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© Photograph by Carol Harrison ISSN: 2384-9266 pl.it • rassegna italiana di argomenti polacchi JAN KARSKI 5 • 2014 pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi JAN KARSKI A cura di Luca Bernardini 5 2014 pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi 5 (V), 2014 pubblicazione annuale ISSN: 2384-9266 sito internet: www.plit-aip.com/plit e-mail segreteria: [email protected] e-mail direzione: [email protected] EDITORE Associazione Italiana Polonisti COORDINATRICE Marina Ciccarini COMITATO REDAZIONALE Alessandro Amenta Luca Bernardini Marina Ciccarini Krystyna Jaworska Laura Quercioli Mincer Giovanna Tomassucci SEGRETERIA E GRAFICA Alessandro Amenta PATROCINIO E CONTRIBUTI In copertina: fotografia di Jan Karski. Copyright: © Photograph by Carol Harrison. Le opinioni espresse nei testi pubblicati impegnano soltanto la responsabilità dei singoli autori. Le immagini tratte da internet sono da considerarsi di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore si prega di comunicarlo via e-mail alla redazione. INDICE 5 PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI Un anno con Jan Karski: alcune considerazioni (non) finali 11 LUCA BERNARDINI Le lettere di Jan Kozielewski, ovvero la figura di Jan Karski tra narrazione letteraria e documentazione storiografica 35 MARCELLO FLORES Jan Karski e Raphael Lemkin: la coscienza del genocidio 48 KOSTANTY GEBERT La banalità del genocidio 60 GIULIA LAMI Storia di uno Stato segreto: un manuale della clandestinità 79 MACIEJ PODBIELKOWSKI Lo Stato clandestino polacco 109 EWA WIERZYŃSKA La memoria resuscitata. Il programma “Karski: una missione incompiuta” (2010-2014) 116 GIOVANNA TOMASSUCCI Pola Nireńska, la moglie dell’“ebreo cristiano” Jan Karski 128 MARCO RIZZO Jan Karski, l’eroe dei fumetti 136 Inserto documentario 150 JAN KARSKI Shoah (Sterminio) 156 MARIA KUNCEWICZOWA Lo sconosciuto 164 Inserto iconografico 181 Gli autori di questo numero PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI Un anno con Jan Karski: alcune considerazioni (non) finali I l 6 dicembre 2013 il Parlamento della Repubblica di Polonia ha proclamato il 2014 “Anno di Jan Karski”, su iniziativa e impegno del Ministero degli Affari Esteri e del Museo di Storia della Polonia di Varsavia. Il centenario della nascita dell’emissario dello Stato segreto polacco, che è caduto il 24 aprile, è coinciso con il culmine di un progetto quadriennale, promosso dal Museo di Storia della Polonia e intitolato Jan Karski. Una missione incompiuta (Jan Karski. Niedokończona Misja), inaugurato nel 2010, ossia nel decimo anniversario della morte dell’emissario. Il programma delle celebrazioni dell’Anno di Jan Karski, estremamente vasto e multidisciplinare, ha visto e vede tenersi mostre e proiezioni di documentari, workshop educativi e visite di studio, conferenze e seminari, pubblicazioni di libri e articoli, in Polonia e nel mondo. Oltre ottanta sono i progetti patrocinati dal Ministero degli Affari Esteri polacco e organizzati dalle sue rappresentanze diplomatiche, consolari e culturali in tutto il mondo. Di questi ben dieci in Italia. Molto prima della proclamazione dell’Anno di Jan Karski, il 13 maggio 2013, l’Università degli Studi di Milano ha ospitato la giornata di studi Jan Karski. Una missione per l’umanità organizzata dal Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano in collaborazione con l’ateneo milanese e il Museo di Storia della Polonia. La giornata ha visto la partecipazione di studiosi polacchi e italiani: Ewa Wierzyńska del Museo di Storia della Polonia e Maciej Podbielkowski del Museo dell’Insurrezione di Varsavia, i professori Luca Bernardini, Alessandro Costazza, Giulia Lami, Marco Modenesi, Bianca Valota dell’Università di Milano, Carla Tonini dell’Università di Bologna, Marcello Flores dell’Università di Siena, 5 PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI UN ANNO CON JAN KARSKI Anna Raffetto in rappresentanza della casa editrice Adelphi di Milano. Durante l’evento è stata presentata in prima assoluta l’edizione italiana del libro di Jan Karski La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto (Adelphi, 2013), a cura e nella traduzione di Luca Bernardini, nonché la versione italiana della mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità a cura del Museo di Storia della Polonia. Un seminario dedicato a Jan Karski – Il testimone inascoltato – è stato organizzato dall’Associazione Italia-Israele di Torino e si è tenuto il 20 novembre 2013 presso la Fondazione Camis de Fonseca, con la partecipazione di Luca Bernardini, Elisabetta Massera, David Meghnagi dell’Università di Roma Tre, Anna Raffetto e Ugo Volli dell’Università di Torino, nonché di rappresentanti dell’Ambasciata di Israele a Roma e del Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano. L’Anno di Jan Karski in Italia è stato ufficialmente inaugurato a Roma dall’Istituto Polacco in occasione della Giornata della Memoria 2014 con il patrocinio di Roma Capitale Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica e con la partecipazione di Luca Bernardini, Lelio Bonaccorso, Paolo Mo6 rawski, Marco Rizzo ed Ewa Wierzyńska. Durante l’evento sono stati presentati il programma educativo Jan Karski. Una missione incompiuta di Ewa Wierzyńska, il libro La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto di Jan Karski e il fumetto Jan Karski. L’uomo che scopri l’Olocausto di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (Rizzoli Lizard, 2014); sono state proiettate interviste a Jan Karski dagli archivi della Rai Teche e dello United States Holocaust Memorial Museum ed è stata inaugurata la mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità a cura del Museo di Storia della Polonia. Con un tale progetto, l’Istituto Polacco di Roma intende concludere le celebrazioni dell’Anno di Jan Karski in Italia, a Palermo, in occasione della Giornata della Memoria 2015. Eventi organizzati e/o patrocinati dalle rappresentanze polacche in Italia si sono tenuti nel corso dell’Anno di Jan Karski anche a Cesena, Genova, Maccarese, Torino e Udine. Alla vigilia dell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, mercoledì 15 ottobre 2014, nel Giardino dei Giusti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Leonardo da Vinci” di Maccarese-Fiumicino, il Dirigente Scolastico Maria Antonietta Maucioni, l’Ambasciatore della Repubblica di Polonia Wojciech Po- PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 nikiewski e il Sindaco di Fiumicino Esterino Montino hanno messo a dimora un albero in ricordo di Jan Karski. L’albero di Maccarese si aggiunge a quelli già piantati in memoria dell’emissario polacco nei Giardini dei Giusti a Padova nel 2010 e a Milano nel 2011. All’IIS “Leonardo da Vinci”, da anni impegnato nello studio della Shoah e nella custodia della Memoria, è stata donata inoltre una copia della mostra Jan Karski. Una missione per l’umanità e, per la biblioteca, alcune copie del libro di Jan Karski e del fumetto italiano a lui dedicato. Nello spirito della “missione incompiuta” dell’emissario polacco e nell’impegno a mantenere viva la testimonianza e la memoria, né il Museo della Storia della Polonia di Varsavia, né l’Istituto Polacco di Roma limiteranno i loro progetti all’Anno di Jan Karski. In particolare, sull’esempio dell’IIS “Leonardo da Vinci” di Maccarese, l’Istituto Polacco intende allacciare nei prossimi anni collaborazioni con le scuole superiori in Italia coinvolte nei progetti e nei viaggi della Memoria. Un contributo inestimabile a proseguire il nostro impegno e realizzare futuri progetti viene dato oggi anche da questo numero della rassegna «pl.it», che la redazione ha voluto dedicare a Jan Karski in occasione del suo centenario. I nostri più sentiti ringraziamenti vanno inoltre al prof. Luca Bernardini dell’Università degli Studi di Milano e alla dott.ssa Ewa Wierzyńska del Museo di Storia della Polonia di Varsavia. Senza il loro personale impegno e disponibilità l’Anno di Jan Karski in Italia non sarebbe stato in così ricco di contenuti e non avrebbe raggiunto un così vasto pubblico. [Paweł Stasikowski] È difficile cercare di riassumere in poche righe i contenuti di un anno (ma, per ciò che mi riguarda personalmente, gli anni sono almeno quattro) di iniziative dedicate alla figura di Jan Karski, nato Jan Kozielewski (1914-2000), Giusto tra le Nazioni. Presentando questo numero di «pl.it», credo però che si possa anticipare una prima conclusione: al di là di anniversari e ricorrenze, la figura dell’emissario dello “Stato segreto” polacco è oggi – paradossalmente – più viva, vitale e attuale di quanto non lo sia stata almeno per un lungo periodo della sua effettiva esistenza terrena. Tutti i contributi raccolti in questa pubblicazione stanno a dimo- 7 PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI UN ANNO CON JAN KARSKI strare la validità di un simile assunto. Le cause di questa attualità sono legate a una serie di date successive a quelle in cui la figura dell’emissario fu effettivamente operativa (1939-1945). In questo senso, occorre cercare di distinguere i diversi ruoli che nel corso degli avvenimenti storici Jan Karski si è ritrovato a rivestire. Oggi abbiamo la possibilità di renderci conto che Jan Karski è stato l’osservatore perfetto dello svolgersi del secondo conflitto mondiale. Perché da osservatore attento, oltre che attore, Jan Kozielewski prende parte a tutte le prime fasi del conflitto: come ufficiale di artiglieria coinvolto nella disastrosa disfatta del settembre del 1939, prigioniero dei sovietici in una guerra mai dichiarata (e – sappiamo oggi – scampato alle fosse di Katyń), evaso rocambolescamente dalla prigionia tedesca. Da osservatore, oltre che da messaggero, prenderà parte alle attività dello Stato segreto polacco, conoscendo in prima persona i meccanismi del suo funzionamento e la ferocia dell’oppressione nazista. Da osservatore, oltre che da emissario, arriverà nelle grandi capitali alleate, Londra e Washington, e assisterà ai cambiamenti politici che porteranno alla perdita della sovranità da parte della Polonia postbellica. Le vicende narrate in Story of a Secret State (1944), le diverse biografie redatte da E. Thomas Wood, Stanisław Jankowski, Maciej 8 Kozłowski, Andrzej Żbikowski, Marian Marek Drozdowski, Marta Kijowska (per una bibliografia sull’argomento, si veda oltre) hanno ricostruito nel dettaglio le vicende dell’emissario, ovvero del messaggero Jan Karski, latore delle richieste avanzate alle grandi potenze alleate tanto dallo Stato clandestino polacco quanto dalle organizzazioni ebraiche che vi operavano all’interno. La fase di Jan Karski messaggero conosce sicuramente il suo apogeo nel 1944, al momento della pubblicazione di Story of a Secret State, ma è anche vero che a partire dal suo definitivo stabilirsi negli Stati Uniti – nel 1945 – Jan Karski si sarebbe scientemente rifiutato di tornare su ciò che aveva visto e fatto durante la guerra, per ben più di trent’anni. Quando nel 1978 acconsentirà, dopo un iniziale rifiuto, a farsi intervistare da Claude Lanzmann, Jan Karski smetterà le vesti del messaggero per indossare quelle del testimone. Il ruolo cruciale giocato dal futuro direttore de Le temps modernes nell’indurre Jan Karski a rendere al mondo la sua testimonianza è stato riconosciuto in primis proprio dallo stesso autore di Story of a Secret State, pochi anni dopo l’uscita del capolavoro di Lanzmann. Nel 1987 Maciej Kozłowski, che lo intervistava per il «Tygodnik Powszechny», avrebbe infatti chiesto a Jan Karski che cosa lo avesse spinto a rompere quell’autoimposto voto PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 di silenzio. Il professore della Georgetown University non avrebbe avuto esitazioni nel rispondere: era stato Claude Lanzmann, “personalmente”, a convincerlo che aveva un obbligo, quello di rendere pubblica la sua testimonianza. A partire dal 1985, anno di uscita del film Shoah, anche per il vasto pubblico Jan Karski da messaggero diviene testimone e – in quanto tale – un personaggio tragico, assillato dall’angoscia di non aver fatto abbastanza per porre fine al più grande genocidio nella storia dell’umanità. Non è certo da ritenersi casuale se – a partire dalla nuova edizione francese, pubblicata nel 2004 – Story of a Secret State verrà tradotto in una molteplicità di lingue con un nuovo titolo: La mia testimonianza davanti al mondo. Può fare conto notare come nella trattazione letteraria del personaggio Jan Karski, a partire da questi anni, sia affiorata – lo testimoniano le opere di Janusz Korczak, Yannick Haenel, Bruno Tessarech – la precisa volontà di fornire una replica positiva all’asserzione di Paul Celan che “Nessuno testimonia / Per il testimone”. Queste diverse fasi dell’esistenza di Jan Karski, messaggero, testimone, personaggio, sono state parimenti sottoposte ad analisi nei contributi compresi in questo numero di «pl.it». Maciej Podbielkowski e Giulia Lami infatti hanno ricostruito le vicende dello “Stato clandestino” polacco, dalla sua comparsa fino alla liquidazione per mano delle autorità comuniste nella seconda metà degli anni Quaranta, permettendo di contestualizzare l’operato dell’emissario, il messaggero Jan Kozielewski nel quadro della Resistenza polacca all’invasione nazista e in un più ampio contesto degli analoghi movimenti europei. I contributi di Marcello Flores e Konstanty Gebert inseriscono invece la figura di Jan Karski testimone al centro della narrazione tutta novecentesca del “genocidio”, una narrazione che prende le mosse dalla nascita stessa del termine, coniato da Rafael Lemkin, per approdare a una riflessione sulle modalità di realizzazione del genocidio che – da quello degli armeni nel 1915 a quello dei Tutsi nel 1994 – prevedono l’attiva collaborazione allo sterminio di coloro che Primo Levi ne I sommersi e i salvati ha definito la “zona grigia” che separa le vittime dai carnefici. A Jan Karski personaggio di questa narrazione sono dedicati il saggio di Luca Bernardini, quello di Giovanna Tomassucci, incentrato sulla tragica figura di Pola Nireńska, e il contributo di Marco Rizzo. Di straordinario rilievo documentario è poi la testimonianza di Ewa Wierzyńska riguardo alla sorprendente assenza (come messaggero, testimone e personaggio) di Jan Karski dal dibattito pubblico polacco, ancora per 9 PAWEŁ STASIKOWSKI, LUCA BERNARDINI UN ANNO CON JAN KARSKI lunghi anni dopo la caduta del comunismo. Tutti i testi che pubblichiamo qui rispecchiano con modalità diverse i contributi dei partecipanti ad alcune delle iniziative dedicate a Jan Karski che si sono tenute in Italia nel 2013 e nel 2014. Si è poi ritenuto opportuno integrare il momento della riflessione con materiale documentario di origine e finalità diversi, dalla prima opera fabulare in cui Jan Karski compare come protagonista, il racconto Nieznajomy uscito nel 1943 dalla penna di Maria Kuncewiczowa (tradotto da Alessandro Amenta) alla recensione del film Shoah di Claude Lanzmann scritta da Jan Karski e pubblicata su «Kultura» l’anno dopo l’uscita della pellicola (tradotta da Giovanna Tomassucci), passando per due testi di Jan Karski, di assai difficile reperimento, che riproponiamo qui nella loro forma originale: The Jewish Mass Executions, pubblicato nel pamphlet Terror in Europe. The Fate of the Jews (s.d. [1943]), e The Polish Underground State, pubblicato su «Polish Fortnightly Review», 82, 15 dicembre 1943. A questi documenti si aggiunge un corredo iconografico, comprensivo dei ritratti di Jan Karski scattati da Carol Harrison e delle attestazioni fotografiche di alcuni eventi che hanno ricordato la figura dell’emissario in Italia. [Luca Bernardini] 10 [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 5-10] LUCA BERNARDINI Le lettere di Jan Kozielewski, ovvero la figura di Jan Karski tra narrazione letteraria e documentazione storiografica P er centinaia di migliaia di lettori prima, e per milioni di spettatori poi, Jan Karski – o meglio Jan Kozielewski – è stato vuoi l’autore del bestseller Story of a Secret State, vuoi uno dei testimoni più autorevoli intervistati da Claude Lanzmann nel suo capolavoro Shoah. Non tutti però sono consapevoli del fatto che Jan Karski non è stato solo l’emissario del governo clandestino polacco durante la Seconda guerra mondiale, un testimone dell’Olocausto e un messaggero che avrebbe cercato di attirare l’attenzione del cosiddetto mondo civile sullo sterminio degli ebrei dell’Europa orientale, ma anche un personaggio letterario, tanto in vita quanto dopo la sua morte. E nella sua ipostasi di personaggio, Karski sembra aver conservato una sua tragica caratteristica costante: la disperata volontà di essere ascoltato, compreso e creduto da uditori che non erano in grado o non intendevano prestar fede a quello che aveva da dire. Nel marzo del 1943, la rivista polacca dell’emigrazione «Nowa Polska» pubblicava un racconto di Maria Kuncewiczowa intitolato Nieznajomy (Lo sconosciuto), che aveva come protagonista un ignoto emissario del governo clandestino polacco, giunto a Londra per spiegare ai compatrioti in esilio la situazione politica della Polonia occupata. È interessante notare come Kuncewiczowa segnalasse una qualità fondamentale per un appartenente al movimento di Resistenza: la capacità di non dare nell’occhio, di dissimularsi sullo sfondo: “Era giovane, alto, scuro, era vestito talmente bene che l’abito e la cravatta passavano inosservati. Né colore né il taglio si discostavano dalla buona impressione generale”1. In realtà, la scrittrice sottolineava anche qualcosa che nella vita di Jan 1 “Był młody, wysoki, ciemny, miał na sobie ubranie i krawat tak dobre, że niezauważalne. Ani 11 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI Karski avrebbe costituito una costante: l’incommensurabile distanza esistenziale che separava lui – vittima e testimone diretto degli orrori della guerra – da chi il conflitto lo osservava da lontano. Una distanza che si rifletteva sul piano linguistico, quasi che non esistessero le parole per trasporre una realtà ancora priva di denominazione nel lessico di convenzioni artistiche ormai tragicamente inattuali. Kuncewiczowa notava come, nelle modalità della narrazione di Karski, la retorica fosse stata sostituita da una logica “mostruosa per il mondo libero”, ma del tutto naturale per un mondo vinto e asservito. A qualcuno è parso che Arthur Koestler potrebbe essersi ispirato alla figura di Jan Karski per il protagonista del romanzo Arrival and Departure, pubblicato a Londra nel 1943, incentrato sulle vicende di un profugo proveniente da un paese dell’Europa centrale e intenzionato a raggiungere la Gran Bretagna per prendere parte alla lotta contro l’invasore nazista. Se è vero che Peter Slavek giunge a Neutralia da un paese che in una qualche misura potrebbe essere la Polonia, ed è stato testimone di un’esecuzione di massa di deportati ebrei che presenta qualche esile attinenza con i racconti di Jan Karski, è anche vero che le analogie tra i due personaggi finiscono qui2: Slavek è solo un profugo, non certo 12 l’emissario del governo clandestino del suo paese, e sappiamo che prima della guerra faceva parte del Partito Comunista, un dettaglio inconciliabile con la biografia dell’autore di The Great Powers and Poland. Nel 1943 Arthur Koestler, i cui familiari erano già stati uccisi nei campi di sterminio nazisti, aveva acconsentito a leggere alla BBC un testo attribuito a Jan Karski, la cui vera voce, per ovvi motivi di sicurezza, non poteva essere trasmessa per radio. Il testo della trasmissione, che riassumeva una conversazione tra l’emissario del governo polacco e lo scrittore di origini ungheresi, avrebbe costituito il contributo di Jan Karski a Terror in Europe, una raccolta di scritti koloru, ani kroju tych rzeczy nie można było wyodrębnić z ogólnego dobrego wrażenia”. MARIA KUNCEWICZOWA, Nieznajomy, in «Nowa Polska», fasc. 3, marzo 1943, Londyn, poi in W oczach pisarzy. Wybór opowieści wojennych, a cura di Gustaw Herling-Grudziński, Instytut Literacki, Rzym 1947, p. 166. Trad. it. di Alessandro Amenta. La traduzione integrale del testo di Kuncewiczowa è pubblicata in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 156-163. 2 E. Thomas Wood e Stanislaw M. Stankowski hanno definito Peter Slavek “based closely on Karski”. In realtà, nemmeno le modalità di esecuzione degli ebrei nel romanzo di Koestler corrispondono a quelle della peraltro discussa testimonianza di Jan Karski, dal momento che gli ebrei vengono sterminati a colpi di mitragliatrice e non stipandoli in vagoni col fondo cosparso di calce viva. Cfr. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. How one man tried to stop the Holocaust, John Wiley & Sons, Inc., New York-Chichester-Brisbane-Toronto-Singapore 1994, p. 179. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 pubblicata a Londra nel 1943 dal National Committee for the Rescue from Nazi Terror, dove – accanto ai nomi di Aleksej Tolstoj e Thomas Mann – figurava un anonimo “Polish Underground Worker”. Karski vi descriveva l’esperienza fatta in quello che credeva essere il campo di Bełżec, e che soltanto molto tempo dopo la guerra si sarebbe scoperto essere il Durchgangslager di Izbica Lubelska. Il testo porta i segni di quella disarmante sincerità che contraddistingue l’approccio di Karski alle questioni della guerra e del genocidio del popolo ebraico. Karski infatti riconosceva di non sapere quasi nulla a proposito degli ebrei, ma di aver scoperto che le loro sofferenze erano infinitamente maggiori rispetto a quelle dei polacchi, dal momento che, se nei confronti dei suoi connazionali i tedeschi avevano adottato una politica di assoggettamento e oppressione, nei confronti degli ebrei avevano elaborato un piano sistematico di sterminio: era la prima volta nella storia, scriveva Karski, che si intendeva far sparire dalla faccia della terra un’intera nazione, e non solo una sua componente, per numerosa che fosse. Karski spiegava di essersi sentito moralmente obbligato a indagare i dettagli dello sterminio: In the course of my investigation I succeeded in witnessing a mass-execution in the camp of Belzec. With the help of our underground organisation, I gained access to that camp in the disguise of a Latvian special policeman. I was, in fact, one of the executioners. I believe that my course of action was justified. I had no means of preventing the event, but by becoming a witness, I was able to carry a first-hand account to the civilised world3. È difficile determinare con certezza se il Karski protagonista della trasmissione radiofonica di Arthur Koestler e anonimo autore del testo The Jewish Mass Executions, pubblicato in Terror in Europe, sia da considerarsi come un autore o un personaggio. Lo storico polacco Stanisław M. Jankowski ha trovato una lettera inviata ad Arthur Koestler, dove Karski prendeva le distanze dall’asserzione “I was in fact one of the executioners”: se l’emissario aveva visitato quel campo di concentramento, lo aveva fatto in quanto gli era stato esplicitamente richiesto dai rappresentanti delle organizzazioni ebraiche che operavano nella clandestinità. Sembra cioè che Karski rimproverasse allo scrittore di origini 3 [JAN KARSKI], The Jewish Mass Executions. Account by an Eye-Witness, in ALEXEI TOLSTOY, A POLISH UNDERGROUND WORKER, THOMAS MANN, Terror in Europe. The Fate of the Polish Jews, National Committee for Rescue from Nazi Terror, London s.d. [1943], pp. 9-10. Il testo integrale del contributo di Karski è pubblicato in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 137-141. 