Notiziario settimanale n. 446 del 06/09/2013

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Notiziario settimanale n. 446 del 06/09/2013
Notiziario settimanale n. 446 del 06/09/2013
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
Indice generale
Emergency sulla guerra in Siria (di Emergency)........................................ 1
Une guerre par an....................................................................................... 1
Hiroshima, lezione dimenticata (di Giorgio Nebbia).................................. 2
Troppo vicini (di Giuseppe Casarrubea)..................................................... 3
Sistemi di difesa alternativa per gli stati (di Johan Galtung) ...................... 4
La scoperta e il recupero dei rifugi antiaerei: il come e il perché (di Andrea
Bontempi).................................................................................................. 5
I bombardamenti aerei, armi di guerra e di strage (di Andrea Bontempi)...8
Le ragioni della pace (di Gino Buratti)..................................................... 12
In che modo siamo stati impoveriti, imborghesiti e messi a tacere (di John
Pilger)...................................................................................................... 15
Le mani sull'Italia: come pilotare la società e impadronirsi del Paese (di
Mario Pancera)......................................................................................... 16
La Siria tra guerra, pace e nonviolenza (di Nanni Salio).......................... 16
Siria, opzione Kosovo in Medio Oriente (di Manlio Dinucci)..................17
Il “modello Kosovo”: un motivo in più per contrastare i piani di guerra in
Siria (di Gianmarco Pisa)......................................................................... 17
Tunisia: finirà come in Egitto? (di Miriam Rossi).................................... 19
Master of Arts in Human Rights and Conflict Management (di Scuola
Superiore Sant'Anna)............................................................................... 19
Evidenza
Il 7 settembre ci dobbiamo essere tutti! (di Flavio
Lotti)
Sarà la prima grande manifestazione di pace contro la guerra in Siria e “i
drammatici sviluppi che si prospettano.” Aderisci anche tu!
Giornata di digiuno e di preghiera per la pace
in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero
il 7 settembre ci dobbiamo essere tutti!
Quella del 7 settembre sarà una giornata importante. E spero che ci
saremo tutti. Ciascuno a suo modo, con il suo credo e le sue convinzioni.
Sarà la prima grande manifestazione di pace contro la guerra in Siria e “i
drammatici sviluppi che si prospettano.” L’ha indetta ieri con grande forza
e coraggio Papa Francesco rompendo il silenzio e l’inazione generale che
1
da lungo tempo circonda questa tragedia. Non c’è spazio per nessun
distinguo. Chi vuole sinceramente la pace non può che partecipare.
Papa Francesco invita tutti a una giornata di preghiera e di digiuno. La
preghiera per i credenti. Il digiuno per tutti. Il digiuno è, prima ancora che
un atto di rinuncia materiale al cibo, un gesto di vicinanza a tutti quei
bambini, quelle donne e quegli uomini che sono precipitati nell’inferno
della guerra “in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero”. Vicinanza,
condivisione, solidarietà contro lontananza, indifferenza, menefreghismo.
Il digiuno è anche un atto politico contro una politica che minaccia di
trascinarci in un nuovo conflitto mondiale, che non solo non ha ancora
fatto nulla per spegnere l’incendio mediorientale ma ha addirittura
contribuito ad alimentarlo. Il digiuno è un gesto di protesta contro
l’ingiustizia dilagante e contro l’ipocrisia che l’accompagna e cerca di
coprirne i responsabili. Ma il digiuno è anche un atto di “penitenza”, di
“autocritica”, di riconoscimento delle proprie responsabilità. Chi digiuna
riconosce di non aver fatto abbastanza, di essere in qualche misura
“corresponsabile”. Forse non potevamo fare altro ma, di fronte a tragedie
così grandi, non ci possiamo autoassolvere.
Il digiuno è anche un atto di proposta. E Papa Francesco ha accompagnato
l’indizione di questa giornata con una chiara proposta che non possiamo
non condividere. Una proposta che interpella la politica e tutti i suoi
massimi responsabili. Eccone i punti essenziali:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
“Mai più la guerra! Non è mai l’uso della violenza che porta alla
pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!”
Ferma condanna dell’uso delle armi chimiche.
Appello alle parti in conflitto perché ascoltino la voce della
propria coscienza, non si chiudano nei propri interessi e
intraprendano con coraggio e con decisione la via dell’incontro
e del negoziato, superando la cieca contrapposizione.
Appello alla Comunità Internazionale perché faccia ogni sforzo
per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la
pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il
bene dell’intera popolazione siriana.
Appello affinché non sia risparmiato alcuno sforzo per garantire
assistenza umanitaria a chi è colpito da questo terribile conflitto,
in particolare agli sfollati nel Paese e ai numerosi profughi nei
Paesi vicini.
Appello affinché agli operatori umanitari, impegnati ad alleviare
le sofferenze della popolazione, sia assicurata la possibilità di
prestare il necessario aiuto.
Perché queste proposte non restino inascoltate sarà necessaria una vasta
mobilitazione delle coscienze. E ciascuno di noi ha la responsabilità di
fare la sua parte. Papa Francesco ci rivolge un appello chiaro e forte: “Una
catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona
volontà! Il grido della pace si levi alto perché giunga al cuore di tutti e
tutti depongano le armi e si lascino guidare dall’anelito di pace.” Il 7
settembre partecipiamo alla giornata di digiuno e di preghiera,
sventoliamo le bandiere arcobaleno, appendiamole alle nostre finestre e
facciamo in modo che nessuno possa dire “ma io che c’entro?”.
Flavio Lotti
Coordinatore della Tavola della pace
Perugia, 2 settembre 2013
(fonte: Tavola della Pace)
link: http://www.perlapace.it/index.php?id_article=9723
Emergency sulla guerra in Siria (di Emergency)
«Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile e
inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà
rinunciare alla guerra?»
Lo scrivevano Bertrand Russell e Albert Einstein nel 1955
Sono passati quasi sessant'anni, ma l'umanità non ha ancora rinunciato alla
guerra. Anzi, ancora una volta, viene presentata come l'unica opzione
possibile per mettere fine a un conflitto.
Non lo è. L'abbiamo visto con i nostri occhi in Iraq, in Afghanistan, in
Libia: le guerre "per la pace" hanno solo alimentato altra violenza e in
questi Paesi i civili continuano a morire, ogni giorno.
Ai morti già causati dalla guerra in Siria se ne aggiungeranno altri, perché
scegliere le armi oggi significa decidere sempre, consapevolmente, di
colpire la popolazione civile: nei conflitti contemporanei il 90% delle
vittime sono sempre bambini, donne e uomini inermi.
Centinaia di migliaia di persone hanno già abbandonato la Siria per
cercare rifugio nei Paesi vicini. Li abbiamo incontrati anche in Sicilia,
dove i nostri medici stanno garantendo le prime cure ai profughi che
stanno sbarcando sulle coste di Siracusa.
In tutti questi anni abbiamo visto che la guerra è sempre l'opzione più
disumana, e inutile.
Chiediamo che l'Italia rifiuti l'intervento armato e si impegni invece per
chiedere alla comunità degli Stati l'immediato intervento diplomatico,
l'unica soluzione ammissibile secondo il diritto internazionale, l'unica in
grado di costruire un processo di pace che abbia come primo obiettivo la
tutela della popolazione siriana, già vittima della guerra civile.
L'umanità può ancora decidere di rinunciare alla guerra: difendere e
praticare i diritti umani fondamentali è l'unico modo per costruire le basi
per una convivenza pacifica tra i popoli.
(28 agosto 2013)
link: http://www.emergency.it/comunicati-stampa/sulla-guerra-in-siria.html
Approfondimenti
Guerre e conflitti internazionali
Une guerre par an
En guise de « buts de guerre » en Syrie, MM. Obama, Cameron, Hollande
ont répété ces derniers jours qu’il s’agissait de « punir » ceux qui ont gazé
des innocents : du George W. Bush dans le texte. Est-ce faute de pouvoir
se prévaloir de la légitimité internationale, en l’absence d’un accord au
Conseil de sécurité des Nations unies ? La morale contre le droit,
Kouchner et BHL aux anges, et tant pis pour la suite ?
Traduite en langage technique militaire, la « punition » risque d’être à
géométrie variable. Washington a beau répéter qu’il ne s’agit pas de
renverser le régime de Bachar Al-Assad — histoire sans doute d’amadouer
ceux qui s’étaient sentis floués en 2011 par l’interprétation plus
qu’extensive du mandat du Conseil de sécurité sur la Libye —, toutes les
options « sur la table » y contribueront pourtant :
En premier lieu, une campagne de frappes de missiles de croisière,
présentée comme rapide et courte (quelques petits jours), qui pourrait être
menée par les quatre destroyers et les sous-marins américains
actuellement en Méditerranée ; par un sous-marin ou par des bombardiers
britanniques ; ou par une frégate et des Rafale français.
Une infiltration, à partir des frontières jordanienne et turque, de
commandos syriens formés dans ces pays par les Américains.
Et comme annoncé par Paris, un renforcement de l’aide militaire aux
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rebelles, en volume mais aussi avec montée en gamme des armements qui
leur sont fournis.
Objectif final... Retour à la table des matières
Le quotidien russe Kommersant du 27 août, s’appuyant sur des avis
d’experts, croit savoir que certains alliés européens, la Turquie et les
monarchies du Golfe comme le Qatar et l’Arabie saoudite, poussent
Washington vers un deuxième scénario, qui impliquerait une guerre
aérienne plus longue et des bombardements plus intensifs. Un scénario qui
ressemble davantage à la campagne libyenne de 2011, quand l’armée de
l’air des pays de l’OTAN avait assuré un appui aérien aux rebelles
opposés à Mouammar Kadhafi. Et l’objectif final de cette opération serait
alors bien le renversement du régime d’Al-Assad, tout comme l’avait été
celui de Kadhafi en Libye.
" Lire Alain Gresh, « De l’impasse syrienne à la guerre régionale », Le
Monde diplomatique, juillet 2013" Il existerait, selon ce journal, un
scénario intermédiaire. Durant un certain temps les Etats-Unis, avec leurs
alliés européens, bombarderaient la Syrie afin d’affaiblir le potentiel
militaire de Damas, avant de se retirer au second plan pour accomplir
principalement des fonctions auxiliaires. Les pays de la région qui
cherchent à renverser Al-Assad prendraient alors le relais, avec à leur tête
la Turquie — la plus puissante armée de la région. L’armée de l’air turque
pourrait assurer un appui aérien à l’opposition syrienne dans les zones clés
du front grâce aux bases aériennes d’Incirlik, Konya, Malatya et
Diyarbakir ; l’armée de terre pourrait également participer à certaines
opérations. Dans une moindre mesure le même rôle pourrait être rempli
par certaines forces d’élite des pays arabes qui font partie de la coalition
anti-Assad, comme le Qatar, l’Arabie saoudite et les Emirats arabes unis.
... pour aller on ne sait où Retour à la table des matières
Le thème de la « punition » rappelle fortement le bombardement du palais
de Kadhafi, et de quelques cibles à Tripoli en avril 1986, déjà par l’armée
américaine. Ou encore certains raids israéliens sur tel objectif syrien. Mais
le périmètre des cibles envisagées pour les frappes paraît cette fois bien
plus large : batteries anti-aériennes, aéroports, dépôts, centres de
commandement, casernements. Il ne manquera que la présidence, les
ministères régaliens, les centrales électriques et les ports, et le ménage
total aura été fait. Pour aller on ne sait où. Et au prix, sans doute :
d’un embrasement plus ou moins incontrôlable de la région procheorientale ;
d’un surcroît de militarisation de la mer Méditerranée ;
de risques accrus pour Israël (où l’on est à nouveau lancé dans la course
au masque à gaz) ;
de menaces sur les intérêts et les habitants des pays les plus en pointe
dans cette offensive punitive (France, Grande-Bretagne, Etats-Unis) ;
sans parler de la note économique mondiale, flambée du pétrole à la
clé ;
et des inconnues sur le caractère du futur régime syrien, et le sort qu’il
réservera à ses minorités, etc.
A contre-courant Retour à la table des matières
Ce flou dans les buts de guerre est d’autant plus sensible en Europe que
Londres et Paris — qui se veulent en première ligne dans cette campagne
de châtiment — sont en fait dépendants militairement de Washington, et
en sont réduits à attendre le « top départ » américain, espérant seulement
assurer à leur participation une visibilité suffisante. Ce qui arrange le
président Obama, adepte du « leadership from behind » (leadership à
distance, de derrière), déjà expérimenté avec succès en Libye, qui doit
tenir compte d’une opinion et d’une classe politique fatiguées des
aventures irakienne et afghane.
Mais ce flou est aussi de nature à limiter les ambitions européennes : en
deux jours de frappes aériennes, on peut certes « punir » ; mais il faudrait,
militairement, des semaines d’offensive pour « régler le problème » et
s’assurer de la chute de Bachar Al-Assad — que semblent souhaiter les
dirigeants français et britanniques depuis déjà plusieurs mois.
Au passage, on peut relever le paradoxe qui conduit les Français, hostiles
à l’entrée en guerre en Irak en 2003, à vouloir prendre la tête de
l’offensive en Syrie en 2013 — alors que l’opération punitive occidentale
(car elle va apparaître ainsi) ne bénéficie pas de la traditionnelle
bénédiction du Conseil de sécurité des Nations unies, pourtant jusqu’ici
présentée à Paris comme un gage de légitimité, une condition nécessaire,
et donc un passage obligé. La France, qui se réclame volontiers du droit
international, et s’en prétend souvent la gardienne, préconise aujourd’hui
de s’en passer, comme l’ami américain, et au nom du précédent du
Kosovo.
Retours d’expériences Retour à la table des matières
En mars 1999, dans un contexte de massacres à grande échelle (Rwanda
1994, Srebrenica 1995), les Occidentaux avaient invoqué une situation
d’urgence humanitaire pour justifier la campagne de bombardements de
l’OTAN sur les forces serbes du Kosovo. La secrétaire d’Etat américaine
de l’époque, Mme Madeleine Albright, avait défendu l’idée d’une
intervention « illégale mais légitime », dans le cadre d’une « situation
unique ». Laquelle se répèterait aujourd’hui : comment, dès lors, donner
des leçons de légalité internationale aux régimes russe, chinois, et autres ?
Or tout conflit, tout engagement de forces armées, n’a de sens que s’il
débouche sur un projet politique. Les douloureuses expériences de ces
dernières années, en Irak, en Afghanistan, en Libye, auraient dû porter
conseil : ces pays sont aujourd’hui à feu et à sang, en proie aux attentats, à
l’extrémisme, au désordre. Tirer un trait sur ces aventures, dont tous les «
retours d’expérience » (« retex », comme disent les militaires) n’ont pas
été menés à bien, revient à s’engager à l’aveugle dans une nouvelle
offensive armée, dont les finalités et conséquences demeurent pour le
moins obscures.
La plus monstrueuse Retour à la table des matières
On remarquera que la France a eu tendance, ces dernières années, à
enquiller les guerres les unes après les autres : Tchad, 2008 ; Afghanistan,
2009 ; Côte d’Ivoire, 2010 ; Libye, 2011 ; Mali, 2012-… et maintenant la
Syrie. Comme si le système politique hexagonal, mais aussi son armée,
son industrie de la défense, et jusqu’à un certain point son opinion, avaient
besoin d’une guerre annuelle pour « tourner » correctement… ou pour
oublier le reste.
Notons enfin que John Kerry, le secrétaire d’Etat américain, ne manque
pas d’air lorsqu’il dénonce « ceux qui ont utilisé l’arme la plus
monstrueuse du monde, contre la population la plus vulnérable », oubliant
ce que son pays a fait à Hiroshima et Nagasaki, en 1945. Et ce alors que
son patron, Barack Obama, prix Nobel de la paix, se prépare à lancer sa
guerre au lendemain de la célébration, à Washington, du cinquantenaire du
« rêve » de Martin Luther King. Ainsi va le monde...
(fonte: Monde Diplomatique - segnalato da: Severino Filippi)
link: http://blog.mondediplo.net/2013-08-28-Une-guerre-par-an
Industria - commercio di armi, spese militari
Hiroshima, lezione dimenticata (di Giorgio Nebbia)
Col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo
dell’esplosione, proprio il 6 agosto del 1945, sessantotto anni fa, della
prima bomba atomica americana sulla città giapponese di Hiroshima,
seguita, tre giorni dopo, da quella di una simile bomba atomica sull’altra
città giapponese di Nagasaki: con duecentomila morti finiva la seconda
guerra mondiale (1939-1945), e cominciava una nuova era, quella
atomica, di terrore e di sospetti, eventi che hanno cambiato il mondo e che
occorre non dimenticare.
L’”atomica” era il risultato dell’applicazione militare di una rivoluzionaria
scoperta scientifica sperimentale: i nuclei dell’uranio e di alcuni altri
atomi, urtati dai neutroni, particelle nucleari prive di carica elettrica,
3
subiscono “fissione”, si frantumano in altri nuclei più piccoli con
liberazione di altri neutroni che assicurano la continuazione, a catena,
della fissione di altri nuclei. In ciascuna fissione, come aveva previsto
teoricamente Albert Einstein (1879-1955) nel 1905, si liberano
grandissime quantità di energia sotto forma di calore. Energia che avrebbe
potuto muovere turbine elettriche, navi e fabbriche, ma che avrebbe potuto
essere impiegata a fini bellici.
La fissione anche solo di alcuni chili dello speciale isotopo 235
dell’uranio, o dell’elemento artificiale plutonio, libera energia con un
effetto distruttivo confrontabile con quello di alcuni milioni di chili di
tritolo, uno dei più potenti esplosivi disponibili. I danni sono ancora più
grandi perché molti frammenti della fissione dell’uranio o del plutonio
sono radioattivi per decenni o secoli. Dal 1945 Stati Uniti, Unione
Sovietica (l’attuale Russia), Francia, Regno Unito, Cina, India, Pakistan,
Israele, hanno costruito bombe atomiche sempre più potenti a fissione, o
bombe a idrogeno, termonucleari, nelle quali la liberazione del calore si ha
dalla fusione, ad altissima temperatura e pressione, degli isotopi
dell’idrogeno, il deuterio e il trizio.
Circa duemila esplosioni sperimentali di bombe nucleari nei deserti, negli
oceani, nel sottosuolo, hanno mostrato che cosa una moderna bomba
atomica potrebbe fare, se sganciata su una città. Ciascuna potenza
nucleare si è dotata di bombe nucleari per avvertire qualsiasi potenziale
nemico che, se usasse una bomba atomica, verrebbe a sua volta
immediatamente distrutto: la chiamano deterrenza e questa teoria finora ha
fatto vivere il mondo con un continuo stato di tensione. L’esistenza delle
bombe nucleari ha sollevato proteste finora inascoltate; anzi si può dire
che la contestazione ecologica sia cominciata proprio con la protesta
contro tali armi.
Con la graduale distensione internazionale, a poco a poco le potenze
nucleari hanno cominciato a smantellare una parte delle bombe esistenti.
Nel 1986, l’anno della massima tensione, nel mondo esistevano 65.000
bombe atomiche e termonucleari; oggi tale numero è diminuito a circa
17.000 bombe, delle quali alcune migliaia sono montate su missili pronti a
partire entro un quarto d’ora dall’ordine. La potenza distruttiva delle
bombe nucleari ancora esistenti nel mondo equivale a quella di duemila
milioni di tonnellate di tritolo, settecento volte la potenza distruttiva di
tutte le bombe impiegate durante la seconda guerra mondiale.
Basterebbe l’esplosione, anche accidentale, di una nelle bombe nucleari
esistenti, un atto di terrorismo con esplosivi nucleari, per devastare vasti
territori, per uccidere migliaia di persone, per contaminare l’ambiente
naturale, le acque, gli esseri viventi con sostanze che restano radioattive
per secoli. Un famoso libro di Nevil Shute, “L’ultima spiaggia”, del 1956
(da cui fu tratto un drammatico film), descriveva la scomparsa della vita
dalla Terra in seguito ad uno scambio di bombe nucleari iniziato per
errore; il film finiva con il tardivo avvertimento: “Fratelli, siamo ancora in
tempo”.
Purtroppo, fino a quando alcune potenze possiedono bombe nucleari, sarà
difficile convincere altre (oggi Iran e Corea del Nord, domani chi sa ?) a
rinunciare alla costruzione di un loro arsenale nucleare, nell’illusione di
scoraggiare l’aggressione da parte di “qualcun altro”. L’unica soluzione
consiste nel disarmo nucleare totale, peraltro imposto dall’articolo VI del
Trattato di non proliferazione nucleare, firmato da quasi tutti i paesi, ma
che nessuno finora si è sognato di rispettare.
Eppure sarebbe anche questione di soldi; le enormi somme, oltre mille
miliardi di euro all’anno, che oggi le potenze nucleari spendono per tenere
in efficienza, per aggiornare e perfezionare i propri arsenali, anche detratti
i costi per lo smantellamento e la messa in sicurezza delle bombe nucleari
esistenti e dei relativi “esplosivi”, sarebbero sufficienti per assicurare
scuole e ospedali, opere di irrigazione e cibo a chi ne è privo, per estirpare
cioè le radici della violenza che è la vera causa delle tensioni politiche e
militari internazionali.
Fratelli, non crediate che siano utopie: davvero “siamo ancora in tempo” a
fermare il pericolo di un olocausto nucleare molte volte più grande di
quello di Hiroshima e Nagasaki, a condizione di chiedere ai governanti di
ciascuno e di tutti i paesi della Terra di inserire il disarmo nucleare totale
fra le loro priorità di azione politica. Nel nome dei soldi risparmiati, se
non gli importa niente della sopravvivenza degli abitanti del pianeta e del
suo ambiente naturale.
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 6 agosto 2013
(fonte: comune.info - segnalato da: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://comune-info.net/2013/08/hiroshima-e-nagasaki-la-lezione-dimenticata/
Mafie
Troppo vicini (di Giuseppe Casarrubea)
“Simu arraxati di fora di nostra menti” (Poesie, 1354)
in A.Varvaro, Vocabolario etimologico siciliano, 1986
Arrassari è in siciliano un infinito. Significa tenere lontano, cioè arrassu.
L’etimologia della parola è sconosciuta, ma io ho il sospetto che abbia a
che fare con ras, che nella lingua siciliana sta a significare capo. Tanto che
i marinai che andavano a caccia di tonni avevano bisogno di un capo per
catturare questi poveri pesci con le loro fiocine, dopo averli radunati tutti
in un punto. Il compito del ras era insostituibile. Era lui che avvertiva
l’approssimarsi dei tonni e ordinava alla ciurma il via libera alla mattanza.
Per fortuna la storia talvolta migliora le cose e anche se ci sono rimaste in
posti incantevoli delle belle tonnare baronali, per fortuna è scomparsa
quasi del tutto la memoria delle mattanze.
Ma nei fatti della vita di tutti i giorni le cose vanno diversamente. E’
difficile mantenere le distanze. Appena esci di casa, già sei un soggetto a
rischio, immerso in una ragnatela di ‘vicinanze’ pericolose. Se hai pestato
i piedi a qualcuno, il tuo rischio è che come minimo qualcuno ti guardi in
cagnesco. Se non hai pestato i piedi a nessuno corri ugualmente il rischio
