Cooperazione internazionale di Giulio Marcon Per cooperazione

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Cooperazione internazionale di Giulio Marcon Per cooperazione
Cooperazione internazionale
di Giulio Marcon
Per cooperazione internazionale si intende l’esistenza e la promozione di relazioni, programmi,
attività, organizzazioni che coinvolgono governi, istituzioni, organismi, strutture, associazioni di
diversi paesi. La cooperazione internazionale è improntata a forme più o meno estese e
rafforzate di collaborazione, concertazione e ad una certa convergenza di obiettivi e forme di
azione e di lavoro comuni. La cooperazione internazionale può avere come oggetto temi diversi
(dalle politiche economiche e commerciali agli aiuti umanitari, dalla prevenzione dei conflitti
alla giustizia, dalla tutela dell’ambiente alla comunicazione, ecc.) con la presenza di attori del
settore pubblico (governi, parlamenti e assemblee elettive, autorità locali, ecc.), di quello
privato (imprese, società commerciali, ecc.), del settore non profit (ONG, associazioni ed
organizzazioni della società civile, ecc.). La cooperazione internazionale può essere ricercata e
realizzata sia con la promozione di politiche e di accordi ad hoc da parte dei soggetti
interessati, sia in forma istituzionalizzata, attraverso organismi sovranazionali o
intergovernativi permanenti (le OIG, Organizzazioni Inter- Governative), istituiti con trattati e
accordi internazionali, o –a livello di società civile- con le ONG (Organizzazioni Non
Governative). Gli esempi di organizzazioni internazionali (governative e non governative) –oltre
a quelli più conosciuti come le agenzie dell’ONU- sono i più vari: dalla FIFA (Federation
International de Football Association, la federazione mondiale di calcio) all’UPU (l’Unione
Postale Universale, che armonizza e coordina i sistemi postali nazionali), dalla NATO (North
Atlantic Treaty Organisation, conosciuta anche come l’Alleanza Atlantica) a CIVICUS (una rete
mondiale di organizzazioni civiche e della società civile). La cooperazione internazionale ha
avuto un notevole impulso in due fasi della storia del ‘900, dopo la prima e dopo la seconda
guerra mondiale, quando la comunità internazionale volle prevenire altri conflitti, attraverso
l’istituzione di nuove e più efficace forme di collaborazione tra i paesi, tra tutte la Società delle
Nazioni (dopo la prima guerra mondiale) e le Nazioni Unite (dopo la seconda). La cooperazione
internazionale cerca dunque di armonizzare interessi ed obiettivi dei singoli paesi, cercando di
evitare forme dannose di conflitto, di concorrenza e di competizione.
La cooperazione allo sviluppo
La cooperazione allo sviluppo è una specifica forma di cooperazione internazionale, che ha
l’obiettivo di favorire la crescita economico-sociale e lo sviluppo umano dei paesi più poveri.
L’obiettivo della cooperazione allo sviluppo è emerso con grande forza nell’immediato secondo
dopoguerra, quando fu evidente la situazione di povertà e di scarso sviluppo economico di
molti paesi –ancora sotto il giogo delle potenze coloniali o in via di liberazione- dell’Africa,
dell’Asia e dell’America Latina. In questo contesto la cooperazione allo sviluppo rappresentava
–nell’ambito di una crescente consapevolezza della comunità internazionale delle
diseguaglianze mondiali- una modalità di aiuto volto a favorire la crescita economica, la
costruzione delle infrastrutture, lo sviluppo della capacità tecnologica dei paesi poveri. Accanto
a questa dimensione umanitaria e sociale la cooperazione allo sviluppo è stata utilizzata anche
in modo strumentale per motivi di carattere geopolitico, determinati dalla suddivisione del
mondo della guerra fredda in due blocchi. La cooperazione allo sviluppo ha rappresentato, cioè,
fino alla fine degli anni ottanta (anche) uno strumento utilizzato dalle due superpotenze (USA e
URSS) per condizionare e tenere sotto controllo le aree geografiche periferiche di riferimento.
