Dossier Spagna

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Dossier Spagna
33
1 | dicembre 2012 | narcomafie
Dossier
Spagna
5
Mafie in Piemonte
Operazioni antimafia in Liguria
61
56
Nella Terra
dei fuochi
2 | dicembre 2012 | narcomafie
numero 12| dicembre 2012
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simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie
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3 | dicembre 2012 | narcomafie
Elezioni
2013, chi
parla dei
migranti?
La campagna elettorale per le
elezioni politiche del febbraio
2013 è ormai cominciata. Si parla e ci si azzuffa su molte cose
ma una – che aveva calcato da
protagonista la scena delle ultime
tornate elettorali – sembra scomparsa dall’agenda politica: l’immigrazione e le sue politiche.
Non è cambiata la legge e neppure la sostanza dei problemi.
Semplicemente, mentre ieri si
cercavano voti invitando a sparare sui barconi diretti verso le
nostre coste, oggi si lascia che i
migranti muoiano in silenzio,
uccisi dal proibizionismo e
dall’indifferenza. I candidati alla guida del Paese parlano d’altro.
Per fortuna a rompere il silenzio
ci ha pensato, qualche mese fa,
il neo sindaco di Lampedusa,
Giusi Nicolini, con una lettera
aperta che dovrebbe essere letta
in tutte le scuole:
«Sono il nuovo Sindaco delle
isole di Lampedusa e di Linosa.
Eletta a maggio 2012, al 3 di
novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone
annegate mentre tentavano di
raggiungere Lampedusa e questa
per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme
fardello di dolore.
Abbiamo dovuto chiedere aiuto
attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare
una dignitosa sepoltura alle ultime undici salme; il Comune non
aveva più loculi disponibili. Ne
faremo altri, ma rivolgo a tutti
una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della
mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia
possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per
esempio, che undici persone, tra
cui otto giovanissime donne e
due ragazzini di undici e tredici
anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante
un viaggio che avrebbe dovuto
essere per loro l’inizio di una
nuova vita. Ne sono stati salvati
76 ma erano in 115, il numero
dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi
che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato
tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace
e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera
e propria guerra. Sono sempre
più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane
un modo per calmierare i flussi,
se non un deterrente. Ma se per
queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità
di sperare, io credo che la loro
di Livio Pepino
morte in mare debba essere per
l’Europa motivo di vergogna e
disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo
tutti scrivendo, l’unico motivo di
orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato
italiano che salvano vite umane
a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai
naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto
accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro
richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare
i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque
territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con
le forze preposte al soccorso e
all’accoglienza, che dà dignità
di esseri umani a queste persone,
che dà dignità al nostro Paese e
all’Europa intera.
Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che
mi viene consegnato. Come se
avesse la pelle bianca, come se
fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza».
Spesso il proibizionismo, la chiusura dei confini uccidono. Sempre creano difficoltà e sofferenza.
In ogni caso diffondono messaggi di intolleranza e di razzismo.
Eppure i popoli del mondo si
spostano e non c’è legge che li
fermi. Così da tempo i migranti
hanno cessato di essere, nel nostro Paese, una rarità o una presenza esotica. Al contrario, il
loro insieme corrisponde, in termini numerici, a una grande
regione. Secondo le stime più
attendibili gli immigrati sono
oggi, in Italia, più di 5 milioni e
500mila, di cui 4.919.000 regolari (conteggiati dalla Caritas in
base a rilevazioni Istat di fine
2010) e 500mila circa irregolari.
È un numero superato solo dagli
abitanti di Lombardia (9.917.714),
Campania (5.834.050) e Lazio
(5.728.688) e superiore a quello
della Sicilia (5.051.075), che colloca dunque l’insieme dei migranti al quarto posto tra le regioni italiane. I migranti contribuiscono a mandare avanti la
nostra economia, svolgono lavori fondamentali che altri non
vogliono o non sanno più fare.
Le/i badanti stranieri sostituiscono – spesso in condizioni di
sfruttamento – lo Stato sociale
che viene quotidianamente smantellato e che lascia soli vecchi e
ammalati. In alcune grandi città
molte classi elementari e medie
hanno una maggioranza di bambini che viene dall’Est dell’Europa, dall’Asia, dall’Africa e
dall’America Latina. Ma i migranti – salvo l’esigua minoranza che ha ottenuto la cittadinanza – non votano. Lo fanno gli
italiani all’estero. Anche quelli
che vivono in altri continenti da
generazioni. Anche quelli che
non sanno più né la nostra lingua
né dove si trova l’Italia. I migranti no. Forse è anche per questo
che nessuno, in campagna elettorale, ne parla.
'Nd
5 | dicembre 2012 | narcomafie
'Ndrangheta in Piemonte
La coda del
Minotauro
Proseguono le indagini avviate con l’operazione “Minotauro”
dello scorso giugno 2011. Emergono connivenze tra la ’ndrangheta
e la politica locale, il modus operandi dei “trequartini”
e degli affiliati, la capacità di pervadere l’economia.
Viaggio nel sistema criminale più radicato del nord Italia
Foto RivaroloNews
Photobucket
di Giuseppe Legato
6 | dicembre 2012 | narcomafie
Le rivoluzioni, va da sé, non
si esauriscono in un giorno.
Come i capitoli di un libro si
scrivono uno per volta. Diversi
sono i protagonisti, i luoghi, i
dettagli, uguale il fil rouge che
guida il cambiamento. Forse è
per questo che nel labirinto di
“Minotauro”, epopea di manette contro le ’ndrine di Torino
scattata all’alba di un anno e
mezzo fa, le strade dell’antimafia sembrano infinite. Continuano ad aggiungere nomi,
volti e fatti al libro mastro della
mala calabrese. Svelano intrecci, interrompono trame. Una
rivoluzione a puntate.
L’ultima l’hanno chiamata “Colpo di coda”: 23 arresti, due
presunte locali di ’ndrangheta
– Chivasso e Livorno Ferraris
– disarticolate, 4 milioni e 600
mila euro di beni sequestrati. Il
blitz è del 10 ottobre scorso. Il
gip Giuseppe Salerno è la firma
in calce a 341 pagine di accuse
penalmente rilevanti – da provare in giudizio – formulate dai
pm Roberto Sparagna e Monica
Abbatecola.
Una coda dunque, un’appendice che per il procuratore capo
di Torino Gian Carlo Caselli
non è nemmeno «l’ultima» di
questo viaggio contro il sistema
criminale più forte e radicato
del nord Italia.
Alcuni nomi si ripetono, altri
sono nuovi di zecca. Gli ingredienti non cambiano: riti,
codici e business che fanno da
cornice a un quadro familistico
dell’associazione criminale. È
una storia di fratelli, questa.
Di politica, poltrone, armi e
riciclaggio. Che fotografa fedelmente la ’ndrangheta, contenitore di vecchio e nuovo,
in cui i legami di sangue ga-
rantiscono silenzio e fedeltà
mentre le scalate al potere sono
il nuovo pallino di boss e capi
bastone.
È caccia all’ordinanza. Secondo il gip, che a Chivasso
e dintorni ci fosse più di un
semplice sopravvissuto agli
arresti di “Minotauro” – sette
in totale, sfociati nella condanna in abbreviato di Pasquale
Maiolo (5 anni) e Pasquale
Trunfio (8 anni e 8 mesi) oltre
che nell’assoluzione da tutti
i capi d’accusa di Giuseppe
Trunfio – lo si poteva intuire da
ciò che era accaduto nei mesi
immediatamente successivi al
blitz dei carabinieri e soprattutto dal tenore dei dialoghi
di chi non è stato coinvolto
nella retata.
Eccola la prima triade di fratelli di questa storia. È il 29
giugno 2011. Sono circa le
16 quando Salvatore, Bruno
e Ferdinando Cavallaro – che
sono poi l’ossatura del locale di
Livorno Ferraris – inaugurano
un’autentica caccia alle carte
dell’inchiesta.
I Cavallaro sono persone intelligenti, mentalmente veloci nonostante abbiano una formazione
culturale limitata, aspetto del
quale sono peraltro coscienti:
«Ho solo la quinta elementare,
la terza media me la sono presa
con 150 ore, però grazie a Dio
me la cavo meglio degli altri!»,
dice al telefono Ferdinando in
una sorta di auto-recensione.
Pochi titoli dunque, ma buon
cervello.
Vogliono l’ordinanza di “Minotauro”, «ansiosi come sono
– annota il gip – di capire se
fossero stati individuati nel
corso delle investigazioni». Gli
arresti sono ancora “freschi”,
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le telefonate ridotte al minimo,
ma le poche che finiscono nelle
cuffie dei carabinieri hanno
un contenuto che appare inequivocabile. Grazie all’aiuto
di due legali (uno del foro di
Nardodipace e l’altro di Torino),
i Cavallaro ottengono le 2.500
pagine di Minotauro. Per entrar
entrarne in possesso spendono 400
euro. Il cd rom viene spedito
a metà luglio da Torino e due
giorni dopo viene recapitato
nella segreteria del legale di
fiducia di alcuni presunti sodali
delle famiglie di Chivasso già
in carcere.
Leggono gli atti, «ma la mole
è immensa». Al telefono però
ammettono che «qualcosa c’è».
Poi ripiegano su un gergo edilizio per depistare gli inquirenti.
E così l’ordinanza diventa il
capitolato e il prezzo del materiale richiama alla posizione
dei singoli associati: «Sono
arrivati i disegni? I prospetti?»,
chiede Ferdinando a Bruno che
intanto è in Calabria. «Non ti
preoccupare, li sto già guardando. Il lavoro, per ora non
lo perdiamo. Attualmente no.
I prezzi sono buoni».
«Questo interessamento dei
fratelli Cavallaro per l’ordinanza Minotauro – commenterà il
gip a margine – è sintomatico
di per sé dell’intraneità con il
mondo criminale che l’indagine aveva svelato. I prevenuti
non sono solo interessati alla
sorte di Maiolo (arrestato già
all’epoca e “capo locale” di
Livorno Ferraris), ma piuttosto
a comprendere se dagli atti
emergesse qualche elemento
a loro carico».
Siamo ad agosto. Le carte sono
state studiate una ad una. E,
sempre al telefono, arriva il
responso liberatorio: «L’ho let-
to il progetto, ci sono le cose
che sappiamo pure noi...». Gli
animi si calmano. E si tornano
a tessere le trame. Che sono poi
quelle tradizionali – si legge
nell’ordinanza – di un’associazione come la ’ndrangheta.
Un esempio su tutti: la raccolta
di fondi per gli arrestati. Qui
entra in gioco la seconda triade
familiare: quella dei Marino.
Pietro è il padre, Nicola e Antonio i figli. Sarebbero loro –
secondo l’accusa – l’architrave
del locale di Chivasso.
È il 14 dicembre 2011. Chi è
in carcere si appresta a trascorrere un Natale da recluso.
Nella ’ndrangheta, quello di
stare vicino “a chi è dentro” è
un dovere inderogabile, prima
ancora che un sentimento naturale. È mutuo soccorso e la
logica c’è: «È Natale pure per
loro – dicono al telefono – così
si ricorderanno di noi, sanno
che ci siamo, fuori». Dichiarazioni che per il gip «spiegano
bene come la colletta serva a
rinsaldare il vincolo associativo
fra tutti».
Nella Renault Clio di Pietro
Marino si scoprono molte cose.
Ad esempio che la quota da
versare è di duecento euro ma
che alcuni preferiscono procedere per conto proprio. Della
consegna dei soldi ai carcerati
se ne occuperanno in giorni
diversi mogli, compagne e fidanzate. Così, per non destare
sospetti.
Al telefonino si discute a lungo,
si parla anche di investimenti
su case da rilevare all’asta dei
fallimenti. Poi, ecco il colpo di
scena: «Siamo in 12-13 e i conti
tornano – dicono i Marino –
dobbiamo esserci tutti». Per i
carabinieri è la svolta. Minuto
dopo minuto si srotola il papiro
di nomi della presunta locale di
Chivasso. Altri fratelli, altri potenziali affiliati si aggiungono a
quelli già individuati. Il puzzle
è completo. Le indagini accelerano. E spunta la politica.
‘Ndrine ed elezioni. Secondo
il gip «la ’ndrangheta ha determinato l’esito complessivo
delle consultazioni elettorali
del maggio 2011 a Chivasso,
consentendo l’elezione di un
sindaco che assicurasse al sodalizio criminale non solo appalti
e commesse pubbliche, ma anche di entrare fisicamente nella
giunta e di ampliare il proprio
giro di affari e di influenze nelle
attività economiche direttamente o indirettamente». Ciò
sarebbe accaduto «con l’avvallo
delle istituzioni e con un connivente silenzio di non penale
rilevanza ma di certa censura».
Parole dure. Pietre. Che fanno
da cornice a quanto accaduto
tra marzo e aprile 2011, quando
a Chivasso si sfidano Gianni De
Mori, avvocato della società
civile (centrosinistra) e Bruno
Matola (centrodestra). In mezzo
il terzo incomodo: Massimo
Striglia (che risiede a Chivasso),
segretario provinciale dell’Udc
a capo di una lista civica di
ispirazione biancoscudata.
Il percorso «per infiltrarsi all’interno dell’amministrazione comunale» è lungo, complesso e
contorto.
I due protagonisti delle trattative elettorali sarebbero – secondo l’accusa – Bruno Trunfio, ex
assessore ai Lavori Pubblici e
vice segretario dell’Udc di Chivasso (arrestato in “Minotauro”
perché accusato di far parte
della locale medesima con la
dote di “trequartino”, poi rinviato a giudizio e attualmente
È una storia
di fratelli, questa.
Di politica, poltrone,
armi e riciclaggio.
Che fotografa
fedelmente
la ’ndrangheta,
contenitore
di vecchio
e di nuovo,
in cui i legami
di sangue
garantiscono
silenzio e fedeltà
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Secondo il gip:
«La ’ndrangheta
ha determinato
l’esito complessivo
delle consultazioni
elettorali del maggio
2011 a Chivasso»
libero in attesa di sentenza) e
i fratelli Cavallaro.
Sono proprio loro che, all’inizio, ipotizzano di far confluire voti verso Pasquale “Lino”
Vincenzi (al quale non è mossa
alcuna accusa), che nella vita
è anche assessore – in carica
– al Comune di Rondissone.
Vincenzi dovrebbe candidarsi
nel Pdl, ma sarebbe stato lo stesso partito a pochi giorni dalla
scadenza delle liste elettorali a
bocciarne l’ingresso. Qualcuno
non lo vuole, lui rinuncia, si
tira indietro, lo comunica ai
Cavallaro. La strategia, a questo
punto, cambia. Bisogna andare
su nomi di fiducia assoluta.
Come Beniamino Gallone – per
gli amici Benny – nato a Gioia
Tauro 32 anni fa. Fino al gennagenna
io 2012 è stato il titolare di una
pizzeria al taglio a Chivasso, ma
risulta – per l’accusa – affiliato
alla locale di Livorno. Negli
archivi informatici dei carabicarabi
nieri il cognome è conosciuto.
«La sua famiglia – si legge in
un’informativa dei carabinieri
di Nicotera – è vicina a noti
esponenti dei Mancuso di LimLim
badi», potentissima ’ndrina
operante a Vibo Valentia. GalGal
lone avrebbe avuto un ruolo da
protagonista (insieme a Ferdinando Cavallaro) nell’intestazione fittizia di quote societarie
della “Contemax sas”, società
che gestisce il Punto Snai di
via Gerbido 15 a Chivasso.
Stesso ruolo con identiche finalità svolto – sempre secondo
i carabinieri – per entrare nel
quadro societario di una sala
giochi a San Mauro. Ora vuole candidarsi con Striglia per
mandare tutti al ballottaggio
e poi «andare con chi offre di
più, onestamente».
«La strategia del sodalizio cri-
minale è volta a favorire questa lista – scrive il gip – onde
rendere necessario il secondo
turno delle elezioni. Poi si
sarebbe cercato un apparentamento con il partito disposto
a offrire le cariche comunali
di maggior rilievo”.
In campagna elettorale «si verificano numerosi e frequenti incontri con esponenti del
mondo politico ed economico
del territorio (tra di loro anche
imprenditori torinesi doc incensurati) che si svolgevano al
bar “Il Timone” gestito da Giovanni Vadalà, già arrestato in
“Minotauro” con l’accusa di far
parte della locale di Chivasso
con la dote di “trequartino”».
Al termine delle consultazioni, Gallone prenderà 134 voti,
Spagnolo 104. Nonostante non
giungano i consensi sperati
(soprattutto dal quartiere della Coppina: «Ne sono arrivati
13 e ce ne aspettavamo cento
e passa»), si va al ballottaggio. Ferdinando Cavallaro e
suo cugino, chiacchierando,
dimostrano acume e lungimiranza: «Adesso dipende da
noi, con chi ci alleiamo, con
chi andiamo».
Il ballottaggio e l’assessorato
già in tasca. A questo punto i
«sodali contattano gli esponenti
dei due partiti maggiori allo
scopo di verificare quale delle
due coalizioni avrebbe offerto
più cariche». Nelle telefonate
non si parla di ideali o progetti
per la città «e gli stessi interlocutori (cioè i politici contattati,
nda) – scrive il giudice – non
hanno mai un atteggiamento
di chiusura o di censura ma,
al contrario, di accettazione
o di rifiuto per mero e diretto
calcolo di interesse».
Alla fine la scelta cadrà sul
centrosinistra. È il 19 maggio.
«Alla sera c’è un incontro tra
il candidato De Mori, Trunfio
e Gallone» annotano i carabinieri. È lì che si decide l’apparentamento decisivo. «L’intera
operazione elettorale conseguiva il successo sperato – scrive il
gip – e risultava eletto sindaco il
candidato Gianni De Mori».
Cavallaro si intesta subito meriti e onori del trionfo. Parlando
col fratello Bruno (che è in
Calabria) racconta, riferendosi
al centrodestra: «Non hanno voluto unirsi con l’Udc, erano sicuri che vincevano. Li abbiamo
fottuti, li abbiamo “scasciati”
(distrutti, nda). Sono soli, soli
come dei cani randagi». La telefonata è delicata perché svela
la probabile contropartita che
si cela dietro l’apparentamento.
«Abbiamo già preso accordi. Gli
abbiamo chiesto il vicesindaco
e alla fine (prenderemo?) un assessore più altri tre incarichi».
La delega amministrativa che
spetterebbe a Striglia è quella
al Bilancio.
De Mori ha vinto. Inizia la festa con caroselli per strada e
bandiere – dell’Udc – a tutto
andare. Le telecamere dei carabinieri registrano come «l’auto
di Striglia sia seguita da un
Piaggio Porter cassonato con
a bordo Ferdinando Cavallaro,
Bruno Trunfio e Beniamino
Gallone. Il corteo si chiude,
come al solito, al bar Timone».
Dicono: «De Mori è primo per
309 voti, se non li portavamo
noi, non vincevano».
Minotauro scompagina i piani.
Non passano tre settimane e arriva il tornado di “Minotauro”.
In manette finiscono Pasquale
Trunfio e i figli Bruno e Giu-
9 | dicembre 2012 | narcomafie
seppe (assolto recentemente
da tutte le accuse). Le agenzie battono la notizia, i primi
nomi escono alle 12. Appena
un’ora dopo – sono le 13.01 –
Gallone chiama Striglia: «Ti
devo parlare». L’interlocutore
sembra sapere: «Ma pure suo
papà hanno arrestato?», chiede
riferendosi a Pasquale Trunfio
e al figlio Bruno. Il sindaco
De Mori congela l’assessorato
e tiene per sé le deleghe. Gli
affiliati ringhiano al telefono,
ma anche il mancato assessore
Striglia è contrariato: «L’ultima
novità – dice – è che De Mori
si caga addosso, non vuole più
darmi l’assessorato. Come se
l’Udc fosse tutto mafioso...».
In una successiva riunione politica «si prende la decisione
di aspettare, di far calmare le
acque», affinché l’eco di “Minotauro” si affievolisca, ma il
31 gennaio, nemmeno tanto a
sorpresa, Gianni De Mori si dimette, ufficialmente per motivi
di salute. A sua totale discolpa
dirà: «Non avevo mai fatto politica prima del 2011 e non ho
mai avuto nessun sentore di un
coinvolgimento della criminalità organizzata. Mi sono fidato
di chi mi circondava».
Le telefonate tra gli ’ndranghetisti si diradano. Nelle elezioni
successive il movimentismo
dell’associazione pare si spenga
quasi del tutto. Non che nessuno li cerchi. La segretaria di
Massimo Striglia – scrivono i
carabinieri – chiama Cavallaro
per verificare se il prevenuto e
le persone a lui contigue fossero disponibili ad adoperarsi
nuovamente per la campagna
elettorale («I tuoi cosa vogliono
fare?» – gli chiede ottenendo
come risposta un evasivo –:
«Vediamo, ora vedo...»).
Si decide di non appoggiare
Striglia facendo previsioni numeriche: «Senza di noi prenderanno al massimo 500 voti».
Si candida l’ultimo dei quattro
fratelli Cavallaro appoggiando
Enzo Falbo, lista civica. Non è
indagato, tanto meno coinvolto
nell’operazione.
Vincerà il candidato di centrosinistra Libero Ciuffreda
che da subito devolverà il suo
stipendio a iniziative “antimafia”. Le analisi del gip però
restano dure: «La ’ndrangheta
è fuori da questa tornata più
per volontà di quest’ultima che
per la presenza di consolidati
anticorpi legali». Resta il tempo
di vedere avverata la profezia di
Cavallaro sul partito di Striglia:
l’Udc prenderà difatti 482 voti.
Il boss ne aveva previsti 500.
Subito dopo il blitz del 10 ot-
Quando Volpiano e Platì
parlano lo stesso dialetto
10 | dicembre 2012 | narcomafie
di Massimiliano
Ferraro
Il 2 novembre 1982 è una data spartiacque per la cittadina di Volpiano.
In questo piccolo centro del basso
Canavese, distante appena sedici
chilometri da Torino e conosciuto
perlopiù per la sua industria di
alluminio e per i grandi serbatoi
di carburante ben visibili dall’autostrada che collega alla Valle
d’Aosta, in quella data si registrò
la prima operazione di polizia in
loco contro un boss della ‘ndrangheta. Eppure la trasformazione di
Volpiano in una delle roccaforti
‘ndranghetiste del torinese era già
iniziata da quasi dieci anni, periodo
nel quale il fazzoletto di territorio
canavesano, caro al pittore Ernesto
Rayper, aveva cominciato a legarsi
in maniera sempre più evidente
alla lontana Calabria delle cosche
aspromontane. Non si era trattato
di un assalto ma di un lento e progressivo contagio, grazie al quale la
malapianta aveva potuto attecchire,
irrobustirsi e ramificarsi in tutto il
Piemonte.
I primi affiliati alla ‘ndrangheta
arrivarono a Volpiano in soggiorno
obbligato, nei primi anni Settanta.
Erano malavitosi giovani e ambiziosi che sfruttando il loro esilio
riuscirono a sganciarsi dal controllo oppressivo dei capibastone
calabresi, diventando dei referenti locali e acquisendo una certa
autonomia d’azione. I “pionieri”
vennero raggiunti al Nord da intere
famiglie, creando un gruppo molto
temibile, ma ancora sottomesso
allo strapotere dei clan catanesi
che in quegli anni dominavano
Torino e la sua provincia. Poi, con
le prime confessioni dei pentiti che
decapitarono l’organizzazione dei
siciliani, vi fu un avvicendamento
al vertice della geografia criminale. I
giovani ‘ndranghetisti di un tempo,
poco più che trentenni, si trovarono
inaspettatamente ad essere i capi
di una mafia vincente, assetata
di denaro e attiva nei sequestri
di persona e nel traffico di droga.
Uomini d’onore come Mario Ursini,
famiglie di mafia come i Marando,
gli Agresta e i Trimboli sono stati i
protagonisti delle vicende criminali
che negli ultimi tre decenni sono
valse a Volpiano il soprannome di
“piccola Platì”.
“Zio Mario”, il primo boss. Le
confessioni di Armando Fragomeni
furono fondamentali per conoscere
la struttura delle ‘ndrine in Piemonte. Arrestato con l’accusa di
essere coinvolto nel sequestro di
Giuliano Ravizza, titolare della
pellicceria “Annabella” di Pavia, le
sue dichiarazioni permisero di far
luce sui traffici illeciti, le estorsioni
e le rapine compiute dai calabresi
dal 1975 al 1981. Decine di episodi tra cui due assalti al Banco
di Roma di Volpiano, avvenuti a
dicembre del 1977 e marzo del
1978: la ‘ndrangheta era già arrivata
nel Basso Canavese.
Novembre 1982, dunque. Una tipica
mattina d’inverno piemontese, con
la temperatura sotto zero e le strade
ancora velate dal gelo notturno. Via
Genova, all’incrocio con la Strada
Provinciale 39, era semi deserta
quando un’auto civetta con a bordo
il capo della Mobile Piero Sassi e
alcuni agenti si fermò nei pressi di
un condominio di una cooperativa
sito al numero civico 51.
Quando gli uomini di Sassi effettuarono l’irruzione in uno degli
appartamenti, erano alla ricerca
di Mario Ursini, “studente” trentaduenne per l’anagrafe ma in realtà
boss della mala calabrese nella
provincia di Torino. Originario
di Gioiosa Ionica, Ursini venne
descritto dalle cronache dell’epoca come un personaggio spietato,
dotato di un “notevole carisma
nel mondo criminale”, ma anche
apparentemente “affabile e cortese
nei rapporti interpersonali”. Fu
lui uno dei primi pionieri della
‘ndrangheta piemontese, artefice
di un regno fondato sulla violenza
e sui traffici illeciti distante oltre
mille chilometri dal territorio della
sua cosca, nella valle del Torbido,
ma che all’inizio degli anni 80
appariva in continua espansione.
«Non muove foglia senza che Ursini
voglia», si sussurrava nell’ambiente
investigativo e ciò bastò per sperare
nel colpo grosso.
Nonostante si trattasse di un’operazione mirata, avente come obiettivo
quello di “stanare” nella propria
abitazione un boss della malavita
calabrese, il blitz non ottenne gli
esiti sperati. Il boss riuscì a non
farsi trovare (fu arrestato a Torino
dieci giorni dopo). A sorpresa, nella
rete tesa dalle forze dell’ordine
cadde Placido Barresi (in possesso
di una 357 Magnum), cognato di
Domenico Belfiore, storico capo
della ‘ndrangheta sotto la Mole,
anch’egli destinato ad una lunga
carriera nella malavita.
Sangue e droga. La presenza a
Volpiano della mafia calabrese, con
il suo codice d’onore e le sue regole
inviolabili, venne confermata dal
tentato omicidio di Sergio Chiarella, accaduto nei boschi della
frazione Vauda: aveva commesso
uno sgarro verso l’organizzazione.
Per quel fattaccio e per altri reati
in materia di stupefacenti finì sul
banco degli imputati Rocco De
Marco, originario di Platì, il paese
dell’Aspromonte che più di tutti gli
altri ha fornito nel territorio volpianese – oltre che tanti lavoratori
onesti – anche una numerosa manovalanza malavitosa. Una vera e
propria fetta di Calabria trasferitasi
nel Canavese, che negli anni Ottanta
arrivò a superare i 2.500 individui
residenti nella sola Volpiano, a
fronte di una popolazione totale
di circa tredicimila persone.
Dopo i sequestri di persona (ben
37 casi registrati in Piemonte tra
il 1973 e il 1984), le cosche aspromontane si specializzarono nel
traffico degli stupefacenti. Negli
anni compresi tra il 1984 e il 1989,
Volpiano divenne una base stabile
per il commercio della droga che,
11 | dicembre 2012 | narcomafie
coltivata nel reggino, cominciò in
questo modo ad arrivare in Piemonte a fiumi: nel 1988 la marijuana
veniva venduta ai clan di Volpiano
a un milione di lire al chilogrammo
e fruttava fino a 4 mila lire al grammo. Un business colossale in cui
corrieri incensurati venivano impegnati in continui viaggi di andata e
ritorno da Nord e Sud. Fu proprio
in una di queste trasferte che, nel
novembre, del 1988 una Golf bianca targata Torino venne notata in
uno dei centri dell’Aspromonte,
dando il via a un’operazione dei
Carabinieri che si concluse con il
sequestro alla periferia di Volpiano
di tre chili e mezzo di marijuana:
il più consistente quantitativo di
cannabis mai sequestrato in città
fino ad allora.
Dovette trascorrere un altro anno
perché l’eroina comparisse nelle
indagini sulle attività della malavita
nella provincia torinese, quando i
Carabinieri arrestarono 19 persone
– uomini d’onore trapiantati nel
Canavese – residenti tra la provincia di Reggio Calabria e Volpiano.
Eroina proveniente dalla Turchia e
mercato torinese sono dunque gli
elementi di un’equazione criminale
che fruttò miliardi di lire ad una
gang che sul finire degli anni 80
assunse il controllo del mercato
della droga tra Volpiano, Settimo
e San Benigno. Affari sporchi e
contesi che condussero anche a
sanguinosi scontri interni come la
strage del Circolo Arci di Chivasso
e la sparatoria di via Brandizzo, in
cui persero la vita rispettivamente
tre e due persone.
Una bomba per i Carabinieri. Nella
notte tra il 12 e il 13 agosto 1991
un misterioso atto intimidatorio
sconvolse l’apparente tranquillità
del territorio di Volpiano. Davanti all’ingresso della caserma dei
Carabinieri di via San Guglielmo,
vennero rinvenuti casualmente
sette chili e mezzo di esplosivo
nascosti in una pentola a pres-
sione collegata con una miccia.
Un micidiale attentato fallito? La
ricostruzione dei fatti fu incerta.
Si parlò di una strozzatura sul
filo che avrebbe dovuto provocare
l’esplosione, ma tra i volpianesi lo
shock fu comunque grande. Per
la prima volta un fatto di simile
rilevanza toccava nel vivo una comunità che aveva sempre respinto
ogni infiltrazione criminale, fino
ad illudersi della non esistenza
della mafia in quelle zone. Per
gli investigatori invece la matrice
’ndranghetista di quella possibile
strage fu chiara: si trattava di un
avvertimento dopo gli arresti che
tentavano di stroncare definitivamente il commercio della droga.
Un gesto che pose Volpiano sotto
i riflettori delle forze dell’ordine,
provocando un temporaneo fuggi
fuggi di uomini d’onore verso la
Calabria. In compenso, nuovi personaggi si affacciarono nel panorama
criminale del centro canavesano,
una sorta di cambio generazionale
che ripropose tuttavia nei faldoni
processuali dei cognomi noti. Ad
esempio Don Ciccio, al secolo Francesco Barbaro: quando la squadra
mobile gli mise le manette ai polsi
nel 1992 aveva solo 24 anni, ma
era già rispettato e riverito da tutti
come un boss. Barbaro, nativo di
Platì, era in qualche modo un predestinato. Portava infatti lo stesso
nome del capostipite della famiglia
’ndranghestista di cui faceva parte:
Francesco Barbaro appunto, detto
U’ Castanu, classe 1927, ritenuto
il re dei sequestri di persona negli
anni 80. Il giovane Don Ciccio stava
invece facendosi strada nell’organigramma mafioso, trasportando
droga dall’Aspromonte fino ai comuni torinesi di Volpiano, Chivasso
e Cuorgnè. La squadra narcotici lo
fermò con settanta grammi di eroina
in tasca, dopo averlo pedinato per
giorni e averne annotato frequentazioni e movimenti, mentre si
trovava in compagnia di Antonio
detto Totu i Natale, un dicianno-
venne platiese domiciliato nella
provincia di Torino, anch’egli in
possesso di un cognome criminalmente altisonante: Agresta. Un
altro predestinato, visto che quasi
vent’anni dopo, il pentito Rocco
Varacalli lo indicherà come capo
società a Volpiano. Nel settembre
del 2012 Agresta è stato condannato
a 10 anni e 8 mesi di reclusione,
al termine della prima tranche
processuale della maxi-inchiesta
“Minotauro” sulla presenza della
’ndrangheta nel torinese.
L’onorata picciotteria volpianeis.
Questa miglior prole della malavita
aspromontana nel basso Canavese
diventò l’obiettivo delle indagini
condotte dal sostituto procuratore
Francesco Saluzzo, che portarono
nel novembre del 1992 all’arresto
di 28 persone e al sequestro di 53
chili di cocaina ed eroina. I capi
dell’organizzazione vennero identificati in Saverio e Antonio Agresta,
con la complicità dei fratelli Natale
e Saverio Trimboli. Secondo il magistrato «molti degli arrestati erano
soci di attività imprenditoriali,
qualcuno gestiva la raccolta pubblicitaria di un’agenzia di Torino,
altri commerciavano in preziosi o
erano proprietari di bar intestati alle
mogli o agli amici». Da un’anonima
cascina di Volpiano, scelta come
covo per custodire gli stupefacenti,
la malapianta era riuscita ad infestare il tessuto economico torinese,
rinvestendo altissime somme di
denaro sporco in attività legali. «Essere riusciti a smantellare una parte
della più potente e impenetrabile
organizzazione di trafficanti è un
grosso successo», affermò Saluzzo
in conferenza stampa, aggiungendo
però di avere motivo di ritenere
che i 28 arrestati facessero «parte di una banda con centinaia di
complici». Messi quindi al bando i
facili entusiasmi, la presenza delle
’ndrine nel torinese continuò, così
come continuò la guerra ai clan
portata avanti dalla magistratura
12 | dicembre 2012 | narcomafie
che condusse nel 1993 a scoprire un
traffico internazionale di droga tra
Calabria, Piemonte e Veneto.
A dare il via all’operazione era
stato il ritrovamento di alcuni interessanti documenti murati nel
contro soffitto di una villa nelle
campagne di Volpiano di proprietà
di una famiglia ritenuta molto vicina alla potente cosca dei Marando.
In quelle carte i magistrati trovarono le prove di un vasto giro di
eroina e cocaina, organizzato dalla
’ndrangheta volpianese insieme
alle criminalità organizzate turca,
portoghese e pachistana. Per un
soffio non si riuscì ad intercettare
una nave carica di 500 chili di
eroina, ma in compenso 52 persone
vennero raggiunte da provvedimenti di custodia cautelare, tra
i quali figurava il super-latitante
Pasquale Marando, da anni di casa
nel Canavese e capo della locale
di Volpiano.
Ma fu solo una parentesi, gli affari
sporchi legati soprattutto al traffico
di eroina, cocaina e hashish continuarono a prosperare nel comune
torinese. «C’è stato un periodo
durante il quale l’Asl di zona aveva
il più alto numero di tossici del
Piemonte – ­raccontò nel 2001 il
vicesindaco di Volpiano, Enrico
Furlini, in un’intervista a «La Stampa» – questo sta a significare che
qui c’era molto offerta, in grado
di conquistare anche grosse fette
di mercato».
Re Pasqualino, “buonanima”. La
sorte toccata a Pasquale Marando, re
della droga e artefice fin dai primi
anni 90 di una rete malavitosa attiva
tra Volpiano, Brandizzo e Leinì, è
un enigma. Marando sembra svanito nel nulla dal 2001 e nessuno
sa con certezza se sia vivo o morto,
nonostante quest’ultima ipotesi
sia stata avvalorata dalle parole
di alcuni pentiti. Eppure, ancora
nell’ottobre del 2012, i membri
della commissione di accesso al
Comune di Reggio Calabria (da poco
sciolto per mafia) citano ancora il
capo della locale di Volpiano come
fuggiasco, nonostante Marando
sia stato depennato dall’elenco
dei cento latitanti più pericolosi
d’Italia.
Proprio a Volpiano, il boss era proprietario di una villa-bunker, la
“Cascina bianca”, sorvegliata da
decine di telecamere che venne
confiscata nel 1996 e affidata in
gestione al comune, diventando poi
la caserma dei Vigili del fuoco di
zona. La scelta sulla destinazione
d’uso della casa appartenuta a Marando non fu semplice. Il comune
avrebbe voluto riutilizzarla come
caserma dei Carabinieri, ma alla
fine l’ipotesi tramontò. «C’erano
voci, non si sa ancora quanto vere
– scrisse «La Stampa» del 18 novembre 2001 – che assicuravano
vita brevissima a quella caserma».
Sembrerebbe dunque che il fantasma di Pasqualino Marando abbia
continuato a fare paura, nonostante
gli sforzi dei giudici che continuavano a fagli terra bruciata attorno.
Le attenzioni degli investigatori
si concentrarono in particolare
sulla famiglia Trimboli, un gruppo
forte e coeso, basato su vincoli di
parentela con i Marando. Il primo
a finire nelle mani della giustizia
fu – nell’agosto del 1995 – Natale
Trimboli, cognato e braccio destro
di Pasquale Marando, preso nel
corso di un blitz sulle montagne
attorno a Platì. In carcere ci finì
anche Francesco Marando, fratello maggiore del re della mala
volpianese, il quale dopo essere
riuscito ad evadere, venne ritrovato
cadavere nei boschi di Chianocco,
in Val Susa.
Anche tra i Marando e gli Stefanelli
vi era un vincolo di sangue: Francesco era infatti divenuto cognato
di Antonio, ma ciò non impedì a
Pasqualino Marando di ordire una
vendetta tremenda.
Un’esecuzione che, suppongono
gli investigatori, venne ordinata
da Antonio Stefanelli, esponente
di una famiglia mafiosa di Oppido
Mamertina attiva a Varazze (Sv),
per via di alcuni contrasti sulla
destinazione di una partita di droga.
