. Conclusione forse sbagliata: l’azienda smentisce ogni forma di disimpegno e semplicemente quelle 200mila tonnellate di combustibile sono inutilmente abbandonate da un anno sotto le intemperie. La centrale savonese è sotto inchiesta: a dispetto delle smentite della scienza, la procura di Savona pensa che l’inquinamento prodotto dalla ciminiera abbia fatto strage, centinaia di persone, e l’inchiesta ha portato non solamente allo spegnimento degli impianti un anno fa ma anche a interventi diretti della procura nel procedimento tecnico, scientifico e amministrativo di autorizzazione dell’impianto. Nel procedimento amministrativo le pressioni fortissime dei magistrati non sono l’unica intrusione: con invasioni di campo intervengono politici, associazioni e comitati nimby. Ieri a Roma si è svolta l’ennesima puntata del “tavolo tecnico” fra ministeri (Ambiente e Sviluppo economico in prima linea), istituzioni locali e azienda. Il Movimento 5 Stelle protesta: «Che senso ha questo tavolo se l’Autorizzazione integrata ambientale è stata già firmata non più tardi di due mesi fa?». Secondo i parlamentari liguri del partito, «evidentemente il ministro Galletti vuole trovare a ogni costo il modo per consentire alla centrale a carbone di riaprire e ricominciare a inquinare esattamente come prima». L’azienda chiede ritocchi a un’autorizzazione che reputa inapplicabile. Per esempio vuole che i tempi dei lavori per ridurre l’impatto della centrale sull’ambiente partano dal momento in cui gli impianti saranno liberati dal sequestro. Il 31 dicembre scorso il ministero dello Sviluppo economico ha autorizzato la costruzione dell’immensa volta che dovrà coprire il carbonile e in contemporanea il ministero dell’Ambiente ha imposto all’azienda di costruire l’edificio colossale nei prossimi 15 giorni. Alla Tirreno Power, l’autorizzazione rilasciata dall’Ambiente pare così inapplicabile da meritare un ricorso al Tar Lazio, ricorso che è stato presentato ieri. Il Terminal rinfuse, che scaricava dalle navi il carbone, con il sequestro della centrale ha chiuso l’attività; senza navi, per vuotare il piazzale servirebbero 8mila viaggi di camion. La prima parte dell’operazione impiegherà 600-700 carichi. I comitati nimby già protestano per l’intollerabile inquinamento da gasolio che, dimostrano le rilevazioni dell’Arpa, è fra le prime cause dello smog di una città dall’aria fra le più salubri d’Italia. Dove andrà il 43 carbone? Difficilmente alle centrali Enel di Genova e La Spezia, obbligate a un combustibile di tipologia diversa. I dipendenti della Tirreno Power sperano che sia una manovra temporanea. Ma la centrale è già negli elenchi delle centrali fuori mercato e la società martedì ha annunciato una perdita di 384,4 milioni di euro tra il 2013 e il 31 ottobre 2014. del 26/02/15, pag. 1/15 Una nuova primavera referendaria Corrado Oddi Siamo entrati in una situazione di forte movimento, sociale e politico, che tratteggia un quadro assai diverso, anche solo rispetto ad un anno fa, aprendo una prospettiva di lavoro unitario a sinistra. Intanto la vittoria di Tsipras in Grecia apre in Europa una partita che, per la prima volta dall’emergere della Grande crisi, può mettere in discussione la linea dell’austerità e dell’ossessione del debito che ha da sempre guidato le politiche nell’Unione europea. E in Italia Renzi ha compiuto la mutazione genetica del Pd, partito pigliatutto. Il renzismo ha ricopiato una leadership dell’uomo solo al comando, forte ma non stabile, e soprattutto consumato un divorzio ormai irreversibile tra il Pd e il “popolo di sinistra”, reso ben visibile dallo sciopero generale da parte della Cgil e della Uil del 12 dicembre e dall’altissimo astensionismo nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Per fortuna, in quest’ultimo anno, anche a sinistra c’è fermento, magari in modo un po’ confuso. Si avverte la necessità di rimettere in moto un processo di ridefinizione e ricostruzione di un pensiero e di un’iniziativa alternativa alle politiche neoliberiste del nascente “partito della nazione” e ci si interroga sulla soggettività che potrebbe darle gambe. Pur con limiti e contraddizioni, l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras, ha avuto il merito di individuare il campo europeo come terreno della battaglia politica e sociale e prodotto un’attivazione significativa di forze ed energie nei territori. Alla quale partecipano, sia pure in modo differente, anche i soggetti politici che si collocano a sinistra del Pd, Sel e Rifondazione comunista. Ci si interroga, nel mondo della sinistra sociale, quella che, per intenderci, va dalla Fiom all’associazionismo impegnato e a settori significativi di intellettualità diffusa, su come continuare il contrasto alle politiche economiche, sociali e istituzionali del governo, iniziando a porsi il tema del rapporto con la rappresentanza politica, certamente a partire dalla propria specificità e con ancora troppa timidezza, ma, mi pare, con un approccio per cui ormai questo nodo non può più essere saltato a piè pari. Continua a vivere un’esperienza importante dei movimenti sociali, da quello impegnato per il diritto all’abitare a quello dell’acqua, dalla coalizione che ha dato vita allo sciopero sociale del 14 ottobre a quella che ha costruito la campagna di opposizione al Ttip, dal movimento per la scuola pubblica ai NoTav, che certamente oggi sembrano complessivamente più collocati su un terreno di resistenza rispetto all’offensiva di attacco ai diritti sociali e ai beni comuni portata avanti con lucidità dal governo, ma che costituiscono tuttora una risorsa di intelligenze ed energie fondamentali per ricostruire una prospettiva di alternativa nel Paese. E tuttavia, non si sfugge all’impressione che tutto ciò non sia ancora sufficiente per dare corso ad un processo riaggregativo che superi la frammentazione dell’iniziativa politica e sociale a sinistra e a farlo con la necessaria discontinuità che i fatti impongono. 44 Le stesse ultime proposte emerse dall’Assemblea nazionale della lista Tsipras di metà gennaio e da Human Factor di Sel, di dar vita ad un processo e ad una sorta di coordinamento dei vari soggetti che si muovono a sinistra del Pd, e quella lanciata dalla Fiom e da Rodotà di produrre una nuova “coalizione sociale” di contrasto alle attuali scelte di politica economica e sociale, rischiano di muoversi su terreni paralleli e di riprodurre un’antica e negativa contrapposizione tra sfera sociale e sfera politica, proprio quando il tema di fondo oggi, invece, è proprio quello di ragionare della necessaria contaminazione tra esse, nel momento in cui siamo in presenza di una trasformazione nelle società contemporanee del ruolo della politica, per cui alla politicizzazione della società non può che corrispondere la socializzazione della politica. Del resto, sono i fatti ad indicare che siamo già entrati in questo nuovo scenario, nel quale le aggregazioni sociali giustamente rivendicano la propria autonomia e le soggettività politiche, se vogliono rispondere al tema della crisi della rappresentanza, come ci insegnano le esperienze di Syriza e Podemos, devono riscoprire la questione dell’essere “produttrici di società”. Allora, conviene ripartire dai contenuti, prima ancora che porsi il problema del contenitore. In primo luogo, la battaglia per un’altra Europa, a partire dal fatto, fondamentale, di far parte di quell’arco di forze che sostiene l’esperienza del governo greco. E, assieme, il contrasto e la prospettazione di un’alternativa alle politiche economiche, sociali ed istituzionali del governo Renzi. Si può decidere di ripartire da qui, con la convinzione che tutto ciò non può che vivere se non attraverso un’iniziativa diffusa nella società e dando pari dignità a soggetti sociali e politici che si ritrovano in quest’ipotesi di lavoro, una sorta di coalizione sociale e politica in progressiva costruzione. Che potrebbe muovere i suoi passi, per esempio, convocando una manifestazione nazionale (da far poi vivere nei territori) per il lavoro e contro il Jobs act, per il Welfare e i beni comuni, contro i tentativi della loro privatizzazione, per la democrazia e la sua estensione. Che dovrebbe prendere in considerazione l’idea che, a primavera, si possa lanciare una forte iniziativa referendaria, con caratteristiche innovative anche rispetto a quella del 2011, sia per il suo profilo politico, nel senso che ora occorre investire, in modo selezionato ma chiaro, l’insieme delle scelte di fondo del governo, dal Jobs act alle privatizzazione dei servizi pubblici, dalle pensioni ( riformulando, ovviamente, i quesiti) alla scuola, sia nella promozione dell’iniziativa, da affidare ad un campo di forze sociali e politiche che la condividono, su un piano di pari dignità. Infine, che lanci un lavoro di iniziativa e azione sociale, da far vivere nei territori, che provi a costruire forme di autogestione e mutualismo sociale nel Welfare e nella gestione dei servizi pubblici, in una logica di espansione della democrazia e delle sue forme. Non mi pare così difficile immaginare e costruire elementi di convergenza tra i vari soggetti sociali e politici che condividono quest’ispirazione, che si muovono in una logica di costruzione di un’alternativa di governo e di sistema, che, soprattutto, ragionino con la priorità di costruire un programma comune di lavoro, andando al di là dal discettare tra coalizione sociale e soggettività politiche, che, in questo contesto, rischia di diventare tema astratto e poco utile. Sarà un processo complesso e probabilmente non del tutto lineare, ma vale la pena provarci e iniziare perlomeno una riflessione a più voci (magari proprio su queste pagine) sui nostri temi e sull’esigenza, non più rinviabile, di costruire un futuro di riunificazione per le tante sinistre di questo Paese. 