che qualcuno ti faccia sentire il valore della distanza tra le persone, specie
quando queste la pensano in modi diversi o hanno diversi modelli
culturali. Non attaccare bottone è perciò in Sicilia la principale regola di
chiunque esce semplicemente di casa o da un albergo.
L’arte di mantenere la distanza giusta dagli altri è la principale tecnica
della sopravvivenza. Altrimenti non te la cavi, fai bile, e qualche
circostanza ti provocherà un malanno. Perché il fatto è che anche se tu non
farai nulla per molestare il prossimo, la percentuale che sia proprio
quest’ultimo a molestarti è molto alta. Specialmente d’estate quando in
Sicilia il sole dà alla testa e si sviluppa la guerra dell’immondizia, che va
dall’accumulazione a montagnole per le strade, agli incendi dei cassonetti.
Ma soprattutto dall’anonimo deposito dei sacchetti di fronte all’ingresso
delle case altrui, agli spazzini che pare siano scomparsi dalla circolazione,
volatilizzandosi. E’ una guerra dichiarata, con tanto di additamento e di
stigmatizzazione, da ignoti inquilini o vicini di casa e di quartiere, che,
essendo civili ed educati, fanno questo grazioso gesto guadagnandosi il
giudizio di essere persone pulite e responsabili.
Nel mantenimento di questo compito civico, si registra anche una certa
divisione dei ruoli. Le massaie già di buonora lavano stanze e davanzali
inondandoli di acqua. Una sorta di purificazione delle sacre stanze dalle
naturali e sacrileghe evaporazioni notturne. I loro mariti, invece, non
usano le scope, né tanto meno l’acqua, per non violare il genere dei due
sacri oggetti del rituale mattutino. Il loro compito è maschile, compatibile
con azioni come il trasporto, il caricamento, il deposito, dei loro rifiuti
domestici con annesso eventuale diverbio con qualcuno.
Bisogna fare l’esperienza di una certa vicinanza per capire la sgradevole
sottocultura della primordialità. Del tempo in cui l’uomo non era ancora
civilizzato e dominava sul suo territorio esercitando il suo potere animale.
A pensarci bene questo potere è semplicemente arroganza di sentirsi al
centro dell’universo e nel diritto di prevalere sugli altri, di dettare legge, di
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affermarsi anche a costo di calpestare i diritti altrui. I più elementari come,
ad esempio, dormire, mangiare, lavorare e via dicendo. Le prerogative
che abbiamo di non essere invasi o soverchiati ma rispettati persino nella
nostra privacy, sono irrinunciabili, anche se non vengono percepite nella
consapevolezza comune e non esistono nell’agire quotidiano. Almeno
nella coscienza collettiva del siciliano medio. Tanto che potreste fare
l’esperienza di notare la sbalordita sorpresa che uno sconosciuto o
qualcuno possa comportarsi come se fosse un suo diritto ottenere quello
che gli passa per la testa, incurante del rispetto dei diritti altrui. Perciò mai
essere troppo vicini perché mantenere le distanze giuste fa sempre bene. Si
può essere vicini appartenendo a Paesi i più diversi, e si può essere
lontanissimi pur abitando accanto a qualcuno che alla prima occasione ti
tira una fucilata alle spalle. La casa, infatti, è il luogo assoluto del privato.
Varcata la soglia verso l’esterno il territorio diventa nemico.
La casistica è infinita. C’è il tizio neoarricchito, con orecchino e Mercedes
che ti attraversa la strada, al quale se tu fai presente che ti è passato con
una ruota della macchina su un piede, non chiede scusa, ma ti urla
candidamente: – ma non ha visto che stavo passando? – Perché il tizio
che sputa dal dente si sente al di sopra del senso di rispetto e dell’errore o
della legge, non ha senso civico, o capacità di discernimento. Non perché
porta l’orecchino, ma perché il piccolo vezzo gli serve per distinguersi
dagli altri e per annunciare, allo stesso tempo, la sua malandrineria, il
nuovo stile di quelli che con le regole si puliscono ogni giorno il sedere.
Capisco che voleva dire Peppino Impastato quando definiva la mafia una
montagna di merda. Voleva dire che essa è per certi individui un processo
di autoaccumulazione. Il suo concetto era questo. Giorno dopo giorno il
mafioso accumula sempre di più il suo essere un danno collettivo, esercita
il suo strapotere sugli altri, per fagocitarli, mangiarli, neutralizzarli, fino al
loro totale dominio. E non è che ciò avvenga con un qualche contrasto da
parte dello Stato. Al contrario. Avviene con il consenso inerte e la
compiacenza dello Stato, delle cosiddette forze dell’ordine che sanno e
dicono di non potere agire. Che sono impossibilitate ad agire.
Esempio. Il tizio, all’inizio delle sue imprese, acquista un terreno agricolo,
di poco più di un tumulo di terra (1500-2000 mq). Non lo adibisce per
questo uso. Traccia a modo suo la linea di confine con la proprietà più
vicina e senza preavvisare nessuno costruisce la delimitazione tra la sua
proprietà e quella del vicino, ricorrendo a un robusto muretto di cemento
armato. Pensi che nel suo terreno ci terrà dei cavalli. E di fatti non potendo
adibirlo ad attività agricole che disprezza, e non gli darebbero un euro di
reddito, ci tiene dei cavalli e senza badare agli indici di edificabilità
previsti dalla legge, che dalle nostre parti sono pari allo 0,03%, costruisce
una villetta per la sua famiglia e una scuderia per i cavalli. Poi il signore
con orecchino e Mercedes, pensa che accanto alla sua villetta può
costruire una piscina e un prato inglese. E’ subito fatto.
Infine ecco la strada maestra che apre al malandrino la strada del mafioso:
i rapporti con il potere politico. Così il signore con l’orecchino comincia a
sputare dai denti perché il politico gli mette una singolare eccitazione e gli
fa ritenere di essere dalla parte della legge. Difatti trova pure qualcuno che
lo aiuta ad avere l’autorizzazione a costruire un “impianto produttivo”.
Risultato: due appartamenti da destinare a villeggianti. Questa l’attività
primaria del mafioso. Quella secondaria è derivata, conseguente. Tutta a
danno del vicino: la discarica dove spesso si brucia ogni specie di rifiuto,
la fossa biologica e quant’altro.
Morale della favola. Occorre stare lontani, arrassu, da certe persone, ma
quando questo non ti è possibile, annota e documenta tutto, nei minimi
particolari, e come se il mezzo in cui stai viaggiando non ti appartenga, fai
in modo che tutto rimanga quando sarai arrivato a destinazione. Anzi,
prima ancora che ciò accada.
Giuseppe Casarrubea
(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link: http://casarrubea.wordpress.com/2013/08/10/troppo-vicini/
Nonviolenza
generalizzato di educazione e di prassi di riconciliazione dei traumi locali
e globali.
Sistemi di difesa alternativa per gli stati (di Johan
Galtung)
[7] Empatia per creare armonia. Promuovere la conoscenza di come
appare il mondo da altri punti di vista, non solo il proprio: di genere,
generazione, etnia, classe, nazione, stato, regione, civilizzazione – di
professioni come quelle quelle economiche, militari, religiose, politiche.
Sviluppare la capacità di soffrire per le sofferenze altrui e di gioire per la
felicità degli altri, per l’armonia. Comprendere i loro traumi e le loro
glorie costituisce una considerevole parte dell’educazione in geografia e
storia nell’era della globalizzazione.
Pubblichiamo questo contributo sui sistemi di difesa alternativi,
pubblicato sul sito del Centro Studi Sereno Regis
SISTEMI: Un riorientamento
[1] Transarmo: gli Stati usano gli eserciti per la difesa, per l’offesa e le
guerre. Si vis pacem, para bellum, la pace attraverso la sicurezza tenta di
includerle entrambe; ma il potere militare offensivo minaccia, provoca la
corsa agli armamenti, anche le guerre. Si vis pacem para pacem, la
sicurezza attraverso la pace non comporta il disarmo lasciando regioni,
stati e livello locale privi di difesa; piuttosto, implica l’identificazione di
conflitti e traumi sottostanti alla violenza al fine di risolverli, la
costruzione di relazioni pacifiche tra stati, e una difesa difensiva “qualora
fosse necessaria”.
[2] Non allineamento: la solidarietà e l’aiuto alle vittime di un’aggressione
dovrebbero essere decise sulla base della causa specifica dell’aggressione,
non sull’appartenenza a un’alleanza. Ciò implica il transarmo della NATO
e dell’UE a una difesa difensiva regionale, e una difesa collettiva
mondiale guidata dalle Nazioni Unite sotto un comando militare
rappresentativo di tutti i paesi.
[3] Essere utili agli altri paesi: sviluppando relazioni talmente positive che
altri desiderino potenziare, invece di distruggere il paese. Ci sono molti
modi: attraverso un commercio che apporti mutui benefici, un turismo che
promuova natura e cultura, mediante il sostegno nel caso di gravi
sofferenze provocate da catastrofi sociali e naturali, mettendosi al servizio
come esperti di peacebuilding.
[4] Essere meno vulnerabili:
decentramento politico-militare cosicché un’aggressione contro un
qualsiasi settore del sistema non paralizzi l’intero paese; la resistenza, e
una vita più normale, possono continuare.
autosufficienza economica, soprattutto energetica e alimentare,
considerandola solo come una possibilità in caso di emergenze, per
sfuggire alla tentazione di attaccare altri se il commercio fallisce,
mantenendo i settori economici – primario, secondario, terziario, e
quaternario – intatti; producendo il più possibile al proprio interno per
soddisfare i bisogni fondamentali, procurandosi il resto all’esterno,
attraverso il commercio.
difendersi dallo spionaggio non avendo segreti: il transarmo opera
apertamente, per prevenire e dissuadere. Adottare un’economia
maggiormente cooperativa e meno competitiva (più cooperative, meno
aziende); invitare altri a unirsi.
ALTERNATIVE: Costruire la Pace
[5] Risoluzione dei conflitti. Conflitto significa obiettivi incompatibili;
risoluzione dei conflitti significa rendere gli obiettivi compatibili in modo
accettabile e sostenibile per tutte le parti coinvolte. Il metodo è il dialogo
con tutte le parti per mappare gli obiettivi e verificarne la legittimità;
cercando poi di unire gli obiettivi legittimi attraverso il compromesso o
creando qualche nuova realtà. Far diventare la ricerca di soluzioni una
componente della cultura e dei media, non soltanto la ricerca della
“vittoria”. Costruire un sistema generalizzato di educazione e di prassi di
risoluzione dei conflitti locali e globali. (1)
[6] Riconciliazione dei traumi. Liberare il passato riesaminando eventi
traumatici, riconoscendo gli errori commessi, dialogando sul perché di
quanto accaduto, costruendo insieme futuri di pace; facendo diventare
l’orientamento alla riconciliazione una componente della cultura e dei
media; non limitandosi soltanto al “dimenticare”. Costruire un sistema
5
[8] Cooperazione. Costruire progetti da cui derivino benefici mutui e
uguali, anche attraversando confini conflittuali e linee di faglia in
generale, per la parità di genere, tra generazioni, etnie e nazioni, stati e
regioni, civilizzazioni, e per una massiccia riduzione della diseguaglianza.
Politicamente questo richiede regionalizzazione, uno stato un voto.
Militarmente questo richiede solidarietà tra regioni e al loro interno.
Economicamente questo richiede transazioni con effetti collaterali
paritari a lungo termine, come le sfide poste da uno sviluppo ulteriore e
dall’ambiente.
Culturalmente questo richiede più della semplice tolleranza: il dialogo
basato sul mutuo rispetto e sulla curiosità, e l’apertura a un mutuo
apprendimento.
DIFESA: Difesa difensiva
[9] Non-offensiva, non-provocatoria, installando soltanto quei sistemi
d’arma che saremmo disposti ad accettare negli altri, limitati alla difesa;
non per offesa, attacco, guerra. Questo richiede sistemi d’arma e
piattaforme a corto raggio; fossati invalicabili, terreni minati, autoblinde,
munizioni di precisione [PGM, Precision-guided munition], motosiluranti
[MTB, Motor Torpedo Boat], artiglieria costiera, elicotteri, difesa antiaerea, anche attraverso radar duali, solo per la difesa.
[10] Difesa Militare Convenzionale (DMC) per controllare linee di
confine terrestri, marittime e aeree, senza provocare una corsa agli
armamenti, né suscitare la paura di una guerra.
[11] Difesa Para-Militare (DPM), basata sulla milizia, disseminata e
sostenuta localmente, che utilizzi tattiche di guerriglia, preparata per il
lungo termine.
[12] Difesa Non-Militare che prepari e addestri la popolazione a forme di
disobbedienza civile/non-cooperazione di massa verso qualsiasi regime
illegittimo che s’imponga al paese, in cooperazione con DMC e DPM dei
punti precedenti.
[13] UN MINISTERO DELLA PACE per il coordinamento del maggior
numero possibile dei 12 punti precedenti e delle loro sezioni e
sottosezioni. Potrebbe dipendere dalla Presidenza del Cosiglio dei
Ministri.
Per un paese che basi la propria sicurezza sulla pace, non allineato, utile
agli altri, invulnerabile, che si occupi di mediazione dei conflitti e dei
traumi rilevanti, di grande empatia e con progetti equi, dotato solo di armi
non-provocatorie, preparato a difendere i propri confini e ogni parte del
proprio territorio attraverso una difesa militare e non militare e coordinato
da un Ministro della Pace, un attacco è molto improbabile.
Per un paese con sistemi d’arma a lungo raggio, con alleanze aggressive,
non utile agli altri, vulnerabile, con un approccio al conflitto orientato alla
vittoria e affetto da amnesia rispetto ai traumi inflitti, autistico, sfruttatore,
privo di difesa difensiva e di un Ministero della Pace, l’attaccare, e
l’essere attaccato, sono altamente probabili. La maggiore parte dei paesi
sono un ibrido di questi due modelli.
Un paese con un alto punteggio non è solo più sicuro, ma è un dono per il
mondo, circondato da cerchi di amicizia che si espandono; un paese con
un basso punteggio è una minaccia, circondato da nemici. La Svizzera in
Europa e il Nepal in Asia sono paesi ad alto punteggio, quasi mai attaccati;
l’UE in Europa e l’ASEAN in Asia sono esempi di regioni dove le guerre
sono (quasi) impensabili.
NOTE:
(1) Vedi: in Francia, “La Loi Peillon per la formazione sulla prevenzione e
risoluzione nonviolenta dei conflitti” per gli insegnanti e tutto il personale
della scuola in formazione iniziale e continuativa, nel quadro delle Scuole
Superiori della Didattica e dell’Educazione [ESPE, Ecoles Supérieures du
Professorat et de l’Education], approvata il 25 giugno 2013.
23 luglio 2013
Traduzione di Silvia De Michelis per il Centro Studi Sereno Regis
Titolo originale: Systems of Alternative Defense for States
http://www.transcend.org/tms/2013/07/systems-of-alternative-defense-forstates/
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2013/07/29/sistemi-di-difesa-alternativa-per-gli-statijohan-galtung/
Pace
La scoperta e il recupero dei rifugi antiaerei: il come
e il perché (di Andrea Bontempi)
Pubblichiamo tre relazioni che sono state tenute all'interno dell'iniziativa
“Qui sotto ... un rifugio antiaereo! - due chiacchere sui rifugi antaerei a
Massa sulla guerra e sulla pace” svoltasi il 22 luglio scorso: “La
scoperta e il recupero dei rifugi: il come e il perché” e “I
bombardamenti aerei armi di guerra e di strage”, tenute dall'ing. Andrea
Bontempi, e “Le ragioni della pace”, tenuta da Gino Buratti
dell'Accademia Apuana della Pace.
Di seguito la prima relazione di Andrea Bontempi.
Salve, mi chiamo Andrea Bontempi, ora pensionato, sono stato dipendente
del Comune di Massa, ringrazio l’Associazione Acqua che gestisce questo
parco del Monte di Pasta che ci ospita.
In questa serata faremo due chiacchere sui rifugi antiaerei sui
bombardamenti sulla guerra e sulla pace.
Con me parleranno altri relatori che vi presenterò nel corso della serata li
ringrazio per la disponibilità dimostata.
Ringrazio naturalmente tutti i presenti e spero vorrete partecipare con le
vostre esperienze personali.
Ma veniamo al tema: perché parlare di rifugi antaerei qui?
pochi sanno che sotto i nostri piedi c’è una galleria, molto simile a quella
della Martana, non ho trovato molto materiale e non ho potuto visitarla,
ma ricordo che quando andavo alle medie (1960) vedevo ancora il
cancello d’ingresso da via Sopramonte
Rifugio Monte di Pasta
si tratta di una galleria che lo attraversava da Via Sopramonte a Via
Sottomonte che è stato abbandonato perché poco sicuro in quanto scavato
su roccia non compatta sono ancora visibili l’accesso da Via Sottomonte
mentre per quello da Via Sopramonte si individua solo una discontinuità
nelle muratura.
6
questo faceva parte di 4 ricoveri costruiti in città
Rifugio Piazza Aranci si tratta di una galleria scavata tutto attorno alla
piazza con quattro scale di accesso, gli ingressi sono rivestito in marmo, le
panche sui due lati erano in legno su muretti in muratura. Non era ritenuto
molto sicuro e pertanto poco frequentato dai massesi. Durante la
costruzione furono rinvenuti numerosi scheletri del vecchio cimitero della
chiesa di San Pietro.
E’ stato aperto e richiuso nel 1987. Riaperto in occasione del congresso
nazionale sui rifugi antiaerei svoltosi a Massa nel 2007
Rifugio antiaereo paraschegge in Piazza Garibaldi scarse sono le
notizie, si parla di trincee scavate nelle piazza coperte di tavole e terra
Rifugio Capaccola - Capuccini esistono notizie scarse e discordanti: si
parla di una galleria unica che partiva dalla Piazza di Capaccola per finire
dove attualmente c’è la Croce dei Cappuccini, altre testimonianze dicono
che questa fosse l’idea iniziale ma per le difficoltà di esecuzione furono
eseguiti solo i due accessi e usati indipendentemente uno dall’altro.
Attualmente è visibile solo l’arco di accesso da P.za Capaccola
Rifugio Martana
si tratta di una galleria della lunghezza complessiva di circa 400 m. e dalla
karghezza di 4,5 m. scavata nella roccia della collina ai piedi del castello
Malaspina, ha tre ingressi: a metà di Via Bigini (una volta Via del Porco);
di fianco a Porta Martana e a metà di Via Prado di fronte all’uscita del
parcheggio. Ogni ingresso si sviluppa per una lunghezza di circa 25 m.
(l’ingresso di Via Prado non finisce sotto il castello dovrebbe prolungarsi
per altri 70 m.)
Nella galleria sono stati individuati 7 camini di ventilazione e 5 sono stati
riportati alla loro funzione, in corrispondenza e collegati con essi vi sono i
servizi igieni costituiti da batterie di 4 latrine.
Il rifugio è stato costruito tra il 1943 e il 1944 è stato rintracciato il sig.
Fellini Pier Paolo allora studente di ingegneria che ha partecipato alla
costruzione come assistente tecnico, ci ha fornito il foglio di lavoro dove è
registrato nel cantiere di piazza Martana presso la ditta Ing. Dario
Moresco datato 1 marzo 1944.
Ma comè nato il progetto di recupero del rifugio che abbiamo chiamato
Martana? Tutto è cominciato dal racconto di Nino (Luigi Nocchi)
Avevo conosciuto Nino da un pò di tempo, aveva e ha ancora qualche
anno più di me, tra gli argomenti di cui parlavamo c’era anche la guerra
che lui aveva vissuto da ragazzino e che aveva segnato profondamente la
sua vita, lo si capiva da come ne parlava.
Ogni tanto le esperienze di quel periodo, i personaggi che aveva
conosciuto, entravano prepotentemente nelle nostre chiaccherate,
inizialmente le ascoltavo con con un educato interesse.
Avevo letto qualche libro dove si parlava di guerra, avevo studiato la
storia gli avvenimenti erano simili da Omero a Virgilio da Toltoj a Grass
solo per citare qualcuno, le battaglie erano quelle rappresentate dai grandi
film di guerra e poca differenza c’era tra Spartacus e lo sbarco in
Normandia soli mezzi tecnici erano diversi e gli attori che morivano in
una guerra contro i romani era gli stessi che morivano di nuovo a Pearl
Harbor.
Ricordo che in casa mia, quando ero bambino, nel momento in cui
qualcuno iniziava a raccontare qualche episodio della guerra spesso veniva
interrotto, in genere una donna dicendo “ecco ora che ha bevuto parla di
guerra”.
Ho capito solo dopo che chi iniziava a raccontare aveva bisogno, non di
essere ubriaco, ma un pò “allegro” per trovare il coraggio di ricordare e
chi lo zittiva non voleva rivivere ricordi spiacevoli.
tratto da APPUNTI DI STORIA COMPARATA di Carlo Tavoni
Anche quando Nino iniziò a parlarmi del rifugio di via Prado stavo a
sentire una storia
ma qui da noi come ho detto la loro costruzione è iniziata solo nel 1943 e
la fine sappiamo che è prima dell’agosto 1944.
Così nel 2005, quando per caso mi capitò di imbattermi per una questione
di fognature in un contezioso tra il Demanio dello Stato e il Comune di
Massa che aveva affittato abusivamente a privati gli accessi del rifugio, si
accese il mio interesse,
“Nino ricorda bene anche l’infortunio mortale capitato a un altro ragazzo
Il film di Nino aveva una location si direbbe oggi.
Non rientrava tra le competenze del settore nel quale lavoravo (Difesa
Ambiente) ma, parlandone con l’assessore Giorgio Raffi, che allora oltre
all’ambiente aveva anche la competenza sulle infrastrutture, ci venne
l’idea di recuperarlo.
Non so quale molla ci spinse: per me era un lavoro come un altro ma
stimolava la mia vanità professionale soffocata dalla routine d’ufficio;
per l’Assessore Raffi ce lo spiegherà tra poco nel suo intervento.
A quel punto era ancora un progetto di opera pubblica, come una strada,
una fognatura o un edificio. Iniziai a informarmi anche sulla
documentazione esistente, ma in effetti trovai pochissimo. Anche sui libri
editi sulla storia recente di Massa si scriveva soprattutto di guerra
partigiana ma poco della popolazione civile e dei rifugi.
Nella mia ricerca venni a sapere che nel comune di Villar Perosa era stato
recuperato un rifugio antiaereo e così con l’assessore Raffi e un altro
collega organizzammo un incontro con l’Amministrazione di quel
Comune
Li avvenne, almeno per me, la svolta. Durante la visita ai rifugi, erano più
di uno, e la raccolta della documentazione ci fecero sedere in un tratto del
rifugio e ci fecero sentire una riproduzione sonora di un bombardamento e
le voci della gente che piangeva, pregava, si lamentava.
dello Stradone tale Pardini che giocando era salito sui carrelli stazionati
vicino all’ingresso venendo a contatto con i cavi che portavano la
corrente elettrica all’interno della galleria rimanendo in tal modo
folgorato.”
Ho ritrovato il certificato di morte di Pardini Armando di anni 11 datato 30
agosto 1944, i lavori erano finiti da poco e il materiale era ancora
ammucchiato fuori dell’uscita di Via Prado del rifugio.
“La guerra, dichiarata dal regime fascista il 10 giugno 1940, ci aveva
riserbato giornate di preoccupazione e di ansia sia per i bombardamenti
aerei, sia per le difficoltà degli approvvigionamenti, sia per l’incerta sorte
di tanti parenti ed amici in armi si vari fronti, sia, anche, per il clima
pesante, caratteristico del regime che ci governava. Ma solo l’8 settembre
1943 cominciò la crisi della lunga agonia”
tratto da RITORNA LA VITA...nella terra di nessuno di Giulio Guidoni.
L’8 settembre 1943 viene firmato tra Italia e Angloamericani l’armistizio.
Gli Angloamericani avanzano e liberano Roma il 4/6/44 e Firenze il
20/8/44.. Il fronte si ferma lungo una linea chiamata Gotica che va dal
Cinquale di Montignoso a Rimini sull’Adriatico. E’ un periodo di enormi
tragedie e difficoltà quello che va dall’autunno 1944 al 10 aprile 1945.
Massa è anche ripetutamente bombardata, si contano 84 raid e i pochi
massesi rimasti nonostante l’ordine di sfollmento impartito dalla
Feldkommandantur tedesca, vivono di nascosto.
tratto da APPUNTI DI STORIA COMPARATA di Carlo Tavoni