Il primo giugno 1997, in una delle
proprietà volpianesi dei Marando,
una villa in frazione Tedeschi, Antonino e Antonio Stefanelli, insieme al loro guardaspalle Francesco
Mancuso, vennero uccisi a colpi di
pistola. Omicidi consumati dopo
che gli Stefanelli erano stati attirati
in trappola con la speranza di una
soluzione alla guerra tra bande
promessa dai Marando. I loro corpi,
forse sepolti in una cava, non sono
mai stati ritrovati e l’iter giudiziario
su questi fatti si concluse nell’ottobre del 2000 con le condanne di
Domenico Marando e Giuseppe
13 | dicembre 2012 | narcomafie
Leuzzi, insospettabile titolare di
un’impresa edile di Torino.
Ad aprile del 2003, anche Pasquale
Marando venne condannato dalla
Corte d’Appello di Torino a 23
anni e sei mesi di reclusione per
associazione di stampo mafioso e
traffico di droga. Ma il boss, irreperibile da due anni, era già deceduto. Come e perché non si sa,
anche se pare verosimile che sia
stato ucciso dai cognati Trimboli
in quel di Platì. Di sicuro ci sono
le testimonianze involontarie di
alcuni uomini d’onore che in alcune intercettazioni si riferiscono
a Don Pasqualino, chiamandolo
con reverenza buonanima.
Il nuovo punto di riferimento della
locale di Volpiano diventò allora
proprio Domenico Marando, che
seppure detenuto nel carcere di
Rebibbia continuò a dettar legge
all’interno del clan.
Lo tsunami “Minotauro”. Nell’ordinanza emessa il 13 luglio 2010
(operazione “Crimine-Infinito”),
la Direzione distrettuale antimafia
di Reggio Calabria ha sottolineato
come in Piemonte «esista una struttura criminale della ‘ndrangheta
organizzata sull’impronta di quella
calabrese, comunque subordinata
al Crimine reggino».
A Volpiano, secondo l’indagine
condotta su disposizione della Procura della Repubblica di Torino in
seguito all’operazione “Minotauro”
del giugno 2011, è attiva una delle
nove locali presenti nel territorio
torinese, i cui appartenenti riferiscono direttamente in Calabria attraverso Pasquale Barbaro, referente
della locale di Platì. Un articolato
sodalizio malavitoso che controlla
la distribuzione di videopoker e
slot machines in esercizi pubblici
a Volpiano e nei paesi limitrofi, per
poi destinare i proventi al sostentamento dei familiari dei detenuti
del clan. Prima fonte di guadagno
rimane però da sempre il traffico
di droga. Lo conferma il pentito
Rocco Marando, affermando che
questa è stata l’attività principale,
se non esclusiva, del suo gruppo
dal 1995 in poi: «Ho trattato sostanze stupefacenti. In particolare, ho
trasportato droga da Platì a Torino.
I quantitativi di droga, per quanto
ne so, arrivavano tramite nave al
porto di Genova e poi venivano
trasportati con il camion in zone
limitrofe a Volpiano».
Le dichiarazioni rese da Marando e da un altro collaboratore di
giustizia, Rocco Varacalli, hanno
permesso di ricostruire l’organigramma dell’onorata società volpianese. È stato addirittura possibile tracciare una vera cronistoria
del potere criminale nel comune
del basso Canavese, passato nelle
mani di Pasquale Marando dopo
l’abdicazione di Natale Agresta,
padre di Antonio. La carica di capo
società era poi toccata a Domenico
Marando, fratello di Pasquale, sostituito dopo il suo arresto, dicono
i pentiti, da Vincenzo Portolesi. Più
recentemente lo scettro del capo
sarebbe stato preso da Francesco
Costanzo e infine da Francesco
Perre. Sarebbe dunque lui, sempre
secondo i pentiti, l’attuale capo
locale, mentre Antonio Agresta
(Totu i Natale) avrebbe assunto il
ruolo di capo società. Anche Rocco Trimboli, cognato di Pasquale
Marando, ha ricoperto posizioni
apicali nella malavita volpianese.
Dopo essersi reso irreperibile per
molti mesi, il Ros e lo squadrone
eliportato dei Cacciatori “Calabria”
lo hanno scovato lo scorso aprile
nei boschi di Platì.
Nel procedimento penale seguito
a “Minotauro” non ci sono però
solo i nomi di boss e picciotti, tra
i 169 indagati rinviati a giudizio
spicca infatti il nome del noto politico e imprenditore Nevio Coral,
proprietario del gruppo industriale
Coral S.p.a. di Volpiano. Per dieci
anni sindaco di Leinì, Coral è stato
anche candidato alla poltrona di
primo cittadino di Volpiano nelle
ultime elezioni comunali. Elezioni
perse con il 33% dei consensi, ovvero 2.857 voti ottenuti – stando a
quanto riportato nell’ordinanza di
custodia cautelare – anche grazie
all’appoggio di personaggi legati
alle ’ndrine come il capo locale
Vincenzo Argirò. A quest’ultimo
e ad altri ’ndranghetisti ribattezzati «imprenditori», Nevio Coral
avrebbe chiesto un aiuto anche per
poter essere eletto nelle Provinciali
del 2009. Accuse pesanti, che davanti al gip l’ex sindaco di Leinì
ha fermamente respinto. Dovrà
rispondere di concorso esterno in
associazione mafiosa.
Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni dei Carabinieri sono emersi
anche particolari riguardanti personaggi minori che spiegano ad
esempio il ferreo livello di controllo
dell’organizzazione sui singoli membri. È il caso del giovane Domenico
Agresta, detto Micu Mc Donald, nato
a Locri ma residente a Volpiano, un
ragazzone di corporatura decisamente robusta che viene richiamato
all’ordine dai capi, perché a Rivarolo
«va in giro a fare il teppista... fa il
teppistello». Giovane rampollo di
mafia, Micu, classe 1988, figlio del
boss volpianese Antonio Agresta,
è poi finito dietro le sbarre a soli
vent’anni per l’omicidio del ventitreenne Giuseppe Trapasso, freddato
con due colpi di pistola alla nuca il
15 ottobre 2008 a causa di un debito
di droga non pagato. Un omicidio
“autorizzato”, stando a quanto si
evince dalle intercettazioni, dal
capo locale di Cuorgnè Bruno Iaria,
per il quale Agresta sta scontando
trenta anni di reclusione.
La prima parte del processo “Minotauro” è terminata con 58 condanne,
inflitte agli imputati che hanno
scelto il rito abbreviato, per un totale di quasi 400 anni di carcere. La
seconda fase si è aperta il 18 ottobre
e ha visto il comune di Volpiano
costituirsi parte civile per «i danni
d’immagine che sono stati portati dai
risvolti di questa inchiesta».
14 | dicembre 2012 | narcomafie
tobre Striglia (non indagato ad
alcun titolo) si auto sospende
dalla carica di segretario provinciale dell’Udc.
Il boss Giuseppe
Catalano,
il capo dei capi
della ’ndrangheta,
morto suicida,
aveva scelto
di dissociarsi
Economia ‘ndranghetista. Uno
dei primi atti del nuovo sindaco
è stato quello di rinverdire le
cariche del consiglio di amministrazione della “Chind” (abbreviazione di Chivasso Industria) Spa. Nata nel 1986 come
società incaricata di realizzare
il “Polo integrato di Sviluppo”,
ha un capitale detenuto per il
55% dal Comune di Chivasso.
Gli altri azionisti sono FinPiemonte (1,9%), Se.Cap (6,1%),
Zoppoli&Pulcher (1%), Cna
(1%), Unione Industriale (2%)
e Api (2%). La modifica alla
composizione del consiglio di
amministrazione è necessa
necessaria perché, nel frattempo, il
cosiddetto decreto “anticrisi”
del settembre 2010 ha imposto
un taglio alle poltrone. I nuo
nuovi ingressi hanno sostituito i
vecchi. Tra questi ultimi c’era
anche Nicola Marino, figlio di
Pietro «che – si legge nell’or
nell’ordinanza – è stato iscritto quale
Consigliere all’interno dell’am
dell’amministrazione della società fin
dal 19 novembre 2003 e risulta
uno dei pochi ad essere rimasto
in carica durante tutti i cambi di
presidenza che hanno interessato la Chind a differenza di tutti
gli altri consiglieri succedutisi
nel tempo. Inoltre – si legge
ancora – Marino non risulta
avere né una esperienza politica
attiva (come invece avvenuto
per Barberis Augusto, Zollo
Antonio, Bianchini Claudia,
Tosi Livio, Brustolon Enrico,
Valesio Giuseppe e Alessandro
Germani) né una posizione di
rappresentanza all’interno del
mondo industriale del territo-
rio, come avvenuto per Guerrini Massimo, vicepresidente
dell’Associazione Piccole e
medie Imprese Torino». Marino
resta in carica per nove lunghi
anni. Ora è indagato per il reato
di associazione a delinquere
di stampo mafioso. È accusato di far parte della locale di
Chivasso, di aver partecipato
alla colletta in favore di alcuni carcerati di “Minotauro”.
Insomma: per la procura è un
organico a tutti gli effetti. Tanto
che la mattina del grande blitz,
l’8 giugno 2011, alle 5.08 –
praticamente all’alba – è già al
telefono con il fratello. Parlano
di Giovanni Vadalà e Pasquale
Maiolo appena arrestati. Hanno
paura per la sorte del papà
Pietro. Il gip commenta: «Tali
deduzioni dimostrano in termini ben più pregnanti della sola
gravità indiziaria la comune
consapevole appartenenza dei
due fratelli e del loro padre
al sodalizio ’ndranghetistico».
Ora ci si chiede se Marino sia
riuscito, in tutti questi anni,
a influenzare o quantomeno
indirizzare le scelte dell’ente
a favore del sodalizio di cui
farebbe parte. Intanto è uscito
dal Cda a giugno 2012. Gli interrogativi restano. I ventidue
presunti affiliati si sono difesi
affermando di essere «estranei
a tutte le contestazioni». Per la
serie: ma quale ’ndrangheta?
Mi dissocio. La “chiosa” più
emblematica di questa storia
è regalata – suo malgrado –
dal capo dei capi: Giuseppe
Catalano. È lui il padrino di
“Minotauro”. Ha contatti con
i boss più rappresentativi dei
mandamenti calabresi. Disegna
parabole criminali. Semina trame politiche. È il custode delle
regole e dei riti. O meglio, era
tutto questo. Lo scorso 24 aprile
si è infatti suicidato lanciandosi
dal balcone della sua casa di
Volvera, dove era detenuto agli
arresti domiciliari. Da qualche
mese Catalano aveva fatto una
scelta atipica per l’associazione
’ndrangheta. Non si era pentito,
si era dissociato. Aveva preso
le distanze dall’organizzazione:
«Non ne voglio fare più parte»
disse in preda – anche – a una
forte depressione. Per gli affiliati fu un colpo duro. Perché
se il capo supremo da cui tutti
dipendono ammette implicitamente di aver fatto parte di una
struttura, allora – sembra chiaro
– quella struttura esiste, c’è. E
così l’uomo venerato in vita,
ossequiato da tutti, interpellato
anche per le piccole decisioni
(«perché lui dà buoni consigli
e non ti sbagli mai»), diventa
di colpo il nemico. Almeno per
Mario Tonino Maiolo, figlio di
Pasquale Maiolo, capo locale di
Livorno Ferraris. Al telefono
con la madre e con la fidanzata fotografa perfettamente
la capacità della ’ndrangheta
di voltare le spalle ai traditori, anche se capi di valore
indiscusso: «Lui ha ammesso
che c’è un’organizzazione. In
questo modo gliela mette nel
c... agli altri. Pure da vivo si
atteggiava, faceva il buffone».
Strano «per uno che ha trattato cose di ’ndrangheta per
cinquant’anni e che a diciotto
anni ha ammazzato per la prima volta». Si scopre così che al
funerale di Giuseppe Catalano
non andò nessuno, «nemmeno
un cane – dice Mario Antonio
Maiolo –. E chi ci va da uno che
è passato per cornuto?».
Epitaffio inglorioso sulle ceneri
di un boss traditore.
15 | dicembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Piemonte, la mafia c’è ma è innocua
Sono una doccia fredda le motivazioni della sentenza con cui il giudice per
l’udienza preliminare Massimo Scarabello ha assolto 17 dei 19 imputati nel
processo Maglio-Albachiara che i pm Roberto Sparagna, Monica Abbatecola
ed Enrico Arnaldi Di Balme avevano invece indicato come affiliati della
’ndrangheta nel basso Piemonte e per questo meritevoli di condanne fino a
nove anni di reclusione.
Che gli imputati fossero legati all’organizzazione criminale dell’alessandrino
anche per il gup è pacifico (d’altronde Bruno Pronestì, l’unico condannato a
un anno e sei mesi per il possesso di una pistola non denunciata aveva ammesso di essere uno ’ndranghetista, e Franco Guerrisi aveva concordato una
pena per assistenza agli associati): il fatto è che presentavano, a suo giudizio, un basso tasso di
mafiosità, uno scarso potere intimidatorio, non sufficiente a condannarli. Sono stati provati «atti
preparatori finalizzati a dar vita a un’associazione di tipo ’ndranghetistico che della casa madre
riprende stili e metodiche, regole e costumi, ma che – questo il punto cardine della sentenza –
non si è ancora atteggiata nei confronti della popolazione creando assoggettamento e omertà».
Non era bastata a sottolineare la gravità della presenza ’ndranghetista neanche la memoria che i
pm avevano presentato – a seguito delle scarcerazioni nell’estate 2012 – nella quale Paolo Bellotti, consigliere comunale dell’Idv, ricostruiva un episodio del marzo 2011 in cui si era visto
scagliare contro una sedia da parte di Giuseppe Caridi (nella foto, ndr.), consigliere Pdl affiliato
alla ’ndrangheta, anch’egli tra gli assolti.
Ricostruzione in
Emilia, è allarme
mafia
Che in Emilia il terremoto potesse diventare un’occasione
per le organizzazioni criminali
– visto il caso Abruzzo – lo si era
detto all’indomani del terribile
sisma del maggio 2012. Ora che
dal 10 gennaio, tramite l’accordo tra Abie e Cassa deposito
e prestiti, le banche possono
erogare i 6 miliardi di contributi
messi a disposizione dallo Stato
per la ricostruzione, tornano a
mobilitarsi i sindaci delle zone
colpite. Non bastano le pur
importanti white list approntate
dalla Regione per scongiurare le infiltrazioni: come più
volte denunciato da Fernan-
do Ferioli, primo cittadino di
Finale Emilia, l’elenco delle
imprese pulite, consultabile
sul sito della prefettura, non
mette al riparo da infiltrazioni
nei subappalti né dal rischio
che le imprese con difficoltà di
accesso al credito, i cui canali
sono sempre più ristretti, possano finanziarsi tramite capitali
di provenienza criminale. Ora
che i cittadini si presenteranno agli sportelli per ottenere
l’80% delle risorse necessarie
alla ricostruzione delle loro
abitazioni o aziende colpite
dal sisma, il rischio è che molti – soprattutto i privati, che
procederanno con affidamento
diretto – foraggeranno imprese
collegate a circuiti di illegalità.
Sono infatti oltre 900 le pro-
cedure avviate con il modello
unico per l’edilizia (Mude) ai
fini di ottenere il contributo per
circa 3mila abitazioni.
Claudio Broglia, sindaco di
Crevalcore, ha avviato una
importante campagna di comunicazione per tenere alta
l’attenzione dei cittadini: l’appello è quello di rivolgersi ai
professionisti del territorio
per avere segnalazioni di ditte sicure e affidabili. Con la
consapevolezza che l’unico
strumento è quello di tenere
alta la guardia, visto che numerose inchieste degli ultimi
anni dimostrano che l’impresa
del nord Italia non sempre è
lontana da contatti – o peggio – con organizzazioni di
stampo mafioso.
a cura di Manuela Mareso
Reggio Calabria,
un consulente
al servizio della
’ndrangheta
Trascriveva il contenuto delle intercettazioni omettendo passaggi
che per l’impianto accusatorio
sarebbero stati fondamentali.
Questa la tesi dell’accusa contro
Roberto Crocitta, consulente incaricato da parte delle difese di
alcuni boss coinvolti in importanti processi quali “Crimine” e
“All Inside”, che avrebbe favorito
boss delle cosche Bellocco, Pesce
e Gallico. Secondo il procuratore
Ottavio Sferlazza, scrive Lucio
Musolino del «Corriere della Calabria», «Crocitta è quello che noi
chiamiamo “area grigia” della
’ndrangheta. Un professionista
che veniva pagato profumatamente per trascrivere intercettazioni di due o tre pagine». Il
procuratore aggiunto di Reggio
Calabria Michele Prestipino ha
affermato: «Finché ci saranno
colletti bianchi, che sia pure
per ragioni diverse, cedono alle
lusinghe della ’ndrangheta, le
cosche manterranno la propria
capacità di penetrare il tessuto
sociale, civile ed economico,
con tutte le conseguenze che
ben conosciamo. Per questo è
così importante svelare le connessioni e le complicità tra la
zona grigia e le mafie». Decisa la
risposta dell’avvocato di Crocitta,
Antonino Napoli: «La difesa ha
già contattato alcuni consulenti
di fama internazionale a cui ver
verranno sottoposti i tre colloqui
contestati a Crocitta dalla Dda
di Reggio Calabria».
16 | dicembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Catanzaro, indagati 3 magistrati per fuga di notizie
Il giudice Giancarlo Bianchi e
i pm Giampaolo Boninsegna e
Paolo Petrolo, magistrati del
distretto di Catanzaro, sono
accusati dalla Dda di Salerno
di aver rivelato informazioni
coperte da segreto. Le loro
voci sono comparse in alcune
registrazioni dei carabinieri
del Ros che indagavano sulle
cosche del vibonese. Sul Fattoquotidiano.it dell’11 gennaio
Davide Milosa ricostruisce la
figura di Giancarlo Bianchi, il
giudice del tribunale di Vibo
Valentia che nel 2005 dispose
il ricovero provvisorio del
boss di Limbadi Pantaleone
Mancuso «in assenza delle
condizioni previste dalla legge [...] creando una oggettiva
condizione di vantaggio rappresentata dalla conseguente
accresciuta possibilità di comunicazione verso l’esterno».
Il ricovero, protrattosi per 27
giorni nonostante il termine
di una settimana, venne interrotto solo grazie a un intervento dell’onorevole Angela
Napoli.
Bianchi è anche il giudice
che aveva autorizzato diverse visite odontoiatriche per
Filippo Fiarè, della omonima
cosca alleata con i Mancuso,
presso lo studio del figlio. E
che non aveva rivelato agli
investigatori che lavoravano
su un omicidio la confidenza
fattagli dall’avvocato dei Mancuso Antonio Galati secondo
cui lo stesso Fiarè sarebbe il
mandante del delitto.
Nell’inchiesta sono coinvolti anche due funzionari di
polizia.
Il Gip ha respinto la richiesta
di applicazione della misura
interdittiva nei confronti dei
tre magistrati, ma la Procura
salernitana ha già presentato ricorso al Tribunale del
riesame.
Milano, Ciccio Pakistan bussa alla porta
dei servizi sociali È stato vittima di un agguato nel giorno più bello per una famiglia, quando si porta a casa il primogenito
nato da pochi giorni. Era il 31 luglio 2006 e Francesco Pelle (nella
foto, ndr.), detto “Ciccio Pakistan” per il colore olivastro della pelle, veniva colpito da una raffica di colpi mentre si trovava nella
veranda della sua casa ad Africo Nuovo. Dal letto di ospedale si
sarebbe rialzato solo per rimanere su una sedia a rotelle, paraplegico a vita, ma questo non bastò ad allontanarlo dalla faida di San
Luca (che dal 1991 vede contrapposti i Pelle-Vottari contro i NirtaStrangio) e a distoglierlo dall’organizzazione di altri omicidi, tra cui
quello, nel Natale 2006, di Giovanni Nirta, al cui posto morì per
una fatalità la giovane moglie Maria Strangio, madre di tre bambini. L’episodio avrebbe
poi scatenato la strage di Duisburg nel Ferragosto dell’anno dopo.
Arrestato nel 2008 mentre da latitante si trovava ricoverato nel reparto neuroriabilitazione della clinica Fondazione Maugeri di Pavia sotto falso nome (grazie all’appoggio di un
medico compiacente e all’indifferenza di colleghi che non si chiedevano come mai a una
persona “investita da un camion” dovessero essere asportati frammenti di proiettile da
una spalla), ora Ciccio Pakistan (classe 1977) è agli arresti domiciliari a Milano, dopo una
condanna all’ergastolo come mandante della strage di Natale. E chiede aiuto ai servizi
sociali perché non ce la fa più a pagare le bollette. Lui che in clinica, con il nome di Pasqualino Oppedisano, si vantava delle sue ricchezze e proprietà, ora tutte confiscate.
La pratica a fine 2012 era ancora al vaglio degli uffici competenti.
Capodanno di
intimidazioni sui
beni confiscati
Non si fermano gli attentati sui
beni confiscati alle mafie. Al
Villaggio della legalità “Serafino Famà” di Borgo Sabotino,
in provincia di Latina, che da
alcuni anni ospita campi di volontariato e organizza momenti
di formazione per centinaia di
giovani provenienti da tutta
Italia, l’associazione Libera è
tornata a riparare i danni causati
da ignoti che il giorno di capodanno hanno appiccato il fuoco
ai tendoni. Già nell’ottobre del
2011 e nel novembre 2012 la
struttura venne vandalizzata.
Stessa sorte, nella notte del
31 dicembre, per il ristorante
“Nuova cucina organizzata” di
San Cipriano D’Aversa, gestito dalla cooperativa Agropoli.
Quattro colpi di pistola sono
stati esplosi da un’auto in corsa.
Il giorno precedente a Casal di
Principe, nei pressi del Santuario della Madonna di Briano,
si era anche registrato il furto
del monumento al carabiniere
Salvatore Nuvoletta eretto su un
terreno confiscato a Francesco
Sandokan Schiavone, mandante dell’omicidio del militare
appena ventenne.
L’opera, realizzata da Antonio De Filippis e inaugurata
nel settembre del 2009, era
stata donata dalla famiglia di
Federico del Prete, il sindacalista degli ambulanti ucciso a Casal di Principe il 18
febbraio del 2002.
17 | dicembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Coral a Leinì,
applausi
e abbracci
Trattativa
Stato-mafia,
11 rinvii a giudizio
L’ex sindaco di Leinì (To)
Nevio Coral, arrestato nel
giugno 2011 nell’ambito
dell’inchiesta Minotauro che
ha disarticolato 9 locali della
’ndrangheta in Piemonte e
accusato di concorso esterno
in associazione mafiosa nel
processo che si sta tenendo
presso l’aula bunker del carcere delle Vallette di Torino,
è stato calorosamente accolto durante l’inaugurazione
di un asilo nido comunale.
Coral, definito nelle carte
giudiziarie «trait d’union tra
politica, economia e mafia»
ha abbracciato i consiglieri
comunali.
Uno dei tre commissari governativi che dai tempi dello scioglimento del Comune
governano la città, Giovanni
Icardi, per il disturbo arrecato ha faticato per finire di
leggere un documento; Coral ha stretto a sé anche don
Carlo Fassino, il parroco che
da sempre lo protegge dalle
accuse infamanti.
Quattro uomini di Cosa nostra:
Leoluca Bagarella, Totò Riina,
Giovanni Brusca e Antonino
Cinà; tre uomini delle istituzioni: Calogero Mannino,
Marcello Dell’Utri e Nicola
Mancino; tre ufficiali dei carabinieri: Mario Mori, Antonio
Subranni, Giuseppe De Donno; e infine Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco
di Palermo Vito. Stralciata la
posizione di Bernardo Provenzano.
Per tutti gli altri, invece, il
pm Nino Di Matteo, davanti
al gup Piergiorgio Morosini,
ha chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito del processo
per la trattativa Stato-mafia,
sostenendo la tesi secondo
cui «uomini dello Stato trattarono con la mafia in nome
di un’inconfessabile ragion di
Stato». Il patto sarebbe stato
suggellato da ex ministri, con
il tramite di Dell’Utri, per
scongiurare nuovi attentati
in cambio di un ammorbidimento del carcere duro.
Mafia al nord,
omertà nei processi
«Quando, anche per le circostanze emerse nel
dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza,
minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra
utilità, affinché non deponga ovvero deponga il
falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo
del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone
sono acquisite al fascicolo del dibattimento». Il comma 4
dell’articolo 500 è una deroga al principio dell’inutilizzabilità
delle dichiarazioni rese al di fuori del processo, a cui nelle
aule dei processi di mafia che si stanno tenendo nel nord
Italia capita sia necessario ricorrere. È quanto avvenuto per
Redux-Caposaldo, processo contro la famiglia Flachi (nella
foto il boss Giuseppe, oggi ai domiciliari per gravi motivi di
salute, per cui sono stati chiesti 16 anni di reclusione) scaturito a seguito dell’operazione del marzo 2011: 23 testimoni
hanno ritrattato quanto confidato agli investigatori in fase di
indagine, o addirittura negato il contenuto di intercettazioni
telefoniche, e per quattro di loro – titolari di autonegozi vittime di estorsioni – è stato possibile applicare la deroga. Il pm
Storari nel corso della requisitoria ha sottolineato come molti
“paninari” siano vittime impaurite, a cui, per alcuni di essi,
si aggiunge anche la convenienza registrata nell’accettare la
“protezione” da parte della ’ndrangheta: chi pagava vedeva
la sua piazza tutelata dall’arrivo di nuovi concorrenti.
Che le ’ndrine siano un alleato importante lo sottolineano nello
stesso processo anche due dirigenti della Tnt (azienda di spedizioni
i cui vertici erano stati commissariati nel 2011 perché infiltrati dagli
uomini di Flachi attraverso le società Edilscavi e Mfm) chiamati
a testimoniare: «Con l’ingresso di Edilscavi abbiamo diminuito i
mezzi e i costi e abbiamo migliorato la produttività».
Aosta, maxisequestro ai Nirta
Il Tribunale di Aosta ha convalidato lo scorso 11 gennaio il sequestro dei beni di
Giuseppe Nirta, il 60enne di
Quart, attualmente in carcere
a Bologna, dove sconta una
condanna a 7 anni e 8 mesi
inflitta nel 2009 per narco-
traffico internazionale.
Tra i beni sequestrati ci sono
diversi immobili e terreni a
Quart, un magazzino a Charvensod, tre immobili a Bovalino, in provincia di Reggio
Calabria, conti correnti bancari (di cui due in Svizzera)
e autovetture formalmente
intestate ai famigliari.
Il difensore Paolo Pacciani
ha spiegato che la famiglia
Nirta che vive in Valle non
c’entra nulla con le cosche
’ndranghetiste. Il collegio,
nel decreto di sequestro, ha
invece rimarcato «un’accertata sproporzione tra i redditi dichiarati e gli immobili
posseduti» dalla famiglia e
ha disposto il provvedimento
in virtù della «facile dispersione e occultamento» degli
stessi beni.
18 | dicembre 2012 | narcomafie
Infiltrazioni mafiose in Liguria
Svolta a
Ponente
A oltre un mese dall’inchiesta che ha sconvolto il ponente
ligure, la situazione nella regione rimane incerta.
Negli anni la ’ndrangheta ha sviluppato complicità e legami
politici, evidenziati nello scioglimento dei comuni
di Ventimiglia e Bordighera.
Ma il parere favorevole del Consiglio di Stato al ricorso
del sindaco di quest’ultimo crea paradossi e disorientamento
di Stefano Fantino
19 | dicembre 2012 | narcomafie
L’inchiesta “La Svolta” del 3
dicembre scorso, condotta dalla
Dda di Genova, ha colpito al
cuore il locale di Ventimiglia:
affari e traffici illeciti, ma soprattutto presunti contatti con
i politici locali più in vista.
Uno di questi, Armando Biasi,
giovane sindaco di Vallecrosia,
poche settimane dopo l’inchiesta ha dato le dimissioni dalla
poltrona di primo cittadino,
lasciando nell’incertezza, con il
possibile insediamento di una
commissione di inchiesta, il
piccolo comune tra Ventimiglia
e Bordighera, le due amministrazioni sciolte per mafia che
vedono indagati per concorso
esterno in associazione mafiosa
l’ex sindaco Gaetano Scullino e
il city manager Marco Prestileo
la prima, e per voto di scambio
l’ex primo cittadino Giovanni
Bosio la seconda. Bordighera
proprio in questi giorni vive il
suo momento più travagliato: il
Consiglio di Stato ha accolto il
ricorso di Bosio, ma il ministero
dell’Interno si è già detto pronto
a impugnare la sentenza.
L’ombra lunga delle ‘ndrine.
Andiamo con ordine, cominciando da un’operazione epocale che vede una ’ndrangheta
capace di spostare pacchetti
di voti, imporre i nomi dei
candidati alle elezioni, sia di
centrodestra sia di centrosinistra. Parla chiaro l’ordinanza
di custodia cautelare che ha
portato in carcere 11 persone
e che vede indagati altri 17
soggetti. Sarebbe il già noto
Giuseppe Marcianò il capo del
locale di Ventimiglia. Con lui
in manette il figlio Vincenzo e
il nipote, omonimo di quest’ultimo, Omar Allavena, Giuseppe
Gallotta, Antonio Palamara,
Giuseppe Scarfò, Annunziato
Roldi, Federico Paraschiva,
Salvatore Trinchera, Giuseppe
Cosentino, tutti accusati di associazione a delinquere di tipo
mafioso finalizzato all’usura,
all’estorsione e al traffico di
droga. Notificata l’ordinanza
di custodia cautelare anche a
Filippo Spirlì, Rosario Ambesi e ai due fratelli Pellegrino,
Maurizio e Roberto. Nomi già
noti in parte alle cronache giudiziarie.
Nei primi giorni di dicembre
però nei bar e nei negozi del ponente si parla soprattutto di altri
nomi, quelli dei politici. Questi sì che fanno scalpore: l’ex
sindaco di Ventimiglia Gaetano
Scullino, l’ex direttore generale dello stesso comune Marco
Prestileo (accusati di concorso
esterno in associazione mafiosa
e abuso d’ufficio), l’ex sindaco
di Bordighera Giovanni Bosio
e l’attuale sindaco di Vallecrosia – ora dimissionario – Armando Biasi (accusati di voto
di scambio). Alle loro spalle
l’ombra lunga delle ’ndrine
capaci, secondo gli inquirenti,
di portare a buon fine una serie
di ingerenze: il periodo è quello
che va dal 2008 al 2010, nelle
competizioni elettorali. Insomma a Ventimiglia, Bordighera,
Vallecrosia, le ’ndrine avevano
i loro cavalli vincenti e anche
quando perdevano, riuscivano
lo stesso a cadere in piedi. Proprio Peppino Marcianò in una
telefonata a un affiliato afferma:
«Vedi che abbiamo fatto bene
a puntare su […]. Ma se vince
[…] siamo coperti pure». Due
anni di indagini, partite da quei
sintomi che poi portarono agli
scioglimenti amministrativi di
Bordighera e Ventimiglia, disegnano ora la mappa di un
Ponente in cui le ’ndrine avevano la capacità di garantirsi
un’“amministrazione amica”
per entrare da padroni nella
macchina pubblica.
Un blitz in grande stile. L’ultimo tsunami sulla ’ndrangheta
dell’estremo Ponente era arrivato con il movimento vorticoso delle pale di elicottero. Un
atterraggio in grande stile nel
centro della piazza del Comune
di Ventimiglia, circa duecento i
carabinieri impiegati dalla Dda
di Genova. Suggellata da un
lavoro di equipe con la procura
di Reggio Calabria, l’operazione
la “Svolta”, forte del lavoro di
documentazione fornito dai
Carabinieri di Imperia, punta
ai rapporti con la politica del
“locale” di Ventimiglia. Per i
magistrati, nell’ordinanza di
custodia cautelare, la figura di
Peppino Marcianò è quella del
“puparo” che gestisce i suoi
contatti e fa da tramite per le
questioni più disparate, in un
Ponente dove «capita [...] di
vedere sindaci e manager del
Comune che fanno affari con la
società di famiglia, candidati
che chiedono voti e finanzieri
che per un trasferimento sempre a lui si rivolgono, al vecchio burattinaio, che tra i suoi
contatti vanta (o millanta) pure
quelli con un “generale della Finanza”, e con “agenti dei servizi
segreti”». Non bastasse la sfilza
di politici e forze dell’ordine in
amicizia, nell’ordinanza spunta
un particolare agghiacciante,
quando in alcune intercettazioni ambientali si fa riferimento
a un «magistrato di Genova» a
libro paga, un uomo delle istituzioni che per «10mila euro»
è disposto a «vendere i propri
servigi».
20 | dicembre 2012 | narcomafie
Pare scontato,
ma nel 2013
in Liguria per
parlare di mafia
bisogna partire dal
concetto di omertà,
di rispetto, di paura
che alcuni uomini
incutono
nell’ambiente
in cui vivono
Ventimiglia, l’eterno ritorno
di Marcianò. Pare scontato, ma
nel 2013 in Liguria per parlare
di mafia bisogna partire dal concetto di omertà, di rispetto, o
forse meglio di paura che alcuni
uomini incutono nell’ambiente
in cui vivono. Anche senza
sentenze passate in giudicato,
spesso si sa chi rappresenta
che cosa nel territorio. Un’intercettazione telefonica registra
un funzionario di banca: «Mo’
senti questo che è un mafioso
(squillo), mo’ senti come parlo
con i mafiosi (…)». Con queste
parole, rivolgendosi a un col
collega, il funzionario mostrava
di sapere di dover cambiare
registro nel momento in cui
parlava con don Peppino. Leg
Leggiamo nell’ordinanza: «Sentito
successivamente dai Carabinie
Carabinieri riguardo alle ragioni di tale
sua affermazione ha confermato
il suo atteggiamento remissi
remissivo nei confronti dei Marcia
Marcianò in quanto unanimemente
ritenuti“mafiosi” in base alle
conoscenze acquisite dopo il
suo insediamento nella zona».
Forte di questo rispetto diffuso,
il compare Peppino si è dedica
dedicato a quello che meglio sa fare:
offrire cene. Già nei primissimi
anni 80 è noto come sensale
che organizza banchetti per le
visite nell’estremo Ponente di
Alberto Teardo (Psi), che da
presidente della Regione fu al
centro di un’intricata inchiesta
giudiziaria che vedeva corruzione, massoneria e ’ndrine
a giocare sullo stesso tavolo.
Si parla di trent’anni fa. Ora
poco è cambiato. Marcianò
assicurava cene elettorali nel
suo ristorante di Ventimiglia e,
dopo la cessione dell’attività,
aveva trasferito nella sua casa il
suo quartier generale. Secondo
gli inquirenti era a lui che si
rivolgeva la politica in periodo di campagna elettorale, al
punto che oltre a organizzare
cene e incontri, Marcianò e i
suoi “collaboratori” provvedevano anche alla formazione
delle liste inserendo i propri
uomini.
E sempre dalla base di Marcianò, nei mesi scorsi, si muovevano anche le attività illecite del
gruppo. Era quello il luogo preferito dai reggenti delle ’ndrine
ventimigliesi per discutere e
accordarsi. Antonio Palamara
e Giuseppe Marcianò, si incontrano nel bar “Le Volte”, gestito
dalla moglie di quest’ultimo. A
tenere banco, in una giornata
di fine novembre del 2010, è la
notizia dell’agguato a colpi di
fucile che due uomini, il geometra Ettore Castellana e Nunzio
Roldi (questi arrestato a inizio
dicembre), hanno compiuto ai
danni di Piergiorgio Parodi, costruttore imperiese impegnato
nei lavori per il porto di Ventimiglia. I dubbi di Marcianò
riguardano le possibilità che
Castellana, messo sotto torchio
dalle forze dell’ordine, possa rivelare gli interessi delle
cosche calabresi che stanno
dietro all’attentato. «Mo gli
canta tutto quello Castellana
[...] domani … del fatto di qua
che c’è la ’ndrangheta che vuole
entrare nell’affare qua» dice
testualmente a Palamara. Ora
scopriamo che nelle stesse basi
addirittura si organizzavano le
liste elettorali per le elezioni.
Non stupisce affatto che nella relazione riguardante lo
scioglimento del comune di
Ventimiglia si leggesse quanto
segue: «La struttura criminale
operante nel ponente ligure, infatti, pur avendo preso origine
dalla cosca madre operante in
Calabria, adottandone in toto
l’organizzazione, le tradizioni
ed i rituali, si è differenziata
per connotati meno sanguinari
e violenti. Nel corso degli anni,
ha potuto così svilupparsi in
maniera sotterranea, costruendo una ramificazione basata su
complicità, legami parentali e
cointeressenze. Tale situazione ha consentito di ottenere
vantaggi sia come offerta di
posti di lavoro, primo passo
per il controllo del territorio,
sia sotto forma di benefici di
tipo economico mediante l’acquisizione di licenze o autorizzazioni per attività di imprese
in vari settori economici, che
in breve tempo hanno portato
molti calabresi residenti nel
ponente ligure ad arricchirsi
e recitare un ruolo di primo
piano nel panorama dell’economia e della politica locale».
E non stupisce nemmeno che al
centro della relazione ci sia una
ditta, la Marvon, collegata allo
stesso Marcianò, che avrebbe
avuto un trattamento di favore
da parte dell’amministrazione,
guidata da Tano Scullino e dal
commercialista Prestileo, city
manager della città intemelia,
ora entrambi indagati.