La cooperazione allo sviluppo ha avuto un notevole impulso nel secondo dopoguerra grazie al
processo di decolonizzazione che ha fatto affacciare nuovi paesi nell’arena dell’economia, della
politica e della democrazia internazionale. Questo processo ha alimentato –soprattutto negli
anni ’60 del secolo scorso- l’attenzione e le iniziative internazionali sui temi dello sviluppo,
anche grazie al ruolo avuto dalle Nazioni Unite, da diversi governi occidentali, dalle ONG, dalle
Chiese (in particolare con il pontificato di Papa Giovanni XXIII), dal movimento terzomondista.
La cooperazione allo sviluppo si è sviluppata su diverse direttrici: l’aiuto alimentare con l’invio
di derrate, il trasferimento di tecnologie, la costruzione di infrastrutture, il trasferimento di aiuti
economici a fondo perduto o la concessione di crediti di aiuto, l’invio in loco di personale
qualificato, la concessione di favorevoli condizioni doganali e commerciali di accesso ai mercati
occidentali per i beni e i servizi prodotti dai paesi beneficiari, il sostegno a progetti di ONG
(Organizzazioni Non Governative) in ambito sociale e culturale, la cooperazione decentrata, ecc.
La cooperazione allo sviluppo, quando è il frutto di politiche pubbliche, viene definita (in Italia)
come APS (Aiuto Pubblico allo Sviluppo) e in ambito internazionale come ODA (Official
Development Assistance). La cooperazione allo sviluppo può essere pubblica, privata e
promossa dalla società civile. La cooperazione pubblica allo sviluppo può essere realizzata in
ambito “bilaterale” o “multilaterale”. Nel primo caso si tratta della cooperazione che si svolge
tra due paesi, ovvero la realizzazione di programmi e attività che vedono direttamente coinvolti
i governi, le istituzioni, le ONG del paese donatore e beneficiario. Nel caso della cooperazione
multilaterale, questa ha per protagonista non un governo, ma un’istituzione intergovernativa o
sovranazionale che –sovvenzionata dai governi- promuove attività e programmi di cooperazione
rivolti ad un singolo o a gruppi di paesi, aree regionali o trasversalmente su temi di rilevanza
globale. Esiste poi anche una cooperazione multi-bilaterale che si dà quando un governo
finanzia un’agenzia o un’organizzazione internazionale vincolando la destinazione dei fondi ad
un determinato obiettivo (l’emergenza Tsumani o la lotta all’Aids, per esempio). Normalmente
la cooperazione allo sviluppo può essere svolta “a dono” o con “crediti di aiuto”. Nel primo
caso, il paese donatore o l’istituzione internazionale destina fondi o aiuti a progetti, realizza
interventi e attività “a fondo perduto”, senza cioè alcuna contropartita o aspettativa di
restituzione dei fondi impegnati. Nel caso dei “crediti di aiuto”, il governo del paese donatore o
l’istituzione internazionale concede crediti finanziari a tassi particolarmente agevolati e a
condizioni di restituzione molto facilitate. Altra distinzione importante nella cooperazione allo
sviluppo è tra aiuti “legati” e aiuti “slegati”: nel primo caso i paesi beneficiari sono vincolati ad
utilizzare gli aiuti acquistando dai paesi donatori i beni e i servizi di cui necessitano. Nel
secondo caso lo possono fare presso altri paesi o sul mercato locale.