45 INFORMAZIONE del 26/02/15, pag. 2 Opa Mediaset su RaiWay ma il governo la blocca “Il 51% resta pubblico” Guidi: “La legge lo impedisce, infrastrutture strategiche” L’offerta è sul 100% delle azioni per un valore di 1,2 miliardi GIOVANNI PONS MILANO . Il governo blocca la scalata del gruppo Berlusconi alle torri della Rai. Con un comunicato effettuato a Borsa chiusa il ministero dello Sviluppo Economico ha ribadito che, «anche considerata l’importanza strategica delle infrastrutture di rete, un Decreto del premier del 2 settembre 2014 ha stabilito di mantenere in capo a Rai una quota nel capitale di Rai Way non inferiore al 51 per cento». E dunque l’Opa (Offerta pubbica di acquisto) lanciata nella mattinata di ieri dalla società Ei Towers, controllata indirettamente al 40% da Mediaset, sul 100% delle azioni di Rai Way per un valore complessivo di 1,2 miliardi di euro, cade nel vuoto. La società che raggruppa le torri di trasmissione dell’emittente pubblico era sbarcata in Borsa lo scorso novembre, attraverso il collocamento presso gli investitori del 35% delle sue azioni. E l’operazione è stata considerata come una delle poche privatizzazioni andata a buon fine nel corso del 2014. Non a caso, nel suo comunicato, il governo esalta quella scelta alla luce dell’interessamento di oggi da parte di Ei Towers. «L’offerta pubblica per Rai Way conferma l’apprezzamento da parte del mercato della scelta compiuta a suo tempo dal governo di valorizzare la società delle torri della Rai facendola uscire dall’immobilismo nel quale era confinata. La quotazione in Borsa si è rivelata un successo», scrive il Mise. Appare comunque evidente che un’offerta di questa portata, giunta dal principale concorrente della Rai, avrebbe sollevato un vespaio, soprattutto se arriva alla vigilia di un annunciato provvedimento legislativo che dovrebbe riguardare proprio il riordino del servizio pubblico televisivo. «Tutto questo può avvenire esclusivamente perché in modo irresponsabile o magari premeditato il governo ha costretto la Rai a fare cassa in tempi rapidi dopo aver tagliato 150 milioni di euro a copertura del decreto Irpef (80 euro) e contestualmente indicando la quotazione in borsa di Rai Way», denuncia il grillino Roberto Fico, presidente della Commissione di vigilanza della Rai. Mentre l’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani, in un tweet, ha collegato diverse operazioni promosse in questi giorni dal gruppo Fininvest: «Prima Mondadori-Rcs, poi Mediaset-Raiway: ora aspetto che il Milan compri l’Inter». In effetti per lunedì è già stato convocato il cda di Rcs Mediagroup che deve discutere dell’offerta arrivata da Mondadori per l’acquisto di Rcs Libri. Ma anche lì gli azionisti sono divisi sul da farsi e non è escluso che la decisione finale ricada sulle spalle del nuovo consiglio che si insiederà ad aprile. Resta da capire fino in fondo la logica del lancio dell’Opa su Rai Way senza un preventivo accordo con la società bersaglio e con il governo per il buon esito dell’operazione. Forse gli uomini del Biscione pensavano che la bontà dell’offerta sotto il profilo della valutazione avesse potuto far breccia sul governo Renzi che ha nel suo programma una serie di privatizzazioni. La Jp Morgan, grande banca americana al fianco di Ei Towers, ha scritto che il prezzo offerto è pari a 12 volte il margine operativo lordo del 2015 di Rai Way, e che tale valutazione è superiore a quelle delle altre operazioni riscontrate negli ultimi tempi nel settore. E infatti i prezzi in Borsa dei titoli coinvolti hanno riscontrato forti rialzi: Mediaset +1,35%, Ei Towers +5,26% e Rai Way +9,46%. In ogni caso l’operazione dovrebbe essere 46 anche vagliata dall’antitrust che nel 2011 analizzò la fusione tra Elettronica Industriale e Dmail che diede vita proprio a Ei Tower, primo operatore nella trasmissione televisiva. del 26/02/15, pag. 1/3 L’affare del secolo, le telecomunicazioni Vincenzo Vita Monopoli a catinelle. Dopo l’affondo di Mondadori che intende mangiarsi la Rizzoli, dopo lo strabiliante annuncio di rivedere l’assetto della Rai con un decreto-legge (l’alta Corte ha sostenuto il contrario) con tanto di strali rivolti alla Presidente della Camera, ecco il colpo del secolo. E sì, perché l’annunciata offerta pubblica di acquisto (Opa) da parte della società degli impianti tecnici di Mediaset (Ei Towers) dell’omologa azienda della Rai (RaiWay) ha il sapore dello scacco matto. Il futuro del sistema è e sarà surdeterminato sempre di più dalla proprietà fisica dei media e delle diverse piattaforme di trasmissione dei messaggi. In vista della definitiva e compiuta maturazione dell’intreccio tra i vecchi mondi delle telecomunicazioni e della radiodiffusione nell’unificante territorio della rete, chi ha in in mano la “materia prima” ha il comando in ultima istanza. Tant’è, che nei paesi dove la regolamentazione è rigorosa (in Italia siamo al di sotto di ogni sospetto, com’è noto) è netta la distinzione tra i produttori dei contenuti e i “carrier” che trasmettono i segnali. Per intenderci, ora che tardivamente – ma si vorrebbe agire a tappe forzate– si delinea un piano per la banda larga e ultralarga, torri e dorsali sono il vero oro nero. Privarsene è assurdo. E’ come (s)vendere i gioielli di famiglia. Ecco perché, quando nel giugno del 2014 fu convertito in legge il decreto n.66 che all’articolo 21 permise la vendita di quote di RaiWay, si levarono voci critiche, a cominciare dalle organizzazioni sindacali. Ma l’ansia di rifarsi dal taglio imposto dal governo di 150 milioni di euro al canone fece forse perdere di vista i rischi connessi alla quotazione in borsa della società, avvenuta poi nel novembre scorso. L’Opa di oggi ha le sue origini in una scelta che obiettivamente esponeva l’azienda a potenziali scalate. Hic Rhodus, hic salta: questo è il capitalismo, dove i buoni si mischiano spesso con i cattivi e viceversa. E’ pur vero che la Rai decise di quotare solo il 35% delle azioni, tant’è che Ei Towers vuole al minimo il 66%. Ma chi fermerà l’assalto al forziere tecnologico pubblico? Il decreto del Presidente del consiglio dei ministri seguito alla legge dice nelle premesse –è vero– che il 51% deve rimanere in capo alla casa madre, ma un Dcpm pare una ben fragile barriera rispetto all’ardore di una conquista così significativa. Infatti, c’è una vera smentita ufficiale? Del resto, ci ricordiamo la vicenda di Telecom? Anche allora si discettava di maggioranze pubbliche e di “golden share”, ed è finita come si sa. A proposito di Telecom, viene il legittimo sospetto che in filigrana si stagli proprio l’antico incumbent delle tlc italiane. E’ l’oggetto del desiderio di Mediaset, che potrebbe accasarsi prima o poi nei lidi dell’oceano grande, uscendo dal mare piccolo e impoverito della televisione generalista. Tra l’altro l’“uno-due” di Mondadori-Rcs e Ei Towers-Raiway fornisce una chiave di lettura a fatti come la vendita di pezzetti di Fininvest per il bell’ammontare di 377 milioni di euro. Siamo ad una svolta. Se passa l’Opa il duopolio diventa di fatto un monopolio proprietario, con un inquilino pubblico che paga l’affitto. Quale riforma della governance della Rai si varerà mai, se il biscione prende il posto del cavallo davanti a viale Mazzini di Roma? Le Autorità competenti (Antitrust, Consob, Agcom) e il Ministero dell’economia batteranno un colpo? Il silenzio non è degli innocenti. 