Dossier Spagna
Transcript
Dossier Spagna
33 1 | dicembre 2012 | narcomafie Dossier Spagna 5 Mafie in Piemonte Operazioni antimafia in Liguria 61 56 Nella Terra dei fuochi 2 | dicembre 2012 | narcomafie numero 12| dicembre 2012 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Fondatore Luigi Ciotti Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile) Livio Pepino (condirettore) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Davide Pati (Roma), Matteo Zola Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo, Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini Collaboratori Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi, Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Gianluca Iazzolino, Piero Innocenti, Alison Jamieson, Alain Labrousse, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Marco Nebiolo, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio Pergolizzi, Osvaldo Pettenati, Guido Piccoli, Francesca Rispoli, Lillo Rizzo, Pierpaolo Romani, Adriana Rossi, Peppe Ruggiero, Paolo Siccardi, Elisa Speretta, Lucia Vastano, Monica Zornetta Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione Acmos adv In copertina Foto di Andrea Spettacolopuro Fotolito e stampa Giunti Industrie Grafiche S.p.A. Stabilimento di Prato - Tel. 0574 6291 Direzione, Redazione corso Trapani 91, 10141 Torino, tel. 011/3841074 fax 011/3841047, [email protected], www.narcomafie.it Registrazione al Tribunale di Torino il 18.12.1992 n. 4544 Abbonamenti Spedizione in abbonamento postale 30 euro (estero 49), 50 euro abbonamento sostenitore Bollettino postale: ccp n. 155101 intestato a Gruppo Abele periodici, Corso Trapani 95, 10141 Torino Bonifico bancario: Banca Popolare Etica - Padova IBAN: IT21S0501801000000000001803 intestato ad Associazione Gruppo Abele Onlus Online: con carta di credito (Visa-Mastercard-American Express-AuExpress-Au ra-Postepay), tramite il servizio Paypal Ufficio Abbonamenti tel. 011/3841046 - fax 011/3841047 [email protected] Reclamo arretrati Chi non ha ricevuto un numero della rivista ha 30 giorni di tempo dal ricevimento del numero successivo per richiederlo gratuitamente, oltre dovrà acquistarlo a prezzo di copertina Informazione per gli abbonati: i dati personali sono trattati elettroelettro nicamente e utilizzati esclusivamente dall’Associazione Gruppo Abele Onlus per l’invio di informazioni sulle proprie iniziative. Ai sensi dell’art. 13, L.675/96 sarà possibile esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare e far cancellare i dati personali scrivendo a: Associazione Gruppo Abele, Responsabile Dati, c.so Trapani 95, 10141 Torino Questo numero è stato chiuso in redazione il 15/01/2013 L’elenco delle librerie in cui è possibile acquistare narcomafie è disponibile alla pagina web www.narcomafie.it/librerie.htm www.narcomafie.it 3 | dicembre 2012 | narcomafie Elezioni 2013, chi parla dei migranti? La campagna elettorale per le elezioni politiche del febbraio 2013 è ormai cominciata. Si parla e ci si azzuffa su molte cose ma una – che aveva calcato da protagonista la scena delle ultime tornate elettorali – sembra scomparsa dall’agenda politica: l’immigrazione e le sue politiche. Non è cambiata la legge e neppure la sostanza dei problemi. Semplicemente, mentre ieri si cercavano voti invitando a sparare sui barconi diretti verso le nostre coste, oggi si lascia che i migranti muoiano in silenzio, uccisi dal proibizionismo e dall’indifferenza. I candidati alla guida del Paese parlano d’altro. Per fortuna a rompere il silenzio ci ha pensato, qualche mese fa, il neo sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, con una lettera aperta che dovrebbe essere letta in tutte le scuole: «Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio 2012, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime undici salme; il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che undici persone, tra cui otto giovanissime donne e due ragazzini di undici e tredici anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce. Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro di Livio Pepino morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza». Spesso il proibizionismo, la chiusura dei confini uccidono. Sempre creano difficoltà e sofferenza. In ogni caso diffondono messaggi di intolleranza e di razzismo. Eppure i popoli del mondo si spostano e non c’è legge che li fermi. Così da tempo i migranti hanno cessato di essere, nel nostro Paese, una rarità o una presenza esotica. Al contrario, il loro insieme corrisponde, in termini numerici, a una grande regione. Secondo le stime più attendibili gli immigrati sono oggi, in Italia, più di 5 milioni e 500mila, di cui 4.919.000 regolari (conteggiati dalla Caritas in base a rilevazioni Istat di fine 2010) e 500mila circa irregolari. È un numero superato solo dagli abitanti di Lombardia (9.917.714), Campania (5.834.050) e Lazio (5.728.688) e superiore a quello della Sicilia (5.051.075), che colloca dunque l’insieme dei migranti al quarto posto tra le regioni italiane. I migranti contribuiscono a mandare avanti la nostra economia, svolgono lavori fondamentali che altri non vogliono o non sanno più fare. Le/i badanti stranieri sostituiscono – spesso in condizioni di sfruttamento – lo Stato sociale che viene quotidianamente smantellato e che lascia soli vecchi e ammalati. In alcune grandi città molte classi elementari e medie hanno una maggioranza di bambini che viene dall’Est dell’Europa, dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Ma i migranti – salvo l’esigua minoranza che ha ottenuto la cittadinanza – non votano. Lo fanno gli italiani all’estero. Anche quelli che vivono in altri continenti da generazioni. Anche quelli che non sanno più né la nostra lingua né dove si trova l’Italia. I migranti no. Forse è anche per questo che nessuno, in campagna elettorale, ne parla. 'Nd 5 | dicembre 2012 | narcomafie 'Ndrangheta in Piemonte La coda del Minotauro Proseguono le indagini avviate con l’operazione “Minotauro” dello scorso giugno 2011. Emergono connivenze tra la ’ndrangheta e la politica locale, il modus operandi dei “trequartini” e degli affiliati, la capacità di pervadere l’economia. Viaggio nel sistema criminale più radicato del nord Italia Foto RivaroloNews Photobucket di Giuseppe Legato 6 | dicembre 2012 | narcomafie Le rivoluzioni, va da sé, non si esauriscono in un giorno. Come i capitoli di un libro si scrivono uno per volta. Diversi sono i protagonisti, i luoghi, i dettagli, uguale il fil rouge che guida il cambiamento. Forse è per questo che nel labirinto di “Minotauro”, epopea di manette contro le ’ndrine di Torino scattata all’alba di un anno e mezzo fa, le strade dell’antimafia sembrano infinite. Continuano ad aggiungere nomi, volti e fatti al libro mastro della mala calabrese. Svelano intrecci, interrompono trame. Una rivoluzione a puntate. L’ultima l’hanno chiamata “Colpo di coda”: 23 arresti, due presunte locali di ’ndrangheta – Chivasso e Livorno Ferraris – disarticolate, 4 milioni e 600 mila euro di beni sequestrati. Il blitz è del 10 ottobre scorso. Il gip Giuseppe Salerno è la firma in calce a 341 pagine di accuse penalmente rilevanti – da provare in giudizio – formulate dai pm Roberto Sparagna e Monica Abbatecola. Una coda dunque, un’appendice che per il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli non è nemmeno «l’ultima» di questo viaggio contro il sistema criminale più forte e radicato del nord Italia. Alcuni nomi si ripetono, altri sono nuovi di zecca. Gli ingredienti non cambiano: riti, codici e business che fanno da cornice a un quadro familistico dell’associazione criminale. È una storia di fratelli, questa. Di politica, poltrone, armi e riciclaggio. Che fotografa fedelmente la ’ndrangheta, contenitore di vecchio e nuovo, in cui i legami di sangue ga- rantiscono silenzio e fedeltà mentre le scalate al potere sono il nuovo pallino di boss e capi bastone. È caccia all’ordinanza. Secondo il gip, che a Chivasso e dintorni ci fosse più di un semplice sopravvissuto agli arresti di “Minotauro” – sette in totale, sfociati nella condanna in abbreviato di Pasquale Maiolo (5 anni) e Pasquale Trunfio (8 anni e 8 mesi) oltre che nell’assoluzione da tutti i capi d’accusa di Giuseppe Trunfio – lo si poteva intuire da ciò che era accaduto nei mesi immediatamente successivi al blitz dei carabinieri e soprattutto dal tenore dei dialoghi di chi non è stato coinvolto nella retata. Eccola la prima triade di fratelli di questa storia. È il 29 giugno 2011. Sono circa le 16 quando Salvatore, Bruno e Ferdinando Cavallaro – che sono poi l’ossatura del locale di Livorno Ferraris – inaugurano un’autentica caccia alle carte dell’inchiesta. I Cavallaro sono persone intelligenti, mentalmente veloci nonostante abbiano una formazione culturale limitata, aspetto del quale sono peraltro coscienti: «Ho solo la quinta elementare, la terza media me la sono presa con 150 ore, però grazie a Dio me la cavo meglio degli altri!», dice al telefono Ferdinando in una sorta di auto-recensione. Pochi titoli dunque, ma buon cervello. Vogliono l’ordinanza di “Minotauro”, «ansiosi come sono – annota il gip – di capire se fossero stati individuati nel corso delle investigazioni». Gli arresti sono ancora “freschi”, 7 | dicembre 2012 | narcomafie le telefonate ridotte al minimo, ma le poche che finiscono nelle cuffie dei carabinieri hanno un contenuto che appare inequivocabile. Grazie all’aiuto di due legali (uno del foro di Nardodipace e l’altro di Torino), i Cavallaro ottengono le 2.500 pagine di Minotauro. Per entrar entrarne in possesso spendono 400 euro. Il cd rom viene spedito a metà luglio da Torino e due giorni dopo viene recapitato nella segreteria del legale di fiducia di alcuni presunti sodali delle famiglie di Chivasso già in carcere. Leggono gli atti, «ma la mole è immensa». Al telefono però ammettono che «qualcosa c’è». Poi ripiegano su un gergo edilizio per depistare gli inquirenti. E così l’ordinanza diventa il capitolato e il prezzo del materiale richiama alla posizione dei singoli associati: «Sono arrivati i disegni? I prospetti?», chiede Ferdinando a Bruno che intanto è in Calabria. «Non ti preoccupare, li sto già guardando. Il lavoro, per ora non lo perdiamo. Attualmente no. I prezzi sono buoni». «Questo interessamento dei fratelli Cavallaro per l’ordinanza Minotauro – commenterà il gip a margine – è sintomatico di per sé dell’intraneità con il mondo criminale che l’indagine aveva svelato. I prevenuti non sono solo interessati alla sorte di Maiolo (arrestato già all’epoca e “capo locale” di Livorno Ferraris), ma piuttosto a comprendere se dagli atti emergesse qualche elemento a loro carico». Siamo ad agosto. Le carte sono state studiate una ad una. E, sempre al telefono, arriva il responso liberatorio: «L’ho let- to il progetto, ci sono le cose che sappiamo pure noi...». Gli animi si calmano. E si tornano a tessere le trame. Che sono poi quelle tradizionali – si legge nell’ordinanza – di un’associazione come la ’ndrangheta. Un esempio su tutti: la raccolta di fondi per gli arrestati. Qui entra in gioco la seconda triade familiare: quella dei Marino. Pietro è il padre, Nicola e Antonio i figli. Sarebbero loro – secondo l’accusa – l’architrave del locale di Chivasso. È il 14 dicembre 2011. Chi è in carcere si appresta a trascorrere un Natale da recluso. Nella ’ndrangheta, quello di stare vicino “a chi è dentro” è un dovere inderogabile, prima ancora che un sentimento naturale. È mutuo soccorso e la logica c’è: «È Natale pure per loro – dicono al telefono – così si ricorderanno di noi, sanno che ci siamo, fuori». Dichiarazioni che per il gip «spiegano bene come la colletta serva a rinsaldare il vincolo associativo fra tutti». Nella Renault Clio di Pietro Marino si scoprono molte cose. Ad esempio che la quota da versare è di duecento euro ma che alcuni preferiscono procedere per conto proprio. Della consegna dei soldi ai carcerati se ne occuperanno in giorni diversi mogli, compagne e fidanzate. Così, per non destare sospetti. Al telefonino si discute a lungo, si parla anche di investimenti su case da rilevare all’asta dei fallimenti. Poi, ecco il colpo di scena: «Siamo in 12-13 e i conti tornano – dicono i Marino – dobbiamo esserci tutti». Per i carabinieri è la svolta. Minuto dopo minuto si srotola il papiro di nomi della presunta locale di Chivasso. Altri fratelli, altri potenziali affiliati si aggiungono a quelli già individuati. Il puzzle è completo. Le indagini accelerano. E spunta la politica. ‘Ndrine ed elezioni. Secondo il gip «la ’ndrangheta ha determinato l’esito complessivo delle consultazioni elettorali del maggio 2011 a Chivasso, consentendo l’elezione di un sindaco che assicurasse al sodalizio criminale non solo appalti e commesse pubbliche, ma anche di entrare fisicamente nella giunta e di ampliare il proprio giro di affari e di influenze nelle attività economiche direttamente o indirettamente». Ciò sarebbe accaduto «con l’avvallo delle istituzioni e con un connivente silenzio di non penale rilevanza ma di certa censura». Parole dure. Pietre. Che fanno da cornice a quanto accaduto tra marzo e aprile 2011, quando a Chivasso si sfidano Gianni De Mori, avvocato della società civile (centrosinistra) e Bruno Matola (centrodestra). In mezzo il terzo incomodo: Massimo Striglia (che risiede a Chivasso), segretario provinciale dell’Udc a capo di una lista civica di ispirazione biancoscudata. Il percorso «per infiltrarsi all’interno dell’amministrazione comunale» è lungo, complesso e contorto. I due protagonisti delle trattative elettorali sarebbero – secondo l’accusa – Bruno Trunfio, ex assessore ai Lavori Pubblici e vice segretario dell’Udc di Chivasso (arrestato in “Minotauro” perché accusato di far parte della locale medesima con la dote di “trequartino”, poi rinviato a giudizio e attualmente È una storia di fratelli, questa. Di politica, poltrone, armi e riciclaggio. Che fotografa fedelmente la ’ndrangheta, contenitore di vecchio e di nuovo, in cui i legami di sangue garantiscono silenzio e fedeltà 8 | dicembre 2012 | narcomafie Secondo il gip: «La ’ndrangheta ha determinato l’esito complessivo delle consultazioni elettorali del maggio 2011 a Chivasso» libero in attesa di sentenza) e i fratelli Cavallaro. Sono proprio loro che, all’inizio, ipotizzano di far confluire voti verso Pasquale “Lino” Vincenzi (al quale non è mossa alcuna accusa), che nella vita è anche assessore – in carica – al Comune di Rondissone. Vincenzi dovrebbe candidarsi nel Pdl, ma sarebbe stato lo stesso partito a pochi giorni dalla scadenza delle liste elettorali a bocciarne l’ingresso. Qualcuno non lo vuole, lui rinuncia, si tira indietro, lo comunica ai Cavallaro. La strategia, a questo punto, cambia. Bisogna andare su nomi di fiducia assoluta. Come Beniamino Gallone – per gli amici Benny – nato a Gioia Tauro 32 anni fa. Fino al gennagenna io 2012 è stato il titolare di una pizzeria al taglio a Chivasso, ma risulta – per l’accusa – affiliato alla locale di Livorno. Negli archivi informatici dei carabicarabi nieri il cognome è conosciuto. «La sua famiglia – si legge in un’informativa dei carabinieri di Nicotera – è vicina a noti esponenti dei Mancuso di LimLim badi», potentissima ’ndrina operante a Vibo Valentia. GalGal lone avrebbe avuto un ruolo da protagonista (insieme a Ferdinando Cavallaro) nell’intestazione fittizia di quote societarie della “Contemax sas”, società che gestisce il Punto Snai di via Gerbido 15 a Chivasso. Stesso ruolo con identiche finalità svolto – sempre secondo i carabinieri – per entrare nel quadro societario di una sala giochi a San Mauro. Ora vuole candidarsi con Striglia per mandare tutti al ballottaggio e poi «andare con chi offre di più, onestamente». «La strategia del sodalizio cri- minale è volta a favorire questa lista – scrive il gip – onde rendere necessario il secondo turno delle elezioni. Poi si sarebbe cercato un apparentamento con il partito disposto a offrire le cariche comunali di maggior rilievo”. In campagna elettorale «si verificano numerosi e frequenti incontri con esponenti del mondo politico ed economico del territorio (tra di loro anche imprenditori torinesi doc incensurati) che si svolgevano al bar “Il Timone” gestito da Giovanni Vadalà, già arrestato in “Minotauro” con l’accusa di far parte della locale di Chivasso con la dote di “trequartino”». Al termine delle consultazioni, Gallone prenderà 134 voti, Spagnolo 104. Nonostante non giungano i consensi sperati (soprattutto dal quartiere della Coppina: «Ne sono arrivati 13 e ce ne aspettavamo cento e passa»), si va al ballottaggio. Ferdinando Cavallaro e suo cugino, chiacchierando, dimostrano acume e lungimiranza: «Adesso dipende da noi, con chi ci alleiamo, con chi andiamo». Il ballottaggio e l’assessorato già in tasca. A questo punto i «sodali contattano gli esponenti dei due partiti maggiori allo scopo di verificare quale delle due coalizioni avrebbe offerto più cariche». Nelle telefonate non si parla di ideali o progetti per la città «e gli stessi interlocutori (cioè i politici contattati, nda) – scrive il giudice – non hanno mai un atteggiamento di chiusura o di censura ma, al contrario, di accettazione o di rifiuto per mero e diretto calcolo di interesse». Alla fine la scelta cadrà sul centrosinistra. È il 19 maggio. «Alla sera c’è un incontro tra il candidato De Mori, Trunfio e Gallone» annotano i carabinieri. È lì che si decide l’apparentamento decisivo. «L’intera operazione elettorale conseguiva il successo sperato – scrive il gip – e risultava eletto sindaco il candidato Gianni De Mori». Cavallaro si intesta subito meriti e onori del trionfo. Parlando col fratello Bruno (che è in Calabria) racconta, riferendosi al centrodestra: «Non hanno voluto unirsi con l’Udc, erano sicuri che vincevano. Li abbiamo fottuti, li abbiamo “scasciati” (distrutti, nda). Sono soli, soli come dei cani randagi». La telefonata è delicata perché svela la probabile contropartita che si cela dietro l’apparentamento. «Abbiamo già preso accordi. Gli abbiamo chiesto il vicesindaco e alla fine (prenderemo?) un assessore più altri tre incarichi». La delega amministrativa che spetterebbe a Striglia è quella al Bilancio. De Mori ha vinto. Inizia la festa con caroselli per strada e bandiere – dell’Udc – a tutto andare. Le telecamere dei carabinieri registrano come «l’auto di Striglia sia seguita da un Piaggio Porter cassonato con a bordo Ferdinando Cavallaro, Bruno Trunfio e Beniamino Gallone. Il corteo si chiude, come al solito, al bar Timone». Dicono: «De Mori è primo per 309 voti, se non li portavamo noi, non vincevano». Minotauro scompagina i piani. Non passano tre settimane e arriva il tornado di “Minotauro”. In manette finiscono Pasquale Trunfio e i figli Bruno e Giu- 9 | dicembre 2012 | narcomafie seppe (assolto recentemente da tutte le accuse). Le agenzie battono la notizia, i primi nomi escono alle 12. Appena un’ora dopo – sono le 13.01 – Gallone chiama Striglia: «Ti devo parlare». L’interlocutore sembra sapere: «Ma pure suo papà hanno arrestato?», chiede riferendosi a Pasquale Trunfio e al figlio Bruno. Il sindaco De Mori congela l’assessorato e tiene per sé le deleghe. Gli affiliati ringhiano al telefono, ma anche il mancato assessore Striglia è contrariato: «L’ultima novità – dice – è che De Mori si caga addosso, non vuole più darmi l’assessorato. Come se l’Udc fosse tutto mafioso...». In una successiva riunione politica «si prende la decisione di aspettare, di far calmare le acque», affinché l’eco di “Minotauro” si affievolisca, ma il 31 gennaio, nemmeno tanto a sorpresa, Gianni De Mori si dimette, ufficialmente per motivi di salute. A sua totale discolpa dirà: «Non avevo mai fatto politica prima del 2011 e non ho mai avuto nessun sentore di un coinvolgimento della criminalità organizzata. Mi sono fidato di chi mi circondava». Le telefonate tra gli ’ndranghetisti si diradano. Nelle elezioni successive il movimentismo dell’associazione pare si spenga quasi del tutto. Non che nessuno li cerchi. La segretaria di Massimo Striglia – scrivono i carabinieri – chiama Cavallaro per verificare se il prevenuto e le persone a lui contigue fossero disponibili ad adoperarsi nuovamente per la campagna elettorale («I tuoi cosa vogliono fare?» – gli chiede ottenendo come risposta un evasivo –: «Vediamo, ora vedo...»). Si decide di non appoggiare Striglia facendo previsioni numeriche: «Senza di noi prenderanno al massimo 500 voti». Si candida l’ultimo dei quattro fratelli Cavallaro appoggiando Enzo Falbo, lista civica. Non è indagato, tanto meno coinvolto nell’operazione. Vincerà il candidato di centrosinistra Libero Ciuffreda che da subito devolverà il suo stipendio a iniziative “antimafia”. Le analisi del gip però restano dure: «La ’ndrangheta è fuori da questa tornata più per volontà di quest’ultima che per la presenza di consolidati anticorpi legali». Resta il tempo di vedere avverata la profezia di Cavallaro sul partito di Striglia: l’Udc prenderà difatti 482 voti. Il boss ne aveva previsti 500. Subito dopo il blitz del 10 ot- Quando Volpiano e Platì parlano lo stesso dialetto 10 | dicembre 2012 | narcomafie di Massimiliano Ferraro Il 2 novembre 1982 è una data spartiacque per la cittadina di Volpiano. In questo piccolo centro del basso Canavese, distante appena sedici chilometri da Torino e conosciuto perlopiù per la sua industria di alluminio e per i grandi serbatoi di carburante ben visibili dall’autostrada che collega alla Valle d’Aosta, in quella data si registrò la prima operazione di polizia in loco contro un boss della ‘ndrangheta. Eppure la trasformazione di Volpiano in una delle roccaforti ‘ndranghetiste del torinese era già iniziata da quasi dieci anni, periodo nel quale il fazzoletto di territorio canavesano, caro al pittore Ernesto Rayper, aveva cominciato a legarsi in maniera sempre più evidente alla lontana Calabria delle cosche aspromontane. Non si era trattato di un assalto ma di un lento e progressivo contagio, grazie al quale la malapianta aveva potuto attecchire, irrobustirsi e ramificarsi in tutto il Piemonte. I primi affiliati alla ‘ndrangheta arrivarono a Volpiano in soggiorno obbligato, nei primi anni Settanta. Erano malavitosi giovani e ambiziosi che sfruttando il loro esilio riuscirono a sganciarsi dal controllo oppressivo dei capibastone calabresi, diventando dei referenti locali e acquisendo una certa autonomia d’azione. I “pionieri” vennero raggiunti al Nord da intere famiglie, creando un gruppo molto temibile, ma ancora sottomesso allo strapotere dei clan catanesi che in quegli anni dominavano Torino e la sua provincia. Poi, con le prime confessioni dei pentiti che decapitarono l’organizzazione dei siciliani, vi fu un avvicendamento al vertice della geografia criminale. I giovani ‘ndranghetisti di un tempo, poco più che trentenni, si trovarono inaspettatamente ad essere i capi di una mafia vincente, assetata di denaro e attiva nei sequestri di persona e nel traffico di droga. Uomini d’onore come Mario Ursini, famiglie di mafia come i Marando, gli Agresta e i Trimboli sono stati i protagonisti delle vicende criminali che negli ultimi tre decenni sono valse a Volpiano il soprannome di “piccola Platì”. “Zio Mario”, il primo boss. Le confessioni di Armando Fragomeni furono fondamentali per conoscere la struttura delle ‘ndrine in Piemonte. Arrestato con l’accusa di essere coinvolto nel sequestro di Giuliano Ravizza, titolare della pellicceria “Annabella” di Pavia, le sue dichiarazioni permisero di far luce sui traffici illeciti, le estorsioni e le rapine compiute dai calabresi dal 1975 al 1981. Decine di episodi tra cui due assalti al Banco di Roma di Volpiano, avvenuti a dicembre del 1977 e marzo del 1978: la ‘ndrangheta era già arrivata nel Basso Canavese. Novembre 1982, dunque. Una tipica mattina d’inverno piemontese, con la temperatura sotto zero e le strade ancora velate dal gelo notturno. Via Genova, all’incrocio con la Strada Provinciale 39, era semi deserta quando un’auto civetta con a bordo il capo della Mobile Piero Sassi e alcuni agenti si fermò nei pressi di un condominio di una cooperativa sito al numero civico 51. Quando gli uomini di Sassi effettuarono l’irruzione in uno degli appartamenti, erano alla ricerca di Mario Ursini, “studente” trentaduenne per l’anagrafe ma in realtà boss della mala calabrese nella provincia di Torino. Originario di Gioiosa Ionica, Ursini venne descritto dalle cronache dell’epoca come un personaggio spietato, dotato di un “notevole carisma nel mondo criminale”, ma anche apparentemente “affabile e cortese nei rapporti interpersonali”. Fu lui uno dei primi pionieri della ‘ndrangheta piemontese, artefice di un regno fondato sulla violenza e sui traffici illeciti distante oltre mille chilometri dal territorio della sua cosca, nella valle del Torbido, ma che all’inizio degli anni 80 appariva in continua espansione. «Non muove foglia senza che Ursini voglia», si sussurrava nell’ambiente investigativo e ciò bastò per sperare nel colpo grosso. Nonostante si trattasse di un’operazione mirata, avente come obiettivo quello di “stanare” nella propria abitazione un boss della malavita calabrese, il blitz non ottenne gli esiti sperati. Il boss riuscì a non farsi trovare (fu arrestato a Torino dieci giorni dopo). A sorpresa, nella rete tesa dalle forze dell’ordine cadde Placido Barresi (in possesso di una 357 Magnum), cognato di Domenico Belfiore, storico capo della ‘ndrangheta sotto la Mole, anch’egli destinato ad una lunga carriera nella malavita. Sangue e droga. La presenza a Volpiano della mafia calabrese, con il suo codice d’onore e le sue regole inviolabili, venne confermata dal tentato omicidio di Sergio Chiarella, accaduto nei boschi della frazione Vauda: aveva commesso uno sgarro verso l’organizzazione. Per quel fattaccio e per altri reati in materia di stupefacenti finì sul banco degli imputati Rocco De Marco, originario di Platì, il paese dell’Aspromonte che più di tutti gli altri ha fornito nel territorio volpianese – oltre che tanti lavoratori onesti – anche una numerosa manovalanza malavitosa. Una vera e propria fetta di Calabria trasferitasi nel Canavese, che negli anni Ottanta arrivò a superare i 2.500 individui residenti nella sola Volpiano, a fronte di una popolazione totale di circa tredicimila persone. Dopo i sequestri di persona (ben 37 casi registrati in Piemonte tra il 1973 e il 1984), le cosche aspromontane si specializzarono nel traffico degli stupefacenti. Negli anni compresi tra il 1984 e il 1989, Volpiano divenne una base stabile per il commercio della droga che, 11 | dicembre 2012 | narcomafie coltivata nel reggino, cominciò in questo modo ad arrivare in Piemonte a fiumi: nel 1988 la marijuana veniva venduta ai clan di Volpiano a un milione di lire al chilogrammo e fruttava fino a 4 mila lire al grammo. Un business colossale in cui corrieri incensurati venivano impegnati in continui viaggi di andata e ritorno da Nord e Sud. Fu proprio in una di queste trasferte che, nel novembre, del 1988 una Golf bianca targata Torino venne notata in uno dei centri dell’Aspromonte, dando il via a un’operazione dei Carabinieri che si concluse con il sequestro alla periferia di Volpiano di tre chili e mezzo di marijuana: il più consistente quantitativo di cannabis mai sequestrato in città fino ad allora. Dovette trascorrere un altro anno perché l’eroina comparisse nelle indagini sulle attività della malavita nella provincia torinese, quando i Carabinieri arrestarono 19 persone – uomini d’onore trapiantati nel Canavese – residenti tra la provincia di Reggio Calabria e Volpiano. Eroina proveniente dalla Turchia e mercato torinese sono dunque gli elementi di un’equazione criminale che fruttò miliardi di lire ad una gang che sul finire degli anni 80 assunse il controllo del mercato della droga tra Volpiano, Settimo e San Benigno. Affari sporchi e contesi che condussero anche a sanguinosi scontri interni come la strage del Circolo Arci di Chivasso e la sparatoria di via Brandizzo, in cui persero la vita rispettivamente tre e due persone. Una bomba per i Carabinieri. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1991 un misterioso atto intimidatorio sconvolse l’apparente tranquillità del territorio di Volpiano. Davanti all’ingresso della caserma dei Carabinieri di via San Guglielmo, vennero rinvenuti casualmente sette chili e mezzo di esplosivo nascosti in una pentola a pres- sione collegata con una miccia. Un micidiale attentato fallito? La ricostruzione dei fatti fu incerta. Si parlò di una strozzatura sul filo che avrebbe dovuto provocare l’esplosione, ma tra i volpianesi lo shock fu comunque grande. Per la prima volta un fatto di simile rilevanza toccava nel vivo una comunità che aveva sempre respinto ogni infiltrazione criminale, fino ad illudersi della non esistenza della mafia in quelle zone. Per gli investigatori invece la matrice ’ndranghetista di quella possibile strage fu chiara: si trattava di un avvertimento dopo gli arresti che tentavano di stroncare definitivamente il commercio della droga. Un gesto che pose Volpiano sotto i riflettori delle forze dell’ordine, provocando un temporaneo fuggi fuggi di uomini d’onore verso la Calabria. In compenso, nuovi personaggi si affacciarono nel panorama criminale del centro canavesano, una sorta di cambio generazionale che ripropose tuttavia nei faldoni processuali dei cognomi noti. Ad esempio Don Ciccio, al secolo Francesco Barbaro: quando la squadra mobile gli mise le manette ai polsi nel 1992 aveva solo 24 anni, ma era già rispettato e riverito da tutti come un boss. Barbaro, nativo di Platì, era in qualche modo un predestinato. Portava infatti lo stesso nome del capostipite della famiglia ’ndranghestista di cui faceva parte: Francesco Barbaro appunto, detto U’ Castanu, classe 1927, ritenuto il re dei sequestri di persona negli anni 80. Il giovane Don Ciccio stava invece facendosi strada nell’organigramma mafioso, trasportando droga dall’Aspromonte fino ai comuni torinesi di Volpiano, Chivasso e Cuorgnè. La squadra narcotici lo fermò con settanta grammi di eroina in tasca, dopo averlo pedinato per giorni e averne annotato frequentazioni e movimenti, mentre si trovava in compagnia di Antonio detto Totu i Natale, un dicianno- venne platiese domiciliato nella provincia di Torino, anch’egli in possesso di un cognome criminalmente altisonante: Agresta. Un altro predestinato, visto che quasi vent’anni dopo, il pentito Rocco Varacalli lo indicherà come capo società a Volpiano. Nel settembre del 2012 Agresta è stato condannato a 10 anni e 8 mesi di reclusione, al termine della prima tranche processuale della maxi-inchiesta “Minotauro” sulla presenza della ’ndrangheta nel torinese. L’onorata picciotteria volpianeis. Questa miglior prole della malavita aspromontana nel basso Canavese diventò l’obiettivo delle indagini condotte dal sostituto procuratore Francesco Saluzzo, che portarono nel novembre del 1992 all’arresto di 28 persone e al sequestro di 53 chili di cocaina ed eroina. I capi dell’organizzazione vennero identificati in Saverio e Antonio Agresta, con la complicità dei fratelli Natale e Saverio Trimboli. Secondo il magistrato «molti degli arrestati erano soci di attività imprenditoriali, qualcuno gestiva la raccolta pubblicitaria di un’agenzia di Torino, altri commerciavano in preziosi o erano proprietari di bar intestati alle mogli o agli amici». Da un’anonima cascina di Volpiano, scelta come covo per custodire gli stupefacenti, la malapianta era riuscita ad infestare il tessuto economico torinese, rinvestendo altissime somme di denaro sporco in attività legali. «Essere riusciti a smantellare una parte della più potente e impenetrabile organizzazione di trafficanti è un grosso successo», affermò Saluzzo in conferenza stampa, aggiungendo però di avere motivo di ritenere che i 28 arrestati facessero «parte di una banda con centinaia di complici». Messi quindi al bando i facili entusiasmi, la presenza delle ’ndrine nel torinese continuò, così come continuò la guerra ai clan portata avanti dalla magistratura 12 | dicembre 2012 | narcomafie che condusse nel 1993 a scoprire un traffico internazionale di droga tra Calabria, Piemonte e Veneto. A dare il via all’operazione era stato il ritrovamento di alcuni interessanti documenti murati nel contro soffitto di una villa nelle campagne di Volpiano di proprietà di una famiglia ritenuta molto vicina alla potente cosca dei Marando. In quelle carte i magistrati trovarono le prove di un vasto giro di eroina e cocaina, organizzato dalla ’ndrangheta volpianese insieme alle criminalità organizzate turca, portoghese e pachistana. Per un soffio non si riuscì ad intercettare una nave carica di 500 chili di eroina, ma in compenso 52 persone vennero raggiunte da provvedimenti di custodia cautelare, tra i quali figurava il super-latitante Pasquale Marando, da anni di casa nel Canavese e capo della locale di Volpiano. Ma fu solo una parentesi, gli affari sporchi legati soprattutto al traffico di eroina, cocaina e hashish continuarono a prosperare nel comune torinese. «C’è stato un periodo durante il quale l’Asl di zona aveva il più alto numero di tossici del Piemonte – raccontò nel 2001 il vicesindaco di Volpiano, Enrico Furlini, in un’intervista a «La Stampa» – questo sta a significare che qui c’era molto offerta, in grado di conquistare anche grosse fette di mercato». Re Pasqualino, “buonanima”. La sorte toccata a Pasquale Marando, re della droga e artefice fin dai primi anni 90 di una rete malavitosa attiva tra Volpiano, Brandizzo e Leinì, è un enigma. Marando sembra svanito nel nulla dal 2001 e nessuno sa con certezza se sia vivo o morto, nonostante quest’ultima ipotesi sia stata avvalorata dalle parole di alcuni pentiti. Eppure, ancora nell’ottobre del 2012, i membri della commissione di accesso al Comune di Reggio Calabria (da poco sciolto per mafia) citano ancora il capo della locale di Volpiano come fuggiasco, nonostante Marando sia stato depennato dall’elenco dei cento latitanti più pericolosi d’Italia. Proprio a Volpiano, il boss era proprietario di una villa-bunker, la “Cascina bianca”, sorvegliata da decine di telecamere che venne confiscata nel 1996 e affidata in gestione al comune, diventando poi la caserma dei Vigili del fuoco di zona. La scelta sulla destinazione d’uso della casa appartenuta a Marando non fu semplice. Il comune avrebbe voluto riutilizzarla come caserma dei Carabinieri, ma alla fine l’ipotesi tramontò. «C’erano voci, non si sa ancora quanto vere – scrisse «La Stampa» del 18 novembre 2001 – che assicuravano vita brevissima a quella caserma». Sembrerebbe dunque che il fantasma di Pasqualino Marando abbia continuato a fare paura, nonostante gli sforzi dei giudici che continuavano a fagli terra bruciata attorno. Le attenzioni degli investigatori si concentrarono in particolare sulla famiglia Trimboli, un gruppo forte e coeso, basato su vincoli di parentela con i Marando. Il primo a finire nelle mani