Voti gestiti, ma anche timore
da parte della gente come già
sottolineato: dall’indagine emer
emerge anche il potere in città di
Marcianò, in relazione all’arrivo
di tre calabresi della cosca Piromalli a Ventimiglia. Marcianò
nel recarsi in albergo per fissare
alcune camere pretese che non
venissero registrati. E la donna
stessa, interrogata dai Carabinieri a riguardo, ammise di aver
acconsentito perché era notorio
che fosse una persona che «era
meglio non far arrabbiare».
21 | dicembre 2012 | narcomafie
La politica cerca appoggi. «Allora, cosa hai deciso, mi appoggi oppure no?». Non sono le
mafie a bussare al portone, è la
politica a far partire la contrattazione: questa la convinzione
degli investigatori, secondo i
quali il presunto capo della cosca era solito organizzare cene
elettorali nel suo ristorante.
Molta attenzione nello stilare
le liste elettorali facendo caso
a non inserire troppi calabresi
«perché altrimenti – avrebbe
detto, intercettato in un’ambientale – poi se ne accorgono».
Un passo che, sempre secondo
gli inquirenti, rappresenterebbe
un passaggio ulteriore rispetto
al voto di scambio: «Di fatto non
sussiste: in questo caso è stata
operata una costante ingerenza
nel mondo della politica che ha
portato gli indagati a costruire
amministrazioni amiche». Nei
guai non solo Scullino e Prestileo, ma anche l’ex sindaco del
comune bordigotto, Giovanni
Bosio, travolto al suo tempo
dallo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose e
per un trattamento favorevole
alla famiglia Pellegrino, che ne
avrebbe sostenuto la campagna
elettorale per l’elezione. Ora,
come già accennato, Bosio, vive
un paradosso: indagato per voto
di scambio, ha visto il parere
favorevole del Consiglio di Stato in merito al ricorso contro lo
scioglimento del Comune di cui
era sindaco. Secondo la Procura
scambiava i voti con individui
poco raccomandabili, secondo
il Consiglio di Stato la relazione
dell’allora prefetto Di Menna
non era abbastanza robusta per
far sciogliere il Comune. Scioglimento o meno, a badare al
sodo e a non fare preferenze di
campo era il “Locale di Venti-
miglia” che annoverava contatti
se non frequentazioni con tutti
i maggiori esponenti politici del
Ponente. Nella città di confine,
ovviamente, con Gaetano Scullino, ex sindaco di centrodestra,
che, dicono alcuni indagati
intercettati, avrebbe cercato
di limitare le frequentazioni
per non dare nell’occhio. «Il
sindaco m’ha detto, non si può
più Peppino, che se mi vedono
che parlo con voi...» così il
presunto capolocale Marcianò. Di fianco a Scullino il suo
braccio destro, Marco Prestileo,
direttore generale del comune
di Ventimiglia, nonché vero
factotum degli affari che dalla
Civitas, società in-house del comune, arrivavano alla Marvon,
dietro la quale si celava proprio
Marcianò. Un aspetto questo,
che cercheremo di approfondire
più avanti. Dalle carte salta
fuori anche il nome di Eugenio Minasso, deputato Pdl: gli
uomini di Marcianò parlano
di concreti aiuti: «Lo aiutammo, eh eh... – dice Vincenzo
Marcianò, figlio di Peppino –.
Lo abbiamo portato lassù da
Antonio Palamara (altro pezzo
da novanta della ’ndrangheta,
nda), parlarono preoccupati, gli
disse che una sessantina di voti
nella nostra famiglia li avrete».
Che poi sessanta voti siano
pochi o tanti, resta il fatto che
non è questa la prima volta che
qualcuno visita i potenti locali
per un consiglio, un aiuto, una
benedizione. E il colore politico
non c’entra. Le amicizie conducono anche a Marco Bertaina,
ex sindaco e ora vicesindaco
di centrosinistra di Camporosso, tra l’altro attivo in molte
battaglie antimafia ma con cui
il boss ha contatti («Vedi che
l’altro giorno abbiamo parlato
con Marco Bertaina. Io ci sto
dietro, forse dovrebbero prendere un lavoro Dolceacqua...
Poi della Docks Lanterna»). Vi
era dunque una conoscenza al
punto che Marcianò invita una
persona che si era a lui rivolta,
a spendere il suo nome proprio
presso Bertaina, come leggiamo
nell’ordinanza: «Il “patronato”
che Marcianò Giuseppe esercita
di fatto nell’estremo Ponente
Ligure sembra concernere gli
affari più disparati. In un caso,
i familiari della sorella di tale
Morabito Gianni n.m.i., deceduta a Gioia Tauro, hanno chiesto
a Trinchera Salvatore se era possibile tumularla in Camporosso
ove erano stati sepolti altri suoi
congiunti. Trinchera ha chiesto
allora a sua volta a Giuseppe se
avesse delle conoscenze in loco.
Marcianò Giuseppe lo indirizza
dal vicesindaco di Camporosso Bertaina Marco, dicendogli
di “spendere” il suo nome...
[... Marcianò G: si, andate, lo
incontrate gli dite “abbiamo
parlato con Peppino”, vedete
se mi potete...”...]».
E lo stesso Bertaina è colui che
nel 2010 promosse una lista per
le provinciali, schierando Ettore Castellana (già responsabile
dei colpi di fucile all’ingegnere
Parodi, insieme a Nunzio Roldi,
uomo di Marcianò) e Vincenzo
Moio, ex vicesindaco di centrodestra a Ventimiglia e indagato
dalla Dda di Genova. Bertaina è
dietro anche alla lista “Pensionati”, che corse alle regionali
schierando un altro transfugo di
Ventimiglia, Tito Giro, gradito,
si legge nell’ordinanza, sempre
ai Marcianò. E anche se qualcuno da Genova fa la voce grossa,
ad esempio il consigliere regionale del Pd Scibilia, di Ventimiglia, nell’estremo Ponente
Nelle
intercettazioni
ambientali si fa
riferimento
a un magistrato
di Genova
a libro paga:
un uomo delle
istituzioni che
per 10mila euro
è disposto
a vendere
i propri servigi
C’eravamo tanto amati
22 | dicembre 2012 | narcomafie
di Marco Antonelli
e Marco Baruzzo
Il 20 luglio 2011
un’imbarcazione
partita da Santo
Domingo approda
sulle banchine del
porto di La Spezia.
Emerge un quadro
inquietante, in cui
è chiaro che la città
non è immune dalla
morsa di ’ndrangheta e camorra. Cronaca delle operazioni
Caucedo e Hot list
Prendete quattro camorristi salernitani, un boss ’ndranghetista nato
e attivo nell’hinterland di Milano,
un quarantenne di buona famiglia
sarzanese con il vizio di commerci
pericolosi: ecco servita la strana
storia di Giordano Cargiolli, trentanove anni, rampollo di una famiglia
di storici imprenditori, titolari di
un mobilificio importante a Pallerone, nei paraggi di Aulla (Massa
Carrara). Cargiolli è il protagonista
di una delle vicende criminali più
sorprendenti degli ultimi anni. Lo
scenario è la provincia di La Spezia:
angolo di Liguria che non sembra
più Liguria e che non è ancora Toscana. Un corridoio oscuro, dove,
al riparo dai riflettori della grande
comunicazione, si annodano i fili
di molteplici trame criminali.
Giordano Cargiolli si trascina da anni
un vizio: le cronache giudiziarie ne
danno notizia già nel 1994, quando,
ventunenne, finisce nell’elenco degli
arrestati a seguito di un’imponente
opera-zione antidroga condotta dalla
Questura di Genova. Un grande sequestro di ecstasy e molti arresti. Si
trattava solo della premessa.
Crolla il muro. Il 20 luglio 2011
un’imbarcazione partita da Santo
Domingo approda sulle banchine
del porto di La Spezia (terzo in Italia
per traffico di container). Uno stock
apparentemente normale, se non
fosse per quell’unico contenitore,
carico di mattonelle, nel quale i
funzionari della dogana scoprono
una controparete, nascosta da una
specie di paratia: dietro la controparete, un muro alto tre metri di
panetti di cocaina: un chilo e mezzo
l’uno. Il totale è una tonnellata di
polvere bianca, con tanto di marchio, firma di un cartello di narcos
sudamericani.
Come se non fosse stato scoperto
nulla il container viene risaldato,
la parete ridipinta. Il muro di
cocaina riprende il viaggio: prima
dalla Spezia verso Genova, quindi
verso Gioia Tauro, poi ancora verso Genova. I settecentocinquanta
panetti (quasi trecento milioni di
euro il valore stimato) sbarcano
e s’incamminano alla volta di
Aulla, dove un magazzino affittato
per l’occasione deve fungere da
punto logistico.
Ma proprio in quel magazzino,
in realtà da tempo individuato
dalla Guardia di Finanza che
sorvegliavano l’imbarcazione, gli
inquirenti tendono l’inganno ai
trafficanti, il punto culminante
dell’operazione Caucedo: finiscono con le manette ai polsi Giordano Cargiolli, Alfredo Gradisca
(avellinese, trentaquattro anni,
titolare della ditta tedesca Kontelux, cui è intestato il contratto
di affitto del magazzino di Aulla),
Alessandro Bernucci (di Carrara), Juan Carlos Romero Perez
(di Madrid), Juan Pablo Ramirez
Carvajal (di Medellìn, Colombia).
La cocaina viene sequestrata – nel
giro di qualche mese viene inviata all’inceneritore di Livorno,
per sedare sul nascere possibili
tentativi di recupero da parte di
altri clan criminali –. Si tratta di
una delle più grandi partite di
cocaina sequestrate in Italia, la
quarta in Europa: un avvenimento
memorabile.
La magistratura dispone anche il
sequestro di dieci automobili, ma
soprattutto del contenuto di due
cassette di sicurezza intestate alla
mamma di Cargiolli, Georgeta Doxan, romena, titolare di un centro
estetico alla periferia di Sarzana
(Sp): una cifra complessiva che supera il milione di euro, una quantità
di denaro ingiustificabile e sproporzionata al reddito dichiarato
dalla Doxan e dai suoi familiari,
sufficiente per fare scattare l’accusa
di riciclaggio.
La spedizione sarzanese. La vicenda di Giordano Cargiolli sembra
chiudersi qui. Ma il 20 di-cembre
2011, nelle prime ore del pomeriggio, si presenta nel centro estetico
di Georgeta Doxan uno sconosciuto:
risponde al nome di Biagio Nasti.
Ha ventotto anni, viene da Nocera
Inferiore, con qualche piccolo precedente alle spalle. Fissa un appuntamento, per le 19.15 della stessa
sera. Non si presenta però all’orario
stabilito: arriva alle 19.55, quando
il centro estetico sta per abbas-sare
la serranda. Lo raggiunge subito un
altro uomo, anche lui salernitano,
che risponde al nome di Florindo
Auricchio, mentre un terzo uomo,
anche egli salernitano, Gennaro
Alfano, si piazza all’ingresso del
negozio, ostruendolo. Alfano, come
Auricchio, ha qualche precedente
penale.
I tre minacciano la donna: hanno
in mano una lista e sostengono che
l’abbia redatta lo stesso Cargiolli,
dal carcere. È un elenco di oggetti
da ritirare: «Dare zaini, dare un
milione e duecentomila euro, dare
orologi, dare le chiavi del loft». I
salernitani fanno sul serio: «O mi
dà quello che mi deve e che sta
scritto sulla lista oppure per lei
si mette male, perché ho l’ordine
di portarla via. Facciamo parte di
una famiglia calabrese. Ora non
23 | dicembre 2012 | narcomafie
mi sono portato la pistola, se dovessi ritornare le cose si mettono
peggio». La risposta della donna è
pronta, stranamente pronta: dice di
avere già una propria «famiglia». Il
negozio viene messo a soqquadro,
mentre Biagio Nasti, di-mostrando
scarso entusiasmo per l’azione, si
mette a giocare con il cane maltese
di Georgeta Doxan, invece di prenderlo a calci, come avrebbe dovuto
fare secondo i suoi compagni. Poco
professionale.
L’esito della ricerca nel negozio non
è soddisfacente: dietro costrizione,
Georgeta Doxan accom-pagna i tre
salernitani fino a casa propria, a
Luni Mare, frazione di Ortonovo
(SP). Lungo il viaggio le minacce
continuano: Giordano Cargiolli ha
fatto «un grosso sbaglio, un grosso
torto allo zio». Insomma, adesso
deve pagare.
Anche l’appartamento viene rovistato: gli uomini recuperano le
carte che riguardano la vicenda
giudiziaria di Cargiolli, prima di
tutto i verbali di sequestro, se ne
fanno fare delle fotocopie. Cercano soldi, vogliono capire, fra i
beni del Cargiolli, che cosa è stato
sequestrato e che cosa no. Aprono
una cassaforte e si appropriano di
15.000 euro in contanti. «Questi
soldi non li hanno mai trovati» precisa Georgeta. La donna ha capito
che gli altri vogliono delle chiavi:
ne pesca un mazzo a caso, finge
che si tratti del mazzo di chiavi
giuste. I tre salernitani si ritengono
soddi-sfatti.
Lasciano Sarzana, guadagnano
Milano, dove si mettono in cerca
dell’appartamento di Giordano Cargiolli, senza risultati: un portiere
li sorprende mentre vagano fra le
palazzine. Dicono di esse-re i cugini
di Cargiolli e di volersi divertire
con alcune ragazze, in casa del
cugino: il portiere ci crede, ma
non li può aiutare, perché Cargiolli
non si fa vedere da tanto tempo e
il vero padrone dell’appartamento
non c’è.
Uno sgarbo allo “zio”. Il 23 dicembre 2011 Auricchio e Alfano
fanno ritorno a Sarzana: alle 18.45
sono fuori dal negozio di Georgeta
Doxan. Le intimano di uscire, le
mostrano le chiavi: sono quelle
sbagliate, Auricchio dice «loro
[n.d.r. Cargiolli] avevano rubato
allo zio insieme a quel bastardo di
Avellino [n.d.r. Gradisca]… ancora
una volta mi stai a prendere per
il culo». Georgeta riesce fortuitamente ad allontanarsi, appena
il tempo per avvisare la polizia.
Gli agenti giungono sul posto e
trovano Auricchio e Alfano dentro
l’automobile, nascosti goffamente
tra i sedili.
Scattano le indagini: gli inquirenti
ricostruiscono i tabulati telefonici e
gli spostamenti di Auric-chio e Alfano, e da questi emerge il quadro di
un’organizzazione complessa. Chi
ne regge le fila? Secondo la ricostruzione della Squadra Mobile della
Spezia i mandanti rispondono al
nome di Carmine Buonaiuto e Antonio Stagno. Carmine Buonaiuto è
un pluripregiudicato appartenente
al clan camorristico dei Graziano
di Quindici (AV); Antonio Stagno
è uno degli indagati nell’indagine
Infinito, dove è indicato quale referente del locale di ‘ndrangheta di
Seregno, nell’hinterland milanese.
Resta da capire come le storie di
questi criminali si intreccino tra
di loro, ma soprattutto come si
intreccino con quella di Giordano
Cargiolli.
La loro storia comune inizia
nell’estate del 2011 nel carcere
circondariale di Marassi, a Genova,
dove Buonaiuto e Stagno sono compagni di cella. Nello stesso periodo
si trovano a Marassi an-che Giordano Cargiolli e Alfredo Gradisca,
entrambi coinvolti nell’operazione
Caucedo. La vita dietro le sbarre,
per Gradisca, si fa subito difficile:
deve sopportare le pressioni e le
intimidazioni di Carmine Buonaiuto che cerca, attraverso l’estorsione, di farsi risarcire un credito
non meglio precisato. A Milano, il
padre di un compagno di cella di
Buonaiuto cerca di impossessarsi di
un’automobile di lusso intestata a
Gradisca, i cui familiari subiscono
telefonate e visite minato-rie. Nelle
stesse settimane si consuma anche
il tentativo di estorsione ai danni
di Georgeta Doxan. È facile intuire
una spiegazione unitaria.
Forse Cargiolli e Gradisca hanno
contratto un debito con Antonio
Stagno, e questo si serve di Carmine
Buonaiuto e dei suoi uomini per
un vero e proprio recupero crediti:
in altri termini, Stagno “appalta”
a Buonaiuto la riscossione di una
quantità ingente di denaro. È Stagno
lo «zio» calabrese a cui Gradisca e
Cargiolli hanno mancato di rispetto.
Che vi sia forse qualche legame con
l’affare sfumato della tonnellata
di cocaina sequestrata ad Aulla?
O qualche legame fra il denaro
che Stagno cerca di recuperare
e il milione di euro sequestrato
nelle cassette di sicurezza di Georgeta Doxan? Gli inquirenti non
si danno una risposta: per lo meno
non ancora.
Joint-venture mafiosa? Il coinvolgimento diretto di Antonio
Stagno in qualità di mandante e
organizzatore è comprovato da un
elemento emerso nel corso delle indagini: il 19 gennaio 2012
Antonio Stagno incontra Carmine
Buonaiuto e Florindo Auricchio a
Milano. Vuole che i due gli rendano
conto del mancato successo della
spedizione sarzanese: avrebbero
dovuto recuperare mezzo milione
di euro, ne hanno portati a casa
soltanto 15.000. Il luogo dell’appuntamento è tutto particolare: la
sala di accettazione dell’ospedale
San Raffaele, dove Antonio Stagno
aveva prenotato una visita, proprio
per sottrarsi “legalmente” al regime
degli arresti domiciliari.
I capi, Stagno e Buonaiuto, mettono
sotto accusa il comportamento di
Biagio Nasti: dicono che si è messo
Giordano
Cargiolli ha fatto
«un grosso sbaglio,
un grosso torto
allo zio».
Adesso deve
pagare.
L’appartamento
viene rovistato:
gli uomini
recuperano
le carte che
riguardano
la sua vicenda
giudiziaria, i verbali
di sequestro dei
beni e ne fanno
fotocopie
24 | dicembre 2012 | narcomafie
I tre esecutori
materiali del
tentativo di
estorsione hanno
dichiarato di
appartenere a una
famiglia calabrese
facendo in questo
modo valere una
sorta di vincolo
intimidatorio
«a fare le scemitaggini col cane»,
compromettendo il buon esito
dell’estorsione. Buonaiuto, per non
sfigurare davanti a Stagno, è costretto a schiaffeggiare Auricchio,
che non ha vigilato abbastanza.
Una questione di gerarchia.
Nelle settimane successive il gruppo si sfalda: Biagio Nasti capisce
di dover cambiare aria, sa che i
compagni se la prenderanno con
lui. «Tu sei un maccherone», gli
dicono, e non è un com-plimento.
Non fa in tempo ad allontanarsi dal
giro, perché, all’inizio di giugno,
viene fermato insieme a tutti gli
altri membri dell’organizzazione:
il Gip di Genova ha dato via libera
all’ordinanza di custodia cautelare
su richiesta della Dda e della Squa
Squadra mobile spezzina. È già scattata
l’operazione Hot list.
Fra i capi d’imputazione non c’è il
reato di associazione a delinquere
di stampo mafioso, anche se il
416 bis era stato richiamato dalla
Squadra mobile nella richiesta di
emissione delle ordinan-ze di cu
custodia cautelare in carcere. Niente
mafia, allora? Non proprio.
Il Gip parla di una «sussistente
aggravante del metodo mafioso»:
non solo i tre esecutori materiali
del tentativo di estorsione han
hanno dichiarato di appartenere a
una famiglia calabrese – facendo
in questo modo valere una sor
sorta di vincolo intimidatorio – ma
i loro stessi mandanti sono già
riconosciuti come esponenti di
organizzazioni di stampo mafioso. Organizzazioni diverse – per
Buonaiuto la camorra, per Stagno
la ’ndrangheta – che in provincia
della Spezia lavorano insieme per
far convergere i propri interessi
criminali. Non si tratta solo di una
collaborazione esteriore, ma di una
vera e propria fusione: condividono
interessi, manodopera e modalità.
Due “imprese” che costituiscono
un corpo solo: una sola testa, una
sola mano, da Milano a Salerno,
passando per Sarzana.
c’è chi si scusa per lui. Come
lo zio di Scibilia, Giovanbattista che incontrato il Marcianò
fa apologia per il nipote: «Ha
chiacchierato di nuovo. Io gli
dicevo “piantala”...».
Uffici tecnici e scatole cinesi. Tanta diplomazia, ma
il “sensale” Marcianò faceva
anche affari? Tralasciando
gli illeciti di cui lui e i suoi
sodali si occupavano con sollecitudine, secondo gli investigatori della Dda, Marcianò
avrebbe controllato appalti
e servizi pubblici nella città
di Ventimiglia, mediante la
cooperativa sociale di tipo
B “Marvon”, non intestata
a lui, anche se da tempo le
indagini hanno rivelato che il
vero direttore d’orchestra era
il presunto capo-locale Marcianò. Già nei dossier riservati che lo scorso anno erano
stati inviati dalla prefettura di
Imperia al ministero dell’Interno si diceva, di Marcianò:
«Punto di riferimento per la
locale malavita calabrese nel
ponente ligure».
«Con la società Marvon – scrive la Prefettura –, intestata
alla moglie Angela Elia, si
è inserito nell’ambito dei
lavori del costruendo porto
di Ventimiglia». In questo si
inserisce l’accusa di abuso
d’ufficio all’ex sindaco intemelio Gaetano Scullino e al
suo braccio destro Prestileo:
l’aver ricondotto alla Marvon
la grande maggioranza degli
appalti che veniva pilotati
sapientemente tramite la Civitas, una società in-house
del Comune, che riusciva, di
fatto, a favorire la cooperativa gestita indirettamente da
Marcianò. Durissima l’ana-
lisi sulla società da parte dei
magistrati della Distrettuale
Antimafia di Genova: «La società appare una scatola vuota,
in quanto svolge attività che
avrebbero potuto essere gestite
come in precedenza dall’ufficio tecnico comunale e, come
si è innanzi avuto modo di
illustrare, viene usata dagli
amministratori e dal direttore
generale come polo di consensi e strumento operativo per
perseguire i propri interessi, al
di fuori delle limitazioni e dei
25 | dicembre 2012 | narcomafie
controlli propri dell’attività
amministrativa pubblica, a cui
avrebbe dovuto conformarsi il
Comune in caso di gestione
diretta, e ciò anche al fine di
favorire società collegate con
la criminalità organizzata».
Non serve aggiungere molto
altro per capire quanto addentro fossero i tentacoli della
locale intemelia nel palazzo
comunale. Ma un particolare
lo aggiungiamo. Tra gli arrestati figura Omar Allavena,
vigile urbano in forza alla
compagnia di Vallecrosia. Indagato per concorso interno
in associazione mafiosa, il
figlio Jason, 34 anni, è geometra presso l’ufficio tecnico comunale. Un posto di
privilegio che – si nota dalle
intercettazioni – veniva speso
dal padre presso il boss per
avere continui aggiornamenti
su appalti e lavori in progettazione in Comune.
Nuvole all’orizzonte. Meno
navigato politicamente rispetto ad altri colleghi, ma
ugualmente indagato, il giovane sindaco di Vallecrosia
Armando Biasi che in un primo momento si era detto tranquillo e pronto a collaborare:
«Nella dinamica del controllo
che ormai da due anni c’è
sul territorio per la verifica
delle presenze mafiose, credo
che sia opportuno e legittimo
che ci siano delle verifiche
anche nel nostro Comune,
visti gli arresti che ci sono
stati, proprio nel territorio
di mia competenza. Ho totale
fiducia nella Giustizia e, se
fosse necessario, sono pronto
anche a dimettermi, per garantire un maggiore controllo».
Passata qualche settimana,
per difendere «l’onorabilità della sua famiglia» aveva
presentato dimissioni irrevocabili. L’accusa è di voto di
scambio. Nella cittadina di cui
Biasi era sindaco, Marcianò
e la sua cricca sostenevano
addirittura due concorrenti,
per non rischiare: il primo
era lui, Armando Biasi, il
secondo Roberto Politi, che
aveva espressamente cercato
i voti del boss. C’è infatti chi
non viene scelto, ma cerca i
piaceri del boss. È il caso del
padre della poi eletta consigliera comunale Francesca Seva,
estranea all’indagine, che in
un’intercettazione rivela anche
aspetti interessanti legati alla
composizione delle liste:
Antonio Seva: «[...] vi volevo
dire una cosa, se mi potete
dare una mano Peppino, poi...
Francesca si è messa in lista
con Armando (Biasi ndr)».
Marcianò: «Me l’ha detto, me
l’ha detto. E meno male che
l’hanno messa loro, e che hanno messo tre quattro di qua,
ma siamo stati noi che abbiamo fatto forza Antonio!».
Seva: «Sì?!»
Marcianò: «Che non volevano tutti calabresi, andando a
finire come Bordighera alla
fine, avete capito? Invece ora
hanno nominato cinque di
qua, qua […]».
Insomma non esagerare coi
calabresi, altrimenti si dà
nell’occhio. Però, per volantinare, qualche compare può
sempre andare bene. Vale la
pena, a riguardo, di ricordare un episodio di quasi due
anni fa: l’arresto di Michele e
Alessandro Macrì, rispettivamente padre e figlio, il primo
originario di Cinquefrondi
(Reggio Calabria), il secondo
nato a Bordighera ed entrambi
residenti a Vallecrosia. I due,
trovati in possesso di armi, e
ritenuti contigui ad ambienti
della criminalità organizzata
calabrese. avrebbero dovuto
compiere un omicidio dimostrativo per salire di rango
all’interno della mafia locale.
Gli stessi Macrì che durante
la campagna elettorale volantinavano nella loro cittadina
per il candidato sindaco, poi
eletto, Biasi, ora indagato dalla procura di Genova.
Riattivare il
lavoro: mettici
la firma
di Maurizio Bongioanni
l’antimafiacivile
cosenostre
26 | dicembre 2012 | narcomafie
«Con la mafia almeno si lavora». Spesso si ascolta questa
drammatica affermazione da
chi si è ritrovato senza lavoro
dopo che attività produttive
controllate dalle mafie sono
state sequestrate dallo Stato e
sono rimaste chiuse. Le carenze dell’attuale legislazione e
l’assenza di un ruolo forte da
parte del Governo rischiano
di compromettere il lavoro
di repressione e di confisca
dei beni mafiosi messo in atto
dalle forze dell’ordine, dalla
magistratura, dalle organizzazioni della società civile
e dalle cooperative di giovani, rafforzando la criminalità
organizzata il cui consenso
deriva proprio dalla capacità di garantire un lavoro
in territori ad alto livello di
disoccupazione.
Per questo motivo la Cgil ha
lanciato la campagna “Io riattivo il lavoro”, condivisa
con un ampio gruppo di associazioni tra le quali Arci,
Avviso pubblico, Libera, Centro Studi Pio La Torre, Acli,
Lega Coop, Anm. La raccolta
firme è finalizzata a colmare il vuoto legislativo per il
riuso sociale delle aziende
sequestrate e confiscate alla
criminalità organizzata, una
proposta di legge di iniziativa
popolare con l’obiettivo di
sollecitare le forze politiche
per un impegno concreto a
sostegno di queste realtà. «A
trent’anni dall’approvazione
della legge Rognoni-La Torre
(che nel 1982 introduceva
la confisca dei beni mafiosi,
nda), e a quindici anni dalla
legge 109/96 che ne costituisce l’evoluzione, ci siamo
convinti – ha detto Luciano
Silvestri, responsabile sicurezza e legalità Cgil – che
era compito e responsabilità
della Cgil dare concretezza
a un’iniziativa politica presentando una legge di iniziativa popolare con la quale
risolvere i problemi di mal
funzionamento dell’Agenzia
nazionale beni sequestrati e
confiscati (Anbsc) e di assenza di un’azione appropriata
del governo».
«I dati che descrivono la situazione – continua Silvestri
– dei beni e delle aziende
sequestrate e confiscate richiamano infatti l’urgenza di
una iniziativa politica volta
a cambiare radicalmente il
destino delle attività e dei
lavoratori coinvolti».
Ecco i dati di cui parla Silvestri. Le mafie fatturano nel nostro paese più di 170 miliardi
l’anno. L’economia sommersa, la pervasività mafiosa,
il malaffare e la corruzione
hanno un costo pari a circa il
27% del Pil nazionale (fonte
Istat). Le aziende confiscate
sono attualmente 1.636 ma il
numero dovrebbe essere dieci
volte maggiore. I settori produttivi più interessati dalla
criminalità organizzata sono
quello terziario (45% delle
aziende confiscate), l’edilizia (27%) e l’agroalimentare
distribuite prevalentemente
in Sicilia (37%), Campania
(20%), Lombardia (12%), Calabria (9%) e Lazio (8%). Allo
stato attuale a fallire è circa il
90% delle attività produttive
oggetto di un provvedimento
di confisca.
Tra le proposte della legge c’è
in primis la tutela dei lavoratori di aziende confiscate
nell’accesso agli ammortizzatori sociali (cancellati dalla recente riforma Fornero)
attraverso il reinvestimento
della liquidità sequestrata in
confiscate con l’obiettivo di
rilanciarle definitivamente
nel sistema economico attraverso un complesso di interventi tra cui una premialità
fiscale per chi investe in queste aziende, la creazione di
una white list per garantire il
massimo livello di trasparenza delle informazioni sin dal
primo momento successivo
al sequestro, l’istituzione di
un Ufficio Attività produttive
e sindacali presso l’Anbsc
e di Tavoli Provinciali permanenti.
«Combattere l’illegalità economica significa prima di tutto aggredire i patrimoni della
criminalità organizzata – conclude Silvestri – e restituirli
alla collettività ponendoli
alla base della costruzione di
nuove relazioni economiche
sane e legali, che pongano il
lavoro e la dignità delle persone al centro di un nuovo
percorso di riscatto civile e
sociale. Solo in questo modo
il nostro paese può gettare
le basi per uscire dalla crisi
economica in cui versa».
A Firenze, per ricordare
le vittime delle mafie
“Semi di giustizia, fiori di corresponsabilità” è lo slogan della XVIII
Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle
mafie, organizzata da Libera e da
Avviso Pubblico: l’appuntamento
per onorare il ricordo delle oltre
900 persone – ma di molte altre
non si conosce ancora il nome – che
sono state uccise dalle mafie. Dopo
gli ultimi appuntamenti milanese
(2010), potentino (2011) e genovese
dello scorso anno, l’edizione del
2013 si svolgerà a Firenze, per commemorare il ventennale della strage
di via dei Georgofili, quando il 27
maggio una bomba esplose ferendo
quarantuno persone e uccidendone
cinque, evento terrificante della stagione stragista italiana; per onorare
l’impegno del magistrato Antonino
Caponnetto ideatore del pool antimafia, che morì nel capoluogo
toscano il 6 dicembre 2002.
La frase scelta per caratterizzare
l’evento esorta a confezionare fiori
di carta sui cui petali scrivere il
nome di una vittima di mafia che
si vuole idealmente adottare. In
questo modo la piazza si riempirà
di fiori colorati e da lì si ripartirà
per rinnovare il proprio impegno.
Ci si stringerà intorno ai famigliari
delle vittime, che come ogni anno
saranno in testa al corteo, portando
le foto dei propri cari.
La manifestazione si svolgerà il 16
marzo, un sabato – come consuetudine da qualche anno a questa
parte – per garantire una massiccia
adesione, ma Libera invita tutti i coordinamenti territoriali a replicare la
giornata sui propri luoghi, giovedì 21
marzo. Questa è infatti la data in cui
si celebra la Giornata della memoria,
primo impegno assunto da Libera per
ricordare tutti coloro che sono caduti
sotto la violenza mafiosa.
Sul sito www.libera.it sono disponibili tutte le informazioni sul programma e le adesioni; sono inoltre
consultabili due proposte propedeutiche alla partecipazione alla
Giornata della memoria: il concorso
“Regoliamoci” progettato in forme
diverse per le istituzioni scolastiche
di ogni ordine e grado; il bando di
concorso relativo al Premio Pio La
Torre, in relazione al lavoro svolto
sui beni confiscati alle mafie e al
loro riutilizzo sociale.
Per ulteriori chiarimenti e richieste è
possibile inviare una e-mail all’indirizzo [email protected]
Marika Demaria
l’antimafiacivile
un fondo ad hoc per garantire,
oltre che maggiori tutele ai
lavoratori stessi, il credito
alle banche. In secondo luogo la creazione di un fondo
di rotazione che permetta
l’emersione alla legalità di
queste aziende e delle posizioni lavorative irregolari
per favorire la creazione di
un posto di lavoro dignitoso
anche attraverso un adeguato percorso di formazione
e aggiornamento. Infine il
sostegno alla ristrutturazione
e riconversione della aziende
cosenostre
27 | dicembre 2012 | narcomafie
28 | dicembre 2012 | narcomafie
Le esequie
di Giuseppe Ercolano
Il rispetto
oltre la morte
I funerali di mafia sono la sintesi della potenza dei boss.
A Catania la morte di Pippo Ercolano, cognato di Nitto
Santapaola, e suoi funerali riaprono uno spaccato della città
legato al quotidiano «La Sicilia» e al suo editore Mario
Ciancio Sanfilippo. I funerali e i necrologi di Cosa nostra,
il fastoso ultimo saluto di Ercolano
di Dario De Luca
29 | dicembre 2012 | narcomafie
Un male incurabile, il cancro, lo ha condotto lentamente alla morte. Giuseppe
Ercolano è morto il 29 luglio
scoroall’età di 76 anni. Era
conosciuto con il diminutivo
di “U zu Pippu”, a dimostrazione di un discutibile
rispetto che si era guadagnato
in “forma acquisita”. Ercolano aveva infatti sposato
Grazia Santapaola, sorella
del sanguinario boss di Cosa
nostra Nitto Santapaola e
capo dell’omonima famiglia
catanese. Un matrimonio
che gli permise di stringere
alleanze con l’importante
famiglia mafiosa.
La carriera criminale. Pippo Ercolano fu arrestato
per la prima volta nel 1992
nell’ambito dell’operazione
antimafia “Orsa Maggiore”,
la prima che decapitò con
154 ordinanze Cosa nostra
catanese. Nel blitz scattato
dopo le dichiarazioni dei
pentiti Maurizio Avola e
Claudio Severino Samperi,
fu arrestato anche il cognato
Benedetto “Nitto” Santapaola. Condannato a dodici
anni di reclusione per associazione mafiosa, Ercolano
tornò in libertà nel 2004;
l’anno successivo fu nuovamente arrestato con l’accusa
di estorsione, ma ottenne la
scarcerazione dal tribunale
del Riesame. Le manette ai
polsi scattarono per l’ultima
volta nel 2010, nell’ambito
dell’operazione “Iblis”, che
vede coinvolti in prima persona l’ex governatore della
Sicilia Raffaele Lombardo e
il fratello Angelo, deputato
del Movimento per le autonomie.
Il figlio e il nipote di Pippo
Ercolano hanno seguito le
orme malavitose del boss.
Il primo, Aldo Ercolano, riuscì a fuggire al blitz “Orsa
Maggiore” ma fu arrestato
due anni dopo, nel 1994.
Sulle sue spalle pesa l’omicidio, avvenuto il 5 gennaio
1984, del giornalista catanese
Giuseppe Fava, eseguito su
mandato di Nitto Santapaola. Fava era un personaggio
“scomodo”, quotidianamente
impegnato con la sua rivista,
«I Siciliani», a contrastare
Cosa nostra e la zona grigia
composta dai Cavalieri del
Lavoro. Al nome di Aldo
Ercolano sono legate anche
le bombe posizionate davanti
al supermercato “Standa”
di Catania e decine di altri
omicidi in un lungo periodo
in cui occupò il ruolo di
reggente dell’intera famiglia.
Il nipote Angelo Ercolano,
incensurato, si è invece dedicato ai settori della grande
distribuzione e degli autotrasporti. Figlio di Giambattista
Ercolano, arrestato per mafia
e scarcerato nel 1998 per
“insufficienza di prove”, nel
settembre 2009 fu nominato
presidente della Fai (Federazione autotrasportatori
italiana) di Catania. Angelo
Ercolano è inoltre a capo
della società “Sud Trasporti
S.r.l.”, fondata dal padre, che
si occupa proprio di trasporti
in tutto il territorio italiano.
Una passione, quella per le
vie di comunicazione, ereditata proprio dallo zio Pippo,
che vantava la gestione monopolistica dei trasporti nel
porto di Siracusa e in giro
per l’Italia, oltre ad essere
il titolare – attraverso un
prestanome – della catena
di supermercati “Superesse”.
Ad essere attirato dal settore
trasporti anche un altro Ercolano: Vincenzo detto “Enzo”,
figlio del boss Pippo, al vertice della “Geotrans Trasporti
s.r.l.” e recentemente assolto
dall’accusa di associazione
di stampo mafioso.
Il nodo mafia-informazione. A dare l’ultimo saluto al
boss di Cosa nostra ci hanno
pensato decine di parenti e
amici, stretti dentro la “Tenda
Ulisse” messa a disposizione direttamente dalla curia
di Catania per le esequie e
l’omaggio finale. Tra auto
di grossa cilindrata e letture durante la messa di dubbia valenza etica e morale,
il passaggio del feretro del
boss è stato accompagnato da
venti corone di fiori, trasportate dalla ditta D’Emanuele.