47 Del 26/02/2015, pag. 1-40 Il conflitto di interessi che acceca noi e le tv di Daniele Manca Si parla di conflitto di interessi. Ma di fronte all’operazione Mediaset-Rai Way occorrerebbe discutere di opportunità, investimenti, piani industriali. L’operazione Mediaset-Rai Way è scivolosa secondo molti osservatori e piena di sfaccettature non sempre visibili che rivelano aspetti a volte poco edificanti del nostro Paese. Dal punto di vista industriale è una di quelle idee che dovrebbero spingere a fare il più presto possibile. Si tratta di creare un’infrastruttura tecnologica che permetta a chi vuole offrire servizi televisivi di disporre di una rete per farsi concorrenza sul terreno dei prodotti, della qualità e dei prezzi. Un campione nazionale, di quelli che in altri Paesi sono così scontati da essere definiti dalla teoria economica dei «monopoli naturali» come i binari delle ferrovie. Finiremo invece per discutere di quello che è ritenuto l’ingombrante azionista che controlla Mediaset: Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Un nome che non può non provocare reazioni. Una per tutte, quella dell’ex leader del Pd Pier Luigi Bersani: dopo Mondadori-Rcs ora mi aspetto che il Milan compri l’Inter. Come è accaduto negli ultimi venti anni, possiamo stare certi che le disquisizioni più o meno accalorate attorno a tutto ciò che anche lontanamente riguarda le tv sono pronte ad avvitarsi sull’eccesso di potere dell’ex premier. È lecito quanto doveroso farlo in una democrazia: si parla di potenziali conflitti di interessi. Peccato che nessun partito, e segnatamente quelli che oggi sembrano più preoccupati del potere di un imprenditore che fa politica, abbia voluto mai affrontarlo in questi anni e in questi mesi se non tramite appassionate dichiarazioni. Curiosamente sono le stesse forze altrettanto preoccupate del fatto che il premier voglia arrivare a una riforma della Rai. E che, ancor più curiosamente, invece di preoccuparsi di che cosa mettere dentro un possibile riassetto della tv pubblica, sono pronte a dividersi se esso vada fatto per decreto o con un disegno di legge. Per l’ennesima volta mostriamo di essere un Paese molto attento alle forme, pronto a legiferare più per poter dire «abbiamo fatto la legge» che non per incidere sulla realtà. Chiedersi se Mediaset possa o meno fare l’offerta lo dimostra. Tra società quotate, l’offerta pubblica di acquisto è la strada trasparente e di legge per poter agire nell’ambito delle aziende che sono in Borsa. Un’operazione di mercato alla luce del sole, della quale possano beneficiare soci di maggioranza o di minoranza. Sempre che si voglia o meno fare. Il governo ha confermato ieri che esiste un decreto di Palazzo Chigi del 2014 nel quale si affermava il fatto che il socio pubblico non doveva scendere sotto il 51% di Rai Way (pur non dicendo se quella sia ancora oggi la volontà del governo). La generosità dell’offerta (oltre il 50% superiore al prezzo di collocamento della società, il 22% rispetto ai prezzi attuali) è subordinata a ottenere la maggioranza. Si vedrà come intenderanno muoversi ora i vertici di Rai e Mediaset. Apparentemente sono stati accontentati quelli che volevano bloccare l’espansionismo Fininvest. Ma evitando così la domanda industriale: ha senso che ci sia un operatore unico che possieda le torri trasmissive (non si sta discutendo delle tv) sull’esempio di altri Paesi? E se così fosse, perché la Rai non fa una contro offerta a Mediaset? Ma in questo caso la politica dovrebbe fare un salto di qualità che probabilmente non ha voglia (o capacità?) di fare. La scelta del controllo pubblico su una parte della rete (magari anche con duplicazioni) quali equilibri o poteri garantisce? Se la Francia — governata oggi dai socialisti — e la Spagna — dai conservatori — hanno scelto l’operatore unico privato, perché lo hanno fatto? Tanto più che il governo sta per 48 procedere a privatizzazioni che non possono scontare sul mercato la diffidenza nei confronti delle imprese non pubbliche. Anche in questa vicenda i partiti stanno mostrando diffidenza e scarsa fiducia nelle istituzioni da loro stessi create e regolate. Esiste un Antitrust che dovrebbe garantire il rispetto di una corretta concorrenza, una Consob che controlla la Borsa e tutela il risparmio, un’Agcom posta a vigilare sul settore televisivo. Sono loro che dovrebbero garantire il cittadino sul corretto svolgimento delle attività economiche secondo le regole stabilite dal parlamento. Bisognerebbe dibattere di fatti, opportunità, investimenti, visioni di lungo periodo, di come l’Italia possa reggere la competizione in Europa e nel mondo. Certo, discussioni e confronti più difficili di un talk show televisivo dove, con poca fatica, ci si può dividere sul fatto che Berlusconi stia diventando o meno troppo potente. Del 26/02/2015, pag. 1-9 Tutte le ipocrisie di un falso pluralismo di Milena Gabanelli Riassetto della Rai: per la prima volta, dalla caduta del muro di Berlino, un direttore generale ci sta provando. Il modello di riferimento è il migliore: la Bbc. «Nessuno fermerà la modernità, fuori i partiti dalla Rai», tuonò il premier. Furono fischi, e applausi. Io applaudo, non perché i partiti siano «cattivi», ma perché decidono indirizzo e governance di un’azienda sulle cui caratteristiche capiscono poco. Fra i 40 senatori e deputati, membri della commissione parlamentare di Vigilanza, in cui sono rappresentati tutti i partiti in proporzione ai voti ricevuti, troviamo dirigenti di partito, imprenditori, architetti, impiegati, sindacalisti (Epifani) ex ministri (Gelmini, Brunetta, Gasparri), e qualche raro giornalista con esperienza di ufficio stampa. Garantiscono la lottizzazione (che chiamano pluralismo) ma come tutelano il contribuente che paga il canone? Che competenze hanno per orientare i contenuti delle trasmissioni e dell’informazione? Ora il direttore generale della Rai decide che per entrare nella «modernità» bisogna riorganizzare l’azienda, ridurre costi e dirigenze, differenziare il prodotto e renderlo più competitivo. Si comincia con i telegiornali. Nessuna tv pubblica al mondo ne ha tre, con tre organizzazioni autonome declinate per influenza politica. Gubitosi ha deciso di accorpare e il modello di riferimento è quello considerato il migliore su scala planetaria: la Bbc. Si studiano gli aspetti di razionalizzazione tecnica: gli anglosassoni hanno creato una unica newsroom per la raccolta delle notizie e il coordinamento dei mezzi e dei giornalisti sulle diverse piattaforme. In pochi anni hanno ridotto i costi del 20%, eliminato 50 dirigenti intermedi, e sono diventati imbattibili nella qualità dell’offerta. Alla commissione parlamentare di Vigilanza questa «rivoluzione» non piace subito e ne vogliono capire di più. Lo scorso dicembre convocano in audizione la signora Anne Hockaday (lungo passato da corrispondente per la Bbc, ora responsabile della newsroom) per farsi spiegare come funziona da loro questa novità. Il collegamento con Londra cade continuamente, la signora parla, ma in aula non si sente quel che dice. Alla fine la commissione decide di inviare le domande per email. Prima domanda dei nostri: «Come fate a garantire il pluralismo informativo con una sola newsroom?» Risposta: «Noi abbiamo una sola newsroom che organizza e supporta il lavoro dei giornalisti per metterli in grado di interagire sulle diverse piattaforme con la miglior velocità e qualità possibile. Ogni programma e ogni canale ha il suo direttore e la sua autonomia editoriale». Abbiamo confuso la macchina organizzativa con il telegiornale che viene trasmesso unicamente su Bb1 e della cui imparzialità è difficile dubitare. Pazienza. Seconda domanda: «Il singolo giornalista che realizza un 49 servizio solo per la tv, può farlo anche per la radio e Internet con la stessa efficienza e qualità?». Risposta: «Certamente sì, il giornalista che realizza un servizio per la tv conosce la storia, e quindi se è richiesto la può raccontare anche alla radio e pubblicarla sul web». Se l’avessero chiesto a noi, che lo facciamo da anni, avremmo risposto uguale. Facciamo solo più fatica, perché manca appunto l’organizzazione. Terza domanda: «Può essere che riducendo il numero dei manager si abbassi la qualità dei controlli, come è successo con il vostro direttore generale che nel 2012 ha dovuto dimettersi perché era stata data un notizia non verificata?». Risposta: «Come dimostra il livello di audience, la qualità dell’informazione della Bbc è estremamente alta, e quell’errore del giornalista non è attribuibile alla creazione della newsroom». La domanda è bizzarra poiché a memoria d’uomo, in Rai, non si ricorda un solo caso di un direttore generale che si sia dimesso a seguito dell’errore di un giornalista (o di altre questioni altrettanto gravi) al fine di preservare la reputazione e l’affidabilità della tv pubblica. Bene, adesso che ha acquisito tutte queste informazioni, la commissione si è chiarita le idee sul pluralismo informativo, che con la newsroom c’entra come i cavoli a merenda? Non si capisce. Noi siamo il Paese dove la notizia riportata dal Tg1 è filogovernativa, quella del Tg2 orientata sul centrodestra, quella del Tg3 verso il centrosinistra, se ne deduce quindi