della giustizia fu – nell’agosto del 1995 – Natale Trimboli, cognato e braccio destro di Pasquale Marando, preso nel corso di un blitz sulle montagne attorno a Platì. In carcere ci finì anche Francesco Marando, fratello maggiore del re della mala volpianese, il quale dopo essere riuscito ad evadere, venne ritrovato cadavere nei boschi di Chianocco, in Val Susa. Anche tra i Marando e gli Stefanelli vi era un vincolo di sangue: Francesco era infatti divenuto cognato di Antonio, ma ciò non impedì a Pasqualino Marando di ordire una vendetta tremenda. Un’esecuzione che, suppongono gli investigatori, venne ordinata da Antonio Stefanelli, esponente di una famiglia mafiosa di Oppido Mamertina attiva a Varazze (Sv), per via di alcuni contrasti sulla destinazione di una partita di droga. Il primo giugno 1997, in una delle proprietà volpianesi dei Marando, una villa in frazione Tedeschi, Antonino e Antonio Stefanelli, insieme al loro guardaspalle Francesco Mancuso, vennero uccisi a colpi di pistola. Omicidi consumati dopo che gli Stefanelli erano stati attirati in trappola con la speranza di una soluzione alla guerra tra bande promessa dai Marando. I loro corpi, forse sepolti in una cava, non sono mai stati ritrovati e l’iter giudiziario su questi fatti si concluse nell’ottobre del 2000 con le condanne di Domenico Marando e Giuseppe 13 | dicembre 2012 | narcomafie Leuzzi, insospettabile titolare di un’impresa edile di Torino. Ad aprile del 2003, anche Pasquale Marando venne condannato dalla Corte d’Appello di Torino a 23 anni e sei mesi di reclusione per associazione di stampo mafioso e traffico di droga. Ma il boss, irreperibile da due anni, era già deceduto. Come e perché non si sa, anche se pare verosimile che sia stato ucciso dai cognati Trimboli in quel di Platì. Di sicuro ci sono le testimonianze involontarie di alcuni uomini d’onore che in alcune intercettazioni si riferiscono a Don Pasqualino, chiamandolo con reverenza buonanima. Il nuovo punto di riferimento della locale di Volpiano diventò allora proprio Domenico Marando, che seppure detenuto nel carcere di Rebibbia continuò a dettar legge all’interno del clan. Lo tsunami “Minotauro”. Nell’ordinanza emessa il 13 luglio 2010 (operazione “Crimine-Infinito”), la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha sottolineato come in Piemonte «esista una struttura criminale della ‘ndrangheta organizzata sull’impronta di quella calabrese, comunque subordinata al Crimine reggino». A Volpiano, secondo l’indagine condotta su disposizione della Procura della Repubblica di Torino in seguito all’operazione “Minotauro” del giugno 2011, è attiva una delle nove locali presenti nel territorio torinese, i cui appartenenti riferiscono direttamente in Calabria attraverso Pasquale Barbaro, referente della locale di Platì. Un articolato sodalizio malavitoso che controlla la distribuzione di videopoker e slot machines in esercizi pubblici a Volpiano e nei paesi limitrofi, per poi destinare i proventi al sostentamento dei familiari dei detenuti del clan. Prima fonte di guadagno rimane però da sempre il traffico di droga. Lo conferma il pentito Rocco Marando, affermando che questa è stata l’attività principale, se non esclusiva, del suo gruppo dal 1995 in poi: «Ho trattato sostanze stupefacenti. In particolare, ho trasportato droga da Platì a Torino. I quantitativi di droga, per quanto ne so, arrivavano tramite nave al porto di Genova e poi venivano trasportati con il camion in zone limitrofe a Volpiano». Le dichiarazioni rese da Marando e da un altro collaboratore di giustizia, Rocco Varacalli, hanno permesso di ricostruire l’organigramma dell’onorata società volpianese. È stato addirittura possibile tracciare una vera cronistoria del potere criminale nel comune del basso Canavese, passato nelle mani di Pasquale Marando dopo l’abdicazione di Natale Agresta, padre di Antonio. La carica di capo società era poi toccata a Domenico Marando, fratello di Pasquale, sostituito dopo il suo arresto, dicono i pentiti, da Vincenzo Portolesi. Più recentemente lo scettro del capo sarebbe stato preso da Francesco Costanzo e infine da Francesco Perre. Sarebbe dunque lui, sempre secondo i pentiti, l’attuale capo locale, mentre Antonio Agresta (Totu i Natale) avrebbe assunto il ruolo di capo società. Anche Rocco Trimboli, cognato di Pasquale Marando, ha ricoperto posizioni apicali nella malavita volpianese. Dopo essersi reso irreperibile per molti mesi, il Ros e lo squadrone eliportato dei Cacciatori “Calabria” lo hanno scovato lo scorso aprile nei boschi di Platì. Nel procedimento penale seguito a “Minotauro” non ci sono però solo i nomi di boss e picciotti, tra i 169 indagati rinviati a giudizio spicca infatti il nome del noto politico e imprenditore Nevio Coral, proprietario del gruppo industriale Coral S.p.a. di Volpiano. Per dieci anni sindaco di Leinì, Coral è stato anche candidato alla poltrona di primo cittadino di Volpiano nelle ultime elezioni comunali. Elezioni perse con il 33% dei consensi, ovvero 2.857 voti ottenuti – stando a quanto riportato nell’ordinanza di custodia cautelare – anche grazie all’appoggio di personaggi legati alle ’ndrine come il capo locale Vincenzo Argirò. A quest’ultimo e ad altri ’ndranghetisti ribattezzati «imprenditori», Nevio Coral avrebbe chiesto un aiuto anche per poter essere eletto nelle Provinciali del 2009. Accuse pesanti, che davanti al gip l’ex sindaco di Leinì ha fermamente respinto. Dovrà rispondere di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni dei Carabinieri sono emersi anche particolari riguardanti personaggi minori che spiegano ad esempio il ferreo livello di controllo dell’organizzazione sui singoli membri. È il caso del giovane Domenico Agresta, detto Micu Mc Donald, nato a Locri ma residente a Volpiano, un ragazzone di corporatura decisamente robusta che viene richiamato all’ordine dai capi, perché a Rivarolo «va in giro a fare il teppista... fa il teppistello». Giovane rampollo di mafia, Micu, classe 1988, figlio del boss volpianese Antonio Agresta, è poi finito dietro le sbarre a soli vent’anni per l’omicidio del ventitreenne Giuseppe Trapasso, freddato con due colpi di pistola alla nuca il 15 ottobre 2008 a causa di un debito di droga non pagato. Un omicidio “autorizzato”, stando a quanto si evince dalle intercettazioni, dal capo locale di Cuorgnè Bruno Iaria, per il quale Agresta sta scontando trenta anni di reclusione. La prima parte del processo “Minotauro” è terminata con 58 condanne, inflitte agli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, per un totale di quasi 400 anni di carcere. La seconda fase si è aperta il 18 ottobre e ha visto il comune di Volpiano costituirsi parte civile per «i danni d’immagine che sono stati portati dai risvolti di questa inchiesta». 14 | dicembre 2012 | narcomafie tobre Striglia (non indagato ad alcun titolo) si auto sospende dalla carica di segretario provinciale dell’Udc. Il boss Giuseppe Catalano, il capo dei capi della ’ndrangheta, morto suicida, aveva scelto di dissociarsi Economia ‘ndranghetista. Uno dei primi atti del nuovo sindaco è stato quello di rinverdire le cariche del consiglio di amministrazione della “Chind” (abbreviazione di Chivasso Industria) Spa. Nata nel 1986 come società incaricata di realizzare il “Polo integrato di Sviluppo”, ha un capitale detenuto per il 55% dal Comune di Chivasso. Gli altri azionisti sono FinPiemonte (1,9%), Se.Cap (6,1%), Zoppoli&Pulcher (1%), Cna (1%), Unione Industriale (2%) e Api (2%). La modifica alla composizione del consiglio di amministrazione è necessa necessaria perché, nel frattempo, il cosiddetto decreto “anticrisi” del settembre 2010 ha imposto un taglio alle poltrone. I nuo nuovi ingressi hanno sostituito i vecchi. Tra questi ultimi c’era anche Nicola Marino, figlio di Pietro «che – si legge nell’or nell’ordinanza – è stato iscritto quale Consigliere all’interno dell’am dell’amministrazione della società fin dal 19 novembre 2003 e risulta uno dei pochi ad essere rimasto in carica durante tutti i cambi di presidenza che hanno interessato la Chind a differenza di tutti gli altri consiglieri succedutisi nel tempo. Inoltre – si legge ancora – Marino non risulta avere né una esperienza politica attiva (come invece avvenuto per Barberis Augusto, Zollo Antonio, Bianchini Claudia, Tosi Livio, Brustolon Enrico, Valesio Giuseppe e Alessandro Germani) né una posizione di rappresentanza all’interno del mondo industriale del territo- rio, come avvenuto per Guerrini Massimo, vicepresidente dell’Associazione Piccole e medie Imprese Torino». Marino resta in carica per nove lunghi anni. Ora è indagato per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. È accusato di far parte della locale di Chivasso, di aver partecipato alla colletta in favore di alcuni carcerati di “Minotauro”. Insomma: per la procura è un organico a tutti gli effetti. Tanto che la mattina del grande blitz, l’8 giugno 2011, alle 5.08 – praticamente all’alba – è già al telefono con il fratello. Parlano di Giovanni Vadalà e Pasquale Maiolo appena arrestati. Hanno paura per la sorte del papà Pietro. Il gip commenta: «Tali deduzioni dimostrano in termini ben più pregnanti della sola gravità indiziaria la comune consapevole appartenenza dei due fratelli e del loro padre al sodalizio ’ndranghetistico». Ora ci si chiede se Marino sia riuscito, in tutti questi anni, a influenzare o quantomeno indirizzare le scelte dell’ente a favore del sodalizio di cui farebbe parte. Intanto è uscito dal Cda a giugno 2012. Gli interrogativi restano. I ventidue presunti affiliati si sono difesi affermando di essere «estranei a tutte le contestazioni». Per la serie: ma quale ’ndrangheta? Mi dissocio. La “chiosa” più emblematica di questa storia è regalata – suo malgrado – dal capo dei capi: Giuseppe Catalano. È lui il padrino di “Minotauro”. Ha contatti con i boss più rappresentativi dei mandamenti calabresi. Disegna parabole criminali. Semina trame politiche. È il custode delle regole e dei riti. O meglio, era tutto questo. Lo scorso 24 aprile si è infatti suicidato lanciandosi dal balcone della sua casa di Volvera, dove era detenuto agli arresti domiciliari. Da qualche mese Catalano aveva fatto una scelta atipica per l’associazione ’ndrangheta. Non si era pentito, si era dissociato. Aveva preso le distanze dall’organizzazione: «Non ne voglio fare più parte» disse in preda – anche – a una forte depressione. Per gli affiliati fu un colpo duro. Perché se il capo supremo da cui tutti dipendono ammette implicitamente di aver fatto parte di una struttura, allora – sembra chiaro – quella struttura esiste, c’è. E così l’uomo venerato in vita, ossequiato da tutti, interpellato anche per le piccole decisioni («perché lui dà buoni consigli e non ti sbagli mai»), diventa di colpo il nemico. Almeno per Mario Tonino Maiolo, figlio di Pasquale Maiolo, capo locale di Livorno Ferraris. Al telefono con la madre e con la fidanzata fotografa perfettamente la capacità della ’ndrangheta di voltare le spalle ai traditori, anche se capi di valore indiscusso: «Lui ha ammesso che c’è un’organizzazione. In questo modo gliela mette nel c... agli altri. Pure da vivo si atteggiava, faceva il buffone». Strano «per uno che ha trattato cose di ’ndrangheta per cinquant’anni e che a diciotto anni ha ammazzato per la prima volta». Si scopre così che al funerale di Giuseppe Catalano non andò nessuno, «nemmeno un cane – dice Mario Antonio Maiolo –. E chi ci va da uno che è passato per cornuto?». Epitaffio inglorioso sulle ceneri di un boss traditore. 15 | dicembre 2012 | narcomafie brevi di mafia Piemonte, la mafia c’è ma è innocua Sono una doccia fredda le motivazioni della sentenza con cui il giudice per l’udienza preliminare Massimo Scarabello ha assolto 17 dei 19 imputati nel processo Maglio-Albachiara che i pm Roberto Sparagna, Monica Abbatecola ed Enrico Arnaldi Di Balme avevano invece indicato come affiliati della ’ndrangheta nel basso Piemonte e per questo meritevoli di condanne fino a nove anni di reclusione. Che gli imputati fossero legati all’organizzazione criminale dell’alessandrino anche per il gup è pacifico (d’altronde Bruno Pronestì, l’unico condannato a un anno e sei mesi per il possesso di una pistola non denunciata aveva ammesso di essere uno ’ndranghetista, e Franco Guerrisi aveva concordato una pena per assistenza agli associati): il fatto è che presentavano, a suo giudizio, un basso tasso di mafiosità, uno scarso potere intimidatorio, non sufficiente a condannarli. Sono stati provati «atti preparatori finalizzati a dar vita a un’associazione di tipo ’ndranghetistico che della casa madre riprende stili e metodiche, regole e costumi, ma che – questo il punto cardine della sentenza – non si è ancora atteggiata nei confronti della popolazione creando assoggettamento e omertà». Non era bastata a sottolineare la gravità della presenza ’ndranghetista neanche la memoria che i pm avevano presentato – a seguito delle scarcerazioni nell’estate 2012 – nella quale Paolo Bellotti, consigliere comunale dell’Idv, ricostruiva un episodio del marzo 2011 in cui si era visto scagliare contro una sedia da parte di Giuseppe Caridi (nella foto, ndr.), consigliere Pdl affiliato alla ’ndrangheta, anch’egli tra gli assolti. Ricostruzione in Emilia, è allarme mafia Che in Emilia il terremoto potesse diventare un’occasione per le organizzazioni criminali – visto il caso Abruzzo – lo si era detto all’indomani del terribile sisma del maggio 2012. Ora che dal 10 gennaio, tramite l’accordo tra Abie e Cassa deposito e prestiti, le banche possono erogare i 6 miliardi di contributi messi a disposizione dallo Stato per la ricostruzione, tornano a mobilitarsi i sindaci delle zone colpite. Non bastano le pur importanti white list approntate dalla Regione per scongiurare le infiltrazioni: come più volte denunciato da Fernan- do Ferioli, primo cittadino di Finale Emilia, l’elenco delle imprese pulite, consultabile sul sito della prefettura, non mette al riparo da infiltrazioni nei subappalti né dal rischio che le imprese con difficoltà di accesso al credito, i cui canali sono sempre più ristretti, possano finanziarsi tramite capitali di provenienza criminale. Ora che i cittadini si presenteranno agli sportelli per ottenere l’80% delle risorse necessarie alla ricostruzione delle loro abitazioni o aziende colpite dal sisma, il rischio è che molti – soprattutto i privati, che procederanno con affidamento diretto – foraggeranno imprese collegate a circuiti di illegalità. Sono infatti oltre 900 le pro- cedure avviate con il modello unico per l’edilizia (Mude) ai fini di ottenere il contributo per circa 3mila abitazioni. Claudio Broglia, sindaco di Crevalcore, ha avviato una importante campagna di comunicazione per tenere alta l’attenzione dei cittadini: l’appello è quello di rivolgersi ai professionisti del territorio per avere segnalazioni di ditte sicure e affidabili. Con la consapevolezza che l’unico strumento è quello di tenere alta la guardia, visto che numerose inchieste degli ultimi anni dimostrano che l’impresa del nord Italia non sempre è lontana da contatti – o peggio – con organizzazioni di stampo mafioso. a cura di Manuela Mareso Reggio Calabria, un consulente al servizio della ’ndrangheta Trascriveva il contenuto delle intercettazioni omettendo passaggi che per l’impianto accusatorio sarebbero stati fondamentali. Questa la tesi dell’accusa contro Roberto Crocitta, consulente incaricato da parte delle difese di alcuni boss coinvolti in importanti processi quali “Crimine” e “All Inside”, che avrebbe favorito boss delle cosche Bellocco, Pesce e Gallico. Secondo il procuratore Ottavio Sferlazza, scrive Lucio Musolino del «Corriere della Calabria», «Crocitta è quello che noi chiamiamo “area grigia” della ’ndrangheta. Un professionista che veniva pagato profumatamente per trascrivere intercettazioni di due o tre pagine». Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Michele Prestipino ha affermato: «Finché ci saranno colletti bianchi, che sia pure per ragioni diverse, cedono alle lusinghe della ’ndrangheta, le cosche manterranno la propria capacità di penetrare il tessuto sociale, civile ed economico, con tutte le conseguenze che ben conosciamo. Per questo è così importante svelare le connessioni e le complicità tra la zona grigia e le mafie». Decisa la risposta dell’avvocato di Crocitta, Antonino Napoli: «La difesa ha già contattato alcuni consulenti di fama internazionale a cui ver verranno sottoposti i tre colloqui contestati a Crocitta dalla Dda di Reggio Calabria». 16 | dicembre 2012 | narcomafie brevi di mafia Catanzaro, indagati 3 magistrati per fuga di notizie Il giudice Giancarlo Bianchi e i pm Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo, magistrati del distretto di Catanzaro, sono accusati dalla Dda di Salerno di aver rivelato informazioni coperte da segreto. Le loro voci sono comparse in alcune registrazioni dei carabinieri del Ros che indagavano sulle cosche del vibonese. Sul Fattoquotidiano.it dell’11 gennaio Davide Milosa ricostruisce la figura di Giancarlo Bianchi, il giudice del tribunale di Vibo Valentia che nel 2005 dispose il ricovero provvisorio del boss di Limbadi Pantaleone Mancuso «in assenza delle condizioni previste dalla legge [...] creando una oggettiva condizione di vantaggio rappresentata dalla conseguente accresciuta possibilità di comunicazione verso l’esterno». Il ricovero, protrattosi per 27 giorni nonostante il termine di una settimana, venne interrotto solo grazie a un intervento dell’onorevole Angela Napoli. Bianchi è anche il giudice che aveva autorizzato diverse visite odontoiatriche per Filippo Fiarè, della omonima cosca alleata con i Mancuso, presso lo studio del figlio. E che non aveva rivelato agli investigatori che lavoravano su un omicidio la confidenza fattagli dall’avvocato dei Mancuso Antonio Galati secondo cui lo stesso Fiarè sarebbe il mandante del delitto. Nell’inchiesta sono coinvolti anche due funzionari di polizia. Il Gip ha respinto la richiesta di applicazione della misura interdittiva nei confronti dei tre magistrati, ma la Procura salernitana ha già presentato ricorso al Tribunale del riesame. Milano, Ciccio Pakistan bussa alla porta dei servizi sociali È stato vittima di un agguato nel giorno più bello per una famiglia, quando si porta a casa il primogenito nato da pochi giorni. Era il 31 luglio 2006 e Francesco Pelle (nella foto, ndr.), detto “Ciccio Pakistan” per il colore olivastro della pelle, veniva colpito da una raffica di colpi mentre si trovava nella veranda della sua casa ad Africo Nuovo. Dal letto di ospedale si sarebbe rialzato solo per rimanere su una sedia a rotelle, paraplegico a vita, ma questo non bastò ad allontanarlo dalla faida di San Luca (che dal 1991 vede contrapposti i Pelle-Vottari contro i NirtaStrangio) e a distoglierlo dall’organizzazione di altri omicidi, tra cui quello, nel Natale 2006, di Giovanni Nirta, al cui posto morì per una fatalità la giovane moglie Maria Strangio, madre di tre bambini. L’episodio avrebbe poi scatenato la strage di Duisburg nel Ferragosto dell’anno dopo. Arrestato nel 2008 mentre da latitante si trovava ricoverato nel reparto neuroriabilitazione della clinica Fondazione Maugeri di Pavia sotto falso nome (grazie all’appoggio di un medico compiacente e all’indifferenza di colleghi che non si chiedevano come mai a una persona “investita da un camion” dovessero essere asportati frammenti di proiettile da una spalla), ora Ciccio Pakistan (classe 1977) è agli arresti domiciliari a Milano, dopo una condanna all’ergastolo come mandante della strage di Natale. E chiede aiuto ai servizi sociali perché non ce la fa più a pagare le bollette. Lui che in clinica, con il nome di Pasqualino Oppedisano, si vantava delle sue ricchezze e proprietà, ora tutte confiscate. La pratica a fine 2012 era ancora al vaglio degli uffici competenti. Capodanno di intimidazioni sui beni confiscati Non si fermano gli attentati sui beni confiscati alle mafie. Al Villaggio della legalità “Serafino Famà” di Borgo Sabotino, in provincia di Latina, che da alcuni anni ospita campi di volontariato e organizza momenti di formazione per centinaia di giovani provenienti da tutta Italia, l’associazione Libera è tornata a riparare i danni causati da ignoti che il giorno di capodanno hanno appiccato il fuoco ai tendoni. Già nell’ottobre del 2011 e nel novembre 2012 la struttura venne vandalizzata. Stessa sorte, nella notte del 31 dicembre, per il ristorante “Nuova cucina organizzata” di San Cipriano D’Aversa, gestito dalla cooperativa Agropoli. Quattro colpi di pistola sono stati esplosi da un’auto in corsa. Il giorno precedente a Casal di Principe, nei pressi del Santuario della Madonna di Briano, si era anche registrato il furto del monumento al carabiniere Salvatore Nuvoletta eretto su un terreno confiscato a Francesco Sandokan Schiavone, mandante dell’omicidio del militare appena ventenne. L’opera, realizzata da Antonio De Filippis e inaugurata nel settembre del 2009, era stata donata dalla famiglia di Federico del Prete, il sindacalista degli ambulanti ucciso a Casal di Principe il 18 febbraio del 2002. 17 | dicembre 2012 | narcomafie brevi di mafia Coral a Leinì, applausi e abbracci Trattativa Stato-mafia, 11 rinvii a giudizio L’ex sindaco di Leinì (To) Nevio Coral, arrestato nel giugno 2011 nell’ambito dell’inchiesta Minotauro che ha disarticolato 9 locali della ’ndrangheta in Piemonte e accusato di concorso esterno in associazione mafiosa nel processo che si sta tenendo presso l’aula bunker del carcere delle Vallette di Torino, è stato calorosamente accolto durante l’inaugurazione di un asilo nido comunale. Coral, definito nelle carte giudiziarie «trait d’union tra politica, economia e mafia» ha abbracciato i consiglieri comunali. Uno dei tre commissari governativi che dai tempi dello scioglimento del Comune governano la città, Giovanni Icardi, per il disturbo arrecato ha faticato per finire di leggere un documento; Coral ha stretto a sé anche don Carlo Fassino, il parroco che da sempre lo protegge dalle accuse infamanti. Quattro uomini di Cosa nostra: Leoluca Bagarella, Totò Riina, Giovanni Brusca e Antonino Cinà; tre uomini delle istituzioni: Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino; tre ufficiali dei carabinieri: Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno; e infine Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Stralciata la posizione di Bernardo Provenzano. Per tutti gli altri, invece, il pm Nino Di Matteo, davanti al gup Piergiorgio Morosini, ha chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito del processo per la trattativa Stato-mafia, sostenendo la tesi secondo cui «uomini dello Stato trattarono con la mafia in nome di un’inconfessabile ragion di Stato». Il patto sarebbe stato suggellato da ex ministri, con il tramite di Dell’Utri, per scongiurare nuovi attentati in cambio di un ammorbidimento del carcere duro. Mafia al nord, omertà nei processi «Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento». Il comma 4 dell’articolo 500 è una deroga al principio dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese al di fuori del processo, a cui nelle aule dei processi di mafia che si stanno tenendo nel nord Italia capita sia necessario ricorrere. È quanto avvenuto per Redux-Caposaldo, processo contro la famiglia Flachi (nella foto il boss Giuseppe, oggi ai domiciliari per gravi motivi di salute, per cui sono stati chiesti 16 anni di reclusione) scaturito a seguito dell’operazione del marzo 2011: 23 testimoni hanno ritrattato quanto confidato agli investigatori in fase di indagine, o addirittura negato il contenuto di intercettazioni telefoniche, e per quattro di loro – titolari di autonegozi vittime di estorsioni – è stato possibile applicare la deroga. Il pm Storari nel corso della requisitoria ha sottolineato come molti “paninari” siano vittime impaurite, a cui, per alcuni di essi, si aggiunge anche la convenienza registrata nell’accettare la “protezione” da parte della ’ndrangheta: chi pagava vedeva la sua piazza tutelata dall’arrivo di nuovi concorrenti. Che le ’ndrine siano un alleato importante lo sottolineano nello stesso processo anche due dirigenti della Tnt (azienda di spedizioni i cui vertici erano stati commissariati nel 2011 perché infiltrati dagli uomini di Flachi attraverso le società Edilscavi e Mfm) chiamati a testimoniare: «Con l’ingresso di Edilscavi abbiamo diminuito i mezzi e i costi e abbiamo migliorato la produttività». Aosta, maxisequestro ai Nirta Il Tribunale di Aosta ha convalidato lo scorso 11 gennaio il sequestro dei beni di Giuseppe Nirta, il 60enne di Quart, attualmente in carcere a Bologna, dove sconta una condanna a 7 anni e 8 mesi inflitta nel 2009 per narco- traffico internazionale. Tra i beni sequestrati ci sono diversi immobili e terreni a Quart, un magazzino a Charvensod, tre immobili a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, conti correnti bancari (di cui due in Svizzera) e autovetture formalmente intestate ai famigliari. Il difensore Paolo Pacciani ha spiegato che la famiglia Nirta che vive in Valle non c’entra nulla con le cosche ’ndranghetiste. Il collegio, nel decreto di sequestro, ha invece rimarcato «un’accertata sproporzione tra i redditi dichiarati e gli immobili posseduti» dalla famiglia e ha disposto il provvedimento in virtù della «facile dispersione e occultamento» degli stessi beni. 18 | dicembre 2012 | narcomafie Infiltrazioni mafiose in Liguria Svolta a Ponente A oltre un mese dall’inchiesta che ha sconvolto il ponente ligure, la situazione nella regione rimane incerta. Negli anni la ’ndrangheta ha sviluppato complicità e legami politici, evidenziati nello scioglimento dei comuni di Ventimiglia e Bordighera. Ma il parere favorevole del Consiglio di Stato al ricorso del sindaco di quest’ultimo crea paradossi e disorientamento di Stefano Fantino 19 | dicembre 2012 | narcomafie L’inchiesta “La Svolta” del 3 dicembre scorso, condotta dalla Dda di Genova, ha colpito al cuore il locale di Ventimiglia: affari e traffici illeciti, ma soprattutto presunti contatti con i politici locali più in vista. Uno di questi, Armando Biasi, giovane sindaco di Vallecrosia, poche settimane dopo l’inchiesta ha dato le dimissioni dalla poltrona di primo cittadino, lasciando nell’incertezza, con il possibile insediamento di una commissione di inchiesta, il piccolo comune tra Ventimiglia e Bordighera, le due amministrazioni sciolte per mafia che vedono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa l’ex sindaco Gaetano Scullino e il city manager Marco Prestileo la prima, e per voto di scambio l’ex primo cittadino Giovanni Bosio la seconda. Bordighera proprio in questi giorni vive il suo momento più travagliato: il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso di Bosio, ma il ministero dell’Interno si è già detto pronto a impugnare la sentenza. L’ombra lunga delle ‘ndrine. Andiamo con ordine, cominciando da un’operazione epocale che vede una ’ndrangheta capace di spostare pacchetti di voti, imporre i nomi dei candidati alle elezioni, sia di centrodestra sia di centrosinistra. Parla chiaro l’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere 11 persone e che vede indagati altri 17 soggetti. Sarebbe il già noto Giuseppe Marcianò il capo del locale di Ventimiglia. Con lui in manette il figlio Vincenzo e il nipote, omonimo di quest’ultimo, Omar Allavena, Giuseppe Gallotta, Antonio Palamara, Giuseppe Scarfò, Annunziato Roldi, Federico Paraschiva, Salvatore Trinchera, Giuseppe Cosentino, tutti accusati di associazione a delinquere di tipo mafioso finalizzato all’usura, all’estorsione e al traffico di droga. Notificata l’ordinanza di custodia cautelare anche a Filippo Spirlì, Rosario Ambesi e ai due fratelli Pellegrino, Maurizio e Roberto. Nomi già noti in parte alle cronache giudiziarie. Nei primi giorni di dicembre però nei bar e nei negozi del ponente si parla soprattutto di altri nomi, quelli dei politici. Questi sì che fanno scalpore: l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino, l’ex direttore generale dello stesso comune Marco Prestileo (accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d’ufficio), l’ex sindaco di Bordighera Giovanni Bosio e l’attuale sindaco di Vallecrosia – ora dimissionario – Armando Biasi (accusati di voto di scambio). Alle loro spalle l’ombra lunga delle ’ndrine capaci, secondo gli inquirenti, di portare a buon fine una serie di ingerenze: il periodo è quello che va dal 2008 al 2010, nelle competizioni elettorali. Insomma a Ventimiglia, Bordighera, Vallecrosia, le ’ndrine avevano i loro cavalli vincenti e anche quando perdevano, riuscivano lo stesso a cadere in piedi. Proprio Peppino Marcianò in una telefonata a un affiliato afferma: «Vedi che abbiamo fatto bene a puntare su […]. Ma se vince […] siamo coperti pure». Due anni di indagini, partite da quei sintomi che poi portarono agli scioglimenti amministrativi di Bordighera e Ventimiglia, disegnano ora la mappa di un Ponente in cui le ’ndrine avevano la capacità di garantirsi un’“amministrazione amica” per entrare da padroni nella macchina pubblica. Un blitz in grande stile. L’ultimo tsunami sulla ’ndrangheta dell’estremo Ponente era arrivato con il movimento vorticoso delle pale di elicottero. Un atterraggio in grande stile nel centro della piazza del Comune di Ventimiglia, circa duecento i carabinieri impiegati dalla Dda di Genova. Suggellata da un lavoro di equipe con la procura di Reggio Calabria, l’operazione la “Svolta”, forte del lavoro di documentazione fornito dai Carabinieri di Imperia, punta ai rapporti con la politica del “locale” di Ventimiglia. Per i magistrati, nell’ordinanza di custodia cautelare, la figura di Peppino Marcianò è quella del “puparo” che gestisce i suoi contatti e fa da tramite per le questioni più disparate, in un Ponente dove «capita [...] di vedere sindaci e manager del Comune che fanno affari con la società di famiglia, candidati che chiedono voti e finanzieri che per un trasferimento sempre a lui si rivolgono, al vecchio burattinaio, che tra i suoi contatti vanta (o millanta) pure quelli con un “generale della Finanza”, e con “agenti dei servizi segreti”». Non bastasse la sfilza di politici e forze dell’ordine in amicizia, nell’ordinanza spunta un particolare agghiacciante, quando in alcune intercettazioni ambientali si fa riferimento a un «magistrato di Genova» a libro paga, un uomo delle istituzioni che per «10mila euro» è disposto a «vendere i propri servigi». 20 | dicembre 2012 | narcomafie Pare scontato, ma nel 2013 in Liguria per parlare di mafia bisogna partire dal concetto di omertà, di rispetto, di paura che alcuni uomini incutono nell’ambiente in cui vivono Ventimiglia, l’eterno ritorno di Marcianò. Pare scontato, ma nel 2013 in Liguria per parlare di mafia bisogna partire dal concetto di omertà, di rispetto, o forse meglio di paura che alcuni uomini incutono nell’ambiente in cui vivono. Anche senza sentenze passate in giudicato, spesso si sa chi rappresenta che cosa nel territorio. Un’intercettazione telefonica registra un funzionario di banca: «Mo’ senti questo che è un mafioso (squillo), mo’ senti come parlo con i mafiosi (…)». Con queste parole, rivolgendosi a un col collega, il funzionario mostrava di sapere di dover cambiare registro nel momento in cui parlava con don Peppino. Leg Leggiamo nell’ordinanza: «Sentito successivamente dai Carabinie Carabinieri riguardo alle ragioni di tale sua affermazione ha confermato il suo atteggiamento remissi remissivo nei confronti dei Marcia Marcianò in quanto unanimemente ritenuti“mafiosi” in base alle conoscenze acquisite dopo il suo insediamento nella zona». Forte di questo rispetto diffuso, il compare Peppino si è dedica dedicato a quello che meglio sa fare: offrire cene. Già nei primissimi anni 80 è noto come sensale che organizza banchetti per le visite nell’estremo Ponente di Alberto Teardo (Psi), che da presidente della Regione fu al centro di un’intricata inchiesta giudiziaria che vedeva corruzione, massoneria e ’ndrine a giocare sullo stesso tavolo. Si parla di trent’anni fa. Ora poco è cambiato. Marcianò assicurava cene elettorali nel suo ristorante di Ventimiglia e, dopo la cessione dell’attività, aveva trasferito nella sua casa il suo quartier generale. Secondo gli inquirenti era a lui che si rivolgeva la politica in periodo di campagna elettorale, al punto che oltre a organizzare cene e incontri, Marcianò e i suoi “collaboratori” provvedevano anche alla formazione delle liste inserendo i propri uomini. E sempre dalla base di Marcianò, nei mesi scorsi, si muovevano anche le attività illecite del gruppo. Era quello il luogo preferito dai reggenti delle ’ndrine ventimigliesi per discutere e accordarsi. Antonio Palamara e Giuseppe Marcianò, si incontrano nel bar “Le Volte”, gestito dalla moglie di quest’ultimo. A tenere banco, in una giornata di fine novembre del 2010, è la notizia dell’agguato a colpi di fucile che due uomini, il geometra Ettore Castellana e Nunzio Roldi (questi arrestato a inizio dicembre), hanno compiuto ai danni di Piergiorgio Parodi, costruttore imperiese impegnato nei lavori per il porto di Ventimiglia. I dubbi di Marcianò riguardano le possibilità che Castellana, messo sotto torchio dalle forze dell’ordine, possa rivelare gli interessi delle cosche calabresi che stanno dietro all’attentato. «Mo gli canta tutto quello Castellana [...] domani … del fatto di qua che c’è la ’ndrangheta che vuole entrare nell’affare qua» dice testualmente a Palamara. Ora scopriamo che nelle stesse basi addirittura si organizzavano le liste elettorali per le elezioni. Non stupisce affatto che nella relazione riguardante lo scioglimento del comune di Ventimiglia si leggesse quanto segue: «La struttura criminale operante nel ponente ligure, infatti, pur avendo preso origine dalla cosca madre operante in Calabria, adottandone in toto l’organizzazione, le tradizioni ed i rituali, si è differenziata per connotati meno sanguinari e violenti. Nel corso degli anni, ha potuto così svilupparsi in maniera sotterranea, costruendo una ramificazione basata su complicità, legami parentali e cointeressenze. Tale situazione ha consentito di ottenere vantaggi sia come offerta di posti di lavoro, primo passo per il controllo del territorio, sia sotto forma di benefici di tipo economico mediante l’acquisizione di licenze o autorizzazioni per attività di imprese in vari settori economici, che in breve tempo hanno portato molti calabresi residenti nel ponente ligure ad arricchirsi e recitare un ruolo di primo piano nel panorama dell’economia e della politica locale». E non stupisce nemmeno che al centro della relazione ci sia una ditta, la Marvon, collegata allo stesso Marcianò, che avrebbe avuto un trattamento di favore da parte dell’amministrazione, guidata da Tano Scullino e dal commercialista Prestileo, city manager della città intemelia, ora entrambi indagati. Voti gestiti, ma anche timore da parte della gente come già sottolineato: dall’indagine emer emerge anche il potere in città di Marcianò, in relazione all’arrivo di tre calabresi della cosca Piromalli a Ventimiglia. Marcianò nel recarsi in albergo per fissare alcune camere pretese che non venissero registrati. E la donna stessa, interrogata dai Carabinieri a riguardo, ammise di aver acconsentito perché era notorio che fosse una persona che «era meglio non far arrabbiare». 