13 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI ungheresi di averlo presentato come un osservatore casuale, poco consapevole, che in una qualche misura poteva persino essersi fatto coinvolgere nelle atrocità a cui aveva assistito4. D’altra parte, Karski era conscio del fatto che il racconto dei crimini nazisti era destinato a un’opinione pubblica molto più incredula che indignata. E sembra di scorgere la sua ombra quando, in un suo articolo sul «The New York Times Magazine»5, Arthur Koestler scriveva di corrieri che rischiavano la vita per portare fuori dalla Polonia documenti sul genocidio degli ebrei, alla cui veridicità però non credevano nove americani su dieci6. A Londra, non più come anonimo “Polish Underground Worker”, ma come autore a pieno titolo, Karski pubblica nel numero della «Polish Fortnightly Review» uscito il 15 dicembre 1943 il primo articolo in cui viene impiegato il termine “Polish Underground State”7. Il testo di fatto avrebbe costituito l’impianto per il successivo volume dal titolo pressoché identico. L’assunto del numero della rivista era quello di sottolineare l’eccezionalità del movimento di Resistenza civile e militare dell’unico paese europeo che non avesse prodotto fenomeni di collaborazionismo, che non avesse visto la nascita di un Quisling. In questo senso, il progetto iniziale di Jan Karski era stato quello di trovare i finan14 ziamenti necessari per produrre un grande film sul movimento di Resistenza polacco, di cui aveva anche già scritto la sceneggiatura8. Karski trovava singolare che – tra i paesi dell’Europa occupata dai nazisti – l’unico dotato di un’amministrazione e un esercito clandestini, l’unico che avesse adottato una linea ostilmente inflessibile nei confronti dei tedeschi fosse stato totalmente ignorato dall’industria cinematografica americana. Dopo il suo arrivo a New York, il 27 febbraio 4 STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty tajnego emisariusza, Dom wydawniczy Rebis, Poznań 2009, pp. 411-415. 5 Cfr. ARTHUR KOESTLER, On Disbelieving Atrocities in IDEM, The Yogi and the Commissar and other essays, Macmillan, New York 1945, p. 91. Il saggio era comparso originariamente sul «The New York Times Magazine» nel gennaio del 1944. 6 “At present we have the mania of trying to tell you about the killing, by hot steam, mass electrocution and live burial of the total Jewish population of Europe. So far three million have died. It is the greatest mass-killing in recorded history; and it goes on daily, hourly, as regularly as the ticking of your watch”. IVI, pp. 88-89. 7 JAN KARSKI, The Polish Underground State, in «Polish Fortnightly Review», 82, 15.12.1943. Il testo integrale dell’articolo di Karski è pubblicato in questo numero di «pl.it» alle pp. 142-149. Vedi anche CELINE GERVAIS-FRANCELLE, Introduction, in JAN KARSKI, Mon témoignage devant le monde. Histoire d’un État clandestin, traduction anonyme de l’anglais (États-Unis) révisée et complétée, pour la présente édition, par Céline Gervais-Francelle, Robert Laffont, Paris 2010, p. XIV. 8 Cfr. WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać “Tajne Państwo. Opowieść o polskim podziemiu”, in JAN KARSKI, Tajne Państwo. Opowieść o polskim podziemiu, a cura di Waldemar Piasecki, Twój Styl, Warszawa 1999, p. 12. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 1944, l’emissario poté rendersi conto che i produttori cinematografici statunitensi non avevano alcun interesse in un film sul “Polish Secret State”, sia a causa del deterioramento dei rapporti sovietico-polacchi sia per la possibilità che gli eventi bellici e politici rendessero scarsamente attuale il soggetto. D’altra parte, il principale ostacolo per la realizzazione di un simile film si era rivelata essere la mancanza di un libro di successo su cui incentrare la sceneggiatura 9 . Fu quindi Władysław Besterman, addetto stampa dell’ambasciatore polacco a Washington Jan Ciechanowski, a mettere in contatto Jan Karski con Emery Reeves, che rappresentava sul mercato editoriale americano autori come Winston Churchill e Anthony Eden. Reeves comprese immediatamente che dall’emissario – una persona già conosciuta negli Stati Uniti – avrebbe potuto ricavare un’opera diversa, un autentico resoconto di guerra 10 . In realtà, una volta finito, il libro avrà un’appartenenza di genere che possiamo definire “ibrida” a causa delle circostanze che avevano concorso alla sua nascita11. Per molti aspetti, si trattava di un resoconto fedele del funzionamento delle istituzioni dello Stato clandestino polacco, come stanno a testimoniare i titoli di alcuni dei capitoli che lo compongono (XI: The Underground State; XVII: Propaganda from the Country; XIX: The Four Branches of the Underground; XXIII: The Secret Press). Le notizie che vi si ritrovano sono quelle presenti in articoli come The Polish Underground State, comparso sulla «Polish Fortnightly Review». C’è poi nel libro quella parte che – come ha scritto Jean-Louis Panné in Jan Karski. Le “roman” et l’histoire – “si legge come un romanzo d’avventura”12, ovvero le vicende dello stesso Karski, la sua attività di emissario del governo clandestino polacco, il suo arresto a opera della Gestapo in Slovacchia nel giugno del 1940, le torture subite per mano degli aguzzini nazisti, la sua rocambolesca evasione dall’ospedale di Nowy Sącz, la sua permanenza in clandestinità fino all’ottobre del 1942, quando giungerà in Gran Bretagna13. Sotto 9 STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., p. 390. Nel suo Raport o książce inviato dagli Stati Uniti al governo in esilio a Londra il 15 gennaio 1945, Jan Karski scriveva che secondo gli accordi intervenuti con l’agente letterario e l’editore, il libro avrebbe dovuto essere una “eye-witness story”, scevra da accenni propagandistici e incentrata esclusivamente sul racconto delle esperienze dell’autore. Cfr. JAN KARSKI, Raport o książce “Story of a Secret State” [dattiloscritto], 1945, <tinyurl.com/m8ab7wc> [consultato il 2.11.2014]. 11 JAN KARSKI, Story of a Secret State, Houghton Mifflin Company, Boston 1944. 12 “[...] se lit comme un roman d’aventures”. Cfr. JEAN-LOUIS PANNE, Jan Karski, le “roman” et l’historie, Pascal Galodé éditeurs, Saint-Malo 2010, p. 13. 13 In generale, i toponimi che compaiono in Story of a Secret State sono corretti, ma nell’edizione americana del 1944 – per ovvi motivi di sicurezza – al posto di Nowy Sącz troviamo Krynica. 10 15 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI questo aspetto, il materiale con cui Karski avrebbe costruito il libro era un misto di finzione e autobiografia, incentrato su avvenimenti reali, riferiti però senza quei dati che avrebbero permesso di contestualizzarli con precisione. Nel caso delle persone, Karski si attenne a criteri diversi. A volte i personaggi furono indicati con nome e cognome, dacché si trattava di persone morte o fuori dal raggio di azione della Gestapo. In altri casi, Karski avrebbe invece impiegato un criptonimo. Alcuni personaggi sarebbero stati abbozzati nel modo più approssimativo possibile, così da renderne impossibile il riconoscimento. Certe figure del libro presentano gli attributi di più individui reali14. Infine, compaiono nel libro alcuni personaggi inventati, come la famiglia berlinese degli “Strauch”, molto probabilmente mai esistita, ma ospitata sulle pagine di Story of a Secret State per mostrare al lettore come la pensassero i tedeschi15. Reeves infatti avrebbe insistito con Karski affinché nel libro comparissero nomi e cognomi, così da affascinare il lettore con la veridicità dei ricordi, pur senza tradire persone reali 16. Karski ebbe l’impressione che l’agente letterario tendesse a esagerare l’importanza del ruolo da lui stesso svolto nelle vicende narrate nel libro, così da mettere in evidenza le parti più romanzesche del testo, a discapito degli aspetti ideologici e politici 17: 16 d’altra parte, si sarebbe anche lamentato di non riuscire talvolta a convincere Reeves dell’autenticità delle informazioni fornite. Jankowski e Wood hanno scritto che l’intenzione del libro era di promuovere l’immagine della Polonia negli Stati Uniti. L’editore e l’agente letterario erano stati mossi principalmente dal desiderio di vendere il testo, così nessuno si era preoccupato troppo della fedeltà Un’altra eccezione è costituita da Pérpignan, che nella prima redazione del testo risultava essere Pau. 14 Ha scritto giustamente Stanisław M. Jankowski che nelle pagine del libro si incontrano spesso “personaggi di invenzione che riuniscono in sé le caratteristiche di una o più persone e che fanno affermazioni o esprimono giudizi quali si sarebbero potuti o dovuti pronunciare in determinate circostanze belliche o sotto un’occupazione straniera” (“fikcyjni bohaterowie, osoby łączące cechy jednej lub kilku osób, wypowiadające zdania lub opinie, jakie w tamtych – okupacyjnych i wojennych warunkach – mogli i powinni wygłosić”). Cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., p. 11. [Ove non diversamente indicato, le traduzioni in italiano sono mie, L.B.]. 15 IVI, p. 470. 16 IVI, p. 466. Scrivono Jankowski e Wood che “[Reeves] wanted the story of Karski’s adventures, not some dry treatise on the organization of the underground movement [...]”. Cfr. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 225. 17 Nel suo Raport o książce Karski scriveva che una delle maggiori difficoltà incontrate scrivendo e promuovendo il libro erano stati “i tentativi da parte degli americani di enfatizzare il mio ruolo e il mio significato, di sottolineare la parte sensazionalistica e non quella ideologico-politica” (“usiłowania ze strony Amerykanów, wyolbrzymienia mej roli i znaczenia, oraz podkreślanie sensacyjnej strony tematu, a nie ideowo-politycznej”). Cfr. JAN KARKI, Raport o książce, cit., p. 3. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 al dettaglio storico18. L’editore Edward O. Houghton, della Houghton Mifflin Company, convinto che il pubblico dei lettori americani fosse interessato a un certo tipo di trama, chiese a Karski di inserire nel libro qualche notizia relativa alla sua vita sentimentale, affinché non potesse essere accusato di voler nascondere “qualcosa”, magari il fatto che non gli piacessero le donne 19. Nonostante Karski avesse cercato di spiegare come – in quattro anni trascorsi al fronte, prigioniero dei sovietici e dei tedeschi o in clandestinità – non avesse semplicemente avuto il tempo per impegnarsi in relazioni amorose, Reeves riuscì comunque a inserire nel testo qualche allusione a un possibile flirt dell’autore con Danuta Sławik, una giovane appartenente al movimento clandestino. Nella redazione definitiva del libro venne aggiunto al cap. XVII, Propaganda from the Country, un lungo passaggio narrativo che doveva suggerire al lettore una presunta gelosia di Karski, suscitata dalla natura non chiara dei rapporti tra Lucjan Sławik (“Sawa”) e quella che si scoprirà essere sua sorella Danuta20. Esito più rilevante ebbe – per la storia del libro – un altro tipo di “interferenze” operate dall’editore e dall’agente letterario. Reeves e Houghton, infatti, avevano chiesto a Karski di dare maggior rilievo alla questione dello sterminio degli ebrei, nella convinzione che ciò avrebbe aumentato l’interesse dell’opinione pubblica statunitense. Karski si rifiutò di aggiungere al testo una parte relativa all’insurrezione scoppiata nel ghetto di Varsavia quando lui si trovava ormai da mesi fuori del paese, dal momento che gli sembrava incongruente con quella che avrebbe dovuto essere una eye-witness story21. Può darsi comunque che in una qualche misura abbia seguito i consigli dei due, mettendo in bocca al leader sionista incontrato prima della partenza per Londra l’annuncio di una futura azione 18 “Karski’s primary motivation in the book project was bolstering Poland’s image in the United States. His agent and publisher were driven by the desire to sell books. It may well be that neither side had any particular commitment to historical accuracy and neither intended the book to be a comprehensive document of Karski’s wartime experiences. Neither, apparently, foresaw the scholars decades later would rely on Story of a Secret State [...] for important source material on the history of the Final Solution and other wartime topics, unaware of its gaps or ‘adaptations’”. Cfr. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 229. 19 IVI, p. 224. 20 Un’analisi delle bozze di stampa del libro, recanti ancora il titolo Courier from Poland, mi ha permesso di stabilire come tutto il brano dalle parole “In a short time I tiptoed down the stairs out into the garden”, a p. 206, fino a “It’s kind of you to ask”, a p. 207, non figurasse nella prima redazione del testo. L’intreccio amoroso, surrettiziamente introdotto nella trama del libro, è stato ulteriormente sviluppato da Marco Rizzo e Lelio Buonaccorso nella graphic novel Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto (vedi oltre). 21 STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., p. 463. 17 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI di difesa del ghetto, quando – per quanto ne sappiamo oggi – nessuno nell’estate del 1942 poteva averla prevista22. Paradossalmente, a rimanere fuori dal libro – forse anche per motivi politici – è stato il ruolo svolto da Jan Karski nel farsi latore presso il comandante dell’Armia Krajowa, gen. Stefan “Grot” Rowecki, di una richiesta di armi da parte dei suoi interlocutori ebrei23. Non è facile riuscire a stabilire con precisione che cosa nei capitoli XXIX (The Ghetto) e XXX (To die in Agony...) possa essere effettivamente utilizzato ai fini della documentazione storica. Stanisław M. Jankowski ha affermato di non essere riuscito a trovare una conferma di uno dei passi più drammatici del cap. XXIX, la battuta di “caccia all’ebreo” compiuta all’interno del ghetto da due membri della Hitlerjugend, dal momento che – scrive – “memorie e resoconti non riportano che i ragazzi della Hitlerjugend venissero fatti entrare nel ghetto”24. Eppure Karski avrebbe confermato a più riprese di aver assistito a un simile episodio, non solo in Shoah di Lanzmann, ma anche nel corso di una conversazione avuta con lo stesso Jankowski25. A buona ragione Jankowski e Woods sottolineano come nel 1944 né gli editori, né l’autore del libro potessero prevedere le conseguenze di alcuni degli “adattamenti” editoriali del testo sulle future ricerche 18 storiche26. 22 “In the final text of the book, the Bund and Zionist leaders in Warsaw tell Karski of plans for the Ghetto uprising. Karski may well have added this detail, which does not conform to what later became know of the origins of the revolt, in response to Houghton Mifflin’s suggestions”. E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 228. 23 STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., pp. 212-214. 24 “Non sono mai riuscito a trovare una conferma di simili fatti. Nelle memorie e nei resoconti non compare l’informazione che i ragazzi della Hitlerjugend venissero fatti entrare nei ghetti, ma Karski in una conversazione con l’autore [St.M. Jankowski] tenutasi nel dicembre del 1987 confermò recisamente di aver assistito a quella scena, che gli era rimasta per sempre scolpita nella memoria” (“Nie udało mi się nigdy znaleźć potwierdzenia podobnych faktów. Pamiętniki i relacje nie podają, aby do getta wpuszczano chłopców z Hitlerjugend, ale Karski w rozmowie z autorem w grudniu 1987 roku potwierdził stanowczo, że był świadkiem opisanej w książce sceny i na zawsze została ona w jego pamięci”). Cfr. IVI, nota 11, p. 579. 25 La stessa informazione si ritrova – tra l’altro – in un’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski e pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» nel 1987. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], Niespełniona misja. Z profesorem Janem Karskim, kurierem Polskiego podziemia w latach II wojny światowej rozmawia Maciej Kozłowski, in «Tygodnik Powszechny», 11 (41), 1987, pp. 5-6. 26 Uno degli adattamenti editoriali fu l’aggiunta del post scriptum, dove si menzionavano le attività in territorio polacco delle organizzazioni della Resistenza al servizio di Mosca, finalizzato a difendere il libro da possibili accuse di parzialità. Karski accettò controvoglia la richiesta di Reeves e Houghton, ma sottopose il progetto di post scriptum fornitogli dai due al giudizio dell’ambasciatore Jan Ciechanowski, che vi apportò le modifiche necessarie a far sì che nulla nel testo contraddicesse le posizioni ufficiali del governo polacco in esilio. Cfr. JAN KARSKI, Raport o książce, cit., p. 4. Jankowski ha scritto che Karski, dopo aver redatto il post scriptum, avrebbe portato il PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 In taluni casi, le imprecisioni documentarie contenute nel testo sono dovute a ragioni relative all’orizzonte visivo del testimone, oppure a motivi di carattere politico. È purtroppo celebre, negli ambienti del revisionismo storico, l’affermazione di Raul Hilberg riguardante l’autore di Story of a Secret State: “I would not put him in a footnote in my books”27. Hilberg contestava a Karski una serie di inesattezze che sembravano inficiare qualunque valore documentario delle informazioni relative alla sua visita al campo di sterminio di Bełżec: a Bełżec infatti – notava lo studioso – non c’erano guardie estoni, i prigionieri non erano ebrei di Varsavia e dal campo non partivano convogli carichi di deportati28. Ora, a onor del vero, se in Terror in Europe Karski aveva scritto “I succeeded in witnessing a mass-execution in the camp of Belzec”29, in Story of a Secret State aveva accennato a un campo “located near the town of Belzec”30 e sarebbe stato soltanto negli anni successivi alla guerra che Yitzhak Arad, direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme, e Józef Marszałek dell’Università Maria Skłodowska Curie di Lublino, avrebbero dimostrato come con ogni probabilità il campo visitato da Karski fosse quello di transito posto su un’altura sovrastante la cittadina di Izbica Lubelska – circa quarantacinque chilometri a ovest di Bełżec31. Se in Story of a Secret State i guardiani del campo figuravano come “estoni”, invece che come ucraini, questo era accaduto senza nessuna responsabilità dell’autore, ma per una precisa richiesta del governo polacco in esilio a Londra, che non intendeva esacerbare i rapporti con gli ucraini tanto nell’ottica delle relazioni interetniche dattiloscritto alla Cooperation Publishing Co. di Emery Reeves, nel Rockfeller Plaza. In realtà, l’esame delle bozze tipografiche dimostra che Karski avrebbe aggiunto il post scriptum dopo che il dattiloscritto era stato composto per la stampa. Da notare che le bozze di stampa riportano ancora il titolo Courier from Poland. The Story of a Secret State 1939-1944 con le date 1939-1944 cancellate. Cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. Raporty, cit., pp. 471-472. 27 In Recording the Holocaust, intervista rilasciata a Ernie Meyer, in «The Jerusalem Post», International Edition, 1338, 28.06.1986, p. 9. 28 “The description of the Warsaw Ghettos convincing enough, but there were no Estonian guards at Belzec. Warsaw Jews were not sent to the camp; and no train filled with people left from there”. Ibidem. 29 [JAN KARSKI], The Jewish Mass Executions, cit., p. 9. 30 IDEM, Story of a Secret State, cit., p. 339. 31 WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać, cit., p. 14. È interessante notare quello che Jan Karski affermava nell’intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny»: “All’epoca pensavo che Bełżec fosse un campo di transito” (“Wówczas myślałem, że Bełżec był obozem przejściowym”), confermando involontariamente che il campo visitato non poteva essere quello di Bełżec, bensì, con ogni probabilità, il ghetto di transito di Izbica Lubelska. Nell’intervista, Karski dichiarava di aver assistito alla partenza di un trasporto destinato a Sobibór, dal momento che la gassazione effettuata a Bełżec col monossido di carbonio emesso da motori diesel non stava dando i risultati sperati. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5. 19 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI quanto nella speranza di riuscire a mantenere possesso della città di Leopoli32. Se il libro fu da subito un successo clamoroso, sicuramente lo dovette anche al suo intrinseco valore artistico: come notava Karski, Reeves e il suo editor William Poster ritenevano che il testo fin dall’inizio avesse dimostrato una certa freschezza, che fosse stato scritto “non senza talento letterario”33. Il “Book of the Month Club” lo proclamò libro del mese nel gennaio del 194534. La tiratura raggiunse l’incredibile cifra di 360.000 copie. Vi fu forse una sola voce discordante, all’epoca, quella dello scrittore hard boiled Dashiell Hammett, fervente stalinista, che nelle sue lettere definiva il libro “idiota e privo di un qualsiasi interesse”, “disonesto nel farci credere che il governo polacco in esilio abbia a che fare col movimento progressista in Polonia” dal momento che in tutto il testo non faceva la sua comparsa un solo lavoratore35. Gli accordi di Jalta e la fine della guerra, con la mutata situazione politica, finirono però con il togliere di attualità al suo impianto politico, così che a partire dal 1948 – data della traduzione francese – il testo finì progressivamente con l’essere dimenticato. Jan Karski verrà letteralmente “resuscitato” nel 1977 da Claude Lanzmann durante la preparazione di Shoah: nelle sue memorie, il regista francese ha infatti scritto di aver ritenuto che 20 l’emissario fosse morto, e di essere riuscito a rintracciarlo soltanto dopo notevoli traversie36. Nel 1981, Elie Wiesel inviterà Karski alla prima conferenza internazionale dei Liberatori tenutasi in ottobre a Washington. L’anno successivo, lo Yad Vashem lo invita a Gerusalemme per insignirlo della medaglia di Giusto tra 32 Cfr. WALDEMAR PIASECKI, Jak czytać, cit., p. 15. Occorre però osservare come ancora nel 1987 nell’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski del «Tygodnik Powszechny», Jan Karski ribadisse tutte le informazioni contenute in Story of a Secret State, parlando di “campo di sterminio di Bełżec” e di guardiani “estoni”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5. 33 E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, op. cit., p. 226. 34 Karski scriveva nel suo rapporto che la prima correzione di bozze aveva avuto luogo agli inizi di settembre e il libro sarebbe dovuto andare in libreria il 17 ottobre. Il “Book of the Month Club” aveva fatto un’eccezione, permettendo a Story of a Secret State di essere pubblicato prima della sua proclamazione a “libro del mese”. L’emissario dal canto suo era riuscito a ottenere dall’editore un rinvio della pubblicazione fino al 28 novembre. Zofia Kossak aveva dovuto aspettare ben tre mesi prima che Blessed are the Meek, traduzione di Bez oręża, andasse in stampa, nonostante il testo fosse già pronto, a causa delle esigenze del “Book of the Month Club”. Cfr. JAN KARSKI, Raport o książce, cit., p. 5. 