che i nostri giornalisti sono faziosi. Forse è per questo che in Italia, qualunque cosa racconti, il pubblico non ti crede mai fino in fondo. Forse ti percepisce come schierato a seconda del canale da cui parli, e quindi l’informazione non innesca quella consapevolezza necessaria ad espellere dal sistema chi non agisce nell’interesse generale, o esercita il potere per un tornaconto personale, e pertanto hai spesso l’impressione di essere inutile. Vai in onda su Rai3? Sei comunista! Lavori per il Tg2? Sei leghista. Punto. Naturalmente la realtà è diversa: ogni telegiornale e ogni programma informativo trasmesso dal servizio pubblico deve essere pluralista, obbiettivo, imparziale, altrimenti sei punito dall’Agcom. E allora che senso hanno tre telegiornali, ognuno con la propria struttura, mezzi, personale e dirigenza? A cui si aggiungono Rainews24, la Tgr, il Giornale radio. Per la prima volta, dalla caduta del muro di Berlino, un direttore generale ci sta provando: accorpamento sotto un’unica direzione di Tg1 e Tg2, che trasmetteranno due prodotti diversi. Il Tg1 le notizie rilevanti del giorno e quelle istituzionali, mentre il Tg2 si dedicherà a fatti di costume e grandi eventi. Sotto un’unica direzione finiranno poi il Tg3 (con un’offerta posizionata sull’informazione estera e sociale), Tgr, e Rainews24, con implemento dell’edizione online che ingloberà anche le notizie locali. Un primo passo verso la «modernità» che dovrebbe essere, in un futuro (speriamo prossimo) quella di avere un unico sistema organizzativo a cui faranno capo tutte le piattaforme news e un solo Tg nazionale. Ci sarà anche da sistemare la spinosa questione delle sedi locali: troppe, occupano spazi enormi, inutilizzati e onerosi. Qualche dirigenza salterà, magari un po’ di personale sarà da prepensionare, ma la decadenza sarà inevitabile se non si mette mano ad un progetto che stia al passo con i tempi. A parole tutti vogliono l’efficienza e la riduzione dei costi, tranne quando tocca la propria sedia o il proprio potere, piccolo o grande che sia, a partire dai sindacati. Mentre volano i coltelli, oggi il Consiglio d’amministrazione Rai si esprimerà. Siccome tutti i discorsi, con ogni probabilità, si contorceranno attorno al «pluralismo» minacciato, val la pena ricordare che i giornalisti che lavorano per il servizio pubblico devono (dovrebbero) fornire solo notizie accurate e imparziali, e che l’imparzialità già racchiude il concetto di pluralismo. Inoltre i diversi punti di vista sono ben rappresentati nella infinita lista di talk show e programmi di approfondimento presenti su tutte le reti e la radio. Il vero punto cruciale dovrebbe invece essere il criterio di nomina dei nuovi due direttori. Se non vengono pescati fra chi ha competenze dimostrate sul campo, fallirà l’intera operazione (nell’auspicabile ipotesi che vada in porto). Siamo sicuri che Renzi non 50 mente quando dice che vuole buttare fuori i partiti dalla Rai, e pertanto non si sognerà di metterci becco. Mentre sarebbe interessante sapere cosa intende quando dice che vuole cambiare le regole. Vuole forse dire che non sarà più il ministero del Tesoro ad indicare il direttore generale? Vuole abolire la commissione di Vigilanza perché di fatto è un parlamentino, e sostituirla con un organo più simile al Bbc Trust? Benissimo. Saprà qual è la procedura di reclutamento, visto che è ben descritta sul loro sito, dove sono presenti anche i curricula dei singoli componenti. Avrà modo di leggere che tutti coloro che hanno cariche operative hanno avuto una importante esperienza televisiva, e quindi sanno di cosa parlano quando devono valutare la nomina del direttore generale. Al fine di completare la sua informazione potrebbe leggere anche dove venivano gli ultimi 10 direttori generali, e confrontarli con i nostri. Infine, in Inghilterra come in Italia e in ogni Paese dove esiste la tv pubblica, sono i cittadini, come destinatari di un servizio per cui pagano il canone, ad avere l’ultima parola. Anche sull’imparzialità dell’informazione. del 26/02/15, pag. 4 Un Cda smart per la Rai e il premier non esclude la nomina del governo Ma nella riforma allo studio anche l’ipotesi di una indicazione da parte di più authority. Previsto comunque il voto delle Camere GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Lunedì è il giorno in cui verrà messo a punto il progetto. Il venerdì successivo avrà il voto del consiglio dei ministri e comincerà la sua corsa in Parlamento. La riforma della Rai sta prendendo forma tra le stanze di Palazzo Chigi, gli uffici del ministero dell’Economia (azionista quasi assoluto della tv pubblica) e lo studio del sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. I punti da definire non sono da poco, ma le parole d’ordine, ovvero i criteri da seguire nello scrivere il testo, sono chiari: fuori i partiti dall’azienda, un amministratore unico in grado di gestire Viale Mazzini senza i vincoli della lottizzazione, un consiglio di amministrazione più snello, smart come la macchina, vale a dire con pochi membri. Verrà però mantenuto un rapporto diretto dei vertici con le istituzioni. Una scelta inevitabile per il servizio pubblico. A cominciare dal Parlamento, ma sulla base di parametri diversi. La regola base della legge Gasparri che va cambiata per rivoluzionare la Rai è la fonte di nomina dei consiglieri e del presidente. Oggi la commissione di Vigilanza, un Parlamento in piccolo, vota i nove componenti del cda e le forze politiche, con accordi trasversali, si spartiscono i posti in base ai rapporti di forza. Con 9 consiglieri c’è spazio per tutti. Il cda si riuniva ogni settimana e deliberava su ogni argomento. Solo con il direttore generale Luigi Gubitosi la frequenza delle riunione è molto diminuita. Il numero dei componenti scenderà a 5, presidente compreso. Potrebbe essere nominato dalle Camere come avviene per i membri del Csm e della Consulta. Ma a indicare i nomi da votare saranno non i partiti ma organismi quali l’Authority delle comunicazioni, la conferenza Stato-regioni, il consiglio dei Rettori, la Consulta e i presidenti di Camera e Senato. Cinque “nominanti” per 5 nominati e poi eletti. L’amministratore unico verrà invece indicato dal governo, ovvero dall’azionista ed è un possibile elemento di frizione per l’eventuale accusa di “appaltare” la tv pubblica all’esecutivo. In questo caso a Renzi. 51 Il premier continua a ripetere: «Non ho ancora deciso su questo punto». È possibile che alla fine scelga, senza preoccuparsi delle critiche, di affidare direttamente al governo la scelta dei consiglieri «con il passaggio della conferma parlamentare». È il cuore della riforma. Renzi vuole affrontarla avendo già le idee chiare sui numeri utili per approvarla in Parlamento. Ci sono già contatti tra il Pd e gli altri gruppi. I 5stelle innanzitutto. A Palazzo Chigi hanno letto la strana offerta di Mediaset per le antenne Rai come un tentativo di ostacolare qualsiasi alleanza con Grillo sulla Rai. E i grillini infatti si sono spaventati dopo l’annuncio dell’Opa denunciando un patto del Nazareno bis e la svendita dell’azienda. Quindi contatti fermi e bisogna ricominciare. Ma un’intesa di fondo è necessaria se davvero si vuole approvare il disegno di legge entro l’estate, confermando solo per poche settimane gli attuali vertici. Per la gestione quotidiana della Rai, Renzi pensa a una governance duale. Con la divisione dei compiti tra amministratore unico e presidente. Uno si occuperà principalmente dei conti e della parte finanziaria, l’altro invece si concentrerà sul prodotto che significa programmi, linea editoriale, innovazione e competizione internazionale. Ma interverrà anche il nuovo contratto di servizio, che regola il rapporto tra lo Stato e l’azienda affidandogli la “missione” strategica, a definire le linee-guida della Rai. Il governo ci metterà mano alla fine dell’anno anticipando la scadenza del 2016. Il direttore generale Gubitosi intanto continua a guidare la sua personale rivoluzione. Oggi il cda darà il via libera al piano sull’informazione che accorperà i tg in due newsroom e garantirà 70 milioni di risparmi. È un piano di 132 pagine che copre per intero, dalla logistica ai trasferimenti di personale, la riorganizzazione delle testate. In alcuni colloqui con Giacomelli e il ministro Padoan, Gubitosi ha risolto alcuni nodi: oggi ci sarà un voto sul piano, poi saranno considerati i rilievi della commissione di Vigilanza. Un compromesso che supera i problemi tra l’azienda e il governo. Sarà l’ultimo atto di questa gestione prima dell’approvazione del bilancio in aprile. L’ultimo dopo la digitalizzazione dei tg, la quotazione in Borsa di Raiway, la gestione dei 150 milioni di tagli decisi da Palazzo Chigi. Poi i vertici non verranno prorogati ufficialmente, rimarranno in carica fino alla prossima assemblea dei soci Rai (Tesoro e Siae) che dovrebbe indicare i nuovi dirigenti con la nuova legge, che cancellerà la Gasparri. 