21 | dicembre 2012 | narcomafie La politica cerca appoggi. «Allora, cosa hai deciso, mi appoggi oppure no?». Non sono le mafie a bussare al portone, è la politica a far partire la contrattazione: questa la convinzione degli investigatori, secondo i quali il presunto capo della cosca era solito organizzare cene elettorali nel suo ristorante. Molta attenzione nello stilare le liste elettorali facendo caso a non inserire troppi calabresi «perché altrimenti – avrebbe detto, intercettato in un’ambientale – poi se ne accorgono». Un passo che, sempre secondo gli inquirenti, rappresenterebbe un passaggio ulteriore rispetto al voto di scambio: «Di fatto non sussiste: in questo caso è stata operata una costante ingerenza nel mondo della politica che ha portato gli indagati a costruire amministrazioni amiche». Nei guai non solo Scullino e Prestileo, ma anche l’ex sindaco del comune bordigotto, Giovanni Bosio, travolto al suo tempo dallo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose e per un trattamento favorevole alla famiglia Pellegrino, che ne avrebbe sostenuto la campagna elettorale per l’elezione. Ora, come già accennato, Bosio, vive un paradosso: indagato per voto di scambio, ha visto il parere favorevole del Consiglio di Stato in merito al ricorso contro lo scioglimento del Comune di cui era sindaco. Secondo la Procura scambiava i voti con individui poco raccomandabili, secondo il Consiglio di Stato la relazione dell’allora prefetto Di Menna non era abbastanza robusta per far sciogliere il Comune. Scioglimento o meno, a badare al sodo e a non fare preferenze di campo era il “Locale di Venti- miglia” che annoverava contatti se non frequentazioni con tutti i maggiori esponenti politici del Ponente. Nella città di confine, ovviamente, con Gaetano Scullino, ex sindaco di centrodestra, che, dicono alcuni indagati intercettati, avrebbe cercato di limitare le frequentazioni per non dare nell’occhio. «Il sindaco m’ha detto, non si può più Peppino, che se mi vedono che parlo con voi...» così il presunto capolocale Marcianò. Di fianco a Scullino il suo braccio destro, Marco Prestileo, direttore generale del comune di Ventimiglia, nonché vero factotum degli affari che dalla Civitas, società in-house del comune, arrivavano alla Marvon, dietro la quale si celava proprio Marcianò. Un aspetto questo, che cercheremo di approfondire più avanti. Dalle carte salta fuori anche il nome di Eugenio Minasso, deputato Pdl: gli uomini di Marcianò parlano di concreti aiuti: «Lo aiutammo, eh eh... – dice Vincenzo Marcianò, figlio di Peppino –. Lo abbiamo portato lassù da Antonio Palamara (altro pezzo da novanta della ’ndrangheta, nda), parlarono preoccupati, gli disse che una sessantina di voti nella nostra famiglia li avrete». Che poi sessanta voti siano pochi o tanti, resta il fatto che non è questa la prima volta che qualcuno visita i potenti locali per un consiglio, un aiuto, una benedizione. E il colore politico non c’entra. Le amicizie conducono anche a Marco Bertaina, ex sindaco e ora vicesindaco di centrosinistra di Camporosso, tra l’altro attivo in molte battaglie antimafia ma con cui il boss ha contatti («Vedi che l’altro giorno abbiamo parlato con Marco Bertaina. Io ci sto dietro, forse dovrebbero prendere un lavoro Dolceacqua... Poi della Docks Lanterna»). Vi era dunque una conoscenza al punto che Marcianò invita una persona che si era a lui rivolta, a spendere il suo nome proprio presso Bertaina, come leggiamo nell’ordinanza: «Il “patronato” che Marcianò Giuseppe esercita di fatto nell’estremo Ponente Ligure sembra concernere gli affari più disparati. In un caso, i familiari della sorella di tale Morabito Gianni n.m.i., deceduta a Gioia Tauro, hanno chiesto a Trinchera Salvatore se era possibile tumularla in Camporosso ove erano stati sepolti altri suoi congiunti. Trinchera ha chiesto allora a sua volta a Giuseppe se avesse delle conoscenze in loco. Marcianò Giuseppe lo indirizza dal vicesindaco di Camporosso Bertaina Marco, dicendogli di “spendere” il suo nome... [... Marcianò G: si, andate, lo incontrate gli dite “abbiamo parlato con Peppino”, vedete se mi potete...”...]». E lo stesso Bertaina è colui che nel 2010 promosse una lista per le provinciali, schierando Ettore Castellana (già responsabile dei colpi di fucile all’ingegnere Parodi, insieme a Nunzio Roldi, uomo di Marcianò) e Vincenzo Moio, ex vicesindaco di centrodestra a Ventimiglia e indagato dalla Dda di Genova. Bertaina è dietro anche alla lista “Pensionati”, che corse alle regionali schierando un altro transfugo di Ventimiglia, Tito Giro, gradito, si legge nell’ordinanza, sempre ai Marcianò. E anche se qualcuno da Genova fa la voce grossa, ad esempio il consigliere regionale del Pd Scibilia, di Ventimiglia, nell’estremo Ponente Nelle intercettazioni ambientali si fa riferimento a un magistrato di Genova a libro paga: un uomo delle istituzioni che per 10mila euro è disposto a vendere i propri servigi C’eravamo tanto amati 22 | dicembre 2012 | narcomafie di Marco Antonelli e Marco Baruzzo Il 20 luglio 2011 un’imbarcazione partita da Santo Domingo approda sulle banchine del porto di La Spezia. Emerge un quadro inquietante, in cui è chiaro che la città non è immune dalla morsa di ’ndrangheta e camorra. Cronaca delle operazioni Caucedo e Hot list Prendete quattro camorristi salernitani, un boss ’ndranghetista nato e attivo nell’hinterland di Milano, un quarantenne di buona famiglia sarzanese con il vizio di commerci pericolosi: ecco servita la strana storia di Giordano Cargiolli, trentanove anni, rampollo di una famiglia di storici imprenditori, titolari di un mobilificio importante a Pallerone, nei paraggi di Aulla (Massa Carrara). Cargiolli è il protagonista di una delle vicende criminali più sorprendenti degli ultimi anni. Lo scenario è la provincia di La Spezia: angolo di Liguria che non sembra più Liguria e che non è ancora Toscana. Un corridoio oscuro, dove, al riparo dai riflettori della grande comunicazione, si annodano i fili di molteplici trame criminali. Giordano Cargiolli si trascina da anni un vizio: le cronache giudiziarie ne danno notizia già nel 1994, quando, ventunenne, finisce nell’elenco degli arrestati a seguito di un’imponente opera-zione antidroga condotta dalla Questura di Genova. Un grande sequestro di ecstasy e molti arresti. Si trattava solo della premessa. Crolla il muro. Il 20 luglio 2011 un’imbarcazione partita da Santo Domingo approda sulle banchine del porto di La Spezia (terzo in Italia per traffico di container). Uno stock apparentemente normale, se non fosse per quell’unico contenitore, carico di mattonelle, nel quale i funzionari della dogana scoprono una controparete, nascosta da una specie di paratia: dietro la controparete, un muro alto tre metri di panetti di cocaina: un chilo e mezzo l’uno. Il totale è una tonnellata di polvere bianca, con tanto di marchio, firma di un cartello di narcos sudamericani. Come se non fosse stato scoperto nulla il container viene risaldato, la parete ridipinta. Il muro di cocaina riprende il viaggio: prima dalla Spezia verso Genova, quindi verso Gioia Tauro, poi ancora verso Genova. I settecentocinquanta panetti (quasi trecento milioni di euro il valore stimato) sbarcano e s’incamminano alla volta di Aulla, dove un magazzino affittato per l’occasione deve fungere da punto logistico. Ma proprio in quel magazzino, in realtà da tempo individuato dalla Guardia di Finanza che sorvegliavano l’imbarcazione, gli inquirenti tendono l’inganno ai trafficanti, il punto culminante dell’operazione Caucedo: finiscono con le manette ai polsi Giordano Cargiolli, Alfredo Gradisca (avellinese, trentaquattro anni, titolare della ditta tedesca Kontelux, cui è intestato il contratto di affitto del magazzino di Aulla), Alessandro Bernucci (di Carrara), Juan Carlos Romero Perez (di Madrid), Juan Pablo Ramirez Carvajal (di Medellìn, Colombia). La cocaina viene sequestrata – nel giro di qualche mese viene inviata all’inceneritore di Livorno, per sedare sul nascere possibili tentativi di recupero da parte di altri clan criminali –. Si tratta di una delle più grandi partite di cocaina sequestrate in Italia, la quarta in Europa: un avvenimento memorabile. La magistratura dispone anche il sequestro di dieci automobili, ma soprattutto del contenuto di due cassette di sicurezza intestate alla mamma di Cargiolli, Georgeta Doxan, romena, titolare di un centro estetico alla periferia di Sarzana (Sp): una cifra complessiva che supera il milione di euro, una quantità di denaro ingiustificabile e sproporzionata al reddito dichiarato dalla Doxan e dai suoi familiari, sufficiente per fare scattare l’accusa di riciclaggio. La spedizione sarzanese. La vicenda di Giordano Cargiolli sembra chiudersi qui. Ma il 20 di-cembre 2011, nelle prime ore del pomeriggio, si presenta nel centro estetico di Georgeta Doxan uno sconosciuto: risponde al nome di Biagio Nasti. Ha ventotto anni, viene da Nocera Inferiore, con qualche piccolo precedente alle spalle. Fissa un appuntamento, per le 19.15 della stessa sera. Non si presenta però all’orario stabilito: arriva alle 19.55, quando il centro estetico sta per abbas-sare la serranda. Lo raggiunge subito un altro uomo, anche lui salernitano, che risponde al nome di Florindo Auricchio, mentre un terzo uomo, anche egli salernitano, Gennaro Alfano, si piazza all’ingresso del negozio, ostruendolo. Alfano, come Auricchio, ha qualche precedente penale. I tre minacciano la donna: hanno in mano una lista e sostengono che l’abbia redatta lo stesso Cargiolli, dal carcere. È un elenco di oggetti da ritirare: «Dare zaini, dare un milione e duecentomila euro, dare orologi, dare le chiavi del loft». I salernitani fanno sul serio: «O mi dà quello che mi deve e che sta scritto sulla lista oppure per lei si mette male, perché ho l’ordine di portarla via. Facciamo parte di una famiglia calabrese. Ora non 23 | dicembre 2012 | narcomafie mi sono portato la pistola, se dovessi ritornare le cose si mettono peggio». La risposta della donna è pronta, stranamente pronta: dice di avere già una propria «famiglia». Il negozio viene messo a soqquadro, mentre Biagio Nasti, di-mostrando scarso entusiasmo per l’azione, si mette a giocare con il cane maltese di Georgeta Doxan, invece di prenderlo a calci, come avrebbe dovuto fare secondo i suoi compagni. Poco professionale. L’esito della ricerca nel negozio non è soddisfacente: dietro costrizione, Georgeta Doxan accom-pagna i tre salernitani fino a casa propria, a Luni Mare, frazione di Ortonovo (SP). Lungo il viaggio le minacce continuano: Giordano Cargiolli ha fatto «un grosso sbaglio, un grosso torto allo zio». Insomma, adesso deve pagare. Anche l’appartamento viene rovistato: gli uomini recuperano le carte che riguardano la vicenda giudiziaria di Cargiolli, prima di tutto i verbali di sequestro, se ne fanno fare delle fotocopie. Cercano soldi, vogliono capire, fra i beni del Cargiolli, che cosa è stato sequestrato e che cosa no. Aprono una cassaforte e si appropriano di 15.000 euro in contanti. «Questi soldi non li hanno mai trovati» precisa Georgeta. La donna ha capito che gli altri vogliono delle chiavi: ne pesca un mazzo a caso, finge che si tratti del mazzo di chiavi giuste. I tre salernitani si ritengono soddi-sfatti. Lasciano Sarzana, guadagnano Milano, dove si mettono in cerca dell’appartamento di Giordano Cargiolli, senza risultati: un portiere li sorprende mentre vagano fra le palazzine. Dicono di esse-re i cugini di Cargiolli e di volersi divertire con alcune ragazze, in casa del cugino: il portiere ci crede, ma non li può aiutare, perché Cargiolli non si fa vedere da tanto tempo e il vero padrone dell’appartamento non c’è. Uno sgarbo allo “zio”. Il 23 dicembre 2011 Auricchio e Alfano fanno ritorno a Sarzana: alle 18.45 sono fuori dal negozio di Georgeta Doxan. Le intimano di uscire, le mostrano le chiavi: sono quelle sbagliate, Auricchio dice «loro [n.d.r. Cargiolli] avevano rubato allo zio insieme a quel bastardo di Avellino [n.d.r. Gradisca]… ancora una volta mi stai a prendere per il culo». Georgeta riesce fortuitamente ad allontanarsi, appena il tempo per avvisare la polizia. Gli agenti giungono sul posto e trovano Auricchio e Alfano dentro l’automobile, nascosti goffamente tra i sedili. Scattano le indagini: gli inquirenti ricostruiscono i tabulati telefonici e gli spostamenti di Auric-chio e Alfano, e da questi emerge il quadro di un’organizzazione complessa. Chi ne regge le fila? Secondo la ricostruzione della Squadra Mobile della Spezia i mandanti rispondono al nome di Carmine Buonaiuto e Antonio Stagno. Carmine Buonaiuto è un pluripregiudicato appartenente al clan camorristico dei Graziano di Quindici (AV); Antonio Stagno è uno degli indagati nell’indagine Infinito, dove è indicato quale referente del locale di ‘ndrangheta di Seregno, nell’hinterland milanese. Resta da capire come le storie di questi criminali si intreccino tra di loro, ma soprattutto come si intreccino con quella di Giordano Cargiolli. La loro storia comune inizia nell’estate del 2011 nel carcere circondariale di Marassi, a Genova, dove Buonaiuto e Stagno sono compagni di cella. Nello stesso periodo si trovano a Marassi an-che Giordano Cargiolli e Alfredo Gradisca, entrambi coinvolti nell’operazione Caucedo. La vita dietro le sbarre, per Gradisca, si fa subito difficile: deve sopportare le pressioni e le intimidazioni di Carmine Buonaiuto che cerca, attraverso l’estorsione, di farsi risarcire un credito non meglio precisato. A Milano, il padre di un compagno di cella di Buonaiuto cerca di impossessarsi di un’automobile di lusso intestata a Gradisca, i cui familiari subiscono telefonate e visite minato-rie. Nelle stesse settimane si consuma anche il tentativo di estorsione ai danni di Georgeta Doxan. È facile intuire una spiegazione unitaria. Forse Cargiolli e Gradisca hanno contratto un debito con Antonio Stagno, e questo si serve di Carmine Buonaiuto e dei suoi uomini per un vero e proprio recupero crediti: in altri termini, Stagno “appalta” a Buonaiuto la riscossione di una quantità ingente di denaro. È Stagno lo «zio» calabrese a cui Gradisca e Cargiolli hanno mancato di rispetto. Che vi sia forse qualche legame con l’affare sfumato della tonnellata di cocaina sequestrata ad Aulla? O qualche legame fra il denaro che Stagno cerca di recuperare e il milione di euro sequestrato nelle cassette di sicurezza di Georgeta Doxan? Gli inquirenti non si danno una risposta: per lo meno non ancora. Joint-venture mafiosa? Il coinvolgimento diretto di Antonio Stagno in qualità di mandante e organizzatore è comprovato da un elemento emerso nel corso delle indagini: il 19 gennaio 2012 Antonio Stagno incontra Carmine Buonaiuto e Florindo Auricchio a Milano. Vuole che i due gli rendano conto del mancato successo della spedizione sarzanese: avrebbero dovuto recuperare mezzo milione di euro, ne hanno portati a casa soltanto 15.000. Il luogo dell’appuntamento è tutto particolare: la sala di accettazione dell’ospedale San Raffaele, dove Antonio Stagno aveva prenotato una visita, proprio per sottrarsi “legalmente” al regime degli arresti domiciliari. I capi, Stagno e Buonaiuto, mettono sotto accusa il comportamento di Biagio Nasti: dicono che si è messo Giordano Cargiolli ha fatto «un grosso sbaglio, un grosso torto allo zio». Adesso deve pagare. L’appartamento viene rovistato: gli uomini recuperano le carte che riguardano la sua vicenda giudiziaria, i verbali di sequestro dei beni e ne fanno fotocopie 24 | dicembre 2012 | narcomafie I tre esecutori materiali del tentativo di estorsione hanno dichiarato di appartenere a una famiglia calabrese facendo in questo modo valere una sorta di vincolo intimidatorio «a fare le scemitaggini col cane», compromettendo il buon esito dell’estorsione. Buonaiuto, per non sfigurare davanti a Stagno, è costretto a schiaffeggiare Auricchio, che non ha vigilato abbastanza. Una questione di gerarchia. Nelle settimane successive il gruppo si sfalda: Biagio Nasti capisce di dover cambiare aria, sa che i compagni se la prenderanno con lui. «Tu sei un maccherone», gli dicono, e non è un com-plimento. Non fa in tempo ad allontanarsi dal giro, perché, all’inizio di giugno, viene fermato insieme a tutti gli altri membri dell’organizzazione: il Gip di Genova ha dato via libera all’ordinanza di custodia cautelare su richiesta della Dda e della Squa Squadra mobile spezzina. È già scattata l’operazione Hot list. Fra i capi d’imputazione non c’è il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, anche se il 416 bis era stato richiamato dalla Squadra mobile nella richiesta di emissione delle ordinan-ze di cu custodia cautelare in carcere. Niente mafia, allora? Non proprio. Il Gip parla di una «sussistente aggravante del metodo mafioso»: non solo i tre esecutori materiali del tentativo di estorsione han hanno dichiarato di appartenere a una famiglia calabrese – facendo in questo modo valere una sor sorta di vincolo intimidatorio – ma i loro stessi mandanti sono già riconosciuti come esponenti di organizzazioni di stampo mafioso. Organizzazioni diverse – per Buonaiuto la camorra, per Stagno la ’ndrangheta – che in provincia della Spezia lavorano insieme per far convergere i propri interessi criminali. Non si tratta solo di una collaborazione esteriore, ma di una vera e propria fusione: condividono interessi, manodopera e modalità. Due “imprese” che costituiscono un corpo solo: una sola testa, una sola mano, da Milano a Salerno, passando per Sarzana. c’è chi si scusa per lui. Come lo zio di Scibilia, Giovanbattista che incontrato il Marcianò fa apologia per il nipote: «Ha chiacchierato di nuovo. Io gli dicevo “piantala”...». Uffici tecnici e scatole cinesi. Tanta diplomazia, ma il “sensale” Marcianò faceva anche affari? Tralasciando gli illeciti di cui lui e i suoi sodali si occupavano con sollecitudine, secondo gli investigatori della Dda, Marcianò avrebbe controllato appalti e servizi pubblici nella città di Ventimiglia, mediante la cooperativa sociale di tipo B “Marvon”, non intestata a lui, anche se da tempo le indagini hanno rivelato che il vero direttore d’orchestra era il presunto capo-locale Marcianò. Già nei dossier riservati che lo scorso anno erano stati inviati dalla prefettura di Imperia al ministero dell’Interno si diceva, di Marcianò: «Punto di riferimento per la locale malavita calabrese nel ponente ligure». «Con la società Marvon – scrive la Prefettura –, intestata alla moglie Angela Elia, si è inserito nell’ambito dei lavori del costruendo porto di Ventimiglia». In questo si inserisce l’accusa di abuso d’ufficio all’ex sindaco intemelio Gaetano Scullino e al suo braccio destro Prestileo: l’aver ricondotto alla Marvon la grande maggioranza degli appalti che veniva pilotati sapientemente tramite la Civitas, una società in-house del Comune, che riusciva, di fatto, a favorire la cooperativa gestita indirettamente da Marcianò. Durissima l’ana- lisi sulla società da parte dei magistrati della Distrettuale Antimafia di Genova: «La società appare una scatola vuota, in quanto svolge attività che avrebbero potuto essere gestite come in precedenza dall’ufficio tecnico comunale e, come si è innanzi avuto modo di illustrare, viene usata dagli amministratori e dal direttore generale come polo di consensi e strumento operativo per perseguire i propri interessi, al di fuori delle limitazioni e dei 25 | dicembre 2012 | narcomafie controlli propri dell’attività amministrativa pubblica, a cui avrebbe dovuto conformarsi il Comune in caso di gestione diretta, e ciò anche al fine di favorire società collegate con la criminalità organizzata». Non serve aggiungere molto altro per capire quanto addentro fossero i tentacoli della locale intemelia nel palazzo comunale. Ma un particolare lo aggiungiamo. Tra gli arrestati figura Omar Allavena, vigile urbano in forza alla compagnia di Vallecrosia. Indagato per concorso interno in associazione mafiosa, il figlio Jason, 34 anni, è geometra presso l’ufficio tecnico comunale. Un posto di privilegio che – si nota dalle intercettazioni – veniva speso dal padre presso il boss per avere continui aggiornamenti su appalti e lavori in progettazione in Comune. Nuvole all’orizzonte. Meno navigato politicamente rispetto ad altri colleghi, ma ugualmente indagato, il giovane sindaco di Vallecrosia Armando Biasi che in un primo momento si era detto tranquillo e pronto a collaborare: «Nella dinamica del controllo che ormai da due anni c’è sul territorio per la verifica delle presenze mafiose, credo che sia opportuno e legittimo che ci siano delle verifiche anche nel nostro Comune, visti gli arresti che ci sono stati, proprio nel territorio di mia competenza. Ho totale fiducia nella Giustizia e, se fosse necessario, sono pronto anche a dimettermi, per garantire un maggiore controllo». Passata qualche settimana, per difendere «l’onorabilità della sua famiglia» aveva presentato dimissioni irrevocabili. L’accusa è di voto di scambio. Nella cittadina di cui Biasi era sindaco, Marcianò e la sua cricca sostenevano addirittura due concorrenti, per non rischiare: il primo era lui, Armando Biasi, il secondo Roberto Politi, che aveva espressamente cercato i voti del boss. C’è infatti chi non viene scelto, ma cerca i piaceri del boss. È il caso del padre della poi eletta consigliera comunale Francesca Seva, estranea all’indagine, che in un’intercettazione rivela anche aspetti interessanti legati alla composizione delle liste: Antonio Seva: «[...] vi volevo dire una cosa, se mi potete dare una mano Peppino, poi... Francesca si è messa in lista con Armando (Biasi ndr)». Marcianò: «Me l’ha detto, me l’ha detto. E meno male che l’hanno messa loro, e che hanno messo tre quattro di qua, ma siamo stati noi che abbiamo fatto forza Antonio!». Seva: «Sì?!» Marcianò: «Che non volevano tutti calabresi, andando a finire come Bordighera alla fine, avete capito? Invece ora hanno nominato cinque di qua, qua […]». Insomma non esagerare coi calabresi, altrimenti si dà nell’occhio. Però, per volantinare, qualche compare può sempre andare bene. Vale la pena, a riguardo, di ricordare un episodio di quasi due anni fa: l’arresto di Michele e Alessandro Macrì, rispettivamente padre e figlio, il primo originario di Cinquefrondi (Reggio Calabria), il secondo nato a Bordighera ed entrambi residenti a Vallecrosia. I due, trovati in possesso di armi, e ritenuti contigui ad ambienti della criminalità organizzata calabrese. avrebbero dovuto compiere un omicidio dimostrativo per salire di rango all’interno della mafia locale. Gli stessi Macrì che durante la campagna elettorale volantinavano nella loro cittadina per il candidato sindaco, poi eletto, Biasi, ora indagato dalla procura di Genova. Riattivare il lavoro: mettici la firma di Maurizio Bongioanni l’antimafiacivile cosenostre 26 | dicembre 2012 | narcomafie «Con la mafia almeno si lavora». Spesso si ascolta questa drammatica affermazione da chi si è ritrovato senza lavoro dopo che attività produttive controllate dalle mafie sono state sequestrate dallo Stato e sono rimaste chiuse. Le carenze dell’attuale legislazione e l’assenza di un ruolo forte da parte del Governo rischiano di compromettere il lavoro di repressione e di confisca dei beni mafiosi messo in atto dalle forze dell’ordine, dalla magistratura, dalle organizzazioni della società civile e dalle cooperative di giovani, rafforzando la criminalità organizzata il cui consenso deriva proprio dalla capacità di garantire un lavoro in territori ad alto livello di disoccupazione. Per questo motivo la Cgil ha lanciato la campagna “Io riattivo il lavoro”, condivisa con un ampio gruppo di associazioni tra le quali Arci, Avviso pubblico, Libera, Centro Studi Pio La Torre, Acli, Lega Coop, Anm. La raccolta firme è finalizzata a colmare il vuoto legislativo per il riuso sociale delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata, una proposta di legge di iniziativa popolare con l’obiettivo di sollecitare le forze politiche per un impegno concreto a sostegno di queste realtà. «A trent’anni dall’approvazione della legge Rognoni-La Torre (che nel 1982 introduceva la confisca dei beni mafiosi, nda), e a quindici anni dalla legge 109/96 che ne costituisce l’evoluzione, ci siamo convinti – ha detto Luciano Silvestri, responsabile sicurezza e legalità Cgil – che era compito e responsabilità della Cgil dare concretezza a un’iniziativa politica presentando una legge di iniziativa popolare con la quale risolvere i problemi di mal funzionamento dell’Agenzia nazionale beni sequestrati e confiscati (Anbsc) e di assenza di un’azione appropriata del governo». «I dati che descrivono la situazione – continua Silvestri – dei beni e delle aziende sequestrate e confiscate richiamano infatti l’urgenza di una iniziativa politica volta a cambiare radicalmente il destino delle attività e dei lavoratori coinvolti». Ecco i dati di cui parla Silvestri. Le mafie fatturano nel nostro paese più di 170 miliardi l’anno. L’economia sommersa, la pervasività mafiosa, il malaffare e la corruzione hanno un costo pari a circa il 27% del Pil nazionale (fonte Istat). Le aziende confiscate sono attualmente 1.636 ma il numero dovrebbe essere dieci volte maggiore. I settori produttivi più interessati dalla criminalità organizzata sono quello terziario (45% delle aziende confiscate), l’edilizia (27%) e l’agroalimentare distribuite prevalentemente in Sicilia (37%), Campania (20%), Lombardia (12%), Calabria (9%) e Lazio (8%). Allo stato attuale a fallire è circa il 90% delle attività produttive oggetto di un provvedimento di confisca. Tra le proposte della legge c’è in primis la tutela dei lavoratori di aziende confiscate nell’accesso agli ammortizzatori sociali (cancellati dalla recente riforma Fornero) attraverso il reinvestimento della liquidità sequestrata in confiscate con l’obiettivo di rilanciarle definitivamente nel sistema economico attraverso un complesso di interventi tra cui una premialità fiscale per chi investe in queste aziende, la creazione di una white list per garantire il massimo livello di trasparenza delle informazioni sin dal primo momento successivo al sequestro, l’istituzione di un Ufficio Attività produttive e sindacali presso l’Anbsc e di Tavoli Provinciali permanenti. «Combattere l’illegalità economica significa prima di tutto aggredire i patrimoni della criminalità organizzata – conclude Silvestri – e restituirli alla collettività ponendoli alla base della costruzione di nuove relazioni economiche sane e legali, che pongano il lavoro e la dignità delle persone al centro di un nuovo percorso di riscatto civile e sociale. Solo in questo modo il nostro paese può gettare le basi per uscire dalla crisi economica in cui versa». A Firenze, per ricordare le vittime delle mafie “Semi di giustizia, fiori di corresponsabilità” è lo slogan della XVIII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, organizzata da Libera e da Avviso Pubblico: l’appuntamento per onorare il ricordo delle oltre 900 persone – ma di molte altre non si conosce ancora il nome – che sono state uccise dalle mafie. Dopo gli ultimi appuntamenti milanese (2010), potentino (2011) e genovese dello scorso anno, l’edizione del 2013 si svolgerà a Firenze, per commemorare il ventennale della strage di via dei Georgofili, quando il 27 maggio una bomba esplose ferendo quarantuno persone e uccidendone cinque, evento terrificante della stagione stragista italiana; per onorare l’impegno del magistrato Antonino Caponnetto ideatore del pool antimafia, che morì nel capoluogo toscano il 6 dicembre 2002. La frase scelta per caratterizzare l’evento esorta a confezionare fiori di carta sui cui petali scrivere il nome di una vittima di mafia che si vuole idealmente adottare. In questo modo la piazza si riempirà di fiori colorati e da lì si ripartirà per rinnovare il proprio impegno. Ci si stringerà intorno ai famigliari delle vittime, che come ogni anno saranno in testa al corteo, portando le foto dei propri cari. La manifestazione si svolgerà il 16 marzo, un sabato – come consuetudine da qualche anno a questa parte – per garantire una massiccia adesione, ma Libera invita tutti i coordinamenti territoriali a replicare la giornata sui propri luoghi, giovedì 21 marzo. Questa è infatti la data in cui si celebra la Giornata della memoria, primo impegno assunto da Libera per ricordare tutti coloro che sono caduti sotto la violenza mafiosa. Sul sito www.libera.it sono disponibili tutte le informazioni sul programma e le adesioni; sono inoltre consultabili due proposte propedeutiche alla partecipazione alla Giornata della memoria: il concorso “Regoliamoci” progettato in forme diverse per le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado; il bando di concorso relativo al Premio Pio La Torre, in relazione al lavoro svolto sui beni confiscati alle mafie e al loro riutilizzo sociale. Per ulteriori chiarimenti e richieste è possibile inviare una e-mail all’indirizzo [email protected] Marika Demaria l’antimafiacivile un fondo ad hoc per garantire, oltre che maggiori tutele ai lavoratori stessi, il credito alle banche. In secondo luogo la creazione di un fondo di rotazione che permetta l’emersione alla legalità di queste aziende e delle posizioni lavorative irregolari per favorire la creazione di un posto di lavoro dignitoso anche attraverso un adeguato percorso di formazione e aggiornamento. Infine il sostegno alla ristrutturazione e riconversione della aziende cosenostre 27 | dicembre 2012 | narcomafie 28 | dicembre 2012 | narcomafie Le esequie di Giuseppe Ercolano Il rispetto oltre la morte I funerali di mafia sono la sintesi della potenza dei boss. A Catania la morte di Pippo Ercolano, cognato di Nitto Santapaola, e suoi funerali riaprono uno spaccato della città legato al quotidiano «La Sicilia» e al suo editore Mario Ciancio Sanfilippo. I funerali e i necrologi di Cosa nostra, il fastoso ultimo saluto di Ercolano di Dario De Luca 29 | dicembre 2012 | narcomafie Un male incurabile, il cancro, lo ha condotto lentamente alla morte. Giuseppe Ercolano è morto il 29 luglio scoroall’età di 76 anni. Era conosciuto con il diminutivo di “U zu Pippu”, a dimostrazione di un discutibile rispetto che si era guadagnato in “forma acquisita”. Ercolano aveva infatti sposato Grazia Santapaola, sorella del sanguinario boss di Cosa nostra Nitto Santapaola e capo dell’omonima famiglia catanese. Un matrimonio che gli permise di stringere alleanze con l’importante famiglia mafiosa. La carriera criminale. Pippo Ercolano fu arrestato per la prima volta nel 1992 nell’ambito dell’operazione antimafia “Orsa Maggiore”, la prima che decapitò con 154 ordinanze Cosa nostra catanese. Nel blitz scattato dopo le dichiarazioni dei pentiti Maurizio Avola e Claudio Severino Samperi, fu arrestato anche il cognato Benedetto “Nitto” Santapaola. Condannato a dodici anni di reclusione per associazione mafiosa, Ercolano tornò in libertà nel 2004; l’anno successivo fu nuovamente arrestato con l’accusa di estorsione, ma ottenne la scarcerazione dal tribunale del Riesame. Le manette ai polsi scattarono per l’ultima volta nel 2010, nell’ambito dell’operazione “Iblis”, che vede coinvolti in prima persona l’ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo e il fratello Angelo, deputato del Movimento per le autonomie. Il figlio e il nipote di Pippo Ercolano hanno seguito le orme malavitose del boss. Il primo, Aldo Ercolano, riuscì a fuggire al blitz “Orsa Maggiore” ma fu arrestato due anni dopo, nel 1994. Sulle sue spalle pesa l’omicidio, avvenuto il 5 gennaio 1984, del giornalista catanese Giuseppe Fava, eseguito su mandato di Nitto Santapaola. Fava era un personaggio “scomodo”, quotidianamente impegnato con la sua rivista, «I Siciliani», a contrastare Cosa nostra e la zona grigia composta dai Cavalieri del Lavoro. Al nome di Aldo Ercolano sono legate anche le bombe posizionate davanti al supermercato “Standa” di Catania e decine di altri omicidi in un lungo periodo in cui occupò il ruolo di reggente dell’intera famiglia. Il nipote Angelo Ercolano, incensurato, si è invece dedicato ai settori della grande distribuzione e degli autotrasporti. Figlio di Giambattista Ercolano, arrestato per mafia e scarcerato nel 1998 per “insufficienza di prove”, nel settembre 2009 fu nominato presidente della Fai (Federazione autotrasportatori italiana) di Catania. Angelo Ercolano è inoltre a capo della società “Sud Trasporti S.r.l.”, fondata dal padre, che si occupa proprio di trasporti in tutto il territorio italiano. Una passione, quella per le vie di comunicazione, ereditata proprio dallo zio Pippo, che vantava la gestione monopolistica dei trasporti nel porto di Siracusa e in giro per l’Italia, oltre ad essere il titolare – attraverso un prestanome – della catena di supermercati “Superesse”. Ad essere attirato dal settore trasporti anche un altro Ercolano: Vincenzo detto “Enzo”, figlio del boss Pippo, al vertice della “Geotrans Trasporti s.r.l.” e recentemente assolto dall’accusa di associazione di stampo mafioso. Il nodo mafia-informazione. A dare l’ultimo saluto al boss di Cosa nostra ci hanno pensato decine di parenti e amici, stretti dentro la “Tenda Ulisse” messa a disposizione direttamente dalla curia di Catania per le esequie e l’omaggio finale. Tra auto di grossa cilindrata e letture durante la messa di dubbia valenza etica e morale, il passaggio del feretro del boss è stato accompagnato da venti corone di fiori, trasportate dalla ditta D’Emanuele. Quest’ultima, di proprietà di Sebastiano e Natale Santapaola, cugini del boss Nitto, era finita al centro dell’operazione antimafia “Cherubino” che nell’aprile 2010 smantellò il monopolio del clan nel settore delle onoranze funebri a Catania. La Dia sequestrò Parenti e amici, stretti dentro la “Tenda Ulisse” messa a disposizione dalla Curia di Catania per le esequie. Tra auto di grossa cilindrata e letture, durante la messa, di dubbia valenza etica e morale, il passaggio del feretro del boss è stato accompagnato da venti corone di fiori 30 | dicembre 2012 | narcomafie inoltre beni alla famiglia per dieci milioni di euro. Le dimostrazioni di affetto e stima nei confronti della famiglia mafiosa non si sono registrate solo nel corso dei funerali di Giuseppe “Pippo” Ercolano. Sulle pagine de «La Sicilia» del 31 luglio sono comparsi diversi necrologi in ricordo del defunto mafioso. A darne il triste annuncio – si legge – sono la moglie, i nipoti e i figli, tra cui proprio Aldo, l’ergastolano. Quest’ospitalità offerta dal quotidiano di Mario Ciancio spiega ulteriormente perché, in occasione del trigesimo dell’omicidio di Giuseppe Montana, commissario della squadra mobile di Palermo ucciso il 28 luglio 1985, la richiesta di un necrologio avanzata dalla famiglia fu respinta. Secondo l’editore, il testo del necrologio “La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana, commissario Polizia di Stato, rinnovando ogni disprezzo alla mafia e suoi anonimi sostenitori”, conteneva «presunte illazioni». Ma il legame tra gli Ercolano e Ciancio affonda le radici anche in un altro episodio, oggetto di alcuni rapporti dei Carabinieri e inserito in numerosi atti giudiziari. Un giorno, proprio negli uffici di Ciancio si presentò Pippo Ercolano, su tutte le furie: sulle colonne di un articolo pubblicato sul quotidiano il giorno prima, era stato definito “boss mafioso”. L’editore – come racconta anche il giornalista Claudio Fava in un datato pezzo dei «Nuovi Siciliani» – chiamò dunque il capo cronista Vittorio Consoli e Concetto Mannisi, il cronista autore del pezzo, e li rimproverò davanti al boss. Congedandoli li invitò a non indicare più nei pezzi il signor Giuseppe Ercolano e nessun altro della sua famiglia con tale appellativo. Due avvenimenti, documentati, finiti agli atti dell’inchiesta su Mario Ciancio e alla relativa contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Indagine, questa, per cui la Procura di Catania ha recentemente chiesto l’archiviazione, ma sulle cui sorti peserà la decisione finale del gip Luigi Barone, lo stesso che senza remore ha disposto l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa per Raffaele e Angelo Lombardo. Anche questo dà la dimensione del potere degli Ercolano a Catania. Proprio come le celebrazioni dei funerali di Pippo Ercolano. spiegato Gigi Cuomo responabile Sos Impresa Campania –. Le minacce sono continuate anche pochi giorni prima che tentasse il suicidio. Questo è sicuramente un elemento fortemente negativo e preoccupante. Primo per la morte dell’imprenditore, poi per gli effetti che ci saranno nel tessuto locale. Il messaggio della Camorra è che tutti gli cingalesi che hanno attività imprenditoriali , devono subire e in silenzio, così come hanno fatto prima della denuncia di Nando». Napoli e Roma, secondo l’ultimo rapporto di di Sos Impresa vengono considerate capitali dell’usura.