35 Scriveva Dashiell Hammett a Lillian Hellman il 25 febbraio 1945: “I also read somebody’s Story of a Secret State, a foolish and empty attempt to make believe the Polish Government in Exile had something to do with a legitimate underground movement in Poland. An amazing book in that nobody even faintly resembling a workers has anything to do – except perhaps by accident – with the resistance movement”. Cfr. Selected Letters of Dashiell Hammett. 1921-1960, a cura di Richard Layman, Julie M. Rivett, Counterpoint, Washington 2001, pp. 407-408. 36 CLAUDE LANZMANN, La lièvre de Patagonie, Gallimard, Paris 2009, pp. 707-708. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 le nazioni. Quando nel 1985 uscirà il capolavoro di Lanzmann, Shoah, inizierà la “seconda fase della missione di Karski”: questa volta l’autore di Story of a Secret State avrà il compito di ricordare l’indifferenza degli Alleati di fronte al consumarsi del genocidio37. Dovendo effettuare una scelta del materiale girato, Lanzmann introduce nel suo film i quaranta minuti che ritiene più significativi da un punto di vista artistico, quelli che faranno dire a David Denby che il racconto di Karski regge il confronto con i passi più tormentati e cruciali delle tragedie di Shakespeare38. Di fatto, però, il materiale utilizzato da Lanzmann non riguardava specificamente il ruolo di “messaggero” svolto da Karski presso le potenze occidentali, bensì quello di “testimone” delle persecuzioni degli ebrei 39. Sarà proprio Karski nel 1986 a segnalare, nella sua recensione a Shoah comparsa sulla parigina «Kultura» come, per ragioni di tempo e di coerenza stilistica, Lanzmann non avesse inserito nel film la parte più importante, a suo avviso, dell’intervista: quella relativa alla missione effettuata presso gli Alleati occidentali alla fine del 194240. A questo proposito, occorre sottolineare come il giudizio di Jan Karski a proposito di Shoah sia comunque sempre stato un giudizio estremamente positivo. Nell’intervista rilasciata a Maciej Kozłowski, non solo l’emissario affermava che Shoah era “un gran film”, ma anche che la maggior parte della stampa polacca non ne aveva compreso l’intento: “È un film sui meccanismi dello sterminio degli ebrei. Solo ed esclusivamente. [...] Lanzmann ha fatto un film sui meccanismi dello sterminio, non sul rapporto tra i polacchi o qualcun altro e gli ebrei, o su ciò 37 Cfr. ANDRZEJ ŻBIKOWSKI, Jan Karski, Świat Książki, Warszawa 2011, p. 358. DAVID DENBY, Out of Darkness, in Claude Lanzmann’s Shoah. Key Essays, a cura di Stuart Liebmann, Oxford 2007, p. 74. Annette Becker ha sottolineato il ruolo cruciale svolto da Shoah di Lanzmann nel far divenire Jan Karski un “personaggio”: “Á travers ces differénts temps, ces différents films d’entretiens tournés de 1978 à aujourd’hui, on voit peu à peu advenir un personnage, Jan Karski”. I film a cui la storica si riferisce sono Shoah e il successivo Le rapport Karski di Lanzmann. [Il corsivo è mio, L.B.]. Cfr. ANNETTE BECKER, Devenir Karski: l’usage des interviews filmées, in La Shoah. Théâtre et cinéma aux limites de la représentation, a cura di Alain Klenberger, Philippe Mesnard, Editions Kimé, [s.l.] 2013, p. 265. 39 Cfr. JAN KARSKI, Shoah (Zagłada), in «Kultura», fasc. 11 (458), novembre 1986, p. 123. La traduzione integrale della recensione di Karski è pubblicata in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 150-155. 40 IVI, pp. 121-124. Troviamo nella recensione comparsa su «Kultura» un’annotazione di Karski che non figura né in Shoah né nel Rapport Karski (2010), ma che ritengo particolarmente significativa: “I leader delle nazioni, i governi più potenti o hanno deciso lo sterminio, o hanno preso parte allo sterminio o hanno assistito indifferenti allo sterminio. Sono stati singoli individui, persone normali, migliaia di persone a solidarizzare con gli ebrei e portargli aiuto” (“Przywódcy narodów, potężne rządy, albo decydowały o tej zagładzie, albo w tej zagładzie brały udział, albo wobec tej zagłady zachowały obojętność. Ludzie, zwykli ludzie, tysiący ludzie współczuło z Żydami lub szło im z pomocą”, p. 124). 38 21 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI che venne fatto per salvarli”41. Lo stesso Lanzmann gli aveva detto di essere interessato a tre sole categorie di interlocutori: gli ebrei sopravvissuti al genocidio, i tedeschi che lo avevano realizzato e coloro che vi avevano assistito. E in quella veste Karski aveva preso parte, con altri polacchi, a un film che avrebbe influito sulla consapevolezza di milioni di persone42. È evidente che Shoah di Lanzmann ha in qualche modo conferito una nuova dignità documentaria alla testimonianza di Jan Karski. Con ogni probabilità, è proprio dopo aver visto il film che Raul Hilberg ha ospitato l’intero racconto riportato in Story of a Secret State all’interno di Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, nel capitolo dedicato ai Testimoni43. Non si può escludere che siano stati il carattere tragico e l’indubbia sincerità dell’esposizione di Karski ad aver convinto Hilberg dell’attendibilità storiografica delle informazioni da lui a più riprese trasmesse. Non è facile capire quindi che cosa intenderà dire, qualche anno più tardi, Yannick Haenel – autore di un celebre romanzo sulla figura dell’emissario – allorché in un’intervista su «Libération» affermava che “Hilberg elimina scientificamente la testimonianza di Karski”44. Peraltro, all’interno del dibattito storiografico, la posizione di Karski come testimone attendibile dell’Olocausto si era venuta raf22 forzando ben prima dell’uscita di Shoah. Raccogliendo i materiali necessari per The Terrible Secret, lo storico Walter Laqueur aveva condotto una lunga intervista con l’emissario, non dubitando mai della veridicità del suo racconto 45. Oggi, 41 “Jest to film o mechanizmie zagłady Żydów. Tylko i wyłącznie. [...] Lanzmann robił film o mechanizmie zagłady, nie o stosunku Polaków czy innych do Żydów, ani o akcji pomocy Żydów”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6. 42 È degno di nota come già nel 1987 Karski prevenisse le polemiche di stampo nazionalista che Shoah avrebbe destato nella Polonia socialista prima e in quella democratica poi. I polacchi che comparivano nel film, sottolineava Karski, erano in prevalenza contadini abitanti nei dintorni dei campi di sterminio. Se si erano comportati come Lanzmann aveva mostrato nel film, la colpa non era certo del regista, che non sapeva il polacco e non avrebbe certo potuto suggerire loro che cosa dire. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6. 43 A testimoniare l’influenza esercitata dal capolavoro di Lanzmann sul libro di Hilberg è – più che una singola citazione a pag. 176 – l’epigrafe apposta al capitolo dedicato ai Bystanders: “He says, it’s this way: if I cut my finger, it doesn’t hurt him”. – A translator explaining an answer given to Claude Lanzmann by Czesław Borowi [sic!], a Pole who lived ner the death camp Treblinka”, RAUL HILBERG, Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, Harper Collins Publishers, New York 1992, p. 192. 44 “Hilberg élimine scientifiquement le témoignage de Karski”. Cfr. ERIC LORET, Karski le porteur de parole. Interview: Yannick Haenel relit son best-seller à la lumière des critiques, in «Libération», 22.10.2009, <tinyurl.com/psmnv5x> [consultato il 03.02.2014]. 45 Alla missione di Jan Karski Laqueur dedica gran parte della quinta appendice al libro. In una nota a p. 232 troviamo: “I am grateful to Professor Jan Karski for having patiently submitted to detailed questioning (Washington, 3 September 1979)”. Cfr. WALTER LAQUEUR, The Terrible PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 dopo Shoah di Lanzmann, comprendiamo che il merito principale di Laqueur è quello di aver dimostrato che non solo Karski era un testimone attendibile ma anche e soprattutto il messaggero di una verità scomoda, volutamente ignorata dai governi delle potenze alleate: dal momento che il genocidio degli ebrei perpetrato dai tedeschi aveva motivazioni politiche, non militari, solo prendendo la decisione politica di far pagare alla popolazione tedesca il prezzo del suo appoggio al regime nazista sarebbe stato possibile mettervi fine. L’aver subordinato la volontà di fermare l’Olocausto alle esigenze militari del conflitto non aveva significato altro che permettere ai tedeschi di portarlo a termine. Conclusioni simili, ma esplicitate in modo più chiaro che in Story of a Secret State, Karski le avrebbe esposte nella intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» nel 1987: “Lord Selbourne [...] mi disse in tutta sincerità che non sarebbe stato possibile dare seguito alle richieste degli ebrei polacchi, dal momento che il primo obiettivo degli Alleati era quello di vincere la guerra, così che tutto ciò che non avesse avuto significato da un punto di vista militare andava trattato come una ‘side issue’, una questione marginale”46. In assenza di una traduzione polacca del testo di Story of a Secret State47, Karski nel suo paese d’origine torna a essere, esattamente come nel 23 Secret. An Investigation into the Suppression of Information about Hitler’s ‘Final Solution’, Weidenfeld and Nicolson, London 1980, pp. 229-237. 46 “[...] Lord Selbourne [...] powiedział mi bardzo szczerze, że postulaty Żydów polskich są niemożliwe do spełnienia, gdyż głównym celem sprzymierzonych jest wygranie wojny i wszystko, co nie ma znaczenia militarnego musi być uważany jako ‘side issue’, czyli sprawa poboczna”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5. 47 Nell’intervista concessa nel 1990 a Justyna Duriasz per «Rzeczpospolita» troviamo: “Non vorrebbe che il libro venisse pubblicato in polacco? – No, non mi interessa, perché si tratta di mie vicende personali. E Le posso assicurare che tra tutte le centinaia di persone che ho incontrato, quella che mi interessa meno è Jan Karski. Per di più, nel frattempo sono usciti così tanti libri sullo Stato segreto polacco che le notizie da me trasmesse e che nel 1944 potevano essere una rivelazione su scala mondiale, oggi non introducono elementi di novità nel dibattito storiografico. (“Nie chciałby Pan, żeby ta książka została przetłumaczona na polski? – To mnie nie interesuje, osnową jej to są moje osobiste losy. A zapewniam Panią, że z setek ludzi, których poznałem, człowiekiem, który mnie najmniej interesuje jest Jan Karski. Poza tym tyle książek ukazało się po polsku na temat państwa podziemnego, że wiadomości, które podaję i które w 1944 były międzynarodową sens-rewelacją, obecnie w [sic!] punktu widzenia historycznego nie wniosą nic nowego”). [JAN KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], Własna racja stanu. Rozmowa z profesorem Januszem [sic!] Karskim, rozmawiała Justyna Duriasz, in «Rzeczpospolita», 16.04.1990, p. 6. Già nel 1945, Karski aveva affermato che “il mio libro non è stato scritto per i polacchi, bensì per gli stranieri che non conoscono la Polonia e le difficoltà in cui si dibatte. Per questo è un libro consapevolmente ingenuo, tendente alla semplificazione, sicuramente non sovraccarico di date e fatti, un libro da tenere sul comodino, non un manuale. [...] Voglio sottolinearlo con forza: il mio libro non è stato scritto per i polacchi” (“Książka moja jest pisana nie dla Polaków, a dla cudzoziemców, nie znających Polski i jej kłopotów. Dlatego bardzo często jest świadomie naiwna, prostacka, nie przeciążona datami i faktami, kameralna, a nie podręcznikowa. [...] Podkreślam bardzo silnie, że książka moja nie jest dla LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI 1943, un personaggio letterario48. Nel 1992 esce infatti Misja ostatniej nadziei (successivamente ripubblicato come Karski) di Jerzy Korczak49, un romanzo che di fatto costituisce una sorta di parafrasi del testo del libro, correggendone le inesattezze storiche e approfondendo quegli aspetti che nell’edizione del 1944 erano stati trascurati per ragioni politiche, come la spinosa questione dei rifornimenti di armi da parte dell’Armia Krajowa alle organizzazioni della Resistenza ebraica, le forti tensioni all’interno del governo in esilio dopo la morte del premier Władysław Sikorski avvenuta in un disastro areo nel luglio del 1943 o le attività al soldo di Mosca della Resistenza comunista50. Nell’introduzione alla prima edizione, Korczak riconosceva come “la figura di Jan Karski, il celebrato emissario dello Stato polacco clandestino, sia stata per me motivo di grande fascinazione tanto letteraria quanto storica”51. L’interesse di Korczak per gli aspetti 24 Polaków”). Durante la guerra, una richiesta da parte della cooperativa editoriale Rój di pubblicare il libro in polacco aveva trovato la netta opposizione di Karski, la cui decisione era stata pienamente condivisa da Stanisław Kot, ministro dell’Informazione, e dall’ambasciatore Jan Ciechanowski. Cfr. [JAN KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], op. cit., p. 6; JAN KARSKI, Raport o książce, cit., p. 3. 48 In realtà Jan Karski figura – non sorprendentemente – tra i ricordi di Antoni Słonimski raccolti nelle pagine di Alfabet wspomnień. Lo scrittore ricostruiva il suo incontro londinese con l’emissario – “riservato, serio, con la figura di uno di quei patrioti di Grottger” durante una conferenza organizzata dal ministro dell’Informazione del governo in esilio. Słonimski era rimasto colpito dall’insistenza con cui Karski aveva richiesto che le emittenti radio non si limitassero a trasmettere notizie di guerra, ma anche poesie dall’effetto mobilitante “come quella il cui autore si trova tra noi”. L’allusione era alla celebre Alarm di Słonimski. Cfr. ANTONI SŁONIMSKI, Alfabet wspomnień, PIW, Warszawa 1975, pp. 95-96. 49 JERZY KORCZAK, Misja ostatniej nadziej, Oficyna wydawnicza Volumen, Warszawa 1992, poi Karski, Oficyna wydawnicza Rytm, Warszawa 2001, e Karski. Opowieść biograficzna, Veda, Warszawa 2010. Si può qui ricordare come la prima biografia di Jan Karski sia stata pubblicata a New York, in polacco, da Stanisław M. Jankowski proprio l’anno prima dell’uscita del romanzo di Korczak: cfr. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Emisariusz “Witold”, Bicentennial Publishing Corporation, New York 1991. 50 Sembra che le convinzioni di Yannick Haenel a proposito del presunto “silenzio” degli storici sul contributo apportato da Karski alla storiografia sullo sterminio degli ebrei abbiano trovato eco in Polonia, del momento che nell’introduzione alla nuova edizione di Karski. Opowieść biograficzna nel 2010 Jerzy Korczak scriveva che “le gesta di Karski per anni sono state passate sotto silenzio da storici e scrittori” [N.B.: questo inciso manca nell’introduzione alla prima e alla seconda edizione del libro]. Come si è precedentemente dimostrato, una simile affermazione non ha alcun fondamento, tanto per quanto riguarda gli storici, quanto per ciò che concerne gli scrittori. Né contribuisce in modo fattivo al dibattito su Jan Karski un’altra discutibilissima annotazione, quella che vorrebbe aver Lanzmann ospitato nel suo film Shoah “appena una mezz’ora” delle conversazioni – durate alcune ore – avute con Jan Karski (“[d]okonania Karskiego przez lata nie były dostrzegane przez historyków i pisarzy”; “z wielogodzinnych rozmów z Karskim [...] Claude Lanzmann [...] to tylko niespełna pół godziny wybrał do swojego głośnego filmu dokumentalnego pt. Shoah”). JERZY KORCZAK, Od autora, in IDEM, Karski. Opowieść, cit., p. 7. 51 “[P]ostać Karskiego, legendarnego emisariusza Polski Podziemnej, była dla mnie od dawna literacką i historyczną fascynacją”. IVI, p. 6. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 letterari della vicenda di Karski è stato talmente forte da spingerlo a segnalare come Józef Hieronim Retinger, consigliere del generale Sikorski e mentore di Karski nel suo soggiorno londinese, avesse iniziato a scrivere una piéce teatrale sulla rivoluzione messicana insieme a Joseph Conrad, di cui era buon amico52. La ripubblicazione di Mon témoignage devant le monde. Histoire d’un État secret, la traduzione francese del libro di Karski uscita nel 1948, e integrata nel 2004 con i materiali comparsi nella traduzione polacca del 1999 53, sembra essere stata lo spunto per la stesura di Jan Karski (Gallimard, Paris 2009), dove Yannick Haenel ha riunito, in una discussa operazione, il testo dell’intervista comparsa in Shoah di Lanzmann, un riassunto di Story of a Secret State e un terzo capitolo (fortemente indebitato con Karski. How one man tried to stop the Holocaust di Wood e Jankowski) incentrato su una sua personale, fantasiosa e fortemente polemica ricostruzione dell’incontro dell’emissario con F.D. Roosevelt. Sicuramente una delle immagini più forti del libro è quella del presidente degli Stati Uniti che accoglie Karski dopo aver mangiato, mentre sta digerendo – oltre alla cena – anche lo sterminio degli ebrei di Europa di cui si sarebbe reso complice 52 IVI, pp. 129-130. Della piéce, scritta in francese e la cui trama era ambientata in Messico al tempo della rivoluzione condotta da un dittatore assai simile al generale Victoriano Huerta, Józef Hieronim Retinger ha lasciato una descrizione nel capitolo At Random di Conrad and His Contemporaries, Roy Publishers, New York 1943, pp. 140-145. Józef Hieronim Retinger si era addottorato in legge a Cracovia e in scienze umane alla Sorbona. Autore di una Histoire de la litérature française du romantisme à nos jours (Paris 1911) e di un trattato su The Poles and Prussia (London 1911) Retinger aveva conosciuto Joseph Conrad grazie ad Arnold Bennet, di cui era amico. Fu sua madre che invitò Conrad a visitare la Polonia nel 1914. Cfr. anche Conrad’s Polish background: letters to and from Polish friends, a cura di Zdzisław Najder, Oxford University Press, London 1964, pp. 261-262. 53 Per una disamina degli interventi operati da Jan Karski sul testo di Tajne Państwo, la prima traduzione polacca di Story of a Secret State, si rimanda a LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno stato segreto, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013, pp. 508-511. Qui si può segnalare come i cambiamenti maggiori abbiano riguardato il trentesimo capitolo, Ostatni etap, dove Karski ricostruiva la sua visita al ghetto di transito in funzione a Izbica Lubelska. Nel 1999, infatti, non solo erano venuti meno i condizionamenti politici che durante la guerra lo avevano costretto a dichiarare come estone o lettone la nazionalità dei guardiani del campo, ma la ricerca storiografica aveva ormai stabilito che quel campo non poteva essere Bełżec. Nella traduzione polacca pertanto non si specifica da quale ghetto giungessero nel campo i deportati, né si sostiene che venissero sterminati in vagoni ferroviari il cui pavimento era stato cosparso di calce viva, anche se Karski conferma che a causa di un simile procedimento, per il progressivo consumarsi dell’ossigeno e le esalazioni di cloro, “erano molti i ‘viaggiatori’ a morire durante il trasporto. E proprio questo era lo scopo dei convogli” (“transportu tego nie przeżywało wielu ‘podróżnych’. A o to przecież chodziło”). Cfr. JAN KARSKI, Tajne Państwo. Opowieść, cit., p. 261. Una nuova traduzione polacca è stata pubblicata quest’anno dalla casa editrice Znak: JAN KARSKI, Tajne Państwo, trad. di Grzegorz Siwek, Znak, Kraków 2014. 25 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI per inanità: “Credo che digerisse; pensavo: Franklin Delano Roosevelt è un uomo che digerisce... sta già digerendo lo sterminio degli ebrei d’Europa”54. Molto più che a Karski, con molta probabilità Haenel è debitore di questa immagine ad Arthur Koestler e al suo articolo On Disbelieving Atrocities. Indignato dalla spaventosa indifferenza dell’opinione pubblica occidentale nei riguardi delle notizie sullo sterminio degli ebrei, l’autore di Buio a mezzogiorno aveva osservato come la vista di un cane investito da un’automobile ci rovinasse la digestione, non così invece la notizia della morte di tre milioni di ebrei polacchi55. Haenel ha avuto la capacità di creare il personaggio di Jan Karski come una figura tragica, cogliendone la caratteristica di messaggero divenuto esso stesso messaggio. Non stupisce quindi che il suo testo abbia ricevuto un adattamento teatrale a opera di Arthur Nauzyciel, Jan Karski (Mon nom est une fiction), messo in scena al Festival di Avignone, nel luglio del 2011, in collaborazione con il noto artista polacco Mirosław Bałka. Un altro merito dell’autore di Jan Karski è stato quello di spingere Claude Lanzmann a produrre Le rapport Karski (Francia 2010), montando ulteriori quaranta minuti dell’intervista, incentrati sui colloqui dell’emissario con Franklin D. Roosevelt e il giudice Felix Frankfurter56. Proprio 26 grazie al nuovo film di Lanzmann il grande pubblico sarebbe venuto a conoscenza del fatto che Frankfurter non era “stato in grado” di credere a ciò che Karski gli aveva appena detto al riguardo del genocidio degli ebrei 57. Il regista francese avrebbe in questo modo permesso al mondo di comprendere come Jan Karski non fosse stato un semplice testimone della Shoah, ma anche una delle 54 “Je croit qu’il digérait; je me disais: Franklin Delano Roosevelt est un homme qui digère – il est déjà en train de digérer l’extermination des Juifs d’Europe”. Cfr. YANNICK HAENEL, Jan Karski. Roman, Gallimard, Paris 2009, p. 125 (Il testimone inascoltato, trad. it. di Francesco Bruno, Guanda, Parma 2009, p. 145). 55 “A dog run over by a car upsets or emotional balance and digestion; three million Jews killed in Poland cause but a moderate uneasiness”. ARTHUR KOESTLER, On Disbelieving Atrocities, cit., p. 91. 56 Jan Karski, nella sua recensione di Shoah, aveva sottolineato come la parte dell’intervista relativa ai colloqui avuti con Antony Eden e il presidente F.D. Roosevelt dimostrasse che non era stata l’umanità intera ad abbandonare gli ebrei al proprio destino (come avrebbe di fatto sostenuto nel suo film Claude Lanzmann), bensì i governi delle potenze occidentali, le uniche che avevano i mezzi per andare loro in aiuto. Avendo il regista francese scelto di attenersi rigidamente alla propria linea interpretativa, nel film mancava “la parte più importante della mia missione a favore degli ebrei”. Cfr. JAN KARSKI, Shoah, cit., pp. 123-124. 57 Già nel 1968, Derek Tangye, agente del MI 5 che aveva conosciuto Karski a Londra durante la guerra, constatava come nel maggio 1943 l’emissario “[...] knew that the hardest part of his assignment was in the present. He had to convince people like me that he was speaking the truth”. Cfr. DEREK TANGYE, The Way to Minack, Michael Joseph Ltd., London 1968 (edizione consultata: Sphere Books, London 1981), p. 148. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 poche persone ad aver fatto concretamente qualcosa per cercare di porre fine allo sterminio degli ebrei. Può essere interessante notare come in determinate circostanze sia stato lo stesso Karski a sfatare, magari solo in parte e preventivamente, il mito del “testimone inascoltato”. Nell’intervista pubblicata su «Tygodnik Powszechny» nel 1987, a una domanda di Maciej Kozłowski se fosse vero che la missione americana non aveva prodotto alcun risultato concreto, il professore di Georgetown rispondeva di aver letto a suo tempo una dichiarazione di John Pehle, dove il primo direttore dell’American Refugee Board affermava che era stata proprio la missione di Karski ad aver convinto il presidente F.D. Roosevelt, uscito profondamente scosso dall’incontro con l’emissario, della necessità di dare immediatamente vita a un’organizzazione per l’aiuto ai rifugiati. L’American Refugee Board, d’altra parte, aveva iniziato le sue attività soltanto nel febbraio del 1944, quando – ad avviso di Pehle – oramai era troppo tardi58. Il “messaggero Karski” è uno dei protagonisti del romanzo di Bruno Tessarech Les sentinelles59, incentrato su coloro che sapevano del genocidio degli ebrei e che a vario titolo durante il secondo conflitto mondiale hanno o non hanno cercato di fare qualcosa per fermarlo, essendone in taluni casi persino responsabili (come nel caso di Adolf Eichmann e – in una qualche misura – di Werner Von Braun)60. Forse un po’ paradossalmente per un romanziere, Tessa58 Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 6. D’altra parte, è anche vero che successivamente Karski si sarebbe chiesto se ciò che Pehle aveva affermato alla conferenza dei Liberatori tenutasi a Washington nel 1981 non fosse stato una specie di atto di cortesia nei suoi confronti, dal momento che in Shoah il direttore del War Refugee Board non aveva fatto menzione di Jan Karski, né pertanto accennato a un possibile esito concreto dell’incontro del 28 luglio 1943. Fatta salva la possibilità che una simile informazione non sia stata montata nel film per le ragioni di cui sopra, verrebbe da chiedersi se la diversa posizione assunta da Karski a questo proposito non dipendesse solo dallo specifico momento storico e politico, ma anche dalla nazionalità dell’interlocutore: nel 1987 negare di essere stato un “testimone inascoltato” su un periodico polacco aveva un significato ben diverso che ammettere questa eventualità con un interlocutore statunitense otto anni più tardi. Si veda l’intervista rilasciata da Jan Karski a Elizabeth S. Rotschild (non ad Hannah Rosen, personaggio fittizio e mai esistito, come riporta erroneamente Jean-Louis Panné), che si trova sul sito web dedicato allo “Hannah Rosen Diary”: <www.remember.org/educate/hrintrvu.html> [consultato il 15.11.2014]. Cfr. anche JEAN-LOUIS PANNE, op. cit., p. 21. 59 BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, Grasset, Paris 2009. 60 Uno dei protagonisti del libro di Tessarech è l’Obersturmführer delle SS Kurt Gerstein, che il 19 agosto 1942 aveva consegnato un carico di Ziklon B a Bełżec e Treblinka, assistendo di persona a una gassazione. Incontrato casualmente un diplomatico svedese, il barone Göran von Otter, Gerstein gli aveva raccontato nel dettaglio ciò di cui era stato testimone, ma l’ambasciata svedese a Berlino non avrebbe trasmesso agli Alleati l’informazione ottenuta che a guerra finita. Le vicende di Gerstein, che aveva cercato di riferire le notizie in suo possesso al vescovo protestante Otto Dibelius e al nunzio papale Cesare Orsenigo, erano già note negli anni Sessanta e sono state ricostruite da Hilberg nel suo Perpetrators, Victims, Bystanders. Può essere interessante notare come 27 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI rech accorda molto rilievo alla questione dell’attendibilità del dato fattografico trasmesso da Karski61: fa infatti ammettere allo stesso emissario che, per quanto concerneva le modalità della soppressione degli ebrei a Bełżec, “la mia testimonianza non coincideva con quella di altri”62. In effetti, il particolare della esecuzione ottenuta stipando i deportati in vagoni dal pavimento ricoperto di calce viva non trova altri riscontri nella letteratura sull’argomento, ma il dato fondamentale rimaneva pur sempre ciò che aveva visto il testimone: “treni carichi di esseri umani in partenza per la morte”. “Tutto questo non lo avevo sognato”, protesta disperato il Karski di Tessarech: “quali che fossero i mezzi dello sterminio, il loro orrore oltrepassava [infatti] i confini dell’immaginazione di essere umani civilizzati”63. Tessarech prende le distanze dall’assunto di un Roosevelt complice dello sterminio degli ebrei operato dai nazisti, per la passività con cui vi avrebbe assistito. Lo scrittore ricorda come fosse stato proprio il presidente americano a farsi promotore della dichiarazione ufficiale dei tredici governi alleati con cui il 17 dicembre del 1943 per la prima volta si condannavano ufficialmente le deportazioni e lo sterminio degli ebrei d’Europa. Nella visione di Tessarech, la Shoah assume le dimensioni di una tragedia che forse avrebbe potuto essere prevenuta, 28 magari a partire dalla conferenza di Evian sui rifugiati del 1938, ma non più fermata durante il conflitto, quando Hitler aveva rivelato di essere “il male assoluto, dal momento che il suo potere è tale da impedirci di agire contro di lui”64. Un male che si nasconde in ognuno di noi: il Roosevelt di Tessarech muore Jan Karski nell’intervista pubblicata sul «Tygodnik Powszechny» menzionasse la testimonianza di Kurt Gerstein, mettendola in relazione con la visita che riteneva di aver effettuato a Bełżec. Karski peraltro sosteneva che il rapporto, senza che venisse fatto il nome di Gerstein, fosse giunto a Londra alla fine del 1943 e fosse stato letto dalle autorità polacche. Cfr. RAUL HILBERG, Perpetrators, cit., pp. 218-221; [JAN KARSKI, MACIEJ KOZŁOWSKI], op. cit., p. 5. 61 Si può arrischiare l’ipotesi che Tessarech non solo abbia basato l’impianto narrativo del suo romanzo su Perpetrators, Victims, Bystanders ma anche che – per ciò che concerne lo specifico trattamento del testimone Jan Karski – abbia ricostruito in modo mimetico l’intero itinerario ermeneutico di Hilberg, dallo scetticismo iniziale alla piena fiducia finale. 62 Nel caso in cui al concetto di “testimonianza per il testimone” si voglia conferire la valenza di volontà di una corretta ricostruzione storica, Tessarech sembra affrontare in modo assai più deciso e convincente, anche se sicuramente più problematico, l’interrogativo celaniano posto da Yannick Haenel in esergo al suo libro: “Chi testimonia per il testimone?”. 63 “Et cela, je ne l’avais pas rêvé. [...] Quels que soient les moyens utilisés, leur horreur dépassait l’imagination d’êtres humains civilisés”. Cfr. BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, cit., p. 219. 64 “[...] le mal absolut, puisque son pouvoir est tel qu’il nous empêche d’agir contre lui”. Cfr. IVI, p. 296. Perché, spiega Roosevelt nelle pagine del romanzo, l’orizzonte in cui si muovevano i governi alleati era quello della politica, non quello della morale (“[n]ous restons dans la politique. Pas dans la morale”, IVI, p. 294). PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 pensando a ciò che sarebbe potuto accadere negli Stati Uniti se il presidente del Jew Deal, odiato da tanta parte di un’opinione pubblica isolazionista e antisemita, avesse impegnato la macchina bellica statunitense per il salvataggio degli ebrei d’Europa e non per la sconfitta del regime hitleriano e del Giappone imperialista. Nel complesso, Tessarech sembra essere molto più consapevole dell’enorme ammirazione nutrita da Karski per la figura del presidente degli Stati Uniti e – in questo – molto più vicino alla verità storica, e alla reale psicologia del personaggio, di quanto non lo sia stato Haenel. Anche se non si può non concordare con Annette Becker, quando sostiene che il quadro tratteggiato da Haenel nel suo romanzo è “certes imprécis sous l’angle du déroulement factuel de l’historie, mais très efficace du point de vue d’une vision de la réalité de l’histoire”, rimane motivo di perplessità il fatto che l’avversione nei confronti di FDR esibita dal personaggio haeneliano diverga in modo così radicale dalla venerazione provata dal Karski “reale”, anche a distanza di tempo. Se il Roosevelt di Haenel scandalizza Karski perché, durante il loro colloquio, ogni tanto si volta a guardare le gambe di una peraltro esclusivamente romanzesca segretaria (“De temps en temps, il se tournait vers la femme au chemisier blanc, il ne se gênait pas pour regarder les jambes”65), quello storico aveva fatto all’emissario l’impressione di essere “un grande uomo di Stato [...] il padrone del mondo. Non vi ravvisai alcun segno di debolezza o malattia. Soltanto grandezza, maestà. Rimasi talmente colpito da quella conversazione che, dopo essermi congedato, presi a indietreggiare verso la porta. A causa di quel gesto l’ambasciatore Ciechanowski mi avrebbe preso in giro ancora per anni. Appena usciti mi disse: ‘È il presidente, non è mica un re. Qui c’è la democrazia’”66. In precedenza, Karski aveva spiegato le origini psicologiche di un simile atteggiamento: “Il fatto è che persone come Roosevelt o Churchill, che in ogni caso non ho mai incontrato, persone che tenevano letteralmente in pugno le future sorti del mondo, a me – giovane soldato – non potevano che sembrare semidei”67. 65 YANNICK HAENEL, Jan Karski, cit., p. 125: “[...] lanciava una rapida occhiata in direzione della donna dalla camicetta bianca, ne approfittava per guardarle le gambe [...]”. (Trad. it., p. 109). 66 “Roosevelt zrobił na mnie wrażenie wielkiego męża stanu, widziałem w nim pana świata. Nie dostrzegłem w nim żadnych oznak choroby ani słabości. Sama wielkość, majestat. Byłem do tego stopnia przejęty tą rozmową, że po pożegnaniu, do drzwi szedłem tyłem. Z czego potem wiel lat śmiał się ambasador Ciechanowski, który po moim wyjściu powiedzial: ‘To nie król, to prezydent. Tu jest demokracja’”. Cfr. [JAN KARSKI, JUSTYNA DURIASZ], op. cit., p. 6. 67 “Przecież tacy ludzie jak Roosevelt czy Churchill, którego zresztą nie spotkałem, ludzie 29 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI I giudizi su Roosevelt di Haenel e Tessarech non potrebbero pertanto essere più divergenti, ma a unire i due romanzi è la convinzione che il testimone e messaggero Jan Karski faccia appello alla nostra coscienza tutti i giorni, da settant’anni. Il protagonista del libro di Tessarech, Patrice Orvieto, dopo la morte di Jan Karski, avvenuta il 13 luglio del 2000, ritrova le lettere scritte dall’emissario ai governanti del mondo affinché aprissero gli occhi sul genocidio degli ebrei: Aveva scritto a Churchill, Roosevelt, de Gaulle, Stalin, e ancora ad altri, Eden, Wise, Frankfurter, a tutti coloro che aveva cercato di convincere, a Londra o a Washington. Ma ben presto l’emozione di Patrice dovette cedere il passo allo stupore. Jan aveva continuato a scrivere ai governanti anche dopo la loro morte, accumulando testimonianze, prove, ponendo interrogativi sul loro silenzio. Scoprì anche una lunga lettera a Szmul Zygielbojm, il rappresentante del Bund, scritta per farsi perdonare. Era datata un mese dopo che Zygielbojm si era suicidato. Le ultime che aveva spedito a Roosevelt e a Churchill risalivano al 20 giugno del 2000 68. E Karski continua davvero a inviare le sue lettere, non solo ai potenti della terra, ma a tutti noi69. Lo stanno a dimostrare le continue riedizioni della sua Story 30 of a Secret State, quella Penguin – la prima – del 201170, quella tedesca, Mein Bericht an die Welt, uscita per i tipi della Antje Kunstmann Verlag, München 2011, le traduzioni castigliana e catalana pubblicate a Barcellona nello stesso anno71, quella russa Ja svidetel'stvuju pered mirom. Istoria podpol'nogo gosudarstva uscita a Mosca per Astrel’ nel 201272, la traduzione giapponese Watakushi-wa Horokōdosłownie trzymający w ręku przyszłe losy świata, wydawać się musieli mnie, młodemu żołnierzowi, niemal półbogami”. Cfr. [JAN KARSKI, MACIEJ KOZLOWSKI], op. cit., p. 6. 68 “Il avait ainsi écrit à Churchill, à Roosevelt, à de Gaulle, à Staline, à des autres encore, Eden Wise, Frankfurter, à tous ceux qu’il avait tenté de convaincre, à Londres ou à Washington. Mai bientôt l’émotion de Patrice laissa place à la stupeur. Jan avait continué à écrire aux gouvernants après leur mort, accumulant les témoignages, les preuves, les questions sur leur silence. Il découvrit ainsi une longue lettre écrite à Samuel Zygielbojm, l’agent juif du Bund, afin de se faire pardonner. Elle datait du mois suivant son suicide. Le dernières qu’il avait envoyées à Roosevelt et à Churchill remontaient au 20 juin 2000”. BRUNO TESSARECH, Les sentinelles, cit., p. 373. 69 Vere e proprie “lettere” postume, di grande interesse documentario, sono le conversazioni tra Karski e Maciej Wierzyński, registrate per la radio Voice of America dal 1995 al 1997 e pubblicate nel 2012. Cfr. JAN KARSKI, MACIEJ WIERZYŃSKI, Emisariusz własnymi słowami, PWN, Warszawa 2012. 70 JAN KARSKI, Story of a Secret State. My Report to the World, with an Afterword by Andrew Roberts, Penguin Classics, London 2011. 71 Historia de un estado clandestino, tradución de Cristina Luengo, Acantilado, Barcelona 2011; Història de un estat clandestì, traducció de Carles Miró, Quaderns Crema, Barcelona 2011. 72 Ja svidetel'stvuju pered mirom. Istoria podpol'nogo gosudarstva, perevod z francuskogo Natali Mavlevič, Astrel’, Moskva 2012. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 suto-o mita: mokusatsu sareta seiki-no shōgen senkyūhyakusanjūkyū yonjūsan uscita a Tokio nel 2012, quella italiana del 201373, la nuova traduzione polacca pubblicata quest’anno insieme a una nuova edizione americana74. E lo testimoniano le numerose biografie dell’emissario, da quella pionieristica di Wood e Jankowski – uscita nel 1994 ma ripubblicata, rivista e ampliata, quest’anno75 – a quella di Maciej Kozłowski76, da quelle già citate, estremamente documentate, di Jankowski agli ultimi progetti comparsi in polacco, usciti dalla penna di Marian M. Drodzowski e dalla grafica di Maciej Sadowski77, o in tedesco, a opera di Marta Kijowska78. Una di queste lettere l’abbiamo ricevuta in Italia per la giornata della Memoria del 2014, ed è stata una lettera a fumetti. Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, curato da Marco Rizzo per i testi e Lelio Bonaccorso per i disegni, ha avuto un grande successo editoriale ed è stato da poco pubblicato anche in Polonia79. La cosa non deve stupire se, come spiega Marco Rizzo, la vicenda di Karski ha tutti gli ingredienti per un buon fumetto: c’è il tema dell’avventura, del viaggio, della scoperta di sé e del mondo, una tragedia collettiva che diviene dramma personale. Pur contrassegnata da alcuni difetti di natura storiografica 80, 73 La mia testimonianza davanti al mondo, cit. 74 Tajne Państwo, trad. di GRZEGORZ SIWEK, cit.; JAN KARSKI, Story of a Secret State. My Report to the World, foreword by Madelein Albright, Georgetown University Press, Washington DC, 2014. Le nuove edizioni del libro riprendono il testo del 1944, integrandolo con la traduzione dei materiali aggiunti da Karski all’edizione polacca del 1999, in modo non dissimile da quanto è stato fatto per l’edizione italiana. 75 E. THOMAS WOOD, STANISŁAW M. JANKOWSKI, Karski. How one man tried to stop the Holocaust, revised edition, with an Introduction by Michael Berenbaum, Texas Tech University Press-Gihon River Press, Lubbock, Texas-East Stroudsburg, PA 2014. 76 MACIEJ KOZŁOWSKI, The Emissary. Story of Jan Karski, trad. Joanna Maria Kwiatkowska, Oficyna wydawnicza Rytm, Warszawa 2007. 77 MARIAN MAREK DROZDOWSKI, Jan Karski Kozielewski. 1914-2000, Natolin European Center, Natolin 2014; MACIEJ SADOWSKI, Jan Karski. Photobiography. Fotobiografia, Veda, Warszawa 2014. 78 MARTA KIJOWSKA, Das Leben des Jan Karski. Kurier der Erinnerung, C.H. Beck, München 2014. 79 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014. Un contributo di Marco Rizzo sulla genesi del fumetto è pubblicato in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 128-135. 80 Ammessi peraltro dall’autore della sceneggiatura, Marco Rizzo, che scrive: “[...] è necessario ambire sempre alla verità, adattando [...] la Storia al medium”. Ciò non toglie – per dirne una – che nel settembre del 1939 la guerra non era “alle porte”, bensì già scoppiata dal primo del mese, il ghetto di Varsavia nel novembre-dicembre 1939 ancora non esisteva, quello di Izbica Lubelska non era un campo di sterminio (nella postfazione, Rizzo lo definisce giustamente un Durchganglager), Karski non ha mai parlato con Churchill. Ovviamente, è tanto improbabile che il luogo in cui era caduta una partigiana nel ghetto di Varsavia potesse essere contrassegnato da una bandiera polacca, quanto il fatto che Jan Karski a Washington potesse scegliersi come confidente il giudice Felix Frankfurter, colui che aveva detto “non sono in grado di crederle”. La lettura del Testimone inascoltato di Haenel ha avuto conseguenze sulla sceneggiatura. Nel fumetto, il rappresentante del 31 LUCA BERNARDINI LE LETTERE DI JAN KOZIELEWSKI la graphic novel ha l’immenso merito di aver trascritto la vicenda di Jan Karski in un linguaggio – quello delle immagini – universale e particolarmente accessibile alla sensibilità estetica e alla percezione cognitiva delle generazioni più giovani. Così come, dopo Artur Nauzyciel, ha fatto Arthur Feinsod, ricostruendo quest’anno a teatro le vicende dell’emissario dello “Stato segreto”81, e a breve farà, proprio nel nostro paese, Fabrizio Matteini. Settant’anni dopo l’uscita di Story of a Secret State e a cento anni dalla nascita del suo autore, la figura di Jan Karski, testimone e messaggero, continua a colpire la nostra immaginazione e a parlare alle nostre coscienze. Bibliografia, filmografia, sitografia ANNETTE BECKER, Devenir Karski: l’usage des interviews filmées, in La Shoah. Théâtre et cinéma aux limites de la représentation, a cura di Alain Klenberger, Philippe Mesnard, Editions Kimé, [s.l.] 2013. LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in 32 JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno stato segreto, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013. DAVID DENBY, Out of Darkness, in Claude Lanzmann’s Shoah. Key Essays, a cura di Stuart Liebmann, Oxford 2007. MARIAN MAREK DROZDOWSKI, Jan Karski Kozielewski. 1914-2000, Natolin European Center, Natolin 2014. YANNICK HAENEL, Jan Karski. Roman, Gallimard, Paris 2009 (trad. it. Il testimone inascoltato, trad. di Francesco Bruno, Guanda, Parma 2009). YANNICK HAENEL, ERIC LORET, Karski le porteur de parole. Interview: Yannick Haenel relit son best-seller à la lumière des critiques, in «Libération», 22.10.2009, <tinyurl.com/ psmnv5x>. RAUL HILBERG, Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, Harper Collins Publishers, New York 1992. Bund incontrato a Varsavia prima della visita al ghetto, afferma che “gli Alleati mentono” quando sostengono che gli ebrei deportati dai ghetti vengono mandati in Germania ai lavori forzati: due vignette dopo, il militante sionista afferma che “questo le nazioni alleate non lo sanno”. È davvero lodevole l’intenzione espressa da Rizzo di precisare nella postfazione alcuni dettagli storici ma, se è vero che il debriefing di Jan Karski al riguardo delle sue visite al ghetto di Varsavia era avvenuto a Londra, la richiesta di visitare quello che si riteneva essere il campo di Bełżec gli era stata avanzata, ovviamente, a Varsavia. Si veda MARCO RIZZO, Un compromesso con la storia, in MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, op. cit., pp. 141-142 e – per i passi del fumetto – le pp. 11-17, 65, 100, 106, 113. 81 ARTHUR FEINSOD, Coming to see Aunt Sophie, regia di Dale McFadden. La prima rappresentazione si è tenuta in occasione dell’Here and Now Festival di Mannheim, il 9 maggio 2014. <http://www.comingtoseeauntsophie.com/#!people/c1ibf> [consultato il 11.11.2014]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 RAUL HILBERG, ERNIE MEYER, Recording the Holocaust, in «The Jerusalem Post», International Edition, 1338, 28.06.1986, pp. 9-10. STANISŁAW M. JANKOWSKI, Emisariusz “Witold”, Bicentennial Publishing Corporation, New York 1991. IDEM, Karski. Raporty tajnego emisariusza, Dom wydawniczy Rebis, Poznań 2009. [JAN KARSKI], The Jewish Mass Executions. Account by an Eye-Witness, in ALEXEI TOLSTOY, A POLISH UNDERGROUND WORKER, THOMAS MANN, Terror in Europe. The Fate of the Polish Jews, National Committee for Rescue from Nazi Terror, London s.d. [1943], pp. 9-10. IDEM, The Polish Underground State, in «Polish Fortnightly Review», 82, 15.12.1943. IDEM, Story of a Secret State, Houghton Mifflin Company, Boston 1944. 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Sitografia <www.jankarski.net/pl> <www.jankarski.org> <www.remember.org/educate/hrintrvu.html> [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 11-34] MARCELLO FLORES Jan Karski e Raphael Lemkin: la coscienza del genocidio L e vite di Jan Karski e Raphael Lemkin si incrociano e si sovrappongono – senza incontrarsi – nel triennio 1941-1944. Mentre il nome del primo venne progressivamente dimenticato, fino alla rinascita di interesse per la sua figura alla fine del Novecento e in questo secolo, il secondo divenne il centro di una battaglia culturale, politica e giuridica che condusse all’approvazione della Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, ma anch’egli è tornato all’attenzione degli studiosi nello stesso periodo, quando, cioè, gli studi sulla Shoah avevano ormai influenzato potentemente la visione della storia del XX secolo e si erano intrecciati con i nuovi studi sui genocidi in corso da circa un ventennio. La differenza d’età tra i due personaggi era di tredici anni. Lemkin era nato nel 1901 a Bezwodne, nella Polonia nordorientale, e nelle sue memorie ricorderà questo piccolo villaggio dove trascorse l’infanzia fin quando, a dieci anni, si trasferì con la famiglia nella cittadina di Wołkowysk, vicino a Białystok, dove gli ebrei rappresentavano la metà della popolazione e sua madre era insegnante, seguace del metodo educativo di Pestalozzi, dalla forte impronta etica. Tra il 1911 e il 1913 la comunità ebraica della Russia seguiva con attenzione le vicende dei processi contro Mendel Bejlis, accusato di omicidio rituale nei confronti di un bambino, a dispetto di ogni evidenza investigativa che avrebbe alla fine portato alla sua assoluzione. L’atmosfera di odio e diffidenza nei confronti degli ebrei che quell’episodio (montato ad arte da un giornale reazionario di San Pietroburgo) aveva creato s’intrecciò, per Lemkin, con la lettura del romanzo Quo vadis? dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz: 35 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN Nella mia infanzia ho letto Quo vadis?, una storia piena di fascino sulle sofferenze dei primi cristiani e del tentativo dei romani di distruggerli solo perché credevano in Cristo. Nessuno poteva salvarli, né la polizia di Roma né un qualsiasi altro potere esterno. Non fu soltanto la curiosità che mi spinse a cercare nella storia esempi simili, come il caso degli ugonotti, dei mori in Spagna, degli aztechi in Messico, dei cattolici in Giappone e di tante razze e popoli sotto Gengis Khan. Il percorso di questa indicibile distruzione mi condusse attraverso l’era moderna fino alla soglia della mia propria vita. Ero sconvolto dalla frequenza del male, dalle grandi perdite di vite e di cultura, dalla disperata impossibilità di risuscitare i morti o consolare gli orfani e, soprattutto, dall’impunità su cui contavano freddamente i colpevoli1. Anche se nella più tarda ricostruzione del percorso che lo portò a occuparsi della violenza di massa e delle forme del diritto che avrebbero potuto sanzionarla e impedirla, Lemkin può avere esagerato l’influenza dei suoi sentimenti infantili, non si può disconoscere l’importanza di un clima – culturale, politico, religioso – come quello che vivevano gli ebrei nella Russia dell’epoca dei grandi pogrom successivi alla diffusione del libello diffamatorio I protocolli dei Savi di Sion. È comunque accertato che il piccolo Raphael lesse più volte Quo vadis? e ne discusse con la madre le implicazioni morali e le similitudini storiche. 