52 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 26/02/15, pag. 4 La «Buona Scuola» si fa con i rinvii Roberto Ciccarelli Renzismi. L’annunciatissimo Cdm sulla riforma è slittato al 3 marzo, molti i nodi ancora da sciogliere per il governo. Il governo non sa quali precari assumere e da quali graduatorie attingere. Giannini: «Non assumeremo docenti che non hanno insegnato negli ultimi anni» Era l’ora X. Venerdì 27 febbraio la riforma della scuola doveva diventare realtà. Non è così. L’annunciatissimo Consiglio dei ministri è stato spostato a martedì 3 marzo. Ci dev’essere tanta di quella «carne a fuoco» — così si espresse Renzi a fine agosto dopo un analogo rinvio – che il governo ha preferito tenere le carte a caldo anche questa volta. E dire che Renzi e il Pd ci hanno costruito uno show domenica scorsa a Roma per celebrare l’avvento di un provvedimento che, a scadenza ciclica, viene annunciato. Ma continua a slittare. I soldi per assumere i precari ci sarebbero anche, così almeno ha assicurato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il problema è che il governo non sa quali precari assumere, da quali graduatorie attingere e come coprire le cattedre di alcuni insegnamenti. Ci sta pensando dal 3 settembre scorso, quando nel consueto show condotto nella ridotta di Palazzo Chigi Renzi annunciò la notizia bomba: assumeremo 148 mila docenti precari dalle graduatorie in esaurimento. Non è così, com’è ormai chiaro. La cifra sembrerebbe vicina ai 125 mila. E l’assunzione non avverrà nemmeno in un anno, bensì in due. E le sorprese, c’è da crederci, non mancheranno. L’ultimo rinvio in questa corsa del gambero è stato ufficializzato ieri dal ministero dell’Istruzione. Nella confusione che traspare sulla direttrice palazzo Chigi-Miur a Trastevere il ministro dell’istruzione Stefania Giannini ha tuttavia illustrato alcune delle linee guida sull’assunzione dei precari: «Il piano di assunzioni messo a punto, che stiamo ultimando nei micro-dettagli – ha detto Giannini — non manderà in classe docenti che non hanno insegnato negli ultimi anni». Il Miur terrà conto «del fabbisogno e delle competenze fondamentali che devono essere rinforzate». Per Giannini sono gli insegnamenti di lettere e gli studi scientifici-matematici, l’arte e l’educazione musicale a partire dalla scuola primaria. Altro criterio decisivo per un’assunzione discrezionale, e non più generalizzata, è quello territoriale. Le zone «disagiate» del paese riceveranno un maggior numero di docenti, anche per dare un contributo alla lotta contro la dispersione scolastica. Sulla base di queste esigue indicazioni si presume che il governo si sia reso conto che non si possono assumere docenti su cattedre che non ci sono. Queste ultime sono state tagliate dalla «riforma» Gelmini. Inoltre, la distribuzione dei docenti tra le classi di concorso è molto diseguale e cambia a seconda della provincia. Ci sono zone dove le graduatorie sono esaurite e altre dove esistono classi di concorso con docenti di ruolo in sovrannumero. Lo scenario diventa ancora più fosco nel caso dei docenti abilitati iscritti alla «seconda fascia». Delle decine di migliaia in possesso di un Tfa o di un Pas sembra che il governo voglia assumerne solo meno di 2 mila. Si tratta di un’«anticipazione», una delle tante pubblicate senza criterio in questi giorni. La cifra ridottissima ha scatenato i sindacati che promettono di sommergere il governo di ricorsi che, con ogni probabilità, vinceranno. Moltiplicando il caos che Renzi sta creando in 53 quella cristalleria che è la scuola italiana. Sul capitolo degli aumenti stipendiali basati sul merito, e non più sull’anzianità, il governo tentenna. Sembra tramontata la possibilità di garantire appena 60 euro per il 66% dei docenti meritevoli. Ma non è ancora nota l’alternativa basata sul «sistema misto». C’è l’ipotesi di garantire a tutti fino a 25 euro, mentre 40 euro andrebbero al 60% dei meritevoli. Ma sono ipotesi di scuola: fino al 2018 nelle buste paga non ci sarà uno scatto di aumento. Ancor meno noto è un altro aspetto della riforma: i docenti neo-assunti saranno costretti a cambiare città per trovare un lavoro? Per garantirgli un posto a tempo indeterminato, Renzi imporrà un trasferimento di centinaio di chilometri? «Lo slittamento della riforma sembra una barzelletta e invece è la vergognosa storia di quella riforma della Buona Scuola che secondo Renzi dovrebbe rivoluzionare il mondo dell’istruzione e che invece assomiglia sempre più a una clamorosa presa in giro» sostengono i parlamentari del Movimento 5 Stelle. «Serve un confronto di merito attraverso il coinvolgimento delle scuole, delle forze sociali e del parlamento – sostiene Mimmo Pantaleo (Flc-Cgil) — Sulla stabilizzazione dei precari è mancato qualsiasi confronto. In questo modo sarà negato il diritto al lavoro per migliaia di precari, con il tentativo esplicito di aggirare la sentenza della Corte di Giustizia Europea». «La partita da affrontare è complessa, e non può essere affrontata in termini di annunci» ha affermato Francesco Scrima, segretario Cisl scuola. 54 CULTURA E SPETTACOLO del 26/02/15, pag. 15 di Camilla Tagliabue Il Teatro nell’era Renzi: Firenze ha il suo Nazionale VARATO IL PRIMO ATTO DELLA RIFORMA “VALORE CULTURA”: PROMOSSE SETTE STRUTTURE BOCCIATI GLI ORMAI EX STABILI DI CATANIA E GENOVA, CHE ANNUNCIANO BATTAGLIA Firenze, che coup de théâtre! La città infatti si è aggiudicata uno dei sette ambitissimi Teatri Nazionali, riconosciuti martedì dal Mibact: è il primo atto della riforma “Valore cultura” avviata dall’ex ministro Bray nel 2013, ratificata da Franceschini nel 2014 e in vigore da quest’anno. Qualcuno già parla di rivoluzione del sistema teatrale e di redistribuzione del Fus: innanzitutto, scompaiono gli Stabili; al loro posto, a garantire la “stabilità” dell’offerta, ci saranno i Teatri Nazionali, i Teatri di rilevante interesse culturale (Tric) e i Centri di produzione. DATO CHE la Pergola non aveva i numeri per candidarsi a Teatro Nazionale, anzi non era neppure uno Stabile e non godeva di alcun finanziamento Fus, si è consorziata con l’Era di Pontedera (Pisa): così lunedì, con un tempismo perfetto, il consiglio comunale del renziano Nardella ha ufficialmente sancito la fusione delle due realtà nell’unica Fondazione Teatro della Toscana. E il giorno dopo, la neonata creatura ha ottenuto il riconoscimento ministeriale. Oltre a Firenze concorrevano 9 teatri per 3-4 posti; così almeno aveva detto il direttore generale per lo Spettacolo dal Vivo Salvo Nastasi, forse in modo strategico e come “moral suasion”, si sbilancia ora, facendo notare che la “prima, storica decisione è avvenuta nel giorno in cui si celebravano i funerali di Luca Ronconi”. Metafora della fine di un’epoca? O solito gattopardismo per cui tutto cambi perché nulla cambi? Sta di fatto che la commissione presieduta da Luciano Argano, e composta da Oliviero Ponte di Pino, Roberta Ferraresi, Ilaria Fabbri e Massimo Cecconi, ha riconosciuto sette Nazionali per il triennio 2015-17: Teatro di Roma; Stabile di Napoli; Emilia Romagna Teatro; Piccolo di Milano; Stabile di Torino; Teatro della Toscana; Stabile del Veneto. I tre esclusi, cioè gli Stabili di Palermo, Catania e Genova, sono stati “declassati” a Tric e promettono battaglia. “È un’offesa”, commenta il direttore del teatro genovese Angelo Pastore: “Siamo oltre lo scandalo, siamo al ridicolo. Credo che siano prevalse logiche indipendenti da quelle artistiche. Fino all’anno scorso eravamo equiparati, anche per il Fus, a Roma e Torino: adesso scopriamo di essere ottavi! Il sindaco Doria ha già chiesto un incontro con Franceschini. Ciò detto, noi continueremo a essere un teatro serio, affidabile e di qualità, Nazionale o Tric che sia”. Anche il direttore dello stabile catanese Giuseppe Dipasquale si definisce “mortificato. Non riusciamo a darci spiegazioni per questa esclusione che, insieme a quella del Biondo palermitano, taglia fuori tutta la Sicilia dal circuito dei Nazionali: il Sud si è fermato a Napoli. Se ci saranno i termini, non posso escludere un ricorso. Mi auguro che ci vengano garantiti gli stessi finanziamenti di prima: altrimenti sarebbe una beffa, un doppio smacco”. MARTEDÌ prossimo, è prevedibile, dopo la seconda seduta della commissione, la polemica investirà i Tric: “Dovremo vagliare oltre 30 candidature”, spiega Argano, “poi 55 valuteremo i Centri di produzione. Finora le decisioni sono state prese collegialmente, e le esclusioni sono state fatte a malincuore. Però i nuovi criteri sono rigidi, e abbiamo voluto accordare fiducia ai progetti di più ampio respiro, al di là della storicità dell’istituzione o di antichi blasoni e rendite”. Il