«Questo terribile suicidio – continua – getta sicuramente sconforto e paura anche nei confronti degli altri imprenditori che vogliono denunciare. Io credo che una comunità importante come quella cingalese, difficilmente, darà vita ad altre forme di denuncia di questo tipo. E, mi dispiace dirlo, in questo la Camorra ha vinto cento a uno. Poi, mi preoccupa il fatto che qualcuno non attribuisce questa vicenda a opera della Camorra, cosa che in realtà è stata palese già dal primo momento». Gli arresti, infatti, hanno condotto a personaggi noti nel panorama camorristico. Lepre, Testa e Domizio, dopo la denuncia di Nando erano stati chiusi nel carcere di Secondigliano. Ciro Lepre è a capo dell’omonimo clan operante nella zona di Napoli a ridosso di piazza Dante e via Salvator Rosa. Elemento di spicco del clan Mariano, dalla seconda metà degli anni 90, divenne il capostipite del nuovo legame criminale. Gianluca Testa, pluripregiudicato, è ritenuto un elemento di spicco dell’organizzazione. Roberto Domizio, pluripregiudicato per reati contro la persona, il patrimonio e gli stupefacenti è ritenuto legato a Francesco Bara, referente per la zona Sanità del clan Lo Russo. «La crisi – conclude Cuomo – ha prodotto un doppio effetto. Per quanto riguarda il fenomeno dell’usura ad esempio, a Napoli città si è verificato uno strano sistema. Sembra che nelle microimprese il fenomeno si è ridotto, proprio perché le vittime non riescono a trovare vie di fuga e gli usurai sono preoccupati del rientro. In provincia la situazione è diversa. Ad esempio, al nostro numero verde di Quarto e Pozzuoli, Castellammare, gli imprenditori che dicono di avere subito estorsione o usura sono tanti, ma poche si tramutano in denunce. Per quanto riguarda le estorsioni, la Camorra ormai si è adattata ai tempi della crisi e spesso permette pure di posticipare qualche rata nei pagamenti». Storie di chi si ribella ogni giorno «Io li denuncio e li faccio arrestare. Non torno nel mio Paese». Si chiamava Fernando Joseph Sumith, era un imprenditore 34enne di origine cingalese. Viveva nel rione Sanità a Napoli insieme con la moglie e due bambini. Nel capoluogo campano, capitale dell’usura, l’imprenditore ha aperto quattro attività: due alimentari e due internet-point, una nel quartiere San Carlo Arena e tre in zona Dante. Aree controllate dalle organizzazioni criminali. Gli affari funzionavano; fino ad aprile 2012, quando la Camorra chiede il doppio pizzo, perché le attività di Nando occupano due quartieri diversi. Finisce nelle mani degli usurai e poi del racket delle estorsioni, ma denuncia e fa arrestare i cravattari. È aprile 2012. Qualche mese dopo, a novembre, pochi giorni prima del processo, non regge il trauma e si suicida. Un “eroe”, lo definiranno in molti; il corpo di polizia gli aveva consegnato anche un premio. Grazie alla denuncia Nando era riuscito a mandare in carcere il boss del quartiere Cavone, Ciro Lepre, detto o’ sceriffo, e due suoi complici. Al centro delle indagini della Dda di Napoli le richieste di pizzo a commercianti e imprenditori in occasione delle festività. «Questo giovane imprenditore è stato pesantemente colpito – ha di Laura Galesi Imprenditore cingalese: denuncia non vana nuoveresistenze resistenze 31 | dicembre 2012 | narcomafie dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale a cura di Marcello Ravveduto 32 | dicembre 2012 | narcomafie Il pendolo delle mafie Vi siete mai imbattuti in un “cri “criminal network”? No, non è un gruppo musicale, sono le pagine web dei social network dedicate alle mafie. Attenzione, non si tratta di materiali multimediali dai contenuti edificanti, sono vere e proprie apologie della cri criminalità. L’invasione barbarica viaggia su Facebook. Userò come esempio un episodio accaduto nel marzo 2010. Un ragazzino di 12 anni aveva conquistato gli onori della cronaca per aver creato un gruppo aperto dal titolo significativo: A’ Scission Ro Rion che, tradotto in italiano, è “La scissione del rione” (lo slogan è scritto in un dialetto parlato che ignora la lingua napoletana). L’intestazione era didascalica, si atteneva indubbiamente alla sequela di morti ammazzati che hanno bagnato di sangue le strade di Scampia. Quando la notizia dell’esistenza di un simile gruppo (o piuttosto clan virtuale?) diven diventò di dominio pubblico, attraverso un articolo di stampa e un servi servizio televisivo, gli amministratori del social network lo censuraro censurarono; intanto aveva raccolto quasi 5mila fan. I link postati erano di questo tipo: “meglio morto che pentito, i pentiti sono guappi di cartone che hanno paura della galera” (ritornello della canzone neomelodica Femmena d’onore interpretata da Lisa Castaldi, la cui versione maschile è stata cantata da Zuccherino – in attesa di giudizio per traffico di droga – con il titolo di “Pentito”); “meglio disoccupato che servo dello stato” (riferendosi a una fotografia che ritraeva alcuni carabinieri). Preso dalla furia comunicativa il ragazzino aveva voluto fare il gradasso pubblicando il link: “È una masseria senza capo”, per sottolineare il vuoto di potere al rione Masseria Cardone (uno dei rioni dell’area nord di Napoli dove è stato assassinato il giovane e innocente Pasquale Romano). Ma a questo punto il dodicenne si era reso conto di aver “pisciato” fuori dal vaso: tra i commenti ve ne era uno firmato da un tal Enzo Licciardi (il cognome è uno di quelli storici tra i clan dell’Alleanza di Secondigliano) che gli consigliava di continuare a fare il ragazzino, altrimenti avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di ciò che stava scrivendo. Minacce online? No, di più: gli affiliati del clan seguivano il magmatico mondo di Facebook e lo utilizzavano per intervenire con messaggi espliciti e diretti. Ho voluto raccontare questa storia perché non mi piace il moto di meraviglia di alcuni opinionisti quando scoprono che anche i criminali usano i social network e internet in genere. Dietro la sorpresa si nasconde la supposta e falsa convinzione che i mafiosi siano analfabeti digitali. Tale per persuasione è del tutto simile a quella dello stereotipo che relegava le mafie in una condizione di primitivismo ancestrale incapaci di adeguarsi ai ritmi del progresso. Insomma la vulgata che voleva i mafiosi con la coppola storta e la lupara, i camorristi criminali plebei e gli ’ndranghetisti pastori violenti. Invece, le criminalità organizzate autoctone hanno dimostrato nel corso di duecento anni di avere una caratteristica strutturale comune: l’adattabilità contestuale. Una qualità che può essere paragonata al movimento di un pendolo che oscilla perennemente tra arcaismo e moder- nità. Nell’arco dell’evoluzione mafiosa le peculiarità di una fase storica sono state trasportate in quella successiva, realizzando una coesistenza di permanenze e trasformazioni che amalgamano innovazione e tradizionalismo. Le mafie, oscillando come un pendolo, entrano in contatto con le molteplici sfaccettature del prisma sociale assorbendole senza eliminarle, alternandole senza escluderle. Così come hanno coniugato monarchia e repubblica, stato e società, potere e consenso, ordine e disordine, centralismo e decentramento, unità e frammentazione, campagna e città, latifondo e quartiere, borghesia e plebeismo, alfabetismo e analfabetismo, cultura classica e cultura popolare, beni materiali e beni immateriali, pubblico e privato, monopolio e mercato, capitalismo e mercantilismo, industria e commercio, produzione e distribuzione, holding e franchising, allo stesso modo hanno saldato reale e virtuale; anzi per le nuove generazioni di nativi digitali criminali non esiste separazione tra reale e virtuale. Nella rete si trasportano le “gesta” dei clan in forma di suggestione mitopoietica massificata. I giovani che danno vita ad un criminal network appartengono alle stesse classi sociali dei devianti concreti. La mentalità mafiosa, in tal senso, è un potente fattore che unifica mondi dialoganti: l’acculturazione digitale viene metabolizzata sotto forma di subcultura criminale. Sembra un fenomeno paradossale, ma anche chi ha difficoltà a esprimersi in italiano usa il web per veicolare e imporre, con il linguaggio dell’avvertimento mafioso, il proprio stile di vita. 33 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna inchiesta Un’analisi delle principali forme di criminalità organizzata e uno studio di caso: i lancheros, gruppi autoctoni che, per mezzo delle proprie imbarcazioni (lancha), a partire dagli anni Ottanta avviarono un’intensa attività di narcotraffico in una delle regioni più povere della penisola iberica, la Galizia. Dal contrabbando di tabacco al redditizio traffico di droga: la trasformazione fu possibile anche perché lo Stato, uscito dall’era franchista, per troppi anni ha evitato di esercitare un’efficace attività di contrasto, incentivando di fatto numerosi esponenti delle principali organizzazioni mafiose mondiali a stabilirvisi. Le inchieste giudiziarie hanno squarciato la coltre di connivenze e, solo da qualche anno, la Spagna non rappresenta più il buen retiro di faccendieri e narcotrafficanti, tra cui numerosi camorristi. Ma le occasioni di riciclaggio sono ancora un fattore di forte attrazione 34 | dicembre 2012 | narcomafie L’avanzata dei lancheros Anello di congiunzione da una sponda all’altra dell’oceano Atlantico, i trasportatori galiziani, detti lancheros, hanno costituito l’ossatura del contrabbando di sostanze illecite nel nord-ovest della Spagna. Liberi di agire grazie a leggi blande e favoriti da un’ampia popolarità nata in epoca franchista, i lancheros hanno subito importanti arresti solo recentemente anche per mezzo dell’evoluzione della cooperazione in materia di lotta al narcotraffico Spagna di Stefano Paglia L’importanza avuta dal fenomeno criminale sviluppatosi in Galizia in quella che viene chiamata “catena della cocaina” varia nel tempo. Innanzitutto si definisce il termine “catena” come il sistema di scambi e passaggi a partire dal coltivatore della pianta di coca fino al consumatore di cocaina. Il mutamento di ruolo avvenne a causa di diversi fattori che portarono a una diversificazione o moltiplicazione dei metodi di importazione della sostanza. Il ruolo dei galiziani. In un primo periodo che sostanzialmente occupa gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta i galiziani erano in una posizione molto forte. Il rapporto privilegiato di associazione con i cartelli colombiani permetteva loro di dividere i profitti al 50%. Il carico viaggiava sulla rotta atlantica, che partendo dall’America Centrale, attraversava l’oceano fino alle coste della Galizia. Qui entravano in gioco i lancheros che con veloci imbarcazioni si assumevano il compito di introdurre il carico nel territorio trattenedo, come detto, il 50%. Una volta giunto, esso veniva riconsegnato agli emissari dei cartelli presenti in Spagna, cui era delegata l’attività di spaccio. Lo Stato reagisce: operazione Necora. I motivi che indussero la modifica del metodo appena descritto sono molti e si manifestarono in differenti periodi dai primi anni Novanta fino ai giorni nostri. Il continuo sviluppo tecnologico permise ai governi nazionali di elevare il livello di equipaggiamento, aumentando in questo modo l’efficacia repressiva, con mezzi aerei e navali più sofisticati e adatti al monitoraggio delle coste e dei carichi navali, con strumenti più efficaci nell’intercettazione di conversazioni telefoniche e fornendo maggior coordinamento alle forze dell’ordine. Ulteriore fattore di cambiamento fu il progressivo aumento della collaborazione tra le polizie europee, parallelamente al processo di integrazione europea. L’inizio degli anni Novanta segnò anche un cambio di passo nella lotta al narcotraffico da parte dei governanti spagnoli. Inaugurando il nuovo corso con l’operazione “Necora”, avvenuta il 12 giugno 1990 sotto la direzione di un giovane Baltasar Garzón, pur senza confiscare sostanze stupefacenti, le autorità iberiche mandarono un chiaro messaggio a tutti i narcotrafficanti: lo Stato reagiva, era schierato dalla parte della legalità e non garantiva l’impunità. Frammentazione dei cartelli. Altro avvenimento importante avvenuto a metà degli anni Novanta, fu il progressivo disfacimento dei grandi cartelli, Medellin e Cali, di fronte all’offensiva dello stato colombiano sovvenzionata dagli Stati Uniti, che intrapresero una forte attività di monitoraggio e repressione dei traffici provenienti dall’area del mar dei Caraibi. Il 2 dicembre 1993 fu ucciso Pablo Escobar, leader del cartello di Medellín. Con la sua morte si scioglieva anche l’organizzazione. Parallelamente anche il cartello di Calí veniva duramente represso dallo Stato, segnando l’inizio di una nuova fase nel paese con la più alta produzione di cocaina. La frammentazione in piccole organizzazioni rese più difficile l’attività di contrasto, trasformando i trafficanti in un sorta di Idra: ogni testa aveva lo stesso peso, erano tutte ugualmente pericolose. La vendita divenne più concorrenziale. Si spezzò il regime di monopolio detenuto dai due cartelli e caratterizzato da basse oscillazioni del prezzo. La frammentazione, e la conseguente comparsa di più attori in grado di fornire materia prima, consentì maggiori oscillazioni del prezzo. Il crollo dell’Urss. Allo stesso tempo, facevano il loro debutto nel mercato nuove e agguerrite organizzazioni criminali europee. Oltre al rinnovato vigore di camorra e ’ndrangheta, in grado di agire indisturbate quando tutta la forza repressiva dello stato italiano veniva concentrata su Cosa nostra, il disfacimento dell’Unione Sovietica consentiva l’arrivo di gruppi criminali prima confinati al di là della cortina di ferro e al contempo l’apertura di nuovi mercati. Mafia russa e i differenti gruppi criminali provenienti dai Balcani seppero cogliere e sfruttare molto abilmente il nuovo equilibrio nel mercato del traffico di cocaina, la cui ampiezza permetteva la compresenza di più attori, fornitori nello stesso mercato grazie alla già menzionata moltiplicazione dei produttori ed alla costante crescita della domanda nel mercato europeo. La rotta africana. I successi ottenuti dalle forze dell’ordine portarono a un ridimensionamento della rotta atlantica attraverso l’apertura di un secondo canale di rifornimento per il mercato europeo (utilizzato in minor misura anche per quello nordamericano). La nuova rotta africana era tesa a sfruttare la debolezza, o l’assenza in taluni casi, degli apparati di monitoraggio delle frontiere nella gran parte degli stati africani. Impiegando il continente come un grande magazzino di cocaina, gli attori del mercato illegale fecero proprio uno dei requisiti della controparte legale, ovvero il magazzino flessibile al mutare della domanda. L’invio di periodici e modesti quantitativi di cocaina con destinazione Europa erano in grado di soddisfare la crescente domanda europea, senza rischiare il sequestro dei grandi carichi (carattere distintivo della rotta atlantica). Naturalmente i narcos dovettero stabilire importanti relazioni con gli esponenti locali della criminalità, spartendo con essi una piccola fetta del profitto. Tornando alle cause elencate in grado di determinare una rotta, quella africana garantiva (e tutt’ora garantisce come nel caso della Guinea Bissau) in alcuni paesi un completo livello di corruzione, dalle forze dell’ordine fino ai piani più alti della classe politica, utile per evitare la reazione dello Stato. Per concludere, la vicinanza tra Africa del nord, rifornita di cocaina attraverso la rotta del Sahel, e Italia meridionale, rafforzò la posizione delle organizzazioni criminali italiane quali importatrici della sostanza, in base al criterio geografico prima menzionato. Giovani, violenti e flessibili. L’arresto di tutti i grandi capi storici del narcotraffico e i cambiamenti avvenuti nelle rotte hanno portato i nuovi gruppi galiziani a mutare la propria struttura. Le grandi organizzazioni hanno lasciato il posto a bande composte da un numero ridotto di elementi, contraddistinte da meno gerarchia e più autonomia interna. La singola persona può ora operare per differenti gruppi mettendo a disposizione le proprie abilità in un determinato settore, come ad esempio il possedere e condurre un motoscafo necessario al trasporto del carico. Gli individui che oggi possono essere chiamati “lancheros” sono più anonimi, violenti e giovani rispetto ai capi storici. La frammentazione in piccole organizzazioni (in questo vi é Spagna 35 | dicembre 2012 | narcomafie Galizia connection Spagna 36 | dicembre 2012 | narcomafie Due sono le caratteristiche principali che spiegano la nascita del narcotraffico in un contesto geograficamente delimitato qual è la Galizia: l’elemento geografico, che identifica la facilità di approdo, e la disponibilità di vettori in grado di condurre il traffico. Direzione Spagna. I narcos colombiani iniziarono a inviare navi verso la fine degli anni Ottanta. Queste attraversavano l’oceano, sostanzialmente in linea retta per la scarsità di controlli, dirette verso un mercato che, fino a quel momento, nella categoria delle droghe pesanti vedeva primeggiare l’eroina. In quegli anni i controlli erano limitati sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo. L’immenso passo avanti registrato negli ultimi vent’anni dalla tecnologia è stato determinante nell’accrescere le possibilità di controllo dei mari da parte delle forze dell’ordine statali, costringendo le organizzazioni criminali ad aprire nuove e più costose rotte. Oltre all’ubicazione della penisola, la seconda causa che compone l’elemento geografico da prendere in considerazione è la particolare orografia della costa a nord-ovest. La Galizia si distingue dal resto della Spagna per la presenza di rías, formazioni simili, seppur distinte, ai fiordi scandinavi. Questi bracci di mare penetrano per moltissimi chilometri nell’entroterra, in una mescolanza di acqua dolce e salata e contribuiscono, insieme con oltre trecento arcipelaghi e isolette, a rendere la costa frastagliata. A questa caratteristica si aggiungono la notevole estensione del litorale, circa millecinquecento chilometri, e frequenti avversità meteorologiche. Si tratta, infatti di uno dei territori più piovosi d’Europa, dove, in media, vi sono precipitazioni per cento giorni all’anno. Le ripercussioni sui traffici sono facilmente intuibili. Le particolarità appena descritte sono i principali ostacoli che si frappongono all’attività di controllo della Guardia costiera spagnola (Sva, Servicio vigilancia aduanera) e, al tempo stesso, forniscono un vantaggio strategico ai lancheros. Proprio a questi ultimi è affidato il compito di soddisfare la seconda caratteristica, vale a dire la disponibilità di vettori dediti al traffico. Il popolo galiziano è legato alla pesca e alla navigazione da una lunga tradizione, ciò permette di condurre motoscafi attraverso insenature semi sconosciute senza esitazioni. Oltretutto, le rotte utilizzate per il traffico di cocaina ricalcano quelle adoperate per il contrabbando di tabacco, del quale si stabilì un fiorente commercio con le grandi marche statunitensi fin dagli anni Cinquanta. Questo avveniva, in parte, attraverso le fabbriche di sigarette situate in Belgio e nei paesi del blocco sovietico, dalle quali venivano fatti uscire carichi. In parte grazie alle partite i cui tempi di commercializzazione nel mercato statunitense erano scaduti che venivano “riciclate” per il contrabbando nel mercato europeo. Spesso le due figure di contrabbandiere e narcotrafficante furono l’una prosecuzione dell’altra. Le principali personalità che vi si dedicarono, come Manuel Charlín, Laureano Oubiña e José Ramón Prado Bugallo alias Sito Miñaco, lasciarono il primo mercato attratti dagli ampi margini di guadagno del secondo. La combinazione tra tradizione marinara e ubicazione geografia di frontiera rispetto a nuovi traffici è indubbiamente una delle cause principali che ha contribuito allo sviluppo del fenomeno. L’abito della corruzione. Il secondo requisito mira a stabilire il livello di connivenza raggiunto dalle autorità locali. Una breve distinzione d’obbligo permette di dividere la trattazione in due ambiti: da una parte la corruzione delle forze dell’ordine locali, che nel caso studiato corrispondono a “Guardia Civil”, corrispettivo dell’Arma dei Carabinieri, “Policía Nacional”; dall’altra parte va considerato l’atteggiamento della classe politica verso i fenomeni di contrabbando e riciclaggio, il quale può essere di aperta ostilità, di indifferenza causata da timore personale o come calcolo politico o di collaborazione. La corruzione delle forze dell’ordine può manifestarsi su diversi livelli gerarchici. Partendo dal basso, permette alle organizzazioni criminali di agire direttamente sugli individui incaricati in prima persona di effettuare le attività di controllo in determinate zone territoriali, garantendo ad esempio la sicurezza di una sola operazione. Alzando la capacità corruttiva a gerarchie più elevate è possibile garantire la sicurezza permanente degli sbarchi effettuati in zona sempre più grandi. Il massimo livello corruttivo raggiungibile è quello che porta l’evoluzione dello stato in narcostato. La Galizia presentava fino ai primi anni Novanta, epoca nella quale si svolsero le grandi inchieste contro il narcotraffico dirette da Baltasar Garzón, una diffusa corruzione nei livelli medio bassi dell’apparato repressivo. Una serie di testimonianze è contenuta nel libro del giornalista investigativo Perfecto Conde “La conexion gallega. Del tabaco a la cocaina”. Il cronista porta alla luce numerosi casi di agenti delle forze dell’ordine nell’atto di favorire o partecipare direttamente alle operazioni di contrabbando. Le loro attività consistevano nell’indicare ai contrabbandieri i luoghi sicuri per effettuare gli sbarchi, ovvero i giorni nei quali determinate zone della costa erano sprovviste di controlli o durante i quali questi spettavano ad agenti corrotti. Il servizio veniva offerto in cambio di una percentuale sul guadagno generato dal carico. Oltre a una corruzione diffusa nel livello basso, traspare una sorta di “mentalità della corruzione”, ossia la conoscenza e l’accettazione del sistema criminale in atto, presso una gran parte dell’apparato repressivo dello Stato. Citiamo come esempio la testimonianza di un contrabbandiere sotto lo pseudonimo “José M.”, rilasciata a Perfecto Conde. Il fatto narrato riguarda una “guardia de la Brigadilla de información” del distaccamento di Pontevedra, cittadina ubicata nella costa sud, che si presenta come signor Blanco. Dopo aver colto in flagrante uno scarico illegale di tabacco, intavola un vero e proprio ricatto verso i contrabbandieri. Nel corso dello stesso sequestra uno dei due furgoni, contenente venti casse di tabacco appartenenti ai criminali e destinati al trasporto della merce. Dopo essere giunto a un accordo per far ritrovare il mezzo in un luogo abbandonato, rompe il patto e consegna furgone e 12 casse alla caserma del suo reparto, trattenendo otto casse all’insaputa dei colleghi. L’episodio svela come vi fosse una degenerazione nella morale di una parte delle forze dell’ordine. Lassismo e corresponsabilità. Anche l’atteggiamento della classe politica si misura in differenti livelli, partendo da quello comunale, passando per il regionale e arrivando fino al governo centrale. Nel caso galiziano non vi sono casi documentati di collaborazione criminale tra esponenti di organizzazioni e politici. Vi sono però casi concreti nei quali la politica non ha esercitato volontariamente la propria attività di controllo nell’affidamento di appalti pubblici e una sospetta inattività o lassismo nella lotta al narcotraffico. Due chiari esempi sono contenuti nel libro “Operación Necora” di Felipe Suarez. Il primo è quello che l’autore definisce “sette anni di inattività” (in originale “siete años de brazos caidos”), vale a dire il periodo che abbraccia quasi tutti gli anni Ottanta. Le accuse contestate a livello nazionale sono rivolte all’esecutivo di Felipe González (capo di governo predecessore di Aznar dal 1982 al 1996) colpevole di aver sottovalutato e ignorato il problema fino al gennaio 1988, anno nel quale attraverso l’iniziativa personale del governatore di Pontevedra Jorge Parada, lo Stato varò i primi provvedimenti strutturali tesi a colpire i contrabbandieri. Su tutti il “decreto Barrionuevo”, il primo atto governativo teso a limitare i motoscafi ad alta velocità utilizzati nelle operazioni di carico e scarico. Un secondo esempio di atteggiamento ambiguo è quello tenuto da Francisco Vázquez, sindaco di La Coruña negli anni nei quali Matta Ballesteros investì e ripulì nel mercato immobiliare e negli appalti pubblici della città, il denaro proveniente dai traffici illeciti svolti dal fratello narcotrafficante. Come già accennato nel primo capitolo, attraverso la collaborazione con i fratelli Fernandez Espina, si creò una fitta rete di società, della quale la più famosa rimane Celuísma, che si dedicò al riciclaggio nei mercati immobiliare, turistico, opere pubbliche (principalmente parcheggi come quello in Plaza de Vigo a Santiago de Compostela) e concessionarie d’auto di lusso. Affinità culturale e linguistica. Ultimo elemento che spiega la stretta relazione creatasi tra narcos e Galiziani è l’utilizzo di un idioma comune e l’appartenenza a una cultura simile. Il Castigliano, seppur deformato dalle influenze regionali esercitate nel corso del tempo, permette una perfetta intesa tra le due popolazioni. La barriera linguistica non va sottovalutata. Durante gli anni Ottanta il mondo era agli albori della globalizzazione, la figura di “cittadino del mondo” doveva ancora svilupparsi (in questo campo può essere identificata in quella del broker della cocaina in grado di parlare con semplicità più lingue). D’altra parte i primi traffici di cocaina avvennero con la Spagna e proprio in questa nazione si stabilirono i primi emissari dei cartelli, su tutti i Ballesteros e gli Ochoa (cfr p. 49). Tutt’oggi la Spagna conserva un ruolo speciale come luogo di incontro tra domanda ed offerta. Viene però affiancata dalla figura del broker o, come nel caso della ’ndrangheta, dalla capacità della rete-famiglia di ubicarsi direttamente nei luoghi di produzioni. Meno intermediari, più guadagno. Spagna 37 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna 38 | dicembre 2012 | narcomafie una similitudine con il caso colombiano) rende più difficile il lavoro della polizia, non in grado di monitorare le attività di tutti gli individui. Il termine che identifica il nuovo ruolo svolto é quello di narcotransportista (in italiano narco- trasportatore), un individuo che vende le sue abilità e le infrastrutture necessarie per introdurre la droga nella terraferma da vettori ubicati in alto mare. La percentuale con la quale questi gruppi di professionisti del crimine vengono pagati è del 20-25% rispetto al valore del carico trasportato. Questi variano dai 300 kg dei più piccoli ad alcune tonnellate, come testimoniato dall’operazione “Albatros” svoltasi nel 2009. Caratterizzata dalla collaborazione tra le forze spagnole del Greco, italiane (Guardia di finanza), portoghesi e inglesi, portò al sequestro di nove tonnellate di cocaina destinate a essere introdotte attraverso le coste galiziane e suddivise in due carichi per un valore complessivo di 720 milioni di euro. Albatros, operazione record. Citiamo in merito il resoconto stenografico della 14º seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, svoltasi il 17 marzo 2009, audizione dell’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «Per dare un’idea della dimensione di questi capitali, vorrei riferirvi i dettagli dell’ultima operazione “Albatros”, condotta nell’oceano Atlantico, seguita dalla Direzione distrettuale antimafia di Genova. Si è pro- ceduto a due sequestri, uno effettuato sulle coste della Galizia, in Spagna, l’altro in pieno oceano Atlantico, vicino alle Azzorre. In totale sono state sequestrate circa nove tonnellate di cocaina, valutate 720 milioni di euro. Quadruplicando la cifra sul mercato si arriva a quasi tre miliardi di euro che sarebbero stati guadagnati solamente con questa operazione. Dobbiamo considerare che il primo sequestro di 3.500 chili di cocaina faceva parte di una partita di 20 tonnellate presenti in una nave madre che effettuava la distribuzione e lo scambio in pieno oceano Atlantico a longitudine e latitudine rispettivamente di 30 gradi, un punto d’incontro internazionale in cui tutti andavano ad approvvigionarsi. La cocaina veniva trasportata tramite aerei che la lanciavano con dei paracadute in mare, al largo del Venezuela, dove veniva raccolta dalla nave madre, che poi si portava al punto d’incontro di cui vi ho riferito e dal quale si diramavano motoscafi d’alto mare, capaci di caricarne diverse tonnellate. Questo episodio dimostra la fantasia organizzativa di queste strutture criminali e dà l’idea di quanto sia difficile intercettare questo tipo di traffico. Vi invito a considerare il valore di quelle 20 tonnellate delle quali sono stati sequestrati solo 3.500 chili nella prima fase. Spesso dopo un’operazione del genere sentiamo dalle intercettazioni che c’è un po’ di movimento che crea scompiglio; poi però sono sicurissimi di rifarsi con gli interessi in occasione del carico successivo. Queste operazioni dunque non producono la destrutturazione dell’organizzazione. In più, così rispondendo in parte anche alla domanda sull’evoluzione delle dinamiche delle varie organizzazioni criminali, oggi notiamo che le organizzazioni madre hanno delle strutture mobili, delle reti, che vengono create di volta in volta in relazione all’affare, alla fornitura, alla produzione da porre in essere». Il Procuratore è interrotto da una domanda tesa a sottolineare il contributo italiano all’operazione, confermata dallo stesso Grasso come la più grande mai compiuta. Di seguito la risposta: «L’Italia ha dato poi un più decisivo contributo soprattutto nella seconda operazione, relativa al sequestro di un peschereccio che – badate bene – partiva non più dal Venezuela ma dall’Africa centro-occidentale, che è ormai un punto di stoccaggio della cocaina colombiana (in alcuni paesi dell’Africa occidentale ormai hanno comprato praticamente tutto e tutti). La nave partiva da lì e si è riusciti a individuarla grazie alla tecnologia italiana: un aereo Atr 42 della Guardia di finanza, che ho potuto personalmente apprezzare per le attrezzature e le tecnologie su di esso montate. Dopo la raccolta di informazioni, l’aereo è stato utilizzato nell’ambito di un’azione di cooperazione internazionale, al fine di individuare la nave senza essere visto (l’aereo ha infatti questa capacità). Dalle fotografie è emerso che la nave era un peschereccio a cui nes- 39 | dicembre 2012 | narcomafie Mercanti di morte Sintetica ricostruzione storica delle fasi della nascita del contrabbando fino alla sua evoluzione in narcotraffico. Il passaggio allo smercio di droghe in Galizia segna di fatto il punto di svolta nel rapporto tra i locali e il “contrabbandiere”, un legame fino ad allora basato sul rispetto e l’ammirazione verso questi ultimi. Essi riuscirono, infatti, a esercitare controllo e autorità usando la leva del soccorso sociale in chiave antifranchista: farmaci e generi di prima necessità gratuiti per i più poveri e tabacco negli anni Sessanta, il contrabbando aveva dunque una dimensione che può essere definita “sociale”. Il contrabbandiere disponeva di beni che il regime totalitario non forniva alla propria popolazione, acquisendo in questa maniera un forte appoggio popolare in grado di fornirgli le basi per un controllo del territorio da un punto di vista morale. Un esempio dell’importanza raggiunta dalla figura erano le scuole galiziane, dove non era raro sentire bambini che alla domanda: «che cosa vuoi fare da grande?» rispondevano: «il contrabbandiere». Nei comuni galiziani si crearono “bolle” di stato sociale parallelo a quello dello stato autoritario ufficiale, nelle quali una parte dei bisogni della popolazione (bisogni materiali, ben diversi dalla “sicurezza” e “monopolio della forza” del caso siciliano) veniva soddisfatta dai contrabbandieri. Questi diventarono figure estremamente importanti e popolari nelle singole comunità di appartenenza. Non si è a conoscenza della formazione di società verticistiche che legassero tutte le rispettive realtà locali, alla stregua della cupola e delle commissioni di Cosa nostra. Le differenti personalità sviluppa- rono legami più stretti tra di loro quando, dai generi