36 Nel corso della Prima guerra mondiale la regione in cui viveva la famiglia Lemkin venne occupata dai tedeschi. Per l’intera popolazione furono anni di fame e stenti, durante i quali Raphael continuò a studiare (in un ginnasio di Białystok e, pare, anche a Vilnius), iniziando a venire interessato dal sionismo, a studiare lo yiddish e a essere coinvolto nelle dispute ideologiche con i membri del Bund (l’organizzazione social-democratica degli ebrei della Russia zarista). Ed è proprio alla vigilia dello scoppio della guerra, nel 1914, che si situa la nascita di Karski a Łódź, città all’epoca dell’impero russo dove il 34% degli abitanti è ebreo e i polacchi costituiscono la metà della popolazione e che nel 1916 viene occupata dai tedeschi e solo nel 1918 potrà ritrovare pienamente, con la nuova indipendenza della Polonia, la sua identità al tempo stessa polacca ed ebraica, sia pure all’insegna di contrasti, violenze, persecuzioni. Karski è cattolico e vive il contraddittorio clima multietnico e religioso della sua città. Nel 1918, nel corso della ritirata tedesca, insieme ad altri giovani Raphael Lemkin organizzò gruppi di sabotaggio per disarmare i soldati in fuga e conse1 RAPHAEL LEMKIN, Totally Unofficial, manoscritto senza data, New York Public Library, Manuscript and Archives Division, The Raphael Lemkin Papers, reel 2: Bio and Autobiographical Sketches on Lemkin. Il capitolo è intitolato Early Childhood. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 gnarli alle autorità polacche. Due anni dopo venne leggermente ferito in una delle azioni militari guidate dal maresciallo Józef Piłsudski per ricacciare dalla Polonia orientale l’Armata Rossa che cercava di “esportare” con le armi anche in Polonia la rivoluzione bolscevica, esperienza che consolidò per l’intera sua vita un forte sentimento anticomunista. Nel dopoguerra, tra il 1918 e il 1919, continuarono nella Polonia orientale le violenze antisemite (a Leopoli – oggi L’viv – vennero uccisi 72 ebrei e ne vennero feriti 443 in un pogrom di tre giorni), spesso mascherate o intrecciate con le azioni militari condotte contro i bolscevichi nella confinante Ucraina sconvolta dalla guerra civile russa. Proprio a Leopoli (L’viv), Lemkin cominciò a frequentare l’università nel 1920, studiando filologia e continuando a sviluppare una sorprendente conoscenza di numerose lingue, viste come la chiave per penetrare e comprendere le loro culture2. Alla vigilia della guerra, mentre Karski aveva iniziato a lavorare per il Ministero degli Esteri il 1° gennaio 1939, Lemkin proseguiva il suo lavoro di giurista e studioso, pubblicando in francese un trattato sul commercio internazionale. Allo scoppio del conflitto vengono entrambi mobilitati, in quella che a Jan appare ancora un’esercitazione e che si presenta invece in pochi giorni con le tragiche fattezze dell’invasione tedesca. Raphael combatte con l’esercito polacco per la difesa di Varsavia, dove viene ferito sfuggendo di poco alla cattura tedesca. Nel 1940, entrato in immediato contatto con la Resistenza, riesce a fuggire attraverso la Lituania e a raggiungere la Svezia, dove, grazie ai suoi contatti accademici, riuscirà poi a giungere negli Usa con un invito del professor Malcolm Mc Dermott della Duke University, con cui cinque anni prima aveva collaborato per la traduzione in inglese del codice penale polacco del 1932. Proprio a Durham, in North Carolina, Lemkin venne a conoscenza dell’invasione tedesca dell’URSS, il 22 giugno 1941, che aveva comportato anche l’occupazione della Polonia orientale doveva viveva la sua famiglia. Mentre la comunità internazionale dei giuristi riprendeva a interrogarsi sui crimini di guerra e sulla possibilità o necessità di includervi l’aggressione, come quella perpetrata da Hitler verso l’intera Europa, Lemkin iniziava a raccogliere materiale sulla dominazione nazista in Europa, informazioni sulle atrocità 2 JOHN COOPER, Raphael Lemkin and the Struggle for the Genocide Convention, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2008, p. 15. 37 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN commesse, decreti e documenti ufficiali, iniziando a lavorare nell’estate del 1942 per il Board of Economic Warfare a Washington. Karski, nel frattempo, fatto prigioniero dai tedeschi, era riuscito a fuggire e a unirsi alla Resistenza, prendendo proprio in quell’occasione il nome di Jan Karski (il suo vero nome era Jan Kozielewski) e iniziando la sua attività di agente segreto che lo condurrà più volte in Europa, nelle mani della Gestapo da cui venne torturato a lungo, ancora in Inghilterra e negli Stati Uniti. Già dalla fine del 1941 erano iniziati a circolare racconti e testimonianze delle violenze naziste, in particolare dei massacri e delle deportazioni di ebrei, che si infittirono nella seconda metà del 1942 giungendo ormai da fonti diverse (diplomatiche, militari, comunità ebraiche). Lemkin era convinto che Hitler avesse intrapreso una distruzione pianificata dei popoli sotto il suo controllo, anche se la sua analisi non riceveva gran credito negli ambienti politici e militari della capitale americana. A metà del 1942 iniziò a scrivere un’opera sui decreti e le leggi di occupazione della Germania, che presto si trasformò in un lavoro più ampio, in cui erano presenti anche notizie e analisi delle politiche di deportazione e di soppressione dei nemici, in particolar modo degli ebrei, che il nazismo stava rea38 lizzando nell’Europa occupata. Ed è proprio in questo periodo che Karski svolge la sua prima missione presso il governo Sikorski in esilio a Londra. Per raccogliere le informazioni più dettagliate e precise possibili, come racconta con semplicità e drammaticità nell’ultima parte delle sue memorie3, Jan entra due volte nel ghetto di Varsavia e si fa addirittura condurre nel campo di Izbica Lubelska dove è testimone della partenza dei convogli blindati stipati di ebrei verso lo sterminio4. Raphael Lemkin pubblica Axis Rule in Occupied Europe5 nel 1944, anche se il libro era già pronto alla fine dell’anno precedente in una dimensione più che tripla di quella prevista inizialmente, oltre settecento pagine. Uno dei principali obiettivi di Lemkin era quello di convincere i suoi lettori – tra i quali lo stesso establishment degli Stati Uniti – che l’occupazione hitleriana dell’Europa era stata 3 JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013. 4 IVI, p. 437: “I vagoni erano adesso pieni di carne umana fino a scoppiare, saturi nel più estremo dei recessi. Intanto nel campo intero si riverberava un frastuono terrificante: vi si mescolavano in modo incoerente lamenti, urla, detonazioni, bestemmie e comandi rabbiosi”. 5 RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress, Carnegie Endowment of International Peace, Washington D.C. 1944. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 caratterizzata da violazioni continue delle leggi di guerra e di ogni norma morale, spesso con la giustificazione di una legislazione adottata per l’occasione. A questo scopo egli utilizzava massicciamente decreti e articoli ufficiali del regime nazista, trattando prevalentemente l’occupazione militare e politica, ma occupandosi anche di questioni di natura economica (proprietà, lavoro, finanze) legate all’occupazione stessa. Il disprezzo per il diritto internazionale e al tempo stesso la volontà di costruire una nuova “legalità nazista” si nutriva di una feroce repressione delle popolazioni civili e di un programmato saccheggio delle ricchezze delle regioni occupate. Che Lemkin fosse preoccupato per la scarsa propensione negli Stati Uniti a conoscere e comprendere quanto stava avvenendo in Europa era più che giustificato. Proprio nell’estate del 1943, mentre Lemkin stava terminando il suo libro, Jan Karski – chiamato più tardi a ragione “il testimone inascoltato” – aveva incontrato sia Eden sia Roosevelt, spingendo quest’ultimo a creare un comitato di emergenza per salvare gli ebrei d’Europa ma non riuscendo a convincerlo della necessità di intraprendere azioni più nette e risolute. “Quando incontra Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema, Karski non sospetta nemmeno che i massimi esponenti della comunità ebraica statunitense, Nahum Goldmann e il rabbino Stephen S. Wise, presidente dell’American Jewish Congress, in realtà sappiano tutto del genocidio fin dall’agosto del 1942, ma siano stati obbligati al silenzio dal Dipartimento di Stato”6. Subito dopo un altro polacco, Szmul Zygielbojm, leader del Bund e uno dei due membri ebrei del governo polacco in esilio a Londra, cui Karski aveva fatto il proprio racconto di testimone oculare, cercava di convincere della gravità e novità della persecuzione antiebraica in Europa ma i suoi racconti e le sue denunce restavano ugualmente inascoltate e non venivano credute. La sua proposta di bombardare Auschwitz e il ghetto di Varsavia – dove erano morti da poco sua moglie e suo figlio – veniva scartata dai comandi militari come ininfluente per gli obiettivi della guerra. Di fronte a questa cortina di incomprensione, il 12 maggio 1943 Zygielbojm si era suicidato, lasciando una lettera che venne pubblicata sul «The New York Times»: 6 LUCA BERNARDINI, Messaggero, testimone, personaggio: l’uomo che cercò di fermare la Shoah, in JAN KARSKI, op. cit., p. 500. 39 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN Con la mia morte voglio esprimere la mia più forte protesta contro l’inattività con cui il mondo sta osservando e permettendo lo sterminio del popolo ebraico. So bene quanto poco valore abbia la vita umana, specialmente in questi giorni. Ma dal momento che non sono stato capace di farlo mentre ero in vita, forse con la mia morte potrò contribuire a distruggere l’indifferenza di coloro che ne sono capaci e dovrebbero agire 7. Karski si sentì fortemente colpevole dell’accaduto: “Sulle prime rimasi indifferente, ma poi fui colto da un’ondata di angoscia e di sensi di colpa. La notizia mi aveva sconvolto più di quanto non volessi ammettere. Mi sentivo come se avessi personalmente consegnato a Zygielbojm la sua condanna a morte” 8. Dopo il fallimento della sua missione – spingere gli Alleati a intervenire per bloccare la distruzione degli ebrei europei – Karski resta a Londra anche se vorrebbe tornare in Polonia, e viene nuovamente mandato negli Stati Uniti dal nuovo premier del governo in esilio Stanisław Mikołajczyk per “promuovere la realizzazione di un grande film sul movimento di Resistenza polacco, di cui aveva già scritto anche la sceneggiatura”9. Non riuscendo a convincere i produttori americani a finanziare questo progetto, Karski iniziò a pensare di scrivere un libro, 40 che l’agente letterario cui si rivolse chiese non contenesse accenni antisovietici. È così che, rapidamente, nasce Story of a Secret State, la prima edizione di quello che, rivisto e corretto, sarà poi La mia testimonianza. Ed è proprio mentre è in corso l’insurrezione di Varsavia che diverse case editrici leggono il manoscritto, che verrà pubblicato di lì a pochi mesi, a dicembre, dopo che Karski si era rifiutato di accettare “l’inserimento di alcune pagine che dessero conto dei combattimenti avvenuti durante la rivolta del ghetto (aprile-maggio 1943), e addirittura l’aggiunta di un intreccio amoroso”10, dall’edi- tore di Boston Houghton Mifflin. Qualche mese prima era stato pubblicato il ponderoso volume di Lemkin, Axis Rule, che aveva conosciuto un interesse notevole, soprattutto negli ambienti diplomatici, politici e militari della capitale. Numerose furono le recensioni che riservarono al libro di Lemkin un giudizio più che lusinghiero. Il prestigioso «American Journal of International Law» lodò l’incredibile e riuscito tour de force compiuto dall’autore; l’«American Historical Review» giudicò il racconto di Lemkin, proprio perché scritto in un freddo linguaggio giuridico, maggiormente 7 Pole’s Suicide Note Pleads for Jews, in «The New York Times», 4.6.1943, p. 4. JAN KARSKI, op. cit., p. 423. 9 LUCA BERNARDINI, op. cit., p. 501. 10 IVI, p. 504. 8 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 capace di suscitare indignazione; la «New York Times Book Review» dedicò addirittura la copertina e il servizio più importante al “Twentieth-Century Moloch” raccontato da Lemkin: “Al di là del suo asciutto legalismo [nel libro] emergono i contorni del mostro che attualmente cavalca il mondo”, un mostro “che rende bestie i suoi servi e corrompe alcune delle più nobili emozioni umane con le sembianze di una autorità e falsa legalità che lascia indifesi gli individui”11. L’unica critica che veniva rivolta a Lemkin era quella di avere esteso all’intero popolo tedesco le colpe e i comportamenti del nazismo, avendo egli sostenuto che “la distruzione dell’Europa non sarebbe stata completa e meticolosa se il popolo tedesco non avesse liberamente accettato il piano di Hitler, partecipando volontariamente alla sua esecuzione e fino ad oggi approfittandone grandemente”12. Un anno dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti, il difficile e voluminoso libro di Raphael Lemkin veniva recensito anche nella rivista «American Journal of Sociology». La recensione, a firma di Melchior Palyi, un economista tedesco emigrato in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti dopo l’avvento al potere di Hitler, accusava Lemkin di avere scritto una “requisitoria da pubblico ministero” piuttosto che un’indagine storico-politica. Palyi sottolineava che dei nove capi d’accusa formulati da Lemkin contro le autorità naziste, più o meno tutti avrebbero potuto essere rivolti anche contro gli Alleati: anche se questi ultimi erano ricorsi a “pratiche illegali” coprendole con formule umanitarie o di altro genere mentre i nazisti manifestarono apertamente i loro progetti intenzionali di commettere crimini. A quel punto, tuttavia, la diffusione del libro di Lemkin era ormai ampiamente assodata, grazie soprattutto a un apparente dettaglio terminologico che avrebbe modificato radicalmente e in modo permanente la percezione non solo giuridica, ma dello stesso senso comune, dei crimini di massa e dei massacri commessi contro gruppi di persone. Nuove concezioni richiedono nuovi termini. Con “genocidio” intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per denotare una vecchia pratica nel suo sviluppo moderno, è formata dall’antica parola greca genos (razza, tribù) e dal latino -cidium (dal verbo caedĕre, 11 12 «The New York Times Book Review», 21.1.1945, p. 1. RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule, cit., p. XIV. 41 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN uccidere), corrispondendo così nella sua formazione a parole come tirannicidio, omicidio, infanticidio ecc. Parlando in termini generali, il genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, eccetto quando è accompagnata dal massacro di tutti i suoi membri. Vuole piuttosto indicare un piano coordinato di azioni differenti con lo scopo di distruggere i fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi. Gli obiettivi di un simile piano sono la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione, dell’esistenza economica dei gruppi nazionali, la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e perfino della vita degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro un gruppo nazionale inteso come un’entità e le azioni coinvolte sono dirette contro gli individui non nella loro capacità individuale ma come membri di un gruppo nazionale13. La forza del nuovo termine non risiedeva solo nell’abilità e fantasia linguistica di Lemkin, capace di coniugare il latino e il greco per offrire un neologismo capace di guardare non solo al presente ma alla storia intera dell’umanità. Consisteva soprattutto nel rinvio, finalmente concreto e determinabile, a ciò che 42 di più terribile stava avvenendo in Europa, a quel “crimine senza nome” per combattere il quale Churchill e Roosevelt avevano sottoscritto la Carta di Londra impegnandosi di fronte al mondo a sconfiggere per sempre la barbarie. Non è un caso, quindi, che già il 3 dicembre 1944, appena venti giorni dopo la pubblicazione di Axis Rule, Lemkin avesse convinto il proprietario del «Washington Post» ad affrontare in modo fortemente divulgativo, e necessariamente emotivo, quanto affermato nel volume con maggiore ricchezza di dati e di analisi. Riprendendo un rapporto pubblicato dal War Refugee Board, il giornale della capitale ricordava come: A Birkenau, tra l’aprile 1942 e l’aprile 1944 circa un milione e settecentosessantacinquemila ebrei sono stati messi a morte con un gas venefico in camere ingegnosamente costruite; i loro corpi sono stati poi bruciati in forni appositamente costruiti e le loro ceneri usate come fertilizzante. Questo processo di sterminio col gas è stato realizzato anche in altri campi oltre a Birkenau e nella maggior parte dei casi si applicava solamente agli ebrei. Ci sono state indicibili atrocità ad Auschwitz e Birkenau. Ma la questione riguardo a queste uccisioni è che esse sono state sistematiche e risolute. Le camere a gas e i 13 RAPHAEL LEMKIN, Axis Rule, cit., p. 79. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 forni crematori non furono improvvisati, erano strumenti scientificamente progettati per lo sterminio di un intero gruppo etnico14. L’articolo ricordava poi come a quanto appena descritto un “giurista e studioso polacco” avesse dato da poco un nuovo nome, per descrivere un gratuito e ingiustificato massacro etnico così riassunto con le sue stesse parole: Genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, eccetto quando è portata a termine dal massacro di tutti i membri di una nazione. È utilizzato piuttosto per indicare un piano coordinato di differenti azioni con lo scopo di distruggere le fondamenta essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare gli stessi gruppi15. Soprattutto negli ultimi anni la figura di Lemkin ha conosciuto un vasto interesse, e i suoi scritti, compresi gli appunti e i capitoli non pubblicati, sono stati oggetto di valutazioni non sempre coerenti e univoche. Un aspetto su cui vi sono stati giudizi difformi ha riguardato l’importanza del momento storico particolare – la violenza nazista nell’Europa occupata – e la scelta di individuare un concetto e termine nuovo che avessero un carattere più generale e universale di quanto suggerito dall’emergenza storica contingente. In Lemkin – se si considerano al tempo stesso Axis Rule e gli altri interventi scritti nello stesso periodo – non esiste una contrapposizione tra la ricerca della specificità e novità della barbarie nazista (che è al cuore del volume pubblicato nel 1944) e il desiderio di enucleare un criterio universale per definire e sanzionare i massacri commessi contro gruppi di diversa natura. Per cercare di far comprendere quanto il concetto di genocidio dovesse essere inteso nel senso più ampio, Lemkin si richiamò spesso all’intera storia dell’umanità, ricordando, in un articolo del 1948, come fossero tutti casi di genocidio la distruzione di Cartagine, la distruzione degli Albigesi e del Valdesi, le Crociate, la marcia dei Cavalieri Teutonici, la distruzione dei cristiani sotto l’Impero Ottomano, il massacro degli Herero in Africa, lo sterminio degli armeni, il massacro degli assiri cristiani in Iraq nel 1933, la distruzione dei maroniti, i pogrom degli ebrei nella Russia zarista e in Romania16. 14 15 16 «The Washington Post», 3.12.1944, B4. Ibidem. RAPHAEL LEMKIN, War against Genocide, in «Christian Science Monitor», 31.1.1948, p. 2. 43 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN Il tentativo di generalizzare, e quindi di rendere il concetto più universalmente utilizzabile, lo aveva spinto a tentare una caratterizzazione che riteneva avvenisse inevitabilmente: Il genocidio ha due fasi: la prima è la distruzione del modello nazionale del gruppo oppresso; la seconda è l’imposizione del modello nazionale dell’oppressore. Questa imposizione, a sua volta, può essere fatta sopra la popolazione oppressa cui si permette di restare o sul solo territorio, dopo la deportazione della popolazione e la colonizzazione dell’area da parte dei membri della nazione dell’oppressore. Denazionalizzazione è stata la parola usata nel passato per descrivere la distruzione di un modello nazionale. […] I termini “germanizzazione”, “magiarizzazione”, “italianizzazione”, per esempio, sono stati usati per connotare l’imposizione da parte di una nazione più forte (Germania, Ungheria, Italia) del proprio modello nazionale sul gruppo da esse controllato 17. Non va dimenticato, tuttavia, che nove decimi di Axis Rule sono dedicati all’occupazione tedesca dell’Europa, di cui il genocidio costituisce uno strumento e una forma particolare: Il quadro delle coordinate tecniche di occupazione della Germania deve portare alla 44 conclusione che l’occupante tedesco ha intrapreso un gigantesco schema di cambiamento, in favore della Germania, dell’equilibrio delle forze biologiche tra essa e le nazioni prigioniere per gli anni a venire. L’obiettivo di questo schema è distruggere o paralizzare i popoli soggiogati nel loro sviluppo, così che, anche in caso di sconfitta militare tedesca, la Germania sarà in una posizione per accordarsi con le altre nazioni europee con il vantaggio di una superiorità numerica, fisica ed economica 18. A tal punto l’attenzione di Lemkin era focalizzata sul “caso tedesco” che non mancavano, nel suo libro, riflessioni giuridiche di grande interesse sul ruolo della Gestapo e delle SS, sul loro essere associazioni a delinquere i cui crimini erano commessi non solo contro le leggi nazionali dei paesi occupati ma contro il diritto internazionale e le leggi di umanità, sulla necessità di considerare la sola appartenenza a tali gruppi criminali “come un reato, in modo da punire i membri della Gestapo e delle SS per la sola ragione che rivestono le loro funzioni nei paesi occupati. Inoltre, se uno di loro avesse anche commesso un crimine concreto avrebbe dovuto essere punito naturalmente per lo specifico reato”19. 17 18 19 IDEM, Axis Rule, cit., pp. 79-80. IVI, p. XI. IVI, pp. 21-22. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Una profonda compenetrazione con il clima dell’epoca, con i sentimenti e le passioni suscitate dalla violenza nazista, convivono in Lemkin con il desiderio di utilizzare quell’esperienza originale e tragica che sta avvenendo sotto i propri occhi per far compiere al diritto internazionale un salto di qualità, quel salto che aveva inutilmente cercato di fare dopo il primo dopoguerra e che solo l’attuale “crimine senza nome” permette di affrontare e forse risolvere. È la distruzione degli ebrei a diventare il catalizzatore di un pensiero teorico che da anni si stava sforzando di trovare soluzione alla violenza contro gruppi in quanto tali, alle loro sofferenze e alla loro possibile scomparsa. Una specifica e necessariamente unica esperienza (unica storicamente ma anche come percezione soggettiva) diventa la chiave di lettura e di interpretazione di un modello di violenza che appartiene alla storia stessa dell’umanità. L’atto d’accusa che istituiva il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga si fondava su quattro capi, di cui vennero accusati i ventiquattro leader nazisti che risultarono imputati nel principale dei processi che ebbe inizio nel novembre 1945: cospirazione, crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Tra i crimini di guerra, nel paragrafo che si occupava di “omicidi e maltrattamenti delle popolazioni civili”, si ricordava come gli accusati avessero “condotto deliberato e sistematico genocidio, cioè lo sterminio di gruppi razziali o nazionali, contro le popolazioni civili di alcuni territori, con l’obiettivo di distruggere particolari razze e classi di persone e gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare ebrei, polacchi, zingari e altri”20. Già alla vigilia della fine del secondo conflitto mondiale, Lemkin era tornato sulla definizione di genocidio in un articolo apparso su «Free World», individuandone la caratteristica principale nell’intento di “distruggere o degradare un intero gruppo nazionale, religioso o razziale, attaccando gli individui membri di quel gruppo” attraverso “una seria minaccia alla vita, alla libertà, alla salute, all’esistenza economica o a tutte queste cose insieme”21. Nel 1946, con un saggio dal titolo Genocidio apparso su «American Scholar», Lemkin ricordava che l’inserimento del crimine di genocidio nel rinvio a giudizio dei criminali nazisti che sarebbero stati processati a Norimberga mo20 Cfr. <http://avalon.law.yale.edu/imt/count3.asp>; WILLIAM A. SCHABAS, Genocide in International Law: The Crimes of Crimes, Cambridge University Press, 2000, p. 43; JOHN COOPER, op. cit., p. 65. 21 RAPHAEL LEMKIN, Genocide. A Modern Crime, in «Free World», aprile 1945. 45 MARCELLO FLORES JAN KARSKI E RAPHAEL LEMKIN strava nel modo più esplicito l’enormità dei crimini nazisti, riprendendo alla lettera la definizione inserita nell’atto d’accusa. Il crimine di genocidio, tuttavia, non rientrò formalmente nella sentenza emessa a Norimberga il 30 settembre e il 1° ottobre 1946, anche se esso vi era ampiamente descritto, sia sotto la fattispecie dei “crimini di guerra” sia sotto quella dei “crimini contro l’umanità”. Nel corso del processo avevano fatto riferimento al termine di genocidio sia il pubblico ministero britannico Sir David Maxwell-Fyfe, nel corso dell’interrogatorio di Constantin von Neurath – ricordandogli che di quello era accusato e riassumendogli nuovamente la definizione – sia il pubblico ministero francese Champetier de Ribes, che nelle sue conclusioni parlò “di un crimine così mostruoso, così impensabile nella storia, dall’era cristiana alla nascita dell’hitlerismo, che è stato coniato il termine di genocidio per definirlo”22. Il giudizio di Lemkin sulla sentenza di Norimberga fu per certi aspetti contraddittorio. Da una parte l’aver incluso l’imputazione di genocidio nel punto 3 dell’atto di accusa di Norimberga costituì un importante riconoscimento del suo lavoro, come ebbe a scrivere a Eleanor Roosevelt e al Giudice Jackson; 46 dall’altra l’esclusione dei crimini di guerra e contro l’umanità dall’imputazione di cospirazione (che rimase solo per l’imputazione di crimini contro la pace) impedì sia che fossero presi in considerazione gli atti criminali del nazismo commessi prima dell’inizio della guerra di aggressione nel settembre 1939, sia che venisse riconosciuto nella sentenza il crimine di genocidio: “Dal momento che l’obiettivo era di mostrare come i crimini di guerra e contro l’umanità derivassero dalla cospirazione per l’aggressione, stabilire quel nesso divenne in pratica più importante che registrare la moltitudine dei crimini”23. La strada era aperta, per Lemkin, alla formulazione giuridica definitiva del crimine di genocidio. Alla fine, l’11 dicembre 1946, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Risoluzione 96(I): Genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani; questa negazione del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza umana, infligge gravi perdite all’umanità che si trova privata dagli apporti culturali o di altra natura di questi gruppi, ed è contraria alla legge morale e allo spirito e agli obiettivi delle Nazioni Unite. 22 WILLIAM A. SCHABAS, op. cit., p. 43. DONALD BLOXHAM, Genocide on Trial. War Crimes Trials and the Formation of Holocaust History and Memory, Oxford University Press, Oxford 2001, p. 62. 23 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Molti esempi di un simile crimine di genocidio hanno avuto luogo quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altra natura sono stati distrutti interamente o in parte. La punizione del crimine di genocidio è una questione di interesse internazionale. L’Assemblea Generale, di conseguenza, afferma che il genocidio è un crimine per il diritto internazionale che il mondo civilizzato condanna, e per la perpetrazione del quale responsabili e complici – siano privati individui, pubblici ufficiali o uomini di Stato e sia che il crimine sia commesso per ragioni religiose, razziali, politiche o di qualsiasi altra natura – sono punibili. Il testo che il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite preparò dopo innumerevoli discussioni venne approvato e passò poi, senza alcuna modifica da parte della Commissione Diritti Umani, all’esame della terza sessione dell’Assemblea Generale che si riuniva a Parigi, dove venne – invece – profondamente modificato in seno al 6° Comitato che lo discusse dal 28 settembre al 2 dicembre 1948. A sostegno di una rapida approvazione era giunta all’Assemblea una petizione firmata da 166 organizzazioni di 28 paesi che rappresentavano duecento milioni di persone, in gran parte frutto del grande lavoro di mobilitazione che Lemkin e i suoi collaboratori avevano compiuto nell’ultimo anno e mezzo. Il 9 dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava il testo licenziato dal 6° Comitato rigettando l’ennesima richiesta sovietica di condannare esplicitamente il nazismo e un ulteriore tentativo venezuelano di reintrodurre il genocidio culturale. La Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio veniva approvata con 56 voti a favore e nessuno contrario. Anche gli Stati che si erano astenuti nel 6° Comitato (Gran Bretagna, URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia) si erano ricreduti e il delegato sudafricano si era allontanato dall’Assemblea. Il disegno per il quale Lemkin aveva lottato con entusiasmo e dedizione era finalmente raggiunto. Certamente non tutta quello che era stata la sua riflessione sul genocidio era potuta diventare parte integrante di un documento giuridico cui avevano contribuito paesi con culture, storia, politiche e interessi diversi e a volte divergenti. [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 35-47] 47 KONSTANTY GEBERT La banalità del genocidio J an Karski è probabilmente l’esempio più famoso di una figura emblematica del XX secolo: quella del testimone che ha testimoniato invano. Per tutta la vita, dopo la guerra, Karski ha risentito del trauma procuratogli dalla con- vinzione di aver fallito nella propria missione: gli Alleati, infatti, non avevano preso alcuna iniziativa concreta a seguito del suo rapporto di testimone oculare della Shoah, consegnato direttamente ad Antony Eden e Franklin Delano Roosevelt. Non è stato l’unico a soffrire a causa di un simile trauma: l’uomo di affari 48 americano Walther Geddess si uccise nel 1915, dopo aver assistito agli orrori della marcia della morte nel deserto siriano in cui erano stati sterminati gli armeni. I resoconti del genocidio armeno di Armin Wegner – un soldato tedesco che aveva prestato servizio nell’esercito turco, pubblicati dal «Berliner Tagblatt» – vennero presentati al presidente Woodrow Wilson, che non ne rimase certo impressionato: sicuramente non più del presidente Roosevelt quando ebbe ascoltato il rapporto di Jan Karski, un quarto di secolo dopo. Dobbiamo pertanto farci una ragione del fatto che la reazione standard dei potenti, nel momento in cui viene loro notificato un genocidio, sia di indifferenza e non – come sarebbe lecito aspettarsi – di indignazione morale. L’attivista americana Samantha Power, nel suo libro A problem from Hell1, premio Pulitzer, ha denunciato l’indifferenza degli Stati Uniti ai successivi genocidi del XX secolo. Come ambasciatrice degli USA presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel XXI secolo Power è divenuta la rappresentante più significativa di quell’indifferenza da lei precedentemente denunciata. Che cosa si può fare, quindi? Karski aveva torto nel 1 SAMANTHA POWER, A Problem from Hell. America and the Age of Genocide, Basic Books, New York 2002, trad. it. Voci dall'inferno: l’America e l’era del genocidio, a cura di Nazzareno Mataldi, Mondolibri, Milano 2004 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 credere che la sua missione fosse stata un fallimento: era giunto all’erronea conclusione che si fosse conclusa una volta consegnato il suo rapporto alla Casa Bianca. Tuttavia, nel 1978 quel combattente della Resistenza polacca concesse una lunga intervista al documentarista francese Claude Lanzmann, che all’epoca stava lavorando su quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro, Shoah, un film della durata di nove ore. Nel film Lanzmann avrebbe inserito soltanto un breve frammento dell’intervista: una versione più lunga, ma pur sempre non integrale, uscirà poi nel 2010 con il titolo Il rapporto Karski. Parlando con Lanzmann, l’emissario dello Stato segreto riferiva del suo rapporto e di come fosse stato accolto dai leader alleati. Così facendo, Karski aveva finalmente realizzato la propria missione: aveva consegnato il suo resoconto a coloro che avevano più bisogno di ascoltarlo. A noi, gli abitanti di questo pianeta. All’umanità. Alle vittime, agli spettatori e ai carnefici dei genocidi futuri. E a coloro che, come Karski, Wegner e molti altri, vorranno affidare le loro testimonianze al mondo. Karski ci ha fatto capire non soltanto che cosa sia accaduto, ma anche che cosa abbia fatto lui. In questo modo ha mandato in frantumi il comodo mito dell’impotenza umana di fronte al male. Molto semplicemente, ha dimostrato che non è vero che non si possa fare nulla. Il generale Roméo Dallaire era il comandante delle truppe delle Nazioni Unite inviate in Ruanda al fine di scongiurare lo scoppio di una nuova guerra civile e di monitorare l’andamento del processo di pace. Quello che scoprì fu che si stava preparando un genocidio. I suoi tentativi di mobilitare la comunità internazionale contro il genocidio si rivelarono infruttuosi, ed egli divenne il testimone impotente di quello che sarebbe divenuto il genocidio conclusivo del XX secolo, il secolo che ce lo ha fatto conoscere. Nel suo libro Shake Hands with the Devil2, Dallaire riferisce una strana notizia di cui era venuto a conoscenza a Kigali, nel febbraio del 1994. Uno dei suoi informatori gli aveva detto che gli insegnanti delle scuole ruandesi avevano ricevuto dal Ministero dell’Istruzione l’incarico di stilare elenchi degli studenti Tutsi e Hutu, e di farli pervenire al Ministero. I Tutsi e gli Hutu erano i due maggior gruppi socio-etnici del Ruanda, non gruppi etnici nel senso europeo del termine. Gli Hutu e i Tutsi infatti hanno la 2 ROMEO DALLAIRE, Shake hands with the devil: the failure of humanity in Rwanda, with Brent Beardsley, Random House Canada, Toronto 2003 [N.d.C.]. 49 KONSTANTY GEBERT LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO stessa cultura, la stessa religione, la stessa provenienza. Nel complesso sistema sociale ruandese rappresentavano due diversi gruppi sociali. Il dominio coloniale belga li ha trasformati in gruppi etnici, così che ogni adulto ruandese aveva l’obbligo di portare con sé una carta di identità che ne specificasse l’appartenenza etnica: Tutsi, Hutu o Twa, il terzo gruppo, quello più piccolo. I bambini, comunque, non avevano carte d’identità. Quindi, per sapere quali bambini uccidere, il governo – che stava preparando il genocidio – aveva bisogno di liste di nomi. E questo è il motivo per cui agli insegnanti era stato richiesto di stilare elenchi di studenti Tutsi e Hutu. Penso spesso a quegli insegnanti. Mi immagino di essere un insegnante di Kigali nel 1994 e di aver ricevuto la circolare del Ministero dell’Istruzione. Ci sono tante ragioni plausibili per cui il Ministero avrebbe potuto richiedermi una simile informazione. Quindi perché mai non avrei dovuto fornirgliele? Quando il genocidio avrà luogo, gli autori finali del genocidio saranno coloro che si recheranno sul posto e massacreranno realmente, vuoi facendo a pezzi le persone, vuoi spingendole in una camera a gas, vuoi facendole morire di fame, a seconda della tecnologia impiegata per il genocidio. Ma perché il genocidio possa avvenire sono 50 necessari quegli insegnanti. Siamo necessari noi. La fase preliminare del genocidio, quella precedente ai massacri veri e propri, vede le istituzioni di uno Stato del tutto normale, perfettamente funzionante, nonché la relativa società civile, impegnate a preparare lo sterminio. Victor Klemperer, un linguista tedesco, scrisse un libro affascinante sull’avvento e la crescita del nazismo nella Germania tra le due guerre, intitolato Lingua Tertii Imperii, La lingua del terzo impero, stando ovviamente a indicare il Terzo Reich3. Nel suo libro Klemperer – filologo germanico di origini ebraiche che, con suo grande stupore, si trovò a essere bollato come ebreo e pertanto a subire quello che subivano gli ebrei – illustrava lo sviluppo del linguaggio pubblico in Germania. Segnalava, piuttosto divertito, come il termine ebreo, che aveva implicazioni religiose o etniche, avesse assunto un significato legale. Una volta che qualcuno fosse stato considerato ebreo, avrebbe avuto l’obbligo di non fare certe cose e di farne altre. Klemperer rilevava le situazioni grottesche che si sarebbero sicuramente verificate in Germania nel momento in cui gli ebrei fos3 VICTOR KLEMPERER, LTI. Notizbuch eines Philologen, Berlin 1947; trad. it. LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, a cura di Paola Buscaglione, prefazione di Michele Ranchetti, Giuntina, Firenze 1998 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 sero divenuti una categoria legale: come si può infatti decidere chi è ebreo? In base alla percentuale di sangue ebraico che gli scorre nelle vene? Ma in che cosa consiste, precisamente, il sangue ebraico? In ogni caso, all’epoca il termine ebreo divenne parte del linguaggio socialmente accettato. Klemperer riferiva di come una volta si fosse seduto in un parco pubblico su una panchina preclusa agli ebrei. Una dolce, cara vecchietta che si trovava a passare di là ci fece caso e lo volle informare: “Signore, si è seduto sulla panchina sbagliata. Non può stare là”. La cara vecchietta ovviamente non si rendeva conto che così facendo stava rendendo possibile il genocidio, interiorizzandolo e facendo proprie le categorie mentali e le idee che lo sottendevano. La cosa interessante dell’antisemitismo di Hitler, in Germania, è che ha avuto inizio con un distacco quasi da diagnosi clinica. Da questo punto di vista può essere utile la lettura di Mein Kampf, libro consultabile in biblioteca. È interessante, ma in un certo senso anche assai deludente. È scritto malissimo, davvero con i piedi, e – per dirla tutta – è anche stupido. E ti viene da pensare: “E questo sarebbe il libro che ha cambiato il mondo? In uno infinitamente peggiore, ma lo ha cambiato?”. Non torna. Una cosa interessante in Mein Kampf però la si può trovare, ed è l’atteggiamento di Hitler nei confronti degli ebrei. Afferma che, allo stesso modo di un dottore che, volendo salvare un essere umano deve essere spietato nei confronti dei batteri che lo hanno infettato, i politici che intendano salvare la civiltà occidentale dovranno essere spietati verso i batteri ebraici. In una delle sue digressioni, Hitler scrive che l’ebreo non ha colpa del suo essere ebreo, ma non hanno alcuna colpa nemmeno gli esseri umani che desiderano liberarsi dei batteri ebraici che li stanno distruggendo. Non c’è nulla di personale: si tratta di un’applicazione dell’idea illuminista che noi, ossia il governo, abbiamo il dovere di migliorare le sorti della società. Noi siamo responsabili del miglioramento dei destini della società. Se esiste un gruppo che rifiuta di integrarsi in nome del bene comune, o che a questo bene comune si oppone, allora è cosa buona eliminarlo. Questo è il motivo per cui, quando qualcuno effettua un’analogia tra i genocidi, fenomeno del XX secolo, e gli stermini, pratica ricorrente fin dai reconditi primordi della storia umana – afferma il falso. Le cronache medievali sono piene di descrizioni di stermini. Il lettore però è destinato a scoprire che gli stermini sono fenomeni dalla durata relativamente breve. Una città viene asse- 51 KONSTANTY GEBERT LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO diata per mesi, alla fine cade, l’esercito assediante la invade e fa tutto ciò che fa un esercito vincitore: assassinii, stupri, saccheggi. Assassinii, stupri e saccheggi vanno avanti per tre, quattro o cinque giorni, ma il bel gioco dura poco. Quante persone si possono torturare, violentare o assassinare prima di non poterne davvero più? Alla fine, quando uno si è tolto la voglia, permetterà a coloro che sono sopravvissuti di andare avanti. Il principio dello sterminio consiste in una gratificazione immediata. Una volta che sentimenti e voglie siano stati soddisfatti, non c’è più alcuna ragione di insistere: almeno fino alla prossima volta. La modalità storica di fare ammenda per la propria partecipazione a uno sterminio è sempre consistita in offerte religiose da devolvere a templi, chiese o moschee. Una simile modalità di comportamento implica che coloro che hanno effettuato tali offerte si sentano in qualche misura moralmente a disagio. Mi ricordo di aver avuto una conversazione a Kigali, in Ruanda, nel 2009, con un signore che era stato appena scarcerato dopo aver trascorso tredici anni in prigione per aver preso parte al genocidio. Un signore molto gentile: ci facemmo una bella chiacchierata bevendoci un paio di birre. Mi volle spiegare – e si noti che non aveva letto il Mein Kampf: 52 Sa come chiamavamo i Tutsi? Li chiamavamo inyenzi, scarafaggi. Ritiene che sia stato un caso che proprio questo gruppo venisse chiamato “scarafaggi”? Sa, una volta ho letto un bell’articolo sul giornale, glielo consiglio. Diceva: ‘Così come da uno scarafaggio non nascerà mai una farfalla, un inyenzi rimarrà sempre un inyenzi’. In tribunale mi hanno incastrato: io non ho ammazzato nessuno, ma si sa, noi Hutu siamo accusati di essere tutti assassini. Signore, mi creda, quelli che hanno fatto il lavoro (questo è il termine che ha usato: le travail, il lavoro) hanno dovuto lavorare davvero duro. Perché è stato un duro lavoro fisico. Certo, per nulla divertente, ma qualcuno doveva pur farlo, perché la gente aveva il diritto di non vivere con gli inyenzi, gli scarafaggi, in casa. Questo è, grosso modo, il linguaggio che ho sentito usare in Bosnia dai carnefici del genocidio bosniaco. È stato descritto, nel contesto di un altro genocidio e nei particolari più agghiaccianti, da Cristopher Browning, uno storico americano della Shoah, nel suo libro Ordinary men4. Brown racconta la storia del 101° battaglione di riserva della polizia tedesca, formato nella città di Amburgo. Nell’estate del 1942 il battaglione uccise venticinquemila ebrei nella cittadina di 4 CRISTOPHER R. BROWNING, Ordinary men. Reserve Police Battalion 101 and the final solution in Poland, Harper Perennial, New York 1993; trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, a cura di Laura Salvai, Einaudi, Torino 1995 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Józefów Lubelski e dintorni. Si trattava, come detto, di un battaglione di riserva della polizia. Non erano della Gestapo o delle SS, ma neanche della Wehrmacht. Erano signori di mezza età, dai quarantacinque anni in su, troppo vecchi per venire chiamati alle armi, mobilitati in un battaglione di polizia e spediti in Polonia a svolgere compiti di polizia. Cosa che nel caso specifico voleva dire uccidere gli ebrei. Venivano da tutti gli impieghi possibili. Potevano essere stati insegnanti, impiegati, ingegneri, conducenti di autobus, scaricatori di porto. Quasi tutti sposati con figli. Gli ufficiali al comando del 101° battaglione di riserva della polizia, quando giunse l’ordine di giustiziare gli ebrei, offrirono un’alternativa ai loro uomini. “Se pensate di non farcela – dissero – potete dire che non prenderete parte alle esecuzioni e verrete trasferiti a un’altra unità”. Non erano previste punizioni. Nessuno sarebbe finito in carcere per essersi rifiutato di uccidere una persona. Il peggio che gli sarebbe potuto capitare era di venir trasferito a un’altra unità. Quelle persone non erano dei fanatici. Quelle persone non erano ideologizzate. Quelle persone eravamo voi ed io. Quelle persone erano uomini comuni. Ci furono casi sporadici di rifiuto, ma la grande maggioranza decise di non abbandonare i compagni. Non sarebbe stato onesto, non sarebbe stato corretto lasciare che fossero gli altri a fare il lavoro sporco, godendo di una situazione privilegiata. Morale della favola: quelle persone erano dotate di senso morale, e hanno fatto quello hanno fatto non perché fossero assetate di morte, ma per solidarietà verso i loro compagni. Lo hanno fatto per quello che ritenevano essere uno scopo morale: il miglioramento della razza umana. L’eliminazione degli ebrei serviva a migliorare le sorti dell’umanità. Pensavano a se stessi in termini eroici. In un celebre discorso rivolto nel 1943 ai capi delle SS radunatisi nella città occupata di Poznań, Heinrich Himmler ebbe a dire: “Siamo tutti qui per aver preso parte a una gloriosa pagina di storia tedesca che non sarà mai scritta”. Non sarà mai scritta perché non possiamo aspettarci che esseri inferiori comprendano la gloriosa nobiltà di una simile impresa, ma questa è una impresa gloriosamente nobile. Esattamente come gli assassini dei Tutsi in Ruanda crederanno di stare partecipando a un’impresa gloriosa, anche se non si divertiranno a farlo. E in effetti non si divertirono affatto. Certo, poteva esserci talvolta una vacca da rubare, una donna da stuprare o qualcuno che ti stava antipatico da ammazzare, ma fare a pezzi una persona col 53 KONSTANTY GEBERT LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO machete è un lavoro duro, pesante. Se lo devi svolgere sette giorni alla settimana, dalle 9 alle 17 (era stato tutto organizzato alla perfezione), non è affatto divertente. Lo fai perché sei una persona con senso morale, perché credi che sia un lavoro che qualcuno deve pur fare in nome del bene comune. In ultima istanza: perché credi che il governo abbia il diritto di chiederti quali bambini nella tua classe siano Tutsi e quali Hutu. Questo è quello che chiamerei – rifacendomi al fondamentale testo di Hannah Arendt sul processo a Eichmann, La banalità del male5 – la banalità del genocidio. Gli assassinii di massa, gli stermini – che avvengono tanto ai nostri tempi quanto sono avvenuti nella storia – non sono banali. Sono eventi straordinari dal momento che sia i carnefici sia le vittime li concepiscono come tali. Il genocidio in qualche modo è incipiente