La cooperazione allo sviluppo può essere promossa anche grazie a politiche commerciali
favorevoli ai paesi beneficiari. Nell’ambito della cooperazione promossa dalla società civile è
questo il caso del movimento del commercio equo e solidale (fair trade) che applica condizioni
più favorevoli di importazione e di prezzo ai produttori dei paesi in via di sviluppo. Nell’ambito
delle politiche istituzionali a livello internazionale va ricordato l’accordo CE-ACP (cioè Comunità
Europea – Africa Caraibi Pacifico) che nel 1975 fissò condizioni particolarmente favorevoli per
l’accesso di alcuni prodotti di 46 paesi africani, asiatici e caraibici (molte ex colonie europee) e i
paesi della allora Comunità Europea. Le recenti politiche neoliberiste dell’OMC (Organizzazione
Mondiale del Commercio), dalla seconda metà degli anni novanta ad oggi hanno invece
progressivamente ridotto le “protezioni” e le agevolazioni di cui alcune produzioni dei paesi in
via di sviluppo godevano, portando anche al crollo dei prezzi mondiali di alcune materie prime
(cotone, caffè, cacao) su cui si basano le economie di diversi paesi in via di sviluppo. Proprio il
tema delle politiche commerciali richiama il problema della coerenza delle altre politiche (oltre
a quella commerciale, quelle economiche, finanziarie, monetarie, agricole, dell’immigrazione,
ecc.) con la cooperazione allo sviluppo. Senza una coerenza di queste con le politiche di
cooperazione allo sviluppo, quest’ultima rischia di essere ridotta a pura testimonianza, ad
attività residuale continuamente contraddetta e “smontata” dalle altre politiche. Politiche
commerciali dei paesi sviluppati che danneggino le produzioni e le esportazioni dei paesi in via
di sviluppo e politiche economiche (liberiste) che costringano i paesi poveri a ridurre i servizi
sociali e a smantellare il ruolo del settore pubblico, oppure politiche finanziarie che indebitino i
paesi del terzo mondo, minano le condizioni basilari dello sviluppo di questi paesi, verso le
quali –in questi casi- ben poco possono politiche anche generose di aiuto, di assistenza, di
cooperazione. Esemplari sono, in questo contesto, le politiche seguite dal Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale, a partire dagli anni ottanta che hanno imposto ai paesi
poveri i cosiddetti “piani di aggiustamento strutturale” per costringerli a ripagare il debito
internazionale (oggi un drammatico fardello che pesa sui paesi in via di sviluppo), ma che
hanno fatto crollare la capacità produttiva e di sviluppo del capitale sociale e umano di quei
paesi. La crisi della cooperazione allo sviluppo, intervenuta a partire dagli anni ‘90 non è dovuta
solamente al calo di risorse messe a disposizione dai paesi ricchi, ma –appunto- anche
all’effetto delle politiche neoliberiste e alla perdita di importanza politica e strategica –tra i
paesi sviluppati- della cooperazione allo sviluppo dopo la fine della guerra fredda.
La cooperazione allo sviluppo, a livello internazionale, può ancorarsi a importanti fondamenti
giuridici, a trattati o a dichiarazioni firmate solennemente dai governi. Tra queste ricordiamo la
Carta delle Nazioni Unite (1945), la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948), la
Dichiarazione sull’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali (1960), il Patto internazionale sui
diritti economici sociali e culturali (1966-76), la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo (1986), la
Dichiarazione delle conferenze ONU sui temi dello sviluppo (come quelle di Rio de Janeiro nel
1992 e di Copenhagen 1995). Le istituzioni internazionali che si occupano di sviluppo sono
prevalentemente inserite nel sistema delle Nazioni Unite. Il “cappello” al quale fanno
riferimento le agenzie e gli uffici delle Nazioni Unite che si occupano di sviluppo è quello
dell’ECOSOC (il Consiglio Economico e Sociale), al quale fa riferimento anche la Banca
Mondiale, sorta nel 1944 dagli accordi di Bretton Woods e che aveva inizialmente il compito di
aiutare i paesi poveri sulla strada dello sviluppo, con la concessione di crediti di aiuto e con la
realizzazione di programmi sul campo, nel settore economico, produttivo, delle infrastrutture. Il
sistema delle Nazioni Unite prevede agenzie, uffici, dipartimenti ad hoc, tra questi l’UNDP
(United Nations Development Program), il WFP (World Food Program), UNHCR (United Nation
High Commissioner for Refugees), il WHO (World Health Organisation), la FAO (Food and
Agricultural Organisation), l’ UNICEF (United Nations Children’s Fund), l’UNFPA (United Nations
Population Fund), ecc. Le Nazioni Unite, a partire dalla fine degli anni ’60, hanno proposto ai
paesi ricchi e più industrializzati l’obiettivo della destinazione di almeno lo 0,70% del PIL
(Prodotto Interno Lordo) alla cooperazione allo sviluppo. Nel corso degli anni solo alcuni dei
paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, di cui fanno parte i
paesi più industrializzati e con un più elevato reddito procapite) hanno raggiunto questo
obiettivo, mentre la media OCSE non supera lo 0,41%. Nel 2000 le Nazioni Unite hanno
rilanciato l’obiettivo di una più efficace e significativa politica di cooperazione allo sviluppo,
lanciando gli “Obiettivi del Millennio”, che prevedono il raggiungimento di obiettivi concreti
nella lotta alla povertà, all’AIDS, alla denutrizione, all’analfabetismo, ecc. Questo impegno non
ha ancora raggiunto risultati soddisfacenti. In ambito di Commissione ed Unione Europea, i
principali strumenti di intervento in materia sono: la Direzione Generale per le Relazioni Esterne
(DG Relex), Europe Aid, la Direzione Generale per lo Sviluppo (DG Development), il Fondo
Sociale Europeo (Fes) e alcuni programmi specifici (Partenariato euro-meditarraneo, Patto di
Stabilità per i Balcani, ecc.).