Sul momento fu solo interessante, ma dopo, la prima volta che rientrai nel
rifugio mi accorsi che intorno a me su quelle panche di pietra sedevano
delle persone.
non era più un solo un monumento, un ricordo, una lapide alla memoria.
Un pò di storia:
I tedeschi di Adolf Hitler, nostri alleati nel patto d’acciaio, il 1° settembre
1939 invadono la Polonia, dopo aver precedentemente invaso l’Austria e
la Cecoslovacchia. ....
I nove mesi che vanno dal 10 settembre 1939 al 10 giugno 1940, sono
impiegati per addestrare le nostre forze armate ad un intervento nella
guerra ormai inevitabile. Anche i civili sono addestrati all’uso delle
maschere antigas ed a cura dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione
Antiaerea) si provvede alla costruzione di rifugi antiaerei negli scantinati
dei palazzi, sotto Piazza Aranci e Piazza della Misericordia e scavando
gallerie sotto il Monte di Pasta, il colle del Castello Malaspina e tra Via
San Francesco e Capaccola.
(le norme sono dettate dal R.D.L. 24 settembre 1936-XIV n° 2121)
Anche nella zona industriale ogni stabilimento costruisce rifugi antiaerei
per i propri dipendenti.
In Questi rifugi i massesi passeranno gran parte delle notti,negli anni a
venire.
Il 10 giugno 1940 Mussolini dichiara guerra a Francia ed Inghilterra.”
7
Luglio 1944
o

I pesanti bombardamenti aerei provocano decine di
morti a Massa.
14 settembre 1944
o
Massa è evacuata. La popolazione si trasferisce a
Carrara e in Val di Magra. Circa 10.000 persone
torneranno nei mesi successivi nella città, ormai sulla
linea del fronte. L'amministrazione provinciale di
Apuania si trasferisce a Pontremoli. La situazione
alimentare sul litorale apuano si aggrava
ulteriormente.
La cerimonia per la riapertura del rifugio si è tenuta il 3 giugno del 2006
nel corso di una manifestazione organizzata dal Comune di Massa con la
Scuola Media Malaspina per il 60^ anniversario della Repubblica: "Un
rifugio per non dimenticare - dalla libertà la Costituzione, dalla
Costituzione la libertà"
la relazione introduttiva è stata tenuta dal prof. Giuseppe Tricamo
Marchetti Significativi i suoi studi sull'identità nazionale. È coautore dei
libri Fratelli d'Italia. La vera storia dell'inno di Mameli (Mondadori,
2001), Il Tricolore degli italiani (Mondadori, 2002), Viva l'Italia. Viva la
repubblica (Mondadori, 2003), "L'Italia s'è desta" (Cairo,2011).
Docente presso la Facoltà di Scienze della comunicazione della Sapienza
- Università di Roma. È stato dirigente Rai, direttore di Rai Eri e delle
riviste "Nuova Civiltà delle macchine " e "Nuova Rivista musicale
italiana".
Alla storia dell'editoria ha dedicato il libro La fabbrica delle emozioni
(Franco Angeli, 2005).
Dirige "Leggere:tutti", la rivista del libro e della lettura.
durante l’estate del 2006 il rifugio è stato aperto alcune serate grazie alla
collaborazione dei volontari della Croce Bianca e di alcuni dipendenti
comunali del mio settore che mi sento in dovere di citare perchè si
offrirono volontari per garantire le visite Antonio Antonioli, Cinzia
Romagnoli, Natalia Marongiu, Mario Bellucci
l’Associazione Sancio Pancia organizzò prima dell’apertura delle
performance teatrali per i ragazzi delle scuole di Massa
L’interesse suscitato da questa iniziativa mi spinse a cercare ulteriori
notizie e così entrai in contatto con la FNCA i cui responsabili vennero
subito a massa e dopo aver visitato il rifugio, il castello e la città mi
proposero di organizzare il I congresso nazionale dei rifugi antiaerei