giudizio dei commissari, comunque, incide solo per il 30 %: cioè, 30 punti per la qualità su 100 complessivi; altri 30 sono calcolati in base alla qualità indicizzabile (numerabile) e i rimanenti 40 sono criteri puramente quantitativi (posti, recite …). Anche il Fus della prosa, oltre 62 milioni di euro, verrà ripartito in base ai punti ottenuti: pare che il Piccolo ne abbia 85, lo Stabile torinese 82 e il Teatro di Roma 74. I sette Nazionali si spartiranno circa 13, 5 milioni: sarà difficile che Milano riesca a mantenere gli attuali 3 milioni dal Fus (importo più alto del settore), mentre Torino vedrà sicuramente aumentare il vecchio fondo di 1, 5 milioni. Uno degli obiettivi della riforma è razionalizzare le (poche) risorse, tuttavia i “soggetti consolidati” prenderanno almeno il 70 % della vecchia sovvenzione, a prescindere dal loro punteggio. Inoltre, pur abolendo i 67 Stabili che imbalsamavano il sistema, le tre nuove categorie della “stabilità” comprenderanno comunque una cinquantina minimo di teatri, da aggiungere a tutte le altre realtà finanziate (Compagnie, Circuiti, Esercizi, Festival, Promozione, Tournée estere, Residenze). del 26/02/15, pag. 3 Mondadori-Rizzoli Quattromila piccoli editori a rischio Roberto Ciccarelli Editoria. Cna: la ventilata operazione finanziaria potrebbe bruciare 12 mila posti di lavoro. Lunedì 2 marzo si riunisce il Cda di Rizzoli, potrebbe valutare un'offerta di Mondadori da 135 milioni di euro. L’Antitrust: «Ancora nessuna comunicazione» Lunedì 2 marzo il consiglio di amministrazione di Rizzoli potrebbe esprimersi sulla ventilata offerta da 135 milioni da parte di Mondadori sul suo ramo libri. All’ordine del giorno della riunione c’è un punto allusivo all’offerta della società di proprietà della famiglia Berlusconi per la società che pubblica, tra l’altro Il corriere della sera. Si parlerà infatti dell’«avanzamento del piano cessioni e progetti strategici in corso”. Più che un’allusione, sembra in realtà una conferma. Nel merito: l’eventuale cessione di Rizzoli, Bompiani, Bur, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Bur e Sonzogno a Berlusconi produrrebbe una grave alterazione di un mercato già largamente squilibrato. La creazione di un soggetto che monopolizza il 40% delle vendite rischia di mettere in ginocchio quella che, in realtà, è la vera ricchezza della «bibliodiversità» italiana. I piccoli e medi editori a rischio sarebbero 4 mila, 12 mila saranno gli addetti a perdere il lavoro. «Oggi il 90% del mercato è controllato dai grandi gruppi editoriali — sostiene Enrico Capirone, vice presidente nazionale di Cna Comunicazione — Il gigante che arriverebbe sul mercato aumenterebbe ulteriormente il processo di concentrazione e monopolio, minando il principio della libera concorrenza e quel patrimonio culturale da sempre rappresentato dai piccoli editori italiani». «Ogni anno — argomenta Capirone — i piccoli e medi editori immettono sul mercato circa 30 mila novità letterarie. Spesso autori sconosciuti che non trovano posto nei grandi cataloghi e solo così possono raggiungere e 56 arricchire il mercato editoriale. E molti sono gli autori di successo, che hanno mosso i primi passi grazie alla pubblicazione con i piccoli editori». A pochi giorni dalla campagna vincente contro il Ddl Concorrenza che conteneva una norma suicida – l’abolizione della legge Levi che prevede un tetto del 15% per gli sconti sui libri – ecco una nuova e grave insidia per gli editori e le librerie indipendenti. Il rafforzamento di un polo monopolistico potrebbe cancellare anche quest’ultime. Ieri l’offerta di acquisto non era stata ancora comunicata all’Antitrust. Nel Cda di Rcs contrari all’operazione sarebbero Urbano Cairo che detiene il 3%. Per l’editore la cessione dei libri Rizzoli per ripianare i debiti della società non è un’operazione finanziaria di alto profilo e, in più, è un modo per dissipare la sua eredità culturale. Contrario anche il consigliere Piergaetano Marchetti. Come lui anche i comitati di redazione del CorSera e della Gazzetta, le Rsu del gruppo che così hanno ricostruito la vicenda: «La crisi dell’editoria non c’entra. C’entrano, casomai, gli errori fatti dal management di Rcs negli ultimi anni, a partire dall’acquisizione del gruppo spagnolo Recoletos, operazione opaca che si è rivelata una vera «zavorra» per la società. Da lì si è originato il debito che ancora grava sull’azienda, che ha portato ad una prima tranche di ricapitalizzazione da 400 milioni. Una seconda tranche, da 200 milioni, è già stata approvata ed è a disposizione dell’amministratore delegato. Ma piuttosto che ricorrere ai soldi degli azionisti si preferisce mettere sul mercato i «gioielli di famiglia», tradendo il modo di fare impresa che fece grande il marchio Rizzoli grazie al suo fondatore». Per il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini «tale fusione sarebbe una minaccia per la libertà di espressione». del 26/02/15, pag. 48 Negli Usa i punti vendita indipendenti crescono, in Italia le catene rinunciano al modello megastore Più piccole e con l’anima la rivincita delle librerie STEFANIA PARMEGGIANI IL 2 maggio Mitchell Klipper, il libraio più potente degli Stati Uniti, andrà in pensione. Negli ultimi ventotto anni ha lavorato per Barnes & Nobles, occupandosi prima degli affari finanziari, poi delle operazioni immobiliari e infine guidando il settore delle vendite al dettaglio. Mr Klipper è l’uomo che ha fatto nascere più di seicento megastore. Fino al 2009 ha aperto trenta o più punti vendita all’anno. Poi ha giocato in difesa e secondo alcuni neanche male: il suo diretto concorrente, Borders, è uscito dal mercato. Lui no, anche se ha dovuto avviare un piano di dismissioni che porterà nei prossimi dieci anni alla chiusura di un terzo dei punti vendita. La sua uscita di scena segna la fine di un’era, quella dei supermarket dei libri. Il gigantismo non paga più. Se in America le librerie indipendenti stanno avendo la loro rivincita — dal 2009 a oggi sono cresciute del 20% — in Europa sono i grandi a pensare in piccolo: riducono la metratura dei negozi e puntano sul vecchio libraio. Proprio lui, in carne, ossa e competenze. Una contro-rivoluzione che arriva in Italia nei giorni caldi delle trattative tra Mondadori ed Rcs, quando lo spettro di un colosso in grado di controllare il 40% del mercato fa tremare i gruppi concorrenti, gli scrittori e l’intera cittadella dell’editoria. All’interno di un sistema dove già oggi pochi soggetti possiedono tutta la filiera del libro, si fa così strada un nuovo modello commerciale: “La catena di librerie indipendenti”. 57 La definizione è di James Daunt, il libraio londinese chiamato dal miliardario russo Alexander Mamut a risanare Waterstones, colosso inglese di 200 megalibrerie e 4.500 dipendenti. Ma viene fatta propria da Alberto Rivolta, che da dicembre guida la direzione operativa del Gruppo Feltrinelli con responsabilità diretta su Librerie Feltrinelli, 105 punti vendita diretti e 14 in franchising, 1.500 dipendenti e un fatturato nel 2014 di circa 290 milioni di euro, 13 milioni in meno dell’anno precedente. Una perdita più contenuta rispetto al trend generale del mercato — il libro, nella sua versione cartacea, ha segnato un meno 4% nell’ultimo anno — ma comunque una perdita. Alcuni negozi sono sotto osservazione, i contratti di solidarietà che han- no ridotto la forza lavoro di circa il 20% sono appena stati rinnovati per altri quindici mesi. Ma i sacrifici dei dipendenti saranno inutili se Feltrinelli non rivoluzionerà la sua rete di vendita. «L’e-commerce sta cambiando i nostri modelli di consumo. Chi va in una libreria fisica — spiega Rivolta — lo fa perché c’è qualcosa di più importante del prezzo». Una volta nelle Feltrinelli si scoprivano testi che nessun altro pubblicava. Negli ultimi dieci anni si andava per la comodità di trovare qualsiasi cosa, anche film e musica. Un modello che ha avuto il suo punto di forza negli acquisti centralizzati, nella quantità e nelle novità. Ma che ha finito per penalizzare le competenze dei librai e che adesso scricchiola sotto il peso dell’emorragia dei lettori: nell’arco di quattro anni l’Italia ne ha persi oltre due milioni e mezzo, 820mila solo nel 2014. «Al centro del piano di rilancio c’è l’attenzione al cliente, la valorizzazione del nostro personale e la salvaguardia dei livelli occupazionali ». Si parla di personal shopper da prenotare per avere una consulenza su misura e di direttori incoraggiati a comportarsi con l’autonomia dei vecchi librai di quartiere. Ma in gioco c’è anche la trasformazione della rete di vendita nei prossimi tre anni. «Vogliamo valorizzare Red, il nostro modello di eccellenza, un luogo aperto che all’esperienza della lettura affianca l’enogastronomia, i live di musica, gli incontri con gli autori. È una