La cooperazione allo sviluppo in Italia
In Italia la cooperazione pubblica allo sviluppo è regolata dalla legge 49/87 che rappresenta la
continuazione e la riforma di precedenti leggi approvate nel 1966, nel 1971 e nel 1979. In Italia il
movimento verso la cooperazione allo sviluppo ha tratto linfa –oltre che dal mutato contesto
internazionale e dal processo di decolonizzazione- dal forte impegno di base –religioso e
sociale- a favore dei popoli dei paesi in via di sviluppo. In particolare, a partire dagli anni
sessanta, il missionariesimo cattolico e il terzomondismo in solidarietà con le lotte dei
movimenti di liberazione dal colonialismo hanno favorito la crescita dell’attenzione delle
istituzioni verso politiche pubbliche di cooperazione. La legge “Pedini” del 1966 prevedeva la
possibilità per un certo numero di obiettori di coscienza di svolgere un servizio civile sostitutivo
nei paesi in via di sviluppo. La legge del 1971 introduceva strumenti tecnici per programmi di
cooperazione, mentre la legge del 1979 costituiva il primo tentativo di una legge quadro in
materia di cooperazione allo sviluppo. Con la legge 49/87, la cooperazione allo sviluppo viene
nello stesso tempo ad essere definita come parte integrante della politica estera dell’Italia e
come strumento coerente per la realizzazione e la promozione dei diritti umani e della pace.
Dice la legge: “La cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell’Italia e
persegue obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei diritti fondamentali
dell’uomo, ispirandosi ai principi sanciti dalle Nazioni Unite e dalle convenzioni CEE-ACP” (art 1.
Comma 1). La legge prevede sia attività di natura bilaterale che multilaterale, “a dono” e “crediti
di aiuto”. La legge infatti specifica: “L’attività di cooperazione allo sviluppo è finanziata a titolo
gratuito e con crediti a condizioni particolarmente agevolate. Essa può essere svolta sul piano
bilaterale, multilaterale e multibilaterale” (art. 2 comma 1) Sono previste anche attività di
emergenza e di aiuto umanitario. La legge ha confermato, meglio specificandola, l’introduzione
–avvenuta nel 1979- della figura delle ONG (Organizzazioni Non Governative) che possono
realizzare progetti “promossi” (dalle organizzazioni stesse) o “affidati” (dal Ministero Affari
Esteri). A differenza della definizione internazionale di NGO (Non Governmental Organisation)
che include un ampio spettro di organizzazioni impegnate per la cooperazione allo sviluppo, gli
aiuti umanitari, i diritti umani, la pace, ecc. l’espressione italiana di ONG è molto restrittiva e
definisce solo quelle organizzazioni (che possono avere la forma giuridica della associazione o
della fondazione) che sono riconosciute dalla legge 49/87, sono iscritte in un apposito albo
previsto dalla norma, e così possono ricevere finanziamenti per realizzare i loro progetti. La
gestione delle attività di cooperazione allo sviluppo viene assegnata dalla legge al Ministero
Affari Esteri, attraverso l’istituzione della DGCS (Direzione Generale per la Cooperazione allo
Sviluppo). Dagli inizi degli anni ’90 ad oggi, la cooperazione allo sviluppo in Italia è entrata
progressivamente in crisi, sia a causa del drammatico calo di risorse destinate, oggi allo 0,15%
del PIL (portando l’Italia all’ultimo posto della classifica dei paesi OCSE) sia per la paralisi
burocratica ed amministrativa del Ministero Affari Esteri e ha portato ad un calo di efficacia e di
efficienza dell’azione pubblica.