Quest’ultima, di proprietà di
Sebastiano e Natale Santapaola, cugini del boss Nitto, era
finita al centro dell’operazione antimafia “Cherubino” che
nell’aprile 2010 smantellò il
monopolio del clan nel settore delle onoranze funebri
a Catania. La Dia sequestrò
Parenti e amici,
stretti dentro la
“Tenda Ulisse”
messa a
disposizione
dalla Curia
di Catania per le
esequie. Tra auto
di grossa cilindrata
e letture, durante
la messa, di dubbia
valenza etica e
morale, il passaggio
del feretro
del boss è stato
accompagnato da
venti corone di fiori
30 | dicembre 2012 | narcomafie
inoltre beni alla famiglia per
dieci milioni di euro. Le dimostrazioni di affetto e stima
nei confronti della famiglia
mafiosa non si sono registrate
solo nel corso dei funerali di
Giuseppe “Pippo” Ercolano.
Sulle pagine de «La Sicilia»
del 31 luglio sono comparsi
diversi necrologi in ricordo
del defunto mafioso. A darne
il triste annuncio – si legge
– sono la moglie, i nipoti e
i figli, tra cui proprio Aldo,
l’ergastolano. Quest’ospitalità offerta dal quotidiano
di Mario Ciancio spiega ulteriormente perché, in occasione del trigesimo dell’omicidio di Giuseppe Montana,
commissario della squadra
mobile di Palermo ucciso il
28 luglio 1985, la richiesta
di un necrologio avanzata
dalla famiglia fu respinta.
Secondo l’editore, il testo
del necrologio “La famiglia
con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il
sacrificio di Beppe Montana, commissario Polizia
di Stato, rinnovando ogni
disprezzo alla mafia e suoi
anonimi sostenitori”, conteneva «presunte illazioni».
Ma il legame tra gli Ercolano
e Ciancio affonda le radici
anche in un altro episodio,
oggetto di alcuni rapporti
dei Carabinieri e inserito in
numerosi atti giudiziari. Un
giorno, proprio negli uffici
di Ciancio si presentò Pippo
Ercolano, su tutte le furie:
sulle colonne di un articolo
pubblicato sul quotidiano il
giorno prima, era stato definito “boss mafioso”. L’editore – come racconta anche il
giornalista Claudio Fava in
un datato pezzo dei «Nuovi
Siciliani» – chiamò dunque
il capo cronista Vittorio Consoli e Concetto Mannisi, il
cronista autore del pezzo,
e li rimproverò davanti al
boss. Congedandoli li invitò
a non indicare più nei pezzi
il signor Giuseppe Ercolano e
nessun altro della sua famiglia con tale appellativo. Due
avvenimenti, documentati,
finiti agli atti dell’inchiesta
su Mario Ciancio e alla relativa contestazione del reato
di concorso esterno in associazione mafiosa. Indagine,
questa, per cui la Procura
di Catania ha recentemente
chiesto l’archiviazione, ma
sulle cui sorti peserà la decisione finale del gip Luigi
Barone, lo stesso che senza
remore ha disposto l’imputazione coatta per concorso
esterno in associazione mafiosa per Raffaele e Angelo
Lombardo.
Anche questo dà la dimensione del potere degli Ercolano
a Catania. Proprio come le
celebrazioni dei funerali di
Pippo Ercolano.
spiegato Gigi Cuomo responabile
Sos Impresa Campania –. Le
minacce sono continuate anche
pochi giorni prima che tentasse
il suicidio. Questo è sicuramente
un elemento fortemente negativo e preoccupante. Primo per
la morte dell’imprenditore, poi
per gli effetti che ci saranno nel
tessuto locale. Il messaggio della
Camorra è che tutti gli cingalesi che hanno attività imprenditoriali , devono subire e in
silenzio, così come hanno fatto
prima della denuncia di Nando».
Napoli e Roma, secondo l’ultimo rapporto di di Sos Impresa
vengono considerate capitali
dell’usura.«Questo terribile suicidio – continua – getta sicuramente sconforto e paura anche
nei confronti degli altri imprenditori che vogliono denunciare.
Io credo che una comunità importante come quella cingalese,
difficilmente, darà vita ad altre
forme di denuncia di questo tipo.
E, mi dispiace dirlo, in questo la
Camorra ha vinto cento a uno.
Poi, mi preoccupa il fatto che
qualcuno non attribuisce questa
vicenda a opera della Camorra,
cosa che in realtà è stata palese
già dal primo momento».
Gli arresti, infatti, hanno condotto a personaggi noti nel panorama camorristico. Lepre, Testa e
Domizio, dopo la denuncia di
Nando erano stati chiusi nel
carcere di Secondigliano. Ciro
Lepre è a capo dell’omonimo
clan operante nella zona di Napoli a ridosso di piazza Dante e
via Salvator Rosa.
Elemento di spicco del clan Mariano, dalla seconda metà degli
anni 90, divenne il capostipite
del nuovo legame criminale.
Gianluca Testa, pluripregiudicato, è ritenuto un elemento
di spicco dell’organizzazione.
Roberto Domizio, pluripregiudicato per reati contro la persona,
il patrimonio e gli stupefacenti
è ritenuto legato a Francesco
Bara, referente per la zona Sanità
del clan Lo Russo. «La crisi –
conclude Cuomo – ha prodotto
un doppio effetto. Per quanto
riguarda il fenomeno dell’usura
ad esempio, a Napoli città si è
verificato uno strano sistema.
Sembra che nelle microimprese
il fenomeno si è ridotto, proprio
perché le vittime non riescono a trovare vie di fuga e gli
usurai sono preoccupati del
rientro. In provincia la situazione è diversa. Ad esempio, al
nostro numero verde di Quarto
e Pozzuoli, Castellammare, gli
imprenditori che dicono di avere subito estorsione o usura sono
tanti, ma poche si tramutano in
denunce. Per quanto riguarda
le estorsioni, la Camorra ormai si è adattata ai tempi della
crisi e spesso permette pure
di posticipare qualche rata nei
pagamenti».
Storie di chi si ribella ogni giorno
«Io li denuncio e li faccio arrestare. Non torno nel mio Paese».
Si chiamava Fernando Joseph
Sumith, era un imprenditore
34enne di origine cingalese.
Viveva nel rione Sanità a Napoli insieme con la moglie e
due bambini. Nel capoluogo
campano, capitale dell’usura,
l’imprenditore ha aperto quattro
attività: due alimentari e due
internet-point, una nel quartiere San Carlo Arena e tre in
zona Dante. Aree controllate
dalle organizzazioni criminali.
Gli affari funzionavano; fino ad
aprile 2012, quando la Camorra
chiede il doppio pizzo, perché
le attività di Nando occupano
due quartieri diversi. Finisce
nelle mani degli usurai e poi
del racket delle estorsioni, ma
denuncia e fa arrestare i cravattari. È aprile 2012. Qualche mese
dopo, a novembre, pochi giorni
prima del processo, non regge il
trauma e si suicida. Un “eroe”,
lo definiranno in molti; il corpo
di polizia gli aveva consegnato
anche un premio. Grazie alla
denuncia Nando era riuscito a
mandare in carcere il boss del
quartiere Cavone, Ciro Lepre,
detto o’ sceriffo, e due suoi complici. Al centro delle indagini
della Dda di Napoli le richieste di
pizzo a commercianti e imprenditori in occasione delle festività.
«Questo giovane imprenditore è
stato pesantemente colpito – ha
di Laura Galesi
Imprenditore
cingalese: denuncia
non vana
nuoveresistenze
resistenze
31 | dicembre 2012 | narcomafie
dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale
a cura di Marcello Ravveduto
32 | dicembre 2012 | narcomafie
Il pendolo delle mafie
Vi siete mai imbattuti in un “cri
“criminal network”? No, non è un
gruppo musicale, sono le pagine
web dei social network dedicate
alle mafie. Attenzione, non si
tratta di materiali multimediali
dai contenuti edificanti, sono
vere e proprie apologie della cri
criminalità. L’invasione barbarica
viaggia su Facebook. Userò come
esempio un episodio accaduto
nel marzo 2010. Un ragazzino
di 12 anni aveva conquistato
gli onori della cronaca per aver
creato un gruppo aperto dal titolo
significativo: A’ Scission Ro Rion
che, tradotto in italiano, è “La
scissione del rione” (lo slogan
è scritto in un dialetto parlato
che ignora la lingua napoletana).
L’intestazione era didascalica,
si atteneva indubbiamente alla
sequela di morti ammazzati che
hanno bagnato di sangue le strade
di Scampia. Quando la notizia
dell’esistenza di un simile gruppo
(o piuttosto clan virtuale?) diven
diventò di dominio pubblico, attraverso
un articolo di stampa e un servi
servizio televisivo, gli amministratori
del social network lo censuraro
censurarono; intanto aveva raccolto quasi
5mila fan. I link postati erano di
questo tipo: “meglio morto che
pentito, i pentiti sono guappi di
cartone che hanno paura della
galera” (ritornello della canzone
neomelodica Femmena d’onore interpretata da Lisa Castaldi,
la cui versione maschile è stata
cantata da Zuccherino – in attesa
di giudizio per traffico di droga
– con il titolo di “Pentito”); “meglio disoccupato che servo dello
stato” (riferendosi a una fotografia
che ritraeva alcuni carabinieri).
Preso dalla furia comunicativa
il ragazzino aveva voluto fare il
gradasso pubblicando il link: “È
una masseria senza capo”, per
sottolineare il vuoto di potere
al rione Masseria Cardone (uno
dei rioni dell’area nord di Napoli
dove è stato assassinato il giovane
e innocente Pasquale Romano).
Ma a questo punto il dodicenne
si era reso conto di aver “pisciato”
fuori dal vaso: tra i commenti ve
ne era uno firmato da un tal Enzo
Licciardi (il cognome è uno di
quelli storici tra i clan dell’Alleanza di Secondigliano) che gli
consigliava di continuare a fare
il ragazzino, altrimenti avrebbe
dovuto assumersi la responsabilità di ciò che stava scrivendo.
Minacce online? No, di più: gli
affiliati del clan seguivano il
magmatico mondo di Facebook
e lo utilizzavano per intervenire
con messaggi espliciti e diretti.
Ho voluto raccontare questa storia
perché non mi piace il moto di
meraviglia di alcuni opinionisti
quando scoprono che anche i
criminali usano i social network
e internet in genere. Dietro la
sorpresa si nasconde la supposta
e falsa convinzione che i mafiosi
siano analfabeti digitali. Tale per
persuasione è del tutto simile a quella
dello stereotipo che relegava le
mafie in una condizione di primitivismo ancestrale incapaci di
adeguarsi ai ritmi del progresso.
Insomma la vulgata che voleva
i mafiosi con la coppola storta e
la lupara, i camorristi criminali
plebei e gli ’ndranghetisti pastori
violenti. Invece, le criminalità
organizzate autoctone hanno dimostrato nel corso di duecento
anni di avere una caratteristica
strutturale comune: l’adattabilità
contestuale. Una qualità che può
essere paragonata al movimento
di un pendolo che oscilla perennemente tra arcaismo e moder-
nità. Nell’arco dell’evoluzione
mafiosa le peculiarità di una fase
storica sono state trasportate in
quella successiva, realizzando
una coesistenza di permanenze e
trasformazioni che amalgamano
innovazione e tradizionalismo.
Le mafie, oscillando come un
pendolo, entrano in contatto con
le molteplici sfaccettature del prisma sociale assorbendole senza
eliminarle, alternandole senza
escluderle. Così come hanno coniugato monarchia e repubblica,
stato e società, potere e consenso,
ordine e disordine, centralismo
e decentramento, unità e frammentazione, campagna e città,
latifondo e quartiere, borghesia e
plebeismo, alfabetismo e analfabetismo, cultura classica e cultura
popolare, beni materiali e beni
immateriali, pubblico e privato,
monopolio e mercato, capitalismo e mercantilismo, industria e
commercio, produzione e distribuzione, holding e franchising,
allo stesso modo hanno saldato
reale e virtuale; anzi per le nuove generazioni di nativi digitali
criminali non esiste separazione
tra reale e virtuale. Nella rete si
trasportano le “gesta” dei clan in
forma di suggestione mitopoietica
massificata. I giovani che danno vita ad un criminal network
appartengono alle stesse classi
sociali dei devianti concreti. La
mentalità mafiosa, in tal senso,
è un potente fattore che unifica
mondi dialoganti: l’acculturazione digitale viene metabolizzata
sotto forma di subcultura criminale. Sembra un fenomeno paradossale, ma anche chi ha difficoltà
a esprimersi in italiano usa il web
per veicolare e imporre, con il linguaggio dell’avvertimento mafioso,
il proprio stile di vita.
33 | dicembre 2012 | narcomafie
Spagna
inchiesta
Un’analisi delle principali forme di criminalità organizzata
e uno studio di caso: i lancheros, gruppi autoctoni che, per
mezzo delle proprie imbarcazioni (lancha), a partire dagli anni
Ottanta avviarono un’intensa attività di narcotraffico in una
delle regioni più povere della penisola iberica, la Galizia. Dal
contrabbando di tabacco al redditizio traffico di droga: la trasformazione fu possibile anche perché lo Stato, uscito dall’era
franchista, per troppi anni ha evitato di esercitare un’efficace
attività di contrasto, incentivando di fatto numerosi esponenti
delle principali organizzazioni mafiose mondiali a stabilirvisi.
Le inchieste giudiziarie hanno squarciato la coltre di connivenze e, solo da qualche anno, la Spagna non rappresenta più
il buen retiro di faccendieri e narcotrafficanti, tra cui numerosi
camorristi. Ma le occasioni di riciclaggio sono ancora un fattore
di forte attrazione
34 | dicembre 2012 | narcomafie
L’avanzata
dei lancheros
Anello di congiunzione da una sponda all’altra dell’oceano Atlantico,
i trasportatori galiziani, detti lancheros, hanno costituito l’ossatura
del contrabbando di sostanze illecite nel nord-ovest della Spagna.
Liberi di agire grazie a leggi blande e favoriti da un’ampia popolarità nata in epoca franchista, i lancheros hanno subito importanti
arresti solo recentemente anche per mezzo dell’evoluzione della
cooperazione in materia di lotta al narcotraffico
Spagna
di Stefano Paglia
L’importanza avuta dal fenomeno criminale sviluppatosi
in Galizia in quella che viene
chiamata “catena della cocaina” varia nel tempo. Innanzitutto si definisce il termine
“catena” come il sistema di
scambi e passaggi a partire
dal coltivatore della pianta
di coca fino al consumatore
di cocaina. Il mutamento di
ruolo avvenne a causa di diversi fattori che portarono a
una diversificazione o moltiplicazione dei metodi di importazione della sostanza.
Il ruolo dei galiziani. In un
primo periodo che sostanzialmente occupa gli anni Ottanta
e la prima metà degli anni Novanta i galiziani erano in una
posizione molto forte. Il rapporto privilegiato di associazione con i cartelli colombiani
permetteva loro di dividere i
profitti al 50%. Il carico viaggiava sulla rotta atlantica, che
partendo dall’America Centrale, attraversava l’oceano fino
alle coste della Galizia. Qui
entravano in gioco i lancheros
che con veloci imbarcazioni
si assumevano il compito di
introdurre il carico nel territorio trattenedo, come detto,
il 50%. Una volta giunto,
esso veniva riconsegnato agli
emissari dei cartelli presenti
in Spagna, cui era delegata
l’attività di spaccio.
Lo Stato reagisce: operazione
Necora. I motivi che indussero
la modifica del metodo appena
descritto sono molti e si manifestarono in differenti periodi
dai primi anni Novanta fino ai
giorni nostri.
Il continuo sviluppo tecnologico permise ai governi nazionali di elevare il livello di
equipaggiamento, aumentando in questo modo l’efficacia
repressiva, con mezzi aerei e
navali più sofisticati e adatti
al monitoraggio delle coste e
dei carichi navali, con strumenti più efficaci nell’intercettazione di conversazioni
telefoniche e fornendo maggior coordinamento alle forze
dell’ordine. Ulteriore fattore
di cambiamento fu il progressivo aumento della collaborazione tra le polizie europee,
parallelamente al processo di
integrazione europea.
L’inizio degli anni Novanta segnò anche un cambio di passo
nella lotta al narcotraffico da
parte dei governanti spagnoli.
Inaugurando il nuovo corso
con l’operazione “Necora”,
avvenuta il 12 giugno 1990
sotto la direzione di un giovane
Baltasar Garzón, pur senza confiscare sostanze stupefacenti,
le autorità iberiche mandarono
un chiaro messaggio a tutti i
narcotrafficanti: lo Stato reagiva, era schierato dalla parte
della legalità e non garantiva
l’impunità.
Frammentazione dei cartelli.
Altro avvenimento importante
avvenuto a metà degli anni
Novanta, fu il progressivo disfacimento dei grandi cartelli,
Medellin e Cali, di fronte all’offensiva dello stato colombiano sovvenzionata dagli Stati
Uniti, che intrapresero una
forte attività di monitoraggio
e repressione dei traffici provenienti dall’area del mar dei
Caraibi. Il 2 dicembre 1993 fu
ucciso Pablo Escobar, leader
del cartello di Medellín. Con
la sua morte si scioglieva anche l’organizzazione. Parallelamente anche il cartello di Calí
veniva duramente represso
dallo Stato, segnando l’inizio
di una nuova fase nel paese
con la più alta produzione di
cocaina. La frammentazione in
piccole organizzazioni rese più
difficile l’attività di contrasto,
trasformando i trafficanti in
un sorta di Idra: ogni testa
aveva lo stesso peso, erano
tutte ugualmente pericolose.
La vendita divenne più concorrenziale. Si spezzò il regime
di monopolio detenuto dai
due cartelli e caratterizzato
da basse oscillazioni del prezzo. La frammentazione, e la
conseguente comparsa di più
attori in grado di fornire materia prima, consentì maggiori
oscillazioni del prezzo.
Il crollo dell’Urss. Allo stesso tempo, facevano il loro
debutto nel mercato nuove
e agguerrite organizzazioni
criminali europee. Oltre al
rinnovato vigore di camorra e
’ndrangheta, in grado di agire
indisturbate quando tutta la
forza repressiva dello stato
italiano veniva concentrata su
Cosa nostra, il disfacimento
dell’Unione Sovietica consentiva l’arrivo di gruppi
criminali prima confinati al
di là della cortina di ferro
e al contempo l’apertura di
nuovi mercati. Mafia russa e
i differenti gruppi criminali
provenienti dai Balcani seppero cogliere e sfruttare molto
abilmente il nuovo equilibrio nel mercato del traffico
di cocaina, la cui ampiezza
permetteva la compresenza
di più attori, fornitori nello
stesso mercato grazie alla già
menzionata moltiplicazione
dei produttori ed alla costante
crescita della domanda nel
mercato europeo.
La rotta africana. I successi
ottenuti dalle forze dell’ordine portarono a un ridimensionamento della rotta atlantica
attraverso l’apertura di un secondo canale di rifornimento
per il mercato europeo (utilizzato in minor misura anche
per quello nordamericano).
La nuova rotta africana era
tesa a sfruttare la debolezza, o
l’assenza in taluni casi, degli
apparati di monitoraggio delle
frontiere nella gran parte degli
stati africani. Impiegando il
continente come un grande
magazzino di cocaina, gli attori del mercato illegale fecero
proprio uno dei requisiti della
controparte legale, ovvero il
magazzino flessibile al mutare
della domanda. L’invio di periodici e modesti quantitativi
di cocaina con destinazione
Europa erano in grado di soddisfare la crescente domanda
europea, senza rischiare il
sequestro dei grandi carichi
(carattere distintivo della rotta atlantica). Naturalmente
i narcos dovettero stabilire
importanti relazioni con gli
esponenti locali della criminalità, spartendo con essi
una piccola fetta del profitto.
Tornando alle cause elencate
in grado di determinare una
rotta, quella africana garantiva
(e tutt’ora garantisce come
nel caso della Guinea Bissau)
in alcuni paesi un completo
livello di corruzione, dalle
forze dell’ordine fino ai piani
più alti della classe politica,
utile per evitare la reazione
dello Stato.
Per concludere, la vicinanza
tra Africa del nord, rifornita
di cocaina attraverso la rotta
del Sahel, e Italia meridionale,
rafforzò la posizione delle organizzazioni criminali italiane
quali importatrici della sostanza, in base al criterio geografico
prima menzionato.
Giovani, violenti e flessibili.
L’arresto di tutti i grandi capi
storici del narcotraffico e i
cambiamenti avvenuti nelle
rotte hanno portato i nuovi
gruppi galiziani a mutare la
propria struttura. Le grandi
organizzazioni hanno lasciato
il posto a bande composte da
un numero ridotto di elementi, contraddistinte da meno
gerarchia e più autonomia
interna. La singola persona
può ora operare per differenti
gruppi mettendo a disposizione le proprie abilità in un
determinato settore, come ad
esempio il possedere e condurre un motoscafo necessario
al trasporto del carico. Gli
individui che oggi possono
essere chiamati “lancheros”
sono più anonimi, violenti e
giovani rispetto ai capi storici.
La frammentazione in piccole
organizzazioni (in questo vi é
Spagna
35 | dicembre 2012 | narcomafie
Galizia connection
Spagna
36 | dicembre 2012 | narcomafie
Due sono le caratteristiche principali che spiegano la nascita del
narcotraffico in un contesto geograficamente delimitato qual è la
Galizia: l’elemento geografico, che
identifica la facilità di approdo, e
la disponibilità di vettori in grado
di condurre il traffico.
Direzione Spagna. I narcos colombiani iniziarono a inviare navi
verso la fine degli anni Ottanta.
Queste attraversavano l’oceano,
sostanzialmente in linea retta per
la scarsità di controlli, dirette verso un mercato che, fino a quel
momento, nella categoria delle
droghe pesanti vedeva primeggiare
l’eroina. In quegli anni i controlli
erano limitati sia dal punto di vista
quantitativo sia qualitativo. L’immenso passo avanti registrato negli
ultimi vent’anni dalla tecnologia è
stato determinante nell’accrescere
le possibilità di controllo dei mari
da parte delle forze dell’ordine
statali, costringendo le organizzazioni criminali ad aprire nuove e
più costose rotte.
Oltre all’ubicazione della penisola,
la seconda causa che compone
l’elemento geografico da prendere
in considerazione è la particolare
orografia della costa a nord-ovest.
La Galizia si distingue dal resto
della Spagna per la presenza di
rías, formazioni simili, seppur distinte, ai fiordi scandinavi. Questi
bracci di mare penetrano per moltissimi chilometri nell’entroterra,
in una mescolanza di acqua dolce
e salata e contribuiscono, insieme
con oltre trecento arcipelaghi e
isolette, a rendere la costa frastagliata. A questa caratteristica si
aggiungono la notevole estensione
del litorale, circa millecinquecento
chilometri, e frequenti avversità
meteorologiche. Si tratta, infatti
di uno dei territori più piovosi
d’Europa, dove, in media, vi sono
precipitazioni per cento giorni
all’anno. Le ripercussioni sui traffici sono facilmente intuibili. Le
particolarità appena descritte sono
i principali ostacoli che si frappongono all’attività di controllo della
Guardia costiera spagnola (Sva,
Servicio vigilancia aduanera) e, al
tempo stesso, forniscono un vantaggio strategico ai lancheros.
Proprio a questi ultimi è affidato il
compito di soddisfare la seconda
caratteristica, vale a dire la disponibilità di vettori dediti al traffico.
Il popolo galiziano è legato alla
pesca e alla navigazione da una
lunga tradizione, ciò permette
di condurre motoscafi attraverso
insenature semi sconosciute senza
esitazioni.
Oltretutto, le rotte utilizzate per il
traffico di cocaina ricalcano quelle
adoperate per il contrabbando di
tabacco, del quale si stabilì un
fiorente commercio con le grandi
marche statunitensi fin dagli anni
Cinquanta. Questo avveniva, in
parte, attraverso le fabbriche di
sigarette situate in Belgio e nei
paesi del blocco sovietico, dalle
quali venivano fatti uscire carichi.
In parte grazie alle partite i cui
tempi di commercializzazione nel
mercato statunitense erano scaduti
che venivano “riciclate” per il
contrabbando nel mercato europeo.
Spesso le due figure di contrabbandiere e narcotrafficante furono
l’una prosecuzione dell’altra. Le
principali personalità che vi si
dedicarono, come Manuel Charlín,
Laureano Oubiña e José Ramón
Prado Bugallo alias Sito Miñaco,
lasciarono il primo mercato attratti
dagli ampi margini di guadagno
del secondo. La combinazione tra
tradizione marinara e ubicazione
geografia di frontiera rispetto a
nuovi traffici è indubbiamente
una delle cause principali che
ha contribuito allo sviluppo del
fenomeno.
L’abito della corruzione. Il secondo requisito mira a stabilire
il livello di connivenza raggiunto
dalle autorità locali. Una breve
distinzione d’obbligo permette
di dividere la trattazione in due
ambiti: da una parte la corruzione
delle forze dell’ordine locali, che
nel caso studiato corrispondono
a “Guardia Civil”, corrispettivo
dell’Arma dei Carabinieri, “Policía Nacional”; dall’altra parte va
considerato l’atteggiamento della
classe politica verso i fenomeni
di contrabbando e riciclaggio, il
quale può essere di aperta ostilità,
di indifferenza causata da timore
personale o come calcolo politico
o di collaborazione.
La corruzione delle forze dell’ordine può manifestarsi su diversi
livelli gerarchici. Partendo dal
basso, permette alle organizzazioni
criminali di agire direttamente
sugli individui incaricati in prima
persona di effettuare le attività di
controllo in determinate zone territoriali, garantendo ad esempio la
sicurezza di una sola operazione.
Alzando la capacità corruttiva a
gerarchie più elevate è possibile
garantire la sicurezza permanente
degli sbarchi effettuati in zona
sempre più grandi. Il massimo
livello corruttivo raggiungibile è
quello che porta l’evoluzione dello
stato in narcostato.
La Galizia presentava fino ai primi
anni Novanta, epoca nella quale si
svolsero le grandi inchieste contro
il narcotraffico dirette da Baltasar
Garzón, una diffusa corruzione nei
livelli medio bassi dell’apparato
repressivo. Una serie di testimonianze è contenuta nel libro del
giornalista investigativo Perfecto
Conde “La conexion gallega. Del
tabaco a la cocaina”. Il cronista porta alla luce numerosi casi di agenti
delle forze dell’ordine nell’atto di
favorire o partecipare direttamente
alle operazioni di contrabbando. Le loro attività consistevano
nell’indicare ai contrabbandieri
i luoghi sicuri per effettuare gli
sbarchi, ovvero i giorni nei quali
determinate zone della costa erano
sprovviste di controlli o durante i
quali questi spettavano ad agenti
corrotti. Il servizio veniva offerto
in cambio di una percentuale sul
guadagno generato dal carico.
Oltre a una corruzione diffusa nel
livello basso, traspare una sorta di
“mentalità della corruzione”, ossia
la conoscenza e l’accettazione del
sistema criminale in atto, presso
una gran parte dell’apparato repressivo dello Stato. Citiamo come
esempio la testimonianza di un
contrabbandiere sotto lo pseudonimo “José M.”, rilasciata a Perfecto
Conde. Il fatto narrato riguarda
una “guardia de la Brigadilla de
información” del distaccamento di
Pontevedra, cittadina ubicata nella
costa sud, che si presenta come
signor Blanco. Dopo aver colto in
flagrante uno scarico illegale di
tabacco, intavola un vero e proprio
ricatto verso i contrabbandieri. Nel
corso dello stesso sequestra uno
dei due furgoni, contenente venti
casse di tabacco appartenenti ai
criminali e destinati al trasporto
della merce. Dopo essere giunto a
un accordo per far ritrovare il mezzo in un luogo abbandonato, rompe
il patto e consegna furgone e 12
casse alla caserma del suo reparto,
trattenendo otto casse all’insaputa
dei colleghi. L’episodio svela come
vi fosse una degenerazione nella
morale di una parte delle forze
dell’ordine.
Lassismo e corresponsabilità.
Anche l’atteggiamento della classe
politica si misura in differenti
livelli, partendo da quello comunale, passando per il regionale e
arrivando fino al governo centrale.
Nel caso galiziano non vi sono casi
documentati di collaborazione
criminale tra esponenti di organizzazioni e politici. Vi sono però casi
concreti nei quali la politica non
ha esercitato volontariamente la
propria attività di controllo nell’affidamento di appalti pubblici e una
sospetta inattività o lassismo nella
lotta al narcotraffico.
Due chiari esempi sono contenuti
nel libro “Operación Necora” di
Felipe Suarez. Il primo è quello
che l’autore definisce “sette anni di
inattività” (in originale “siete años
de brazos caidos”), vale a dire il periodo che abbraccia quasi tutti gli
anni Ottanta. Le accuse contestate
a livello nazionale sono rivolte
all’esecutivo di Felipe González
(capo di governo predecessore di
Aznar dal 1982 al 1996) colpevole
di aver sottovalutato e ignorato il
problema fino al gennaio 1988,
anno nel quale attraverso l’iniziativa personale del governatore di
Pontevedra Jorge Parada, lo Stato
varò i primi provvedimenti strutturali tesi a colpire i contrabbandieri.
Su tutti il “decreto Barrionuevo”,
il primo atto governativo teso a
limitare i motoscafi ad alta velocità utilizzati nelle operazioni di
carico e scarico.
Un secondo esempio di atteggiamento ambiguo è quello tenuto da
Francisco Vázquez, sindaco di La
Coruña negli anni nei quali Matta
Ballesteros investì e ripulì nel mercato immobiliare e negli appalti
pubblici della città, il denaro proveniente dai traffici illeciti svolti
dal fratello narcotrafficante. Come
già accennato nel primo capitolo,
attraverso la collaborazione con i
fratelli Fernandez Espina, si creò
una fitta rete di società, della quale
la più famosa rimane Celuísma,
che si dedicò al riciclaggio nei
mercati immobiliare, turistico,
opere pubbliche (principalmente
parcheggi come quello in Plaza de
Vigo a Santiago de Compostela) e
concessionarie d’auto di lusso.
Affinità culturale e linguistica.
Ultimo elemento che spiega la
stretta relazione creatasi tra narcos
e Galiziani è l’utilizzo di un idioma
comune e l’appartenenza a una cultura simile. Il Castigliano, seppur
deformato dalle influenze regionali
esercitate nel corso del tempo, permette una perfetta intesa tra le due
popolazioni. La barriera linguistica
non va sottovalutata. Durante gli
anni Ottanta il mondo era agli
albori della globalizzazione, la
figura di “cittadino del mondo”
doveva ancora svilupparsi (in questo campo può essere identificata
in quella del broker della cocaina
in grado di parlare con semplicità
più lingue). D’altra parte i primi
traffici di cocaina avvennero con la
Spagna e proprio in questa nazione si stabilirono i primi emissari
dei cartelli, su tutti i Ballesteros
e gli Ochoa (cfr p. 49). Tutt’oggi
la Spagna conserva un ruolo speciale come luogo di incontro tra
domanda ed offerta. Viene però
affiancata dalla figura del broker o,
come nel caso della ’ndrangheta,
dalla capacità della rete-famiglia
di ubicarsi direttamente nei luoghi
di produzioni. Meno intermediari,
più guadagno.
Spagna
37 | dicembre 2012 | narcomafie
Spagna
38 | dicembre 2012 | narcomafie
una similitudine con il caso
colombiano) rende più difficile il lavoro della polizia,
non in grado di monitorare le
attività di tutti gli individui.
Il termine che identifica il
nuovo ruolo svolto é quello di
narcotransportista (in italiano
narco- trasportatore), un individuo che vende le sue abilità
e le infrastrutture necessarie
per introdurre la droga nella
terraferma da vettori ubicati
in alto mare. La percentuale
con la quale questi gruppi
di professionisti del crimine
vengono pagati è del 20-25%
rispetto al valore del carico
trasportato. Questi variano
dai 300 kg dei più piccoli
ad alcune tonnellate, come
testimoniato dall’operazione
“Albatros” svoltasi nel 2009.
Caratterizzata dalla collaborazione tra le forze spagnole
del Greco, italiane (Guardia
di finanza), portoghesi e inglesi, portò al sequestro di
nove tonnellate di cocaina
destinate a essere introdotte
attraverso le coste galiziane e
suddivise in due carichi per
un valore complessivo di 720
milioni di euro.
Albatros, operazione record.
Citiamo in merito il resoconto
stenografico della 14º seduta
della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno
della mafia, svoltasi il 17 marzo 2009, audizione dell’allora
procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «Per dare
un’idea della dimensione di
questi capitali, vorrei riferirvi
i dettagli dell’ultima operazione “Albatros”, condotta
nell’oceano Atlantico, seguita
dalla Direzione distrettuale
antimafia di Genova. Si è pro-
ceduto a due sequestri, uno
effettuato sulle coste della
Galizia, in Spagna, l’altro in
pieno oceano Atlantico, vicino alle Azzorre. In totale
sono state sequestrate circa
nove tonnellate di cocaina,
valutate 720 milioni di euro.
Quadruplicando la cifra sul
mercato si arriva a quasi tre
miliardi di euro che sarebbero
stati guadagnati solamente
con questa operazione. Dobbiamo considerare che il primo sequestro di 3.500 chili di
cocaina faceva parte di una
partita di 20 tonnellate presenti in una nave madre che
effettuava la distribuzione e
lo scambio in pieno oceano
Atlantico a longitudine e latitudine rispettivamente di
30 gradi, un punto d’incontro
internazionale in cui tutti andavano ad approvvigionarsi.
La cocaina veniva trasportata
tramite aerei che la lanciavano
con dei paracadute in mare,
al largo del Venezuela, dove
veniva raccolta dalla nave
madre, che poi si portava al
punto d’incontro di cui vi ho
riferito e dal quale si diramavano motoscafi d’alto mare,
capaci di caricarne diverse
tonnellate. Questo episodio
dimostra la fantasia organizzativa di queste strutture criminali e dà l’idea di quanto
sia difficile intercettare questo
tipo di traffico. Vi invito a
considerare il valore di quelle
20 tonnellate delle quali sono
stati sequestrati solo 3.500
chili nella prima fase. Spesso dopo un’operazione del
genere sentiamo dalle intercettazioni che c’è un po’ di
movimento che crea scompiglio; poi però sono sicurissimi
di rifarsi con gli interessi in
occasione del carico successivo. Queste operazioni dunque
non producono la destrutturazione dell’organizzazione.
In più, così rispondendo in
parte anche alla domanda
sull’evoluzione delle dinamiche delle varie organizzazioni criminali, oggi notiamo
che le organizzazioni madre
hanno delle strutture mobili,
delle reti, che vengono create
di volta in volta in relazione
all’affare, alla fornitura, alla
produzione da porre in essere». Il Procuratore è interrotto
da una domanda tesa a sottolineare il contributo italiano
all’operazione, confermata
dallo stesso Grasso come la
più grande mai compiuta. Di
seguito la risposta: «L’Italia
ha dato poi un più decisivo
contributo soprattutto nella
seconda operazione, relativa
al sequestro di un peschereccio che – badate bene – partiva
non più dal Venezuela ma
dall’Africa centro-occidentale, che è ormai un punto
di stoccaggio della cocaina
colombiana (in alcuni paesi
dell’Africa occidentale ormai
hanno comprato praticamente
tutto e tutti). La nave partiva
da lì e si è riusciti a individuarla grazie alla tecnologia
italiana: un aereo Atr 42 della
Guardia di finanza, che ho
potuto personalmente apprezzare per le attrezzature e le
tecnologie su di esso montate.
Dopo la raccolta di informazioni, l’aereo è stato utilizzato
nell’ambito di un’azione di
cooperazione internazionale,
al fine di individuare la nave
senza essere visto (l’aereo ha
infatti questa capacità). Dalle
fotografie è emerso che la nave
era un peschereccio a cui nes-
39 | dicembre 2012 | narcomafie
Mercanti di morte
Sintetica ricostruzione storica delle fasi della nascita
del contrabbando fino alla sua evoluzione in narcotraffico.
Il passaggio allo smercio di droghe in Galizia segna di fatto il punto
di svolta nel rapporto tra i locali e il “contrabbandiere”, un legame
fino ad allora basato sul rispetto e l’ammirazione verso questi ultimi.
Essi riuscirono, infatti, a esercitare controllo e autorità
usando la leva del soccorso sociale in chiave antifranchista:
farmaci e generi di prima necessità gratuiti per i più poveri
e tabacco negli anni Sessanta, il
contrabbando aveva dunque una
dimensione che può essere definita
“sociale”.
Il contrabbandiere disponeva di
beni che il regime totalitario non
forniva alla propria popolazione,
acquisendo in questa maniera un
forte appoggio popolare in grado
di fornirgli le basi per un controllo del territorio da un punto di vista morale. Un esempio
dell’importanza raggiunta dalla
figura erano le scuole galiziane,
dove non era raro sentire bambini
che alla domanda: «che cosa vuoi
fare da grande?» rispondevano: «il
contrabbandiere».
Nei comuni galiziani si crearono
“bolle” di stato sociale parallelo
a quello dello stato autoritario
ufficiale, nelle quali una parte dei
bisogni della popolazione (bisogni
materiali, ben diversi dalla “sicurezza” e “monopolio della forza”
del caso siciliano) veniva soddisfatta dai contrabbandieri. Questi
diventarono figure estremamente
importanti e popolari nelle singole
comunità di appartenenza. Non si
è a conoscenza della formazione di
società verticistiche che legassero
tutte le rispettive realtà locali,
alla stregua della cupola e delle
commissioni di Cosa nostra. Le
differenti personalità sviluppa-
rono legami più stretti tra di loro
quando, dai generi alimentari e
di primaria necessità, si passò al
contrabbando di alcol e tabacco.