9) I rifugi antiaerei ad uso pubblico di Massa (Gianluca
Padovan).
la treza giornata ha visto un dibattito con la presenza di Sua Eccellenza il
Vescovo Eugenio Binini e del Prof. Giuseppe Marchetti Tricamico
coordinato dalla coduttrice Paola Saluzzi.
Il rifugio Martana è stato aperto successivamente tutti gli anni fino ad oggi
a cura della Associazione Sancio Pancia di questa esperienza ci parlerà
Marco Rossi.
mi sembra importante riportare di seguito le motivazioni delle medaglie
d’oro conferite alla Provincia di Massa Carrara e al Comune di Massa che
riconoscono le sofferenze della popolazione civile
Provincia di MASSA CARRARA
Medaglia d'oro al valore militare
Congresso Nazionale di Archeologia del sottosuolo
motivazione del conferimento
I RICOVERI ANTIAEREI MASSA – Teatrino dei Servi
“Ardente focolare di vivido fuoco, all'inizio dell'oppressione nazifascista,
5-6-7- ottobre 2007
in occasione del comgresso è stato riaperto il Rifugio di Piazza Aranci con
un afflusso di pubblico veramente eccezionale.
la prima giornata ha visto la presenza del giornalista Roberto Olla della
redazione di TG1 storia che ha realizzato un servizio sul rifugio Martana
andato in onda nel TG1 storia, del dott. Piero A. Corsini redattore del
programma “La Storia siamo noi”, del Prof. Paolo Pezzino Titolare della
cattedra di Storia contemporanea all'Università di Pisa.
Gli interventi sono stati coordinati dalla giornalista della RAI
alla seconda giornata hanno partecipato rappresentanti di molti comuni
italiani con le seguenti relazioni che sono state pubblicate sulla rivista di
Archelogia del sottosuolo:


2) «Le provvidenziali risorse della metropoli dalle cinquemila
grotte...» (Fulvio Salvi)

3) Ricoveri antiaerei del cantiere navale del Muggiano (La
Spezia): ricerca archivistica e indagine strutturale (Susanna
Ognibene)

4) I confluiti Garza - Bova - Celato sottostanti il Palazzo della
Loggia a Brescia: il riutilizzo come rifugio (Andrea Busi);

5) Catalogazione archeologica di una realtà sommersa: i rifugi
antiaerei di Milano nelle strutture antiche e moderne (Maria
Antonietta Breda, Claudia Ninni, Gianluca Padovan);

6) Politecnico di Milano: archeologia industriale e fonti per lo
studio dell’edilizia nel settore della protezione anti aerea (Maria
Antonietta Breda);

7) La protezione antiaerea passiva e i tecnici della provincia: le
cantine di Saronno e l’ing. Ugo Brebbia (Alessandro Merlotti);

8
1) I rifugi antiaerei di Ancona nelle due guerre mondiali
(Alberto Recanatini);
8) Il riutilizzo degli ipogei presso Orte e San Lorenzo Vecchio
nel Viterbese (Roberto Basilico, Gianluca Padovan, Alessandro
Verdiani);
sprigionò la scintilla che infiammò i suoi figli alla resistenza.
Vinse la fame con il leggendario sacrificio delle sue donne e dei suoi
ragazzi sanguinanti sugli impervi sentieri; subì dovunque stragi,
devastazioni e rappresaglie atroci, si abbarbicò sulle natie montagne
facendo del gruppo delle Apuane la cittadella inespugnata della libertà.
In epici combattimenti irrise per nove mesi al nemico e lo vinse; santificò
il suo dolore ed il sangue dei suoi caduti, offrendoli come olocausto alla
difesa della propria Terra ed alla redenzione della Patria"
Settembre 1943 - Aprile 1945
Comune di MASSA
Medaglia d'oro al merito civile
motivazione del conferimento
Città strategicamente importante, situata sulla linea gotica, fu oggetto di
atroci rappresaglie e rastrellamenti e di devastanti bombardamenti che
causarono la morte di centinaia di concittadini e la quasi totale
distruzione dell'abitato.
La popolazione, costretta all'evacuazione, dovette trovare rifugio sulle
montagne e nei paesi vicini, tra stenti e dure sofferenze.
Partecipava generosamente alla guerra partigiana e con dignità e
coraggio affrontava, col ritorno alla pace, la difficile opera di
ricostruzione morale e materiale.
1944/1945 - Massa
“ Qui sotto ... un rifugio antiaereo!” due chiacchere sui rifugi antaerei
a Massa sulla guerra e sulla pace
La scoperta e il recupero dei rifugi: il come e il perchè, di Andrea
Bontempi
Le ragioni di un recupero, di Giorgio Raffi consigliere comunale
Sette anni di visite guidate dall’Ass. Sancio Pancia - testimonianze e
commenti, di Marco Rossi
I bombardamenti aerei armi di guerra e di strage, di Andrea Bontempi
Le ragioni della pace di Gino Buratti - dell’Accademia Apuana della
Pace
dietro quei numeri c’erano persone con i loro nomi, le loro storie la loro
età. Notizie ufficiali e dettagliate le trovate nel sito del Comune di Massa.
Dibattito e conclusioni
In questa ricerca trovai anche i siti dei reduci dei gruppi di
bombardamento americani che riportano l’elenco delle missioni con gli
obbiettivi, i risultati, i quantitativi di bombe sganciate
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1905
I bombardamenti aerei, armi di guerra e di strage
(di Andrea Bontempi)
Pubblichiamo tre relazioni che sono state tenute all'interno dell'iniziativa
““ Qui sotto ... un rifugio antiaereo! - due chiacchere sui rifugi antaerei a
Massa sulla guerra e sulla pace” svoltasi il 22 luglio scorso: “La
scoperta e il recupero dei rifugi: il come e il perché” e “I
bombardamenti aerei armi di guerra e di strage”, tenute dall'ing. Andrea
Bontempi, e “Le ragioni della pace”, tenuta da Gino Buratti
dell'Accademia Apuana della Pace.
Di seguito la seconda relazione di Andrea Bontempi.
Affontiamo ora il tema dei bombardamenti,
come vi dicevo, da un certo momento, il rifugio si animava di persone e
anche tutti i racconti che parlavano in qualche modo di guerra ai civili
perdevano la loro connotazione di fola e diventavano testimonianzaìe.
Come avete sentito da Marco che ha raccolto le testimonianze, queste
venivano alla luce piano piano, il rifugio risvegliava nei visitatori ricordi
sepolti nei recessi della memoria.
A quel punto cominciai a cercare notizie delle vittime civili dei
bombardamenti a Massa questo è il quadro che che ne venne fuori,
1941. 4 vittime
•
1 bombardamento 1 morto
•
rastrellamenti 3 morti
1941. 3 vittime
•
rastrellamenti 3 morti
1941. 13 vittime
•
4 bombardamenti 4 morti
•
2 cannoneggiamenti 2 morti
•
rastrellamenti 7 morti
1941. 549 vittime
•
35 bombardamenti 128 morti
•
47 cannoneggiamenti 67 morti
•
rastrellamenti 334 morti
non c’è nessun accenno alle vittime
da poco è uscito un libro di Giovanni Cipollini che parla dei
bombardamenti sulla Versilia su Massa
ma un altro evento contribuì ad aprire una nuova finestra
nel 2008 nel rifugio martana è stata organizzata in collaborazione con
l’ANPI una mostra itinerante
“Quan ploven bombas” quando piovevano bombe
si parla dei bombardamenti di Barcellona nel 1937 ad opera degli italiani e
dei tedeschi durante la guerra civile spagnola in appoggio a Franco
E così ho scoperto che i bombardamentoi aereoi sulla popolazione
civile furono ieorizzati da un italiano nel 1936.
E applicato prima in Abissinia e poi in Spagna
il generale dell’aviazione italiana G. Douhet così teorizzava:
Basta immaginare ciò che accadrebbe, fra la popolazione civile dei centri
abitati, quando si diffondesse la notizia che i centri presi di mira dal
nemico vengono completamente distrutti, senza lasciare scampo ad
alcuno.
I bersagli delle offese aeree saranno quindi, in genere, superfici di
determinate estensioni sulle quali esistano fabbricati normali, abitazioni,
stabilimenti ecc. ed una determinata popolazione. Per distruggere tali
bersagli occorre impiegare i tre tipi di bombe:esplodenti, incendiarie e
velenose, proporzionandole convenientemente.
Le esplosive servono per produrre le prime rovine, le incendiarie per
determinare i focolari di incendio, le velenose per impedire che gli
incendi vengano domati dall'opera di alcuno. L'azione venefica deve
essere tale da permanere per lungo tempo, per giornate intere, e ciò può
ottenersi sia mediante la qualità dei materiali impiegati, sia impiegando
proiettili con spolette variamente ritardate.
« Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte
centrale, per un raggio di 250 metri all'incirca, colpita da una massa di
proiettili del peso complessivo di una ventina di tonnellate: qualche
esplosione, qualche principio d'incendio, gas venefici che uccidono ed
impediscono di avvicinarsi alla zona colpita: poi gli incendi che si
sviluppano, il veleno che permane; passano le ore, passa la notte, sempre
più divampano gli incendi, mentre il veleno filtra ed allarga la sua azione.
La vita della città è sospesa; se attraverso ad essa passa qualche grossa
arteria stradale, il passaggio è sospeso. »
«Se per vincere è necessario distruggere, uccidere, devastare, spandere la
rovina e il terrore, tutto ci si faccia, purché si vinca; domani, dopo la
vittoria, ci sarà il tempo di provvedere[…].
1941. 87 vittime fino alla liberazione 10 aprile 1945
La civiltà è come la Fenice che risorge dalle ceneri[…].
9
•
30 bombardamenti 44 morti
•
19 cannoneggiamenti 23 morti
•
rastrellamenti 20 morti
Incendiare villaggi, distruggere capolavori d’arte, spandere il terrore di
sé, può dissuadere gli insorti a volgersi contro di noi, è utile al fine
supremo: vincere[…].
In tempo di pace si possono elucubrare canoni e leggi sul diritto delle
genti, che possono illudere momentaneamente sull’influenza della civiltà
sulla guerra; allo scoppiare della guerra tutto viene stracciato e disperso;
di sua natura l’impiego della forza bruta non ammette limiti, restrizioni,
cerimonie, etichette».
nel filmato tratto dal cd a corredo della mostra si vede che a bombardare
sono gli aerei italiani i savoia marchetti è solo uno dei bombardamenti che
distruggono la città di Barcellona, e le altre città della Spagna forse
qualcuno ricorda il celebra quadro di Picasso sul bombardamento tedesco
di guernica.

Quel territorio è stato colpito da ordigni esplosivi ad alto
potenziale, da bombe al fosforo e da centinaia di migliaia di
bombe incendiarie.

Le condizioni dei rifugi che nel frattempo sono stati aperti
danno un’idea di quella che doveva essere la temperatura.
Chi rimase all’interno fu ridotto in cenere.

... a quindici giorni dal bombardamento la temperatura è
tanto elevata che l’ingresso di una quantità minima di
ossigeno provoca un incendio.

Pertanto, i numerosi racconti dei sopravvissuti, che
riferiscono di donne e bambini bruciati, di donne che
lanciavano i bambini nei canali, non sono frutto di
invenzione.

... 50 donne bambini sono stati trovati morti per
soffocamento, semicarbonizzati e con tutti gli abiti strappati
dalla tempesta, in un parco al centro di un incrocio.

Il bombardamento del 28 luglio bruciò 22 km² di
costruzioni. In totale vennero demoliti 2.509 ettari di
superfici edificate, pari al 73,97% di Amburgo.

Minimo 42.600 cittadini perirono 2.000 risultarono dispersi e
37.000 feriti. Centinaia di migliaia di sopravvissuti
emigrarono nelle campagne o in altri luoghi lasciando
Amburgo con una popolazione di 700.000 abitanti, privati
ormai di case,
Bombardamenti di Barcellona 1936/1938
•
192 allarmi senza bombardamenti
•
180 allarmi con bombardamentiù
•
totale morti civili 1816
•
feriti ospidalizzati 2719
•
edifici danneggiati 1808
ma è solo l’inizio

Nel 1940, la guerra è ormai in corso ovunque e gli scontri sono
durissimi: attacchi, distruzioni, convogli affondati in mare,
grandi e piccole nazioni già occupate. Insomma, il massacro è
ormai cominciato. L’Italia, dopo un primo periodo di non
belligeranza, è stata trascinata nello scontro dalle decisioni di
Mussolini che attacca la Francia già messa in ginocchio dai
nazisti.

Il grande scontro tra le potenze democratiche, Francia e
Inghilterra in testa, impegna Hitler e le sue truppe. Con
particolare violenza, nel 1940 e nel 1941, l’aviazione nazista si
accanisce contro Londra, la capitale inglese, nel tentativo di
fiaccare la nazione e distruggere psicologicamente gli abitanti.
Ma Hitler ha sbagliato i conti: le incursioni sono terrificanti,
ma la gente di Londra non cede.

La famiglia reale rimane nei propri palazzi e tutto continua
come sempre. Per decine e decine di giorni e di notti, la città
viene sottoposta a durissimi e distruttivi bombardamenti, ma gli
inglesi, testardi e coraggiosi, resistono negli scantinati, nella
metropolitana, nelle fogne.