grande libreria che torna alla sua origine: uno spazio del pensiero». Ne esistono due, una a Milano e l’altra a Firenze. Ne aveva aperta una anche a Roma, in via Del Corso, ma è stata costretta a chiudere per un cedimento strutturale all’edificio. Ne nasceranno altre? «Dipende, sono adatte alle grandi città, alle strade con un notevole passaggio ». Per il resto Feltrinelli torna a pensare in piccolo. «Siamo una catena per cui non possiamo rinunciare alla standarizzazione, ma stiamo studiando una formula ibrida e la definizione utilizzata da Daunt è quella che più ci convince: una catena di librerie indipendenti». Gli acquisti continueranno ad essere centralizzati, ma i direttori avranno più autonomia nella commercializzazione e nella disposizione dei libri. E le metrature? In America un gigante come Borders è stato messo in ginocchio dall’e-commerce, ma anche dalle superfici dei suoi megastore: troppo costose rispetto alle entrate. Un rischio che ha corso anche la Feltrinelli di piazza Colonna a Roma, prima che la società proprietaria dell’immobile gli accordasse uno sconto del 25% sull’affitto. «C’è una tendenza mondiale a ridurre la metratura — continua Rivolta — ma non è detto che questo significhi cambiare indirizzo. Si può pensare a una divisione degli spazi, alleandosi con aziende che hanno filosofie coerenti alla nostra per mirare ad un ruolo più completo nella vita dei nostri clienti, di consulente a 360 gradi nell’intrattenimento culturale ». Il pensiero va a Eataly, anche perché l’unione tra cibo e libri «sta funzionando bene». Rinnova la sua formula, metratura compresa, anche Mondadori, che a dicembre ha chiuso il multicenter di corso Vittorio Emanuele a Milano. Quattromila metri quadrati ereditati da Messaggerie Musicali, che ora saranno occupati dal marchio di abbigliamento Mango. «Apriremo presto un nuovo store nel quadrilatero, ma di dimensioni più contenute, tra gli 800 e i mille metri quadrati e con all’interno un punto di ristorazione, integrato nell’esperienza d’acquisto. Un modello nuovo, che all’offerta dei libri affianca l’elettronica, i prodotti di intrattenimento e divertimento», spiega Mario Maiocchi, amministratore di 58 Mondadori Retail. «Avremo altri tre negozi simili entro il 2016, ma in due casi si tratta di conversioni di librerie già esistenti». Per il resto la carta vincente è quella dei negozi in franchising, dimensione media tra i 200 e i 600 metri quadrati. «Ne abbiamo 550 e vogliamo continuare ad aprirne una quarantina l’anno. Pensiamo che sia questo il modello più efficace perché unisce ai vantaggi economici ed organizzativi di una grande catena, la capacità imprenditoriale dei singoli. I librai sono il motore delle vendite e infatti in autunno abbiamo lanciato un programma di corsi di formazione per tutto il personale». Non accadeva da anni. Maiocchi crede che la vera sfida sia l’integrazione tra canali di vendita diversi. Anche perché, andando a guardare il miliardo e mezzo di euro che nel 2014 gli italiani hanno speso per leggere, si scopre che il libro di carta si compra sì nelle librerie fisiche, per il 40,6% in quelle di catena e per il 30,7% nelle indipendenti, ma sempre di più online: 13,8%, vale a dire l’8% in più. Chi è sempre andato controcorrente, puntando sul piccolo anche quando il mercato sembrava prediligere i megastore è stata la catena “Giunti al punto”: 176 negozi, che crescono al ritmo di 15 ogni anno, tutti in provincia e con la stesse dimensioni, 200, 250 metri quadrati al massimo. «Siamo nati venticinque anni fa — racconta il direttore generale Jacopo Gori — e subito ci è stato chiaro che non potevamo avere negozi riforniti di tutto. Una cattedrale di duemila metri quadri non sarebbe stata utile perché nessuno fa trenta chilometri per comprare un libro e poi, anche in spazi così grandi, è necessario fare una selezione dei titoli. Abbiamo puntato su piccoli presidi nel territorio e su librai veri, niente commessi. I nostri 550 dipendenti, di cui l’85% sono donne e la maggioranza ha meno di 35 anni, sono in grado di scegliere e consigliare il libro giusto sia ai grandi lettori che, cosa molto più difficile, a chi non legge nulla o quasi». Pochi mesi fa hanno stretto un’alleanza con Amazon, il gigante accusato di avere messo in ginocchio le librerie. «Ogni acquisto nel loro store permette di accumulare punti sulla nostra carta fedeltà e di utilizzarli nelle nostre librerie. Abbattiamo le barriere fra virtuale e reale». Anche perché non avrebbe senso opporsi al digitale o a Internet. Ne è convinta l’Associazione italiana editori che ha appena presentato alla Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri un ebook con i consigli per utilizzare al meglio i social: ventuno idee prese in prestito dall’estero per valorizzare identità, comunicare competenze e passioni, creare una community. Una rivoluzione non da poco se si pensa che qualche anno fa i librai erano stati dati per estinti. Oggi twittano, postano foto, organizzano maratone di lettura, potrebbero essere uno degli antidoti alla crisi. Parafrasando la celebre battuta di Mark Twain su se stesso, forse la notizia della loro morte è stata alquanto esagerata. del 26/02/15, pag. 49 Strega, Elena Ferrante è ufficialmente in gara RAFFAELLA DE SANTIS ROMA «LA casa editrice E/O accetta di candidare allo Strega il libro Storia della bambina perduta di Elena Ferrante e si impegna a non ritirarsi dal premio». Poche righe per confermare che Elena Ferrante parteciperà. Dopo la lettera della scrittrice a Roberto Saviano, pubblicata da Repubblica, mancava l’ultimo passo: il consenso dell’autore. Il passo è stato compiuto, e anche con molto anticipo rispetto alla scadenza per presentare le candidature (il 3 aprile). Evidentemente gli editori hanno voluto mettere a tacere le voci che si rincorrevano su possibili ripensamenti. E da parte sua la Fondazione Bellonci non vuole lasciarsi sfuggire di un avere in gara la scrittrice del momento. 59 C’è però una norma del nuovo regolamento, forse sfuggita di mano, che chiede oltre alla lettera dei due presentatori, una dichiarazione di assenso dello scrittore. In questo caso però a chi rivolgersi? Sandra Ozzola, editrice E/O, spiega: «Noi candidiamo il libro, non l’autrice. Elena Ferrante ha spiegato che si può usare il suo romanzo per tenere in piedi un tavolo cui s’è spezzata una gamba, ma non usare lei». A casa Bellonci ci hanno pensato un po’ e poi hanno deciso che ne valeva la pena. Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione, la spiega così: «Per rispetto della scelta di anonimato dell’autrice accettiamo che gli impegni richiesti dal regolamento vengano assolti dall’editore ». E se ci dovessero essere contestazioni? Petrocchi: «L’ultima parola è del comitato direttivo e la sua decisione è insindacabile ». L’invisibilità di Elena Ferrante crea sospetti, ingenera dietrologie. Guardiamo il regolamento: un giurato che concorra al premio con un suo libro non può votare, ma chi può assicurare che la Ferrante non sia un Amico della Domenica (come si è chiesto anche Tullio De Mauro)? E chi potrebbe garantire che non abbia già vinto una delle ultime tre edizioni (altra condizione richiesta dal regolamento)? Eppure gli scrittori nascosti dietro pseudonimi hanno spesso vinto premi. Il caso più celebre è quello di Romain Gary, che si è aggiudicato due volte il Goncourt, prima a nome Gary con Le radici del cielo , poi vent’anni dopo firmandosi Émile Ajar, con La vita davanti a sé. Nessuno dei due nomi era quello reale: all’anagrafe esisteva Roman Kacew, ebreorusso nato a Vilnius nel 1914. Senza contare il fatto che quando nel 1992 Elena Ferrante ha concorso allo Strega con L’amore molesto, non c’è stato chi abbia battuto ciglio. Allora garantirono i due presentatori, Jacqueline Risset e Roberta Mazzanti. Ma era ventitré anni fa e la scrittrice non era ancora avvolta da un’aura mitica. Il romanzo vinse il premio Elsa Morante, che lei non andò a ritirare, inviando anche in quella occasione uno suo scritto. L’invisibilità inoltre alimenta i mitomani. Ieri sul Mattino di Napoli è stata pubblicata una lettera attribuita a Elena Ferrante che poi si è rivelata un falso. Smentito dagli editori via twitter: «Quello che la Ferrante aveva da dire l’ha detto a Repubblica ». E siamo solo all’inizio. In gara per lo Strega al momento ci sono sei grandi editori: Einaudi (Nicola Lagioia, La ferocia ), Mondadori (Fabio Genovesi, Chi manda le onde), Bompiani (Mauro Covacich, La sposa ), Giunti (Clara Sereni, Via Ripetta 1-55 ), Feltrinelli (è probabile Marco Missiroli con Atti osceni in luogo privato ), Guanda (Marco Santagata, Come donna innamorata ). Almeno uno verrà escluso dalla cinquina. Ormai comunque è fatta, Elena Ferrante è in gioco e non può tirarsi indietro. A norma di regolamento. Vedremo se riuscirà a «entrare nel rito di una gara sempre più finta», come ha scritto di voler fare. L’happening è appena iniziato e l’invisibilità rischia di renderla troppo visibile. 