“Madres contra la droga”. Il capitale sociale accumulato nel corso
degli anni venne sostanzialmente
annullato quando alcuni contrabbandieri decisero di inoltrarsi nel
terreno del narcotraffico. A partire
dagli anni Ottanta la Galizia vide
l’introduzione di massicci quantitativi di hashish ed eroina e,
successivamente, di cocaina. Gli
effetti sulla società furono duri. In
questi anni si realizzò il cambiamento finale della figura del contrabbandiere galiziano che passò
lentamente da positiva a quella di
un dispensatore di morte.
La società civile iniziò parallelamente a muovere i primi passi.
Interessante è il caso delle “Madres contra la droga”, un gruppo
di madri che dopo aver vissuto
direttamente gli effetti dell’eroina,
in seguito alla perdita o tossicodipendenza di alcuni figli, decisero
di prendere in mano la situazione.
Oltre a fondare un’associazione
di aiuto ai tossicodipendenti nella cittadina di Vigo (Fundación
Érguete) e avviare programmi
di sensibilizzazione su droghe e
Aids, iniziarono un’importante
Spagna
Il contrabbando nacque nella regione galiziana in maniera frammentata e differente da paese a paese,
da una parte a causa delle pessime
condizioni di vita nell’epoca post
guerra civile (la quale finì ufficialmente il 1° aprile 1939) e dall’altra
per sfruttare il contesto di guerra
mondiale, attraverso la commercializzazione con i due blocchi
di alcuni minerali rari come il
wolframio. In questo periodo si
diffonde l’immagine del contrabbandiere quale “uomo d’onore”
che aiuta la comunità e le classi
svantaggiate senza puntare al mero
arricchimento personale se non
alla conquista di capitale sociale.
Un esempio è quello di Manuel
Díaz Gonzalez, contrabbandiere
divenuto, in un secondo momento,
sindaco di La Guardia, cittadina
situata nella provincia di Pontevedra. Dopo aver definito la sua
categoria: «...la gente más honrada
que existe» (la gente con più onore
che esista), delinea una serie di
episodi a supporto di una visione
romantica del contrabbando: la
penicillina introdotta dal Portogallo e regalata ai malati poveri; la
fornitura gratuita dell’olio per le
lampade della chiesa in una epoca
in cui era difficile procurarselo; la
fede vigorosa in un santo protettore. Prima di dedicarsi ad alcol
Spagna
40 | dicembre 2012 | narcomafie
campagna di denuncia di tutti
i vecchi lancheros convertitisi
al narcotraffico. Una parentesi è
necessaria per descrivere il ruolo
della donna nella società galiziana che secondo alcuni studiosi
può addirittura essere definita
matriarcale. Un esempio è quello
delle mogli dei pescatori lungo
la costa, le quali ebbero un importante ruolo nella crescita dei
figli quando i loro mariti erano
impegnati per lunghe battute di
pesca. Il fatto che furono proprio
le donne a unirsi e alimentare la
società civile nella sua lotta non
può che rafforzare l’importanza
che la donna galiziana ha tuttora
nella società. Si registrarono anche
casi in cui, durante manifestazioni
di protesta, i poliziotti dovettero
bloccare fisicamente alcune madri, impedendo loro aggressioni
verso narcotrafficanti o assalti ai
loro palazzi.
L’appoggio sociale ereditato dai
lancheros si trasformò in scredito. Gli omicidi, l’inquinamento
dell’economia con capitali illegali
a discapito della concorrenza e di
un sano sviluppo, accompagnati dalla volontà repressiva dello
Stato manifestatasi con la “Operacion Necora”, diedero l’impulso
finale alla caduta della figura del
contrabbandiere-benefattore, alla
quale si sostituì quella del mercante di morte.
Il controllo del territorio segnò
dunque una parabola in crescendo
fino agli anni del commercio di
droghe, dopo i quali si segnò un
brusco declino. La presenza di
alcuni vecchi contrabbandieri del
dopoguerra nel ruolo di sindaci
nei primi anni Ottanta testimonia
come l’appoggio sociale raggiunse
picchi elevati in determinate zone.
Non si manifestò però un controllo
capillare paragonabile al sud Italia,
nel quale la figura del mafioso era
fondamentale nel decidere qualsiasi tipo di attività svolta nel contesto
cittadino. Una situazione simile
non si verificò in Galizia perché
la società civile prese coscienza e
lo impedì. Fondamentale furono
l’assenza di violenza come mezzo
di repressione del dissenso, in
quanto non propria della società
galiziana, la reazione massiccia
della società civile e la volontà
politica ad alto livello di reprimere
i narcotrafficanti.
Il legame con la politica. In questo
campo bisogna compiere una netta
distinzione tra contrabbandieri e
narcotrafficanti. Da una parte si
è già menzionato come il capitale sociale accumulato dai primi
consentì di occupare ad alcune
personalità, come nel caso già
citato di Manuel Díaz González,
il ruolo di sindaco in piccoli paesi galiziani. Dalle dichiarazioni
rilasciate in merito alle preferenze
politiche da parte della maggior
parte dei contrabbandieri, tra i
quali lo stesso González, l’orientamento era favorevole ad Alianza
Popular, partito politico spagnolo
capeggiato dalla figura di Manuel
Fraga e predecessore dell’attuale
Partido Popular. È da ricordare
come queste figure fossero popolari
all’interno delle rispettive comunità grazie all’attività pregressa
e in un periodo nel quale il contrabbando di tabacco non veniva
visto come un problema di grande
rilevanza per la società
Per quanto riguarda invece i narcotrafficanti la situazione non sembra
cambiare. Il già citato episodio
dell’esecuzione da parte di emissari dei narcos colombiani di José
Manuel Vilas Martínez è solo uno
di molti esempi che riguardano
l’infiltrazione a livello locale del
partito Alianza popular. La vittima
era figura di spicco a livello locale
nella zona di Vilagarcía de Arousa
ed emissario del narcotrafficante
Pablo Vioque (del quale i legami
con la politica sono citati a pagina 47).
Il partito politico Alianza popular
fu dunque soggetto a infiltrazioni
limitate al livello locale e solo nel
caso appena citato estendibili a
quello regionale. Quando i narcotrafficanti iniziarono a essere
concepiti dalla società come un
pericolo, e in seguito alle forti
pressioni esercitate dai gruppi
di cittadini precedentemente
menzionati, i vertici del partito
(sostanzialmente Manuel Fraga,
che per longevità ed influenza
politica ricorda la figura di Giulio
Andreotti) iniziarono a prenderne
le distanze e ad espellere esponenti
di dubbia legalità, considerati già
come criminali dalle comunità
locali dotate di coscienza civile.
Venne dunque a mancare quel
legame organico con la politica a
livello centrale, teso ad impedire
forme serie di repressione che si
manifestarono dagli anni Novanta
in poi. È anche da segnalare come
nel periodo “siete años de brazos
caídos”, che va dal 1983 al 1990,
i governi centrali fossero presieduti dal Psoe “Partido Socialista
Obrero de España”. I motivi della
mancata repressione non sono noti.
È ipotizzabile che il problema fu
ampiamente sottovalutato, complice la confusione tra le figure di contrabbandiere e di narcotrafficante
che contraddistinse inizialmente
i principali esponenti criminali.
L’evoluzione della situazione spagnola fino ai giorni nostri non può
che testimoniare l’inesistenza di
quel legame con il potere centrale
atto a consentire la sopravvivenza
dei sodalizi criminali, caratteristico dell’Italia o di altre realtà, quali
Giappone o Russia. Le motivazioni
di questa assenza sono molteplici:
la prontezza della reazione da parte
di una società civile non permeata
da atteggiamenti omertosi che dal
primo minuto impedì l’ingresso in politica i narcotrafficanti;
l’evoluzione politica particolare
della Spagna, contraddistinta da
un largo periodo di dittatura fascista che può aver limitato lo
sviluppo di sodalizi criminali;
la posizione secondaria rivestita
dalla Spagna nella guerra fredda e
l’assenza di un pericolo comunista,
le quali impedirono forti influenze
esterne come nel caso italiano;
l’esposizione della Galizia come
terra di confine di un mercato
illegale solo a partire dalla metà
degli anni Ottanta, hanno evitato
lunghi processi che potrebbero
aver portato all’entrata in forza
nella politica da parte dei sodalizi
criminali.
I rapporti di dipendenza personali. La creazione di rapporti di
dipendenza personali è già in parte
emersa nella descrizione dei tre
requisiti precedenti, precisamente
nell’influenza nelle attività imprenditoriali del narco-avvocato
Vioque e nei rapporti tra il sindaco
ex contrabbandiere Manuel Díaz
González e i suoi concittadini.
Va però sottolineato come non si
arrivò mai alla trasformazione dei
diritti dei cittadini in favori elargiti
dal contrabbandiere e in seguito
ricompensati. Questo non perché
all’epoca del contrabbando “romantico” e successivamente non si
crearono delle reti di dipendenza
personale, come l’episodio citato
della penicillina che sicuramente
avrà legato al contrabbandiere intere famiglie. I favori non furono
una sostituzione dei diritti perché
quest’ultimi erano sostanzialmente
negati dallo stato autoritario franchista. Specialmente nel periodo
dopo la guerra civile i contrabbandieri offrivano sotto forma
di favori dei diritti che lo stesso
stato non offriva; una situazione
di monopolio che fruttò molto
capitale sociale spendibile alla
“gente con più onore” all’interno
della comunità.
Un episodio riguardante i narcotrafficanti che evidenzia come vi
era una effettiva ricerca del consenso della popolazione attraverso
la creazione di rapporti personali
è quello di Sito Miñaco (cfr pag.
46). Il cittadino di Cambados, piccolo comune nei pressi della città
di Pontevedra, utilizzò il calcio
come argomento per guadagnare
la fiducia dei cittadini. Attraverso
guadagni illeciti, negli anni Ottanta
comprò la squadra del comune, il
Juventud de Cambados, e attraverso investimenti notevoli la fece
salire di categoria fino a livelli
professionistici. Un altro metodo
utilizzato fu quello di investire ingenti somme nelle attività culturali
della città. Il narco “filantropo”
venne addirittura premiato con
una placca d’onore il 7 maggio
1989 dal sindaco del paese Santiago Tirado, in quota al Partido
popular. Questo caso è utile per
evidenziare come i proventi illeciti fossero utilizzati quale mezzo
per l’acquisizione del consenso
popolare, soprattutto nelle zone
povere della Galizia. Sempre Sito
Miñaco espanse la propria rete
fino a Panama, dove creò imprese
fittizie gestite da prestanome in
modo da mascherare riciclaggio
e traffico di cocaina.
Un ulteriore esempio è quello della
moglie del narcotrafficante Laureano Oubiña, Esther Lago García.
Quest’ultima, tra il 1987 e il 1988,
riuscì a cambiare 1.604 milioni di
pesetas in dollari nella succursale
del banco Bbv di Vilagarcía de
Arousa. Il funzionario non registrò
le operazioni e non face domande a
una signora che arrivava con borse
di plastica piene di contanti: “...
mai mi disse da dove veniva il
denaro e io in nessuna occasione
lo chiesi”. È questo un caso nel
quale un professionista accetta di
aggirare le leggi dello Stato, oltre
che i regolamenti interni della
banca, per rendiconto personale.
La zona grigia di professionisti:
indispensabile per il riciclaggio,
per la gestione di beni accumulati e per la creazione di società
fittizie basate su un sistema di
prestanome.
suno avrebbe dato importanza
per il valore di stupefacenti
che trasportava. L’operazione
è riuscita grazie a questi mezzi
sofisticati, che in Europa ha
solo la Guardia di finanza
italiana, che ha attrezzato tre
o quattro aerei di questo genere. Il sistema di circolazione
delle informazioni, generato
da un accordo che l’Italia ha
siglato con questi paesi per
contrastare il traffico di stupefacenti, ha dato i suoi frutti
in questa occasione».
La deposizione dell’ ex
procuratore Piero Grasso
evidenzia due dei fattori
citati ai quali è imputabile il
cambiamento nel mondo del
narcotraffico avvenuto dalla
metà degli anni Novanta. Il
primo è il ruolo dell’Africa occidentale, dalla quale
proveniva il secondo peschereccio, luogo descritto
come estremamente sensibile al fattore corruzione.
Il secondo è lo sviluppo
tecnologico e dell’integrazione europea che hanno
consentito all’aereo italiano della Guardia di finanza
di svelare il contenuto del
carico e comunicarlo alle
autorità spagnole, incapaci
di effettuare l’operazione per
via di lacune nell’equipaggiamento. Si è dunque visto
come la cooperazione sia di
fondamentale importanza
nella repressione del narcotraffico. Non esiste un paese
che possa contrastare il fenomeno in maniera efficace,
senza l’aiuto della comunità
internazionale. Sempre il
procuratore Grasso definisce
i galiziani come i più grandi
importatori di droga in tutta
Europa.
Spagna
41 | dicembre 2012 | narcomafie
Spagna
42 | dicembre 2012 | narcomafie
Tra patriarca,
padrini
e pesetas
Le principali famiglie di lancheros gallegos e le modalità operative con cui scalarono la vetta del potere. Le speciali relazioni
che si instaurarono con i boss dei cartelli colombiani segnarono l’evoluzione dei gruppi di contrabbandieri di tabacco in
narcotrafficanti
di Stefano Paglia
Se c’è un fenomeno che più di
ogni altro è legato al narcotraffico, è quello sviluppatosi in
Galizia dagli anni Ottanta fino
ai giorni nostri. Avendo svolto il classico passaggio dalle
sigarette alla droga, in questo
caso cocaina e hashish, i Galiziani riuscirono, e tutt’ora
riescono, a riversare un fiume
di denaro in una delle regioni
più povere della Spagna. Di
seguito sono presentate le
principali famiglie o gruppi
dediti al narcotraffico e successori dei contrabbandieri
di tabacco. Verso la fine degli anni Ottanta il sistema si
reggeva su alcuni importanti
individui, paragonabili agli
“uomini d’onore” siciliani,
che giunsero quasi a stabilire
una società di tipo mafioso.
Questa non si compì per due
motivi principali, ossia le
reazioni dello Stato e della
società civile galiziana nel
momento in cui la politica
locale stessa iniziò a subire
forme di controllo importanti
per mano dei trafficanti. È
interessante notare come in
questa remota regione della
Spagna non vi siano infiltrazioni di grosso calibro da parte
di organizzazioni straniere,
escludendo qualche emissario
colombiano in rari casi di regolamento di conti. Caso più unico che raro rispetto al territorio
spagnolo, può essere dovuto
alla particolare cultura della
zona che si differenzia rispetto
a quella classica spagnola con
una lingua ufficiale differente
(gallego), usi e costumi a cavallo tra Portogallo e Spagna.
Questo ha sicuramente reso
difficile un’infiltrazione sul
territorio da parte di soggetti
estranei.
Il clan Charlín. Vi furono alcuni tratti comuni nelle adolescenze degli individui che
diventarono la prima generazione di narcotrafficanti: l’assenza di un’adeguata educazione scolastica, abbandonata
precocemente per dedicarsi ad
attività redditizie illegali; la
nascita in classi sociali disagiate e in un contesto fortemente
influenzato e caratterizzato dal
fenomeno del contrabbando.
Al fianco dei contrabbandieri
più anziani, i narcotrafficanti poterono apprendere già
dall’adolescenza le tattiche
tese a eludere i controlli e a
pianificare gli sbarchi illeciti
nei luoghi più remoti della
costa.
La famiglia Charlín fece capo
a Manuel Charlín Gama, primo contrabbandiere galiziano
a convertirsi al narcotraffico
introducendo un carico di
hashish. Fu iniziato da Vicente
Otero (storico contrabbandiere)
nel traffico di sigarette, attratto dallo stile di vita elevato
garantito dai guadagni illeciti. Testimonianza della sua
precocità è la data del primo
sequestro di tabacco nel quale
fu coinvolto: 1963. Di lì in poi
fu un crescendo di denunce
che arrivarono persino all’arresto per sequestro di persona
nel 1982. Gli abitanti del suo
paese, Vilanova de Arousa,
lo soprannominarono “Don
Corleone”, per i modi e le apparenze simili al personaggio
del film “Il Padrino”. Figli e
nipoti ne seguirono le orme.
L’ultimo arresto di un membro
della famiglia risale al 2010 per
riciclaggio. Lo stesso patriarca
creò un simbolo familiare, simile a quelli nobiliari, che fece
porre nella scalinata posteriore
del “Pazo de Vista Alegre”:
una tenuta signorile con tanto
di cappella privata acquistata
nel 1992 e divenuta residenza
simbolo del potere detenuto
dalla famiglia.
Il palazzo venne sequestrato
nel 1995. Sostanzialmente abbandonato dalla gestione statale, cominciò un lento degrado
arrestatosi solamente nel 2011,
quando venne acquisito dal
comune per circa 1 milione di
euro con l’obiettivo di restituirlo alla popolazione attraverso
il suo utilizzo a fini sociali.
L’abbandono dei beni sequestrati è una delle motivazioni
che spinge la società civile,
tra la quale vi è la “Fundación galega contra o narcotráfico”, a chiedere l’istituzione
di un’agenzia per la gestione
dei beni confiscati.
Nel corso degli anni Novanta il
clan Charlín venne sottoposto
a una forte repressione giudiziaria che portò all’arresto per
traffico di cocaina e hashish del
patriarca Manuel e di alcuni
dei sei figli. Dall’inizio del
nuovo millennio il lavoro delle
forze dell’ordine svelò il coinvolgimento dei nipoti del patriarca in attività illecite come
il riciclaggio di denaro. Il 17
luglio 2010, all’età di 78 anni,
Manuel Charlín Gama uscì di
prigione dopo aver scontato
una pena ridotta dalla legge
spagnola da 30 a 20 anni.
Laureano Oubiña Piñeiro.
Nato nel 1946 a Cambados
in una famiglia molto povera,
quello che il giornalista Felipe
Suárez definisce come il più
arrogante dei narcotrafficanti
galiziani non ebbe un’infanzia
facile. Oubiña si dedicò fin da
giovanissimo al contrabbando
Spagna
43 | dicembre 2012 | narcomafie
Mimetizzarsi
nel mare di cocaina
Spagna
44 | dicembre 2012 | narcomafie
I mezzi utilizzati dai galiziani
consistono essenzialmente in
imbarcazioni di tipo leggero,
quali motoscafi e gommoni,
chiamati in spagnolo “lancha”
o “planeadora”. Oltre a essi,
nel corso degli anni le forze
dell’ordine spagnole hanno sequestrato una gran varietà di imbarcazioni, che vanno da navi
con motoscafi caricati a bordo
fino al caso di un sottomarino,
o per meglio dire mezzo anfibio, unico caso in Europa. Un
secondo mezzo utilizzato dai
galiziani è l’uso dei container,
sfruttando il volume di traffico
generato dal porto di Vigo per
mimetizzare la merce illegale
con carichi legali evitando i
controlli.
La lancha
I motoscafi utilizzati dai galiziani possono essere di piccole
dimensioni, intorno ai 10 metri,
o di medio-grandi, 18-20 metri.
I primi vengono impiegati essenzialmente sotto costa. Una volta
trasbordato il carico dalle lance
di dimensioni medie in località
relativamente vicine alla terraferma, consentono di sbarcare direttamente il carico nelle spiagge
più isolate e hanno il vantaggio
di essere agili e maneggevoli.
Le seconde sono invece vere e
proprie imbarcazioni in grado di
effettuare viaggi intercontinentali, con il compito principale
di trasportare la cocaina da una
grande nave ubicata in alto mare,
generalmente di proprietà dei
narcos colombiani o di un vettore
da loro pagato, fino ai gommoni
dedicati allo sbarco sulla terraferma. In alternativa sono conosciuti casi nei quali la cocaina
è stata paracadutata in mare da
piccoli aeroplani in contenitori
stagni, successivamente raccolti
dalle lance.
Nel febbraio del 2009 fu ritrovata sulle coste di Nigrán, piccolo
paese situato nelle vicinanze di
Vigo, un’imbarcazione semirigida
di ultima generazione, lunga 18
metri, inspiegabilmente abbandonata dai trafficanti. Il mezzo
in questione, custodito ora dalle
forze dell’ordine, dispone di una
capacità di carico tra le otto e le
dieci tonnellate e di un serbatoio
da ventimila litri di benzina che
consente un’autonomia tale per un
viaggio di andata fino alle coste
del Senegal, distanti quattromila
chilometri. Lo scafo è rivestito in
gomma, utile a evitare danni una
volta vicino alla costa, di colore
scuro, fondamentale per mimetizzarsi ed evitare di essere avvistata
dagli elicotteri. È inoltre dotato dei
più moderni sistemi Gps, radar
e di telefonia satellitare. Il vero
punto di forza è però il motore,
o meglio i sette motori Suzuki
quattro tempi da trecento cavalli
l’uno, per una potenza complessiva
di duemilacento cavalli. Per dare
un termine di paragone, l’auto
più veloce al mondo, la Bugatti
Veyron SS, dispone di 1.200 cavalli
e viaggia a più di quattrocento
chilometri all’ora.
Tutta questa potenza distribuita su differenti motori consente
all’imbarcazione di raggiungere
una velocità massima di centoventi
chilometri orari e di mantenerla costante anche in condizioni di mare
mosso. Secondo gli inquirenti il
prezzo di mercato al momento del
ritrovamento si aggirava intorno
ai seicentomila euro. Attraverso
lo studio del Gps fu possibile altresì stabilire come l’imbarcazione
avesse in programma di seguire
una rotta che la avrebbe portata in
una zona tra il continente africano
e le isole Canarie, probabilmente
per un’operazione nella già citata
nuova rotta. Le consistenti riserve
di cibo rinvenute a bordo indicarono come i quattro componenti
dell’equipaggio avessero pianificato un viaggio dalla durata di
alcuni giorni.
Il ritrovamento di un mezzo dal
notevole contenuto tecnologico
mette in evidenza l’alto livello di
specializzazione raggiunto dai trafficanti galiziani. Non siamo più in
presenza di semplici contrabbandieri vettori marini relativamente
comuni. Appare evidente come
la guardia costiera debba sempre
più dotarsi di mezzi dispendiosi
e tecnologicamente avanzati per
stare al passo con i narcotrafficanti
e non rischiare di avere imbarcazioni obsolete e inutili.
Il mezzo anfibio
L’unico mezzo anfibio utilizzato
a fini di narcotraffico in Europa venne ritrovato abbandonato
(semiaffondato e fumante) sulle
coste della Galizia, tra le Isole
Cies e la città di Vigo, nell’agosto
del 2006. A differenza dei mezzi utilizzati in Sud America dai
narcos, essenzialmente dei veri e
propri sottomarini in grado di navigare leggermente sotto il livello
del mare, quello galiziano non ha
la forma tipica allungata che li
contraddistingue ed è in grado di
compiere navigazioni solo a pelo
d’acqua. La propulsione è affidata
a una singola elica posizionata
nella parte posteriore.
Gli innumerevoli errori compiuti
dai trafficanti, sia tecnici sia logistici, permisero alle forze dell’ordine di vigilare la banda per un
lungo periodo. L’abbandono fu
il risultato di una lacuna nella
progettazione per la quale venne
deciso di rimpiazzare il mezzo
sperimentale. I trafficanti non si
sentivano sicuri nella navigazione
e decisero di rimpiazzarlo con una
classica imbarcazione che avrebbe
dovuto recarsi alle isole Azzorre
per ricevere un carico dalle 2 alle
3 tonnellate di cocaina.
Pur essendo un mezzo nuovo e
inedito per il mercato europeo,
evidenzia come anche i narcotrafficanti abbiano un limite al
reperimento di personalità in grado
di fornirgli conoscenze progettistiche. Ovviamente fino alla prova contraria, dato che nell’altra
sponda atlantica quella dei narcosottomarini è realtà.
Le navi dei narcos
Esse consistono sostanzialmente
in grandi navi, come pescherecci
e barche a vela, che incrociano i
galiziani in determinate località
marine. Come già evidenziato
precedentemente, i punti di contatto possono essere situati nella
costa africana occidentale, come
evidenziato nella dichiarazione
dell’ex procuratore Piero Grasso
per il traffico della rotta africana
(cfr. pag. 38), o nel bel mezzo
dell’Atlantico, per la rotta atlantica. Scopo principale di queste
imbarcazioni è il trasporto di
carichi consistenti in tonnellate
di cocaina, tre o più, senza essere
individuate dalle forze repressive
di Usa (attive nei Caraibi) ed Europa: necessario è dunque dotarsi
di un aspetto comune, quale un
peschereccio o una barca a vela,
occultando la merce.
Il traffico di contenitori
Questo metodo utilizza un limite
intrinseco del mondo globalizzato
ossia l’impossibilità del controllo
di tutti i container transitanti in
un porto da parte della autorità.
Esistono due tipologie adottate
nella regione galiziana.
La prima viene chiamata “gancho
ciego” (gancio cieco). La cocaina
viene introdotta in piccole quantità, nell’ordine delle decine di
chilogrammi, sfruttando le lacune
nei controlli delle autorità portuali,
in container appartenenti a operatori economici del mercato legale
totalmente estranei al traffico. Una
volta giunta a destinazione, un
esponente del sodalizio criminale
provvede a recuperarlo in modo
tale da non provocare alterazioni
della mercanzia per non insospettire il destinatario. I vantaggi
presentati da questo sistema sono
molti. Da una parte si abbattono i
costi di gestione dell’organizzazione, dato che non bisogna occuparsi
né della traversata dell’Atlantico
né dell’introduzione per mezzo
di complicate operazioni navali.
Delegando il trasporto ad attività
legali si evita oltretutto l’azione
di monitoraggio repressiva delle
forze navali degli stati nazionali,
i quali non saranno insospettiti da
un comune cargo commerciale. Gli
svantaggi sono invece legati alla
quantità di trasporto limitata dalla
difficoltà dell’occultamento. Per
avviare un traffico importante è
dunque necessaria una frequenza
negli invii che inevitabilmente
espone in prima persona gli esponenti dediti al camuffamento e
recupero della cocaina. Oltretutto
vi è anche il rischio di non recuperare il contenuto dal container.
Le motivazioni possono essere le
più svariate, regalando in questo
modo la merce agli impresari legali che venuti a conoscenza del
carico clandestino saranno tenuti a
denunciarlo. Un esempio nell’uso
di questo metodo è quello del
28 aprile 2011, quando durante
un’ispezione del porto di Vigo,
vennero ritrovati 23 chilogrammi
di cocaina in uno zaino inserito in
un carico di gamberi proveniente
da Guayaquil, Ecuador.
La seconda modalità legata al
traffico di contenitori consiste
nell’apertura di un’azienda legale
a copertura del traffico illecito.
La cocaina viene occultata tra i
vari carichi della nave-container.
Rispetto alla metodologia descritta
precedentemente presenta rischi
più elevati in termini di repressione, dato che sono più evidenti
per le forze dell’ordine i legami
tra azienda di import-export e
persone fisiche che trafficano.
Il vantaggio consiste invece nel
notevole quantitativo di merce che
può essere inviata, dato che non vi
è la necessità di utilizzare un soggetto terzo che resti all’oscuro. Nel
novembre 2010 vennero arrestate
cinquanta persone in un’operazione di polizia tra Spagna e Sud
America. Il procedimento adottato
consisteva nel camuffamento in
contenitori di mele e in invii concentrati nei primi mesi dell’anno,
parallelamente alla raccolta di
mele in Argentina. L’impresa di
facciata importava oltre alla frutta
originale, che veniva posta sul
mercato per non destare sospetti,
molti pacchetti di cocaina da 1 kg
adeguatamente isolati per resistere
al freddo ed all’umidità del viaggio. Per dare un’idea del volume
di denaro reso disponibile dal
traffico è sufficiente citare come i
capi dell’organizzazione avessero
un budget di spesa quotidiano
superiore a duemila euro.
di tabacco. Carismatico e pittoresco, con un sigaro cubano
sempre acceso, fu denunciato
più volte per aggressione e
incarcerato più volte. Proprio
in uno di questi soggiorni, partecipò al pestaggio di avvertimento a Ricardo Portabales,
il collaboratore di giustizia
più importante a disposizione di Garzón nell’operazione
Necora. Fatto, quest’ultimo,
che testimonia l’impreparazione delle carceri spagnole
nel gestire i collaboratori e la
relativa corruzione tenendo
presente che la porta della
cella di Portabales era aperta.
Figura chiave nell’organizzazione di Oubiña è quella della
seconda moglie Esther Lago,
considerata vero e proprio cervello del sodalizio criminale
in grado di creare una fitta
rete di società per il riciclaggio delle somme provenienti
da traffico di tabacco prima
ed hashish poi (non venne
mai incriminato per cocaina).
Come il clan Charlín, anche
Oubiña si rese protagonista
di una grande acquisizione
immobiliare. Il palazzo, o per
meglio dire castello, scelto
fu il Pazo do Baión, enorme
tenuta circondata da ricchi
vigneti. Lo stesso acquisto
fu il risultato di una maldestra operazione di riciclaggio,
nella quale una signora di 78
anni, soprannominata “tía
Luisa”, ufficialmente senza
risorse economiche, prestò
di propria tasca ben 138,5
milioni di pesetas al narcotrafficante.
Quando Oubiña venne rilasciato in seguito all’operazione Nécora nel 1994, le “madres
contra la droga” assediarono
letteralmente la proprietà (cfr.
Spagna
45 | dicembre 2012 | narcomafie
Spagna
46 | dicembre 2012 | narcomafie
box p.39). Oggi è simbolo della lotta al narcotraffico, dato
che dal 2008 è stato affidato
a una società che promuove
l’enoturismo e destina il 5%
del ricavato alle associazioni
per la riabilitazione dei narcotrafficanti.
Oubiña venne condannato
tre volte per aver introdotto
complessive 15 tonnellate di
droga. Negli anni Novanta si
rese latitante nascondendosi
in Grecia, dove fu arrestato
nel 2000 e incarcerato. Il suo
carisma tornò a farsi sentire
quando aprì un blog gestito
direttamente dalla prigione;
apparve anche nell’edizione
spagnola di «Vanity Fair»,
nella quale dichiarò pubblicamente di aver finanziato i
partiti politici di Manuel Fraga “Alianza popular” e quello
di Suarez “Udc”. È uscito dal
carcere nel giugno del 2012,
all’età di 66 anni.
José Ramón Prado Bugallo,
alias Sito Miñaco. Miñaco è
stato tra i narcotrafficanti più
importanti d’Europa fino al
2001, data della sua cattura
definitiva. Nacque a Cambados
nel 1955. Decise di entrare nel
contrabbando di tabacco, che
utilizzò come copertura sociale
anche negli anni del narcotraffico, fondando il gruppo Ros,
acronimo delle iniziali delle
tre figure principali: Ramiro
Martínez Señoráns, Olegario
Falcón Piñeiro e lo stesso Sito.
Nel 1983 venne arrestato per
la prima volta. Fu l’evento
che gli cambiò la vita, dato
che in carcere conobbe Jorge
Luis Ochoa, importante membro del cartello di Medellín. I
due stabilirono un sodalizio
e una volta fuori iniziarono a
trasportare cocaina dalla Colombia alla Galizia. Il metodo
utilizzato prevedeva l’invio via
mare di carichi composti da
circa 4/5 tonnellate di cocaina
che i galiziani si occupavano
di scaricare e nascondere in
depositi fino alla divisione
tra le varie piazze di spaccio.
Attraverso i proventi, Miñaco
riuscì a creare una rete di rapporti criminali con banchieri,
impresari ed agenti delle forze
dell’ordine che si estese fino
a Panama, dove stabilì la sua
residenza per lungo tempo
attratto dalle agevolazioni fiscali. Come verrà esplicato nel
capitolo 4, creò parallelamente
una rete d’influenza nella società tanto da essere ritenuto
un filantropo, ricevendo un
premio per le sue donazioni.
Comprò la squadra di calcio
locale, facendola salire fino
alla serie C, e visse una vita
all’insegna dei festini, delle
donne e delle auto di super
lusso. Arrestato una seconda
volta nel 1991 durante l’operazione Nécora, venne in seguito
rilasciato per cavilli giudiziari
nel 1998. É questa una testimonianza dell’impreparazione
nell’affrontare il fenomeno del
narcotraffico della legislazione spagnola nei primi anni
Novanta. Nel 2001, le forze
dell’ordine lo fermarono una
terza e ultima volta per traffico di cocaina. Le modifiche
apportate al quadro legislativo
permisero una pena molto più
severa, che, senza sconti, dovrebbe terminare nel 2018.
Sito fu un personaggio fondamentale perché racchiude
tutti gli elementi del narcotrafficante galiziano. La gioventù difficile e l’abbandono
precoce degli studi. L’uso so-
ciale del tabacco come copertura del traffico di droga. Il
controllo del territorio e la
rete di rapporti di dipendenza
personali realizzati attraverso
massicci investimenti a favore
della comunità. Lo strettissimo legame con i colombiani di
Medellín. L’assenza di alcuna
forma di violenza per reprimere il dissenso. Il fortissimo
carisma. La pianificazione di
un’organizzazione criminale
nella quale ognuno ebbe un
ruolo specifico, precedendo
quello che sarebbe diventato
lo schema dei narcos moderni
e superando la concezione familiare dei Charlín ed Oubiña.
Per tutti questi fattori fu ed è
il rappresentate d’eccellenza
della prima generazione di
narcotrafficanti.
I narcos cambiano pelle.
L’operazione Necora (12 giugno 1990) fu soltanto la prima
di una serie diretta contro il
mondo del narcotraffico galiziano. Con l’arresto di Sito
Miñaco nel 2001 si conclusero
le attività della prima generazione di narcotrafficanti, caratterizzata, come già detto, da
una forte posizione d’alleanza
con i colombiani, dall’ostentazione delle proprie ricchezze
e da un vincolo associativo
familistico, come Oubiña e
Charlín, o semi professionale,
come Miñaco. L’affermazione
della volontà repressiva dello
Stato insieme alla fortissima
condanna della società civile
provocarono il passaggio da
figure carismatiche e famose a soggetti quasi anonimi
tendenti all’inabissamento.
Quest’ultimo termine sta ad
indicare il profondo cambio
nello stile di vita adottato
dalla nuova generazione, visibile nell’abbandono delle
grandi ville, delle auto di
lusso e del ruolo di benefattori-filantropi nella società.
Il tutto teso a mantenere un
profilo basso in maniera tale
da evitare l’esposizione agli
occhi delle associazioni civili,
le quali tuttora svolgono una
forte attività di monitoraggio
e denuncia, e alla repressione statale. I trafficanti di seconda generazione, identificabili anche come i meri
trasportatori del carico, non
hanno più quell’importanza
sociale radicata nelle comunità che caratterizzò invece
gli appartenenti alla prima.
Negli arresti eseguiti dopo il
2001, i nomi delle persone
coinvolte erano sconosciuti
alla maggior parte della popolazione, tranne nei casi in cui
vennero coinvolti parenti dei
vecchi narcos, come i nipoti
di Charlín o il figliastro di
Laureano Oubiña. Lo stesso
vincolo associativo cambia.
Il gruppo divenne simile a
un’aggregazione di liberi professionisti del crimine che
si dividono accuratamente i
compiti. Ognuno specializzato in un determinato settore e
un individuo principale dedito al monitoraggio di tutta
l’operazione.
Un discorso a parte merita invece l’avvocato Pablo Vioque.
Pur avendo svolto le sue attività nel periodo corrispondente
a quello della prima generazione di narcos, la sua storia
criminale è particolare e non
accomunabile con quelle dei
soggetti appena presentati.
Pablo Vioque Izquierdo: una
storia particolare. Pablo Vio-
que fu la figura che più di ogni
altra si avvicinò ai requisiti necessari per essere considerato
un mafioso. Nato in Extremadura nel 1952, si differenzia da
tutti i nomi fin’ora menzionati
per la sua carriera accademica
nel ramo della giurisprudenza
e per non essere di origini
galiziane. Durante gli anni Ottanta fu il difensore dei più
importanti narcos galiziani,
come Laureano Oubiña e Sito
Miñaco. Un colletto bianco.
Felipe Suárez nel suo libro lo
relazionò addirittura con il
caso Bardellino (in particolare
sul caso del rilascio di quest’ultimo in libertà provvisoria su
cauzione, avvenuto nel gennaio 1984). Secondo il giornalista
galiziano se l’operazione riuscì
fu anche grazie all’influenza
dell’avvocato sul giudice che
adottò tale disposizione.
In un primo momento la sua
figura sembrò rimanere nei
limiti dei confini della legalità, si scoprì successivamente come egli stesso si fosse
convertito in trafficante di
cocaina, creando al contempo
una fitta rete di società dedite al riciclaggio. Attraverso
la camera di commercio di
Vilagarcía, della quale tirava
le fila pilotando le nomine
grazie all’enorme influenza
raggiunta, riuscì a creare una
vera e propria organizzazione verticistica con una forte
influenza nei settori politico
e imprenditoriale. In seguito
venne anche condannato per
aver cercato di contrattare un
killer per l’omicidio del “Fiscal especial antidroga” Javier
Zaragoza, figura fondamentale quanto quella di Baltasar
Garzón nella repressione dei
narcos galiziani.