Vengono trasferiti altrove i bambini, ma tutti gli altri rimangono
al loro posto. È la celeberrima “battaglia d’Inghilterra” che gli
attaccati, alla fine, vinceranno, nonostante le prime V1 e le V2,
le bombe incendiarie, gli spezzoni, le mine all’estuario del
Tamigi. Gli scontri aerei, vedranno, piano piano, la supremazia
della RAF.
10 maggio di 70 anni fa la Luftwaffe, l’aviazione della Germania nazista,
terminava il Blitz, il bombardamento durato otto mesi contro la città di
Londra e di altre città in Gran Bretagna. Iniziata il 7 settembre del 1940,
l’operazione aveva portato alla distruzione e al danneggiamento di
almeno un milione di edifici a Londra in 76 giorni consecutivi di
bombardamenti e all’uccisione di 20mila persone nella capitale del
Regno Unito, e altrettante nelle altre città colpite.
Il totale delle perdite civili britannici tra luglio e dicembre 1940 fu di
23.002 morti e 32.138 feriti. Una delle incursioni più drammatiche fu
quella del 29 dicembre 1940 in cui morirono circa 3.000 civili.
Amburgo
10
Milano - Gorla
Uno dei più indiscriminati attacchi compiuti sulle città italiane era quello
effettuato su Milano il 20 ottobre 1944, che provocava oltre 600 vittime.
Ma il particolare più impressionante di questa incursione era la distruzione
della scuola di Gorla, in un quartiere popolare alla periferia della città
lombarda, con il conseguente massacro di circa 200 bambini di età
inferiore ai dieci anni, uccisi con le proprie maestre mentre si recavano in
un rifugio. Questo massacro, effettuato senza nessuna ragione specifica di
carattere militare, doveva restare per lungo tempo nel ricordo dei superstiti
e degli abitanti del luogo come uno dei momenti più terrificanti del
conflitto. Da un calcolo effettuato nella RSI risultava che, in tutto l'anno
1944, l'Italia settentrionale aveva subito in totale 4.541 bombardamenti e
2.252 mitragliamenti, con 26.131 edifici interamente o parzialmente
distrutti, 23.715 morti e 36.958 feriti.
Napoli durante la II guerra mondiale ovvero: i 100 bombardamenti di
Napoli.
di Lucia Monda
[...]“Il Mattino” di Napoli scrive nel novembre 1940, dopo un attacco
inglese che si prefiggeva di far concorrenza al fuoco del Vesuvio: “I
napoletani hanno trovato nell’incursione aerea nemica un diversivo alla
placidità di queste notti invernali”.
“Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia ad un incessante e
sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole
provocare un rivolgimento interno o un crollo” (lettera di Roosevelt a
Churchill, del 25 luglio 1941 - Doc. 67, pag. 151 - Loewenheim - Langley
- Jonas, Roosevelt and Churchill).
Così, con un’incursione che provocò novecento vittime, il 4 dicembre del
1942, iniziarono gli intensi e sempre diurni bombardamenti americani;
questi continuarono anche nel corso dell’anno successivo (1943), grazie a
centinaia d’aeroplani i quali, in pochi minuti, seminarono morte e terrore
con attacchi a tappeto, senza ricerca di obiettivi.
“Bombardare, bombardare, bombardare… io non credo che ai tedeschi
piaccia tale medicina e agli italiani ancor meno… la furia della
popolazione italiana può ora volgersi contro intrusi tedeschi che hanno
portato, come essi sentiranno, queste sofferenze sull’Italia e che sono
venuti in suo aiuto così debolmente e malvolentieri…” è ancora il pensiero
del Presidente USA (Ib. del 30 luglio 1943, doc. 246, pag. 358).
Il 1943, fu l’anno peggiore perché fece segnalare sulla nostra stremata
città, ben 181 bombardamenti dall’inizio della guerra all’ 8 settembre.
Dall’11 gennaio, le incursioni diventarono giornaliere: il bilancio fu di
almeno 23 morti e una sessantina di feriti.
Il 7 febbraio gli aerei Alleati bombardarono Cagliari e Napoli.
Il 15 febbraio si ebbe una pesante incursione aerea anglo-americana su
Palermo (almeno 100 morti) e, ancora, su Napoli.
Il 20 febbraio, ad ondate, i bombardieri colpirono la nostra città causando,
secondo fonti ufficiali, 119 morti e 332 feriti.
Il 21 febbraio un’altra incursione passò alla storia come la strage di via
Duomo, per il gran
numero di vittimeSecondo fonti ufficiali, nella sola Napoli si contarono
221 morti e 387 feriti nella violenta
incursione del 4 aprile su Napoli, Palermo, Siracusa e Carloforte
(Sardegna). Il 15 aprile si ebbero ancora bombardamenti aerei angloamericani su Napoli, Palermo, Catania e Messina che causarono un
centinaio di morti e gravi distruzioni mentre il 24 aprile i morti, a Napoli,
furono 50. Il 28 aprile si ebbe una nuova pesante incursione su Napoli che
causò numerose vittime e gravi danni.
“Il 6 settembre 1943 le poche sirene ancora in funzione iniziano a
suonare l’allarme numero 384 dall’inizio della guerra, dieci minuti dopo
la mezzanotte. I napoletani le udranno di nuovo, stavolta per dare il
cessato allarme, dodici ore dopo. Durante la giornata la città sopporta le
bombe di 300 «Fortezze volanti» divise in sei ondate: ogni incursione
dura tre quarti d’ora; la più grave è quella delle 13,45. Alla fine, si
contano 72 morti e, per dare un po’ di coraggio, la propaganda pone
l’accento sulla bravura – d’altronde effettiva – dei vigili del fuoco del
comandante ingegner Francesco Tirone che sono riusciti a salvare dalle
macerie 69 persone.
queste sono le parole del grande fotografo di guerra Robert Capa nel
libro “Leggermente fuori fuoco” edizioni Contrasto
Autunno 1943
La campagna di Sicilia
Era la prima volta che seguivo un attacco dall’inizio alla fine ma fu anche
l’occasione per sacttare ottime foto. Erano immagini molto semplici.
Mostravano quanto noisa e poco spettacolare fosse in verità la guerra.
(...)
poche pagine dopo scrive
La liberazione di Napoli
La stradina che conduceva all’albergo era bloccata da una piccola folla
di persone, in silenzio davanti a una scuola. (...) Entrando nell’interno
della scuola, fui subito avvolto da un odore dolciastro di fiori e di morte.
Nella stanza c’erano venti piccole bare, fatte alla buona, coperte a
11
malapena di fiori e che non riuscivano a contenere anche i piedi sporchi
di alcuni bambini, già abbastanza adulti da da combattere i tedeschi ed
esserne uccisi ma troppo grandi per venire sepolti in casse così piccole.
(...) I piedi di questi bambini furono il mio autentico benvenuto
all’Europoa la terra dove ero nato. Molto più vero dell’eccitata
accoglienza gridata dalla folla di persone incontrate lungo la strada e
molte delle quali soltanto un anno prima, avevano urlato << Viva il
Duce!>>
Mi tolsi il berretto e presi la macchina fotografica. Puntai lobiettivo sui
volti delle donne distrutte dal dolore, che stringevano in mano le foto dei
loro bambini morti. Scattai fino al momento in cui le bare furono portate
via. Queste foto sono la testimonianza più vera e sincera della vittoria:
immagini scattate al semplice funerale di una scuola.
DRESDA
A Dresda, il 13 febbraio del 1945, i bombardieri inglesi uccisero 135.000
persone in una sola notte.
Fu un atto di distruzione insensato. L’intera città fu rasa al suolo:
un’atrocità commessa dagli inglesi non da noi.
Mandarono dei caccia notturni che arrivarono e diedero fuoco a tutta la
città con un nuovo tipo di bombe incendiarie. Tutto il materiale organico
in circolazione tranne il mio gruppetto di prigionieri di guerra fu divorato
dalle fiamme. Fu un esperimento militare per scoprire se si poteva
distruggere un’intera città con una pioggia di bombe incendiarie.
K. Vonnegut – Un uomo senza patria – Ed. Minimun fax
BELGRADO
Il 6 aprile del 1941 Belgrado subì un durissimo bombardamento da parte
delle forze tedesche, che causò oltre 2000 morti. La Jugoslavia fu invasa
dagli eserciti tedesco, italiano, ungherese e bulgaro.
Nell'estate del 1941, i tedeschi bombardarono nuovamente Belgrado e
deportarono molti cittadini, in particolare quelli di origine ebraica.,
La città fu bombardata ancora una volta il 16 aprile 1944 dagli Americani;
più di 1.500 persone persero la vita.
Belgrado fu bombardata dalle forze aeree della NATO durante la guerra
del Kosovo nel 1999 e subì danni considerevoli. I bombardamenti
colpirono i ministeri della difesa, dell'interno e delle finanze, 3.500
persone morirono
ma prima HIROSHIMA
Alle 08:14 e 45 secondi del 6 agosto 1945, l'Enola Gay sganciò "Little
Boy" sul centro di Hiroshima, L'esplosione si verificò a 580 m dal suolo,
con uno scoppio equivalente a 13 chilotoni, uccidendo sul colpo tra le 70
000 e le 80 000 persone. Circa il 90% degli edifici venne completamente
raso al suolo.
e NAGASAKI
La mattina del 9 agosto 1945 "Fat Man" venne sganciata sulla zona
industriale della città di. La bomba esplose a circa 470 m d'altezza vicino a
fabbriche d'armi circa 40 000 dei 240 000 residenti a Nagasaki vennero
uccisi all'istante, e oltre 55 000 rimasero feriti. Il numero totale degli
abitanti uccisi viene comunque valutato intorno alle 80 000 persone,
incluse le persone esposte alle radiazioni nei mesi seguenti.
VIETNAM (1960 – 1975)
Le capanne prendono fuoco e i pochi occupanti terrorizzati scappano,
divorati dal panico.
Il terrore, lo sgomento, in tutte le forme appare disegnato su quei piccoli
visi innocenti. Smorfie di dolore e lacrime si mescolano tra le fiamme.
La piccola vietnamita si chiama Kim Phuc e ha 9 anni. Ha appena
perduto due cuginetti. Mentre corre disperatamente, urla "Nong qua!"
ossia "Troppo caldo!".
Così come quel corpicino sfigurato dalle scottature tra le braccia di una
donna in fuga. I demoni, indifferenti alle atrocità, passeggiano sullo
sfondo come se stessero a far compere nel centro illuminato a neon di una
città.
Meglio verificare la lucentezza dell'arma individuale che cercare uno
spiraglio per le emozioni. Meglio caricarle con quei lapilli di piombo che
perforeranno altri esseri umani. Chi se ne frega dei bambini vietcong?
Che crepino!
questa è la descrizione di una foto di Huynh Cong Ut, facilitato in Nick Ut
è un giovane fotografo di guerra, tra i più validi del Vietnam,
corrispondente dell'Associated Press per il conflitto. L'8 giugno del 1972
si trova nel villaggio di Trang Bang
Stimare il numero di vittime del conflitto è estremamente difficile. Le
registrazioni ufficiali sono difficili da reperire o inesistenti, e molti degli
uccisi vennero letteralmente fatti a pezzi dai bombardamenti; È peraltro
difficile dire chi vada contato come "vittima della guerra del Vietnam",
dato che ancora oggi si verificano tragici incidenti a causa degli
innumerevoli ordigni inesplosi, in particolare dalle bombe a grappolo. Gli
effetti sull'ambiente prodotti dagli agenti chimici (Agente Arancio) e i
colossali problemi sociali causati da una nazione devastata hanno
sicuramente prodotto la perdita di ulteriori vite; inoltre, i Khmer Rossi non
avrebbero forse preso il potere e commesso i loro massacri se non ci fosse
stata la destabilizzazione causata dalla guerra, in particolare dalle
campagne di bombardamenti statunitensi in Cambogia.
La più bassa stima delle vittime, basata su dichiarazioni nordvietnamite
che vengono ora scartate dal Vietnam stesso, è di circa 1,5 milioni di
vietnamiti uccisi. Il Vietnam ha rilasciato delle cifre, il 3 aprile 1995, che
parlano di un milione di combattenti vietnamiti e 4 milioni di civili uccisi
durante la guerra.