alimentari e di primaria necessità, si passò al contrabbando di alcol e tabacco. “Madres contra la droga”. Il capitale sociale accumulato nel corso degli anni venne sostanzialmente annullato quando alcuni contrabbandieri decisero di inoltrarsi nel terreno del narcotraffico. A partire dagli anni Ottanta la Galizia vide l’introduzione di massicci quantitativi di hashish ed eroina e, successivamente, di cocaina. Gli effetti sulla società furono duri. In questi anni si realizzò il cambiamento finale della figura del contrabbandiere galiziano che passò lentamente da positiva a quella di un dispensatore di morte. La società civile iniziò parallelamente a muovere i primi passi. Interessante è il caso delle “Madres contra la droga”, un gruppo di madri che dopo aver vissuto direttamente gli effetti dell’eroina, in seguito alla perdita o tossicodipendenza di alcuni figli, decisero di prendere in mano la situazione. Oltre a fondare un’associazione di aiuto ai tossicodipendenti nella cittadina di Vigo (Fundación Érguete) e avviare programmi di sensibilizzazione su droghe e Aids, iniziarono un’importante Spagna Il contrabbando nacque nella regione galiziana in maniera frammentata e differente da paese a paese, da una parte a causa delle pessime condizioni di vita nell’epoca post guerra civile (la quale finì ufficialmente il 1° aprile 1939) e dall’altra per sfruttare il contesto di guerra mondiale, attraverso la commercializzazione con i due blocchi di alcuni minerali rari come il wolframio. In questo periodo si diffonde l’immagine del contrabbandiere quale “uomo d’onore” che aiuta la comunità e le classi svantaggiate senza puntare al mero arricchimento personale se non alla conquista di capitale sociale. Un esempio è quello di Manuel Díaz Gonzalez, contrabbandiere divenuto, in un secondo momento, sindaco di La Guardia, cittadina situata nella provincia di Pontevedra. Dopo aver definito la sua categoria: «...la gente más honrada que existe» (la gente con più onore che esista), delinea una serie di episodi a supporto di una visione romantica del contrabbando: la penicillina introdotta dal Portogallo e regalata ai malati poveri; la fornitura gratuita dell’olio per le lampade della chiesa in una epoca in cui era difficile procurarselo; la fede vigorosa in un santo protettore. Prima di dedicarsi ad alcol Spagna 40 | dicembre 2012 | narcomafie campagna di denuncia di tutti i vecchi lancheros convertitisi al narcotraffico. Una parentesi è necessaria per descrivere il ruolo della donna nella società galiziana che secondo alcuni studiosi può addirittura essere definita matriarcale. Un esempio è quello delle mogli dei pescatori lungo la costa, le quali ebbero un importante ruolo nella crescita dei figli quando i loro mariti erano impegnati per lunghe battute di pesca. Il fatto che furono proprio le donne a unirsi e alimentare la società civile nella sua lotta non può che rafforzare l’importanza che la donna galiziana ha tuttora nella società. Si registrarono anche casi in cui, durante manifestazioni di protesta, i poliziotti dovettero bloccare fisicamente alcune madri, impedendo loro aggressioni verso narcotrafficanti o assalti ai loro palazzi. L’appoggio sociale ereditato dai lancheros si trasformò in scredito. Gli omicidi, l’inquinamento dell’economia con capitali illegali a discapito della concorrenza e di un sano sviluppo, accompagnati dalla volontà repressiva dello Stato manifestatasi con la “Operacion Necora”, diedero l’impulso finale alla caduta della figura del contrabbandiere-benefattore, alla quale si sostituì quella del mercante di morte. Il controllo del territorio segnò dunque una parabola in crescendo fino agli anni del commercio di droghe, dopo i quali si segnò un brusco declino. La presenza di alcuni vecchi contrabbandieri del dopoguerra nel ruolo di sindaci nei primi anni Ottanta testimonia come l’appoggio sociale raggiunse picchi elevati in determinate zone. Non si manifestò però un controllo capillare paragonabile al sud Italia, nel quale la figura del mafioso era fondamentale nel decidere qualsiasi tipo di attività svolta nel contesto cittadino. Una situazione simile non si verificò in Galizia perché la società civile prese coscienza e lo impedì. Fondamentale furono l’assenza di violenza come mezzo di repressione del dissenso, in quanto non propria della società galiziana, la reazione massiccia della società civile e la volontà politica ad alto livello di reprimere i narcotrafficanti. Il legame con la politica. In questo campo bisogna compiere una netta distinzione tra contrabbandieri e narcotrafficanti. Da una parte si è già menzionato come il capitale sociale accumulato dai primi consentì di occupare ad alcune personalità, come nel caso già citato di Manuel Díaz González, il ruolo di sindaco in piccoli paesi galiziani. Dalle dichiarazioni rilasciate in merito alle preferenze politiche da parte della maggior parte dei contrabbandieri, tra i quali lo stesso González, l’orientamento era favorevole ad Alianza Popular, partito politico spagnolo capeggiato dalla figura di Manuel Fraga e predecessore dell’attuale Partido Popular. È da ricordare come queste figure fossero popolari all’interno delle rispettive comunità grazie all’attività pregressa e in un periodo nel quale il contrabbando di tabacco non veniva visto come un problema di grande rilevanza per la società Per quanto riguarda invece i narcotrafficanti la situazione non sembra cambiare. Il già citato episodio dell’esecuzione da parte di emissari dei narcos colombiani di José Manuel Vilas Martínez è solo uno di molti esempi che riguardano l’infiltrazione a livello locale del partito Alianza popular. La vittima era figura di spicco a livello locale nella zona di Vilagarcía de Arousa ed emissario del narcotrafficante Pablo Vioque (del quale i legami con la politica sono citati a pagina 47). Il partito politico Alianza popular fu dunque soggetto a infiltrazioni limitate al livello locale e solo nel caso appena citato estendibili a quello regionale. Quando i narcotrafficanti iniziarono a essere concepiti dalla società come un pericolo, e in seguito alle forti pressioni esercitate dai gruppi di cittadini precedentemente menzionati, i vertici del partito (sostanzialmente Manuel Fraga, che per longevità ed influenza politica ricorda la figura di Giulio Andreotti) iniziarono a prenderne le distanze e ad espellere esponenti di dubbia legalità, considerati già come criminali dalle comunità locali dotate di coscienza civile. Venne dunque a mancare quel legame organico con la politica a livello centrale, teso ad impedire forme serie di repressione che si manifestarono dagli anni Novanta in poi. È anche da segnalare come nel periodo “siete años de brazos caídos”, che va dal 1983 al 1990, i governi centrali fossero presieduti dal Psoe “Partido Socialista Obrero de España”. I motivi della mancata repressione non sono noti. È ipotizzabile che il problema fu ampiamente sottovalutato, complice la confusione tra le figure di contrabbandiere e di narcotrafficante che contraddistinse inizialmente i principali esponenti criminali. L’evoluzione della situazione spagnola fino ai giorni nostri non può che testimoniare l’inesistenza di quel legame con il potere centrale atto a consentire la sopravvivenza dei sodalizi criminali, caratteristico dell’Italia o di altre realtà, quali Giappone o Russia. Le motivazioni di questa assenza sono molteplici: la prontezza della reazione da parte di una società civile non permeata da atteggiamenti omertosi che dal primo minuto impedì l’ingresso in politica i narcotrafficanti; l’evoluzione politica particolare della Spagna, contraddistinta da un largo periodo di dittatura fascista che può aver limitato lo sviluppo di sodalizi criminali; la posizione secondaria rivestita dalla Spagna nella guerra fredda e l’assenza di un pericolo comunista, le quali impedirono forti influenze esterne come nel caso italiano; l’esposizione della Galizia come terra di confine di un mercato illegale solo a partire dalla metà degli anni Ottanta, hanno evitato lunghi processi che potrebbero aver portato all’entrata in forza nella politica da parte dei sodalizi criminali. I rapporti di dipendenza personali. La creazione di rapporti di dipendenza personali è già in parte emersa nella descrizione dei tre requisiti precedenti, precisamente nell’influenza nelle attività imprenditoriali del narco-avvocato Vioque e nei rapporti tra il sindaco ex contrabbandiere Manuel Díaz González e i suoi concittadini. Va però sottolineato come non si arrivò mai alla trasformazione dei diritti dei cittadini in favori elargiti dal contrabbandiere e in seguito ricompensati. Questo non perché all’epoca del contrabbando “romantico” e successivamente non si crearono delle reti di dipendenza personale, come l’episodio citato della penicillina che sicuramente avrà legato al contrabbandiere intere famiglie. I favori non furono una sostituzione dei diritti perché quest’ultimi erano sostanzialmente negati dallo stato autoritario franchista. Specialmente nel periodo dopo la guerra civile i contrabbandieri offrivano sotto forma di favori dei diritti che lo stesso stato non offriva; una situazione di monopolio che fruttò molto capitale sociale spendibile alla “gente con più onore” all’interno della comunità. Un episodio riguardante i narcotrafficanti che evidenzia come vi era una effettiva ricerca del consenso della popolazione attraverso la creazione di rapporti personali è quello di Sito Miñaco (cfr pag. 46). Il cittadino di Cambados, piccolo comune nei pressi della città di Pontevedra, utilizzò il calcio come argomento per guadagnare la fiducia dei cittadini. Attraverso guadagni illeciti, negli anni Ottanta comprò la squadra del comune, il Juventud de Cambados, e attraverso investimenti notevoli la fece salire di categoria fino a livelli professionistici. Un altro metodo utilizzato fu quello di investire ingenti somme nelle attività culturali della città. Il narco “filantropo” venne addirittura premiato con una placca d’onore il 7 maggio 1989 dal sindaco del paese Santiago Tirado, in quota al Partido popular. Questo caso è utile per evidenziare come i proventi illeciti fossero utilizzati quale mezzo per l’acquisizione del consenso popolare, soprattutto nelle zone povere della Galizia. Sempre Sito Miñaco espanse la propria rete fino a Panama, dove creò imprese fittizie gestite da prestanome in modo da mascherare riciclaggio e traffico di cocaina. Un ulteriore esempio è quello della moglie del narcotrafficante Laureano Oubiña, Esther Lago García. Quest’ultima, tra il 1987 e il 1988, riuscì a cambiare 1.604 milioni di pesetas in dollari nella succursale del banco Bbv di Vilagarcía de Arousa. Il funzionario non registrò le operazioni e non face domande a una signora che arrivava con borse di plastica piene di contanti: “... mai mi disse da dove veniva il denaro e io in nessuna occasione lo chiesi”. È questo un caso nel quale un professionista accetta di aggirare le leggi dello Stato, oltre che i regolamenti interni della banca, per rendiconto personale. La zona grigia di professionisti: indispensabile per il riciclaggio, per la gestione di beni accumulati e per la creazione di società fittizie basate su un sistema di prestanome. suno avrebbe dato importanza per il valore di stupefacenti che trasportava. L’operazione è riuscita grazie a questi mezzi sofisticati, che in Europa ha solo la Guardia di finanza italiana, che ha attrezzato tre o quattro aerei di questo genere. Il sistema di circolazione delle informazioni, generato da un accordo che l’Italia ha siglato con questi paesi per contrastare il traffico di stupefacenti, ha dato i suoi frutti in questa occasione». La deposizione dell’ ex procuratore Piero Grasso evidenzia due dei fattori citati ai quali è imputabile il cambiamento nel mondo del narcotraffico avvenuto dalla metà degli anni Novanta. Il primo è il ruolo dell’Africa occidentale, dalla quale proveniva il secondo peschereccio, luogo descritto come estremamente sensibile al fattore corruzione. Il secondo è lo sviluppo tecnologico e dell’integrazione europea che hanno consentito all’aereo italiano della Guardia di finanza di svelare il contenuto del carico e comunicarlo alle autorità spagnole, incapaci di effettuare l’operazione per via di lacune nell’equipaggiamento. Si è dunque visto come la cooperazione sia di fondamentale importanza nella repressione del narcotraffico. Non esiste un paese che possa contrastare il fenomeno in maniera efficace, senza l’aiuto della comunità internazionale. Sempre il procuratore Grasso definisce i galiziani come i più grandi importatori di droga in tutta Europa. Spagna 41 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna 42 | dicembre 2012 | narcomafie Tra patriarca, padrini e pesetas Le principali famiglie di lancheros gallegos e le modalità operative con cui scalarono la vetta del potere. Le speciali relazioni che si instaurarono con i boss dei cartelli colombiani segnarono l’evoluzione dei gruppi di contrabbandieri di tabacco in narcotrafficanti di Stefano Paglia Se c’è un fenomeno che più di ogni altro è legato al narcotraffico, è quello sviluppatosi in Galizia dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri. Avendo svolto il classico passaggio dalle sigarette alla droga, in questo caso cocaina e hashish, i Galiziani riuscirono, e tutt’ora riescono, a riversare un fiume di denaro in una delle regioni più povere della Spagna. Di seguito sono presentate le principali famiglie o gruppi dediti al narcotraffico e successori dei contrabbandieri di tabacco. Verso la fine degli anni Ottanta il sistema si reggeva su alcuni importanti individui, paragonabili agli “uomini d’onore” siciliani, che giunsero quasi a stabilire una società di tipo mafioso. Questa non si compì per due motivi principali, ossia le reazioni dello Stato e della società civile galiziana nel momento in cui la politica locale stessa iniziò a subire forme di controllo importanti per mano dei trafficanti. È interessante notare come in questa remota regione della Spagna non vi siano infiltrazioni di grosso calibro da parte di organizzazioni straniere, escludendo qualche emissario colombiano in rari casi di regolamento di conti. Caso più unico che raro rispetto al territorio spagnolo, può essere dovuto alla particolare cultura della zona che si differenzia rispetto a quella classica spagnola con una lingua ufficiale differente (gallego), usi e costumi a cavallo tra Portogallo e Spagna. Questo ha sicuramente reso difficile un’infiltrazione sul territorio da parte di soggetti estranei. Il clan Charlín. Vi furono alcuni tratti comuni nelle adolescenze degli individui che diventarono la prima generazione di narcotrafficanti: l’assenza di un’adeguata educazione scolastica, abbandonata precocemente per dedicarsi ad attività redditizie illegali; la nascita in classi sociali disagiate e in un contesto fortemente influenzato e caratterizzato dal fenomeno del contrabbando. Al fianco dei contrabbandieri più anziani, i narcotrafficanti poterono apprendere già dall’adolescenza le tattiche tese a eludere i controlli e a pianificare gli sbarchi illeciti nei luoghi più remoti della costa. La famiglia Charlín fece capo a Manuel Charlín Gama, primo contrabbandiere galiziano a convertirsi al narcotraffico introducendo un carico di hashish. Fu iniziato da Vicente Otero (storico contrabbandiere) nel traffico di sigarette, attratto dallo stile di vita elevato garantito dai guadagni illeciti. Testimonianza della sua precocità è la data del primo sequestro di tabacco nel quale fu coinvolto: 1963. Di lì in poi fu un crescendo di denunce che arrivarono persino all’arresto per sequestro di persona nel 1982. Gli abitanti del suo paese, Vilanova de Arousa, lo soprannominarono “Don Corleone”, per i modi e le apparenze simili al personaggio del film “Il Padrino”. Figli e nipoti ne seguirono le orme. L’ultimo arresto di un membro della famiglia risale al 2010 per riciclaggio. Lo stesso patriarca creò un simbolo familiare, simile a quelli nobiliari, che fece porre nella scalinata posteriore del “Pazo de Vista Alegre”: una tenuta signorile con tanto di cappella privata acquistata nel 1992 e divenuta residenza simbolo del potere detenuto dalla famiglia. Il palazzo venne sequestrato nel 1995. Sostanzialmente abbandonato dalla gestione statale, cominciò un lento degrado arrestatosi solamente nel 2011, quando venne acquisito dal comune per circa 1 milione di euro con l’obiettivo di restituirlo alla popolazione attraverso il suo utilizzo a fini sociali. L’abbandono dei beni sequestrati è una delle motivazioni che spinge la società civile, tra la quale vi è la “Fundación galega contra o narcotráfico”, a chiedere l’istituzione di un’agenzia per la gestione dei beni confiscati. Nel corso degli anni Novanta il clan Charlín venne sottoposto a una forte repressione giudiziaria che portò all’arresto per traffico di cocaina e hashish del patriarca Manuel e di alcuni dei sei figli. Dall’inizio del nuovo millennio il lavoro delle forze dell’ordine svelò il coinvolgimento dei nipoti del patriarca in attività illecite come il riciclaggio di denaro. Il 17 luglio 2010, all’età di 78 anni, Manuel Charlín Gama uscì di prigione dopo aver scontato una pena ridotta dalla legge spagnola da 30 a 20 anni. Laureano Oubiña Piñeiro. Nato nel 1946 a Cambados in una famiglia molto povera, quello che il giornalista Felipe Suárez definisce come il più arrogante dei narcotrafficanti galiziani non ebbe un’infanzia facile. Oubiña si dedicò fin da giovanissimo al contrabbando Spagna 43 | dicembre 2012 | narcomafie Mimetizzarsi nel mare di cocaina Spagna 44 | dicembre 2012 | narcomafie I mezzi utilizzati dai galiziani consistono essenzialmente in imbarcazioni di tipo leggero, quali motoscafi e gommoni, chiamati in spagnolo “lancha” o “planeadora”. Oltre a essi, nel corso degli anni le forze dell’ordine spagnole hanno sequestrato una gran varietà di imbarcazioni, che vanno da navi con motoscafi caricati a bordo fino al caso di un sottomarino, o per meglio dire mezzo anfibio, unico caso in Europa. Un secondo mezzo utilizzato dai galiziani è l’uso dei container, sfruttando il volume di traffico generato dal porto di Vigo per mimetizzare la merce illegale con carichi legali evitando i controlli. La lancha I motoscafi utilizzati dai galiziani possono essere di piccole dimensioni, intorno ai 10 metri, o di medio-grandi, 18-20 metri. I primi vengono impiegati essenzialmente sotto costa. Una volta trasbordato il carico dalle lance di dimensioni medie in località relativamente vicine alla terraferma, consentono di sbarcare direttamente il carico nelle spiagge più isolate e hanno il vantaggio di essere agili e maneggevoli. Le seconde sono invece vere e proprie imbarcazioni in grado di effettuare viaggi intercontinentali, con il compito principale di trasportare la cocaina da una grande nave ubicata in alto mare, generalmente di proprietà dei narcos colombiani o di un vettore da loro pagato, fino ai gommoni dedicati allo sbarco sulla terraferma. In alternativa sono conosciuti casi nei quali la cocaina è stata paracadutata in mare da piccoli aeroplani in contenitori stagni, successivamente raccolti dalle lance. Nel febbraio del 2009 fu ritrovata sulle coste di Nigrán, piccolo paese situato nelle vicinanze di Vigo, un’imbarcazione semirigida di ultima generazione, lunga 18 metri, inspiegabilmente abbandonata dai trafficanti. Il mezzo in questione, custodito ora dalle forze dell’ordine, dispone di una capacità di carico tra le otto e le dieci tonnellate e di un serbatoio da ventimila litri di benzina che consente un’autonomia tale per un viaggio di andata fino alle coste del Senegal, distanti quattromila chilometri. Lo scafo è rivestito in gomma, utile a evitare danni una volta vicino alla costa, di colore scuro, fondamentale per mimetizzarsi ed evitare di essere avvistata dagli elicotteri. È inoltre dotato dei più moderni sistemi Gps, radar e di telefonia satellitare. Il vero punto di forza è però il motore, o meglio i sette motori Suzuki quattro tempi da trecento cavalli l’uno, per una potenza complessiva di duemilacento cavalli. Per dare un termine di paragone, l’auto più veloce al mondo, la Bugatti Veyron SS, dispone di 1.200 cavalli e viaggia a più di quattrocento chilometri all’ora. Tutta questa potenza distribuita su differenti motori consente all’imbarcazione di raggiungere una velocità massima di centoventi chilometri orari e di mantenerla costante anche in condizioni di mare mosso. Secondo gli inquirenti il prezzo di mercato al momento del ritrovamento si aggirava intorno ai seicentomila euro. Attraverso lo studio del Gps fu possibile altresì stabilire come l’imbarcazione avesse in programma di seguire una rotta che la avrebbe portata in una zona tra il continente africano e le isole Canarie, probabilmente per un’operazione nella già citata nuova rotta. Le consistenti riserve di cibo rinvenute a bordo indicarono come i quattro componenti dell’equipaggio avessero pianificato un viaggio dalla durata di alcuni giorni. Il ritrovamento di un mezzo dal notevole contenuto tecnologico mette in evidenza l’alto livello di specializzazione raggiunto dai trafficanti galiziani. Non siamo più in presenza di semplici contrabbandieri vettori marini relativamente comuni. Appare evidente come la guardia costiera debba sempre più dotarsi di mezzi dispendiosi e tecnologicamente avanzati per stare al passo con i narcotrafficanti e non rischiare di avere imbarcazioni obsolete e inutili. Il mezzo anfibio L’unico mezzo anfibio utilizzato a fini di narcotraffico in Europa venne ritrovato abbandonato (semiaffondato e fumante) sulle coste della Galizia, tra le Isole Cies e la città di Vigo, nell’agosto del 2006. A differenza dei mezzi utilizzati in Sud America dai narcos, essenzialmente dei veri e propri sottomarini in grado di navigare leggermente sotto il livello del mare, quello galiziano non ha la forma tipica allungata che li contraddistingue ed è in grado di compiere navigazioni solo a pelo d’acqua. La propulsione è affidata a una singola elica posizionata nella parte posteriore. Gli innumerevoli errori compiuti dai trafficanti, sia tecnici sia logistici, permisero alle forze dell’ordine di vigilare la banda per un lungo periodo. L’abbandono fu il risultato di una lacuna nella progettazione per la quale venne deciso di rimpiazzare il mezzo sperimentale. I trafficanti non si sentivano sicuri nella navigazione e decisero di rimpiazzarlo con una classica imbarcazione che avrebbe dovuto recarsi alle isole Azzorre per ricevere un carico dalle 2 alle 3 tonnellate di cocaina. Pur essendo un mezzo nuovo e inedito per il mercato europeo, evidenzia come anche i narcotrafficanti abbiano un limite al reperimento di personalità in grado di fornirgli conoscenze progettistiche. Ovviamente fino alla prova contraria, dato che nell’altra sponda atlantica quella dei narcosottomarini è realtà. Le navi dei narcos Esse consistono sostanzialmente in grandi navi, come pescherecci e barche a vela, che incrociano i galiziani in determinate località marine. Come già evidenziato precedentemente, i punti di contatto possono essere situati nella costa africana occidentale, come evidenziato nella dichiarazione dell’ex procuratore Piero Grasso per il traffico della rotta africana (cfr. pag. 38), o nel bel mezzo dell’Atlantico, per la rotta atlantica. Scopo principale di queste imbarcazioni è il trasporto di carichi consistenti in tonnellate di cocaina, tre o più, senza essere individuate dalle forze repressive di Usa (attive nei Caraibi) ed Europa: necessario è dunque dotarsi di un aspetto comune, quale un peschereccio o una barca a vela, occultando la merce. Il traffico di contenitori Questo metodo utilizza un limite intrinseco del mondo globalizzato ossia l’impossibilità del controllo di tutti i container transitanti in un porto da parte della autorità. Esistono due tipologie adottate nella regione galiziana. La prima viene chiamata “gancho ciego” (gancio cieco). La cocaina viene introdotta in piccole quantità, nell’ordine delle decine di chilogrammi, sfruttando le lacune nei controlli delle autorità portuali, in container appartenenti a operatori economici del mercato legale totalmente estranei al traffico. Una volta giunta a destinazione, un esponente del sodalizio criminale provvede a recuperarlo in modo tale da non provocare alterazioni della mercanzia per non insospettire il destinatario. I vantaggi presentati da questo sistema sono molti. Da una parte si abbattono i costi di gestione dell’organizzazione, dato che non bisogna occuparsi né della traversata dell’Atlantico né dell’introduzione per mezzo di complicate operazioni navali. Delegando il trasporto ad attività legali si evita oltretutto l’azione di monitoraggio repressiva delle forze navali degli stati nazionali, i quali non saranno insospettiti da un comune cargo commerciale. Gli svantaggi sono invece legati alla quantità di trasporto limitata dalla difficoltà dell’occultamento. Per avviare un traffico importante è dunque necessaria una frequenza negli invii che inevitabilmente espone in prima persona gli esponenti dediti al camuffamento e recupero della cocaina. Oltretutto vi è anche il rischio di non recuperare il contenuto dal container. Le motivazioni possono essere le più svariate, regalando in questo modo la merce agli impresari legali che venuti a conoscenza del carico clandestino saranno tenuti a denunciarlo. Un esempio nell’uso di questo metodo è quello del 28 aprile 2011, quando durante un’ispezione del porto di Vigo, vennero ritrovati 23 chilogrammi di cocaina in uno zaino inserito in un carico di gamberi proveniente da Guayaquil, Ecuador. La seconda modalità legata al traffico di contenitori consiste nell’apertura di un’azienda legale a copertura del traffico illecito. La cocaina viene occultata tra i vari carichi della nave-container. Rispetto alla metodologia descritta precedentemente presenta rischi più elevati in termini di repressione, dato che sono più evidenti per le forze dell’ordine i legami tra azienda di import-export e persone fisiche che trafficano. Il vantaggio consiste invece nel notevole quantitativo di merce che può essere inviata, dato che non vi è la necessità di utilizzare un soggetto terzo che resti all’oscuro. Nel novembre 2010 vennero arrestate cinquanta persone in un’operazione di polizia tra Spagna e Sud America. Il procedimento adottato consisteva nel camuffamento in contenitori di mele e in invii concentrati nei primi mesi dell’anno, parallelamente alla raccolta di mele in Argentina. L’impresa di facciata importava oltre alla frutta originale, che veniva posta sul mercato per non destare sospetti, molti pacchetti di cocaina da 1 kg adeguatamente isolati per resistere al freddo ed all’umidità del viaggio. Per dare un’idea del volume di denaro reso disponibile dal traffico è sufficiente citare come i capi dell’organizzazione avessero un budget di spesa quotidiano superiore a duemila euro. di tabacco. Carismatico e pittoresco, con un sigaro cubano sempre acceso, fu denunciato più volte per aggressione e incarcerato più volte. Proprio in uno di questi soggiorni, partecipò al pestaggio di avvertimento a Ricardo Portabales, il collaboratore di giustizia più importante a disposizione di Garzón nell’operazione Necora. Fatto, quest’ultimo, che testimonia l’impreparazione delle carceri spagnole nel gestire i collaboratori e la relativa corruzione tenendo presente che la porta della cella di Portabales era aperta. Figura chiave nell’organizzazione di Oubiña è quella della seconda moglie Esther Lago, considerata vero e proprio cervello del sodalizio criminale in grado di creare una fitta rete di società per il riciclaggio delle somme provenienti da traffico di tabacco prima ed hashish poi (non venne mai incriminato per cocaina). Come il clan Charlín, anche Oubiña si rese protagonista di una grande acquisizione immobiliare. Il palazzo, o per meglio dire castello, scelto fu il Pazo do Baión, enorme tenuta circondata da ricchi vigneti. Lo stesso acquisto fu il risultato di una maldestra operazione di riciclaggio, nella quale una signora di 78 anni, soprannominata “tía Luisa”, ufficialmente senza risorse economiche, prestò di propria tasca ben 138,5 milioni di pesetas al narcotrafficante. Quando Oubiña venne rilasciato in seguito all’operazione Nécora nel 1994, le “madres contra la droga” assediarono letteralmente la proprietà (cfr. Spagna 45 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna 46 | dicembre 2012 | narcomafie box p.39). Oggi è simbolo della lotta al narcotraffico, dato che dal 2008 è stato affidato a una società che promuove l’enoturismo e destina il 5% del ricavato alle associazioni per la riabilitazione dei narcotrafficanti. Oubiña venne condannato tre volte per aver introdotto complessive 15 tonnellate di droga. Negli anni Novanta si rese latitante nascondendosi in Grecia, dove fu arrestato nel 2000 e incarcerato. Il suo carisma tornò a farsi sentire quando aprì un blog gestito direttamente dalla prigione; apparve anche nell’edizione spagnola di «Vanity Fair», nella quale dichiarò pubblicamente di aver finanziato i partiti politici di Manuel Fraga “Alianza popular” e quello di Suarez “Udc”. È uscito dal carcere nel giugno del 2012, all’età di 66 anni. José Ramón Prado Bugallo, alias Sito Miñaco. Miñaco è stato tra i narcotrafficanti più importanti d’Europa fino al 2001, data della sua cattura definitiva. Nacque a Cambados nel 1955. Decise di entrare nel contrabbando di tabacco, che utilizzò come copertura sociale anche negli anni del narcotraffico, fondando il gruppo Ros, acronimo delle iniziali delle tre figure principali: Ramiro Martínez Señoráns, Olegario Falcón Piñeiro e lo stesso Sito. Nel 1983 venne arrestato per la prima volta. Fu l’evento che gli cambiò la vita, dato che in carcere conobbe Jorge Luis Ochoa, importante membro del cartello di Medellín. I due stabilirono un sodalizio e una volta fuori iniziarono a trasportare cocaina dalla Colombia alla Galizia. Il metodo utilizzato prevedeva l’invio via mare di carichi composti da circa 4/5 tonnellate di cocaina che i galiziani si occupavano di scaricare e nascondere in depositi fino alla divisione tra le varie piazze di spaccio. Attraverso i proventi, Miñaco riuscì a creare una rete di rapporti criminali con banchieri, impresari ed agenti delle forze dell’ordine che si estese fino a Panama, dove stabilì la sua residenza per lungo tempo attratto dalle agevolazioni fiscali. Come verrà esplicato nel capitolo 4, creò parallelamente una rete d’influenza nella società tanto da essere ritenuto un filantropo, ricevendo un premio per le sue donazioni. Comprò la squadra di calcio locale, facendola salire fino alla serie C, e visse una vita all’insegna dei festini, delle donne e delle auto di super lusso. Arrestato una seconda volta nel 1991 durante l’operazione Nécora, venne in seguito rilasciato per cavilli giudiziari nel 1998. É questa una testimonianza dell’impreparazione nell’affrontare il fenomeno del narcotraffico della legislazione spagnola nei primi anni Novanta. Nel 2001, le forze dell’ordine lo fermarono una terza e ultima volta per traffico di cocaina. Le modifiche apportate al quadro legislativo permisero una pena molto più severa, che, senza sconti, dovrebbe terminare nel 2018. Sito fu un personaggio fondamentale perché racchiude tutti gli elementi del narcotrafficante galiziano. La gioventù difficile e l’abbandono precoce degli studi. L’uso so- ciale del tabacco come copertura del traffico di droga. Il controllo del territorio e la rete di rapporti di dipendenza personali realizzati attraverso massicci investimenti a favore della comunità. Lo strettissimo legame con i colombiani di Medellín. L’assenza di alcuna forma di violenza per reprimere il dissenso. Il fortissimo carisma. La pianificazione di un’organizzazione criminale nella quale ognuno ebbe un ruolo specifico, precedendo quello che sarebbe diventato lo schema dei narcos moderni e superando la concezione familiare dei Charlín ed Oubiña. Per tutti questi fattori fu ed è il rappresentate d’eccellenza della prima generazione di narcotrafficanti. I narcos cambiano pelle. L’operazione Necora (12 giugno 1990) fu soltanto la prima di una serie diretta contro il mondo del narcotraffico galiziano. Con l’arresto di Sito Miñaco nel 2001 si conclusero le attività della prima generazione di narcotrafficanti, caratterizzata, come già detto, da una forte posizione d’alleanza con i colombiani, dall’ostentazione delle proprie ricchezze e da un vincolo associativo familistico, come Oubiña e Charlín, o semi professionale, come Miñaco. L’affermazione della volontà repressiva dello Stato insieme alla fortissima condanna della società civile provocarono il passaggio da figure carismatiche e famose a soggetti quasi anonimi tendenti all’inabissamento. Quest’ultimo termine sta ad indicare il profondo cambio nello stile di vita adottato dalla nuova generazione, visibile nell’abbandono delle grandi ville, delle auto di lusso e del ruolo di benefattori-filantropi nella società. Il tutto teso a mantenere un profilo basso in maniera tale da evitare l’esposizione agli occhi delle associazioni civili, le quali tuttora svolgono una forte attività di monitoraggio e denuncia, e alla repressione statale. I trafficanti di seconda generazione, identificabili anche come i meri trasportatori del carico, non hanno più quell’importanza sociale radicata nelle comunità che caratterizzò invece gli appartenenti alla prima. Negli arresti eseguiti dopo il 2001, i nomi delle persone coinvolte erano sconosciuti alla maggior parte della popolazione, tranne nei casi in cui vennero coinvolti parenti dei vecchi narcos, come i nipoti di Charlín o il figliastro di Laureano Oubiña. Lo stesso vincolo associativo cambia. Il gruppo divenne simile a un’aggregazione di liberi professionisti del crimine che si dividono accuratamente i compiti. Ognuno specializzato in un determinato settore e un individuo principale dedito al monitoraggio di tutta l’operazione. Un discorso a parte merita invece l’avvocato Pablo Vioque. Pur avendo svolto le sue attività nel periodo corrispondente a quello della prima generazione di narcos, la sua storia criminale è particolare e non accomunabile con quelle dei soggetti appena presentati. Pablo Vioque Izquierdo: una storia particolare. Pablo Vio- que fu la figura che più di ogni altra si avvicinò ai requisiti necessari per essere considerato un mafioso. Nato in Extremadura nel 1952, si differenzia da tutti i nomi fin’ora menzionati per la sua carriera accademica nel ramo della giurisprudenza e per non essere di origini galiziane. Durante gli anni Ottanta fu il difensore dei più importanti narcos galiziani, come Laureano Oubiña e Sito Miñaco. Un colletto bianco. Felipe Suárez nel suo libro lo relazionò addirittura con il caso Bardellino (in particolare sul caso del rilascio di quest’ultimo in libertà provvisoria su