Un articolo del quotidiano
«El País» lo cita come figura
di spicco e tra i fondatori di
Alianza Popular nel panorama
galiziano. È però da sottolineare l’importanza del ruolo giocato da Manuel Fraga nella sua
caduta. Fu di fatti quest’ultimo,
fondatore vero e proprio del
partito, a sollecitare l’indagine
che portò allo scioglimento
della camera di commercio di
Vilagarcía che, solo per dare
un’idea dell’influenza negativa
esercitata dall’organismo negli affari criminali, politici e
sulla società, veniva chiamata
con l’appellativo di “nido di
vipere”. Verso la fine della
sua carriera criminale, quando la sua influenza era già
compromessa, Vioque fondò la
“Plataforma de independientes
de España” (Pie), un partito
limitato a livello locale che
non ottenne rappresentazione
grazie all’azione di denuncia
della società civile, rappresentata dalla “Plataforma galega
contra o narcotráfico”, antenata della già citata Fundación.
Quest’ultima é un’associazione
che racchiude diverse personalità che si oppongono al
narcotraffico, svolgendo molte
attività di sensibilizzazione e
educazione tra i più giovani,
denuncia e supporto ai tossicodipendenti attraverso personale specializzato. Ha sede
proprio nella cittadina che fu
di Vioque, Vilagarcía.
Vioque fu arrestato nel 1997
per traffico di cocaina. Rimase in carcere fino al 2008,
quando fu scarcerato perché
malato terminale. Morì ufficialmente nel dicembre dello
stesso anno (ma un suo parente
ha recentemente messo in dubbio l’effettività della morte).
Spagna
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Spagna
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Porte aperte
al malaffare
Dalla mafia russa alla ’ndrangheta: tutte presenti le organizzazioni
mafiose nella penisola iberica. Le occasioni di lucro non mancano,
dal settore turistico all’immobiliare. Ad attrarre una legislazione
“morbida”, la vicinanza a paradisi fiscali e un regime carcerario
impreparato alla detenzione mafiosa. Così la Camorra tenta anche
la via della politica
di Stefano Paglia
Gli individui che compongono
i gruppi organizzati di origine
straniera sono principalmente
italiani, russi e latinoamericani. Gli autoctoni sono galiziani
in primis, ma anche baschi e in
minor misura andalusi.
I seguenti raggruppamenti sono
effettuati attraverso il criterio
di pericolosità, basato su fattori (in ordine d’importanza)
quali: uso della violenza a
scopi intimidatori, tentativi
d’infiltrazione nella politica
e inquinamento dell’economia
legale attraverso riciclaggio
e traffici illeciti. Non è stata
riscontrata alcuna organizzazione nella quale i tre siano
presenti contemporaneamente,
mentre solo la camorra è stata
finora coinvolta in un tentativo
di infiltrazione politica, precisamente nelle isole Canarie.
Da Mosca, le élites. Con il
termine mafia russa si intendono tutte le organizzazioni
criminali formate da cittadini
della Federazione russa. Alcuni gruppi si formarono già
sotto l’Unione Sovietica, altri
solo in seguito al collasso.
Ciò che accomuna i differenti gruppi, diversi per etnia
e provenienza geografica, è
l’enorme guadagno avuto dal
processo di brusca privatizzazione avvenuto in seguito
allo sgretolamento del regime
comunista. Il livello di potere
raggiunto in patria da alcune di
queste bande è tale da non riuscire a distinguere nettamente
l’organizzazione dalle autorità
locali. La Spagna è considerata
un mercato d’investimento sicuro per i capitali accumulati,
a differenza dell’instabilità che
contraddistingue la patria, e
un luogo per sfuggire alle lotte
intestine. I primi gruppi ad
arrivare sono i grandi magnati
“rapinatori di beni statali”,
che si presentano come élites
con forti coperture nel sistema dell’economia legale del
proprio paese e che fanno del
riciclaggio la loro principale
attività. In un secondo momento giunsero gruppi legati alla
sicurezza privata, spesso ex
militari, che incentrarono la
propria attività nella prostituzione e nelle estorsioni. Data la
notevole presenza di ex agenti
segreti, i gruppi russi presentano un importante apparato
informativo in grado di fornire
un notevole vantaggio.
Uno dei protagonisti è Zakhar Kalashov, arrestato a
Dubai nel 2006 in seguito
ad un’indagine delle forze
dell’ordine spagnole: faceva
parte di un gruppo denominato “ladri nella legge” operante
in Russia e Georgia. Fu estradato dalla Spagna proprio in
quest’ultimo paese nel 2010
per scontare una condanna di
oltre dieci anni. I ricavi dei
traffici illeciti erano reinvestiti nel mercato immobiliare
iberico attraverso una rete di
società commerciali retta da
un sistema di intestazioni a
prestanome.
Un secondo esponente recentemente arrestato è Tariel Oniani,
anch’egli protagonista del mercato immobiliare, precisamente a Barcellona. Questi era un
componente di grado inferiore
della stessa organizzazione, fu
estradato compiendo il percorso opposto, dalla Russia alla
Spagna, nel 2011. Entrambi
furono inseriti nella lista dei
ricercati in seguito alla fuga nel
2005 per sfuggire alla cattura
nell’ “operacion Avispa”.
I Ballestreros, gente limpia.
La presenza di elementi sudamericani legati alla cocaina
in Europa e l’utilizzo della
violenza da parte di elementi
dei cartelli colombiani prende piede a partire dagli anni
Novanta, dove si ebbero regolamenti di conti anche con
personalità inserite a livello
politico locale.
Il 28 dicembre 1989 si svolse a Roma un incontro tra le
più alte cariche delle forze
dell’ordine dedite alla repressione dei traffici di droga di
Stati Uniti, Italia e Spagna.
L’allora direttore della Dea,
John Lawn, mise in allerta i
colleghi iberici dichiarando
come vi fossero forti indizi
che legavano l’ingresso della
cocaina nel Vecchio continente a iniziative portate avanti
dalle famiglie Ochoa e Matta
Ballesteros, citando in merito
le relazioni dirette, culturali e
linguistiche che intrecciavano i due gruppi tra le sponde
dell’Atlantico. Entrambe le
famiglie visitarono più volte
la Spagna dalla fine degli anni
70, riuscendo a stabilire importanti contatti per la creazione
di un secondo mercato per la
cocaina, alternativo per dimensioni e disponibilità economica
a quello nordamericano.
La famiglia Matta Ballesteros
ha origine honduregna, fu una
delle prime a stabilirsi in Spagna con fini di riciclaggio di
denaro sporco, proveniente
dal traffico di cocaina tra Colombia e Stati Uniti svolto da
Júan Ramon Matta Ballesteros.
I forti legami con il cartello
di Medellín resero Júan Ramon un personaggio chiave,
definito un pioniere nel suo
campo, in quanto coinvolse
Spagna
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Spagna
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il Messico, più precisamente
la cittadina di Guadalajara,
nel rifornimento del mercato
statunitense attraverso il consolidamento di questa nuova
rotta (nota oggigiorno a causa
delle migliaia di morti da essa
provocati). Arrestato nel 1988
sta ora scontando l’ergastolo in
un carcere di massima sicurezza in Colorado per traffico di
droga e omicidio di un agente
della Dea infiltrato. L’importanza della sua figura è data dal
contemporaneo investimento
in Spagna, da parte della sua
famiglia, delle fortune provenienti dal narcotraffico. Molto
importante in questa operazione di riciclaggio fu il ruolo
svolto dal fratello, José Nelson
Matta Ballesteros, che iniziò
a frequentare la Spagna nel
1979, quando fu individuato
a Madrid; nel 1984 ottenne la
residenza nella città galiziana
di La Coruña, situata nel nordovest della penisola. Nel 1986
giunsero a Madrid anche il
fratello Reinaldo e la sorella
Leticia. Lo stesso Júan Ramón
visitò più volte il paese e trovò
rifugio nella capitale spagnola
durante il 1985, continuando a
gestire i suoi affari attraverso
il telefono come testimoniano
le intercettazioni della polizia
spagnola.
Attraverso l’aiuto dei Fernandez Espina, fratelli asturiani
legati a vari narcotrafficanti di
cocaina e con interessi immobiliari in molti stati sudamericani e nella stessa Galizia, i
Matta Ballesteros riuscirono a
entrare nel tessuto imprenditoriale autoctono. La procedura
fu la stessa già utilizzata da
molte organizzazioni criminali
in tutto il mondo. Un imprenditore galiziano che attraversa-
va difficoltà economiche, Jesús
Louzao Pardo, proprietario di
una catena di concessionari di
automobili di lusso (settore nel
quale i suoi eredi sono tuttora attivi) accettò di aprire la
sua società, Briocar, al denaro
proveniente dai Matta e dai
Fernandez. Dopo aver saldato
i debiti contratti previamente,
iniziò una forte campagna di
espansione e diversificazione
che attraverso la creazione di
ulteriori società e l’estensione
della rete d’influenza in tutta
la comunità autonoma, portò
il gruppo nel settore degli appalti pubblici. Esempio ne è la
realizzazione del parcheggio
sotterraneo di “plaza de Vigo”
situato nella città di Santiago
de Compostela. L’arresto di
Juan Ramón nel 1988, da parte delle autorità statunitensi,
portò a galla tutta la rete creata
nel mercato spagnolo col fine
di riciclare i proventi illeciti
della famiglia honduregna.
Le cause che provano a chiarire
il motivo di un tale radicamento nella società galiziana della
famiglia Matta Ballesteros sono
elencate dal giornalista Perfecto Conde nel libro “La conexión gallega”. Un individuo
quale José Nelson, fratello di
un noto narcotrafficante, arriva
in una terra a lui sconosciuta
e di punto in bianco inizia a
investire grandi quantità di
denaro senza che nessuno si
interroghi sulla provenienza.
Nessuno fa domande, uno dei
segnali caratteristici della società omertosa. Questo fu possibile perché all’epoca la società galiziana era già interessata
dallo svolgimento di importanti operazioni di riciclaggio
da parte dei contrabbandieri
autoctoni di tabacco. I loro de-
positi bancari erano custoditi
da succursali di moltissime
banche in quanto gran riserva
di liquidità, in un’economia
debole quale quella del nordovest spagnolo. In secondo luogo la Galizia era (ed è tuttora)
una delle comunità autonome
con un’economia più debole,
rispetto alla media spagnola,
e con una forte percentuale
di sommerso. Tutti i fattori
tra loro combinati favorirono l’instaurarsi di un regime
economico poco trasparente e
adatto alle attività di riciclaggio. In una parte del sistema
economico si venne a creare
una sorta di mentalità dal capitalismo distorto, in qualche
maniera simile a quello che
ritroviamo oggi in un fenomeno che può definirsi globale,
dove qualsiasi mezzo lecito
o illecito viene considerato
valido e legittimo allo scopo di
arricchirsi. Non importa se il
denaro abbia origine dubbia o
sia esplicitamente frutto di attività criminali. Ulteriore prova
a sostegno di questa tesi, e a
testimonianza dell’appoggio di
una parte della classe politica
presentata ai Matta Ballesteros
dai fratelli Fernandez, furono
le dichiarazioni rilasciate dal
governatore civile di La Coruña
Ramón Berra in difesa di José
Nelson, per il quale l’honduregno rientrava nella categoria
della “gente limpia” (gente
pulita), e dall’allora sindaco
della stessa città Francisco
Vázquez, che apostrofò il tutto
come un attacco al buon nome
della città.
Il capo dei narcos: Jorge Luis
Ochoa. Jorge Luis Ochoa fu uno
dei principali narcotrafficanti colombiani. Esponente di
51 | dicembre 2012 | narcomafie
rante il regime di detenzione.
Di carceri Ochoa ne cambiò
ben tre in territorio spagnolo:
Carabanchél a Madrid, Puerto de Santa María a Cádiz ed
Alcalá-Meco vicino a Madrid.
Questo giro della Spagna gli
consentì di entrare in contatto con i principali criminali
spagnoli, tra i quali alcuni
galiziani. Su tutti Sito Miñaco,
uno dei principali importatori di cocaina, in carcere per
traffico di hashish (cfr. p. 46).
Come accaduto più volte nel
corso della storia del traffico di
cocaina, la galera si trasforma
in una sorta di università del
crimine. Basta pensare al narcos statunitense George Jung,
che attraverso la detenzione
per traffico di marijuana entrò
in contatto con Carlos Lehder, cofondatore del cartello
di Medellin che lo introdusse
presso Pablo Escobar. Di lì in
poi il mercato delle sostanze
stupefacenti degli Usa sarebbe
stato ricoperto da una marea
bianca. La somiglianza tra i
due casi, con i narcotrafficanti
galiziani al posto di Jung e il
trio Matta Ballesteros-OchoaOrejuela dall’altra, è notevole
ed è esemplare del ruolo svolto
dal carcere quale “catalizzatore” delle attività criminali.
È bene ricordare come la Colombia sia il maggior produttore ed esportatore al mondo
di cocaina, grazie alle particolari condizioni climatiche
nelle quali la pianta di coca
é in grado di svilupparsi. La
frammentazione dei grandi
cartelli colombiani garantisce
una maggiore concorrenza e la
possibilità di differenziazione nell’approvvigionamento.
L’esportazione di cocaina verso
l’Europa non si è fermata. È
aumentata dagli anni Novanta
fino agli ultimi anni Duemila
quando, secondo le principali agenzie come Unodc, si é
raggiunto il punto di saturazione delle grandi nazioni del
mercato europeo come Gran
Bretagna, Italia e Spagna (dal
1998 al 2006 il consumo era
invece raddoppiato).
L’arrivo dei messicani. Un
cablogramma divulgato nel
dicembre 2010 da Wikileaks ha
rivelato come le organizzazioni
criminali messicane abbiano
sostituito quelle colombiane
nel traffico in Europa. L’affacciarsi sul mercato europeo dei
messicani era stato menzionato
anche nella relazione 2010
della Direzione centrale servizi
antidroga (Dcsa), tuttavia senza
indicarne la preponderanza.
In un’operazione svolta nel
novembre 2010 dalle forze
dell’ordine spagnole è stata
smantellata un’organizzazione composta da messicani,
colombiani e galiziani. Si è
dunque più propensi a pensare
che i nuovi gruppi, più piccoli
e flessibili, non agiscano in
base ad un criterio nazionale
ma abbiano una composizione
cangiante secondo le necessità
del momento: joint venture
formate anche per una sola
spedizione e in seguito dissolte.
Mafie italiane? Vanno dritte
alla politica. Tra le organizzazioni criminali italiane la
camorra, rispetto alla ’ndrangheta, ha un ruolo di primo
piano sin dai primi insediamenti. In linea generale, i latitanti trovarono nella penisola
in transizione dalla dittatura
un rifugio sicuro dalle forze
Spagna
punta del cartello di Medellín,
quando arrivò a Madrid, il 14
giugno 1984, era considerato
uno dei quattro narcos più
pericolosi, alla stegua di Pablo
Escobar, Gilberto Rodríguez
Orejuela (anch’egli residente
in Spagna e arrestato insieme
ad Ochoa) ed esponente del
cartello di Calí e José Gonzalo
Rodríguez Gacha. La venuta in
territorio spagnolo era il frutto
di una fuga di massa, lo stesso
Escobar fuggì in Australia per
breve tempo, in seguito alla
prima campagna di repressione dei narcos, ad opera dello
Stato colombiano, avvenuta in
seguito all’uccisione del ministro della giustizia Rodrigo
Lara Bonilla.
Jorge Luis Ochoa scelse la Spagna in quanto poteva contare
su alcune conoscenze, come
i fratelli Fernandez Espina, e
per fattori linguistico culturali,
in quanto facilitato dall’idioma comune. Pinificando una
lunga permanenza, organizzò
capillarmente il contrabbando
di grandi quantità di cocaina
colombiana, svolgendo, nello
stesso tempo, attività di riciclaggio investendo nel settore
immobiliare e in auto di lusso.
Il tutto non passò inosservato
alla polizia spagnola e alla Dea
statunitense. Due mesi dopo
il suo arrivo in Europa, il 15
novembre 1984, Ochoa venne
arrestato dalla polizia spagnola
e incarcerato fino al 1986, data
nella quale venne estradato in
Colombia. La detenzione in
Colombia si rivelò ben presto
una farsa ed il boss venne rilasciato su cauzione.
L’elemento importante che
emerge da questa vicenda e
aiuta ai fini della ricerca, è
il continuo spostamento du-
Spagna
52 | dicembre 2012 | narcomafie
dell’ordine italiane, grazie alla
pressoché inesistente cooperazione tra le polizie europee
e ad una legislazione che non
rispondeva in maniera adeguata al fenomeno mafioso (cfr
box p.54). Dei latitanti italiani
arrestati all’estero negli ultimi
dieci anni, circa un terzo era
residente nella penisola iberica
e sempre a questa spetta il
primo posto nella graduatoria
delle rogatorie internazionali
richieste dalla Dda? La Spagna
è anche un fondamentale luogo
di incontro con i narcos. Qui si
contrattano i grandi carichi di
cocaina. Fino all’apertura della
“rotta africana”, avvenuta in
seguito all’impegno profuso
dalle forze di polizia spagnole, inglesi e statunitensi nel
contrasto dei carichi via mare
che, attraversando l’Atlantico,
facevano spola tra Sud America e Spagna, le organizzazioni
italiane avevano un ruolo di
secondo piano rispetto a quelle colombiane e galiziane. Le
cause del rilancio “italiano”
sono identificabili nella nuova prospettiva geografica, più
vantaggiosa per il Sud Italia,
e nella perdita di quel fattore
linguistico-culturale che tanto
aveva avvantaggiato gli spagnoli. Naturalmente, questo non
significa affatto che la rotta
via mare “Atlantica” sia stata
abbandonata, vi è stato solo
un suo ridimensionamento.
È interessante notare come
non vi siano esponenti della
criminalità italiana nella costa atlantica, più proficua e
adatta ai traffici, situata nel
nord-ovest del paese. Forse
la presenza di organizzazione
come quella galiziana e l’Eta
ne impediscono il radicamento
nel territorio.
I Bardellino e il clan dei Casalesi. Antonio Bardellino,
storico capo clan di San Cipriano d’Aversa, fu il primo di
una lunga serie di camorristi
a usare la Spagna come luogo per latitanza e affari. Fu
arrestato il 2 novembre 1983
dalla polizia spagnola presso
Barcellona. In seguito a uno
scandalo giudiziario, ricordato dalla stampa spagnola
come il “caso Bardellino”,
fu rimesso in libertà dopo il
pagamento di una cauzione
nel 1984, nonostante l’Italia
avesse già iniziato le procedure
per l’estradizione. I contorni
dell’accaduto sono poco chiari.
In base alla ricostruzione del
quotidiano «El País», l’allora compagna di Bardellino,
Rita de Vita, avrebbe pagato
la somma di dieci milioni di
pesetas a una prostituta, sentimentalmente legata al giudice
Jaime Rodríguez Hermida (lo
stesso viene definito “angelo
custode” dei contrabbandieri
galiziani fino agli eventi qui
citati). Questi, che verrà in
seguito espulso dalla carriera
giudiziaria nel 1986, era intimo
amico di un secondo giudice,
Ricardo Varón Cobos, diretto
responsabile del provvedimento di libertà provvisoria. Se i
contorni dell’accaduto permangono tutt’oggi poco chiari,
quel che emerge è la capacità
di influenza di Bardellino in
territorio spagnolo negli anni
Ottanta, nel quale fu anche uno
dei primi investitori a scopi di
riciclaggio.
In seguito alla fuga, il boss della camorra continuò a spostarsi
in una lunga serie di viaggi
d’affari. Andò in Brasile e intavolò un traffico di cocaina.
Nel 1987 giunsero al culmine
le tensioni interne nel clan,
stimolate dalla lontananza
dal territorio del capo, non
essendo il legame camorristico
di natura fedele come quello
“di sangue” ’ndranghetista, e
dallo scalpitante gruppo dei
“casalesi”. Tornato in patria
per ristabilire gli equilibri
interni, Bardellino commise
l’errore di uccidere il fratello
del suo braccio destro Mario
Iovine, Domenico. In seguito
lo stesso Iovine ammise di
essersi vendicato uccidendo
il suo ex capo. Il corpo non
venne però mai ritrovato ed
alcune testimonianze, quale
quella di Buscetta, stendono
un alone di dubbio sulla sua
presunta morte.
Sta di fatto che nel ruolo al
vertice subentrò Iovine, il
quale diede inizio alla guerra
che portò all’uccisione di tutti
gli uomini fedeli al vecchio
ordinamento. Il nuovo boss
si avvalse di figure emergenti
che ben presto lo avrebbero
tradito, i casalesi: Bidognetti,
Schiavone, Vincenzo De Falco
e Zagaria. Commise lo stesso
errore del suo vecchio capo.
Allontanandosi dal territorio campano per stabilirsi in
Portogallo, permise ai quattro
di stabilire nuovi equilibri di
potere attraverso una faida intestina. Nel 1991 fu eliminato
Vincenzo De Falco, a causa di
una sua presunta soffiata alla
polizia, eseguita su avvallo
di Iovine. Questi viene a sua
volta eliminato per vendetta
dal fratello, Nunzio De Falco,
il quale risiedeva a Granada
utilizzando come copertura
la gestione di un ristorante (in
realtà trafficando droga).
L’omicidio del capo provocò
un ulteriore confronto tra i
53 | dicembre 2012 | narcomafie
La Camorra a Tenerife. Il 18
ottobre 2011 le forze dell’ordine
spagnole portarono a termine
l’“operación Pozzaro”, tesa a
contrastare le infiltrazioni della
Camorra nel tessuto imprenditoriale e, per la prima volta, nel
contesto politico spagnolo. Il
clan in questione è quello dei
Nuvoletta, che sarebbe penetrato nelle file del Partido Popular
della cittadina di Adeje, ubicata
nel sud di Tenerife, attraverso
l’avvocato Domenico di Giorgio,
arrestato nell’ambito dell’operazione Pozzaro. Quest’ultimo
si era in un primo momento
candidato come numero quattro
nella lista del Pp per le elezioni
municipali del 22 maggio 2010
e avrebbe collaborato attivamente (come testimoniato dal
suo profilo Facebook) anche
dopo la rinuncia, avvenuta
all’ultimo momento per motivi di salute di un familiare non
precisato. Il Pp comunque non
riuscì a vincere e subì anche un
duro contraccolpo d’immagine
quando l’avvocato pubblicò una
foto nel suo profilo con Mariano
Rajoy, attuale primo ministro
spagnolo. Il Pp di Tenerifé attraverso una comunicazione alla
stampa rispose: «Non è possibile chiedere la fedina penale
a chiunque stringa la mano al
candidato premier».
La presenza di esponenti della
famiglia Nuvoletta nelle isole
Canarie è nota da anni, denunciata anche da Roberto Saviano
in “Gomorra”. È senza dubbio
un grande smacco per il Pp di
Tenerife il non aver vigilato di
fronte ad un’infiltrazione nel
tessuto imprenditoriale risaputa da molti anni e identificata
concretamente nel complesso
urbanistico “Marina Palace”.
Se i risultati delle indagini
fossero confermati al termine
del processo, saremmo in presenza della prima infiltrazione
diretta da parte di un’organizzazione straniera nel sistema
politico spagnolo.
La presenza ‘ndranghetista.
Seconda solo a quella camorrista, la mafia calabrese utilizza il territorio come mercato
Una testimonianza del notevole
ingresso di capitali sporchi risale al 2006, quando prese il via
un’indagine della Banca centrale
di Spagna tesa a motivare l’incredibile quantità di banconote da
500 euro presente nel territorio.
Queste infatti, dato aggiornato al
2011, rappresentano il 71,4% del
valore di tutte le banconote presenti in Spagna, per un valore di
71.389 milioni di euro. Quasi una
banconota su quattro di tutta l’area
euro. Inutile dire come la maggior
parte sia legata a operazioni illecite
attuate da bande criminali. Nel 2010
le case di cambio inglesi smisero
addirittura di convertirla, dopo
aver dichiarato che il 90% delle
transazioni era legato a fenomeni
criminali quali traffico di droga o
lavaggio di capitali. Il soprannome
che é stato affibbiato al taglio è Bin
Laden: «...por lo mucho que se ha
oído hablar de ellos y por los pocos
que se han visto» (per quanto se è
sentito parlare e per il poco che
se ne sono viste, «El País», 2010).
A conferma dell’uso improprio è
possibile citare l’arresto di Patrizio
Bosti, esponente dell’alleanza di
Secondigliano, avvenuto presso
un lussuoso ristorante della Costa
Brava: gli furono sequestrati 24mila
euro in 48 biglietti da 500.
Spagna
Gli“spagnoli” di Scampia.
Il secondo gruppo che vi risiede tutt’ora è quello degli
“Spagnoli” di Scampia. Questo
prende il nome dall’abitudine
di molti affiliati di risiedere
a Madrid, Barcellona e Costa
del Sol. Esponente principale
fu Raffaele Amato, arrestato a
Marbella nel 2009, che investì
nel mercato immobiliare e in
società finanziarie denaro proveniente dai traffici più svariati.
Interessante notare come un suo
“collega”, Maurizio Prestieri,
descriva la struttura nella quale
è rinchiuso in Spagna con le
seguenti parole: «Mi sembrava
un villaggio Valtur...»: un indicatore dell’impreparazione del
regime carcerario spagnolo ad
affrontare personaggi che, seppur rinchiusi dietro le sbarre,
sono in grado di gestire gli affari
attraverso contatti telefonici.
L’ultimo latitante camorrista
arrestato in ordine cronologico
è Salvatore D’Avino, 39 anni,
inserito nella lista dei 100 ricercati di massima pericolosità, bloccato dai Carabinieri il
24 Agosto 2011 a Marbella.
I 500 euro di
Bin Laden
vari esponenti che terminò
con l’egemonia del gruppo
casalese. De Falco, dopo aver
vendicato il fratello, decise di
tenersi fuori dai giochi continuando la sua vita a Granada.
In questo periodo avvenne anche l’omicidio di Don Peppe
Diana, eseguito sotto l’ordine
dello stesso De Falco da Quadrano, il quale scappò a Barcellona decidendo in seguito
di collaborare con la giustizia
per aver salva la vita. Nel 2004
la giustizia spagnola condannò
De Falco per traffico di stupefacenti estradandolo in Italia
nel 2005, dove tutt’ora sconta l’ergastolo quale mandante
dell’omicidio di Don Peppe
Diana. I suoi eredi continuano a godersi il frutto dei suoi
traffici illeciti in Spagna.
C’era una volta
un rifugio sicuro...
Spagna
54 | dicembre 2012 | narcomafie
L’inefficienza del sistema repressivo e giudiziario spagnolo è radicalmente cambiata grazie ai passi
avanti registrati in materia e alla
forte volontà dei governi succedutisi nell’affrontare il problema.
Le principali strategie adottate
furono l’entrata in vigore del mandato di cattura europeo (2004); il
progressivo ampliamento della
legislazione spagnola (vedi l’introduzione nel 1995 del reato contro
la salute pubblica) e il lavoro di
sensibilizzazione e assistenza ai
tossicodipendenti svolto attraverso il “Plan nacional sobre drogas”
che, dal 1985, si è rinnovato fino
ai giorni nostri.
Nelle stesse forze dell’ordine esistono diverse unità speciali per
il contrasto alle organizzazioni
criminali, coordinate dalla Udyco
central, acronimo di “Unidades
de droga y crimen organizado”,
create nel 1997 per aumentare
l’efficacia repressiva nei confronti
della criminalità organizzata in
tutti i suoi aspetti: dal lavaggio
di capitali al traffico di droga. Si
compongono di diversi gruppi
ubicati sul territorio spagnolo
nelle zone maggiormente esposte a
questi fenomeni: Galizia, Costa del
Sol, isole Canarie. Sotto il profilo
delle unità “operative”, quelle che
più di altre si distinguono per il
contrasto al narcotraffico sono
i Greco’s “Grupos de Respuesta
Especializada contra el Crimen
Organizado”. Esse sono composte
da circa trenta uomini dotati dei
più moderni equipaggiamenti esistenti e operano in collaborazione
con le unità Udyco.
È lecito dunque affermare che la
Spagna non costituisce più un
rifugio molto sicuro per i latitanti,
sebbene continui a offrire importanti opportunità di riciclaggio,
ampliate dall’odierno contesto
di crisi europea e da due fattori
caratteristici del nuovo mondo
globalizzato. Il primo è il gran
passo avanti fatto dalle tecnologie
che garantisce una miglior rete
informativa indispensabile per
rende più flessibile la struttura
dell’organizzazione, adattandola
meglio agli scopi criminali. Lo
sviluppo tecnologico è utilizzabile
anche nell’ottica del riciclaggio di
denaro, consentendo spostamenti
in un breve lasso di tempo da
una parte all’altra del mondo.
In questo settore è da segnalare
il prezioso apporto dei paradisi
fiscali, i quali attraverso le loro
legislazioni compiacenti permettono alla criminalità organizzata
di creare una maschera di pseudo
liceità una volta introdottasi nel
mercato legale.
Il secondo fattore del contesto
odierno criminale è l’apporto fornito da nuove figure del crimine
organizzato che possono essere
accomunate alla figura del libero
professionista. Gli esempi sono
quelli del broker, dell’ex appartenente a servizi segreti dell’Est o
del narcotrafficante galiziano, che
mettono a disposizione le proprie
abilità specializzate d’alto livello
a organizzazioni più strutturate.
Queste possono ora esternalizzare
alcune competenze, non dovendole sviluppare da zero al proprio
interno e facilitando in questa
maniera l’attività delittuosa.
per riciclaggio, latitanza e
commercio di droga. Il più
importante arresto fu quello
di Santo Maesano nel 2002 a
Palma de Majorca. Capo della
’ndrina Maesano-Paviglianiti,
gestiva carichi di droga e traffico d’armi attraverso la copertura di un ricco impresario
italiano stabilitosi in Spagna.
L’emigrazione avvenne verso
la fine degli anni Novanta a
Madrid, dove stabilì il suo
quartier generale. Il legame tra
i membri dell’organizzazione
di ’ndrangheta, il cosiddetto
“vincolo di sangue” o legame
familiare, e la concezione del
territorio sono diversi rispetto
a quelli camorristi. L’assenza
del capo non portò dunque a
guerre intestine. Pur essendo
a centinaia di chilometri, e
anche in seguito al suo arresto
(evidenziando la mancanza di
misure adeguate nel regime
carcerario), Maesano continuò a esercitare il suo ruolo
di comando fino alla data di
estradizione in Italia, avvenuta
nel gennaio del 2004.
Nel 2011 è stata arrestata a
Barcellona una presunta esponente del clan Lo Giudice,
in un’operazione congiunta
svolta tra Italia e Spagna dalla squadra mobile di Reggio
Calabria, avvenuta grazie al
mandato di cattura europeo.
Gli esponenti della ’ndrangheta
appaiono in quasi tutta la costa
mediterranea della Spagna,
come i Piromalli Molé situati
in Cataluña, e nella capitale
Madrid, i Marando e Sergi di
Platì.
I casi Pannunzi e Magnoli.
La figura del broker merita un
trattamento distinto dato che
molto spesso non fa parte di
un’organizzazione specifica
e attraverso il proprio lavoro
riesce a coordinare diverse
componenti di appartenenza
multipla. I suoi compiti sono
quelli di far incontrare domanda e offerta, organizzare
il trasporto, trovare e ripartire
le quote tra gli azionisti di
una determinata spedizione di
cocaina. La reputazione e l’affidabilità di un broker sono la
chiave per le trattative tra produttori, molto spesso narcos
colombiani, e organizzazioni
compratrici. È lui il garante
dei pagamenti e la sua credibilità presso i produttori gli
consente, in alcuni casi, di non
pagare la merce in anticipo,
ma solamente dopo l’avvenuta
consegna.
Figura esemplare in questo
campo è Roberto Pannunzi,
oggi latitante, evaso nel 2010
dagli arresti ospedalieri. Un
ritratto della sua persona è
dato dalla dichiarazione rilasciata dal procuratore Gratteri: «Pannunzi è legato alla
cosca Macrì di Siderno, ma in
realtà era un broker al di sopra
dei locali di ’ndrangheta. Non
era affiliato a una famiglia, ma
lavorava per più famiglie. Era
uno dei grossi broker che la
’ndrangheta ha in Colombia
e in Sud America e comprava partite di cocaina per più
famiglie. Era su un livello
superiore e aveva rapporti
con la mafia, con i capi mandamento siciliani. A Palermo
era di casa. Gode di numerosissimi appoggi. Uomini come
Pannunzi sono cittadini del
mondo, gente che gira anche
due o tre Stati nella stessa
giornata. Fa parte di quella
schiera di persone dove i soldi
non si contano, si pesano». Il
broker riuscì ad evadere due
volte. La prima nel 1999, in
seguito all’arresto avvenuto
a Medellín nel 1994 e nel
quale aveva offerto un milione
di dollari agli agenti per far
finta di non averlo visto. La
seconda nel 2010, in seguito
all’arresto in Spagna avvenuto nel 2004 in compagnia
del figlio Alessandro, entrato
anche lui nel giro. In entrambi
i casi utilizzo il medesimo
procedimento; dopo essersi
fatto ricoverare in ospedale
per motivi di salute si dileguò senza lasciare traccia.
I Pannunzi utilizzarono la
Spagna come base operativa
per i loro traffici.
Un secondo broker arrestato in
territorio spagnolo è Ippolito
Magnoli, residente in un paesino ubicato nelle vicinanze
di Barcellona fino alla cattura
avvenuta nel 2008. Questi faceva parte della cosca PiromalliMolé e curava i contatti con
i narcos colombiani. Seppur
non paragonabile ai Pannunzi,
per volume d’affari, è prova
dell’importanza rivestita dalla
Spagna quale mercato delle
droghe.
Bande straniere e hashish.
Grandi quantità di hashish
sono introdotte sfruttando la
vicinanza con il Marocco, principale produttore. I mezzi utilizzati nel traffico prevedono
l’impiego di pescherecci, navi
porta-container, gommoni e
camion commerciali. Data la
facilità d’approvvigionamento,
il mercato è molto frammentato, con bande composte da
marocchini, britannici, portoghesi e, in minor numero,
da olandesi e gibilterriani. I
principali punti di partenza
per questo traffico sono le
enclave spagnole di Ceuta e
Melilla che, a causa della loro
posizione chiave in territorio
marocchino, sono ideali per
passare i controlli alla frontiera. Il mercato dell’hashish non
porta alla formazione di grandi
strutture criminali in quanto
non offre elevati margini di
guadagno quali quello della
cocaina e dell’eroina.
Dall’Est Europa, l’eroina. Sostanzialmente di provenienza
afghana, l’eroina era un tempo
distribuita da bande gitane provenienti dall’Europa orientale.
Negli ultimi anni le organizzazioni che vi si dedicano risultano composte da individui
romeni, albanesi e kosovari,
spesso integrate da individui
di nazionalità spagnola e da
storici trafficanti colombiani
e olandesi. È da sottolineare
come la Colombia, da alcuni
anni, concorra nella produzione di eroina, seppur con
quantitativi modesti. La maggior parte della sostanza viene
introdotta nel Paese attraverso
una rotta che, passando dalla
Turchia, attraversa via terra
tutta l’Europa.
Spagna
55 | dicembre 2012 | narcomafie
altarisoluzione
56 | dicembre 2012 | narcomafie
Nella terra
dei fuochi
Un tempo Acerra era nota per la fervida
attività agricola e per la bontà dei prodotti
coltivati nei terreni della zona. Da qualche
decennio, però, le cose sono cambiate e
ad Acerra è stato inflitto un triste e drammatico appellativo: con Nola e Marigliano
costituisce il “Triangolo della morte”.
Viene indicata così la vasta area della
provincia di Napoli nord nella quale è
stato riscontrato un forte aumento della
mortalità per cancro, che per alcune patologie raggiunge livelli molto più alti della
media italiana. La causa dell’aumento di
mortalità è attribuita all’inquinamento
ambientale, principalmente dovuto allo
smaltimento illegale di rifiuti tossici da
parte della Camorra. I roghi nella Terra
dei Fuochi sono un problema che va
avanti da anni e rappresenta uno degli
aspetti più drammatici del disastro rifiuti
in Campania. In provincia di Napoli, ma
Foto e testo di Luciana Passaro e Mauro Pagnano
57 | dicembre 2012 | narcomafie
58 | dicembre 2012 | narcomafie
anche a Caserta e dintorni, le terre appartengono a “Gomorra”. Qui la camorra
non esita ad appiccare fuochi anche nel
centro delle città. Lo scempio ambientale
è ogni giorno più evidente, e diventa
molto più triste se a fare da cornice
ai cassonetti bruciati e alla spazzatura
sversata in modo irregolare sono proprio
i numerosi necrologi che testimoniano
la drammatica situazione del rischio tumori per la salute degli abitanti di questi
territori. I numeri elaborati dall’Istituto
nazionale per lo studio e la cura dei
tumori “G.Pascale” di Napoli dicono
anche che in questa zona la frequenza
del cancro al polmone è del 30% più
elevata rispetto alla media nazionale e
che il tasso di mortalità femminile per
questa patologia è il più alto nel nostro
paese, con un aumento del 100% in soli
20 anni (1988-2008), a fronte di una
diminuzione di circa il 50% sull’intero
territorio nazionale.
altarisoluzione
59 | dicembre 2012 | narcomafie
rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
60 | dicembre 2012 | narcomafie
Droga,
corrieri per
disperazione
Lima Sempre più persone colpite dalla crisi vengono recluta
reclutate come corrieri dai trafficanti
di cocaina peruviani in cambio
di qualche migliaio di euro. Per
molti di loro, però, il viaggio
si conclude nelle carceri del
paese. È presso l’aeroporto di
Lima, dove in media sono se
sequestrati otto chili di cocaina
al giorno, che gli agenti della
Dirandro (Direzione antidroga della polizia nazionale del
Perù) individuano i corrieri:
«Greci, romeni, bulgari, fran
francesi e ovviamente spagnoli, i
più numerosi. Quest’anno il
loro numero ha superato quello
dei peruviani. Ci dicono tutti la
stessa cosa: è la crisi economica
che li spinge a fare questo», os
osserva il comandante Anderson
Reyes, capo del dipartimento
Reyes
antidroga dell’aeroporto. Il fenomeno ha assunto un carattere di massa: nelle prigioni
peruviane ci sono 695 europei,
di cui il 90% per trasporto di
droga. Nel 2011 questo paese è
diventato il principale esportatore di cocaina verso l’Europa.