12
nel 1991, durante l'operazione Desert Storm per la liberazione
del Kuwait dall'occupazione irachena. A partire dal 17 gennaio,
per dodici giorni, oltre mille missioni al giorno colpirono l'Iraq
La popolazione civile viene maggiormente danneggiata nel
1999, quando la NATO interviene contro la Serbia con l'intento
dichiarato di proteggere la popolazione del Kosovo (Operazione
Allied Force).
17 nov 2012 Sono morti almeno in diciotto dall'alba di ieri
all'alba di oggi nelle incursioni aeree israeliane sulla Striscia di
Gaza. Il bilancio totale delle vittime dall'inizio delle operazioni è
di 49 palestinesi uccisi, e di tre israeliani. I feriti sono oltre 345,
molti sono bambini.
anni e che sta costantemente lacerando il tessuto della società.
Nel 2009 poco prima di accompagnare degli amici ad una visita serale al
rifugio mentre ascolto distrattamente il telegiornale, vedo le immagini di
gente dentro un rifugio antiaereo, li per li penso sia un servizio di tg storia,
poi vedo che il giornalista con l’elmetto che sta intervistando è in diretta
dalla striscia di Gaza in Israele... una nuova visita al rifugio è veramente
difficile.
e non è finita ...
sentiamo ora l’intervento di Gino Buratti dell’Accademia Apuana della
Pace che affronterà il tema più difficile della serata Le ragioni delle Pace
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1906
Le ragioni della pace (di Gino Buratti)
Pubblichiamo tre relazioni che sono state tenute all'interno dell'iniziativa
“Qui sotto ... un rifugio antiaereo! - due chiacchere sui rifugi antaerei a
Massa sulla guerra e sulla pace” svoltasi il 22 luglio scorso: “La
scoperta e il recupero dei rifugi: il come e il perché” e “I
bombardamenti aerei armi di guerra e di strage”, tenute dall'ing. Andrea
Bontempi, e “Le ragioni della pace”, tenuta da Gino Buratti
dell'Accademia Apuana della Pace.
Di seguito l'intervento di Gino Buratti.
La narrazione sui rifugi antiaerei e sui bombardamenti, svolta in maniera
eccezionale nelle due relazioni tenute da Andrea Bontempi, ritengo che sia
l'occasione per una riflessione più ampia sulla guerra e sul suo utilizzo per
la risoluzione dei conflitti e delle controversie, sia essere tra nazioni od
interne.
In qualche modo il rifugio antiaereo diventa la rappresentazione, tragica,
di cosa significhi realmente un bombardamento, una guerra.
Da questa rappresentazione ritengo sia utile partire, andando oltre il
semplice impatto emotivo, ma svolgendo un ragionamento se sia possibile
o necessario cercare altre strade per risolvere i conflitti.
Il mio punto di vista non è ovviamente “neutrale”, perché non si può
essere “neutrali” parlando di pace e di guerra.
La prospettiva dalla quale provo a tessere un ragionamento con voi è
quella della nonviolenza, ma non di un generico pacifismo di maniera, che
pone questo orizzonte nelle icone degli ideali e dei valori supremi e non
terreni, quanto invece la prospettiva di una scelta ineluttabile, pena la
nostra distruzione, e che, come ogni politica internazionale, necessita di
elaborazione, studio... insomma un approccio “rigoroso”, così come
“rigorosi” sono gli studi dei centri di elaborazione delle strategie militari.
Una ricerca di un'alternativa che non è semplicemente solo dettata da una
visione ideale, ma che diventa, paradossalmente, una necessità
imprescindibile.
Liberare il campo da “pre-giudizi”
2013 «L'UNICEF è sgomento di fronte alle notizie riguardanti
la morte di almeno 70 bambini a causa di attacchi missilistici
che hanno colpito le zone residenziali di Aleppo il 18 e il 22
febbraio. Nel frattempo, il 21 febbraio in un bombardamento su
larga scala a Mazra, sobborgo di Damasco, sono rimaste
uccise 60 persone, di cui almeno 20 bambini, che frequentavano
la scuola elementare Abdullah Ibn Zubair. Questi ultimi attacchi
dimostrano il terribile impatto che il conflitto ha sulla
popolazione civile, in particolare sui bambini e sottolineano
l'urgenza di porre fine ad una crisi che va avanti da quasi due
Il ragionamento che provo a svolgere necessita tuttavia di liberarsi da
alcuni “pre-giudizi” che spesso sono presenti in noi.
Il primo riguarda “l'ineluttabilità della guerra”, perché ci è sempre stata
e sempre ci sarà. In tal senso giova ricordare che anche la schiavitù c'era
sempre stata, ma alla fine è prevalsa l'idea che essa debba essere abolita,
perché considerata lesiva della dignità dell'uomo. Al pari della schiavitù
anche l'apartheid razzista, quando riconosciuta, solo da qualche decennio è
considerata un crimine, sebbene ancor oggi tolleriamo quella pratica
costantemente da Israele.
Il secondo punto riguarda invece la “cultura di pace” e “la nonviolenza”,
che non possono essere relegate a semplici ideali, icone da mettere in un
altare. Sono approcci al conflitto che richiedono rigore, formazione e,
sopratutto, una visione “globale” del problema, che tenga insieme bisogno
di trovare soluzioni nell'ottica di giustizia, equità, sostenibilità, rispetto
dell'uomo, abolizione delle discriminazioni e disuguaglianze...
La cultura di guerra dopo la prima guerra mondiale
Parlo di “cultura di guerra”, nonostante la consideri un disvalore, perché
essa a tutti gli effetti è frutto non di improvvisazione, ma di scelte studiate,
valutate, elaborate, simulate... non è mai frutto di casualità, ma frutto di
una precisa strategia.
Per il presidente americano Wilson la “Grande Guerra”, la prima guerra
mondiale (1914-1918), doveva essere “una guerra per porre fine a tutte le
guerre e per affermare la democrazia”, la consueta retorica, che
accompagna sempre tutte le guerre, anche quelle così dette “umanitarie”,
celando, come sempre, anche gli altri motivi, spesso più preponderanti
rispetto alle “nobili azioni”, quali ad esempio il timore che, con la
sconfitta dell'Inghilterra, potessero fallire tutte quelle banche americane
che avevano elargito abbondanti prestiti a quel paese.
Sull'orrore di quella guerra, con 26.000.000 di morti, di cui il 50% civili,
tante pagine sono state scritte... ma sicuramente non ha posto fine a tutte le
guerre, ne è stata portatrice di democrazia.
La tabella seguente, (fonte: World Military and Social Expenditures) ci
indica come a partire dalla seconda guerra mondiale venga teorizzato un
nuovo modello di strategia militare, finalizzata a distruggere il morale
della popolazione nemica, il cui effetto principale è l'aumento
esponenziale del numero di vittime civili.
Conflitto
Periodo
n. morti
% vittime
civili
Guerra di Corea
1950-53
3.000.000
50%
Vietnam
1960-75
2.358.000
58%
Guerra civile Nigeria
(Biafra)
1967-70
2.000.000
50%
Cambogia
1970-89
1.221.000
69%
Afghanistan (intervento
Russo)
1978-92
1.500.000
67%
1994
1.500.000
97%
Cecenia
Dal 1994
250.000
99%
Congo
1997
3.000.000
Sudan
Si afferma il principio che la guerra viene vinta non sconfiggendo
militarmente un esercito, ma suscitando terrore e discredito, per far questo
l'unico strumento reale sono i bombardamenti e il seminare panico nella
popolazione, magari utilizzando anche lo stupro di massa.
Come risposta ai bombardamenti su Londra dei nazisti, Winston
Churchill, con i suoi consiglieri, e il beneplacito del comando americano,
per minare il morale del popolo tedesco, decisero di iniziare i
bombardamenti a tappeto dei quartieri operai tedeschi (Francoforte,
Amburo, Colonia, Dresda), anche quando ritenuti “militarmente” non
significativi.
13
Sull'inutilità per conseguire la vittoria finale dei bombardamenti di
Hiroshima e Nagasaki tanto si è scritto, sta di fatto che, per affermare la
supremazia nucleare degli USA rispetto all'URSS, l'intellighenzia militare
ha accettato di sacrificare dalle 100.000 alle 200.000 vittime “dirette”.
Il fisico ungherese, poi naturalizzato americano, Leo Szilard, uno dei
partecipanti del progetto Progetto Manhattan, dichiarò esplicitamente che
“Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro,
avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un
crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di
questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati.”
Si pensi che nel XX secolo il termine "genocidio" fu coniato nel 1944 per
descrivere la distruzione deliberata e sistematica di un gruppo razziale,
politico e culturale. Nel 1957 è stato per la prima volta impiegato il
termine "overkill" (letteralmente 'uccisione eccessiva') per descrivere un
uso della forza ben superiore a quello necessario per eliminare l'obiettivo.
Lo sviluppo tecnologico e la ricerca dell'industria militare sono andati
progressivamente nell'ottica di “seminare terrore”, pensiamo non soltanto
alle armi nucleari, ma a tutte quelle armi che sono state pensate e
progettate per creare distruzione e terrore: bombe a grappolo, armi
arricchite con uranio impoverito, le armi “strane” utilizzate da Israele in
occasione dell'azione “piombo fuso”, per arrivare ormai ai “droni”, robot
che volando possono seminare terrore senza necessariamente mettere a
rischio i nostri soldati.
Di questa tendenza ne abbiamo avuto conferma in tutti i grandi conflitti di
questi ultimi anni (Iraq , Afghanistan, la permanente guerra IsraelePalestina...), nonché nelle atrocità del conflitto in Serbia e in Bosnia.
Quali risoluzioni con le guerre?
Pur nella consapevolezza che le motivazioni di un conflitto sono
molteplici, alcune delle quali non possono essere dichiarate, ma che
emergono poi quando la fase acuta dello stesso è terminata, è utile cercare
una valutazione sui risultati che i diversi conflitti hanno determinato.
Ovviamente tali considerazioni non vogliono certo “sminuire” la portata
del conflitto, ma semplicemente tentare di ragionare, in maniera “laica”, se
lo strumento adottato per la soluzione ha avuto un qualche esito concreto,
valutando, altresì, il risultato conseguito in rapporto ai mezzi impiegati e
alle vittime e ai danni causati, nonché alla situazione che ne è derivata con
l'impiego di quello strumento militare.
Ritengo che si debba tentare un'analisi di questo tipo, riflettendo inoltre
sull'atteggiamento che abbiamo assunto alle prime avvisaglie di un
conflitto e su quanto, in maniera complice o meno, lo abbiamo lasciato, di
proposito, incancrenire.
Se riflettiamo sui conflitti in Corea e Vietnam risulta evidente come
quelle guerre non siano servite a migliorare la situazione, ma anzi a
peggiorarla, sia in termini di diritti umani sia per quanto riguarda le
relazioni tra i popoli.
La nostra impotenza e incapacità di gestire in maniera altra i conflitti ha
permesso in Congo e in Sudan il perpetuarsi di genocidi, che,
inevitabilmente, hanno creato una tale frattura che solo dopo numerose
generazioni e con politiche intelligenti si potrà tentare di superare.
La risoluzione militare adottata nel conflitto tra la Serbia e il Kosovo cosa
ha prodotto dopo quasi 20 anni? Nuove pulizie etniche (questa volta nei
confronti dei serbi), assenza di relazioni tra i due popoli, nessuna
soluzione del problema dell'autodeterminazione del Kosovo.
Il conflitto permanente di Israele nel medio oriente, ha solo dilaniato
un'area, impedendo una vita normale anche agli israeliano, assicurando
solo il vantaggio di un'economia di guerra ai vari governanti.
In Afghanistan, sia durante il tentativo di occupazione dell'Armata Rossa
che di quello attuale delle truppe occidentali, il risultato è sempre stato
quello di un rafforzamento del potere dei signori della guerra, che sono
quelli che davvero hanno sempre controllato il paese.
In Iraq quale risultato, se non quello delle compagnie petrolifere e quello
delle industrie e aziende militari? Le bombe di questi giorni ci
consegnano, dopo 10 anni di occupazione, un paese dilaniato da un
profonda guerra civile interna, con un governo locale non ritenuto
credibile.
Recentemente abbiamo liberato la Libia da un dittatore con il quale fino a
poco tempo prima facevamo affari d'oro, lasciando anche quel paese,
nonostante il velo dell'informazione che è ormai calato, in preda ad una
guerra interna, sempre più subdola e latente.
In Siria scopriamo improvvisamente i crimini del dittatore e subito
sposiamo un'opposizione talmente diversificata e divisa, incapace di
proporsi come alternativa credibile.
Quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni (ndr 15 agosto), con i
massacri perpetuati dall'esercito nei confronti dei Fratelli Musulmani, a
rescindere del giudizio politico su questi ultimi, sono un indicatore della
cultura che sta alla base di un esercito, una cultura che non ammette spazi
di mediazioni e di ascolto delle ragioni dell'altro.
Quanti decenni ci vorranno per sanare, se mai sarà possibile, questa
frattura che si è determinata a livello di società egiziana.
L'esperienza in Serbia e Kosovo non sono bastate, puntualmente
perpetuiamo i soliti errori.
Di fatto non esiste conflitto, forse nemmeno quello della seconda guerra
mondiale (da cui è partorita la guerra fredda) che abbiano permesso
davvero di risolvere le situazioni, intendendo per risolvere la fine di una
situazione di sofferenza, e l'inizio di relazioni diverse.
Interessante, in questo senso, la ricerca di Anna Bravo “La conta dei
salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato”
(Laterza, Bari, 2013), nella quale, come già fatto in altri testi, propone una
lettura dei conflitti, ponendo al centro le esperienze di nonviolenza, quelle
che spesso nella retorica ufficiale vengono dimenticate.
Proprio qui nella nostra terra abbiamo vissuto l'esperienza di
disobbedienza civile delle donne di Carrara rispetto all'ordine dei nazifascisti di abbandonare la città, così come altri gesti.
In quella ricerca ci sono due parti che ritengo siano importanti, spesso
sottovalutate.
La prima riguarda il salvataggio in Danimarca di quasi tutti gli ebrei
presenti nel paese, nonostante l'occupazione nazista. Un gesto di
“massa”, perché la nonviolenza incide solo se diventa azione di collettiva
e partecipata (non servono alla nonviolenza i gesti eclatanti individuali,
sicuramente favorito dal clima culturale e politico di quella nazione, che
già aveva resistito in maniera nonviolenta nel Nordschleswig sotto la
Prussia.
La seconda proprio il Kosovo, perché quell'esperienza diventa proprio
emblematica di nostro livello culturale. Con la morte di Tito era evidente a
tutti gli osservatori che quella era sicuramente un'area a rischio di
conflitto.
In quel periodo solo alcune organizzazioni internazionale avevano colto e
sottolineato l'importanza delle iniziative dell'antropologo Anton Cetta, agli
inizi del 1990, riprese successivamente dal movimento di Rugova.
Il problema drammatico, sintomatico della cultura che ci attraversa, è che
l'occidente ha fatto di tutto per lasciar incancrenire la situazione arrivando
poi agli accordi di Dayton, che non prevedono soluzioni per il Kosovo, le
critiche di moderatismo a Rugova, lo sviluppo dell'UCK e l'emarginazione
dell'ala nonviolenta a Rambouillet.
Altre strade possibili: le ragioni della pace!
E' da questa, per un verso atroce, constatazione che dobbiamo partire per
pensare se esistono forme di soluzione dei conflitti, siano questi interni ad
una nazione, o tra nazioni.
La ricerca di forme altre di soluzione dei conflitti non è una verità rivelata,
data una volta per tutte, ma è frutto di ricerca, formazione, investimenti...
e anche di una concezione diversa delle relazioni tra i popoli.
Dicevano Russel e Einstein nel “Manifesto del 9 luglio 1955, nel quale
esortavano a rinunciare alla guerra come strumento per la risoluzione dei
conflitti, pena la distruzione dell'intera umanità “Dobbiamo imparare a
pensare in un nuovo modo. Dobbiamo imparare a chiederci, non già quali
misure occorre intraprendere per far vincere militarmente il gruppo che
preferiamo; perchè nulla di tutto ciò è più possibile. Quel che ci
dobbiamo chiedere è: come impedire un conflitto armato il cui esito
sarebbe catastrofico per tutti?”
E', soprattutto, una scelta alternativa a quella militare e come tale deve
essere trattata.
Il punto è sviluppare un pensiero altro rispetto alle guerre, partendo anche
dai problemi che alcune esperienze nonviolente pongono.
L'esperienza di Gandhi nella liberazione dell'India da una potenza che
in materia di oppressione non era certo, come dire, signorile, è stata
significativa, al pari delle lotta contro l'apartheid di Mandela in Sud
Africa, per un verso ancor più importante perché ha visto il passaggio
dalla scelta della lotta armata, che aveva portato tutto ad un impasse, allo
sconvolgimento dell'azione nonviolenta.
E' necessario però un radicale e profondo cambiamento culturale e
politico.
Esperienze di lotte nonviolente
Certo proprio queste due esperienze, lette da un alto guardando
all'assassinio di Gandhi, ma anche osservando l'attuale sviluppo e
situazione dei due paesi (che rappresentano difatto la negazione dei
principi cardine della nonviolenza), ci sono di monito per farci capire che
la nonviolenza non è semplicemente una strategia per risolvere i conflitti,
ma è il costruire relazioni diverse, e tutto questo comporta il continuo e
persistente lavoro di ridefinizione dei processi nonviolenti, di
aggiornamento, di adeguamento, in una interconnessione continua con le
pratiche di democrazia partecipata, riduzione delle disuguaglianza,
estensione dei diritti civili, continuo dialogo e attenzione alle “verità” di
cui l'altro, sia esso singola persona o soggetto organizzato, è portatore.
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Non esiste una ricetta rivelata, ma un elaborazione di un progetto lungo e
articolato nel tempo, spesso complesso, per risolvere i conflitti. E'
necessaria quindi ricerca, formazione, investimenti... e sopratutto un
governo internazionale che sia credibile, capace anche di utilizzare le
forme di polizia internazionale (ma azioni di polizia non militari), ma in
un'ottica credibile, non, come spesso accade, con azioni che esprimono
solo gli interessi di certi paesi.
Non si può relegare la cultura di pace e la nonviolenza a semplici ideali,
icone da mettere in un altare. Cultura di pace e nonviolenza esigono
giustizia, trasparenza, abbattimento delle disuguaglianza, verità
nell'informazione.
Non si può aderire alle marce della pace, fare i pellegrinaggi a Barbiana,
dove don Milani lottava con gli ultimi e poi in parlamento finanziare le
missioni militari (perché non sono missioni di pace), rinunciare a
ragionare su un sistema altro di difesa e di gestione dei conflitti di pace,
ignorando, ad esempio, che per far funzionare un corpo civile di pace,
capace di fare interposizione meglio di un apparato militare, è necessario
investire risorse e mezzi su quella strada.... risorse e mezzi che vanno tolti
alle lobby dei militari.
Non possiamo trasformare un paese o le relazioni internazionali in forme
di fortezze assediate, dobbiamo mettere in campo processi cooperativi e di
rapporti diversi.
Ovviamente ciò determina anche un idea diversa di Europa, che tenga
conto dei popoli e di quale cultura e politica diversa l'Europa possa essere
portatrice.
Politica e democrazia
Una cultura che vada in una direzione opposta a quella finora pratica degli
eserciti e degli armamenti, privilegiando la costruzione permanente di
corpi civili di pace, che necessitano finanziamenti e azioni di formazione.
Un'idea diversa di Europa che sia coerente con i suoi valori costituenti di
solidarietà, internazionalismo, giustizia e pace.
Sicuramente la scelta nonviolenta non è neutrale e non può essere
rappresentativa dei poteri forti, anzi esprimerà gli interessi proprio dei
soggetti deboli.
Il primo punto, indispensabile, è l'esistenza di un assetto internazionale,
organizzato con un sistema di giustizia e di polizia (non militare e di
intelligence) che sia credibile e coerente, equo e democratico, e non
espressione sempre di parte.
Il secondo punto è la necessità di sottrarre risorse alla struttura e alla
ricerca militare spostandole in politiche di riduzione dei conflitti e
ampliamento dei diritti e investendole nella creazione di strutture civili
capaci di intervenire prontamente alla prima avvisaglia di conflitto.
Ovviamente tutte queste strutture devono essere sotto la guida di una
istituzione neutrale riconosciuta come tale.
In tale ottica è ovviamente anche necessario istituire una “forza”, capace
di intervenire prontamente all'insorgere di un conflitto, ma si tratta di una
forza di pace, che utilizzi strumenti non militari.
Già Gandhi aveva previsto la realizzazione di “Shanti Sena”, ovvero