La cooperazione decentrata
La cooperazione decentrata è una modalità della cooperazione allo sviluppo portata avanti
dalle comunità locali sia nella loro dimensione istituzionale (comuni, province, regioni), sia in
quella di società civile (associazioni, ong, sindacati, forze sociali, imprese, università, ecc.), o,
ancora meglio, insieme. Protagonisti della cooperazione decentrata sono, appunto, gli attori
delle comunità locali, attraverso un processo di partecipazione del tessuto sociale e
istituzionale del territorio. La visione più avanzata della cooperazione decentrata assegna a
questa due caratteristiche: a) la valorizzazione di una modalità di intervento fondata su
“relazioni tra comunità” (attraverso dunque un rapporto di partenariato tra donatori e
beneficiari fondato sullo scambio, l’integrazione, la co-progettazione), b) la costruzione di una
soggettività mista pubblico-privata che riposa sul concetto di “sussidiarietà circolare” tra
istituzioni e società civile. Ecco perché, invece, forme di cooperazione decentrata che
ricentralizzino le attività di cooperazione su una regione, su una provincia o su un comune –
assegnando alla società civile un ruolo aggiuntivo e subalterno- tradiscono l’originalità più
interessante di questa modalità di fare cooperazione. L’Unione Europea ha riconosciuto il
valore della cooperazione decentrata e con un regolamento del 1998 (1659/98) ha sostenuto e
stimolato le esperienze in questo campo. In campo internazionale viene utilizzata l’espressione
di decentralised cooperation o di community based cooperation.
In Italia la legge 49/87 non prefigura forme di cooperazione decentrata, ma prevede la
possibilità per regioni ed enti locali di svolgere attività di cooperazione. In compenso, dopo
l’approvazione della legge del 1987, quasi tutte le regioni si sono date delle leggi regionali
quadro sulla cooperazione allo sviluppo e questo ha fornito uno stimolo importante allo
sviluppo della cooperazione decentrata in Italia. La legge 14 del 1993 ha inoltre previsto (art. 19)
che comuni e province possano “destinare un importo non superiore allo 0.80 per cento della
somma dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione per sostenere
programmi di cooperazione allo sviluppo ed interventi di solidarietà internazionale”. Si tratta
della norma dell’otto per mille che ha permesso a molti enti locali di intraprendere attività di
cooperazione, senza dover subire contestazioni amministrative e degli organi di controllo (che
fino ad allora obiettavano, appunto, l’ammissibilità di queste spese) e di rilanciare la spinta a
favore di un’assunzione maggiore di responsabilità degli enti locali su questo terreno. La
cooperazione decentrata sembra dunque dare una risposta alla asimmetria, alla invasività e alla
verticalità gerarchica che i paesi donatori hanno talvolta imposto ai paesi beneficiari in decenni
di esperienze e di pratiche di cooperazione allo sviluppo, proponendo invece una modalità
orizzontale, partecipata e paritaria –fondata sul partenariato e sulla pratica delle relazioni, sul
ruolo della società civile e delle comunità nel loro insieme- che riconsegna agli attori dei paesi
beneficiari un autentico protagonismo e una vera soggettività. Si tratta anche di un modo per
rendere maggiormente efficace, efficiente e diffusa la pratica della solidarietà e della
cooperazione internazionale.
Più in generale si tratta di rinnovare le politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo
separandole dagli interventi militari, dalla geopolitica estera e dalla politica commerciale e
legandole sempre di più alla promozione dei diritti umani, della giustizia e della pace. Nel
contempo si tratta di rendere coerente le altre politiche (commerciale, economica, monetaria,
ecc.) agli obiettivi della cooperazione allo sviluppo di lotta alla povertà, di riduzione delle
diseguaglianze, di crescita sostenibile dei paesi beneficiari. Si tratta in questo senso di lavorare
per un modello di sviluppo diverso, alternativo alla ideologia neoliberista e legato a quelle
nozioni di sviluppo umano e sostenibile, propugnato in diverse sedi dalle Nazioni Unite.
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