cauzione, avvenuto nel gennaio 1984). Secondo il giornalista galiziano se l’operazione riuscì fu anche grazie all’influenza dell’avvocato sul giudice che adottò tale disposizione. In un primo momento la sua figura sembrò rimanere nei limiti dei confini della legalità, si scoprì successivamente come egli stesso si fosse convertito in trafficante di cocaina, creando al contempo una fitta rete di società dedite al riciclaggio. Attraverso la camera di commercio di Vilagarcía, della quale tirava le fila pilotando le nomine grazie all’enorme influenza raggiunta, riuscì a creare una vera e propria organizzazione verticistica con una forte influenza nei settori politico e imprenditoriale. In seguito venne anche condannato per aver cercato di contrattare un killer per l’omicidio del “Fiscal especial antidroga” Javier Zaragoza, figura fondamentale quanto quella di Baltasar Garzón nella repressione dei narcos galiziani. Un articolo del quotidiano «El País» lo cita come figura di spicco e tra i fondatori di Alianza Popular nel panorama galiziano. È però da sottolineare l’importanza del ruolo giocato da Manuel Fraga nella sua caduta. Fu di fatti quest’ultimo, fondatore vero e proprio del partito, a sollecitare l’indagine che portò allo scioglimento della camera di commercio di Vilagarcía che, solo per dare un’idea dell’influenza negativa esercitata dall’organismo negli affari criminali, politici e sulla società, veniva chiamata con l’appellativo di “nido di vipere”. Verso la fine della sua carriera criminale, quando la sua influenza era già compromessa, Vioque fondò la “Plataforma de independientes de España” (Pie), un partito limitato a livello locale che non ottenne rappresentazione grazie all’azione di denuncia della società civile, rappresentata dalla “Plataforma galega contra o narcotráfico”, antenata della già citata Fundación. Quest’ultima é un’associazione che racchiude diverse personalità che si oppongono al narcotraffico, svolgendo molte attività di sensibilizzazione e educazione tra i più giovani, denuncia e supporto ai tossicodipendenti attraverso personale specializzato. Ha sede proprio nella cittadina che fu di Vioque, Vilagarcía. Vioque fu arrestato nel 1997 per traffico di cocaina. Rimase in carcere fino al 2008, quando fu scarcerato perché malato terminale. Morì ufficialmente nel dicembre dello stesso anno (ma un suo parente ha recentemente messo in dubbio l’effettività della morte). Spagna 47 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna 48 | dicembre 2012 | narcomafie Porte aperte al malaffare Dalla mafia russa alla ’ndrangheta: tutte presenti le organizzazioni mafiose nella penisola iberica. Le occasioni di lucro non mancano, dal settore turistico all’immobiliare. Ad attrarre una legislazione “morbida”, la vicinanza a paradisi fiscali e un regime carcerario impreparato alla detenzione mafiosa. Così la Camorra tenta anche la via della politica di Stefano Paglia Gli individui che compongono i gruppi organizzati di origine straniera sono principalmente italiani, russi e latinoamericani. Gli autoctoni sono galiziani in primis, ma anche baschi e in minor misura andalusi. I seguenti raggruppamenti sono effettuati attraverso il criterio di pericolosità, basato su fattori (in ordine d’importanza) quali: uso della violenza a scopi intimidatori, tentativi d’infiltrazione nella politica e inquinamento dell’economia legale attraverso riciclaggio e traffici illeciti. Non è stata riscontrata alcuna organizzazione nella quale i tre siano presenti contemporaneamente, mentre solo la camorra è stata finora coinvolta in un tentativo di infiltrazione politica, precisamente nelle isole Canarie. Da Mosca, le élites. Con il termine mafia russa si intendono tutte le organizzazioni criminali formate da cittadini della Federazione russa. Alcuni gruppi si formarono già sotto l’Unione Sovietica, altri solo in seguito al collasso. Ciò che accomuna i differenti gruppi, diversi per etnia e provenienza geografica, è l’enorme guadagno avuto dal processo di brusca privatizzazione avvenuto in seguito allo sgretolamento del regime comunista. Il livello di potere raggiunto in patria da alcune di queste bande è tale da non riuscire a distinguere nettamente l’organizzazione dalle autorità locali. La Spagna è considerata un mercato d’investimento sicuro per i capitali accumulati, a differenza dell’instabilità che contraddistingue la patria, e un luogo per sfuggire alle lotte intestine. I primi gruppi ad arrivare sono i grandi magnati “rapinatori di beni statali”, che si presentano come élites con forti coperture nel sistema dell’economia legale del proprio paese e che fanno del riciclaggio la loro principale attività. In un secondo momento giunsero gruppi legati alla sicurezza privata, spesso ex militari, che incentrarono la propria attività nella prostituzione e nelle estorsioni. Data la notevole presenza di ex agenti segreti, i gruppi russi presentano un importante apparato informativo in grado di fornire un notevole vantaggio. Uno dei protagonisti è Zakhar Kalashov, arrestato a Dubai nel 2006 in seguito ad un’indagine delle forze dell’ordine spagnole: faceva parte di un gruppo denominato “ladri nella legge” operante in Russia e Georgia. Fu estradato dalla Spagna proprio in quest’ultimo paese nel 2010 per scontare una condanna di oltre dieci anni. I ricavi dei traffici illeciti erano reinvestiti nel mercato immobiliare iberico attraverso una rete di società commerciali retta da un sistema di intestazioni a prestanome. Un secondo esponente recentemente arrestato è Tariel Oniani, anch’egli protagonista del mercato immobiliare, precisamente a Barcellona. Questi era un componente di grado inferiore della stessa organizzazione, fu estradato compiendo il percorso opposto, dalla Russia alla Spagna, nel 2011. Entrambi furono inseriti nella lista dei ricercati in seguito alla fuga nel 2005 per sfuggire alla cattura nell’ “operacion Avispa”. I Ballestreros, gente limpia. La presenza di elementi sudamericani legati alla cocaina in Europa e l’utilizzo della violenza da parte di elementi dei cartelli colombiani prende piede a partire dagli anni Novanta, dove si ebbero regolamenti di conti anche con personalità inserite a livello politico locale. Il 28 dicembre 1989 si svolse a Roma un incontro tra le più alte cariche delle forze dell’ordine dedite alla repressione dei traffici di droga di Stati Uniti, Italia e Spagna. L’allora direttore della Dea, John Lawn, mise in allerta i colleghi iberici dichiarando come vi fossero forti indizi che legavano l’ingresso della cocaina nel Vecchio continente a iniziative portate avanti dalle famiglie Ochoa e Matta Ballesteros, citando in merito le relazioni dirette, culturali e linguistiche che intrecciavano i due gruppi tra le sponde dell’Atlantico. Entrambe le famiglie visitarono più volte la Spagna dalla fine degli anni 70, riuscendo a stabilire importanti contatti per la creazione di un secondo mercato per la cocaina, alternativo per dimensioni e disponibilità economica a quello nordamericano. La famiglia Matta Ballesteros ha origine honduregna, fu una delle prime a stabilirsi in Spagna con fini di riciclaggio di denaro sporco, proveniente dal traffico di cocaina tra Colombia e Stati Uniti svolto da Júan Ramon Matta Ballesteros. I forti legami con il cartello di Medellín resero Júan Ramon un personaggio chiave, definito un pioniere nel suo campo, in quanto coinvolse Spagna 49 | dicembre 2012 | narcomafie Spagna 50 | dicembre 2012 | narcomafie il Messico, più precisamente la cittadina di Guadalajara, nel rifornimento del mercato statunitense attraverso il consolidamento di questa nuova rotta (nota oggigiorno a causa delle migliaia di morti da essa provocati). Arrestato nel 1988 sta ora scontando l’ergastolo in un carcere di massima sicurezza in Colorado per traffico di droga e omicidio di un agente della Dea infiltrato. L’importanza della sua figura è data dal contemporaneo investimento in Spagna, da parte della sua famiglia, delle fortune provenienti dal narcotraffico. Molto importante in questa operazione di riciclaggio fu il ruolo svolto dal fratello, José Nelson Matta Ballesteros, che iniziò a frequentare la Spagna nel 1979, quando fu individuato a Madrid; nel 1984 ottenne la residenza nella città galiziana di La Coruña, situata nel nordovest della penisola. Nel 1986 giunsero a Madrid anche il fratello Reinaldo e la sorella Leticia. Lo stesso Júan Ramón visitò più volte il paese e trovò rifugio nella capitale spagnola durante il 1985, continuando a gestire i suoi affari attraverso il telefono come testimoniano le intercettazioni della polizia spagnola. Attraverso l’aiuto dei Fernandez Espina, fratelli asturiani legati a vari narcotrafficanti di cocaina e con interessi immobiliari in molti stati sudamericani e nella stessa Galizia, i Matta Ballesteros riuscirono a entrare nel tessuto imprenditoriale autoctono. La procedura fu la stessa già utilizzata da molte organizzazioni criminali in tutto il mondo. Un imprenditore galiziano che attraversa- va difficoltà economiche, Jesús Louzao Pardo, proprietario di una catena di concessionari di automobili di lusso (settore nel quale i suoi eredi sono tuttora attivi) accettò di aprire la sua società, Briocar, al denaro proveniente dai Matta e dai Fernandez. Dopo aver saldato i debiti contratti previamente, iniziò una forte campagna di espansione e diversificazione che attraverso la creazione di ulteriori società e l’estensione della rete d’influenza in tutta la comunità autonoma, portò il gruppo nel settore degli appalti pubblici. Esempio ne è la realizzazione del parcheggio sotterraneo di “plaza de Vigo” situato nella città di Santiago de Compostela. L’arresto di Juan Ramón nel 1988, da parte delle autorità statunitensi, portò a galla tutta la rete creata nel mercato spagnolo col fine di riciclare i proventi illeciti della famiglia honduregna. Le cause che provano a chiarire il motivo di un tale radicamento nella società galiziana della famiglia Matta Ballesteros sono elencate dal giornalista Perfecto Conde nel libro “La conexión gallega”. Un individuo quale José Nelson, fratello di un noto narcotrafficante, arriva in una terra a lui sconosciuta e di punto in bianco inizia a investire grandi quantità di denaro senza che nessuno si interroghi sulla provenienza. Nessuno fa domande, uno dei segnali caratteristici della società omertosa. Questo fu possibile perché all’epoca la società galiziana era già interessata dallo svolgimento di importanti operazioni di riciclaggio da parte dei contrabbandieri autoctoni di tabacco. I loro de- positi bancari erano custoditi da succursali di moltissime banche in quanto gran riserva di liquidità, in un’economia debole quale quella del nordovest spagnolo. In secondo luogo la Galizia era (ed è tuttora) una delle comunità autonome con un’economia più debole, rispetto alla media spagnola, e con una forte percentuale di sommerso. Tutti i fattori tra loro combinati favorirono l’instaurarsi di un regime economico poco trasparente e adatto alle attività di riciclaggio. In una parte del sistema economico si venne a creare una sorta di mentalità dal capitalismo distorto, in qualche maniera simile a quello che ritroviamo oggi in un fenomeno che può definirsi globale, dove qualsiasi mezzo lecito o illecito viene considerato valido e legittimo allo scopo di arricchirsi. Non importa se il denaro abbia origine dubbia o sia esplicitamente frutto di attività criminali. Ulteriore prova a sostegno di questa tesi, e a testimonianza dell’appoggio di una parte della classe politica presentata ai Matta Ballesteros dai fratelli Fernandez, furono le dichiarazioni rilasciate dal governatore civile di La Coruña Ramón Berra in difesa di José Nelson, per il quale l’honduregno rientrava nella categoria della “gente limpia” (gente pulita), e dall’allora sindaco della stessa città Francisco Vázquez, che apostrofò il tutto come un attacco al buon nome della città. Il capo dei narcos: Jorge Luis Ochoa. Jorge Luis Ochoa fu uno dei principali narcotrafficanti colombiani. Esponente di 51 | dicembre 2012 | narcomafie rante il regime di detenzione. Di carceri Ochoa ne cambiò ben tre in territorio spagnolo: Carabanchél a Madrid, Puerto de Santa María a Cádiz ed Alcalá-Meco vicino a Madrid. Questo giro della Spagna gli consentì di entrare in contatto con i principali criminali spagnoli, tra i quali alcuni galiziani. Su tutti Sito Miñaco, uno dei principali importatori di cocaina, in carcere per traffico di hashish (cfr. p. 46). Come accaduto più volte nel corso della storia del traffico di cocaina, la galera si trasforma in una sorta di università del crimine. Basta pensare al narcos statunitense George Jung, che attraverso la detenzione per traffico di marijuana entrò in contatto con Carlos Lehder, cofondatore del cartello di Medellin che lo introdusse presso Pablo Escobar. Di lì in poi il mercato delle sostanze stupefacenti degli Usa sarebbe stato ricoperto da una marea bianca. La somiglianza tra i due casi, con i narcotrafficanti galiziani al posto di Jung e il trio Matta Ballesteros-OchoaOrejuela dall’altra, è notevole ed è esemplare del ruolo svolto dal carcere quale “catalizzatore” delle attività criminali. È bene ricordare come la Colombia sia il maggior produttore ed esportatore al mondo di cocaina, grazie alle particolari condizioni climatiche nelle quali la pianta di coca é in grado di svilupparsi. La frammentazione dei grandi cartelli colombiani garantisce una maggiore concorrenza e la possibilità di differenziazione nell’approvvigionamento. L’esportazione di cocaina verso l’Europa non si è fermata. È aumentata dagli anni Novanta fino agli ultimi anni Duemila quando, secondo le principali agenzie come Unodc, si é raggiunto il punto di saturazione delle grandi nazioni del mercato europeo come Gran Bretagna, Italia e Spagna (dal 1998 al 2006 il consumo era invece raddoppiato). L’arrivo dei messicani. Un cablogramma divulgato nel dicembre 2010 da Wikileaks ha rivelato come le organizzazioni criminali messicane abbiano sostituito quelle colombiane nel traffico in Europa. L’affacciarsi sul mercato europeo dei messicani era stato menzionato anche nella relazione 2010 della Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa), tuttavia senza indicarne la preponderanza. In un’operazione svolta nel novembre 2010 dalle forze dell’ordine spagnole è stata smantellata un’organizzazione composta da messicani, colombiani e galiziani. Si è dunque più propensi a pensare che i nuovi gruppi, più piccoli e flessibili, non agiscano in base ad un criterio nazionale ma abbiano una composizione cangiante secondo le necessità del momento: joint venture formate anche per una sola spedizione e in seguito dissolte. Mafie italiane? Vanno dritte alla politica. Tra le organizzazioni criminali italiane la camorra, rispetto alla ’ndrangheta, ha un ruolo di primo piano sin dai primi insediamenti. In linea generale, i latitanti trovarono nella penisola in transizione dalla dittatura un rifugio sicuro dalle forze Spagna punta del cartello di Medellín, quando arrivò a Madrid, il 14 giugno 1984, era considerato uno dei quattro narcos più pericolosi, alla stegua di Pablo Escobar, Gilberto Rodríguez Orejuela (anch’egli residente in Spagna e arrestato insieme ad Ochoa) ed esponente del cartello di Calí e José Gonzalo Rodríguez Gacha. La venuta in territorio spagnolo era il frutto di una fuga di massa, lo stesso Escobar fuggì in Australia per breve tempo, in seguito alla prima campagna di repressione dei narcos, ad opera dello Stato colombiano, avvenuta in seguito all’uccisione del ministro della giustizia Rodrigo Lara Bonilla. Jorge Luis Ochoa scelse la Spagna in quanto poteva contare su alcune conoscenze, come i fratelli Fernandez Espina, e per fattori linguistico culturali, in quanto facilitato dall’idioma comune. Pinificando una lunga permanenza, organizzò capillarmente il contrabbando di grandi quantità di cocaina colombiana, svolgendo, nello stesso tempo, attività di riciclaggio investendo nel settore immobiliare e in auto di lusso. Il tutto non passò inosservato alla polizia spagnola e alla Dea statunitense. Due mesi dopo il suo arrivo in Europa, il 15 novembre 1984, Ochoa venne arrestato dalla polizia spagnola e incarcerato fino al 1986, data nella quale venne estradato in Colombia. La detenzione in Colombia si rivelò ben presto una farsa ed il boss venne rilasciato su cauzione. L’elemento importante che emerge da questa vicenda e aiuta ai fini della ricerca, è il continuo spostamento du- Spagna 52 | dicembre 2012 | narcomafie dell’ordine italiane, grazie alla pressoché inesistente cooperazione tra le polizie europee e ad una legislazione che non rispondeva in maniera adeguata al fenomeno mafioso (cfr box p.54). Dei latitanti italiani arrestati all’estero negli ultimi dieci anni, circa un terzo era residente nella penisola iberica e sempre a questa spetta il primo posto nella graduatoria delle rogatorie internazionali richieste dalla Dda? La Spagna è anche un fondamentale luogo di incontro con i narcos. Qui si contrattano i grandi carichi di cocaina. Fino all’apertura della “rotta africana”, avvenuta in seguito all’impegno profuso dalle forze di polizia spagnole, inglesi e statunitensi nel contrasto dei carichi via mare che, attraversando l’Atlantico, facevano spola tra Sud America e Spagna, le organizzazioni italiane avevano un ruolo di secondo piano rispetto a quelle colombiane e galiziane. Le cause del rilancio “italiano” sono identificabili nella nuova prospettiva geografica, più vantaggiosa per il Sud Italia, e nella perdita di quel fattore linguistico-culturale che tanto aveva avvantaggiato gli spagnoli. Naturalmente, questo non significa affatto che la rotta via mare “Atlantica” sia stata abbandonata, vi è stato solo un suo ridimensionamento. È interessante notare come non vi siano esponenti della criminalità italiana nella costa atlantica, più proficua e adatta ai traffici, situata nel nord-ovest del paese. Forse la presenza di organizzazione come quella galiziana e l’Eta ne impediscono il radicamento nel territorio. I Bardellino e il clan dei Casalesi. Antonio Bardellino, storico capo clan di San Cipriano d’Aversa, fu il primo di una lunga serie di camorristi a usare la Spagna come luogo per latitanza e affari. Fu arrestato il 2 novembre 1983 dalla polizia spagnola presso Barcellona. In seguito a uno scandalo giudiziario, ricordato dalla stampa spagnola come il “caso Bardellino”, fu rimesso in libertà dopo il pagamento di una cauzione nel 1984, nonostante l’Italia avesse già iniziato le procedure per l’estradizione. I contorni dell’accaduto sono poco chiari. In base alla ricostruzione del quotidiano «El País», l’allora compagna di Bardellino, Rita de Vita, avrebbe pagato la somma di dieci milioni di pesetas a una prostituta, sentimentalmente legata al giudice Jaime Rodríguez Hermida (lo stesso viene definito “angelo custode” dei contrabbandieri galiziani fino agli eventi qui citati). Questi, che verrà in seguito espulso dalla carriera giudiziaria nel 1986, era intimo amico di un secondo giudice, Ricardo Varón Cobos, diretto responsabile del provvedimento di libertà provvisoria. Se i contorni dell’accaduto permangono tutt’oggi poco chiari, quel che emerge è la capacità di influenza di Bardellino in territorio spagnolo negli anni Ottanta, nel quale fu anche uno dei primi investitori a scopi di riciclaggio. In seguito alla fuga, il boss della camorra continuò a spostarsi in una lunga serie di viaggi d’affari. Andò in Brasile e intavolò un traffico di cocaina. Nel 1987 giunsero al culmine le tensioni interne nel clan, stimolate dalla lontananza dal territorio del capo, non essendo il legame camorristico di natura fedele come quello “di sangue” ’ndranghetista, e dallo scalpitante gruppo dei “casalesi”. Tornato in patria per ristabilire gli equilibri interni, Bardellino commise l’errore di uccidere il fratello del suo braccio destro Mario Iovine, Domenico. In seguito lo stesso Iovine ammise di essersi vendicato uccidendo il suo ex capo. Il corpo non venne però mai ritrovato ed alcune testimonianze, quale quella di Buscetta, stendono un alone di dubbio sulla sua presunta morte. Sta di fatto che nel ruolo al vertice subentrò Iovine, il quale diede inizio alla guerra che portò all’uccisione di tutti gli uomini fedeli al vecchio ordinamento. Il nuovo boss si avvalse di figure emergenti che ben presto lo avrebbero tradito, i casalesi: Bidognetti, Schiavone, Vincenzo De Falco e Zagaria. Commise lo stesso errore del suo vecchio capo. Allontanandosi dal territorio campano per stabilirsi in Portogallo, permise ai quattro di stabilire nuovi equilibri di potere attraverso una faida intestina. Nel 1991 fu eliminato Vincenzo De Falco, a causa di una sua presunta soffiata alla polizia, eseguita su avvallo di Iovine. Questi viene a sua volta eliminato per vendetta dal fratello, Nunzio De Falco, il quale risiedeva a Granada utilizzando come copertura la gestione di un ristorante (in realtà trafficando droga). L’omicidio del capo provocò un ulteriore confronto tra i 53 | dicembre 2012 | narcomafie La Camorra a Tenerife. Il 18 ottobre 2011 le forze dell’ordine spagnole portarono a termine l’“operación Pozzaro”, tesa a contrastare le infiltrazioni della Camorra nel tessuto imprenditoriale e, per la prima volta, nel contesto politico spagnolo. Il clan in questione è quello dei Nuvoletta, che sarebbe penetrato nelle file del Partido Popular della cittadina di Adeje, ubicata nel sud di Tenerife, attraverso l’avvocato Domenico di Giorgio, arrestato nell’ambito dell’operazione Pozzaro. Quest’ultimo si era in un primo momento candidato come numero quattro nella lista del Pp per le elezioni municipali del 22 maggio 2010 e avrebbe collaborato attivamente (come testimoniato dal suo profilo Facebook) anche dopo la rinuncia, avvenuta all’ultimo momento per motivi di salute di un familiare non precisato. Il Pp comunque non riuscì a vincere e subì anche un duro contraccolpo d’immagine quando l’avvocato pubblicò una foto nel suo profilo con Mariano Rajoy, attuale primo ministro spagnolo. Il Pp di Tenerifé attraverso una comunicazione alla stampa rispose: «Non è possibile chiedere la fedina penale a chiunque stringa la mano al candidato premier». La presenza di esponenti della famiglia Nuvoletta nelle isole Canarie è nota da anni, denunciata anche da Roberto Saviano in “Gomorra”. È senza dubbio un grande smacco per il Pp di Tenerife il non aver vigilato di fronte ad un’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale risaputa da molti anni e identificata concretamente nel complesso urbanistico “Marina Palace”. Se i risultati delle indagini fossero confermati al termine del processo, saremmo in presenza della prima infiltrazione diretta da parte di un’organizzazione straniera nel sistema politico spagnolo. La presenza ‘ndranghetista. Seconda solo a quella camorrista, la mafia calabrese utilizza il territorio come mercato Una testimonianza del notevole ingresso di capitali sporchi risale al 2006, quando prese il via un’indagine della Banca centrale di Spagna tesa a motivare l’incredibile quantità di banconote da 500 euro presente nel territorio. Queste infatti, dato aggiornato al 2011, rappresentano il 71,4% del valore di tutte le banconote presenti in Spagna, per un valore di 71.389 milioni di euro. Quasi una banconota su quattro di tutta l’area euro. Inutile dire come la maggior parte sia legata a operazioni illecite attuate da bande criminali. Nel 2010 le case di cambio inglesi smisero addirittura di convertirla, dopo aver dichiarato che il 90% delle transazioni era legato a fenomeni criminali quali traffico di droga o lavaggio di capitali. Il soprannome che é stato affibbiato al taglio è Bin Laden: «...por lo mucho que se ha oído hablar de ellos y por los pocos que se han visto» (per quanto se è sentito parlare e per il poco che se ne sono viste, «El País», 2010). A conferma dell’uso improprio è possibile citare l’arresto di Patrizio Bosti, esponente dell’alleanza di Secondigliano, avvenuto presso un lussuoso ristorante della Costa Brava: gli furono sequestrati 24mila euro in 48 biglietti da 500. Spagna Gli“spagnoli” di Scampia. Il secondo gruppo che vi risiede tutt’ora è quello degli “Spagnoli” di Scampia. Questo prende il nome dall’abitudine di molti affiliati di risiedere a Madrid, Barcellona e Costa del Sol. Esponente principale fu Raffaele Amato, arrestato a Marbella nel 2009, che investì nel mercato immobiliare e in società finanziarie denaro proveniente dai traffici più svariati. Interessante notare come un suo “collega”, Maurizio Prestieri, descriva la struttura nella quale è rinchiuso in Spagna con le seguenti parole: «Mi sembrava un villaggio Valtur...»: un indicatore dell’impreparazione del regime carcerario spagnolo ad affrontare personaggi che, seppur rinchiusi dietro le sbarre, sono in grado di gestire gli affari attraverso contatti telefonici. L’ultimo latitante camorrista arrestato in ordine cronologico è Salvatore D’Avino, 39 anni, inserito nella lista dei 100 ricercati di massima pericolosità, bloccato dai Carabinieri il 24 Agosto 2011 a Marbella. I 500 euro di Bin Laden vari esponenti che terminò con l’egemonia del gruppo casalese. De Falco, dopo aver vendicato il fratello, decise di tenersi fuori dai giochi continuando la sua vita a Granada. In questo periodo avvenne anche l’omicidio di Don Peppe Diana, eseguito sotto l’ordine dello stesso De Falco da Quadrano, il quale scappò a Barcellona decidendo in seguito di collaborare con la giustizia per aver salva la vita. Nel 2004 la giustizia spagnola condannò De Falco per traffico di stupefacenti estradandolo in Italia nel 2005, dove tutt’ora sconta l’ergastolo quale mandante dell’omicidio di Don Peppe Diana. I suoi eredi continuano a godersi il frutto dei suoi traffici illeciti in Spagna. C’era una volta un rifugio sicuro... Spagna 54 | dicembre 2012 | narcomafie L’inefficienza del sistema repressivo e giudiziario spagnolo è radicalmente cambiata grazie ai passi avanti registrati in materia e alla forte volontà dei governi succedutisi nell’affrontare il problema. Le principali strategie adottate furono l’entrata in vigore del mandato di cattura europeo (2004); il progressivo ampliamento della legislazione spagnola (vedi l’introduzione nel 1995 del reato contro la salute pubblica) e il lavoro di sensibilizzazione e assistenza ai tossicodipendenti svolto attraverso il “Plan nacional sobre drogas” che, dal 1985, si è rinnovato fino ai giorni nostri. Nelle stesse forze dell’ordine esistono diverse unità speciali per il contrasto alle organizzazioni criminali, coordinate dalla Udyco central, acronimo di “Unidades de droga y crimen organizado”, create nel 1997 per aumentare l’efficacia repressiva nei confronti della criminalità organizzata in tutti i suoi aspetti: dal lavaggio di capitali al traffico di droga. Si compongono di diversi gruppi ubicati sul territorio spagnolo nelle zone maggiormente esposte a questi fenomeni: Galizia, Costa del Sol, isole Canarie. Sotto il profilo delle unità “operative”, quelle che più di altre si distinguono per il contrasto al narcotraffico sono i Greco’s “Grupos de Respuesta Especializada contra el Crimen Organizado”. Esse sono composte da circa trenta uomini dotati dei più moderni equipaggiamenti esistenti e operano in collaborazione con le unità Udyco. È lecito dunque affermare che la Spagna non costituisce più un rifugio molto sicuro per i latitanti, sebbene continui a offrire importanti opportunità di riciclaggio, ampliate dall’odierno contesto di crisi europea e da due fattori caratteristici del nuovo mondo globalizzato. Il primo è il gran passo avanti fatto dalle tecnologie che garantisce una miglior rete informativa indispensabile per rende più flessibile la struttura dell’organizzazione, adattandola meglio agli scopi criminali. Lo sviluppo tecnologico è utilizzabile anche nell’ottica del riciclaggio di denaro, consentendo spostamenti in un breve lasso di tempo da una parte all’altra del mondo. In questo settore è da segnalare il prezioso apporto dei paradisi fiscali, i quali attraverso le loro legislazioni compiacenti permettono alla criminalità organizzata di creare una maschera di pseudo liceità una volta introdottasi nel mercato legale. Il secondo fattore del contesto odierno criminale è l’apporto fornito da nuove figure del crimine organizzato che possono essere accomunate alla figura del libero professionista. Gli esempi sono quelli del broker, dell’ex appartenente a servizi segreti dell’Est o del narcotrafficante galiziano, che mettono a disposizione le proprie abilità specializzate d’alto livello a organizzazioni più strutturate. Queste possono ora esternalizzare alcune competenze, non dovendole sviluppare da zero al proprio interno e facilitando in questa maniera l’attività delittuosa. per riciclaggio, latitanza e commercio di droga. Il più importante arresto fu quello di Santo Maesano nel 2002 a Palma de Majorca. Capo della ’ndrina Maesano-Paviglianiti, gestiva carichi di droga e traffico d’armi attraverso la copertura di un ricco impresario italiano stabilitosi in Spagna. L’emigrazione avvenne verso la fine degli anni Novanta a Madrid, dove stabilì il suo quartier generale. Il legame tra i membri dell’organizzazione di ’ndrangheta, il cosiddetto “vincolo di sangue” o legame familiare, e la concezione del territorio sono diversi rispetto a quelli camorristi. L’assenza del capo non portò dunque a guerre intestine. Pur essendo a centinaia di chilometri, e anche in seguito al suo arresto (evidenziando la mancanza di misure adeguate nel regime carcerario), Maesano continuò a esercitare il suo ruolo di comando fino alla data di estradizione in Italia, avvenuta nel gennaio del 2004. Nel 2011 è stata arrestata a Barcellona una presunta esponente del clan Lo Giudice, in un’operazione congiunta svolta tra Italia e Spagna dalla squadra mobile di Reggio Calabria, avvenuta grazie al mandato di cattura europeo. Gli esponenti della ’ndrangheta appaiono in quasi tutta la costa mediterranea della Spagna, come i Piromalli Molé situati in Cataluña, e nella capitale Madrid, i Marando e Sergi di Platì. I casi Pannunzi e Magnoli. La figura del broker merita un trattamento distinto dato che molto spesso non fa parte di un’organizzazione specifica e attraverso il proprio lavoro riesce a coordinare diverse componenti di appartenenza multipla. I suoi compiti sono quelli di far incontrare domanda e offerta, organizzare il trasporto, trovare e ripartire le quote tra gli azionisti di una determinata spedizione di cocaina. La reputazione e l’affidabilità di un broker sono la chiave per le trattative tra produttori, molto spesso narcos colombiani, e organizzazioni compratrici. È lui il garante dei pagamenti e la sua credibilità presso i produttori gli consente, in alcuni casi, di non pagare la merce in anticipo, ma solamente dopo l’avvenuta consegna. Figura esemplare in questo campo è Roberto Pannunzi, oggi latitante, evaso nel 2010 dagli arresti ospedalieri. Un ritratto della sua persona è dato dalla dichiarazione rilasciata dal procuratore Gratteri: «Pannunzi è legato alla cosca Macrì di Siderno, ma in realtà era un broker al di sopra dei locali di ’ndrangheta. Non era affiliato a una famiglia, ma lavorava per più famiglie. Era uno dei grossi broker che la ’ndrangheta ha in Colombia e in Sud America e comprava partite di cocaina per più famiglie. Era su un livello superiore e aveva rapporti con la mafia, con i capi mandamento siciliani. A Palermo era di casa. Gode di numerosissimi appoggi. Uomini come Pannunzi sono cittadini del mondo, gente che gira anche due o tre Stati nella stessa giornata. Fa parte di quella schiera di persone dove i soldi non si contano, si pesano». Il broker riuscì ad evadere due volte. La prima nel 1999, in seguito all’arresto avvenuto a Medellín nel 1994 e nel quale aveva offerto un milione di dollari agli agenti per far finta di non averlo visto. La seconda nel 2010, in seguito all’arresto in Spagna avvenuto nel 2004 in compagnia del figlio Alessandro, entrato anche lui nel giro. In entrambi i casi utilizzo il medesimo procedimento; dopo essersi fatto ricoverare in ospedale per motivi di salute si dileguò senza lasciare traccia. I Pannunzi utilizzarono la Spagna come base operativa per i loro traffici. Un secondo broker arrestato in territorio spagnolo è Ippolito Magnoli, residente in un paesino ubicato nelle vicinanze di Barcellona fino alla cattura avvenuta nel 2008. Questi faceva parte della cosca PiromalliMolé e curava i contatti con i narcos colombiani. Seppur non paragonabile ai Pannunzi, per volume d’affari, è prova dell’importanza rivestita dalla Spagna quale mercato delle droghe. Bande straniere e hashish. Grandi quantità di hashish sono introdotte sfruttando la vicinanza con il Marocco, principale produttore. I mezzi utilizzati nel traffico prevedono l’impiego di pescherecci, navi porta-container, gommoni e camion commerciali. Data la facilità d’approvvigionamento, il mercato è molto frammentato, con bande composte da marocchini, britannici, portoghesi e, in minor numero, da olandesi e gibilterriani. I principali punti di partenza per questo traffico sono le enclave spagnole di Ceuta e Melilla che, a causa della loro posizione chiave in territorio marocchino, sono ideali per passare i controlli alla frontiera. Il mercato dell’hashish non porta alla formazione di grandi strutture criminali in quanto non offre elevati margini di guadagno quali quello della cocaina e dell’eroina. Dall’Est Europa, l’eroina. Sostanzialmente di provenienza afghana, l’eroina era un tempo distribuita da bande gitane provenienti dall’Europa orientale. Negli ultimi anni le organizzazioni che vi si dedicano risultano composte da individui romeni, albanesi e kosovari, spesso integrate da individui di nazionalità spagnola e da storici trafficanti colombiani e olandesi. È da sottolineare come la Colombia, da alcuni anni, concorra nella produzione di eroina, seppur con quantitativi modesti. La maggior parte della sostanza viene introdotta nel Paese attraverso una rotta che, passando dalla Turchia, attraversa via terra tutta l’Europa. Spagna 55 | dicembre 2012 | narcomafie altarisoluzione 56 | dicembre 2012 | narcomafie Nella terra dei fuochi Un tempo Acerra era nota per la fervida attività agricola e per la bontà dei prodotti coltivati nei terreni della zona. Da qualche decennio, però, le cose sono cambiate e ad Acerra è stato inflitto un triste e drammatico appellativo: con Nola e Marigliano costituisce il “Triangolo della morte”. Viene indicata così la vasta area della provincia di Napoli nord nella quale è stato riscontrato un forte aumento della mortalità per cancro, che per alcune patologie raggiunge livelli molto più alti della media italiana. La causa dell’aumento di mortalità è attribuita all’inquinamento ambientale, principalmente dovuto allo smaltimento illegale di rifiuti tossici da parte della Camorra. I roghi nella