“Esercito di Pace”, e in questi anni numerose ONG hanno sperimentato la
realizzazione di interventi nonviolenti nelle aree di conflitto (cfr.
Interventi Civili di Pace: http://www.interventicivilidipace.org/wp/).
Il punto è quello non di mettere in atto azioni sporadiche affiancate a
quelle principali armate, lasciandole magari semplicemente in gestione ad
ONG, bensì quello di affermare una cultura altra che porti a scegliere
sempre questo tipo di modalità di approccio al conflitto, rifiutando
l'intervento militare.
Si tratta invece di voltare pagina e cominciare a dare forma strutturale ad
approcci diversi ai conflitti, non come semplice esperimento occasionale,
ma come scelta di un governo mondiale o, quantomeno, di una comunità
estesa quale potrebbe essere quella europea.
Una modalità di approccio che preveda le pressioni internazionali,
l'interposizione, una cooperazione diversa, anche forme di isolamento
internazionale, di non cooperazione... tutto nell'ottica di costruire un
diverso sistema di relazioni basato sul rispetto dei diritti umani, giustizia,
riduzione delle disuguaglianze, sicurezza...
Una svolta cultura rispetto alla quale devono essere indirizzate le risorse
che invece attualmente spendiamo per l'apparato militare e le missioni di
guerra.
La stessa nostra esperienza all'interno delle città ci dicono come non è
certo con i fortini assediati che garantiamo sicurezza, ma solo con
politiche inclusive e di accoglienza.
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Massa, 16 agosto 2013
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1907
In che modo siamo stati impoveriti, imborghesiti e
messi a tacere (di John Pilger)
Conosco il mio postino da più di 20 anni. Coscienzioso e bonario, è
l’incarnazione del servizio pubblico al suo meglio. L’altro giorno gli ho
chiesto: “Perché stai in piedi davanti a ogni porta come un soldato durante
una parata?”
“Il nuovo sistema,” mi ha risposto, “non mi si richiede più di imbucare
semplicemente le lettere nella fessura della porta. Devo avvicinarmi alla
porta in un certo modo e mettere le lettere nella fessura in un certo modo.”
“Perché?”
“Chiedilo a lui.”
Dall’altro lato della strada c’era un giovanotto solenne, con in mano un
porta blocco, e che aveva il compito di perseguitare i postini e vedere che
si attenevano alle nuove regole, senza dubbio in preparazione alla
privatizzazione. La sua faccia è rimasta inespressiva, eccetto un
momentaneo tremolio di confusione.
Nel libro Brave New World Revisited (Tradotto in italiano con il titolo
Ritorno al mondo nuovo, n.d.t.), Aldous Huxley descrive una nuova classe
vincolata a una normalità che non è normale “perché sono così ben
conformati al nostro modo di esistenza dato che la loro voce umana è stata
zittita così presto nella loro vita che non lottano neanche o non soffrono o
non sviluppano i sintomi come fa il nevrotico.”
La sorveglianza è normale nell’Età della Regressione come ha rivelato
Edward Snowden. Le videocamere onnipresenti sono normali. Le libertà
sovvertite sono normali. Il pubblico dissenso efficace è ora controllato
dalla polizia le cui minacce sono normali. Diffamare parole nobili come
“democrazia”, “riforma”, “welfare”, e “servizio pubblico” è normale. I
primi ministri che mentono apertamente riguardo ai lobbisti e agli scopi
della guerra sono normali. L’esportazione per un valore di 4 miliardi di
sterline di armamenti britannici, comprese le munizioni per il controllo
della folla, allo stato medievale dell’Arabia Saudita, dove l’apostasia è un
peccato capitale, è normale.
La distruzione intenzionale di istituzioni pubbliche efficienti e popolari,
come la Royal Mail (l’azienda postale britannica) è normale. Un postino
non è più un postino, che svolge il suo lavoro decente, è un automa che
deve essere sorvegliato, una casella che va spuntata. Huxley ha definito
questa regressione folle, e il nostro “perfetto adeguamento a quella società
anomala” un segno di pazzia.
Noi ci siamo “perfettamente adeguati” a quella società? No, non ancora.
La gente difende gli ospedali dalla chiusura, la rete di gruppi di protesta
UK Uncut costringe le filiali delle banche [del gruppo HSBC] a chiudere e
sei donne coraggiose scalano il più alto edificio d’Europa per dimostrare il
caos provocato dalle compagnie petrolifere nell’Artico. Qui la lista
comincia a esaurirsi.
Al festival di Manchester di quest’anno, il poemetto epico di Percy Bysshe
Shelley, Masque of Anarchy – tutte le 91 stanze sono state scritte in uno
stato di rabbia per il massacro della gente del Lancashire che protestava
contro la povertà nel 1819 – è un pezzo teatrale acclamato e totalmente
separato dal mondo esterno. Il gennaio scorso, la Commissione per la
Povertà della contea Greater Manchester ha rivelato che 600.000 cittadini
di Manchester vivevano in “estrema povertà” e che 1,6 milioni, cioè quasi
metà della popolazione della città, stavano “scivolando in una povertà più
profonda”.
La povertà è stata nobilitata. La Parkhill Estate a Sheffield una volta era
un edificio di edilizia pubblica non amato da molti per la sua brutalità in
stile Le Corbusier, per la scarsa manutenzione, e per la mancanza di
strutture. Dato che è stato inserito nel Grado II del Patrimonio
dell’UNESCO, è stato rinnovato e privatizzato. Due terzi dei vecchi
appartamenti sono rinati come appartamenti moderni che si vendono a
“professionisti”, compresi designer, architetti e uno studioso della storia
sociale. Nell’ufficio vendite si possono comprare tazzone e cuscini
disegnati dagli stilisti. La facciata non offre neanche un accenno che,
devastata dai tagli dell’austerity del governo, Sheffield ha una lista di
attesa di 60.000 persone che hanno chiesto una casa popolare.
Parkhill è un simbolo dei due terzi della società che è oggi la Gran
Bretagna. Il terzo che è imborghesito se la passa bene, alcuni di loro
estremamente bene, un terzo lotta per tirare avanti chiedendo prestiti, il
resto scivola verso la povertà.
Sebbene la maggioranza dei britannici facciano parte della classe
lavoratrice – se si considerano tali oppure no, – una minoranza nobilitata
domina il parlamento, le alte direzioni e i media. David Cameron, Nick ed
Ed Milliband sono i loro autentici rappresentanti, con soltanto una
marginale differenza tecnica tra i loro partiti. Essi fissano i limiti della vita
e del dibattito politico, aiutati dal giornalismo imborghesito e
dall’industria della “identità”. Il maggior trasferimento di ricchezza di
sempre verso l’alto è un dato di fatto. La giustizia sociale è stata sostituita
da una insignificante “equità”.
Mentre promuove questa normalità, la BBC ricompensa un funzionario
anziano con quasi 1 milione di sterline. Sebbene si consideri l’equivalente
nei media della Chiesa di Inghilterra, la Corporazione ha ora un’etica
paragonabile a quella delle compagnie per la “sicurezza” G4S e Serco,
che, dice il governo, hanno “sovraccaricato” sui servizi pubblici per
decine di milioni di sterline. In altre nazioni questa si chiama corruzione.
Come la svendita delle utenze elettriche, dell’acqua e delle ferrovie, la
svendita della Royal Mail si deve ottenere con la concussione e la
collaborazione dei dirigenti sindacali, indipendentemente dalle offese
esplicite. Iniziando la sua serie di documentari (per la TV) del 1983, A
Question of leadership, Ken Loach mostra i capi dei sindacati che esortano
le masse. Gli stessi uomini vengono poi mostrati, più anziani e rubicondi,
ornati con la pelliccia di ermellino della Camera dei Lord. Nei recenti
festeggiamenti per il recente compleanno della regina, il segretario
generale della Confederazione dei sindacati britannici, Brendan Barber, ha
ricevuto il suo cavalierato.
Per quanto tempo i Britannici possono stare a guardare le insurrezioni nel
mondo e fare poco, a parte piangere il Partito Laburista defunto da un
pezzo? Le rivelazioni di Edward Snowden mostrano l’infrastruttura di uno
stato di polizia che sta emergendo in Europa, specialmente in Gran
Bretagna. Tuttavia la gente è più consapevole di quanto lo sia stata mai
prima; e i governi temono l’opposizione popolare – e questo è il motivo
per cui coloro che dicono la verità vengono isolati, calunniati e perseguiti
penalmente.
I cambiamenti epocali cominciano quasi sempre con il coraggio delle
persone che riconquistano la loro vita sfidando ogni probabilità. Non c’è
altro modo adesso. Azione diretta. Disobbedienza civile. Infallibile.
Leggete Percy Shelley – “Voi siete tanti. Loro sono pochi”. E fatelo.
John Pilger da Serenoregis.org
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/In-che-modo-siamo-stati-impoveritiimborghesiti-e-messi-a-tacere-141888
Le mani sull'Italia: come pilotare la società e
impadronirsi del Paese (di Mario Pancera)
Una volta si diceva spionaggio, oggi si dice «intelligence». Una
«operazione di intelligence» è un lavoro di analisti, ce lo dicono anche i
film, dove li si vedono al lavoro sui computer. L’espressione «Intelligence
department» indica il Servizio segreto. C’è l’«intelligence» anche nelle
ricerche di mercato, che non riguardano soltanto la frutta e verdura, ma i
gruppi sociali, i movimenti politici, i club, gli individui e i loro pensieri,
interessi e inclinazioni: religiosi, atei, omo o eterosessuali, gaudenti o
riservati, colti o ignoranti, dediti ai bunga bunga o al béguinage.
Chi si occupa di queste ricerche è, appunto, l’analista, termine che un
volta ricordava le analisi scientifiche, Freud o i coniugi Curie, adesso
indica chi studia e rielabora i dati raccolti nelle ricerche di mercato. Dalla
scienza allo spionaggio, neanche mascherato dalle parole. Spesso straniere
perché non chiare a tutti. Se un analista vuol fare da sé, per interesse o per
un sussulto di dignità, si mette in moto tutto l’universo. Si vedano i casi
Manning, Assange e Snowden, per il quale ultimo sono stati bloccati aerei
presidenziali, mosse le diplomazie di quattro continenti - forse anche tutti
cinque, non si può mai dire - ed è nato il caso mondiale Datagate.
Telefonate Putin-Obama. È bastato un giovanotto di 29 anni. Uno.
Che cosa analizzano gli analisti? I nostri comportamenti. Prima si
«informano»: attraverso gli abbonamenti dei mezzi pubblici, i ticket dei
supermercati, i conti correnti, il bancomat, i mutui, le vacanze (brevi,
lunghe, scontate o ricche) con la moglie o l’amica, la famiglia (compresi
nonni, figli eccetera). Sanno che cosa compera un cittadino, quale parte di
popolo ha i soldi per certi acquisti e quale no, se si vendono più prodotti in
plastica o in legno, più libri o armi, se si frequentano palestre o
biblioteche; e che età avete, e di che sesso siete; sanno se siete ignoranti o
istruiti, se votate e per chi votate, se siete laici o credenti e via dicendo.
Schedano la società in gruppi secondo le abitudini, i gusti, le
frequentazioni; ma anche secondo il pensiero religioso, morale, politico
degli individui. Poi «comunicano»: e così indirizzano i produttori a
immettere sul mercato quello che serve per vivere, materia e spirito. A
quale scopo dirigono l’ignara società così analizzata? Denaro e potere.
Anche i partiti politici hanno bisogno di questi specialisti. Persone che
sanno come usare il web, maneggiare internet, navigare appunto nella
Rete. Mai parola fu più adatta alla situazione: pesci e pescatori. Per
manovrare industrie e commerci. Per pilotare gli elettori, a destra o a
sinistra, oggi contro e domani a favore, per aizzare le piazze, terrorizzare i
lettori e il pubblico tv, descrivere sciagure, divulgare menzogne o
«rettificarle» con altre bugie, senza che se ne accorgano. Spostano i voti di
milioni di persone da un partito all’altro, ne fanno crescere di nuovi per
distruggere quelli esistenti, sconvolgono le idee soprattutto dei più deboli,
indifesi, quelli che hanno creduto in un futuro migliore, hanno seguito una
ideologia politica o anche una fede religiosa.
In Italia le maggiori reti controllate dallo Stato sono la Rai
(comunicazione e informazione) e il Copasir ovvero il Comitato
parlamentare per la sicurezza della Repubblica (tutela delle informazioni e
dei segreti di fondamentale importanza per la sicurezza del paese). Il
Movimento 5 Stelle è, in questo senso, il più moderno; quello che meglio
conosce e utilizza le regole del gioco contemporaneo. Infatti, ha subito
chiesto di avere il controllo dell’una e dell’altro. In parte c’è riuscito:
l’esperto in comunicazione di massa Fico, alla Rai; l’assistente giudiziario
Crimi, al Copasir. Tutto alla luce del sole. Non c’è da meravigliarsi se,
appena entrati, i grillisti hanno trovato vecchio, squallido e vuoto il
Parlamento. Ne vogliono uno nuovo, nelle loro mani. Lo dicono
apertamente: anche con il Porcellum, ma vogliono prendersi l’Italia e fare
loro le leggi.
Per capire il futuro che ci prospettano vediamone qualcuno, dalle loro
biografie in Rete.
Riccardo Nuti, Palermo, 1981 è perito tecnico informatico. È l’attuale
capogruppo del M5S alla Camera. Nelle “Parlamentarie” del suo
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movimento a Palermo è stato il preferito: 144 voti (ripeto: 144). Per otto
anni ha lavorato in un’azienda di telecomunicazioni come analista di
processi d’azienda, nel settore della qualità e del monitoraggio per il
business intelligence. Chi non conosce l’inglese si informi sul significato
di «business intelligence».
Nicola Morra è insegnante di storia e filosofia nel liceo classico “Telesio”
di Cosenza; ha 50 anni, vicepresidente della Commissione affari
costituzionali. «Gradito a Casaleggio», (cofondatore di M5S, e fondatore
della “Casaleggio associati. Strategia di marketing”), ha sostituito Crimi
come capogruppo M5S al Senato; ha ottenuto 24 voti contro i 22 andati al
collega di partito Luis Orellana.
Luis Orellana, italiano nato in Venezuela, ha 51 anni. Laureato in Scienze
dell’informazione, ha lavorato nel settore telecomunicazioni occupandosi
di clienti italiani nell’area commerciale di Italtel. Ha insegnato un anno a
Nairobi, Kenia, nell’African advanced level Telecom institute. Tenete a
mente i nomi e gli incarichi. In parlamento ha perso la carica andata a
Morra per soli due voti.
Roberto Fico, Napoli, 1974, laureato con lode in Scienze della
comunicazione con indirizzo comunicazione di massa, ha frequentato un
master in Knowledge management al Politecnico di Milano. È stato
redattore in una casa editrice, e ha avuto un incarico nella gestione
dell’ufficio degli studenti stranieri presso la facoltà di Scienze sociali
dell’Università di Helsinki. Dal 6 giugno 2013 è presidente dalla vigilanza
sulla Rai-tv. È l’occhio di Grillo-Casaleggio sull’informazione pubblica.
Luigi Di Maio, 27 anni, avellinese abitante a Pomigliano d’Arco (Napoli);
professione: studente universitario; pubblicista, aiutoregista, cofondatore
dell’Associazione studenti giurisprudenza e webmaster cioè progettista e
amministratore di siti web. È stato bocciato come aspirante consigliere del
suo comune, ma è stato promosso dalle Parlamentarie per entrare in
Parlamento: oggi è vicepresidente della Camera dei deputati e presidente
del Comitato di vigilanza sull’attività di documentazione. Vigila. Tutto
alla luce del sole.
NB Tutte le notizie sono ricavate da Internet.
Mario Pancera
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1918
Notizie dal mondo
Siria
La Siria tra guerra, pace e nonviolenza (di Nanni
Salio)
Che cosa dire sulla vicenda siriana che non sia già stato detto più volte?
Eppure non possiamo tacere.
Ancora una volta assistiamo alla manipolazione dell’informazione,
all’impossibilità di una verifica veritiera dei fatti e all’unica scelta, già
programmata, da parte dei paesi occidentali di intervenire soltanto sul
piano militare, contribuendo a creare danni ancora maggiori rispetto a
quelli che gà sono stati creati.
Tutti gli appelli, le analisi, le proposte avanzate dai movimenti per la pace
per una soluzione nonviolenta della crisi sia da parte di gruppi locali
(Mussalaha) sia di noti studiosi e esponenti della ricerca per la pace (Johan
Galtung), sono cadute nel vuoto.
La questione siriana si inserisce nel più ampio gioco geostrategico globale
e nella grande crisi sistemica che ha investito il mondo intero.
I paragoni con le crisi del secolo scorso (prima guerra mondiale, grande
depressione, seconda guerra mondiale) sono impressionanti e non lasciano
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presagire nulla di buono. Rispetto a quegli anni è cresciuto enormemente
il potere distruttivo e autodistruttivo dell’umanità minacciata dal
complesso militare-industriale-tecnocratico- mediatico che sta mettendo a
repentaglio l’intera civiltà umana e la vita stessa su questo pianeta.
I movimenti per la pace e per la nonviolenza hanno dimostrato di essere in
grado in varie circostanze di affrontare e risolvere crisi e conflitti profondi
senza ricorrere alla violenza (Gandhi, King, Mandela), ma per affrontare
l’attuale crisi globale è necessario che si organizzino su una scala
transnazionale, che permetta loro di incidere a monte, prima che i progetti
imperiali di dominazione creati negli oscuri meandri delle strutture di
potere si traducano in realtà.
L’umanità possiede un enorme potenziale di cambiamento positivo che
deve e può essere attivato dalla collaborazione della miriade di movimenti
già attivi nei vari campi (diritti umani, sostenibilità ambientale,
nonviolenza, economia alternativa) per costruire un “movimento di
movimenti” capace di avviare a soluzione i grandi problemi con un
approccio sia dal basso, sia dall’alto, attraverso profonde riforme
istituzionali.
Così come in altri momenti bui della storia umana (nazifascismo, guerra
fredda) anche oggi è necessario che soprattutto le giovani generazioni si
ribellino e utilizzino il meglio delle conoscenze di azione diretta
nonviolenta per il cambiamento sociale necessario a dar vita al “punto di
svolta” dell’umanità intera.
Senza perderci d’animo di fronte alle difficoltà, uniamo le nostre forze in
un quotidiano impegno creativo, costruttivo e concreto.
Parafrasando il Mahatma Gandhi, “ciascuno di noi sia il cambiamento che
vuole vedere nel mondo!”
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2013/08/29/la-siria-tra-guerra-pace-e-nonviolenzananni-salio/
Siria, opzione Kosovo in Medio Oriente (di Manlio
Dinucci)
Un uomo sospettato di voler compiere un omicidio, per metterlo in pratica
sceglie il momento in cui gli entra in casa la polizia. Lo stesso avrebbe
fatto il presidente Assad, sferrando l’attacco chimico nel momento in cui
arrivano gli ispettori Onu per effettuare l’indagine sull’uso di armi
chimiche in Siria. Le «prove» sono state esibite dai «ribelli», il cui centro
propaganda a Istanbul, organizzato dal Dipartimento di stato Usa,
confeziona i video forniti ai media mondiali.
Avendo ormai «ben pochi dubbi» che è Assad il colpevole e ritenendo
«tardiva per essere credibile» l’indagine Onu, il presidente Obama sta
valutando una «risposta» analoga a quella del Kosovo, ossia alla guerra
aerea lanciata senza mandato Onu dalla Nato nel 1999 contro la
Iugoslavia, accusata di «pulizia etnica» in Kosovo. A tal fine il Pentagono
ha convocato in Giordania, fino a domani, i capi di stato maggiore di
Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Turchia, Arabia Saudita
e Qatar. In Giordania gli Usa hanno dislocato caccia F-16, missili terraaria Patriot e circa 1.000 militari, che addestrano gruppi armati per la
«guerra coperta» in Siria. Secondo informazioni raccolte da «Le Figaro»,
un contingente di 300 uomini, «senza dubbio spalleggiato da commandos
israeliani», è stato infiltrato dalla Giordania in Siria il 17 agosto, seguito
da un altro due giorni dopo. Si aggiungono ai molti già addestrati in
Turchia. In maggioranza non-siriani, provenienti da Afghanistan, Bosnia,
Cecenia, Libia e altri paesi, appartenenti in genere a gruppi islamici tra cui
alcuni classificati a Washington come terroristi. Riforniti di armi,
provenienti anche dalla Croazia, attraverso una rete internazionale
organizzata dalla Cia. Sotto la cappa della «guerra coperta» niente di più
facile che dotare qualche gruppo di testate chimiche, da lanciare con razzi
sui civili per poi filmare la strage attribuendola alle forze governative.
Creando così il casus belli che giustifichi una ulteriore escalation, fino alla
guerra aerea, visto che la guerra condotta all’interno non riesce a far
crollare lo stato siriano. Tale opzione, motivata dall’imposizione di una