I corrieri che riescono a passare
attraverso le maglie della rete
guadagnano fino a diecimila
euro. Per gli altri il viaggio
finisce spesso nella prigione
di Callao, a due passi dall’aeroporto. Una prigione dalla
reputazione terribile, come il
quartiere che la circonda.
Timoteo, ex buttafuori di discoteca a Barcellona, dice:
«Lavoravo ormai solo il fine
settimana, ti cercano e finiscono
per convincerti». Il seguito è
Jérémy a raccontarlo, giovane
parigino, reclutato da uno dei
suoi clienti: «Mi aveva riservato una camera a Miraflores, il
quartiere più bello di Lima. Mi
è stato semplicemente chiesto
di fare il turista. Il giorno X al
check-in mi hanno fatto passare
dietro il bancone. Un poliziotto
ha conficcato un coltello nella mia valigia e ha introdotto
un cotton fioc nel buco. Mi
ha detto: “Se esce blu vuol
dire che la tua valigia è fatta
di cocaina”. E ovviamente è
uscito blu». Jérémy sa perché
è stato reclutato: «Non sono
un delinquente, non mi drogo,
ho una faccia da europeo che
passa bene ai controlli e avevo
bisogno di soldi».
Hsbc, sanzione
record
Londra La banca inglese Hsbc ha
annunciato che pagerà un’ammenda di 1,92 miliardi di dollari
(1,48 miliardi di euro) per chiudere la procedura aperta dalle
autorità americane sul riciclaggio di denaro legato ai cartelli
della cocaiana sudamericani e al
terrorismo di matrice islamica.
Si tratta della più alta sanzione
mai pagata da una banca. La
banca, accusata di complicità
nell’attività di riciclaggio, ha
posto così fine a una serie di
indagini da parte del Tesoro
americano, del Dipartimento di
giustizia, delle agenzie federali e
del procuratore generale di Manhattan. «Hsbc – si legge nella
nota del gruppo – ha raggiunto
un accordo con le autorità ame-
ricane nel quadro delle indagini
sulle violazioni delle norme in
materia di sanzioni e lotta contro
il riciclaggio di denaro». Stuart
Gulliver, direttore generale di
Hsbc, ha dichiarato in un comunicato ufficiale: «Ci assumiamo
le responsabilità dei nostri errori
passati. Abbiamo espresso la
nostro profondo dispiacere già
una volta e ribadiamo le nostre
scuse. Oggi Hsbc è un’entità totalemente differente da quella che
aveva commesso certi errori».
L’estate scorsa, infatti, l’istituto
aveva presentato pubblicamente
le proprie scuse davanti alla
commissione di inchiesta del
senato Usa per non aver vigivigi
lato su possibili operazioni di
riciclaggio di denaro.
Il rapporto del senato sottolisottoli
neava “gravi carenze” nel sistesiste
ma antiriciclaggio del network
Hsbc. La filiale americana in sei
anni aveva concluso circa 16
miliardi di dollari di transazioni
segrete con l’Iran. E tra il 2007 e
il 2008, quella messicana aveva
trasferito circa 7 miliardi di
dollari, denaro probabilmente
appartenente ai cartelli della
droga messicani.
Le scorse settimane, Standard
Chartered,, altra banca britanbritan
nica, ha accettato di sborsasborsa
re 327 milioni di dollari per
mettere fine a un’inchiesta
della giustizia americana su
sospette infrazioni, in partiparti
colare violazioni di sanzioni
internazionali. Nel giugno
passato Ing Bank aveva pagato
un’ammenda di 619 milioni
di dollari – era la più alta mai
registrata prima che venisse
comminata quella di Hsbc –
per mettere termine alla accuse
di Washington secondo cui
erano statae violate le sanzioni
inposte su Cuba e Iran.
61 | dicembre 2012 | narcomafie
Nessun
obbligo sull’uso
dei beni
confiscati al
narcotraffico
Zurigo I fondi confiscati al narcotraffico non dovranno essere
utilizzati in favore del reinse-
rimento dei tossicodipendenti.
È questa la conclusione cui è
giunto lo scorso dicembre il
Consiglio federale elvetico in
un rapporto sul tema. Secondo
il governo questo tipo di utilizzo non è attuabile soprattutto
per ragioni federalistiche: significherebbe, infatti, imporre
ai Cantoni le modalità con cui
impiegare i valori patrimoniali
confiscati. Secondariamente,
una regolamentazione simile toglierebbe sia ai Cantoni sia alla
Confederazione la possibilità di
utilizzare il denaro secondo le
priorità. L’esecutivo è inoltre
convinto che l’attuale finanziamento del settore dell’aiuto
in caso di dipendenza adempie
al proprio scopo. Nel rapporto
viene sottolineato che la qualità dell’assistenza è assicurata.
Anche i Cantoni stimano come
esigua la necessità di intervento. Gli eventuali problemi
esistenti possono essere risolti
proprio a livello cantonale.
Internet point,
come ripulire
il denaro
Madrid Riciclare denaro per
conto dei cartelli colombiani
in maniera apparentemente
sicura. È quanto credevano
i membri della rete smantellata dalla Polizia lo scorso
dicembre. Una cinquantina di
persone, arrestate tra Madrid,
Barcellona e Albacete, dietro
il paravento di una serie di
locutorios (internet point) in
pochi mesi ha riciclato più di
30 milioni di euro per conto
dei narcotrafficanti colombiani. Per inviare i guadagni
ottenuti dalla vendita della
droga, l’organizzazione si
serviva di 12 locutorios in
grado di riciclare una media di 50mila euro al giorno. Nell’operazione le forze
dell’ordine hanno sequestrato
mezzo milione di euro. Il capo
della rete nascondeva in casa
300mila euro in contanti, due
chilogrammi di cocaina e una
pistola. L’indagine ha avuto inizio dopo l’“operación
Espejo” dell’ottobre 2010, che
aveva portato all’arresto di 41
persone legate al riciclaggio
di oltre 200 milioni di euro
provenienti in particolare dal
cartello di Cali.
Rifiuti tossici
rispediti
al mittente
Lagos Televisori, computer
fuori uso e frigoriferi rotti in
container provenienti dall’Inghilterra e sequestrati dalla
dogana nigeriana in un porto di
Lagos: è solo uno degli ultimi
tentativi di scaricare in Nigeria
rifiuti elettronici potenzialmente tossici. Secondo il quotidiano
nazionale, i rifiuti erano arrivati
a bordo della Marivia Monrovia. La direttrice dell’Agenzia
nazionale per la tutela delle
norme e degli standard ambientali, Ngeri Benebo, ha spiegato
che il carico era trasportato in
violazione della legge nigeriana
e, per questo, sarà rispedito in
Inghilterra. «Respingeremo – ha
aggiunto Benebo – i tentativi di
trasformare la Nigeria in una
discarica».
Il caso è solo uno della lunga
serie in un paese divenuto una
delle destinazioni privilegiate
per lo smaltimento di rifiuti
pericolosi provenienti dall’Europa e dal nord America. Il
precedente più grave risale
al 1987, quando una società
italiana fu accusata di aver
scaricato 3.500 tonnellate di
sostanze tossiche presso la
cittadina di Koko, nella regione sud-orientale del Delta
del Niger.
62 | dicembre 2012 | narcomafie
Frodi Ue,
sempre peggio
Bruxelles Ogni anno miliardi
di euro destinati allo sviluppo
dell’Ue vengono intascati o
sprecati da governi e aziende.
Nonostante le denunce, trovare
e punire i responsabili è ancora
troppo complicato. In Polonia
un gruppetto di multinazionali
ha speso circa sette milioni
di euro provenienti dai Fondi
sociali europei (Fse) per offrire
corsi di formazione ai propri
dipendenti. Questi fondi in verità erano destinati alle piccole
e medie imprese, non per chi
è già occupato e di certo non
per i manager. In primo luogo,
questi finanziamenti sono stati
studiati per aiutare chi ha una
formazione inadeguata ed è da
tempo disoccupato. Il quotidiano olandese «Trouw»ha rivelato l’uso improprio dei fondi
europei tempo fa, chiamando
le multinazionali con il loro
nome: Ing, Unilever, Philips
e Bgz, la consociata polacca
di Rabobank. Il livello di uso
improprio dei fondi è talora
sconcertante. L’articolo riporta
una dichiarazione di Grzegorz
Gorzelak del Centro per gli
studi europei regionali e locali
di Varsavia, secondo il quale
«sembra che tutti cerchino di
intascare soldi facilmente. Organizziamo corsi di formazione
del tutto inutili. Spendiamo
per album, biglietti da visita,
copertine di cd, tazze, giocattoli
e schede di memoria».
Le voci sull’uso improprio dei
fondi europei non sono nuove.
Due anni fa il «Financial Ti-
mes», in collaborazione con il
Dipartimento per il giornalismo
investigativo, ha presentato
i risultati di una minuziosa
inchiesta che ha scoperto che
i programmi europei per lo
sviluppo delle regioni europee
bisognose «sono paralizzati dal
peso della burocrazia».
Del resto, anche quando vengono individuati truffe e usi
impropri di rado sono perseguiti. Bart Staes, europarlamentare dei verdi e membro della
Commissione per il controllo
del budget spiega: «L’uso improprio non riguarda soltanto i
soldi provenienti dai tre Fondi
strutturali europei più importanti – che avrebbero dovuto
essere destinati all’occupazione
per lo sviluppo regionale e la
coesione sociale –. Anche i
sussidi all’agricoltura molto
spesso non sono utilizzati per
i fini per i quali sono stati
messi a punto». L’anno scorso la Corte dei conti europea
ha smascherato l’esistenza di
vaste estensioni di «terreni
destinati permanentemente a
pascolo» in Italia e in Spagna
che avevano ottenuto sussidi,
ma in realtà erano aree boschive
o siti di «altri elementi non
aventi i requisiti per ottenere
i sussidi».
Gli stati membri sono responsabili della gestione di questi fondi
e del loro uso a integrazione dei
loro stessi investimenti. Da questo punto di vista godono di un
grado considerevole di autonomia, e la Commissione europea
ne è ben consapevole.
Staes aggiunge che «nel corso
degli anni le amministrazioni
nazionali e regionali poco alla
volta hanno iniziato a considerare i fondi come fondi propri
invece che soldi europei. Di
conseguenza la vigilanza è
inadeguata. La Corte dei conti
europea ha calcolato che nel 70
per cento dei casi di uso improprio scoperti nei controlli, gli
stati membri avrebbero dovuto
essere consapevoli che i soldi
non erano utilizzati nel modo
previsto».
Nel frattempo, la Commissione di controllo del budget
del Parlamento europeo ha
proposto che i ministri delle
finanze degli stati membri siano
tenuti a rispondere del loro
operato. Fino a questo momento
soltanto quattro stati membri
hanno appoggiato la proposta: Svezia, Danimarca, Regno
Unito e Paesi Bassi. Secondo
Staes, «non è un caso che
proprio questi siano i membri
più euroscettici dell’Ue».
Messico,
legge per le
vittime del
narcotraffico
Città del Messico Il nuovo governo messicano ha promosso
nelle scorse settimane la controversa legge con cui le autorià
locali intendono assicurare assistenza alle decine di migliaia
di famiglie rimaste vittime delle
violenze legate al narcotraffico
negli ultimi sei anni.
Il presidente Enrique Pena Nieto ha spiegato che la Legge
generale delle vittime intende
“obbligare” le autorità ad assistere le vittime delle violenze,
stabilendo tra l’altro un fondo
per possibili risarcimenti.
«Oggi il Messico è un paese
ferito dal crimine. Con questa
legge, lo stato messicano intende ridare speranza e conforto
alle vittime. La legge rappresenta solo l’inizio di un sistema
di protezione più generale», ha
commentato Pena Nieto. Negli
ultimi 6 anni sono circa 60mila
i morti e 25mila gli scomparsi
per la guerra dei narcos.
63 | dicembre 2012 | narcomafie
Intervista di Carlo Ruta
In fuga da Istanbul, lungo le vie dell’eroina
e dei racket che portano in Europa
La lunga marcia, dal Bosforo al Vecchio continente, di un rifugiato politico in Italia. Le piste del narcotraffico. I trattamenti dei servizi segreti
dell’Est. La tratta di esseri umani. Le disillusioni della «terra promessa»
È una storia emblematica quella
di Gabriel M. di Istanbul, 37
anni, sposato e residente in
Italia, dove dopo il 2000 ha
ottenuto dallo Stato il riconoscimento di rifugiato politico.
Condannato perché simpatizzante di una organizzazione di
estrema sinistra, il Dhkp-C, da
cui si è dissociato con molta
convinzione, Gabriel si è dato
alla fuga nel 1997, quando aveva 22 anni. Per sopravvivere, ha
dovuto imparare numerosi mestieri, talvolta difficili e, come
vedremo, qualcuno ad altissimo
rischio. Parla quattro lingue e
ha una buona conoscenza della
geopolitica, soprattutto quella
asiatica e mediterranea, anche
per averla conosciuta e subita
di persona, passo dopo passo.
Egli ha percorso, seppure in
parte minima, quella che nel
Medioevo era stata chiamata
la Via della Seta e che oggi
è diventata, tra l’altro, la via
dell’eroina e dei mercanti di
schiavi. Lungo queste piste
Gabriel, intrecciando la sua
storia con quella di tantissimi
altri in fuga come lui, ha subito
la segregazione, nelle carceri
e nei campi per immigrati; ha
dormito all’addiaccio, nelle
stazioni e in case diroccate;
ha attraversato foreste, anche
a piedi. Ha dovuto lavorare
per funzionari dei servizi segreti bulgari, dell’ex Kgb. Ha
conosciuto, per forza di cose,
trafficanti di ogni specie. Dopo
questa esperienza, durata 15
mesi, ha dovuto reimpostare la
propria vita, con molte difficoltà. Da allora non ha potuto più
ritornare nel suo paese, neppure quando è morto il padre,
dieci mesi fa. In questi anni ha
riflettuto sul suo passato, dalle
scelte politiche intraprese da
ragazzo al mito dell’Occidente
ricco e in grado di garantire
un futuro. Adesso, disilluso,
pensa a un ritorno.
Gabriel, nel 1997, quando era
già avvenuta l’unione doganale tra Turchia e paesi della
Comunità europea, hai deciso
di fuggire dalla tua città.
Perché? Cosa ti convinto a
intraprendere un percorso
tanto radicale?
Da tempo ero ricercato perché
avevo rapporti con il Dhkp-C.
E quell’anno è avvenuto il peggio. Sono stato trovato in casa
dai poliziotti, condotto in un
luogo segreto, pestato a sangue e torturato. Mi chiedevano
dove nascondessi le armi con
cui era stato ucciso il sindaco
di una cittadina curda. In realtà
non sapevo nulla e loro agivano
a caso. Era un bluff. Mi hanno
fracassato la testa con il calcio
dei fucili, lasciandomi una
ferita di quasi dieci centimetri. Ho perso i sensi. Convinti
di avermi ucciso, mi hanno
abbandonato in un parco per
bambini, dove in poco tempo
ho ripreso conoscenza. Nei
giorni successivi, dopo che
mi ero ristabilito, mi sentivo
in pericolo, avvertivo che mi
cercavano per completare il
lavoro. Ho cominciato allora
ad organizzarmi per fuggire
dalla Turchia. Mi sembrava
la scelta più opportuna, anche
perché numerose persone che
conoscevo in quel periodo erano state assassinate.
«I poliziotti mi
hanno torturato. Mi
chiedevano dove
nascondessi le armi
con cui era stato
ucciso il sindaco di
una cittadina curda.
Non sapevo nulla.
Era un bluff. Mi
hanno fracassato la
testa con il calcio dei
fucili. Erano convinti
di avermi ucciso»
Come hai attuato il tuo proposito?
Sono andato alla ricerca di
un passaporto falso e l’ho ottenuto in poco tempo sotto
il nome di Ibrahim Cetkin.
Per uscire da Istanbul, dopo
alcuni mesi di clandestinità
sono riuscito a imbarcarmi, con
questo nome, come mozzo in
una nave che faceva la spola
tra Istanbul, Russia e Ucraina.
Foto di James Gordon
64 | dicembre 2012 | narcomafie
Ho dovuto
rivolgermi
a una rete criminale,
legata alla mafia
turca, che
organizzava traffici
di persone verso
la Bulgaria.
Ho attraversato
il confine nascosto
su un furgone
Ma era solo un ripiego, per
evitare la cattura. Il mio intento
era di rifugiarmi nell’Europa
occidentale, entrando dalla
Bulgaria, come facevano in
tanti. Ma come muovermi?
Ho dovuto rivolgermi a una
rete criminale legata alla mafia
turca che organizzava traffici
di persone verso la Bulgaria
utilizzando furgoni carichi di
vestiario. Ho attraversato il
confine nascosto su un Ford
Transit colmo di giacche di
pelle. Ho rischiato di rima
rimanere schiacciato. Così, con
700 dollari in tasca, mi sono
trovato in Bulgaria. Era il 20
ottobre 1999.
Come ti sei mosso dopo l’ar
l’arrivo in Bulgaria?
Da Plovdiv, dove sono sce
sceso dal Ford Transit, mi sono
recato in treno a Sofia, dove
ho preso contatto con le auto
autorità per richiedere l’asilo. Mi
hanno sistemato in un buon
hotel, mi hanno garantito un
avvocato; tutto questo mi face
faceva sentire al sicuro. Ho preso
contatto con un mio compa
compagno di 19 anni, Mahir Goktas,
anche egli di Istanbul, perse
perseguitato perché simpatizzante
del Dhkp-C. Era stato arrestato
perché aveva scritto su un
muro “No alla guerra”. Per
questo intorno al 1995 aveva
fatto ricorso alla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo,
aveva ottenuto una sentenza
favorevole, che obbligava lo
Stato turco a concedergli un
risarcimento di 20mila euro.
Questo ragazzo, di cui ho un
bellissimo ricordo, nel 2006,
quando aveva 26 anni, è stato
ucciso e buttato in mare, probabilmente con il nulla osta
dei servizi segreti bulgari.
Perché i servizi segreti bulgari hanno agito in questo
modo? Qual era il loro atteggiamento con i reclusi tuoi
riguardi come hanno agito?
Nel caso del mio amico non saprei, forse Mahir era entrato in
qualche giro compromettente.
Il sistema usato nei riguardi dei
reclusi era comunque quello
del bastone e della carota. Ho
ottenuto l’asilo con il nome
di Ibraim Cektin. Ho evitato di dare il mio vero nome
perché in Bulgaria i servizi
segreti sono capaci di tutto.
Da alcuni afghani e persiani
avevo saputo che essi avevano
venduto un rifugiato dell’Iran
al Savama, il servizio segreto
iraniano. Ho scoperto inoltre
che operavano come una mafia
coperta. Lasciavano passare
eroina, si accordavano con i
trafficanti che erano disposti
a pagare un pizzo. Ho scoperto
che passavano dalla frontiera
turca enormi quantitativi di
droga. Nel periodo in cui ero
lì i turchi transitavano solo se
pagavano e il denaro contante
veniva nascosto in sacchi di
zucchero.
Nei tuoi riguardi come hanno
agito? Dicevi che hai ricevuto
un trattamento particolare…
Io ho avuto a che fare con un
certo Arabaciyev. Era un uomo
poco più che cinquantenne,
aveva studiato a Mosca e, da
quel che capii, aveva avuto
un ruolo non secondario nel
Kgb. Si trattava formalmente di
un alto funzionario di polizia
che si occupava dei rifugiati
politici. Nel primo incontro
era solo, nel secondo c’erano
anche altri due funzionari,
forse di grado superiore. Si
sono presentati con i nome di
Ivan e di Gioro, ma ritengo che
si trattasse di nomi falsi. Mi
hanno fatto capire che anche
loro facevano parte dei servizi
segreti bulgari. Mi hanno detto
che non mi avrebbero fatto
del male e che ravvisavano
in me una persona perbene,
lontana dai traffici di droga.
Mi hanno “chiesto” quindi
se intendessi collaborare con
loro. Si trattava di una proposta
di tipo ricattatorio. Se avessi
rifiutato, avrei pagato chissà
quale prezzo. Ho deciso quindi
di accettare.
In che cosa consisteva questa
collaborazione?
Premetto che eravamo ospitati
in un edificio enorme, di setteotto piani, situato in un luogo completamente deserto, in
via Montevideo. Dietro questo
edificio c’era un grandissimo
dormitorio dove erano stipate
due-tre mila persone, afghane,
persiane, macedoni, curde. Il
loro problema maggiore era
costituito proprio dai rifugiati
curdi. Tra questi si nascondevano, infatti, gli «esattori» del
Pkk, che esigevano il pizzo da
tutti: curdi, turchi, afghani e
di altri paesi. Erano del resto
i curdi a gestire il traffico di
esseri umani per la Grecia,
attraverso Komotina, in Tessalonica. Questa situazione
per i servizi segreti bulgari
non andava bene, pure per
ragioni di concorrenza, perché
anche loro erano parte in causa
nel traffico di esseri umani e
dell’eroina. Va tenuto presente
che il governo bulgaro di allora, socialdemocratico e legato
al passato regime comunista,
si diceva favorevole alla causa
curda, e non poteva rispedire
65 | dicembre 2012 | narcomafie
i curdi nel loro paese, dove
sarebbero stati perseguitati.
L’obiettivo era allora quello
di controllare la situazione
estirpando dalla massa dei
rifugiati i collettori del Pkk.
E la loro tecnica era quella
dell’infiltrazione. Introducevano due-tre persone all’interno
dei cameroni curdi, facendoli
passare come simpatizzanti, e
in questo modo erano in grado
di monitorare e di contrastare
il racket. Questi funzionari, in
cambio della mia collaborazione, mi hanno assicurato l’asilo
politico, una carta d’identità
bulgara e un lavoro.
Come vivevi il ruolo che queste persone ti hanno assegnato?
In fondo denunciavo malfattori, trafficanti di uomini, ma ti
confesso che ero attanagliato
da un forte senso di colpa.
Non era la mia causa. Tutto
questo non rientrava nei miei
principi. Ho sofferto molto
in quei mesi. Ho fatto questo
lavoro di infiltrato tra marzo
e giugno 2000. Ho conosciuto
cose terribili. Naturalmente ho
rischiato tantissimo perché
se mi avessero scoperto mi
avrebbero ucciso.
Come funzionava il racket del
PKK, che tu allora avevi il
compito di denunciare?
Si trattava di un vero e proprio
potere ramificato a Sofia e nelle
aree geografiche abitate della
minoranza turca, che equivale a
circa il 10% della popolazione
complessiva. Ho scoperto che gli
uomini del Pkk erano in grado
di imporre alle fabbriche il pagamento fino al 20% dei guadagni. Le autorità bulgare ne erano
profondamente infastidite. Nello
specifico dei rifugiati era stato
messo in opera un meccanismo
molto ben congegnato. Esistevano circa 50 emissari del partito
curdo: ognuno aveva il compito
di taglieggiare e controllare un
gruppo di duecento persone.
Questi funzionari avevano un
potere di soggiogamento enorme, incutevano timore; non si
trattava di un fatto locale, ma
di una regola che vigeva in
tutta Europa.
In che senso?
Questi individui avevano mansioni speciali perché erano stati feriti nelle montagne del Kurdistan. Quando i combattenti
vengono feriti, non vengono
congedati ma inviati «in vacanza» in Europa, per svolgere
altri lavori. Diventano allora
«esattori» di pizzo, anche nei
riguardi dei trafficanti di eroina, o veri e propri killer. Tutto
questo ho potuto constatarlo,
pure di persona. Il Pkk non è,
quindi, il partito che intende
liberare i curdi dalla lunga
oppressione turca, ma una organizzazione antidemocratica,
di stampo terroristico e con
forti venature mafiose. Solo
per questo riuscivo a vincere
il rimorso e a svolgere con zelo
il compito d’informazione che
mi era stato assegnato.
Puoi affermare che qualche
operazione di polizia ha preso
spunto dal tuo lavoro informativo?
Grazie alle mie informazioni
sono stati disarticolati alcuni traffici di esseri umani e
66 | dicembre 2012 | narcomafie
di eroina che avevano il loro
punto di snodo a Varna, la
maggiore città portuale del
paese. I miei committenti volevano informazioni su un boss
che faceva la spola tra questa
città e Sofia. Ho fornito loro
notizie e alla fine sono riusciti
a espellerlo con il foglio di via
per l’Europa.
Perché tutto si è concluso
in appena quattro mesi? Era
il senso di colpa che covava
per un lavoro che non ti apparteneva?
Questo c’era, ovviamente,
ma c’era anche altro. I servizi
bulgari erano in procinto di
trovarmi un lavoro, ma non
mi sentivo al sicuro, non solo
a livello economico. Per loro
ero una pedina, uno strumento. Alla prima occasione sarei potuto diventare merce di
scambio, come era accaduto
ad altri. Mi hanno mandato in
un quartiere bene di Sofia, in
montagna, Pancharevo, dove
avevo vitto e alloggio gratuito.
Ero ospitato da un giovane turco, Ugur, che curiosamente si
diceva anarchico, proveniente
da una famiglia ricchissima,
fuggito anche lui, e ritornato in
Turchia nel 2004. Ho passato
quattro mesi lì; ho capito che
non intendevano mollarmi.
Ho fatto amicizia, senza che
Arabaciyev e gli altri sapessero
nulla, con un altro ex funzionario del Kgb, tale Alexander
Rashev, che fabbricava documenti falsi in cambio di denaro. Mi ha chiesto mille dollari
in cambio di un passaporto
che mi avrebbe consentito di
entrare nell’Unione Europea.
Ho sborsato questo denaro, e
dopo un mese ho avuto il nuovo passaporto, con un nome
bulgaro di etnia turca, e alla
fine ce l’ho fatta.
Cosa è successo dopo?
Sono arrivato a Budapest in
Ungheria. Ho raggiunto poi
Bratislava, in Slovacchia. Era
il 22 settembre 2000. Qui ho
preso il treno per Vienna, con
un gruppo di rom, ma a Graz
si è scoperto che il passaporto
era falso e mi sono ritrovato
in cella. Sono stato trattenuto
due giorni. La cella era piccola, di appena quattro metri,
ma ben riscaldata e molto
igienica. Rispetto alle prigioni
turche era una favola. Sono
stato trattato con rispetto. Ho
richiesto l’asilo politico, ma
poiché sono stato fermato entro i 25 chilometri dalla frontiera, per effetto della legge
Frontex, sono stato rispedito
in Ungheria. Il 25 settembre
mi sono ritrovato quindi in
un carcere per stranieri, tipo
Cpt, a Gyor. La situazione che
ho trovato è indescrivibile.
Questo carcere era in mano
a una specie di «legione straniera» di militari dal passato
turbolento, per rissa, droga,
alcolismo e altro. Si trattava
di gente molto pericolosa e
i prigionieri non erano da
meno. Nel mio capannone
c’erano individui che avevano
alle spalle omicidi, di cui pure
si vantavano. Mi è stato detto
che sarei rimasto lì per un
anno e mezzo. Ma al quarantacinquesimo giorno io e un
pugno di ragazzi con cui avevo
fraternizzato abbiamo deciso di tentare fuga. Abbiamo
convinto alcuni compagni a
simulare una rissa. L’attenzione delle guardie si è spostata
verso di loro, e noi saltando
due recinti alti ognuno quattro
metri, ce l’abbiamo fatta. La
legge in casi simili consente
di sparare, ma quella volta per
fortuna non è accaduto.
Eri ormai sulla strada da
mesi. Avevi vissuto esperienze terribili. Come riuscivi
a sostenerti? Da dove traevate, tu e i tuoi compagni, la
forza per continuare?
Ci sosteneva la speranza. In
Turchia si dice: «La speranza
è il pane dei poveri». Io e
Sultan, un ragazzo iracheno,
abbiamo fatto a piedi decine
di chilometri, abbiamo attraversato diversi fiumi, foreste
pullulanti di cervi e cinghiali.
Era tremendo trovarsi in quei
posti, ma era anche bellissimo.
La Slovenia e l’Austria sono
piene di vigne, da cui vengono
prodotti vini pregiati. I guai
comunque non sono finiti. Ci
siamo trovati in una cittadella
slovena, Lendava, e lì siamo
stati fermati da un’auto della
polizia. Abbiamo detto loro di
essere diretti in Germania. Ci
hanno portati con loro e sistemati in una cella, estrema-
67 | dicembre 2012 | narcomafie
mente pulita, con il pavimento
scaldato. Era occupata da un
kosovaro. Ci hanno rifocillati con formaggio e scatolette
di carne. La Slovenia allora
premeva per entrare nell’Unione Europea e prestava molta
attenzione alle regole. Era
l’8 dicembre quando siamo
entrati nel campo di rifugiati
di Lubiana, un enorme edificio di sei piani, sovraffollato,
dove c’era un gran numero
di afghani, somali, sudanesi,
alcuni iracheni. Quando siamo
arrivati c’era una troupe della
televisione locale, perché era
in atto una protesta dei prigionieri. Ai poliziotti che ci
hanno interrogati io e Sultan
abbiamo detto, mentendo, che
venivamo dalla Turchia ed
eravamo diretti in Germania.
Ci hanno creduti.
Eravate già a un passo
dall’Europa che sognavate.
Notavate delle differenze?
C’era forse una maggiore organizzazione. La tratta degli
esseri umani era più spedita.
Nel campo eravamo tutti divisi
per nazione. La gestione delle
nazionalità era organizzata
d’intesa con i poliziotti sloveni, da trafficanti, che apparivano comunque meno cinici e
spietati di quelli che avevamo
conosciuto altrove, in grado
di ucciderti senza pietà. Essi
seguivano un copione perfetto.
Organizzavano il viaggio in
pullman per destinare i migranti nei paesi dell’Unione
Europea; il punto di snodo era
Nova Gorica. Pagata la somma
pattuita siamo arrivati quindi
in questa città, dove c’era un
gran viavai di gente dovuta
alla presenza del casinò, frequentato da molti italiani.
Qual è stato il primo impatto
con l’Italia?
Tutto sommato l’impatto è stato
positivo. Vado per ordine. A
Nova Gorica sono stato intercettato da un trafficante tunisino,
Hassan, che aveva bisogno di
un traduttore per comunicare
con iraniani, che conoscono il
turco. Mi sono ritrovato quindi
in un garage dove erano stipate
diverse decine di persone, cui
il tunisino intendeva imporre
un supplemento di denaro.
Questo trafficante mi ha ripagato, offrendoci i biglietti del
treno per Venezia, dove sono
arrivato il 13 dicembre 2000.
Ho deciso allora di richiedere
l’asilo politico. Sono andato
dai carabinieri che mi hanno
trattato con una umanità che
mi ha sorpreso. Volevano farmi arrivare del cibo, ma ho
detto di no. Mi sono ritrovato
poi, di mattina, alla questura
di Marghera. C’era un grande
affollamento. Sembrava fosse
confluito lì il mondo intero.
C’erano afghani, cinesi, iraniani, marocchini, curdi e gente di
molti altri paesi. Un’ispettrice,
gentilissima, mi ha sistemato
in un albergo di Chioggia, mi
ha detto che per l’asilo politico
si doveva aspettare la decisione
del tribunale. Cominciava in
quel momento il mio percorso
italiano di rifugiato. Lo status mi
sarebbe stato riconosciuto tuttavia un anno e mezzo dopo.
Non era una storia a lieto
fine, vero Gabriel?
Assolutamente no. Dell’Italia
lentamente ho avuto modo
di conoscere gli aspetti più
problematici. Ho dovuto fare i
conti con la mafia e la corruzione. In questo paese i rifugiati
politici siamo 25mila, su circa
quattro milioni di immigrati,
ma non mi sento garantito. A
dispetto delle leggi europee, a
lungo sono stato senza lavoro,
ho dovuto vivere anni interi
alla giornata. Mi è anche capitato, in certi momenti, per
fortuna passati, di dover cercare pane nei cassonetti della
nettezza urbana. E tutto questo
non credo sia civile.
Che cosa è per te l’Europa,
adesso che la conosci da dodici anni?
Direi che rimane, malgrado la
crisi, una “Disneyland”, in cui
però non puoi sentirti appagato, dove non puoi uscire dalla
parte che ti hanno assegnato.
Mi sento come un “venditore di
popcorn”. Tutti attorno fanno
festa, tranne me. Sei condannato a lavori che ti alienano.
Ancora oggi non esiste uno
stato sociale, un vero welfare,
per gli immigrati. Pur avendo
la pelle chiara mi sento quindi
un “negro”. Niente per me ha
il colore della libertà. Ormai
da molti anni non sogno più.
Ho lavorato al Petrolchimico
di Marghera e portavo a casa
920 euro al mese, mentre i
miei colleghi italiani ne guadagnavano 1600, perché loro,
per effetto dei contratti di lavoro nazionali, godevano delle
trasferte. Casa mia è a cinquemila chilometri di distanza, e,
paradossalmente, non posso
godere di questi benefici. In definitiva, lavorando tanto io ho
ricevuto poco, e questo è, nella
sostanza, quello che accadeva
agli schiavi neri dell’Ottocento, in Luisiana, nel Texas nel
Mississipi, quelli che hanno
creato l’economia americana
del cotone, quelli che producevano i blue jeans.
69 | dicembre 2012 | narcomafie
A medio termine, e a maggior
ragione dopo una possibile caduta di al Assad, l’esistenza in
Siria di gruppi islamisti radicali
– operanti sulla falsariga delle
virulente formazioni già attive
in Iraq –potrebbe alimentare
l’attività sinergica, armata ed
incontrollata, dei jihadisti nei
due paesi, e potrebbe estendere
attentati e violenze al confine
dei territori occupati nel Golan
dagli israeliani, nonché al Libano.
Anche il contenimento del Fronte
nella Siria settentrionale (dove
il gruppo armato è più potente)
non risulta ottimale, visto che
alle frontiere di nordest i ribelli
della Jabhat si sono già più volte
scontrati con i curdi locali.
Ma soprattutto, il riconoscimento
americano dell’attività in Siria
di gruppi ritenuti legati ad Al
Qaeda costituisce una valida
giustificazione nel caso che gli
Stati Uniti ed i loro alleati optino
per un intervento militare nel
paese mediorientale, dichiarandolo motivato dalla necessità di
sottrarre a mani sbagliate le armi
chimiche del regime.
Navi da guerra americane, francesi ed inglesi sono pronte al
largo delle coste siriane, mentre
la Nato ha approvato di recente
l’installazione in Turchia, al
confine siriano, di batterie di
missili Patriot, che dovrebbero
essere presidiate da contingenti
militari tedeschi, olandesi e
americani. L’opzione dell’intervento militare di Stati Uniti e
alleati appare una realtà sempre
più concreta, e quasi inevitabile
di fronte ad un’effettiva necessità di mettere in sicurezza gli
arsenali del regime.
criminalità e dintorni
co retto dal diritto coranico. L’ideologia radicale sunnita-salafita
della Jabhat – contraddistinta
dall’odio verso gli alawiti, minoranza religiosa ancora ai vertici
del governo e dell’esercito in
Siria, nonché verso tutti gli sciiti
in generale – non differisce da
quella di altri gruppi jihadisti
attivi nella ribellione, come ad
esempio Ahrar al Sham (Brigate
libere della grande Siria), con cui
i combattenti di al Julani hanno
stabilito da tempo una solida
alleanza operativa.
L’inserimento della Jabhat nella
lista delle organizzazioni ritenute terroristiche dagli Stati Uniti
ha suscitato le forti proteste della
quasi totalità dei gruppi siriani
contrari al regime di al Assad.
La richiesta di riconsiderare la
decisione è giunta persino da
Ahmad Moaz al Khatib, leader
della Coalizione nazionale siriana, il raggruppamento dell’opposizione riconosciuto – guarda
caso il 12 dicembre, ossia due
giorni dopo l’inserimento della
Jabhat nella “lista nera” americana – come rappresentante
legittimo della Siria ed interlocutore ufficiale dagli “Amici
della Siria”, gruppo composto
da oltre cento paesi (Stati Uniti
inclusi, e Russia esclusa).
Perché il dipartimento di Stato Usa ha scelto di affrontare
proprio ora, in una fase critica
della ribellione, i possibili effetti
negativi del suo annuncio sulla
Jabhat, tra cui il rischio di fare
aumentare in Siria proseliti e
simpatizzanti del gruppo jihadista, e di far coalizzare intorno ad
esso una galassia di gruppuscoli
armati ostili agli Stati Uniti?
cronachesommerse
Il dipartimento di Stato americano ha inserito il 10 dicembre
il gruppo jihadista siriano Jabhat
al Nusra (Fronte per l’aiuto al popolo del Levante) nella lista delle
organizzazioni terroristiche.