Terra dei Fuochi sono un problema che va avanti da anni e rappresenta uno degli aspetti più drammatici del disastro rifiuti in Campania. In provincia di Napoli, ma Foto e testo di Luciana Passaro e Mauro Pagnano 57 | dicembre 2012 | narcomafie 58 | dicembre 2012 | narcomafie anche a Caserta e dintorni, le terre appartengono a “Gomorra”. Qui la camorra non esita ad appiccare fuochi anche nel centro delle città. Lo scempio ambientale è ogni giorno più evidente, e diventa molto più triste se a fare da cornice ai cassonetti bruciati e alla spazzatura sversata in modo irregolare sono proprio i numerosi necrologi che testimoniano la drammatica situazione del rischio tumori per la salute degli abitanti di questi territori. I numeri elaborati dall’Istituto nazionale per lo studio e la cura dei tumori “G.Pascale” di Napoli dicono anche che in questa zona la frequenza del cancro al polmone è del 30% più elevata rispetto alla media nazionale e che il tasso di mortalità femminile per questa patologia è il più alto nel nostro paese, con un aumento del 100% in soli 20 anni (1988-2008), a fronte di una diminuzione di circa il 50% sull’intero territorio nazionale. altarisoluzione 59 | dicembre 2012 | narcomafie rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 60 | dicembre 2012 | narcomafie Droga, corrieri per disperazione Lima Sempre più persone colpite dalla crisi vengono recluta reclutate come corrieri dai trafficanti di cocaina peruviani in cambio di qualche migliaio di euro. Per molti di loro, però, il viaggio si conclude nelle carceri del paese. È presso l’aeroporto di Lima, dove in media sono se sequestrati otto chili di cocaina al giorno, che gli agenti della Dirandro (Direzione antidroga della polizia nazionale del Perù) individuano i corrieri: «Greci, romeni, bulgari, fran francesi e ovviamente spagnoli, i più numerosi. Quest’anno il loro numero ha superato quello dei peruviani. Ci dicono tutti la stessa cosa: è la crisi economica che li spinge a fare questo», os osserva il comandante Anderson Reyes, capo del dipartimento Reyes antidroga dell’aeroporto. Il fenomeno ha assunto un carattere di massa: nelle prigioni peruviane ci sono 695 europei, di cui il 90% per trasporto di droga. Nel 2011 questo paese è diventato il principale esportatore di cocaina verso l’Europa. I corrieri che riescono a passare attraverso le maglie della rete guadagnano fino a diecimila euro. Per gli altri il viaggio finisce spesso nella prigione di Callao, a due passi dall’aeroporto. Una prigione dalla reputazione terribile, come il quartiere che la circonda. Timoteo, ex buttafuori di discoteca a Barcellona, dice: «Lavoravo ormai solo il fine settimana, ti cercano e finiscono per convincerti». Il seguito è Jérémy a raccontarlo, giovane parigino, reclutato da uno dei suoi clienti: «Mi aveva riservato una camera a Miraflores, il quartiere più bello di Lima. Mi è stato semplicemente chiesto di fare il turista. Il giorno X al check-in mi hanno fatto passare dietro il bancone. Un poliziotto ha conficcato un coltello nella mia valigia e ha introdotto un cotton fioc nel buco. Mi ha detto: “Se esce blu vuol dire che la tua valigia è fatta di cocaina”. E ovviamente è uscito blu». Jérémy sa perché è stato reclutato: «Non sono un delinquente, non mi drogo, ho una faccia da europeo che passa bene ai controlli e avevo bisogno di soldi». Hsbc, sanzione record Londra La banca inglese Hsbc ha annunciato che pagerà un’ammenda di 1,92 miliardi di dollari (1,48 miliardi di euro) per chiudere la procedura aperta dalle autorità americane sul riciclaggio di denaro legato ai cartelli della cocaiana sudamericani e al terrorismo di matrice islamica. Si tratta della più alta sanzione mai pagata da una banca. La banca, accusata di complicità nell’attività di riciclaggio, ha posto così fine a una serie di indagini da parte del Tesoro americano, del Dipartimento di giustizia, delle agenzie federali e del procuratore generale di Manhattan. «Hsbc – si legge nella nota del gruppo – ha raggiunto un accordo con le autorità ame- ricane nel quadro delle indagini sulle violazioni delle norme in materia di sanzioni e lotta contro il riciclaggio di denaro». Stuart Gulliver, direttore generale di Hsbc, ha dichiarato in un comunicato ufficiale: «Ci assumiamo le responsabilità dei nostri errori passati. Abbiamo espresso la nostro profondo dispiacere già una volta e ribadiamo le nostre scuse. Oggi Hsbc è un’entità totalemente differente da quella che aveva commesso certi errori». L’estate scorsa, infatti, l’istituto aveva presentato pubblicamente le proprie scuse davanti alla commissione di inchiesta del senato Usa per non aver vigivigi lato su possibili operazioni di riciclaggio di denaro. Il rapporto del senato sottolisottoli neava “gravi carenze” nel sistesiste ma antiriciclaggio del network Hsbc. La filiale americana in sei anni aveva concluso circa 16 miliardi di dollari di transazioni segrete con l’Iran. E tra il 2007 e il 2008, quella messicana aveva trasferito circa 7 miliardi di dollari, denaro probabilmente appartenente ai cartelli della droga messicani. Le scorse settimane, Standard Chartered,, altra banca britanbritan nica, ha accettato di sborsasborsa re 327 milioni di dollari per mettere fine a un’inchiesta della giustizia americana su sospette infrazioni, in partiparti colare violazioni di sanzioni internazionali. Nel giugno passato Ing Bank aveva pagato un’ammenda di 619 milioni di dollari – era la più alta mai registrata prima che venisse comminata quella di Hsbc – per mettere termine alla accuse di Washington secondo cui erano statae violate le sanzioni inposte su Cuba e Iran. 61 | dicembre 2012 | narcomafie Nessun obbligo sull’uso dei beni confiscati al narcotraffico Zurigo I fondi confiscati al narcotraffico non dovranno essere utilizzati in favore del reinse- rimento dei tossicodipendenti. È questa la conclusione cui è giunto lo scorso dicembre il Consiglio federale elvetico in un rapporto sul tema. Secondo il governo questo tipo di utilizzo non è attuabile soprattutto per ragioni federalistiche: significherebbe, infatti, imporre ai Cantoni le modalità con cui impiegare i valori patrimoniali confiscati. Secondariamente, una regolamentazione simile toglierebbe sia ai Cantoni sia alla Confederazione la possibilità di utilizzare il denaro secondo le priorità. L’esecutivo è inoltre convinto che l’attuale finanziamento del settore dell’aiuto in caso di dipendenza adempie al proprio scopo. Nel rapporto viene sottolineato che la qualità dell’assistenza è assicurata. Anche i Cantoni stimano come esigua la necessità di intervento. Gli eventuali problemi esistenti possono essere risolti proprio a livello cantonale. Internet point, come ripulire il denaro Madrid Riciclare denaro per conto dei cartelli colombiani in maniera apparentemente sicura. È quanto credevano i membri della rete smantellata dalla Polizia lo scorso dicembre. Una cinquantina di persone, arrestate tra Madrid, Barcellona e Albacete, dietro il paravento di una serie di locutorios (internet point) in pochi mesi ha riciclato più di 30 milioni di euro per conto dei narcotrafficanti colombiani. Per inviare i guadagni ottenuti dalla vendita della droga, l’organizzazione si serviva di 12 locutorios in grado di riciclare una media di 50mila euro al giorno. Nell’operazione le forze dell’ordine hanno sequestrato mezzo milione di euro. Il capo della rete nascondeva in casa 300mila euro in contanti, due chilogrammi di cocaina e una pistola. L’indagine ha avuto inizio dopo l’“operación Espejo” dell’ottobre 2010, che aveva portato all’arresto di 41 persone legate al riciclaggio di oltre 200 milioni di euro provenienti in particolare dal cartello di Cali. Rifiuti tossici rispediti al mittente Lagos Televisori, computer fuori uso e frigoriferi rotti in container provenienti dall’Inghilterra e sequestrati dalla dogana nigeriana in un porto di Lagos: è solo uno degli ultimi tentativi di scaricare in Nigeria rifiuti elettronici potenzialmente tossici. Secondo il quotidiano nazionale, i rifiuti erano arrivati a bordo della Marivia Monrovia. La direttrice dell’Agenzia nazionale per la tutela delle norme e degli standard ambientali, Ngeri Benebo, ha spiegato che il carico era trasportato in violazione della legge nigeriana e, per questo, sarà rispedito in Inghilterra. «Respingeremo – ha aggiunto Benebo – i tentativi di trasformare la Nigeria in una discarica». Il caso è solo uno della lunga serie in un paese divenuto una delle destinazioni privilegiate per lo smaltimento di rifiuti pericolosi provenienti dall’Europa e dal nord America. Il precedente più grave risale al 1987, quando una società italiana fu accusata di aver scaricato 3.500 tonnellate di sostanze tossiche presso la cittadina di Koko, nella regione sud-orientale del Delta del Niger. 62 | dicembre 2012 | narcomafie Frodi Ue, sempre peggio Bruxelles Ogni anno miliardi di euro destinati allo sviluppo dell’Ue vengono intascati o sprecati da governi e aziende. Nonostante le denunce, trovare e punire i responsabili è ancora troppo complicato. In Polonia un gruppetto di multinazionali ha speso circa sette milioni di euro provenienti dai Fondi sociali europei (Fse) per offrire corsi di formazione ai propri dipendenti. Questi fondi in verità erano destinati alle piccole e medie imprese, non per chi è già occupato e di certo non per i manager. In primo luogo, questi finanziamenti sono stati studiati per aiutare chi ha una formazione inadeguata ed è da tempo disoccupato. Il quotidiano olandese «Trouw»ha rivelato l’uso improprio dei fondi europei tempo fa, chiamando le multinazionali con il loro nome: Ing, Unilever, Philips e Bgz, la consociata polacca di Rabobank. Il livello di uso improprio dei fondi è talora sconcertante. L’articolo riporta una dichiarazione di Grzegorz Gorzelak del Centro per gli studi europei regionali e locali di Varsavia, secondo il quale «sembra che tutti cerchino di intascare soldi facilmente. Organizziamo corsi di formazione del tutto inutili. Spendiamo per album, biglietti da visita, copertine di cd, tazze, giocattoli e schede di memoria». Le voci sull’uso improprio dei fondi europei non sono nuove. Due anni fa il «Financial Ti- mes», in collaborazione con il Dipartimento per il giornalismo investigativo, ha presentato i risultati di una minuziosa inchiesta che ha scoperto che i programmi europei per lo sviluppo delle regioni europee bisognose «sono paralizzati dal peso della burocrazia». Del resto, anche quando vengono individuati truffe e usi impropri di rado sono perseguiti. Bart Staes, europarlamentare dei verdi e membro della Commissione per il controllo del budget spiega: «L’uso improprio non riguarda soltanto i soldi provenienti dai tre Fondi strutturali europei più importanti – che avrebbero dovuto essere destinati all’occupazione per lo sviluppo regionale e la coesione sociale –. Anche i sussidi all’agricoltura molto spesso non sono utilizzati per i fini per i quali sono stati messi a punto». L’anno scorso la Corte dei conti europea ha smascherato l’esistenza di vaste estensioni di «terreni destinati permanentemente a pascolo» in Italia e in Spagna che avevano ottenuto sussidi, ma in realtà erano aree boschive o siti di «altri elementi non aventi i requisiti per ottenere i sussidi». Gli stati membri sono responsabili della gestione di questi fondi e del loro uso a integrazione dei loro stessi investimenti. Da questo punto di vista godono di un grado considerevole di autonomia, e la Commissione europea ne è ben consapevole. Staes aggiunge che «nel corso degli anni le amministrazioni nazionali e regionali poco alla volta hanno iniziato a considerare i fondi come fondi propri invece che soldi europei. Di conseguenza la vigilanza è inadeguata. La Corte dei conti europea ha calcolato che nel 70 per cento dei casi di uso improprio scoperti nei controlli, gli stati membri avrebbero dovuto essere consapevoli che i soldi non erano utilizzati nel modo previsto». Nel frattempo, la Commissione di controllo del budget del Parlamento europeo ha proposto che i ministri delle finanze degli stati membri siano tenuti a rispondere del loro operato. Fino a questo momento soltanto quattro stati membri hanno appoggiato la proposta: Svezia, Danimarca, Regno Unito e Paesi Bassi. Secondo Staes, «non è un caso che proprio questi siano i membri più euroscettici dell’Ue». Messico, legge per le vittime del narcotraffico Città del Messico Il nuovo governo messicano ha promosso nelle scorse settimane la controversa legge con cui le autorià locali intendono assicurare assistenza alle decine di migliaia di famiglie rimaste vittime delle violenze legate al narcotraffico negli ultimi sei anni. Il presidente Enrique Pena Nieto ha spiegato che la Legge generale delle vittime intende “obbligare” le autorità ad assistere le vittime delle violenze, stabilendo tra l’altro un fondo per possibili risarcimenti. «Oggi il Messico è un paese ferito dal crimine. Con questa legge, lo stato messicano intende ridare speranza e conforto alle vittime. La legge rappresenta solo l’inizio di un sistema di protezione più generale», ha commentato Pena Nieto. Negli ultimi 6 anni sono circa 60mila i morti e 25mila gli scomparsi per la guerra dei narcos. 63 | dicembre 2012 | narcomafie Intervista di Carlo Ruta In fuga da Istanbul, lungo le vie dell’eroina e dei racket che portano in Europa La lunga marcia, dal Bosforo al Vecchio continente, di un rifugiato politico in Italia. Le piste del narcotraffico. I trattamenti dei servizi segreti dell’Est. La tratta di esseri umani. Le disillusioni della «terra promessa» È una storia emblematica quella di Gabriel M. di Istanbul, 37 anni, sposato e residente in Italia, dove dopo il 2000 ha ottenuto dallo Stato il riconoscimento di rifugiato politico. Condannato perché simpatizzante di una organizzazione di estrema sinistra, il Dhkp-C, da cui si è dissociato con molta convinzione, Gabriel si è dato alla fuga nel 1997, quando aveva 22 anni. Per sopravvivere, ha dovuto imparare numerosi mestieri, talvolta difficili e, come vedremo, qualcuno ad altissimo rischio. Parla quattro lingue e ha una buona conoscenza della geopolitica, soprattutto quella asiatica e mediterranea, anche per averla conosciuta e subita di persona, passo dopo passo. Egli ha percorso, seppure in parte minima, quella che nel Medioevo era stata chiamata la Via della Seta e che oggi è diventata, tra l’altro, la via dell’eroina e dei mercanti di schiavi. Lungo queste piste Gabriel, intrecciando la sua storia con quella di tantissimi altri in fuga come lui, ha subito la segregazione, nelle carceri e nei campi per immigrati; ha dormito all’addiaccio, nelle stazioni e in case diroccate; ha attraversato foreste, anche a piedi. Ha dovuto lavorare per funzionari dei servizi segreti bulgari, dell’ex Kgb. Ha conosciuto, per forza di cose, trafficanti di ogni specie. Dopo questa esperienza, durata 15 mesi, ha dovuto reimpostare la propria vita, con molte difficoltà. Da allora non ha potuto più ritornare nel suo paese, neppure quando è morto il padre, dieci mesi fa. In questi anni ha riflettuto sul suo passato, dalle scelte politiche intraprese da ragazzo al mito dell’Occidente ricco e in grado di garantire un futuro. Adesso, disilluso, pensa a un ritorno. Gabriel, nel 1997, quando era già avvenuta l’unione doganale tra Turchia e paesi della Comunità europea, hai deciso di fuggire dalla tua città. Perché? Cosa ti convinto a intraprendere un percorso tanto radicale? Da tempo ero ricercato perché avevo rapporti con il Dhkp-C. E quell’anno è avvenuto il peggio. Sono stato trovato in casa dai poliziotti, condotto in un luogo segreto, pestato a sangue e torturato. Mi chiedevano dove nascondessi le armi con cui era stato ucciso il sindaco di una cittadina curda. In realtà non sapevo nulla e loro agivano a caso. Era un bluff. Mi hanno fracassato la testa con il calcio dei fucili, lasciandomi una ferita di quasi dieci centimetri. Ho perso i sensi. Convinti di avermi ucciso, mi hanno abbandonato in un parco per bambini, dove in poco tempo ho ripreso conoscenza. Nei giorni successivi, dopo che mi ero ristabilito, mi sentivo in pericolo, avvertivo che mi cercavano per completare il lavoro. Ho cominciato allora ad organizzarmi per fuggire dalla Turchia. Mi sembrava la scelta più opportuna, anche perché numerose persone che conoscevo in quel periodo erano state assassinate. «I poliziotti mi hanno torturato. Mi chiedevano dove nascondessi le armi con cui era stato ucciso il sindaco di una cittadina curda. Non sapevo nulla. Era un bluff. Mi hanno fracassato la testa con il calcio dei fucili. Erano convinti di avermi ucciso» Come hai attuato il tuo proposito? Sono andato alla ricerca di un passaporto falso e l’ho ottenuto in poco tempo sotto il nome di Ibrahim Cetkin. Per uscire da Istanbul, dopo alcuni mesi di clandestinità sono riuscito a imbarcarmi, con questo nome, come mozzo in una nave che faceva la spola tra Istanbul, Russia e Ucraina. Foto di James Gordon 64 | dicembre 2012 | narcomafie Ho dovuto rivolgermi a una rete criminale, legata alla mafia turca, che organizzava traffici di persone verso la Bulgaria. Ho attraversato il confine nascosto su un furgone Ma era solo un ripiego, per evitare la cattura. Il mio intento era di rifugiarmi nell’Europa occidentale, entrando dalla Bulgaria, come facevano in tanti. Ma come muovermi? Ho dovuto rivolgermi a una rete criminale legata alla mafia turca che organizzava traffici di persone verso la Bulgaria utilizzando furgoni carichi di vestiario. Ho attraversato il confine nascosto su un Ford Transit colmo di giacche di pelle. Ho rischiato di rima rimanere schiacciato. Così, con 700 dollari in tasca, mi sono trovato in Bulgaria. Era il 20 ottobre 1999. Come ti sei mosso dopo l’ar l’arrivo in Bulgaria? Da Plovdiv, dove sono sce sceso dal Ford Transit, mi sono recato in treno a Sofia, dove ho preso contatto con le auto autorità per richiedere l’asilo. Mi hanno sistemato in un buon hotel, mi hanno garantito un avvocato; tutto questo mi face faceva sentire al sicuro. Ho preso contatto con un mio compa compagno di 19 anni, Mahir Goktas, anche egli di Istanbul, perse perseguitato perché simpatizzante del Dhkp-C. Era stato arrestato perché aveva scritto su un muro “No alla guerra”. Per questo intorno al 1995 aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo, aveva ottenuto una sentenza favorevole, che obbligava lo Stato turco a concedergli un risarcimento di 20mila euro. Questo ragazzo, di cui ho un bellissimo ricordo, nel 2006, quando aveva 26 anni, è stato ucciso e buttato in mare, probabilmente con il nulla osta dei servizi segreti bulgari. Perché i servizi segreti bulgari hanno agito in questo modo? Qual era il loro atteggiamento con i reclusi tuoi riguardi come hanno agito? Nel caso del mio amico non saprei, forse Mahir era entrato in qualche giro compromettente. Il sistema usato nei riguardi dei reclusi era comunque quello del bastone e della carota. Ho ottenuto l’asilo con il nome di Ibraim Cektin. Ho evitato di dare il mio vero nome perché in Bulgaria i servizi segreti sono capaci di tutto. Da alcuni afghani e persiani avevo saputo che essi avevano venduto un rifugiato dell’Iran al Savama, il servizio segreto iraniano. Ho scoperto inoltre che operavano come una mafia coperta. Lasciavano passare eroina, si accordavano con i trafficanti che erano disposti a pagare un pizzo. Ho scoperto che passavano dalla frontiera turca enormi quantitativi di droga. Nel periodo in cui ero lì i turchi transitavano solo se pagavano e il denaro contante veniva nascosto in sacchi di zucchero. Nei tuoi riguardi come hanno agito? Dicevi che hai ricevuto un trattamento particolare… Io ho avuto a che fare con un certo Arabaciyev. Era un uomo poco più che cinquantenne, aveva studiato a Mosca e, da quel che capii, aveva avuto un ruolo non secondario nel Kgb. Si trattava formalmente di un alto funzionario di polizia che si occupava dei rifugiati politici. Nel primo incontro era solo, nel secondo c’erano anche altri due funzionari, forse di grado superiore. Si sono presentati con i nome di Ivan e di Gioro, ma ritengo che si trattasse di nomi falsi. Mi hanno fatto capire che anche loro facevano parte dei servizi segreti bulgari. Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male e che ravvisavano in me una persona perbene, lontana dai traffici di droga. Mi hanno “chiesto” quindi se intendessi collaborare con loro. Si trattava di una proposta di tipo ricattatorio. Se avessi rifiutato, avrei pagato chissà quale prezzo. Ho deciso quindi di accettare. In che cosa consisteva questa collaborazione? Premetto che eravamo ospitati in un edificio enorme, di setteotto piani, situato in un luogo completamente deserto, in via Montevideo. Dietro questo edificio c’era un grandissimo dormitorio dove erano stipate due-tre mila persone, afghane, persiane, macedoni, curde. Il loro problema maggiore era costituito proprio dai rifugiati curdi. Tra questi si nascondevano, infatti, gli «esattori» del Pkk, che esigevano il pizzo da tutti: curdi, turchi, afghani e di altri paesi. Erano del resto i curdi a gestire il traffico di esseri umani per la Grecia, attraverso Komotina, in Tessalonica. Questa situazione per i servizi segreti bulgari non andava bene, pure per ragioni di concorrenza, perché anche loro erano parte in causa nel traffico di esseri umani e dell’eroina. Va tenuto presente che il governo bulgaro di allora, socialdemocratico e legato al passato regime comunista, si diceva favorevole alla causa curda, e non poteva rispedire 65 | dicembre 2012 | narcomafie i curdi nel loro paese, dove sarebbero stati perseguitati. L’obiettivo era allora quello di controllare la situazione estirpando dalla massa dei rifugiati i collettori del Pkk. E la loro tecnica era quella dell’infiltrazione. Introducevano due-tre persone all’interno dei cameroni curdi, facendoli passare come simpatizzanti, e in questo modo erano in grado di monitorare e di contrastare il racket. Questi funzionari, in cambio della mia collaborazione, mi hanno assicurato l’asilo politico, una carta d’identità bulgara e un lavoro. Come vivevi il ruolo che queste persone ti hanno assegnato? In fondo denunciavo malfattori, trafficanti di uomini, ma ti confesso che ero attanagliato da un forte senso di colpa. Non era la mia causa. Tutto questo non rientrava nei miei principi. Ho sofferto molto in quei mesi. Ho fatto questo lavoro di infiltrato tra marzo e giugno 2000. Ho conosciuto cose terribili. Naturalmente ho rischiato tantissimo perché se mi avessero scoperto mi avrebbero ucciso. Come funzionava il racket del PKK, che tu allora avevi il compito di denunciare? Si trattava di un vero e proprio potere ramificato a Sofia e nelle aree geografiche abitate della minoranza turca, che equivale a circa il 10% della popolazione complessiva. Ho scoperto che gli uomini del Pkk erano in grado di imporre alle fabbriche il pagamento fino al 20% dei guadagni. Le autorità bulgare ne erano profondamente infastidite. Nello specifico dei rifugiati era stato messo in opera un meccanismo molto ben congegnato. Esistevano circa 50 emissari del partito curdo: ognuno aveva il compito di taglieggiare e controllare un gruppo di duecento persone. Questi funzionari avevano un potere di soggiogamento enorme, incutevano timore; non si trattava di un fatto locale, ma di una regola che vigeva in tutta Europa. In che senso? Questi individui avevano mansioni speciali perché erano stati feriti nelle montagne del Kurdistan. Quando i combattenti vengono feriti, non vengono congedati ma inviati «in vacanza» in Europa, per svolgere altri lavori. Diventano allora «esattori» di pizzo, anche nei riguardi dei trafficanti di eroina, o veri e propri killer. Tutto questo ho potuto constatarlo, pure di persona. Il Pkk non è, quindi, il partito che intende liberare i curdi dalla lunga oppressione turca, ma una organizzazione antidemocratica, di stampo terroristico e con forti venature mafiose. Solo per questo riuscivo a vincere il rimorso e a svolgere con zelo il compito d’informazione che mi era stato assegnato. Puoi affermare che qualche operazione di polizia ha preso spunto dal tuo lavoro informativo? Grazie alle mie informazioni sono stati disarticolati alcuni traffici di esseri umani e 66 | dicembre 2012 | narcomafie di eroina che avevano il loro punto di snodo a Varna, la maggiore città portuale del paese. I miei committenti volevano informazioni su un boss che faceva la spola tra questa città e Sofia. Ho fornito loro notizie e alla fine sono riusciti a espellerlo con il foglio di via per l’Europa. Perché tutto si è concluso in appena quattro mesi? Era il senso di colpa che covava per un lavoro che non ti apparteneva? Questo c’era, ovviamente, ma c’era anche altro. I servizi bulgari erano in procinto di trovarmi un lavoro, ma non mi sentivo al sicuro, non solo a livello economico. Per loro ero una pedina, uno strumento. Alla prima occasione sarei potuto diventare merce di scambio, come era accaduto ad altri. Mi hanno mandato in un quartiere bene di Sofia, in montagna, Pancharevo, dove avevo vitto e alloggio gratuito. Ero ospitato da un giovane turco, Ugur, che curiosamente si diceva anarchico, proveniente da una famiglia ricchissima, fuggito anche lui, e ritornato in Turchia nel 2004. Ho passato quattro mesi lì; ho capito che non intendevano mollarmi. Ho fatto amicizia, senza che Arabaciyev e gli altri sapessero nulla, con un altro ex funzionario del Kgb, tale Alexander Rashev, che fabbricava documenti falsi in cambio di denaro. Mi ha chiesto mille dollari in cambio di un passaporto che mi avrebbe consentito di entrare nell’Unione Europea. Ho sborsato questo denaro, e dopo un mese ho avuto il nuovo passaporto, con un nome bulgaro di etnia turca, e alla fine ce l’ho fatta. Cosa è successo dopo? Sono arrivato a Budapest in Ungheria. Ho raggiunto poi Bratislava, in Slovacchia. Era il 22 settembre 2000. Qui ho preso il treno per Vienna, con un gruppo di rom, ma a Graz si è scoperto che il passaporto era falso e mi sono ritrovato in cella. Sono stato trattenuto due giorni. La cella era piccola, di appena quattro metri, ma ben riscaldata e molto igienica. Rispetto alle prigioni turche era una favola. Sono stato trattato con rispetto. Ho richiesto l’asilo politico, ma poiché sono stato fermato entro i 25 chilometri dalla frontiera, per effetto della legge Frontex, sono stato rispedito in Ungheria. Il 25 settembre mi sono ritrovato quindi in un carcere per stranieri, tipo Cpt, a Gyor. La situazione che ho trovato è indescrivibile. Questo carcere era in mano a una specie di «legione straniera» di militari dal passato turbolento, per rissa, droga, alcolismo e altro. Si trattava di gente molto pericolosa e i prigionieri non erano da meno. Nel mio capannone c’erano individui che avevano alle spalle omicidi, di cui pure si vantavano. Mi è stato detto che sarei rimasto lì per un anno e mezzo. Ma al quarantacinquesimo giorno io e un pugno di ragazzi con cui avevo fraternizzato abbiamo deciso di tentare fuga. Abbiamo convinto alcuni compagni a simulare una rissa. L’attenzione delle guardie si è spostata verso di loro, e noi saltando due recinti alti ognuno quattro metri, ce l’abbiamo fatta. La legge in casi simili consente di sparare, ma quella volta per fortuna non è accaduto. Eri ormai sulla strada da mesi. Avevi vissuto esperienze terribili. Come riuscivi a sostenerti? Da dove traevate, tu e i tuoi compagni, la forza per continuare? Ci sosteneva la speranza. In Turchia si dice: «La speranza è il pane dei poveri». Io e Sultan, un ragazzo iracheno, abbiamo fatto a piedi decine di chilometri, abbiamo attraversato diversi fiumi, foreste pullulanti di cervi e cinghiali. Era tremendo trovarsi in quei posti, ma era anche bellissimo. La Slovenia e l’Austria sono piene di vigne, da cui vengono prodotti vini pregiati. I guai comunque non sono finiti. Ci siamo trovati in una cittadella slovena, Lendava, e lì siamo stati fermati da un’auto della polizia. Abbiamo detto loro di essere diretti in Germania. Ci hanno portati con loro e sistemati in una cella, estrema- 67 | dicembre 2012 | narcomafie mente pulita, con il pavimento scaldato. Era occupata da un kosovaro. Ci hanno rifocillati con formaggio e scatolette di carne. La Slovenia allora premeva per entrare nell’Unione Europea e prestava molta attenzione alle regole. Era l’8 dicembre quando siamo entrati nel campo di rifugiati di Lubiana, un enorme edificio di sei piani, sovraffollato, dove c’era un gran numero di afghani, somali, sudanesi, alcuni iracheni. Quando siamo arrivati c’era una troupe della televisione locale, perché era in atto una protesta dei prigionieri. Ai poliziotti che ci hanno interrogati io e Sultan abbiamo detto, mentendo, che venivamo dalla Turchia ed eravamo diretti in Germania. Ci hanno creduti. Eravate già a un passo dall’Europa che sognavate. Notavate delle differenze? C’era forse una maggiore organizzazione. La tratta degli esseri umani era più spedita. Nel campo eravamo tutti divisi per nazione. La gestione delle nazionalità era organizzata d’intesa con i poliziotti sloveni, da trafficanti, che apparivano comunque meno cinici e spietati di quelli che avevamo conosciuto altrove, in grado di ucciderti senza pietà. Essi seguivano un copione perfetto. Organizzavano il viaggio in pullman per destinare i migranti nei paesi dell’Unione Europea; il punto di snodo era Nova Gorica. Pagata la somma pattuita siamo arrivati quindi in questa città, dove c’era un gran viavai di gente dovuta alla presenza del casinò, frequentato da molti italiani. Qual è stato il primo impatto con l’Italia? Tutto sommato l’impatto è stato positivo. Vado per ordine. A Nova Gorica sono stato intercettato da un trafficante tunisino, Hassan, che aveva bisogno di un traduttore per comunicare con iraniani, che conoscono il turco. Mi sono ritrovato quindi in un garage dove erano stipate diverse decine di persone, cui il tunisino intendeva imporre un supplemento di denaro. Questo trafficante mi ha ripagato, offrendoci i biglietti del treno per Venezia, dove sono arrivato il 13 dicembre 2000. Ho deciso allora di richiedere l’asilo politico. Sono andato dai carabinieri che mi hanno trattato con una umanità che mi ha sorpreso. Volevano farmi arrivare del cibo, ma ho detto di no. Mi sono ritrovato poi, di mattina, alla questura di Marghera. C’era un grande affollamento. Sembrava fosse confluito lì il mondo intero. C’erano afghani, cinesi, iraniani, marocchini, curdi e gente di molti altri paesi. Un’ispettrice, gentilissima, mi ha sistemato in un albergo di Chioggia, mi ha detto che per l’asilo politico si doveva aspettare la decisione del tribunale. Cominciava in quel momento il mio percorso italiano di rifugiato. Lo status mi sarebbe stato riconosciuto tuttavia un anno e mezzo dopo. Non era una storia a lieto fine, vero Gabriel? Assolutamente no. Dell’Italia lentamente ho avuto modo di conoscere gli aspetti più problematici. Ho dovuto fare i conti con la mafia e la corruzione. In questo paese i rifugiati politici siamo 25mila, su circa quattro milioni di immigrati, ma non mi sento garantito. A dispetto delle leggi europee, a lungo sono stato senza lavoro, ho dovuto vivere anni interi alla giornata. Mi è anche capitato, in certi momenti, per fortuna passati, di dover cercare pane nei cassonetti della nettezza urbana. E tutto questo non credo sia civile. Che cosa è per te l’Europa, adesso che la conosci da dodici anni? Direi che rimane, malgrado la crisi, una “Disneyland”, in cui però non puoi sentirti appagato, dove non puoi uscire dalla parte che ti hanno assegnato. Mi sento come un “venditore di popcorn”. Tutti attorno fanno festa, tranne me. Sei condannato a lavori che ti alienano. Ancora oggi non esiste uno stato sociale, un vero welfare, per gli immigrati. Pur avendo la pelle chiara mi sento quindi un “negro”. Niente per me ha il colore della libertà. Ormai da molti anni non sogno più. Ho lavorato al Petrolchimico di Marghera e portavo a casa 920 euro al mese, mentre i miei colleghi italiani ne guadagnavano 1600, perché loro, per effetto dei contratti di lavoro nazionali, godevano delle trasferte. Casa mia è a cinquemila chilometri di distanza, e, paradossalmente, non posso godere di questi benefici. In definitiva, lavorando tanto io ho ricevuto poco, e questo è, nella sostanza, quello che accadeva agli schiavi neri dell’Ottocento, in Luisiana, nel Texas nel Mississipi, quelli che hanno creato l’economia americana del cotone, quelli che producevano i blue jeans. 