60 ECONOMIA E LAVORO Del 26/02/2015, pag. 10 Italia promossa, due anni in più a Parigi Via libera della Commissione europea sulla legge di Stabilità. Ma il debito resta sorvegliato speciale Privatizzazioni, il segnale del Tesoro a Bruxelles: venduto il 5,7% di Enel per oltre 2 miliardi BRUXELLES Promossa. Forse graziata. E però, ancora, sotto sorveglianza. Come già anticipato nei giorni scorsi, l’Italia ha ricevuto il «via libera» dalla Commissione europea per il suo piano di Stabilità 2015. L’Ue non aprirà dunque contro Roma, come si temeva, una procedura di infrazione per il suo eccessivo debito pubblico, con le relative ammende milionarie. «Se l’esecutivo Ue avesse dovuto far rispettare la regola del debito — ha spiegato il commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici — la correzione sarebbe stata «brutale e avrebbe messo in difficoltà l’intera economia». Infatti, «l’applicazione rigida della regola del debito porterebbe a una correzione di 2 punti percentuali del Pil, che sarebbe chiaramente insostenibile per un Paese che viene da 4 anni di recessione consecutivi». Con una lettera, l’Ue chiede al governo Renzi di «continuare negli sforzi di riduzione» del debito salito fino al 132,2% del Pil. Secondo le regole Ue i governi europei devono ridurre il loro debito ogni anno di un dodicesimo della differenza tra il 60% e il livello attuale entro il 2020. Il ragionamento «clemente» dell’Ue ha però anche un’altra spiegazione, forse più concreta: Bruxelles ha tenuto conto del piano di riforme «sufficientemente consistente» presentato dal governo Renzi, del loro «effetto positivo», e in particolare della riforma del Jobs act sul mercato del lavoro. Ma nello stesso tempo, spiega ancora il documento stilato da Moscovici e dal vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, gli squilibri macroeconomici presenti in Italia dal 2014 «sono rimasti invariati, richiedono monitoraggio specifico e decise azioni politiche» determinate. Appunto, restiamo sotto sorveglianza: anche se nell’Europa un po’ sbilenca di oggi non è certo una condizione eccezionale. Nella fotografia più generale presentata dalla Commissione, 16 Paesi europei hanno squilibri macroeconomici, e perfino la ricca Germania vede peggiorare i propri conti. Poi, ci sono casi diversi. Il Belgio, che pure attendeva il giudizio per oggi, ottiene come l’Italia un’assoluzione. Mentre la Francia, terzo Stato sotto la lente d’osservazione, apprenderà la sua sentenza lunedì prossimo. Ma già si sa che ha ottenuto una concessione molto importante: avrà cioè più tempo, fino al 2017, per correggere il suo deficit — che oggi sfiora il 5% del Prodotto interno lordo — e riportarlo sotto il tetto massimo del 3% fissato dalla Ue. Dovrà però limarlo dello 0,5%, lo 0,2% in più rispetto a quanto le viene accordato oggi: sembra un’inezia numerica, un francobollo, ma è invece uno sforzo finanziario non indifferente. Tuttavia, quella dilazione temporale regalata fino al 2017 a Parigi, e la clemenza sul debito pubblico accordata all’Italia o alla Grecia, e altri segnali possibilisti inviati ai governi di altri Paesi, rivelano che le regole formalmente ferree del patto di Stabilità e di Crescita sono già state «adattate» senza troppi problemi, e con il quasi certo, tacito assenso di Berlino: 8 anni di crisi globale hanno intaccato la roccia; e anche se molti lo negano, il patto è già una cosa molto diversa da quel che era nel 2007. Ovviamente non è mai stato del tutto vero, nella Ue, che «tutti siamo uguali», ma oggi sembra esserlo ancor meno. 61 Luigi Offeddu del 26/02/15, pag. 11 Il governo fa ripartire la vendita delle partecipate per la prima volta lo Stato sotto il 30% dell’ex monopolista Il Tesoro fa cassa con Enel e cede il 5,7% per 2,2 miliardi “Controllo non a rischio” FEDERICO FUBINI ROMA . Era stata prevista in primavera, programmata in autunno, e rimessa nel congelatore in inverno. Ora che la cessione sul mercato di una quota importante dell’Enel va finalmente in porto, come annunciato dal Tesoro ieri sera, forse davvero qualcosa sta cambiando per l’economia italiana dopo la recessione più lunga della storia unitaria. Ieri il ministero dell’Economia ha fatto sapere di aver avviato la privatizzazione del 5,74% del gruppo elettrico attraverso un consorzio di banche, due italiane (Unicredit e Mediobanca), e due di Wall Street (Goldman Sachs e Bank of America-Merrill Lynch). L’operazione di fatto è già chiusa e dovrebbe portare nelle casse del Tesoro 2,2 miliardi di euro, destinati alla riduzione del debito pubblico. L’impatto di per sé non imprimerà una svolta su questo fronte, dato che gli oneri dello Stato arrivano ormai 2.135 miliardi di euro. Né sarà facile per il governo mantenere l’impegno, iscritto nei documenti ufficiali di finanza pubblica, di procedere a privatizzazioni per circa dieci miliardi all’anno fino al 2017: da Ferrovie dello Stato, a Poste Italiane, fino a Enav, molte delle società candidate vanno riviste e messe a punto prima poter affrontare il mercato. Ma il segnale lanciato ieri dal governo con Enel ha comunque molte valenze diverse. La più immediata è nella sua stessa, relativa novità: era da dieci anni — una generazione fa per i ceti dirigenti del Paese — che non scattava una singola, vera operazione di privatizzazione di questo peso. Di recente il solo compratore disponibile (o prescelto) era quasi sempre stato Cassa depositi e prestiti, essa stessa controllata dal Tesoro. Nel caso dell’Enel l’impatto è rafforzato poi dalla scelta del governo di scendere per la prima volta sotto al 30%, la quota che gli dà il controllo legale di una delle aziende strategiche. Non era mai successo. Per le società di cui il governo vuole restare socio di riferimento, quel limite non era stato varcato nemmeno nella stagione di privatizzazioni anni ‘90 che aiutarono l’Italia a emergere dalla crisi di debito del ‘92 e a entrare nell’euro. Oggi Pier Carlo Padoan dimostra di non temere il confronto con il mercato. Accetta di scendere al 25,5% ed è certo di poter controllare comunque Enel, un gruppo da 38 miliardi di valore in Borsa. In realtà il ministro dell’Economia aveva tutto pronto già dalla fine dell’agosto scorso, eppure allora l’operazione gli scivolò fra le mani. La recessione e la deflazione dei prezzi in Italia e Spagna, i due grandi mercati dell’Enel, allontanavano l’obiettivo ogni settimana di più. Fra il 4 settembre al 15 ottobre 2014 il titolo del gruppo è precipitato del 15,5%, verso livelli ai quali vendere non conveniva più. Poi a inizio 2015 è arrivata la svolta. L’economia ha dato segni di stabilità, la Banca centrale europea ha deciso un piano di interventi sui mercati da 1.140 miliardi. La spinta di Francoforte e la prospettiva di una ripresa in Italia hanno fatto risalire il titolo Enel del 15,3% dal 5 gennaio a ieri. Per il Tesoro è arrivato il momento di agire. È un segnale di disgelo del Paese dopo un’ibernazione durata cinque anni, fino a tutto il 2014. Solo otto mesi fa l’ultima operazione di privatizzazione si era chiusa con un parziale 62 fallimento: Fincantieri avrebbe dovuto fruttare a Cassa depositi 600 milioni di euro, ma il mercato non credeva abbastanza nelle prospettive dell’azienda o del Paese, e l’azionista bloccò l’offerta di titoli dopo averne incassati appena 350. Non che la strada da ora in poi sia solo in discesa. La crescita in Italia resta poco sopra lo zero, il tessuto del Paese è fragile. Rimane intatta anche la giungla di diecimila imprese partecipate da enti pubblici, una miriade di centri di spreco, inefficienza e corruzione, eppure l’ultima Legge di stabilità non fa abbastanza per costringere a venderle o smantellarle: mancano i vincoli sulle amministrazioni locali perché intervengano sulle aziende cronicamente in perdita, oppure in attivo solo grazie a commesse pubbliche gonfiate. Intanto però il governo centrale continua il suo progetto di privatizzazioni. Un manager esperto come Francesco Caio sta ristrutturando Poste con l’obiettivo di quotarla in autunno e cederne il 40%. Più complessa ancora l’operazione su Ferrovie dello Stato, dove prevale per ora l’orientamento a vendere tra circa un anno il 40% della holding che controlla l’intero gruppo. Il sostegno della Bce, l’avvio di ripresa e le riforme lanciate fin qui, danno al governo più tempo per preparare i prossimi passaggi. Quel tempo sarà prezioso per non ripetere, ad esempio su Ferrovie dello Stato, gli stessi errori commessi nelle cessioni anni ‘90: allora le privatizzazioni crearono anche oligopoli privati, rendite di posizione riservate a poche famiglie ben introdotte a palazzo, e gruppi per sempre instabili come Telecom Italia. 63