Nato alla fine del 2011, il gruppo armato – autore di oltre 600
attacchi a obiettivi governativi e
militari siriani, condotti spesso
con letali attentati dinamitardi,
alcuni dei quali suicidi – sarebbe
giunto a costituire con i suoi ef
effettivi, nel giro di un solo anno,
quasi il 10% del potenziale bellico ribelle. Radicato soprattutto
nei distretti di Idlib e Aleppo (la
sua forza d’attacco si è rivelata
decisiva nella conquista della
base militare siriana di Sheikh
Souleiman, presa dai ribelli insieme a un vasto e non ben definito
arsenale il 9 dicembre, ossia un
giorno prima dell’inserimento
della Jabhat nella “lista nera”
americana), opera però su scala
più ridotta anche a Damasco.
Il gruppo ribelle annovera migliaia di guerriglieri, soprattutto
siriani, ai quali si sono aggiunti
numerosi jihadisti provenienti
da paesi come Yemen, Libia,
Egitto, Arabia Saudita, Asia centrale. Molti dei combattenti del
Fronte, inoltre, si sono battuti
in Iraq contro gli americani. Il
dipartimento di Stato Usa, infatti,
considera la Jabhat affiliata al cosiddetto Stato islamico dell’Iraq
(Isi), branca irachena di Al Qaeda
fondata nel 2006.
Il misterioso leader del gruppo
jihadista siriano, Abu Mohammed al Julani, ha dichiarato la sua
ostilità nei confronti di Israele e
Stati Uniti, nonché l’intenzione
di creare in Siria uno stato islami-
di Andrea Giordano
Jabhat nella black list
70 | dicembre 2012 | narcomafie
Le ballate
del male
La costruzione dell’immaginario mafioso passa anche attraverso musiche,
danze, canzoni. Su queste basi la ’ndrangheta crea e diffonde il proprio mito,
autorappresentandosi, per cementare il consenso popolare. Il fenomeno ha
superato i confini nazionali, creando pericolose distorsioni culturali
Segnali
di Francesca Chirico
«Restaru puri i Ros maravigghiati di lu bunker chi stavamu facendu, c’era puri a vasca
idromassaggiu e tutti i conforti
chi si ponnu aviri» (anche i Ros
sono rimasti sorpresi dal bunker
che stavamo costruendo, c’era
perfino la vasca idromassaggio
e tutti i confort possibili). Nella
canzone “U bucu”, caricata su
youtube nel gennaio 2009 e
visualizzata oltre 50mila volte,
una voce maschile celebra i
pregi di un nascondiglio scoperto dai carabinieri, sottolinea
orgogliosamente che ne hanno
parlato tutti i giornali e “puri
’u tg1” e infine, con tono accorato, lamenta la “sorti ingrata”
delle due persone arrestate nei
pressi del bunker. Dio stesso,
però, mandando un segno dal
cielo, ha impedito che altri si
trovassero lì. Fervida fantasia?
Non proprio. La sera dell’8 dicembre 2003, in contrada San
Vincenzo di Anoia, nella Piana
di Gioia Tauro, i carabinieri
scoprono il bunker superaccessoriato in cui si nasconde
il latitante rosarnese Carmelo
Bellocco, arrestando, oltre a
Bellocco, anche il proprietario
del terreno su cui è stato ricavato il nascondiglio. Le immagini della vasca idromassaggio
trovata dentro il covo fanno il
giro d’Italia. Solo per un caso è
riuscito a sfuggire alla cattura il
boss Gregorio Bellocco, cugino
di Carmelo e capo dell’omonima cosca di Rosarno. Insomma,
cronaca puntualmente tradotta
in musica. E musica al servizio
della diffusione dell’immaginario ’ndranghetista e della
costruzione di un consenso
popolare.
A Rosarno cosche canterine.
Quello di Rosarno è, sotto molti
aspetti, un caso particolare: le
due principali cosche del paese, i Pesce e i Bellocco, sono
divise dagli affari ma accomunate dalla passione per la
musica. Non tutta, però. In cima
al gradimento ci sono i neomelodici napoletani e le canzoni
in dialetto calabrese, ancora
meglio se scritte di proprio
pugno dai boss. A Salvatore
Pesce, per esempio, la musica
piaceva così tanto da decidere,
agli inizi degli anni Novanta, di fondare radio Olimpia,
un’emittente radiofonica ovviamente abusiva, sequestrata
nell’aprile 2010. Della radio
l’esponente dell’omonima famiglia di ’ndrangheta era anche
uno degli speaker. Una volta
finito in carcere, però, non gli
era rimasto che richiedere le
canzoni preferite, e non solo
per distrarsi. Come confermato
in aula dalla figlia Giusy Pesce, collaboratrice di giustizia
e principale testimone d’accusa
nel processo “All Inside” che
vede alla sbarra l’intero clan,
radio Olimpia aveva anche finalità pratiche. «In un’occasione
è capitato che all’esito di una...
una richiesta avanzata dagli
avvocati nei confronti di mio
padre, che si aspettava l’esito
e mi ricordo che in quella occasione mio padre disse a mia
madre: “Se è positivo mi mandi
questa canzone, se è negativo
mi mandi quest’altra”. E poi
c’erano “i latitanti che chiamavano in diretta durante il programma napoletano, parlavano
con lo speaker e mandavano
delle canzoni con i saluti». Più
creativo e “artistico” il fronte
dei Bellocco. Sangue di poeta
71 | dicembre 2012 | narcomafie
scorre nelle vene del capoclan
Gregorio Bellocco, “lupo solitario”, catturato nel 2005 in
un bunker pieno zeppo di cd,
musicassette e poesie dedicate
a moglie e figlia; ed è un boss
cantautore il cugino Giuseppe
Bellocco, arrestato nel 2007, ed
autore di una produzione musicale che canta vita e “opere”
dei Bellocco, come una sorta
di ciclo ’ndranghetista delle
chansons de geste: “Lupo solitario. Cavagliere (sic) di mille
battaglie”, “16 febbraiu”, “Circondatu”, sono solo alcuni dei
titoli che circolano su youtube,
traducendo in chiave “epica”
l’esistenza da latitanti, le fughe
rocambolesche, la cattura, esaltando i valori mafiosi dell’omer
dell’omertà (“siamo i figli del silenzio”)
e della vendetta, del sangue e
dell’“onore”, e raccogliendo
migliaia di visualizzazioni in
Italia e all’estero (Germania e
Svizzera, in testa).
L’immaginario rovesciato. La
peculiarità del caso rosarnese,
dov’è la stessa ’ndrangheta a
costruire in musica il proprio
mito, autorappresentandosi,
non esaurisce, però, un fenomeno che travalica Rosarno, e la
stessa ’ndrangheta. Dal Messico
dei narco corridos (ballate della
droga), genere folk “ispirato” e,
qualche volta, commissionato
dai signori dei cartelli della
droga (“Contrabbando e tradimento”, “Los Sicarios”, “Il capo
dei capi” alcuni dei titoli più
famosi), al gangsta rap, esploso
negli anni Ottanta sulla westcoast statunitense e incentrato
sul mondo delle gang di strada
(uno dei classici del genere
s’intitola “Fuck the police”),
fino all’esercito dei neomelodici
napoletani in salsa di camorra,
le ballate del crimine risuonano ad ogni latitudine. Diverse
nei suoni e nei ritmi, ma tutte
strumenti, più o meno consapevoli, di consenso popolare,
le “canzoni del male” sono il
veicolo di un identico immaginario rovesciato nel quale camorristi, ’ndranghetisti, narcos
e gangsta campeggiano come
“eroi” costretti a combattere
contro la sorte e l’ingiustizia.
Contro l’infamità dei traditori
e contro gli sbirri. Ovunque
lo stesso mix di logiche commerciali (a Napoli e in Messico
il genere alimenta una vera e
propria industria, tra concerti
e migliaia di cd venduti), giustificazioni pseudo-culturali e
richiami insidiosi alle tradizioni
popolari, laddove, invece, si assiste generalmente alla “cattura
della cultura folklorica da parte
della cultura mafiosa” (Mariano Meligrana). Qualche volta,
da una latitudine all’altra, si
rincorrono emblematicamente
anche gli stessi tragici destini.
Come il pioniere dei narco corridos, Chalino Sanchez, anche
il cantautore cosentino Fred
Scott non fece una bella fine. Il
primo fu ammazzato durante un
concerto nel 1992, il secondo
fu ucciso nel 1971. Non avevano ancora 40 anni. “Suona
la mezzanotte all’aria scura ed
in silenzio dormono gli uccelli,
suona la mezzanotte in quella
cella e mi svegliava il suono di
una campana. E dio nel cielo
abbia pietà di me, sono chiuso
in questa cella e faccio preghiera
a te”, cantava il calabrese con la
sua voce potente in “Canto di
un carcerato”. Stazza da gigante,
polmoni enormi, quando di
notte si ubriacava e cantava per
i vicoli di Cosenza, l’unica era
trascinarlo in carcere sul colle
Triglio, dove i postumi della
sbronza evaporavano al freddo
della cella e la fedina penale
si allungava ancora. Disturbo
della quiete pubblica, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni
personali, porto e detenzione
di pistola e coltello di genere
vietato, Francesco Scarpelli, in
arte Fred Scott, nato nel 1933,
impiegato al mattatoio comunale, cantautore e attaccabrighe, il carcere aveva imparato
a conoscerlo presto e negli
anni lo aveva frequentato con
costanza. Chitarra alla mano,
cantava l’“onore” e il “rispetto”
sui palchi e nelle piazze del
Cosentino, con la benedizione
della mala locale. Non è stata
una questione d’onore a fargli
incassare il proiettile che lo
ammazza la notte di Pasquetta
del 1971. È che ha litigato con
un fruttivendolo entrato nel
locale dove sta mangiando. Lo
sfotte, lo minaccia, lo strattona,
lo prende a schiaffi, approfittando di essere quasi il doppio
dell’avversario. Poi gli promette
di andarlo a trovare a casa più
tardi, per continuare. Di fronte
al portone, in assenza del fruttivendolo entrato per armarsi,
Fred Scott, l’uomo “d’onore e
di rispetto”, prende a pugni la
moglie uscita per difenderlo. Lo
fermerà uno sparo dritto contro
l’addome. Trent’anni dopo, in
Germania, il suo “Canto di un
carcerato” finirà dentro il primo
di una discussa trilogia di cd
dedicati alla cosiddetta musica
della ’ndrangheta e, grazie alle
magie del marketing, Fred Scott
morirà “per aver molestato la
donna di un mafioso”. Non è la
sola nota stonata di quell’operazione.
La favola calabro-tedesca dei
“Canti di malavita”. «In Calabria gli abitanti dei paesini
temevano i banditi più della
polizia, e li nascondevano nei
villaggi, tanto più che là era
buona tradizione opporsi ai
desideri delle autorità. Ad un
certo punto questi criminali furono chiamati ’ndrangheta, dal
Segnali
72 | dicembre 2012 | narcomafie
greco andros (uomo)”.
Firmando per «Der
Spiegel» un repor
reportage dalla “terra
dei Desperados”,
arricchito dagli
scatti del foto
fotografo France
Francesco Sbano,
nel 1998
il gior
giornalista
MaxiMaxi
milian
Dax la raccon
racconta così la ’ndrangheta
alla Germania. I mafiosi
calabresi? Eredi dei briganti,
un po’ cavalieri senza macchia
e senza paura, un po’ suonatori
di tarantelle, rintanati nei covi
dell’Aspromonte a battagliare
contro l’“autorità”, ma disposti
cortesemente a rilasciare perle
di saggezza ai microfoni dei
giornalisti. Sullo stesso filone, e
con la stessa impostazione del
reportage, nel 2000 il duo DaxSbano produce ad Amburgo
il cd “Il canto di malavita. La
musica della mafia”, attingendo al mercato marginale della
“musica da bancarella” che da
trent’anni ha libera circolazione
in Calabria. Sul piano del marketing, la scelta si dimostrerà
efficace: il cd registra un grande
successo e, naturalmente, produrrà due seguiti, presentati
come documenti di una tradizione musicale popolare e
“vietata” in patria. Le cose, a
fare un giro in Calabria tra fiere
e feste religiose, non stanno
esattamente così. «Gli autori
sono compositori, regolarmente
iscritti alla Siae, che cercano
la loro via al successo individuando un filone destinato a
proliferare con una fortunata
serie di cassette dai titoli ad
effetto: “Picciottu d’onori”, “A
leggi ill’onorata”, “Giuramentu
d’onuri”,“Brutta ‘Mpamita”,
“Canti di Malavita”, “Cu sgarra
paga” e così via, lungo la linea
d’ombra fra il giornalistico,
il noir e una cupa fiaba per
bambini», spiega l’etno-musicologo Ettore Castagna. Altro
che autentica tradizione folk,
insomma. Al di là delle inesattezze e degli strafalcioni storici
(viene sostenuta, sbagliando,
la continuità storica e “ideale”
tra brigantaggio e ’ndrangheta),
l’operazione, enfatizzata da importanti media internazionali,
nascondeva, però, insidie ben
più profonde, messe in luce
dalla scrittrice e giornalista
calabrese Francesca Viscone
nel saggio La globalizzazione
delle cattive idee (Rubbettino,
Soveria Mannelli 2005). Un
lavoro certosino di documentazione e analisi, il suo, oggetto
di pesanti “attenzioni” da parte
dei produttori della trilogia.
«Sbano telefonò a me e alla casa
editrice – ricostruisce Viscone
in “Ossigeno per l’informazione” – e chiese che il libro non
fosse pubblicato. Si sentiva
diffamato. Fece mandare anche
una lettera da un avvocato, ma
il librò uscì lo stesso. Sbano
non l’ho sentito più». Fino al
maggio 2012, quando il fotografo, nato a Paola e residente
ad Amburgo, si è presentato
al Museo della ’ndrangheta
di Reggio Calabria attaccando
gli operatori presenti, “colpevoli” di utilizzare i “Canti di
malavita” come esempio di
esaltazione di valori mafiosi e
rivolgendo all’indirizzo di Viscone epiteti offensivi e minacce. «Ci state causando un sacco
di danni. Vi rovino». L’episodio
è finito al centro di un esposto
presentato alla procura di Reggio Calabria dal coordinatore
del Museo della ’ndrangheta,
Claudio La Camera. La “colpa”
di Francesca Viscone? «Dopo
l’uscita degli album e i concerti
– spiega la giornalista – alcune
testate giornalistiche europee
e americane hanno parlato di
questi canti presentandoli come
manifestazione della cultura
popolare calabrese. «Die Zeit»,
«Der Spiegel», «Le Monde»,
«Newsweek» e il «Times» hanno inviato corrispondenti in
Calabria e intervistato sedicenti
boss mafiosi grazie alle conoscenze di Sbano. Nel mio libro
ho spiegato che la diffusione
delle canzoni di ’ndrangheta
non è un’operazione culturale
fine a se stessa, ma fa parte
di una strategia comunicativa
che ha l’obiettivo di diffondere
i valori mafiosi in Germania
nascondendo il potere della
’ndrangheta». In sintesi, altro
che criminalità globalizzata,
radicata dall’Australia al Canada, capace di muoversi a
proprio agio tra società offshore, grandi appalti e traffici
internazionali, capace di tessere ovunque reti di relazioni
con pezzi delle istituzioni
locali o di farsi essa stessa
istituzione. Al suono dei Canti
di malavita, in Germania la
’ndrangheta si era trasformata
in fenomeno folk, espressione
di una Calabria selvaggia, ribelle e, soprattutto, lontana.
Che si trattasse solo di una
favola rassicurante lo avevano poi dimostrato i sei morti
ammazzati della strage di Duisburg, il 15 agosto 2007. Per
i tedeschi un risveglio amaro.
E la scoperta che quelle che
avevano ballato per anni non
erano solo canzonette.
73 | dicembre 2012 | narcomafie
Reddito minimo
garantito,
un’utopia possibile
di Matteo Zola
«The european social model
has already gone», tuonava
Mario Draghi nel febbraio scorso, a pochi mesi dalla nomina a presidente della Banca
centrale europea, sollevando
un coro di critiche. La crisi,
insomma, sta distruggendo
l’economia europea e se la
barca affonda si butta a mare
ciò che pesa di più: lo stato sociale, appunto. Scuole e sanità
pubbliche, pensioni e sussidi,
sono un peso morto di cui liberarsi. Ma a finire a mare non
sono numeri, bensì persone.
E l’affondamento del barcone
europeo sarebbe solo rimandato di qualche decennio. Ecco
allora che è necessario andare
alla ricerca di idee alternative,
che tengano insieme sviluppo e democrazia, numeri e
persone. Tra queste se ne fa
largo una di sicuro interesse:
si chiama “reddito minimo
garantito”. Tre semplici parole.
A spiegarci cosa significano
ci pensa un’associazione, la
Basic Income Network (Bin),
la cui branca italiana ha da
poco licenziato un libro assai
interessante, Reddito minimo
garantito, un programma necessario e possibile (Edizioni
Gruppo Abele, 2012). Gli autori
ci dicono che per far fronte alla
crisi economica (che è anche
una crisi di cultura economica) il vecchio continente deve
fare più welfare garantendo a
tutti un reddito minimo, che si
tratti di lavoratori o inoccupati,
italiani o stranieri, giovani o
vecchi. Utopia? Non proprio,
poiché si tratta di un progetto
concreto e che, in forme ridotte, è già stato realizzato in molti
paesi europei. Sul tema però
è facile confondersi, andiamo
con ordine.
Negli ultimi trent’anni a essere radicalmente mutato è il
sistema economico dei paesi
cosiddetti “occidentali”. Da
una centralizzazione della produzione e dell’informazione,
si è passati a una delocalizzazione favorita dalla velocità
delle comunicazioni. Nei paesi
dell’area Ocse ci si è trovati
così con il 71% dei lavoratori
occupati nel settore dei servizi
a fronte di un 24,9% impiegato
nell’industria e di un 3,9%
nell’agricoltura. Il tradizionale
sistema di welfare si è trovato
impreparato a questo mutamento e la crisi economica ha
spinto molti paesi a tagliare la
spesa per lo stato sociale.
Il welfare state europeo aveva
già da tempo messo in atto varie
misure, dette previdenziali, di
protezione sociale e sostegno
del reddito. Queste ultime in
particolare sono state pensate
per far fronte a uno sviluppo
industriale che non riduceva
la disoccupazione. Si è reso
quindi necessario intervenire
affinché il soggetto in stato di
disoccupazione non diventasse
un disoccupato strutturale,
incapace cioè di reinserirsi
nel mercato del lavoro. Negli ultimi anni, specialmente in America, si è affermata
un’idea alternativa al welfare
state classico, il cosiddetto
workfare: si tratta di misure,
per dirla con Jean-Claude Barbier, sociologo della Sorbona,
«che condizionano gli aiuti
sociali all’obbligo di lavorare
per coloro che ne beneficiano». Al centro è quindi posto
il lavoro. Il workfare è più
leggero ma poco efficace come
misura di protezione sociale e
non tiene conto dei nuovi disagi che il modello economico
post-fordista ha portato con
sé: precariato, working poor,
esclusione sociale.
Gli esperti del Bin ci spiegano
come la centralità del lavoro
nelle misure di welfare state
si traduca in programmi per
la ricerca di impiego, per la
formazione, per il sostegno
all’imprenditorialità, la creazione di nuovi impieghi e – last
but non least – in immediati
Bin Italia
Reddito minimo
garantito,
un programma
necessario
e possibile
Edizioni Gruppo Abele
pp. 240
euro 15,00
74 | dicembre 2012 | narcomafie
sussidi di disoccupazione. In
tutta Europa esistono cose simili ma si legano a misure,
dette assistenziali, che garantiscono un reddito minimo
che può durare anche molti
anni. Esse sono, in sostanza,
misure che contrastano l’esclusione sociale volte a creare una
rete (safetynet) che interviene
quando ha termine il periodo
di sussidio di disoccupazione.
Si articolano in vari modi e
vanno dall’erogazione di denaro all’esenzione fiscale, ai
contributi per l’affitto e per
le spese alimentari. L’idea di
base è che un individuo debole non debba essere lasciato
solo, in nessun caso. Si crea
dunque un legame tra sussidio
e reddito minimo, tra misure
previdenziali e assistenziali.
Il modello sociale europeo,
fin qui, ha cercato dunque di
armonizzare le esigenze dello
sviluppo industriale a quelle
dello sviluppo sociale o, almeno, di garantire protezione alle
fasce svantaggiate. Molto resta
da fare e, secondo gli autori del
Bin, investire in welfare sarebbe una valida misura anticrisi,
specialmente nel nostro paese
dove le cose– manco a dirlo
– funzionano diversamente
rispetto al resto d’Europa.
In Italia, terminato il periodo
di sussidio, le persone vengono abbandonate a se stesse e
chi non riesce a rientrare nel
mercato del lavoro è destinato alla povertà con il rischio
evidente di passare da uno
stato di esclusione lavorativa
a uno di esclusione sociale.
Il libro mostra le sperimentazioni messe in atto nelle varie
regioni italiane, ma si tratta di
misure destinate a particolari
e limitati soggetti: siamo ben
lontano dall’idea di reddito
minimo garantito come diritto
universale. Eppure, ci dicono
gli autori, si tratta di un obiettivo possibile. Certo, dipende
quanto lo Stato è disposto a
spendere. O a risparmiare.
Già, perché secondo gli esperti
della Bin, un reddito minimo
garantito andrebbe a procurare risparmi importanti. La
vecchia storiella che “in Italia
non ci sono i soldi” non regge
più. Si può fare, spiegano gli
studiosi del Bin, ed ecco come.
Citando Un nuovo contratto
per tutti
tutti, ricerca dell’economista Tito Boeri, condotta con
Pietro Garibaldi, si evidenzia
come la necessità primaria sia
quella di riformare gli ammor
ammortizzatori sociali, procedendo
a una razionalizzazione e a
una drastica semplificazione
dell’intero sistema che sostitu
sostituisca le particolari forme di sus
sussidio, indennità, integrazione,
mobilità, attualmente diverse
da categoria a categoria, in un
unico sistema di base. Accanto
a questa operazione andrebbe
introdotto un reddito minimo
garantito. Gli autori calcolano
che per il sussidio di disoccupazione (che prevedono della
durata di 18 mesi, su base contributiva) il costo sarebbe di
circa 8 miliardi di euro per la
messa a regime. La spesa per il
reddito minimo, fissato a 450
euro, graverebbe per circa 6
miliardi di euro l’anno. Tali
costi andrebbero a produrre
risparmi sotto altri versanti,
uno su tutti quello della sanità. Una persona in difficoltà economica è più esposta a
malattie, non ha possibilità
di fare prevenzione e, in casi
estremi, si arriva persino al
rischio malnutrizione. Tutte
situazioni che ricadono sulla
sanità pubblica e che un tenore
di vita dignitoso andrebbero a
limitare. Non meno rilevante
sarebbe la ricaduta sulla criminalità e, tasto dolente, sul
lavoro nero.
Gli esperti del Bin, interrogati
sulla questione, dichiarano
che il ricorso al lavoro nero,
essendo una forma di reddito
priva di benefit previdenziali,
sarebbe una scelta non conveniente a fronte di un reddito
minimo garantito che, ovviamente, verrebbe tolto in caso di
frode. «Sappiamo che nei paesi
dove c’è il reddito minimo garantito il lavoro nero è stimato
in percentuali bassissime».
Inoltre il timore che qualcuno
possa approfittarsi del sistema
«non può ricadere sui molti
che hanno bisogno» e «spetta
alle forze dell’ordine vigilare
e punire i trasgressori». L’idea,
insomma, non può essere sacrificata sull’altare dei furbetti.
Altra critica che generalmente
si muove all’idea del reddito
minimo garantito è che un
soggetto, avendo questa forma
di paracadute sociale, sia meno
incentivato a svolgere lavori a
basso salario che, comunque,
sono ritenuti necessari. «E
perché devono esistere lavori
a basso salario?» rispondono
gli autori «con l’introduzione
di un reddito minimo si incentiverebbe anche l’aumento dei
salari, inoltre si contrasterebbe
la precarietà, poiché una persona sarebbe nella possibilità
di rifiutare un lavoro senza
garanzie, con contratto temporaneo e mal pagato».
Il tema del contrasto alla precarietà è forse uno dei più
interessanti. Più che di contrasto sarebbe forse più corretto
parlare di reinvenzione della
precarietà. Citando il filosofo André Gorz, «il carattere
sempre più intermittente del
rapporto salariale va trasformato in una nuova libertà,
un nuovo diritto per ciascuno d’interrompere la propria
attività professionale. Il che,
beninteso, esige la garanzia
di un reddito». La precarietà,
dunque, come occasione di
libertà. Una libertà che diventerebbe spazio di democrazia
garantito dallo Stato, appunto
detto “democratico”, capace di
governare e distribuire equamente la propria ricchezza
a tutti i cittadini. Un sogno
possibile se pensiamo che, a
fronte dei 14 miliardi di euro
l’anno previsti da Boeri e Garibaldi, sono ben 60 i miliardi
che, secondo la Corte dei Conti,
sono costati al nostro paese a
causa della corruzione.
Una panacea quindi? Certo
che no, ma un’idea alternativa, concreta e possibile, da
prendere in considerazione
e cui dare maggior rilievo di
quello dato nel nostro paese
fino a oggi.
78 | dicembre 2012 | narcomafie
La Cinemovel Foundation, di
cui il regista Ettore Scola è presipresi
dente onorario, lancia il progetto
“Schermi in classe” indirizzato
alle scuole di ogni ordine e gragra
do. L’obiettivo è di promuovere
la didattica attraverso il cinema,
utilizzando vari strumenti quali
SHARE
le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
cineforum
la visione collettiva partecipata,
le lezioni frontali, le conferenze
multimediali.
Il progetto prevede un calendario di quattro incontri per un
costo complessivo di 20 euro
a studente.
Questo è il terzo anno conse-
cutivo in cui i rappresentanti
dell’organizzazione operano
nelle scuole. Dal 2006, Cinemovel Foundation promuove
la rassegna “Libero Cinema in
Libera Terra”, con proiezioni
cinematografiche itineranti sui
beni confiscati.
musica
Le note dell’antimafia
La musica come strumento di
resistenza, di lotta alle mafie.
Tantissimi artisti italiani – Cristiano Godano dei Marlene
Kuntz, Eugenio Finardi, Sergio
Cammariere, Simone Cristicchi,
Paolo Belli, Teresa De Sio, Yo
Yo Mundi e gli A67, solo per
citarne alcuni – hanno messo
a disposizione le proprie professionalità, la propria arte, per
sensibilizzare su temi sempre
più attuali e coinvolgenti.
Il frutto di questo lavoro di
squadra è un cd, accompagnato da un libro che vanta,
tra i vari interventi, quelli di
Carlo Lucarelli e di don Luigi
Ciotti, presidente di Libera.
All’associazione impegnata
nella lotta alle mafie saranno
devoluti i ricavati delle vendite
del cofanetto.
Per aderire al progetto è possibile scrivere a [email protected] indicando come oggetto della
mail: “Acquisto libro Musica
contro le mafie”.
A cura di Gennaro de Rosa,
Giordano Sangiorgi e Marco Ambrosi, “Musica contro le mafie”,
Mk Records
79 | dicembre 2012 | narcomafie
libri
Il martirio di
don Puglisi
Il 25 maggio 2013 il parroco del
quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso dalla mafia il 15
settembre 1993, sarà reso beato.
Per ripercorrere il martirio di
don Giuseppe Puglisi, un libro
che affianca ricordi biografici
con passi tratti dal Vangelo e
dalle Sacre scritture. Interessanti i passaggi del concetto di religione per i mafiosi, compreso
il loro cosiddetto “battesimo”,
cioè il rito di affiliazione a Cosa
nostra. In apertura, la presentazione di Paolo Romeo, arcivescovo
di Palermo.
Vincenzo Bertolone,
“La sapienza del sorriso”
Saggistica Paoline, 2012
La mafia
è di moda
Alessandro Chetta,
“Il diavolo veste mafia”
Malitalia, 2012
Tanti auguri, ragazzi!
«Qualche migliaio di Davide
Mattiello cambierebbero l’Italia. Forse esistono già ma
fanno cose diverse e non si
conoscono tra loro. E invece bisognerebbe scovarli e
federarli». Così Nando dalla
Chiesa, nella postfazione,
dipinge l’autore di “95”.
Davide Mattiello, animatore carismatico all’interno di
Libera con il compito di monitorare, aiutare, stimolare le
varie realtà dell’associazione
presenti sul territorio nazionale, e presidente della fondazione “Benvenuti in Italia”,
dedica il suo libro ai ragazzi
che nel 2013 diventeranno
maggiorenni e che per la pri-
ma volta saranno quindi
chiamati al voto, parten-do dall’analisi di fatti
storici, sociali e politici
accaduti nel 1995, anno
di nascita dei prossimi
diciottenni.
Sullo sfondo un’esigenza: ritrovare l’amore
per l’impegno quotidiano che permetta di
costruire un mondo
migliore. Non basta
poter dare per la
prima volta la propria preferenza in
una cabina elettorale, perché oggi serve altro:
attenzione, curiosità e voglia
di cambiare le cose.
Ci sono magliette con la stampa
che richiama l’interpretazione
di Marlon Brando nel film “Il
padrino”. Ci sono videogiochi
che inneggiano alla violenza:
vince chi realizzerà la carriera
più brillante, ovviamente com
commettendo il numero maggiore
di delitti. E ancora pelouches,
figurine, poster.
Abbigliamento e gadgets che
richiamano alle gesta crimi
criminali di boss delle mafie, di
terroristi, di narcotrafficanti.
I ragazzi spesso ne sono af
affascinati, li mitizzano e non
esitano ad acquistare prodotti
che abbiano questi personaggi
come protagonisti.
L’autore analizza questa
moda malata che prende sem
sempre più piede. Una fotogra
fotografia di questi tempi che ben
promette fin dalla copertina
dell’e-book.
La solitudine in divisa
Due vite che si incrociano, un
unico, tragico, destino. Il carabiniere Emanuele Basile, a capo
della Compagnia di Monreale, fu
ucciso il 4 maggio 1980, durante
la festa del Santissimo Crocifisso
che si stava celebrando nella sua
cittadina: a fianco sua moglie, in
braccio la loro figlia di quattro
anni. Un sicario gli sparò alle
spalle, inutile la corsa in ospedale ove sopraggiunse anche il
giudice Paolo Borsellino. Basile
stava investigando su alcuni
accordi criminali per il controllo
del territorio.
Gli succedette l’ufficiale dei
carabinieri Mario D’Aleo, che
sarà ucciso il 13 giugno 1983,
dalla mafia siciliana.
Un omaggio a chi, per il senso
del dovere e delle istituzioni,
ha sacrificato la propria vita. Un
Davide Mattiello
“95. Tanti auguri, ragazzi!”
ADD editore, 2012
libro che ricostruisce la verità
giudiziaria di questi delitti di
mafia, affiancandola al racconto
doloroso dei famigliari.
Michela Giordano,
“Quando rimasero soli”
Edizioni Paoline, 2012
80 | dicembre 2012 | narcomafie
C’è un
giudice a
Crotone
Con la bella (e coraggiosa) sentenza 1410 del 12 dicembre 2012,
il giudice Edoardo D’Ambrosio,
del tribunale di Crotone, ha assolto, per “legittima difesa”, tre
stranieri imputati dei reati di
danneggiamento aggravato e di
resistenza a pubblico ufficiale, a
seguito della rivolta dell’ottobre
2012 nel Cie di Isola Capo Rizzuto,
dove i tre erano “ospiti”. In tutto
il 2012 si son dovute conteggiare
numerose proteste e rivolte nei
tredici Centri di identificazione
ed espulsione, distribuiti sul territorio nazionale. Si tratta, come
noto, di strutture dove vengono
trattenuti gli stranieri “irregolari”,
per essere identificati, in attesa
dell’espulsione eventuale. La
vicenda processuale di Crotone
merita una speciale attenzione
perché il giudice, non accogliendo
la richiesta del pm che aveva
chiesto la condanna a un anno
e otto mesi per ciascuno degli
imputati, li ha assolti ritenendo
che fossero stati costretti a commettere quei reati per difendere
i loro diritti alla dignità e alla
libertà personale. Relativamente
a quest’ultimo diritto il giudice
ha, infatti, ritenuto illegittimo il
provvedimento di trattenimento
nel Cie adottato dalla Questura di
Reggio Calabria e convalidato dal
giudice di pace, in quanto non ade-
guatamente motivato – alla luce
delle disposizioni contenute nella
direttiva comunitaria 2008/115 –
in merito alle ragioni per le quali
non era stato possibile adottare
una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso
il Cie. Ma, e questo è l’aspetto più
importante, le condizioni di vita
nella struttura erano «al limite
della decenza» con «materassi
luridi, privi di lenzuola e coperte
sporche, lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani sporchi,
pasti insufficienti e consumati
senza sedie né tavoli». Un’offesa ingiusta, dunque, alla dignità
della persona, che ha indotto gli
imputati alla legittima difesa in
una situazione di pericolo attuale.
di Piero Innocenti
Ecco, allora, si legge nella sentenza «la prevalenza nella tutela dei
beni offesi della dignità umana
e della libertà personale rispetto
a quelli offesi del prestigio, efficienza e patrimonio materiale
della pubblica amministrazione».
Una svolta storica impressa da
un magistrato del Sud, perché è
da molti anni che si denunciano
le pessime condizioni in cui si
trovano gli stranieri nei centri
senza che la classe politica abbia
mai avuto il coraggio di affrontare
seriamente i problemi connessi
alle condizioni socio-sanitarie
di tali strutture, alle modalità di
gestione, al rispetto dei diritti
degli immigrati. Nel 2004 e nel
2010 “Medici senza frontiere”
stilò due rapporti, dopo diverse
visite fatte ai centri, evidenziando
il loro pessimo funzionamento, il
profondo malessere delle persone
“ospiti”, i casi di autolesionismo,
la somministrazione ripetuta di
sedativi. Nel 2007 era toccato alla
Commissione De Mistura (dal
cognome dell’ambasciatore che la
presiedette) sottolineare, invano,
la precarietà e l’inidoneità dei
centri, formulando raccomandazioni (in gran parte inascoltate)
che avrebbero potuto consentire di
affrontare il problema della irre-
golarità degli stranieri in maniera
«più creativa ed efficace». Oltre
otto mesi fa, dopo un minuzioso
lavoro, la Commissione senatoriale per la tutela e la protezione
dei diritti umani, ha approvato,
all’unanimità, un rapporto sullo
stato dei diritti umani nelle carceri e nei centri di accoglienza
e trattenimento per migranti in
Italia, presentandolo al ministro
della Giustizia Paola Severino.
Scrivevano i senatori che «le condizioni nelle quali sono detenuti
molti migranti irregolari nei Cie
(…) sono molto spesso peggiori
di quelle delle carceri». Anche
stavolta nessuna iniziativa concreta se non ascoltare le solite
dichiarazioni di circostanza. Lo
spread, l’andamento delle borse, la disoccupazione giovanile,
le sconcertanti ruberie di molti politici, le elezioni politiche
sono certamente temi importanti
e assorbenti per i governi; ma la
vita delle migliaia di persone che
scappano da guerre e povertà per
cercare un riparo nel nostro paese, il rispetto della loro dignità,
non dovrebbero avere la stessa
attenzione da parte di una classe politica abbarbicata ai propri
interessi e sempre più incapace
di guardare lontano?
numero 12 | 2012 | 3 euro
Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117
numero 12 | 2012
SPAgNA, CoNTrASTo
AST ALLE
ASTo
orgANIzzAzIoNI CrIMINALI
le mafie
nell’arena
SOMMARIO
3 | L’EDITORIALE
Elezioni 2013, chi parla dei migranti?
di Livio Pepino
56| ALTARISOLUZIONE
Nella Terra dei fuochi
di Luciana Passaro e Mauro Pagnano
5 | ’NDRANGHETA IN PIEMONTE
La coda del Minotauro
di Giuseppe Legato
60 | OCCIDENTI
Rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
15 | I GIORNI DELLA CIVETTA
Brevi di mafia
a cura di Manuela Mareso
63 | INTERVISTA
In fuga da Istanbul
di Carlo Ruta
18 | INFILTRAZIONI MAFIOSE IN LIGURIA
Svolta a Ponente
di Stefano Fantino
69 | CRONACHE SOMMERSE
Jabhat nella black list
di Andrea Giordano
26 | COSE NOSTRE
Riattivare il lavoro: mettici la firma
di Maurizio Bongioanni
70 | SEGNALI
Le ballate del male
di Francesca Chirico
28 | LE ESEQUIE DI GIUSEPPE ERCOLANO
Il rispetto oltre la morte
di Dario De Luca
73 | SEGNALIBRO
Reddito minimo garantito,
un’utopia possibile
di Matteo Zola
31 | NUOVE RESISTENZE
Imprenditore cingalese:
denuncia non vana
di Laura Galesi
78 | SHARE
Le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
32 | STROZZATECI TUTTI
Il pendolo delle mafie
di Marcello Ravveduto
80 | L’OPINIONE
C’è un giudice a Crotone
di Piero Innocenti
33 | DOSSIER SPAGNA
L’avanzata dei lancheros
di Stefano Paglia
Tra patriarca, padrini e pesetas
di S. P.
Porte aperte al malaffare
di S. P.