«no-fly zone», prevede un massiccio lancio di missili cruise, oltre 70 solo
nella prima notte, unito a ondate di aerei che sganciano bombe a guida
satellitare restando fuori dallo spazio aereo siriano. I preparativi sono
iniziati non dopo, ma prima del presunto attacco chimico. A luglio è stato
dispiegato il gruppo d’attacco della portaerei Harry Truman,
comprendente due incrociatori e due cacciatorpediniere lanciamissili con a
bordo unità dei marines, che opera nelle aree della Sesta e Quinta Flotta.
Un altro cacciatorpediniere lanciamissili, il Mahan, invece di rientrare in
Virginia, è rimasto nel Mediterraneo agli ordini della Sesta flotta. Solo la
U.S. Navy ha quindi già schierate cinque unità navali, più alcuni
sottomarini, in grado di lanciare sulla Siria centinaia di missili cruise. I
cacciabombardieri sono pronti al decollo anche dalle basi in Italia e in
Medio Oriente. Alle forze aeronavali Usa si unirebbero, sempre sotto
comando del Pentagono, quelle dei partecipanti alla riunione in Giordania
(Italia compresa) e di altri paesi. La Siria dispone però di un potenziale
militare che non avevano la Iugoslavia e la Libia, tra cui oltre 600
installazioni antiaeree e missili con gittata fino a 300 km. La guerra si
estenderebbe al Libano e ad altri paesi mediorientali, già coinvolti, e
complicherebbe ulteriormente i rapporti di Washington con Mosca. Su
questo in queste ore si riflette a Washington, mentre a Roma attendono gli
ordini.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/inedicola/manip2n1/20130827/manip2pg/14/manip2pz/345000/
il manifesto 2013.08.27
(fonte: Il Manifesto del 27 agosto 2013 - segnalato da: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2013/08/28/siria-opzione-kosovo-in-medio-orientemanlio-dinucci/
Il “modello Kosovo”: un motivo in più per
contrastare i piani di guerra in Siria (di Gianmarco
Pisa)
La recente evocazione del “modello Kosovo” da parte degli Stati Uniti
come “modello” per una sempre più incombente campagna di guerra
contro la Siria non intende concretizzare semplicemente una “opzione
militare” (come la gran parte degli analisti tende a ritenere) bensì vuole
rappresentare un vero e proprio “disegno strategico”: quello di una
aggressione militare, fondata sugli interessi nazionali e la propensione
imperialistica del sistema statunitense e mirata ad un “cambio di regime”
in Siria, nell’ottica di un nuovo “Medio Oriente” da plasmare ad uso e
consumo degli interessi e della presenza strategica degli Stati Uniti e dei
loro alleati nell’area. Ritenere il “modello Kosovo” semplicemente alla
stregua di una opzione militare tra le tante a disposizione degli Stati Uniti
significa infatti negare alla guerra del Kosovo quel carattere, al tempo
stesso paradigmatico e costituente, da essa assunto anche nei piani del
Dipartimento di Stato e della NATO.
La complessità della guerra del Kosovo, con il suo lungo dopo-guerra, può
essere riassunta in almeno tre fattori:
a) il carattere “costituente” della campagna militare dell’Alleanza
Atlantica per il ridisegno dello scenario regionale, l’assestamento della
competizione strategica con Russia e Cina e l’insediamento di un vero e
proprio protettorato strategico (di ordine politico e militare come dimostra
l’installazione della base di Camp Bondsteel) nel cuore dell’Europa e della
UE, a crocevia di ragioni geopolitiche e di interessi economici,
b) la mortificazione del ruolo dell’ONU, tenuta ai margini del processo
decisionale di legittimazione internazionale dell’iniziativa militare,
chiamata di conseguenza ad intervenire solo ex-post, con una sorta di
legittimazione spuria ed un rinnovato impegno nella ricostruzione civile di
ordine non militare (UNMIK),
c) la conferma del carattere etno-politico delle cosiddette nuove guerre
(M. Kaldor) con tutto ciò che questo significa in termini di
strumentalizzazione politica della questione etnica e religiosa,
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frammentazione delle composizioni multi-nazionali e multi-confessionali,
successo dell’aberrante principio di “Stato della Nazione”.
Raffrontare questi fattori con gli elementi presenti sulla odierna scena
siriana può fornire qualche utile indicazione per orientarsi nel ginepraio
medio-orientale, sullo sfondo della competizione strategica con la Russia,
l’Iran, e, soprattutto, la Cina, nella regione, e con la disgregazione di Stati
che, a prescindere dalla loro corrispondenza agli standard, peraltro in
vulgata occidentale, di “libertà” e “democrazia”, rappresentano degli
ostacoli o avversari al progetto neo-imperialistico degli Stati Uniti e dei
loro alleati in quello scacchiere.
La guerra del Kosovo, datata 1998-1999, vede nella primavera del 1998 il
momento di avvio di una più ampia repressione della popolazione
albanese da parte della polizia jugoslava, innescata dall’intensificarsi della
guerriglia separatista e dell’attività terroristica dell’UÇK (Ushtria
Çlirimtare e Kosovës), la formazione para-militare albanese-kosovara che
si opponeva militarmente al governo legittimo nella regione. Nel corso
dell’autunno del 1998 si contano già, secondo stime dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, oltre 200.000 profughi,
sebbene risalga proprio all’autunno del 1998 la proposta di mediazione
conseguita nella negoziazione di alto livello tra R. Holbrooke (inviato
degli Stati Uniti) e S. Milosevic (presidente della Jugoslavia), la quale
prevedeva il sostanziale ritiro di buona parte delle forze armate jugo-slave
dalla zona e l’ampia smilitarizzazione dell’UCK che avrebbe dovuto
cessare le proprie attività terroristiche, sotto il controllo di una missione di
osservazione, monitoraggio e verifica internazionale da parte dell’OSCE.
La proposta di mediazione cadde nel vuoto per l’assenza di ogni progresso
in ordine alla smilitarizzazione e per la prosecuzione delle attività della
guerriglia armata nel cuore della regione; nel Gennaio 1999, la mediazione
poté dirsi completamente fallita e la situazione peggiorò
drammaticamente, a causa della spirale ritorsiva tra la guerriglia albanesekosovara e la repressione da parte delle milizie jugoslave, fino allo stallo
di ogni colloquio diplomatico e all’esaurimento della missione stessa
dell’OSCE. Poco dopo, nel mese di Febbraio 1999, fallirono anche i
negoziati intrapresi a Rambouillet tra una delegazione albanese e una
delegazione jugoslava, sotto la pressione degli Stati Membri del c.d.
“Gruppo di Contatto” (vale a dire Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia,
Francia, Germania e Italia). La proposta di accordo venne infatti respinta
sia dalla delegazione albanese-kosovara (perché non sanciva
esplicitamente la futura indipendenza del Kosovo), sia dalla delegazione
jugoslava (perché prevedeva il dispiegamento sul territorio jugoslavo di
una forza militare della NATO con libertà assoluta di movimento e di
azione contro il principio medesimo di sovranità).
Nel giro di poche settimane, nel Marzo 1999, la guerriglia albanesekosovara, convinta dalle pressioni, rassicurazioni e raccomandazioni
statunitensi, dichiarava di accettare la proposta di Rambouillet, lasciando
così la parte jugoslava sola nel rifiuto della proposta, peraltro ampiamente
viziata dall’aperta faziosità del tavolo di negoziazione e dal caratterecapestro delle clausole imposte. A tutto ciò si somma, da parte dei
comandi militari della Jugoslavia, la convinzione di riuscire a sconfiggere
“sul campo” la guerriglia dell’UÇK nonostante l’ormai probabile
intervento militare dell’Alleanza Atlantica, fino a prefigurare l’eventualità
di una ipotetica spartizione della regione, per rivendicare l’acquisizione di
un’area del Kosovo etnicamente omogenea.
Nel giro di appena cinque giorni, dal 20 al 24 Marzo 1999, si sviluppò una
dura campagna repressiva tra quelle messe in atto sin dall’autunno
precedente dalle forze jugoslave nella regione, al punto da causare, in un
lasso di tempo così breve, ca. 15.000 profughi. Tale circostanza venne
manipolata e strumentalizzata dai circuiti mediatici e politici “occidentali”
al punto da farne il presupposto “oggettivo” dell’aggressione. Lo stesso 24
Marzo 1999, i Paesi dell’Alleanza Atlantica cominciarono i
bombardamenti su tutto il territorio della Serbia, ufficialmente in chiave
dissuasiva, senza mandato di legalità da parte del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, dunque in conclamata, aperta e palese violazione
della legalità e della giustizia internazionale.
La strategia seguita dall’Alleanza Atlantica mostra chiaramente come
l’obiettivo immediato non fosse quello di evitare un’incombente tragedia
umanitaria e proteggere la popolazione albanese-kosovara in pericolo,
piuttosto quello di sconfiggere militarmente la Jugoslavia di Slobodan
Milosevic, al fine di accelerarne la disgregazione e di consentire una
rimozione del gruppo dirigente socialista, imponendo l’abbandono del
Kosovo come contropartita della salvaguardia della Serbia, ovvero – se
necessario – procedendo ad una vera e propria debellatio del governo, del
sistema e del principio stesso della Jugoslavia in quanto tali. Lo mostrano
la scansione e l’intensità dei bombardamenti (al ritmo di centinaia di raid
aerei giornalieri): vennero attaccati e distrutti, anche in tal caso in
violazione della giustizia internazionale, obiettivi non-militari e
infrastrutture civili, impianti industriali, raffinerie di petrolio, oleodotti,
ponti, ferrovie e strade, sino al bombardamento di Belgrado (il precedente
più vicino era stato il bombardamento nazista, del 6 Aprile 1941) e di
obiettivi quali la sede della televisione jugoslava e perfino il palazzo
dell’ambasciata cinese in Serbia, per non parlare degli edifici governativi
e delle centrali elettriche (inizialmente bombardate a ripetizione con
“bombe alla grafite”).
La campagna militare, tuttavia, non raggiunse l’esito dichiarato: non è
servita alla rimozione dal potere di Slobodan Milosevic e non ha concorso
in alcun modo alla protezione della popolazione albanese del Kosovo. Si
assiste così al sorprendente – voluto – paradosso di una guerra, non
combattuta direttamente dalle presunte controparti, mediata dalla retroazione di specifici interessi internazionali, fomentata dalle pressioni delle
maggiori potenze imperialistiche, mirata a ri-legittimare in termini di
potenza la presenza USA e NATO nella regione e conclusa con uno stallo
spettacolare che avrebbe portato, quale unico esito plausibile, l’alternativa
secca tra la cancellazione della statualità Jugoslava e la liquidazione della
comunità albanese del Kosovo. Quella che, prima della guerra, con il finto
negoziato di Rambouillet, si proponeva di avviare il processo dell’autodeterminazione, della separazione e dell’indipendenza del Kosovo, dopo
la guerra, la tragedia umanitaria e i 78 giorni di cosiddetti
“bombardamenti umanitari”, si traduceva negli Accordi di Kumanovo, che
riconoscevano l’integrità territoriale e la sovranità serba sul Kosovo pur
garantendo a quest’ultimo una “ampia e sostanziale” autonomia,
costituendo le basi per il mandato della missione ONU e di quella NATO.
Dopo l’accettazione della Jugoslavia del piano di pace elaborato dai Paesi
del G8 e dell’incorporazione di tale piano di pace nella nota Risoluzione
1244 del Consiglio di Sicurezza, i Paesi NATO misero ufficialmente fine
ai bombardamenti il 10 Giugno 1999. La guerra è costata come nessuna
precedentemente combattuta in Europa, salvo quella di Bosnia, dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale, ed a pagarne il prezzo, come sempre, i
civili indifesi: 78 giorni di bombardamenti di crescente intensità, che
hanno pesantemente colpito sia il tessuto industriale sia le principali
infrastrutture della Serbia (dal grande impianto automobilistico Zastava
alle fabbriche di elettrodomestici, dalle raffinerie di petrolio alle
autostrade, dai ponti sul Danubio, tutti distrutti tranne uno, agli aeroporti
civili, alle strade e alle ferrovie), con stime che sono state peraltro tutte
riviste in crescita. Secondo una valutazione del quotidiano “Borba”, i
danni inferti ammontano a oltre 10 miliardi di dollari nella sola Belgrado,
con 600 edifici danneggiati o distrutti, e oltre 100 miliardi di dollari
nell’intero territorio della Serbia. Tanto per intenderci, due volte e mezzo
l’interno prodotto interno lordo della Serbia (40 miliardi di dollari) del
2013. Infine, secondo valutazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati, ca. 280.000 profughi, tra serbi, montenegrini e Rom
provenienti dal Kosovo, senza contare i danni del lungo dopo-guerra:
imposizione della maggioranza etnica albanese sugli affari della vita
pubblica del Kosovo, marginalizzazione delle minoranze, ghettizzazione
dei serbi-kosovari nelle loro enclavi chiuse, distruzione dell’economia e
della società e disoccupazione stimata al 50% della popolazione.
Ecco, in breve, il piano strategico racchiuso all’interno dello sbandierato
“modello Kosovo” che si va pro-pagandando anche per l’odierna Siria: un
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progetto di disgregazione e devastazione, umana e materiale, in spregio
del diritto e della giustizia, indifferente a qualsiasi autentica ragione
“democratica” o “umanitaria”, alimentato da una virulenta
strumentalizzazione dei fatti e da una spietata manipolazione
dell’informazione, cui è necessario opporsi con tutte le energie, a partire
dalle forze democratiche, per la pace e contro la guerra.
Gianmarco Pisa, IPRI – Rete CCP (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace
– Rete Corpi Civili di Pace): reteccp.org
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2013/08/28/il-modello-kosovo-un-motivo-in-piu-percontrastare-i-piani-di-guerra-in-siria-gianmarco-pisa/
Tunisia
Tunisia: finirà come in Egitto? (di Miriam Rossi)
Cresce la tensione in Tunisia. Non sarà forse pari al clima bellico respirato
durante la rivoluzione dei gelsomini dell’inizio del 2011, quando i carri
armati erano posizionati in città, le sparatorie, il lancio di lacrimogeni e il
coprifuoco erano entrati a far parte dell’ordinaria vita del Paese; forse non
saranno i prodromi di una guerra civile, rinvenuti da Giuliana Sgrena nel
suo blog facendo riferimento allo spettro della settennale guerra civile
algerina del 1992. O almeno si spera.
Tuttavia la situazione tunisina è talmente tesa da far temere a breve
un’escalation delle violenze o un colpo di mano governativo nel tentativo
di instaurare a ogni costo la Sharia (la legge islamica).
Il 25 luglio scorso è stato assassinato a colpi di arma da fuoco Mohamed
Brahmi, leader del Fronte Popolare (Echaab) e deputato dell’Assemblea
costituente tunisina. Nel 56° anniversario della Repubblica, e a poco meno
di sei mesi dall’omicidio di Chokri Belaid, un altro dirigente della stessa
coalizione di sinistra è stato ucciso. Soltanto il giorno precedente un
esponente di Ennhada, il principale partito al governo, aveva annunciato
che erano stati individuati esecutori e mandanti dell’omicidio di Chokri
Belaid e che a breve tutto sarebbe stato reso noto. Per gran parte
dell’opinione pubblica le responsabilità sono chiaramente da attribuire agli
islamisti e agli stessi esponenti di Ennahda, quest’ultimi invece hanno
cercato di scaricare le responsabilità sui gruppi estremisti salafiti.
Sull’omicidio di Brahmi è intervenuto anche l’Alto rappresentante della
Politica Estera e di Sicurezza Comune Europea, Catherine Ashton, che ha
parlato di “attacco da parte dei nemici della democrazia contro la
repubblica, il popolo tunisino e i valori della rivoluzione del 14 gennaio
2011?. L’esortazione alle autorità tunisine affinché indaghino
sull’omicidio senza indugi e consegnino alla giustizia i responsabili, si
unisce al disappunto che non siano ancora stati arrestati i killer di Belaid.
“L’UE -sottolinea infine l’Alto rappresentante- ritiene che la rapida
conclusione della redazione della Costituzione e l’organizzazione delle
prossime elezione generali offriranno la migliore risposta a questi attacchi
codardi. Sta ora ai partiti politici di governo e di opposizione e alla società
civile tunisina trovare i compromessi necessari in uno spirito di consenso,
tolleranza e rispetto reciproco”. Condanne e inviti a cui si associano
numerosi leader politici e anche Navi Pillay, l’Alto Commissario ONU per
i diritti umani.
Un compromesso o un accordo che continua a sfuggire da molti mesi e
che difficilmente sarà individuato alla luce degli altri sanguinosi eventi
occorsi nel Paese. Il 27 luglio all’alba un’auto della Guardia nazionale
tunisina è stata colpita dall’esplosione di un ordigno a La Goulette,
periferia nord di Tunisi: un avvertimento in piena regola. Nel pomeriggio
un manifestante, Mohamed Moufli, è stato ucciso a Gafsa, nel centro della
Tunisia, durante una marcia di protesta contro l’assassinio di Brahmi. Il 29
luglio sono morti in un’imboscata sul monte Chaambi, nel sud della
Tunisia, vicino al confine con l'Algeria, 8 militari (ma il numero
dev’essere ancora confermato). Al Qaeda Maghreb, a cui si è inizialmente
attribuito il massacro, si dichiara estranea ai fatti e la conseguente
assegnazione di responsabilità a una cellula terroristica algerina appare a
molti una soluzione troppo semplice, un sorta di capro espiatorio estraneo
alla Tunisia, specie dopo che il governo ha immediatamente attribuito ad
essa anche gli omicidi di Belaid e Brahmi. Si temono ora, e pare con
cognizione di causa, altri attentati terroristici. Di certo l’esplosione
accidentale della casa di un trentenne salafita a Jdeïda, nel sud della
Tunisia, lo scorso venerdì 2 agosto, mentre stava preparando una miscela
esplosiva, non lascia adito a dubbi al riguardo. Domenica 4 agosto
l’agenzia di stampa tunisina, Business News, dava notizia dell’assassinio
di 10 terroristi e di diversi arresti nella stessa zona del monte Chaambi,
confermando dunque gli scontri armati che si stanno verificando in questi
ultimi giorni tra l'esercito e le forze speciali da un lato e i terroristi che
hanno preso rifugio nelle montagne dall'altro.
Intanto a Tunisi dal 26 luglio, giorno dei funerali di Brahmi, continua il
sit-in dinanzi alla sede dell’Assemblea Nazionale Costituente, il Bardo,
per chiedere lo scioglimento del governo. Il sito “Occupy Bardo” registra
in diretta gli avvenimenti in corso. Al momento sono una sessantina i
deputati che si sono ritirati dall’ANC; se le fuoriuscite dovessero
raggiungere i 73 deputati (1/3 dei 217) i lavori dell’Assemblea sarebbero
bloccati, con conseguenze davvero imprevedibili.
Miriam Rossi
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Tunisia-finira-come-in-Egitto-142018
Formazione
Master of Arts in Human Rights and Conflict
Management (di Scuola Superiore Sant'Anna)
Il Master of Arts in Human Rights and Conflict Management, giunto alla
XII edizione, è un Master Universitario di I livello altamente competitivo
e con frequenza obbligatoria. Si tratta di un Master internazionale, tenuto
interamente in lingua inglese e rivolto ad un massimo di 28 laureati
qualificati (14 posti sono messi a disposizione di candidati non-UE)
L’obiettivo del Master è di formare professionisti di eccellenza per
lavorare all’interno dei programmi e degli interventi promossi dalle
organizzazioni nazionali, regionali, internazionali o dalle ONG, e
finalizzati alla tutela dei diritti umani e alla prevenzione, mitigazione o
risoluzione dei conflitti.
Il programma è articolato in una prima fase di didattica residenziale a
Pisa, per un totale di 440 ore, e in una seconda fase di stage presso
organismi di rilievo internazionale (min. 3 mesi, 480 ore). Al termine del
Master, i/le partecipanti sono tenuti/e a presentare un elaborato scritto od
un progetto video relativo all’esperienza di stage e alle materie oggetto
della fase d’aula, che dovrà essere discusso pubblicamente.
Le domande possono essere inviate fino al 2 luglio (I round di selezione) o
fino al 17 settembre (II round di selezione) nel caso dei candidati non-UE
e fino al 17 ottobre nel caso dei candidati UE. Il Master prevede anche una
borsa di studio a copertura totale del costo di iscrizione, che sarà assegnata
allo studente che avrà ottenuto il punteggio più alto in graduatoria e che, a
partire dalla scorsa edizione, è dedicata alla memoria di Gualtiero
Fulcheri, alto funzionario delle Nazioni Unite.
link: http://www.humanrights.dirpolis.sssup.it/
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