69 | dicembre 2012 | narcomafie A medio termine, e a maggior ragione dopo una possibile caduta di al Assad, l’esistenza in Siria di gruppi islamisti radicali – operanti sulla falsariga delle virulente formazioni già attive in Iraq –potrebbe alimentare l’attività sinergica, armata ed incontrollata, dei jihadisti nei due paesi, e potrebbe estendere attentati e violenze al confine dei territori occupati nel Golan dagli israeliani, nonché al Libano. Anche il contenimento del Fronte nella Siria settentrionale (dove il gruppo armato è più potente) non risulta ottimale, visto che alle frontiere di nordest i ribelli della Jabhat si sono già più volte scontrati con i curdi locali. Ma soprattutto, il riconoscimento americano dell’attività in Siria di gruppi ritenuti legati ad Al Qaeda costituisce una valida giustificazione nel caso che gli Stati Uniti ed i loro alleati optino per un intervento militare nel paese mediorientale, dichiarandolo motivato dalla necessità di sottrarre a mani sbagliate le armi chimiche del regime. Navi da guerra americane, francesi ed inglesi sono pronte al largo delle coste siriane, mentre la Nato ha approvato di recente l’installazione in Turchia, al confine siriano, di batterie di missili Patriot, che dovrebbero essere presidiate da contingenti militari tedeschi, olandesi e americani. L’opzione dell’intervento militare di Stati Uniti e alleati appare una realtà sempre più concreta, e quasi inevitabile di fronte ad un’effettiva necessità di mettere in sicurezza gli arsenali del regime. criminalità e dintorni co retto dal diritto coranico. L’ideologia radicale sunnita-salafita della Jabhat – contraddistinta dall’odio verso gli alawiti, minoranza religiosa ancora ai vertici del governo e dell’esercito in Siria, nonché verso tutti gli sciiti in generale – non differisce da quella di altri gruppi jihadisti attivi nella ribellione, come ad esempio Ahrar al Sham (Brigate libere della grande Siria), con cui i combattenti di al Julani hanno stabilito da tempo una solida alleanza operativa. L’inserimento della Jabhat nella lista delle organizzazioni ritenute terroristiche dagli Stati Uniti ha suscitato le forti proteste della quasi totalità dei gruppi siriani contrari al regime di al Assad. La richiesta di riconsiderare la decisione è giunta persino da Ahmad Moaz al Khatib, leader della Coalizione nazionale siriana, il raggruppamento dell’opposizione riconosciuto – guarda caso il 12 dicembre, ossia due giorni dopo l’inserimento della Jabhat nella “lista nera” americana – come rappresentante legittimo della Siria ed interlocutore ufficiale dagli “Amici della Siria”, gruppo composto da oltre cento paesi (Stati Uniti inclusi, e Russia esclusa). Perché il dipartimento di Stato Usa ha scelto di affrontare proprio ora, in una fase critica della ribellione, i possibili effetti negativi del suo annuncio sulla Jabhat, tra cui il rischio di fare aumentare in Siria proseliti e simpatizzanti del gruppo jihadista, e di far coalizzare intorno ad esso una galassia di gruppuscoli armati ostili agli Stati Uniti? cronachesommerse Il dipartimento di Stato americano ha inserito il 10 dicembre il gruppo jihadista siriano Jabhat al Nusra (Fronte per l’aiuto al popolo del Levante) nella lista delle organizzazioni terroristiche. Nato alla fine del 2011, il gruppo armato – autore di oltre 600 attacchi a obiettivi governativi e militari siriani, condotti spesso con letali attentati dinamitardi, alcuni dei quali suicidi – sarebbe giunto a costituire con i suoi ef effettivi, nel giro di un solo anno, quasi il 10% del potenziale bellico ribelle. Radicato soprattutto nei distretti di Idlib e Aleppo (la sua forza d’attacco si è rivelata decisiva nella conquista della base militare siriana di Sheikh Souleiman, presa dai ribelli insieme a un vasto e non ben definito arsenale il 9 dicembre, ossia un giorno prima dell’inserimento della Jabhat nella “lista nera” americana), opera però su scala più ridotta anche a Damasco. Il gruppo ribelle annovera migliaia di guerriglieri, soprattutto siriani, ai quali si sono aggiunti numerosi jihadisti provenienti da paesi come Yemen, Libia, Egitto, Arabia Saudita, Asia centrale. Molti dei combattenti del Fronte, inoltre, si sono battuti in Iraq contro gli americani. Il dipartimento di Stato Usa, infatti, considera la Jabhat affiliata al cosiddetto Stato islamico dell’Iraq (Isi), branca irachena di Al Qaeda fondata nel 2006. Il misterioso leader del gruppo jihadista siriano, Abu Mohammed al Julani, ha dichiarato la sua ostilità nei confronti di Israele e Stati Uniti, nonché l’intenzione di creare in Siria uno stato islami- di Andrea Giordano Jabhat nella black list 70 | dicembre 2012 | narcomafie Le ballate del male La costruzione dell’immaginario mafioso passa anche attraverso musiche, danze, canzoni. Su queste basi la ’ndrangheta crea e diffonde il proprio mito, autorappresentandosi, per cementare il consenso popolare. Il fenomeno ha superato i confini nazionali, creando pericolose distorsioni culturali Segnali di Francesca Chirico «Restaru puri i Ros maravigghiati di lu bunker chi stavamu facendu, c’era puri a vasca idromassaggiu e tutti i conforti chi si ponnu aviri» (anche i Ros sono rimasti sorpresi dal bunker che stavamo costruendo, c’era perfino la vasca idromassaggio e tutti i confort possibili). Nella canzone “U bucu”, caricata su youtube nel gennaio 2009 e visualizzata oltre 50mila volte, una voce maschile celebra i pregi di un nascondiglio scoperto dai carabinieri, sottolinea orgogliosamente che ne hanno parlato tutti i giornali e “puri ’u tg1” e infine, con tono accorato, lamenta la “sorti ingrata” delle due persone arrestate nei pressi del bunker. Dio stesso, però, mandando un segno dal cielo, ha impedito che altri si trovassero lì. Fervida fantasia? Non proprio. La sera dell’8 dicembre 2003, in contrada San Vincenzo di Anoia, nella Piana di Gioia Tauro, i carabinieri scoprono il bunker superaccessoriato in cui si nasconde il latitante rosarnese Carmelo Bellocco, arrestando, oltre a Bellocco, anche il proprietario del terreno su cui è stato ricavato il nascondiglio. Le immagini della vasca idromassaggio trovata dentro il covo fanno il giro d’Italia. Solo per un caso è riuscito a sfuggire alla cattura il boss Gregorio Bellocco, cugino di Carmelo e capo dell’omonima cosca di Rosarno. Insomma, cronaca puntualmente tradotta in musica. E musica al servizio della diffusione dell’immaginario ’ndranghetista e della costruzione di un consenso popolare. A Rosarno cosche canterine. Quello di Rosarno è, sotto molti aspetti, un caso particolare: le due principali cosche del paese, i Pesce e i Bellocco, sono divise dagli affari ma accomunate dalla passione per la musica. Non tutta, però. In cima al gradimento ci sono i neomelodici napoletani e le canzoni in dialetto calabrese, ancora meglio se scritte di proprio pugno dai boss. A Salvatore Pesce, per esempio, la musica piaceva così tanto da decidere, agli inizi degli anni Novanta, di fondare radio Olimpia, un’emittente radiofonica ovviamente abusiva, sequestrata nell’aprile 2010. Della radio l’esponente dell’omonima famiglia di ’ndrangheta era anche uno degli speaker. Una volta finito in carcere, però, non gli era rimasto che richiedere le canzoni preferite, e non solo per distrarsi. Come confermato in aula dalla figlia Giusy Pesce, collaboratrice di giustizia e principale testimone d’accusa nel processo “All Inside” che vede alla sbarra l’intero clan, radio Olimpia aveva anche finalità pratiche. «In un’occasione è capitato che all’esito di una... una richiesta avanzata dagli avvocati nei confronti di mio padre, che si aspettava l’esito e mi ricordo che in quella occasione mio padre disse a mia madre: “Se è positivo mi mandi questa canzone, se è negativo mi mandi quest’altra”. E poi c’erano “i latitanti che chiamavano in diretta durante il programma napoletano, parlavano con lo speaker e mandavano delle canzoni con i saluti». Più creativo e “artistico” il fronte dei Bellocco. Sangue di poeta 71 | dicembre 2012 | narcomafie scorre nelle vene del capoclan Gregorio Bellocco, “lupo solitario”, catturato nel 2005 in un bunker pieno zeppo di cd, musicassette e poesie dedicate a moglie e figlia; ed è un boss cantautore il cugino Giuseppe Bellocco, arrestato nel 2007, ed autore di una produzione musicale che canta vita e “opere” dei Bellocco, come una sorta di ciclo ’ndranghetista delle chansons de geste: “Lupo solitario. Cavagliere (sic) di mille battaglie”, “16 febbraiu”, “Circondatu”, sono solo alcuni dei titoli che circolano su youtube, traducendo in chiave “epica” l’esistenza da latitanti, le fughe rocambolesche, la cattura, esaltando i valori mafiosi dell’omer dell’omertà (“siamo i figli del silenzio”) e della vendetta, del sangue e dell’“onore”, e raccogliendo migliaia di visualizzazioni in Italia e all’estero (Germania e Svizzera, in testa). L’immaginario rovesciato. La peculiarità del caso rosarnese, dov’è la stessa ’ndrangheta a costruire in musica il proprio mito, autorappresentandosi, non esaurisce, però, un fenomeno che travalica Rosarno, e la stessa ’ndrangheta. Dal Messico dei narco corridos (ballate della droga), genere folk “ispirato” e, qualche volta, commissionato dai signori dei cartelli della droga (“Contrabbando e tradimento”, “Los Sicarios”, “Il capo dei capi” alcuni dei titoli più famosi), al gangsta rap, esploso negli anni Ottanta sulla westcoast statunitense e incentrato sul mondo delle gang di strada (uno dei classici del genere s’intitola “Fuck the police”), fino all’esercito dei neomelodici napoletani in salsa di camorra, le ballate del crimine risuonano ad ogni latitudine. Diverse nei suoni e nei ritmi, ma tutte strumenti, più o meno consapevoli, di consenso popolare, le “canzoni del male” sono il veicolo di un identico immaginario rovesciato nel quale camorristi, ’ndranghetisti, narcos e gangsta campeggiano come “eroi” costretti a combattere contro la sorte e l’ingiustizia. Contro l’infamità dei traditori e contro gli sbirri. Ovunque lo stesso mix di logiche commerciali (a Napoli e in Messico il genere alimenta una vera e propria industria, tra concerti e migliaia di cd venduti), giustificazioni pseudo-culturali e richiami insidiosi alle tradizioni popolari, laddove, invece, si assiste generalmente alla “cattura della cultura folklorica da parte della cultura mafiosa” (Mariano Meligrana). Qualche volta, da una latitudine all’altra, si rincorrono emblematicamente anche gli stessi tragici destini. Come il pioniere dei narco corridos, Chalino Sanchez, anche il cantautore cosentino Fred Scott non fece una bella fine. Il primo fu ammazzato durante un concerto nel 1992, il secondo fu ucciso nel 1971. Non avevano ancora 40 anni. “Suona la mezzanotte all’aria scura ed in silenzio dormono gli uccelli, suona la mezzanotte in quella cella e mi svegliava il suono di una campana. E dio nel cielo abbia pietà di me, sono chiuso in questa cella e faccio preghiera a te”, cantava il calabrese con la sua voce potente in “Canto di un carcerato”. Stazza da gigante, polmoni enormi, quando di notte si ubriacava e cantava per i vicoli di Cosenza, l’unica era trascinarlo in carcere sul colle Triglio, dove i postumi della sbronza evaporavano al freddo della cella e la fedina penale si allungava ancora. Disturbo della quiete pubblica, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, porto e detenzione di pistola e coltello di genere vietato, Francesco Scarpelli, in arte Fred Scott, nato nel 1933, impiegato al mattatoio comunale, cantautore e attaccabrighe, il carcere aveva imparato a conoscerlo presto e negli anni lo aveva frequentato con costanza. Chitarra alla mano, cantava l’“onore” e il “rispetto” sui palchi e nelle piazze del Cosentino, con la benedizione della mala locale. Non è stata una questione d’onore a fargli incassare il proiettile che lo ammazza la notte di Pasquetta del 1971. È che ha litigato con un fruttivendolo entrato nel locale dove sta mangiando. Lo sfotte, lo minaccia, lo strattona, lo prende a schiaffi, approfittando di essere quasi il doppio dell’avversario. Poi gli promette di andarlo a trovare a casa più tardi, per continuare. Di fronte al portone, in assenza del fruttivendolo entrato per armarsi, Fred Scott, l’uomo “d’onore e di rispetto”, prende a pugni la moglie uscita per difenderlo. Lo fermerà uno sparo dritto contro l’addome. Trent’anni dopo, in Germania, il suo “Canto di un carcerato” finirà dentro il primo di una discussa trilogia di cd dedicati alla cosiddetta musica della ’ndrangheta e, grazie alle magie del marketing, Fred Scott morirà “per aver molestato la donna di un mafioso”. Non è la sola nota stonata di quell’operazione. La favola calabro-tedesca dei “Canti di malavita”. «In Calabria gli abitanti dei paesini temevano i banditi più della polizia, e li nascondevano nei villaggi, tanto più che là era buona tradizione opporsi ai desideri delle autorità. Ad un certo punto questi criminali furono chiamati ’ndrangheta, dal Segnali 72 | dicembre 2012 | narcomafie greco andros (uomo)”. Firmando per «Der Spiegel» un repor reportage dalla “terra dei Desperados”, arricchito dagli scatti del foto fotografo France Francesco Sbano, nel 1998 il gior giornalista MaxiMaxi milian Dax la raccon racconta così la ’ndrangheta alla Germania. I mafiosi calabresi? Eredi dei briganti, un po’ cavalieri senza macchia e senza paura, un po’ suonatori di tarantelle, rintanati nei covi dell’Aspromonte a battagliare contro l’“autorità”, ma disposti cortesemente a rilasciare perle di saggezza ai microfoni dei giornalisti. Sullo stesso filone, e con la stessa impostazione del reportage, nel 2000 il duo DaxSbano produce ad Amburgo il cd “Il canto di malavita. La musica della mafia”, attingendo al mercato marginale della “musica da bancarella” che da trent’anni ha libera circolazione in Calabria. Sul piano del marketing, la scelta si dimostrerà efficace: il cd registra un grande successo e, naturalmente, produrrà due seguiti, presentati come documenti di una tradizione musicale popolare e “vietata” in patria. Le cose, a fare un giro in Calabria tra fiere e feste religiose, non stanno esattamente così. «Gli autori sono compositori, regolarmente iscritti alla Siae, che cercano la loro via al successo individuando un filone destinato a proliferare con una fortunata serie di cassette dai titoli ad effetto: “Picciottu d’onori”, “A leggi ill’onorata”, “Giuramentu d’onuri”,“Brutta ‘Mpamita”, “Canti di Malavita”, “Cu sgarra paga” e così via, lungo la linea d’ombra fra il giornalistico, il noir e una cupa fiaba per bambini», spiega l’etno-musicologo Ettore Castagna. Altro che autentica tradizione folk, insomma. Al di là delle inesattezze e degli strafalcioni storici (viene sostenuta, sbagliando, la continuità storica e “ideale” tra brigantaggio e ’ndrangheta), l’operazione, enfatizzata da importanti media internazionali, nascondeva, però, insidie ben più profonde, messe in luce dalla scrittrice e giornalista calabrese Francesca Viscone nel saggio La globalizzazione delle cattive idee (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005). Un lavoro certosino di documentazione e analisi, il suo, oggetto di pesanti “attenzioni” da parte dei produttori della trilogia. «Sbano telefonò a me e alla casa editrice – ricostruisce Viscone in “Ossigeno per l’informazione” – e chiese che il libro non fosse pubblicato. Si sentiva diffamato. Fece mandare anche una lettera da un avvocato, ma il librò uscì lo stesso. Sbano non l’ho sentito più». Fino al maggio 2012, quando il fotografo, nato a Paola e residente ad Amburgo, si è presentato al Museo della ’ndrangheta di Reggio Calabria attaccando gli operatori presenti, “colpevoli” di utilizzare i “Canti di malavita” come esempio di esaltazione di valori mafiosi e rivolgendo all’indirizzo di Viscone epiteti offensivi e minacce. «Ci state causando un sacco di danni. Vi rovino». L’episodio è finito al centro di un esposto presentato alla procura di Reggio Calabria dal coordinatore del Museo della ’ndrangheta, Claudio La Camera. La “colpa” di Francesca Viscone? «Dopo l’uscita degli album e i concerti – spiega la giornalista – alcune testate giornalistiche europee e americane hanno parlato di questi canti presentandoli come manifestazione della cultura popolare calabrese. «Die Zeit», «Der Spiegel», «Le Monde», «Newsweek» e il «Times» hanno inviato corrispondenti in Calabria e intervistato sedicenti boss mafiosi grazie alle conoscenze di Sbano. Nel mio libro ho spiegato che la diffusione delle canzoni di ’ndrangheta non è un’operazione culturale fine a se stessa, ma fa parte di una strategia comunicativa che ha l’obiettivo di diffondere i valori mafiosi in Germania nascondendo il potere della ’ndrangheta». In sintesi, altro che criminalità globalizzata, radicata dall’Australia al Canada, capace di muoversi a proprio agio tra società offshore, grandi appalti e traffici internazionali, capace di tessere ovunque reti di relazioni con pezzi delle istituzioni locali o di farsi essa stessa istituzione. Al suono dei Canti di malavita, in Germania la ’ndrangheta si era trasformata in fenomeno folk, espressione di una Calabria selvaggia, ribelle e, soprattutto, lontana. Che si trattasse solo di una favola rassicurante lo avevano poi dimostrato i sei morti ammazzati della strage di Duisburg, il 15 agosto 2007. Per i tedeschi un risveglio amaro. E la scoperta che quelle che avevano ballato per anni non erano solo canzonette. 73 | dicembre 2012 | narcomafie Reddito minimo garantito, un’utopia possibile di Matteo Zola «The european social model has already gone», tuonava Mario Draghi nel febbraio scorso, a pochi mesi dalla nomina a presidente della Banca centrale europea, sollevando un coro di critiche. La crisi, insomma, sta distruggendo l’economia europea e se la barca affonda si butta a mare ciò che pesa di più: lo stato sociale, appunto. Scuole e sanità pubbliche, pensioni e sussidi, sono un peso morto di cui liberarsi. Ma a finire a mare non sono numeri, bensì persone. E l’affondamento del barcone europeo sarebbe solo rimandato di qualche decennio. Ecco allora che è necessario andare alla ricerca di idee alternative, che tengano insieme sviluppo e democrazia, numeri e persone. Tra queste se ne fa largo una di sicuro interesse: si chiama “reddito minimo garantito”. Tre semplici parole. A spiegarci cosa significano ci pensa un’associazione, la Basic Income Network (Bin), la cui branca italiana ha da poco licenziato un libro assai interessante, Reddito minimo garantito, un programma necessario e possibile (Edizioni Gruppo Abele, 2012). Gli autori ci dicono che per far fronte alla crisi economica (che è anche una crisi di cultura economica) il vecchio continente deve fare più welfare garantendo a tutti un reddito minimo, che si tratti di lavoratori o inoccupati, italiani o stranieri, giovani o vecchi. Utopia? Non proprio, poiché si tratta di un progetto concreto e che, in forme ridotte, è già stato realizzato in molti paesi europei. Sul tema però è facile confondersi, andiamo con ordine. Negli ultimi trent’anni a essere radicalmente mutato è il sistema economico dei paesi cosiddetti “occidentali”. Da una centralizzazione della produzione e dell’informazione, si è passati a una delocalizzazione favorita dalla velocità delle comunicazioni. Nei paesi dell’area Ocse ci si è trovati così con il 71% dei lavoratori occupati nel settore dei servizi a fronte di un 24,9% impiegato nell’industria e di un 3,9% nell’agricoltura. Il tradizionale sistema di welfare si è trovato impreparato a questo mutamento e la crisi economica ha spinto molti paesi a tagliare la spesa per lo stato sociale. Il welfare state europeo aveva già da tempo messo in atto varie misure, dette previdenziali, di protezione sociale e sostegno del reddito. Queste ultime in particolare sono state pensate per far fronte a uno sviluppo industriale che non riduceva la disoccupazione. Si è reso quindi necessario intervenire affinché il soggetto in stato di disoccupazione non diventasse un disoccupato strutturale, incapace cioè di reinserirsi nel mercato del lavoro. Negli ultimi anni, specialmente in America, si è affermata un’idea alternativa al welfare state classico, il cosiddetto workfare: si tratta di misure, per dirla con Jean-Claude Barbier, sociologo della Sorbona, «che condizionano gli aiuti sociali all’obbligo di lavorare per coloro che ne beneficiano». Al centro è quindi posto il lavoro. Il workfare è più leggero ma poco efficace come misura di protezione sociale e non tiene conto dei nuovi disagi che il modello economico post-fordista ha portato con sé: precariato, working poor, esclusione sociale. Gli esperti del Bin ci spiegano come la centralità del lavoro nelle misure di welfare state si traduca in programmi per la ricerca di impiego, per la formazione, per il sostegno all’imprenditorialità, la creazione di nuovi impieghi e – last but non least – in immediati Bin Italia Reddito minimo garantito, un programma necessario e possibile Edizioni Gruppo Abele pp. 240 euro 15,00 74 | dicembre 2012 | narcomafie sussidi di disoccupazione. In tutta Europa esistono cose simili ma si legano a misure, dette assistenziali, che garantiscono un reddito minimo che può durare anche molti anni. Esse sono, in sostanza, misure che contrastano l’esclusione sociale volte a creare una rete (safetynet) che interviene quando ha termine il periodo di sussidio di disoccupazione. Si articolano in vari modi e vanno dall’erogazione di denaro all’esenzione fiscale, ai contributi per l’affitto e per le spese alimentari. L’idea di base è che un individuo debole non debba essere lasciato solo, in nessun caso. Si crea dunque un legame tra sussidio e reddito minimo, tra misure previdenziali e assistenziali. Il modello sociale europeo, fin qui, ha cercato dunque di armonizzare le esigenze dello sviluppo industriale a quelle dello sviluppo sociale o, almeno, di garantire protezione alle fasce svantaggiate. Molto resta da fare e, secondo gli autori del Bin, investire in welfare sarebbe una valida misura anticrisi, specialmente nel nostro paese dove le cose– manco a dirlo – funzionano diversamente rispetto al resto d’Europa. In Italia, terminato il periodo di sussidio, le persone vengono abbandonate a se stesse e chi non riesce a rientrare nel mercato del lavoro è destinato alla povertà con il rischio evidente di passare da uno stato di esclusione lavorativa a uno di esclusione sociale. Il libro mostra le sperimentazioni messe in atto nelle varie regioni italiane, ma si tratta di misure destinate a particolari e limitati soggetti: siamo ben lontano dall’idea di reddito minimo garantito come diritto universale. Eppure, ci dicono gli autori, si tratta di un obiettivo possibile. Certo, dipende quanto lo Stato è disposto a spendere. O a risparmiare. Già, perché secondo gli esperti della Bin, un reddito minimo garantito andrebbe a procurare risparmi importanti. La vecchia storiella che “in Italia non ci sono i soldi” non regge più. Si può fare, spiegano gli studiosi del Bin, ed ecco come. Citando Un nuovo contratto per tutti tutti, ricerca dell’economista Tito Boeri, condotta con Pietro Garibaldi, si evidenzia come la necessità primaria sia quella di riformare gli ammor ammortizzatori sociali, procedendo a una razionalizzazione e a una drastica semplificazione dell’intero sistema che sostitu sostituisca le particolari forme di sus sussidio, indennità, integrazione, mobilità, attualmente diverse da categoria a categoria, in un unico sistema di base. Accanto a questa operazione andrebbe introdotto un reddito minimo garantito. Gli autori calcolano che per il sussidio di disoccupazione (che prevedono della durata di 18 mesi, su base contributiva) il costo sarebbe di circa 8 miliardi di euro per la messa a regime. La spesa per il reddito minimo, fissato a 450 euro, graverebbe per circa 6 miliardi di euro l’anno. Tali costi andrebbero a produrre risparmi sotto altri versanti, uno su tutti quello della sanità. Una persona in difficoltà economica è più esposta a malattie, non ha possibilità di fare prevenzione e, in casi estremi, si arriva persino al rischio malnutrizione. Tutte situazioni che ricadono sulla sanità pubblica e che un tenore di vita dignitoso andrebbero a limitare. Non meno rilevante sarebbe la ricaduta sulla criminalità e, tasto dolente, sul lavoro nero. Gli esperti del Bin, interrogati sulla questione, dichiarano che il ricorso al lavoro nero, essendo una forma di reddito priva di benefit previdenziali, sarebbe una scelta non conveniente a fronte di un reddito minimo garantito che, ovviamente, verrebbe tolto in caso di frode. «Sappiamo che nei paesi dove c’è il reddito minimo garantito il lavoro nero è stimato in percentuali bassissime». Inoltre il timore che qualcuno possa approfittarsi del sistema «non può ricadere sui molti che hanno bisogno» e «spetta alle forze dell’ordine vigilare e punire i trasgressori». L’idea, insomma, non può essere sacrificata sull’altare dei furbetti. Altra critica che generalmente si muove all’idea del reddito minimo garantito è che un soggetto, avendo questa forma di paracadute sociale, sia meno incentivato a svolgere lavori a basso salario che, comunque, sono ritenuti necessari. «E perché devono esistere lavori a basso salario?» rispondono gli autori «con l’introduzione di un reddito minimo si incentiverebbe anche l’aumento dei salari, inoltre si contrasterebbe la precarietà, poiché una persona sarebbe nella possibilità di rifiutare un lavoro senza garanzie, con contratto temporaneo e mal pagato». Il tema del contrasto alla precarietà è forse uno dei più interessanti. Più che di contrasto sarebbe forse più corretto parlare di reinvenzione della precarietà. Citando il filosofo André Gorz, «il carattere sempre più intermittente del rapporto salariale va trasformato in una nuova libertà, un nuovo diritto per ciascuno d’interrompere la propria attività professionale. Il che, beninteso, esige la garanzia di un reddito». La precarietà, dunque, come occasione di libertà. Una libertà che diventerebbe spazio di democrazia garantito dallo Stato, appunto detto “democratico”, capace di governare e distribuire equamente la propria ricchezza a tutti i cittadini. Un sogno possibile se pensiamo che, a fronte dei 14 miliardi di euro l’anno previsti da Boeri e Garibaldi, sono ben 60 i miliardi che, secondo la Corte dei Conti, sono costati al nostro paese a causa della corruzione. Una panacea quindi? Certo che no, ma un’idea alternativa, concreta e possibile, da prendere in considerazione e cui dare maggior rilievo di quello dato nel nostro paese fino a oggi. 78 | dicembre 2012 | narcomafie La Cinemovel Foundation, di cui il regista Ettore Scola è presipresi dente onorario, lancia il progetto “Schermi in classe” indirizzato alle scuole di ogni ordine e gragra do. L’obiettivo è di promuovere la didattica attraverso il cinema, utilizzando vari strumenti quali SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria cineforum la visione collettiva partecipata, le lezioni frontali, le conferenze multimediali. Il progetto prevede un calendario di quattro incontri per un costo complessivo di 20 euro a studente. Questo è il terzo anno conse- cutivo in cui i rappresentanti dell’organizzazione operano nelle scuole. Dal 2006, Cinemovel Foundation promuove la rassegna “Libero Cinema in Libera Terra”, con proiezioni cinematografiche itineranti sui beni confiscati. musica Le note dell’antimafia La musica come strumento di resistenza, di lotta alle mafie. Tantissimi artisti italiani – Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Eugenio Finardi, Sergio Cammariere, Simone Cristicchi, Paolo Belli, Teresa De Sio, Yo Yo Mundi e gli A67, solo per citarne alcuni – hanno messo a disposizione le proprie professionalità, la propria arte, per sensibilizzare su temi sempre più attuali e coinvolgenti. Il frutto di questo lavoro di squadra è un cd, accompagnato da un libro che vanta, tra i vari interventi, quelli di Carlo Lucarelli e di don Luigi Ciotti, presidente di Libera. All’associazione impegnata nella lotta alle mafie saranno devoluti i ricavati delle vendite del cofanetto. Per aderire al progetto è possibile scrivere a [email protected] indicando come oggetto della mail: “Acquisto libro Musica contro le mafie”. A cura di Gennaro de Rosa, Giordano Sangiorgi e Marco Ambrosi, “Musica contro le mafie”, Mk Records 79 | dicembre 2012 | narcomafie libri Il martirio di don Puglisi Il 25 maggio 2013 il parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, sarà reso beato. Per ripercorrere il martirio di don Giuseppe Puglisi, un libro che affianca ricordi biografici con passi tratti dal Vangelo e dalle Sacre scritture. Interessanti i passaggi del concetto di religione per i mafiosi, compreso il loro cosiddetto “battesimo”, cioè il rito di affiliazione a Cosa nostra. In apertura, la presentazione di Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo. Vincenzo Bertolone, “La sapienza del sorriso” Saggistica Paoline, 2012 La mafia è di moda Alessandro Chetta, “Il diavolo veste mafia” Malitalia, 2012 Tanti auguri, ragazzi! «Qualche migliaio di Davide Mattiello cambierebbero l’Italia. Forse esistono già ma fanno cose diverse e non si conoscono tra loro. E invece bisognerebbe scovarli e federarli». Così Nando dalla Chiesa, nella postfazione, dipinge l’autore di “95”. Davide Mattiello, animatore carismatico all’interno di Libera con il compito di monitorare, aiutare, stimolare le varie realtà dell’associazione presenti sul territorio nazionale, e presidente della fondazione “Benvenuti in Italia”, dedica il suo libro ai ragazzi che nel 2013 diventeranno maggiorenni e che per la pri- ma volta saranno quindi chiamati al voto, parten-do dall’analisi di fatti storici, sociali e politici accaduti nel 1995, anno di nascita dei prossimi diciottenni. Sullo sfondo un’esigenza: ritrovare l’amore per l’impegno quotidiano che permetta di costruire un mondo migliore. Non basta poter dare per la prima volta la propria preferenza in una cabina elettorale, perché oggi serve altro: attenzione, curiosità e voglia di cambiare le cose. Ci sono magliette con la stampa che richiama l’interpretazione di Marlon Brando nel film “Il padrino”. Ci sono videogiochi che inneggiano alla violenza: vince chi realizzerà la carriera più brillante, ovviamente com commettendo il numero maggiore di delitti. E ancora pelouches, figurine, poster. Abbigliamento e gadgets che richiamano alle gesta crimi criminali di boss delle mafie, di terroristi, di narcotrafficanti. I ragazzi spesso ne sono af affascinati, li mitizzano e non esitano ad acquistare prodotti che abbiano questi personaggi come protagonisti. L’autore analizza questa moda malata che prende sem sempre più piede. Una fotogra fotografia di questi tempi che ben promette fin dalla copertina dell’e-book. La solitudine in divisa Due vite che si incrociano, un unico, tragico, destino. Il carabiniere Emanuele Basile, a capo della Compagnia di Monreale, fu ucciso il 4 maggio 1980, durante la festa del Santissimo Crocifisso che si stava celebrando nella sua cittadina: a fianco sua moglie, in braccio la loro figlia di quattro anni. Un sicario gli sparò alle spalle, inutile la corsa in ospedale ove sopraggiunse anche il giudice Paolo Borsellino. Basile stava investigando su alcuni accordi criminali per il controllo del territorio. Gli succedette l’ufficiale dei carabinieri Mario D’Aleo, che sarà ucciso il 13 giugno 1983, dalla mafia siciliana. Un omaggio a chi, per il senso del dovere e delle istituzioni, ha sacrificato la propria vita. Un Davide Mattiello “95. Tanti auguri, ragazzi!” ADD editore, 2012 libro che ricostruisce la verità giudiziaria di questi delitti di mafia, affiancandola al racconto doloroso dei famigliari. Michela Giordano, “Quando rimasero soli” Edizioni Paoline, 2012 80 | dicembre 2012 | narcomafie C’è un giudice a Crotone Con la bella (e coraggiosa) sentenza 1410 del 12 dicembre 2012, il giudice Edoardo D’Ambrosio, del tribunale di Crotone, ha assolto, per “legittima difesa”, tre stranieri imputati dei reati di danneggiamento aggravato e di resistenza a pubblico ufficiale, a seguito della rivolta dell’ottobre 2012 nel Cie di Isola Capo Rizzuto, dove i tre erano “ospiti”. In tutto il 2012 si son dovute conteggiare numerose proteste e rivolte nei tredici Centri di identificazione ed espulsione, distribuiti sul territorio nazionale. Si tratta, come noto, di strutture dove vengono trattenuti gli stranieri “irregolari”, per essere identificati, in attesa dell’espulsione eventuale. La vicenda processuale di Crotone merita una speciale attenzione perché il giudice, non accogliendo la richiesta del pm che aveva chiesto la condanna a un anno e otto mesi per ciascuno degli imputati, li ha assolti ritenendo che fossero stati costretti a commettere quei reati per difendere i loro diritti alla dignità e alla libertà personale. Relativamente a quest’ultimo diritto il giudice ha, infatti, ritenuto illegittimo il provvedimento di trattenimento nel Cie adottato dalla Questura di Reggio Calabria e convalidato dal giudice di pace, in quanto non ade- guatamente motivato – alla luce delle disposizioni contenute nella direttiva comunitaria 2008/115 – in merito alle ragioni per le quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie. Ma, e questo è l’aspetto più importante, le condizioni di vita nella struttura erano «al limite della decenza» con «materassi luridi, privi di lenzuola e coperte sporche, lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani sporchi, pasti insufficienti e consumati senza sedie né tavoli». Un’offesa ingiusta, dunque, alla dignità della persona, che ha indotto gli imputati alla legittima difesa in una situazione di pericolo attuale. di Piero Innocenti Ecco, allora, si legge nella sentenza «la prevalenza nella tutela dei beni offesi della dignità umana e della libertà personale rispetto a quelli offesi del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione». Una svolta storica impressa da un magistrato del Sud, perché è da molti anni che si denunciano le pessime condizioni in cui si trovano gli stranieri nei centri senza che la classe politica abbia mai avuto il coraggio di affrontare seriamente i problemi connessi alle condizioni socio-sanitarie di tali strutture, alle modalità di gestione, al rispetto dei diritti degli immigrati. Nel 2004 e nel 2010 “Medici senza frontiere” stilò due rapporti, dopo diverse visite fatte ai centri, evidenziando il loro pessimo funzionamento, il profondo malessere delle persone “ospiti”, i casi di autolesionismo, la somministrazione ripetuta di sedativi. Nel 2007 era toccato alla Commissione De Mistura (dal cognome dell’ambasciatore che la presiedette) sottolineare, invano, la precarietà e l’inidoneità dei centri, formulando raccomandazioni (in gran parte inascoltate) che avrebbero potuto consentire di affrontare il problema della irre- golarità degli stranieri in maniera «più creativa ed efficace». Oltre otto mesi fa, dopo un minuzioso lavoro, la Commissione senatoriale per la tutela e la protezione dei diritti umani, ha approvato, all’unanimità, un rapporto sullo stato dei diritti umani nelle carceri e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia, presentandolo al ministro della Giustizia Paola Severino. Scrivevano i senatori che «le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie (…) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri». Anche stavolta nessuna iniziativa concreta se non ascoltare le solite dichiarazioni di circostanza. Lo spread, l’andamento delle borse, la disoccupazione giovanile, le sconcertanti ruberie di molti politici, le elezioni politiche sono certamente temi importanti e assorbenti per i governi; ma la vita delle migliaia di persone che scappano da guerre e povertà per cercare un riparo nel nostro paese, il rispetto della loro dignità, non dovrebbero avere la stessa attenzione da parte di una classe politica abbarbicata ai propri interessi e sempre più incapace di guardare lontano? numero 12 | 2012 | 3 euro Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 numero 12 | 2012 SPAgNA, CoNTrASTo AST ALLE ASTo orgANIzzAzIoNI CrIMINALI le mafie nell’arena SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE Elezioni 2013, chi parla dei migranti? di Livio Pepino 56| ALTARISOLUZIONE Nella Terra dei fuochi di Luciana Passaro e Mauro Pagnano 5 | ’NDRANGHETA IN PIEMONTE La coda del Minotauro di Giuseppe Legato 60 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 15 | I GIORNI DELLA CIVETTA Brevi di mafia a cura di Manuela Mareso 63 | INTERVISTA In fuga da Istanbul di Carlo Ruta 18 | INFILTRAZIONI MAFIOSE IN LIGURIA Svolta a Ponente di Stefano Fantino 69 | CRONACHE SOMMERSE Jabhat nella black list di Andrea Giordano 26 | COSE NOSTRE Riattivare il lavoro: mettici la firma di Maurizio Bongioanni 70 | SEGNALI Le ballate del male di Francesca Chirico 28 | LE ESEQUIE DI GIUSEPPE ERCOLANO Il rispetto oltre la morte di Dario De Luca 73 | SEGNALIBRO Reddito minimo garantito, un’utopia possibile di Matteo Zola 31 | NUOVE RESISTENZE Imprenditore cingalese: denuncia non vana di Laura Galesi 78 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 32 | STROZZATECI TUTTI Il pendolo delle mafie di Marcello Ravveduto 80 | L’OPINIONE C’è un giudice a Crotone di Piero Innocenti 33 | DOSSIER SPAGNA L’avanzata dei lancheros di Stefano Paglia Tra patriarca, padrini e pesetas di S. P. Porte aperte al malaffare di S. P.