nelle istituzioni correnti di qualsiasi Stato o società ben organizzati. Una volta che accettiamo il principio per il quale il governo, responsabile del bene comune, ha il diritto di compiere certe azioni riguardo a determinati gruppi, abbiamo fatto il primo passo in questa direzione. Tornando al Ruanda – che trovo un caso particolarmente affascinante – i Tutsi e gli Hutu facevano parte di una struttura sociale assai complessa, concer54 nente fenomeni come l’accesso al potere o il lavoro svolto. Non si trattava di una questione etnica che poteva in qualche modo essere sottoposta a verifica. I due gruppi condividono lingua e cultura, non esistono tradizioni secondo cui uno è giunto da un certo luogo e l’altro da un luogo diverso. In soldoni, ovviamente semplifico la cosa all’eccesso, se uno fa il coltivatore molto probabilmente è un Hutu, se uno è un allevatore altrettanto verisimilmente sarà un Tutsi. Era di gran lunga meglio essere un Tutsi che un Hutu, dal momento che i re erano sempre Tutsi. Il Belgio ricevette il Ruanda nel 1919 come risarcimento bellico dalla Germania. La trovo una cosa carina: usare un terzo paese come riparazione di guerra offerta dal secondo paese al primo. Il Belgio non si era ancora ripreso dal trauma provocato dalla rivelazione degli orrori perpetrati dal governo belga del Congo, così che l’atteggiamento nei confronti del Ruanda fu: “Questa volta faremo la cosa giusta”. E fecero molte cose giuste: costruirono ospedali, scuole, strade, ponti, dettero un’istruzione ai bambini ruandesi. Trovarono però che 5 HANNAH ARENDT, Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil, Viking Press, New York 1964; trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, a cura di Pietro Bernardini, Feltrinelli, Milano 1964 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 quella maledetta mescolanza di Tutsi e Hutu fosse qualcosa di terribilmente complesso da gestire e decisero di risolvere il problema con metodi scientifici. Per dieci anni squadre di antropologi belgi attraversarono il Ruanda da un capo all’altro, misurando l’angolazione dei nasi, l’arricciamento dei capelli e il colore degli occhi dei suoi abitanti, così da poter finalmente stabilire, con metodi scientifici, chi fosse Hutu e chi Tutsi. In conclusione venne escogitata la seguente definizione: se sei alto 1.90 o più, se hai dieci vacche o più sei un Tutsi; altrimenti sei un Hutu. E da allora le cose vanno così. E le identità vennero registrate su appositi documenti: basta con questa confusione africana per cui oggi sei un Tutsi e domani un Hutu. Le carte d’identità furono un’invenzione europea introdotta in Ruanda con le migliori intenzioni. Ma senza queste carte d’identità, con le loro annotazioni “Tutsi” e “Hutu”, il genocidio non sarebbe stato possibile. Grazie alla meravigliosa introduzione della scienza europea, compiere un genocidio divenne la cosa più facile del mondo. Certo, non sarebbero bastate le sole carte d’identità. I belgi avevano portato in Ruanda anche l’istruzione scolastica, e in quel campo erano davvero bravi. Insegnavano la storia del Ruanda. Ora, il Ruanda era una società basata sulla comunicazione orale. Non esisteva una storia scritta, solo miti, peraltro piuttosto vaghi. I belgi portarono in Ruanda la scienza e la storia, e presero a insegnare la storia del Ruanda per come pensavano che fosse stata. C’era una storia completamente inventata, messa su da John Speke, un avventuriero britannico che era stato il primo europeo a entrare nel Ruanda alla metà del XIX secolo6. Speke aveva notato che alcuni ruandesi erano più alti o avevano la pelle più chiara degli altri. Ai suoi occhi, questi ruandesi più “bianchi” erano il motivo per cui esisteva uno Stato. Così decise che i Tutsi, un certo numero dei quali erano più alti e avevano una pelle più chiara degli Hutu, in realtà erano invasori giunti da nord – forse dall’Etiopia o dalle rive del Mediterraneo, in ogni caso da un qualche luogo più vicino all’Europa, alla civiltà europea – che si erano spinti a sud e avevano conquistato la regione. E questo sarebbe stato il motivo per cui avevano uno Stato. Non c’era uno straccio di prova di tutto ciò. 6 John Hanning Speke, ufficiale dell’esercito indiano, esploratore e scopritore del lago Victoria, sostenitore del razzismo scientifico, si inventò la discendenza dei Tutsi da Cam, figlio di Noé. Cfr. JOHN HANNING SPEKE, Journal of the discovery of the source of the Nile, Blackwood and Sons, Edinburgh-London, 1864; trad. it.: GRANT E SPEKE, Viaggio alle sorgenti del Nilo, Serafino Muggiani e Comp., Milano 1878 [N.d.C.]. 55 KONSTANTY GEBERT LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO Non c’era una sola leggenda, una credenza popolare su degli invasori giunti da nord. Niente. Era una favola pura e semplice. E questa favola i belgi la insegnavano a scuola. Ai bambini Tutsi, prevalentemente, visto che i Tutsi, lo sappiamo, erano più bianchi e pertanto migliori: una razza superiore. E in quanto superiore, hanno il diritto e il destino di dominare gli Hutu. E non è difficile capire come agli Hutu non facesse poi tutto questo piacere sentirsi dire che erano una razza inferiore. Dopo la seconda guerra mondiale, il Belgio ha continuato a governare il Ruanda, ma nel frattempo il sistema sociale del paese aveva conosciuto un cambiamento epocale: la maggioranza fiamminga, a lungo dominata dalla minoranza vallone, era andata al potere. Gran parte dei quadri inviati dal Belgio in Ruanda erano missionari cattolici, spesso provenienti dalle Fiandre. E iniziarono a interpretare la situazione in Ruanda attraverso l’ottica di quella belga. C’era una maggioranza, gli Hutu, oppressi da una minoranza. Era giunto il momento che la maggioranza rivendicasse i propri diritti. Gli stessi belgi che in precedenza avevano convinto i Tutsi di essere una razza superiore e spiegato agli Hutu che erano una razza inferiore, adesso ammaestravano gli Hutu: Siete la maggioranza! Avete 56 dei diritti democratici da difendere! Dovreste essere voi i padroni di questa terra, e loro – gli invasori stranieri – dovrebbero imparare a stare al loro posto. I primi massacri su larga scala avvennero negli ultimi mesi di amministrazione belga in Ruanda, e i belgi non fecero nulla per impedirlo: in fondo, era la maggioranza che si stava affermando. L’idea era che quello che stava accadendo in Ruanda fosse “un tipico sterminio africano” (ci sono persone che pensano che in Africa piovano stermini come in Inghilterra cade la pioggia: non sarebbe altro che l’ordine naturale delle cose) è semplicemente ridicola. Tutto questo era stata la conseguenza di una costruzione intellettuale importata dall’Europa. L’ultima causa scatenante furono i media. Dopo il 1989 i francesi, che avevano ereditato dai belgi il patronato politico di un Ruanda formalmente indipendente, costrinsero l’allora dittatore ruandese, il generale Habyarimana, a liberalizzare le leggi sui media, quelle sui partiti e a dare vita a una vera democrazia. Fece quasi subito la sua comparsa un giornale populista a grande tiratura, il «Kangura». Kangura in Kinyaruanda significa “Déstalo”. Ricorda da vicino uno slogan citato da Klemperer: Deutschland erwache, “Déstati, Germania!”. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 «Kangura» si prefiggeva come compito quello di rendere i lettori Hutu edotti delle iniquità commesse dai Tutsi. Esiste persino un testo pubblicato da «Kangura» e intitolato I dieci comandamenti degli Hutu dove si sostiene che gli Hutu devono sapere che i Tutsi, tutti i Tutsi, sono loro mortali nemici, avendo sempre cercato di dominarli. Due o tre comandamenti riguardano le donne Tutsi, viste come particolarmente pericolose. Le donne Tutsi infatti corrompono gli uomini Hutu distraendoli dagli indispensabili legami di solidarietà razziale. Anche in questo caso si tratta di un mito facilmente rintracciabile nella propaganda antisemita tedesca degli anni Venti e Trenta. I Dieci comandamenti insistono sul fatto che tutti gli Hutu considerino tutti i Tutsi come il male assoluto. Senza questo combinato disposto di scienza moderna, istruzione moderna e moderni mass media, il genocidio ruandese non sarebbe mai potuto accadere. Tutte queste istituzioni sono un retaggio dell’Illuminismo. Sarebbe fin troppo facile prendersela con l’Illuminismo, considerando questa impresa come una delle sue più orribili conseguenze. Ma se un qualche fenomeno presenta conseguenze patologiche, non significa che sia patologico in sé. Occorre comunque essere sempre consapevoli dei pericoli che si celano dietro occorrenze apparentemente innocue. Ciò che ci viene insegnato a scuola su noi stessi o sugli altri non è innocente. Non è innocente ciò che leggiamo nei mass media su questo o quest’altro gruppo etnico, religioso, sessuale o altro, descritto come composto da animali o insetti. Il linguaggio è uno degli elementi chiave. È stato incredibile vedere i miei amici ruandesi, che non avevano mai sentito nominare Klemperer, leggerlo e dire: “Ma si tratta di noi! Questo è quanto è accaduto qui!”. C’è ancora una cosa a proposito del linguaggio, con cui vorrei concludere. C’è un ulteriore aspetto perverso per quel che concerne la storia del genocidio. Il genocidio può divenire una narrazione di successo. Se facciamo caso alla ricezione pubblica della Shoah, ovvero dello sterminio degli ebrei a opera dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, ci rendiamo conto che, di fatto, è una narrazione di successo. Mai prima d’ora nella storia del genere umano è accaduto che le sofferenze di un gruppo oppresso siano state riconosciute nella stessa misura in cui le riconosce quel gruppo. La narrazione delle sofferenze ebraiche – nelle modalità in cui le ricordano gli ebrei – è divenuta la narrazione universale 57 KONSTANTY GEBERT LA BANALITÀ DEL GENOCIDIO delle sofferenze ebraiche. Non è mai capitato prima. Si tratta di un incredibile successo e tutti invidiano agli ebrei un successo di tale portata. Se andate per strada, non importa se a Parigi, Londra, Amsterdam, o in qualsiasi altra capitale europea, e chiedete dell’Olocausto, le risposte saranno – nella maggior parte dei casi – che l’Olocausto è consistito nello sterminio degli ebrei per mano dei tedeschi. Se doveste effettuare un sondaggio su chi abbia ucciso chi in Ruanda, se siano stati i Tutsi a massacrare gli Hutu o gli Hutu a sterminare i Tutsi – perché, fa differenza? – molto probabilmente la maggioranza delle risposte suonerebbe: “Non lo so e non mi importa”. Ancora oggi gli armeni non riescono a ottenere che i discendenti dei loro carnefici riconoscano il genocidio commesso. Ma la Shoah è riconosciuta. La Shoah viene ricordata esattamente nello stesso modo in cui la ricordano gli ebrei e questo ha generato quello che, un po’ perversamente, chiamo “invidia della Shoah”, “invidia dell’Olocausto”. E cederei volentieri la grande storia di successo in cambio dei sei milioni di vittime, peccato che non ci sia nessuno in grado di effettuare lo scambio. La morale che possiamo trarre è che una simile banalizzazione dell’Olocausto finisce con il banalizzare non solo il termine, ma anche il concetto che lo 58 sottende. Non si tratta soltanto di un insulto alla memoria delle vittime, perché ci rende insensibili alla possibilità che si possa divenire testimoni di un nuovo genocidio, magari non in Europa (anche se il genocidio precedente a quello ruandese ha avuto luogo proprio in Europa, in Bosnia). Dobbiamo rimanere costantemente vigili e attenti a ogni possibile presagio di genocidio nel discorso pubblico e nelle pubbliche istituzioni, tanto quanto dobbiamo rimanere costantemente vigili e attenti a ogni sintomo di banalizzazione del termine e del concetto nel discorso pubblico. Il genocidio è uno dei grandi contributi del XX secolo alla storia dell’umanità. È un fenomeno nuovo. Non è mai capitato prima, ma temo che non sarà l’ultima volta che ne sentiremo parlare. È facile da commettere e – se non avete la sfortuna di perdere una guerra nel frattempo – è assai probabile che la farete franca. I governanti tedeschi persero la guerra e si sono ritrovati a Norimberga. I genocidi Hutu hanno perso la guerra e qualcuno di loro è sotto processo, mentre altri si sono dati alla fuga. Dal momento che è semplice da commettere, che è radicato nella logica dello Stato illuminista e che è facile farla franca, sicuramente ne vedremo altri. L’unica cosa che si frappone tra un geno- PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 cidio che avrà luogo e uno che non accadrà è l’insegnante che riceve una circolare dal Ministero dell’Istruzione: “Redigete un elenco degli studenti Hutu e Tutsi nelle vostre classi”. Immaginatevi di essere quell’insegnante e di dirvi: “Al diavolo, no! Non lo farò e non devo certo fornire una giustificazione. Sarà meglio che siano loro a spiegarmi perché vogliono una tale informazione, prima di tutto!”. Quello di cui abbiamo bisogno non sono impiegati statali che eseguano le circolari dei loro Ministeri. Quello di cui abbiamo bisogno sono persone che non facciano le cose che sentono essere sbagliate, anche se dovessero sembrare giuste. Jan Karski aveva iniziato la sua missione come testimone: pensava, da soldato disciplinato e leale, che sarebbe bastato riportare i fatti ai suoi superiori, e loro avrebbero saputo che fare. E invece no: non soltanto i suoi superiori, ma nemmeno i superiori dei suoi superiori, i leader del mondo libero, seppero che fare. O, peggio ancora, sapevano che sarebbe bastato non far nulla. Per questo Karski per tutta la vita ebbe la sensazione di aver fallito: la Shoah era potuta andare avanti, malgrado il fatto che gli Alleati sapessero. Roméo Dallaire non è riuscito a forzare la mano all’ONU, che pur sempre rappresentava in Ruanda, così da farsi mandare alcune migliaia di soldati in più, con i quali – era sicuro – sarebbe riuscito a fermare il genocidio. Conclusa la sua missione e tornato nel suo Canada natale, è caduto in una profonda depressione. Per tutta risposta, l’esercito canadese l’ha messo a riposo. Sembra che una persona che ha reagito a un genocidio cadendo in depressione non sia adatta al comando. Viene da chiedersi se lo sarebbe stata, qualora non avesse avuto una tale reazione. Tanto Karski quanto Dallaire, inascoltati dai propri superiori, si sono successivamente rivolti all’opinione pubblica. Ci hanno informati: ecco che cosa abbiamo visto, ecco che abbiamo fatto, ed ecco il risultato. In un mondo dove il genocidio ha diritto di cittadinanza, nessuno può permettersi di ignorare queste testimonianze7. [Traduzione dall’inglese e cura di Luca Bernardini] [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 48-59] 7 Una prima versione del testo è stata presentata ad Amsterdam nel 2010, in occasione del 1° Convegno Annuale di Humanity in Action [N.d.A.]. 59 GIULIA LAMI Storia di uno Stato segreto: un manuale della clandestinità L a pubblicazione in Italia del libro di Jan Karski Story of a Secret State, col titolo La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto1 è un contributo essenziale alla conoscenza della Resistenza polacca, per la ricchezza della testimonianza dall’interno che offre su un tema noto, certo, ma, per una serie di ragioni che sono emerse anche nel corso del convegno2, ancora poco studiato in tanti suoi aspetti. È stata una vicenda drammatica, soprattutto se consideriamo che proprio 60 la costruzione dello Stato segreto a opera del movimento clandestino in accordo con il governo in esilio al fine di preservare la continuità statale e ridare vita nel futuro dopoguerra a un paese ricomposto e libero – dopo quella che nel libro viene definita la “quarta spartizione” – non poté avere luogo. Giustamente Jerzy W. Borejsza sottolineava – in un saggio dedicato alla Resistenza polacca – la “semantica complessa” del termine Resistenza applicato al contesto polacco3. Questo termine ha una lunga tradizione proprio in Polonia, dove era ben presente nelle sue varie accezioni nel pensiero politico polacco del XIX sec.: niente di più logico quindi che applicarlo al periodo 1939-1945 in cui senz’altro la Polonia resistette in varie forme all’invasore. Ma, appunto, nel caso della Polonia la questione è delicata, perché da un lato il nemico è il tedesco, così come negli altri paesi europei, dall’altro è il sovietico, identificato da alcuni du1 JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato segreto, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013. 2 La giornata di studi Jan Karski. Una missione per l’umanità organizzata dal Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano, il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e quello di Studi Storici dell’Università di Milano, tenutosi presso la Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano, 13 maggio 2013 [N.d.C.]. 3 JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, in «Ricerche di storia politica», 1, 2002, pp. 77-91. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 rante, ma anche dopo la guerra, come il liberatore di popolazioni e territori occupati dai tedeschi e fondamentale artefice della vittoria alleata sul nazismo. Per questo, forse, gli storici polacchi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, per reazione alla visione della Resistenza – intesa esclusivamente in senso anti-tedesco – propria della Polonia Popolare, hanno preferito far ricorso più che al termine “Resistenza” a quello di “Stato polacco clandestino”4 e di “Polonia clandestina”5. In realtà, l’uso del termine “Resistenza” è appropriato, laddove si consideri che la Polonia non è stata sola nella sua lotta contro l’occupazione tedesca, riconnettendosi idealmente alla più generale lotta portata avanti in Europa da altri paesi caduti sotto il giogo tedesco6, anche se l’uso del termine “Stato polacco clandestino” illustra una specificità dell’esperienza polacca che merita di essere compresa e valorizzata. Come scriveva Giorgio Vaccarino nel suo ampio quadro della Resistenza in Europa, “la Resistenza in ogni paese ebbe una fisionomia propria, quasi una risultante del parallelogramma fra le sue componenti”7. In questo senso, “nei paesi che lottarono per la difesa dell’identità nazionale [...] la difesa della propria identità allargò la rosa degli avversari, accostando sovente all’invasore tedesco quello sovietico” come fu nel caso della Polonia “che fin dal primo giorno della progressiva occupazione tedesca dell’intero territorio, nel settembre del 1939, vide la concorrenza sovietica sulla metà orientale di esso, e si batté con metodi in realtà diversi contro l’una e l’altra occupazione”8. Richiamo brevemente i fatti che sostanziano quanto detto sopra. Già dall’agosto del 1939, con la firma del patto Ribbentrop-Molotov, di cui quest’anno ricorre il 75° anniversario, la spartizione sovietico-tedesca dell’intero territorio polacco e l’impegno congiunto previsto nel “protocollo supplementare e segreto” a reprimere qualsiasi forma di agitazione polacca segnavano fin da subito il destino della Polonia9. 4 STANISŁAW SALMONOWICZ, Polskie Państwo Podziemne. Z dziejów walki cywilnej 1939-1945, WSiP, Warszawa 1994; TOMASZ STRZEMBOSZ, Rzeczpospolita podziemna. Społeczeństwo polskie a Państwo Podziemne 1939-1945, Krupski i S-ka, Warszawa 2000. 5 WŁODZIMIERZ BORODZIEJ, ANDRZEJ CHMIELARZ, ANDRZEJ FRISZKE, ANDRZEJ KRZYSZTOF KUNERT, Polska Podziemna 1939-1945, WSiP, Warszawa 1991. 6 NORMAN DAVIES, La rivolta. Varsavia 1944, Rizzoli, Milano 2004, cap. 4, La Resistenza. Cfr. anche IDEM, Storia d’Europa, vol. I, Bruno Mondadori, Milano 2002. 7 GIORGIO VACCARINO, Lineamenti della Resistenza in Europa, in La Resistenza e l’Europa. Atti del Convegno di studi storici, a cura di Arturo Colombo, Mondadori, Milano 1984, pp. 37-85, p. 37. 8 IVI, pp. 55-56. 9 Segnalo il volume Il patto Ribbentrop-Molotov, l’Italia e l’Europa (1939-1941), a cura di Alberto Basciani, Antonio Macchia, Valentina Sommella, Aracne, Ariccia 2013, che raccoglie, tra 61 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO Anche se la “cinica alleanza”, per usare un’espressione di Ettore Cinnella, era destinata a durare solo un biennio, ai due “briganti totalitari”10, Hitler e Stalin, regalò “copiosi frutti” a spese del resto dell’Europa. Va ricordato peraltro che “i protocolli segreti del trattato hanno incluso in fasi successive anche piani di spartizione dell’Europa settentrionale e orientale in sfere di influenza, capaci con la violenza di sottomettere interi paesi nei quali la brutalità organizzata sarebbe diventata ‘interna’, dopo l’invasione e le annessioni condotte senza dichiarazioni di guerra”, come scrive Alessandro Vitale, che accosta protocolli segreti e “democidio”, per l’azione finalizzata a rimuovere i cosiddetti elementi “ostili” dai territori conquistati quali Paesi Baltici, Polonia, Bessarabia, Bucovina settentrionale11. Ma, per restare alla Polonia, è ben vero, come notava William Shirer – citato da Cinnella – che “fu Hitler a combattere e vincere la guerra in Polonia, ma il maggior guadagno l’ebbe Stalin le cui truppe non avevano sparato quasi nemmeno un colpo”12. Se si guarda peraltro alla posizione della Polonia nel periodo interbellico e al suo tentativo di mantenere una “politica di equidistanza” fra Berlino e Mosca, non si può che vedere nel patto Ribbentrop-Molotov il tragico fallimento di questa articolata “politica di bilanciamento” che la Polonia 62 attuò fra i due potenti vicini fino alla crisi del 193913. Non cedendo alle richieste tedesche e non aprendosi alla collaborazione con l’Unione Sovietica, ma compiendo una scelta filo-occidentale, la Polonia divenne senz’altro un simbolo, ma pagando un prezzo altissimo, che non le fu reso alla conclusione delle ostilità. La Resistenza infatti non si esercitò solo sul piano militare, ma cercò di preservare l’integrità del paese, anzitutto a livello del corpo sociale e politico. Qui è il vero nodo rappresentato dal governo clandestino, che costituisce l’effettiva specificità polacca nel quadro della Resistenza europea. Un governo clandestino, del resto, era stato messo in piedi efficacemente già durante l’insurrezione anti-russa del 1863-1864, la cosiddetta Insurrezione di gli altri, innovativi contributi sulla genesi del patto e sulle vicende polacche che qui ci intere ssano. 10 ETTORE CINNELLA, La cinica alleanza. I rapporti fra URSS e Germania nel 1939-1941, in Il patto Ribbentrop-Molotov, cit., pp. 71-100. 11 ALESSANDRO VITALE, Protocolli segreti e “democidio”: i due volti di un patto, specchio del Novecento, in Il patto Ribbentrop-Molotov, cit., pp. 113-123, p. 114. 12 WILLIAM L. SHIRER, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, p. 686, cit. in ETTORE CINNELLA, La cinica alleanza, cit., p. 77. 13 SANDRA CAVALLUCCI, La Polonia e il Terzo Reich, in Il patto Ribbentrop-Molotov, cit., pp. 187-204. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 gennaio, nella quale 200.000 uomini per circa venti mesi combatterono contro le ben più numerose armate zariste14. In questa occasione si era costituito un governo nazionale, in grado di esercitare estesi poteri sia all’interno, sia nei rapporti con i suoi rappresentanti all’estero: come ben sottolinea Borejsza, si cercò di resuscitare questa esperienza già prima del 1914, cioè nel 1877-1878 e nel 1905, e, per quanto non ci si riuscisse, l’idea di un governo in grado di organizzare una rete capace di guidare la Resistenza costituì un sicuro riferimento nel caso del 1939. Come ribadiva Zofia Korbońska nella prefazione alla nuova edizione del libro Fighting Warsaw del marito Stefan Korboński, uno dei protagonisti della creazione dello Stato clandestino dal 1939, questo fatto deve essere considerato come una delle pagine più gloriose nella storia contemporanea della Polonia15. Questo governo interno si integrava con quello di Londra, costituiva un’autorità nazionale sul suolo patrio che preservava la continuità statuale e teneva unita la società polacca, guardando alla futura riconquista dell’indipendenza. In questa prospettiva, erano i partiti dell’opposizione del periodo interbellico a esservi rappresentati, dal socialista, al popolare contadino, al partito nazionale, fino a quelli minori di centro-sinistra. Certo, come spiega Richard C. Lukas16, non fu facile mantenere l’unità del governo né all’estero né in patria perché la sua linea, in definitiva moderata, veniva contestata da destra e da sinistra dello spettro politico. Non fu quindi un processo né semplice né lineare quello che portò a mettere in piedi un’autorità politica e una forza militare all’interno del paese che avessero un carattere unitario, che potessero effettivamente svolgere i compiti militari e politici richiesti dalle circostanze in accordo con il governo in esilio17. Per ciò che riguarda infatti il periodo 1939-1941, non bisogna dimenticare che la Polonia subiva due occupazioni, che assumevano forme diverse, ma che in sostanza incutevano egualmente terrore. Si può concordare, in stretta misura, con 14 JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 83. STEFAN KORBOŃSKI, Fighting Warsaw. The Story of the Polish Underground State. 1939-1945, Hippocrene books, New York 2004 (1a ed. Macmillan, New York 1956). 16 RICHARD C. LUKAS, Forgotten Holocaust. The Poles under German Occupation. 1939-1944, Hippocrene books, New York 2010 (1a ed. 1990). 17 IVI. Cfr. anche GIORGIO VACCARINO, Storia della Resistenza in Europa 1938-1945. I paesi dell’Europa centrale: Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 326-336. Sulle strutture del governo e dello Stato clandestini, oltre alle opere succitate, cfr. WALDEMAR GRABOWSKI, Delegatura Rządu Rzeczpospolitej Polskiej na Kraj, Instytut Wydawniczy Pax, Warszawa 1995. 15 63 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO l’opinione diffusa che se nelle terre annesse al Reich e nel governatorato generale la politica di “germanizzazione” e “colonizzazione” secondo le linee di quello che poi sarebbe stato il Generalplan Ost aveva un aspetto immediatamente genocidario18, nella parte di Polonia orientale occupata dai sovietici si mirava selettivamente a neutralizzare ed eliminare coloro, in massima parte membri dell’intelligencija in senso lato, che avrebbero potuto giocare un ruolo nella Resistenza attuale e futura contro i piani di sovietizzazione. Di qui le massicce deportazioni verso la Russia delle forze attive della nazione, secondo modalità brutali oggi ben note, ma alle quali si è a lungo messa la sordina19. È questo il contesto in cui ebbe luogo l’efferata esecuzione da parte sovietica degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyń nel 1940 – che sarebbe stata rivelata dai tedeschi nell’aprile del 1943, con un effetto devastante sulle già tese relazioni polacco-sovietiche – su cui, come è noto, è stato a lungo difficile fare luce20. La Polonia, fin da subito, diede il suo contributo alla comune causa con gli Alleati, non facendo mancare il proprio appoggio militare grazie alle truppe che avevano potuto trovare riparo all’estero fin dagli inizi del conflitto, nella fanteria, 64 nell’aviazione, nella marina su un fronte molto ampio21. Questa partecipazione alla guerra alleata si rafforzò dopo la firma del trattato fra Polonia e Unione Sovietica, nel luglio del 1941, che certo non soddisfaceva le richieste polacche di restaurare la linea di frontiera della pace di Riga (1921), ma che in effetti annullava il patto tedesco-sovietico del 1939, permetteva la creazione di un esercito polacco su suolo sovietico e apriva la prospettiva per il rilascio dei prigionieri ancora detenuti nelle prigioni e nei campi di quel paese. Non fu un processo facile, né fu pienamente attuato se si tiene conto anche del numero dei civili trattenuti in Unione Sovietica, ma indubbiamente aprì la strada, attraverso molte peripezie e perdite, al trasferimento delle truppe polacche dall’Unione Sovietica all’Iran e poi il loro contributo allo sforzo bellico alleato dal 18 JERZY W. BOREJSZA, L’antislavismo di Adolf Hitler: contro polacchi, ucraini, russi, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <www.poloniaeuropae.eu/wp-content/uploads/2012/11/Borejsza_ Lantislavismo-Hitler.pdf>. 19 La testimonianza insuperata per forza e bellezza del tragico destino di prigionia che colpì molti polacchi resta quella di GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Un mondo a parte, Laterza, Bari 1958. 20 VICTOR ZASLAVSKY, Il massacro di Katyń: il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 1998. 21 Per un’efficace sintesi storica della Polonia durante il secondo conflitto mondiale si veda JÓZEF GARLIŃSKI, Polska w drugiej wojnie światowej, Odnowa, London 1982. Per i rapporti diplomatici: Historia dyplomacji polskiej, a cura di Waldemar Michowicz, vol. 5, PWN, Warszawa 1999. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Medio Oriente all’Italia, dove il 2° Corpo d’Armata del gen. Władysław Anders ebbe un ruolo fondamentale nella liberazione del nostro paese dai nazisti. Bisogna anche ricordare l’apporto polacco a livello di intelligence, testimoniato dal ruolo cruciale svolto dai matematici polacchi nella precoce decifrazione di Enigma, che aiutò in modo essenziale la vittoria degli Alleati22. A questo sforzo esterno si univa quello interno, grazie all’Armia Krajowa (d’ora in poi AK), che raggiunse, come ricorda Vaccarino, i 380.000 uomini, di contro all’Armia Ludowa di soli 20.000, organizzata dai comunisti. Una divisione, questa, destinata poi a pesare sui futuri destini del paese. Fu proprio l’AK a impegnarsi con 40.000 dei suoi uomini nell’Insurrezione di Varsavia, “l’episodio più sorprendente e clamoroso dell’intera Resistenza europea”23. Ma anche il più controverso, per come si è situato al centro dei rapporti sovietico-polacchi durante le ultime fasi della guerra. La Resistenza polacca aveva sempre puntato a un’insurrezione contro l’occupante tedesco, che avrebbe dovuto permettere al governo clandestino e alle sue strutture di uscire allo scoperto, testimoniando il loro diritto a incidere sui futuri destini della nazione. A questo scopo, dato l’alto numero di vittime che la lotta partigiana comportava, furono lungamente privilegiate azioni di contrasto e di sabotaggio, che non compromettessero troppo profondamente il potenziale bellico a disposizione delle truppe dell’interno. In questo senso, la Resistenza comunista, che non era peraltro in grado di opporre ai tedeschi la stessa forza di contrasto, ebbe sempre buon gioco nell’accusare l’AK di attendismo, di scarsa efficacia bellica. In realtà, pur nella difficoltà di individuare la giusta scelta strategica, che combinasse efficacia e autoperpetuazione, le perdite umane nel campo dell’AK furono elevatissime lungo tutto il corso del conflitto, per non parlare del costo che ebbe l’Insurrezione di Varsavia. In generale, va precisato che il contributo della Resistenza polacca in toto è comunque impressionante su scala europea. Come ricorda Borejsza, sulla scorta anche delle stime di Andrzej Paczkowski, prima del 1944 alle 62.000 vittime circa della ZWZ-AK vanno aggiunte le perdite subite “da altre formazioni (battaglioni contadini legati alla sinistra della Guardia Popolare, comunisti – trasformati nel gennaio 1944 in Armata Popolare) – senza dimenticare le forze della destra na22 GIULIA LAMI, OTTAVIO RIZZO, CARLO MAZZA, Enigma: decifrare una vittoria, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <www.poloniaeuropae.eu/wpcontent/uploads/2012/11/Lami_Mazza_Enigma. pdf>. 23 GIORGIO VACCARINO, Lineamenti della Resistenza in Europa, cit., p. 58. 65 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO zionalista raggruppate nelle Forze Armate Nazionali, Narodowe Siły Zbrojne (NSZ)”, per un totale di 90.000-100.000 vittime, non sempre armate24. Nel 1944, davanti all’avanzare delle forze sovietiche, divenne importante il momento della collaborazione con esse, ma anche l’attenzione a tutelare il ruolo del governo clandestino che avrebbe voluto essere riconosciuto come interlocutore per un futuro accordo politico. Questo in realtà non accadde mai, anzi, durante il dispiegarsi dell’azione Burza nel 1944, che mirava ad appoggiare l’azione sovietica contrastando i tedeschi nelle terre orientali, nella Polonia centrale e, in prospettiva, nella Varsavia occupata, risultò chiaramente che la collaborazione con i sovietici si traduceva in un insuccesso, coronato spesso, paradossalmente, dal disarmo e dalla deportazione delle forze polacche precocemente individuate. Mosca subordinava l’accordo militare a quello politico, da attuare secondo i suoi tempi e i suoi interessi, in cui certo non rientrava il riconoscimento della Resistenza non-comunista, qual era quella rappresentata dal governo clandestino. In questo contesto di isolamento, dove non ci si poteva attendere aiuto dagli alleati occidentali, ma neanche dai sovietici, al contrario, maturò la decisione di condurre a Varsavia un’insurrezione autonoma, che consacrasse in certo 66 modo gli ininterrotti sacrifici condotti dal 1939 e impedisse che senza colpo ferire a un occupante se ne sostituisse, proprio a Varsavia, un altro. I sovietici, e tutta la storiografia conseguente, hanno sempre stigmatizzato l’Insurrezione di Varsavia come improvvida, avventurista, non concordata con la parte sovietica e quindi destinata all’insuccesso: in realtà ogni ricerca di contatto con i sovietici fu da questi disattesa, nell’ottica di un progetto politico alternativo già da tempo messo a punto25. Ricordo che la città si levò contro i tedeschi dal 1° agosto al 3 ottobre 1944 senza ricevere alcun aiuto dall’esterno, perché gli alleati occidentali non potevano soccorrerla dall’aria, essendo bloccati dal veto sovietico. I pochi voli che furono effettuati con equipaggi polacchi dall’Italia meridionale alla volta di Varsavia verso la fine della disperata impresa non solo furono a quel punto inefficaci, ma costarono ulteriori perdite perché la mancanza di carburante ne impediva il ritorno. 24 JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 87. Il rimando di Borejsza è: ANDRZEJ PACZKOWSKI, Półwieku dziejów Polski 1939-1989, PWN, Warszawa 1995. 25 Anche in questo caso rimando alla valida analisi generale di GIORGIO VACCARINO, Storia della Resistenza in Europa, cit. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 L’immagine di Varsavia, stretta nella morsa dei tedeschi e abbandonata alla sconfitta dal calcolo sovietico e dall’impotenza alleata26, è stata un punto centrale nella letteratura, come nella storiografia, che ha rinnovato, in certo senso, lo stereotipo della “Polonia-martire” d’ottocentesca memoria, senza tuttavia che vi fosse poi una presa di coscienza della gravità di ciò che era accaduto e che già prefigurava l’isolamento della Polonia dietro la Cortina di Ferro del dopoguerra. Per i sovietici si trattava di vanificare così tutto il lavoro, l’impegno e il sacrificio dello Stato clandestino polacco che aveva progettato di ricostituire democraticamente la sovranità perduta. Non sarebbe stato infatti il governo polacco legittimo, a Londra e in patria, a insediarsi a Varsavia, ma l’eterodiretto Comitato di Liberazione Nazionale costituito a Lublino per volere dei sovietici. A questo, come è noto, si accompagnò la definitiva sconfitta dell’AK, la liquidazione del governo clandestino, la persecuzione dei suoi sostenitori, in senso specifico e in senso più generale, fino almeno al 1956. È in questo quadro che si inserisce il libro di Karski, una delle migliori descrizioni della Polonia clandestina e di un’importante serie di operazioni condotte dalla Resistenza polacca fin dal 1939. Jan Kozielewski, giurista di formazione, impiegato presso il Ministero degli Esteri polacco, ufficiale dell’esercito, dopo una breve esperienza di prigionia nelle mani dei sovietici e dei tedeschi nel 1939, si unisce alla Resistenza che viene costituendosi a Varsavia e, dal 1940, si impegna in rischiose operazioni di collegamento con il governo in esilio. Nel 1942 e nel 1943, ormai noto come Jan Karski, svolse missioni di grande momento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con il compito di ragguagliare quanto più possibile sulla situazione della Polonia e in particolare degli ebrei polacchi. La sua opera informativa non incontrò un’adeguata risposta presso i politici occidentali, ma resta senz’altro una pietra miliare nella storia del secondo conflitto mondiale. All’interno della Resistenza, oltre alla missione di corriere, Jan Karski ricoprì un ruolo importante nell’ufficio di propaganda e informazione dell’AK che gli permise di studiare da vicino i meccanismi dell’occupazione e della Resistenza. 26 1944: Varsavia brucia, a cura di Krystyna Jaworska, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006. Ricordo anche l’articolo di LUCIA PASCALE, L’Insurrezione di Varsavia nel cinema, nel teatro e nella musica – con un’intervista a Mariusz Denst, in «poloniaeuropae», 2, 2011, <http://www.polonia europae.eu/wp-content/uploads/2012/11/Pascale_Mariusz-Denst1.pdf>. 67 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO Quale immagine della Resistenza e delle forme in cui si espletava ci offre Storia di uno Stato segreto? Senza essere riduttivi, direi che il libro si pone a tratti come un vero e proprio manuale su come si organizza la Resistenza in un paese occupato, con le difficoltà culturali, psicologiche ancor prima che tattiche e operative, che la messa in piedi e la gestione di una rete clandestina comporta. Vorrei quindi evidenziare alcuni momenti che mi sono parsi molto significativi per capire le caratteristiche della lotta clandestina, e questo può valere per ogni riflessione su analoghi movimenti più vecchi, più recenti, ma soprattutto per la Resistenza polacca così come è descritta da Karski. Leggendo il libro, cercavo di tenere presente il contesto generale del 1944, anno in cui uscirono per la prima volta le sue memorie, condizionate dalla necessità di non danneggiare involontariamente coloro che erano rimasti in patria, ma anche di dimostrare la vitalità e l’importanza di una Resistenza polacca operante già dal 1939. Non parliamo poi delle censure che lo stesso Karski dovette operare per le pressioni che riceveva, a partire dagli editori fino al governo polacco in esilio, legato alla volontà degli Alleati, così come ricostruisce Bernardini 68 nella postfazione, spiegando il successo clamoroso che ebbe il libro, ma anche il suo diventare presto scomodo nel “clima d’esaltazione per la vittoria degli Alleati e dopo il riconoscimento del nuovo governo polacco a opera degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (il 5 luglio 1945)”. Quello che Karski si era proposto si rivelava ormai inutile: lo Stato segreto polacco avrebbe dovuto dimostrare che uno Stato esisteva seppur sotto occupazione, che era in un rapporto di contiguità con il governo polacco in esilio e che quindi attendeva solo il momento giusto per riaffermarsi, ricongiungendo una storia statuale troncata dall’invasione sovietico-tedesca. Come abbiamo visto, il fallimento dell’Insurrezione di Varsavia e la sistemazione post-bellica secondo la logica delle sfere d’influenza concordata dai Grandi per tappe successive fra Teheran, Postdam e Jalta determinarono il tramonto delle speranze, sia pur tenui, che erano proprie anche del lucido e consapevole Karski. Ma per tornare all’immediatezza del libro di Karski, questo offriva, appunto, l’immagine di una Resistenza polacca coesa ed efficiente, in cui la dimensione politica e quella militare andavano di pari passo, in cui i collegamenti fra governo in esilio, delegato del governo, rete clandestina, rappresentanze di partiti PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 politici funzionavano, compatibilmente con la situazione, molto bene. Certo, sappiamo che non tutto fu così lineare, coerente, perfetto come Karski vuol suggerire, ma l’enfasi sulla regolarità delle riunioni politiche, sulla dimensione della stampa clandestina di vario orientamento, sulla vita culturale che prosegue, interrata ma ininterrotta, anche se confligge spesso con quelle che erano le possibilità reali, dimostra quanto Karski volesse essere un portavoce e si ponesse come un araldo con una missione da compiere. Mettere davanti al mondo il fatto che la Polonia non era morta e che attendeva solo di riorganizzarsi in piena libertà con uomini, strutture e così via non distrutte dalla guerra. Del sacrificio dei polacchi si sarebbe dovuto tenere conto al tavolo della pace! Giustamente Karski è consapevole durante il suo viaggio nel 1943 presso i maggiorenti britannici che: la valutazione del contributo polacco allo sforzo bellico cambiava molto a seconda che lo si osservasse da un gelido covo clandestino di Varsavia o dalla prospettiva londinese. Per Londra il nostro apporto si riduceva a qualche centinaio di migliaia di soldati, una manciata di navi, un migliaio di aviatori celebrati per il loro eroico sacrificio durante la battaglia d’Inghilterra, ma che erano ben poca cosa rispetto alla sterminata potenza messa in campo dagli Alleati. Il nostro sforzo bellico si limitava alla breve campagna di settembre e a qualche atto di resistenza all’invasore. Insomma che era mai il sacrificio dei polacchi a fronte dell’incommensurabile eroismo e delle inenarrabili sofferenze del popolo russo? In che misura i polacchi erano partecipi di quella titanica impresa? E, soprattutto, chi erano i polacchi?27 Ecco quindi che Karski si sforza nel suo testo del 1944 di trasmettere il senso e la misura dello sforzo polacco, della coesione morale che porta a rifiutare compromessi fino a spingersi al martirio. Non c’è un Quisling polacco, ribadisce Karski, e questo vorrà pur dire qualche cosa. Raphael Lemkin, per esempio, scrisse nel 1942 che nella Polonia occupata, i tedeschi, a differenza che negli altri paesi, specialmente quelli occidentali, non avevano guadagnato il favore di alcun gruppo (come gli industriali): l’ideale del polacco infatti è “la libertà senza compromessi – la volontà di sacrificare ogni cosa per la libertà nazionale e l’onore 27 JAN KARSKI, op. cit., p. 484. 69 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO nazionale. Perciò tutte le proposte di avere rapporti d’affari con l’occupante sono stati declinati con calma dignità28. Di qui il senso di prostrazione che coglie Karski a Lafayette Square, Washington, dopo il lungo e dettagliato colloquio con Roosevelt, guardando la statua di Kościuszko con la scritta La libertà gridò allorché Kościuszko cadde29. E abbraccia brevemente tutte le sue esperienze nella lotta che la Polonia sta compiendo. Vediamo allora brevemente alcuni punti significativi del suo racconto. La Resistenza in Polonia è iniziata subito. Non ci hanno messo molto i polacchi a capire in che trappola fossero finiti. Come nel film Katyń di Andrzej Wajda, la gente che corre sul ponte è incalzata dai due lati: i russi e i tedeschi. C’è di che suscitare fantasmi che risalgono a neanche vent’anni prima: di nuovo la Polonia intera è sotto scacco. Nella parte di Polonia ex-russa, con il centro di Varsavia, la percezione del pericolo diventa immediatamente memoria storica: bisogna fare attenzione, cominciare a organizzarsi, tenersi pronti ad agire se l’occasione si presenterà. Qui le insurrezioni del 1830 e del 1863 sono ricordi di famiglia, dietro i quali si sa che esiste una lunga abitudine alla clandestinità e alla cospirazione. A Cracovia forse la percezione del pericolo era inizialmente minore: 70 molti ricorderanno la scena del film di Wajda in cui l’intero senato accademico viene arrestato, perché i professori rispondono alla convocazione: ma non era più il tempo dell’Austria... Quanto sia automatico questo rimando al passato lo dimostra il racconto dell’arruolamento di Tadek, giovane sulla via della corruzione e del compromesso che la madre affida a Karski perché lo redima affidandogli dei compiti. Il ragazzo accetterà, la madre ne è sicura, il traviamento è passeggero: “In famiglia – spiega la donna – abbiamo una lunga tradizione patriottica. Qualcuno ha sempre combattuto nelle insurrezioni nazionali”: il bisnonno deportato in Siberia per sette anni, il nonno... “In famiglia ci siamo abituati. Sappiamo che cosa significhi morire per la patria”30. E in effetti il ragazzo risponde alla chiamata. E con lui molti altri, come spiega Karski in viaggio a Cracovia, a Lublino, a Leopoli per portare direttive, avere resoconti. E rende anche bene il quadro della diversa situazione 28 RAPHAEL LEMKIN, rec. a SEGAL SIMON, The New Order in Poland, A. Knopf, New York 1942, in «The American Family in World war II», settembre 1943, pp. 183-184. Per un breve profilo di Lemkin cfr. GIULIA LAMI, Raphael Lemkin e il male del XX secolo: riflessione sul genocidio, <www.zatik.com/newsvisita.asp?id=2052>. 29 JAN KARSKI, op. cit., p. 489. 30 IVI, pp. 364-365. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 delle varie città31: nel primo biennio bisogna tener conto anche delle differenze fra zona d’occupazione tedesca e russa. La Gestapo è brutale, ma la GPU molto più abile: i suoi uomini “impiegano metodi indiscutibilmente superiori: più sofisticati, rodati, scientifici” spiega il professore che egli contatta a Leopoli 32. Si sa che Karski dovette mettere la sordina sul tema del ruolo dei sovietici, mentre non incontrava ostacoli nel parlare di quello dei tedeschi, ma che ambedue fossero contrari alla lotta nazionale polacca e che i sovietici potessero contare su una certa dose di connivenza e di supporto da parte della popolazione è cosa nota. Karski insiste giustamente sul tributo di sangue dei polacchi, parlando alla fine del testo di 5 milioni di vittime. Il punto cruciale che spiega molte delle perdite polacche risiede proprio nell’immediatezza della reazione popolare. Come ben spiega Karski “le stime relative al possibile protrarsi del periodo d’occupazione sono determinanti per poter creare strutture clandestine”33. Le strutture sono già ben operanti nel primo biennio del conflitto, ma questo durerà più del doppio: la Resistenza subirà quindi, nel primo periodo, essendo impostata nell’ottica di una breve durata, ingenti perdite, non solo perché non era un meccanismo rodato, ma perché la tattica del breve periodo porta a moltiplicare le azioni per creare caos e destabilizzazione, più che ad attrezzarsi per un colpo significativo in un lontano futuro. Un altro tema ricorrente nella narrazione di Karski è il peso morale della scelta. Se “la fatica della cospirazione, monotona, sotterranea, pericolosa” è enorme, la realtà della clandestinità è spietata: a lui stesso, una volta all’estero, viene ricordato che c’erano due ordini, quello di metterlo in salvo e quello di liquidarlo se non ci fossero riusciti. Ugualmente il meccanismo delle rappresaglie non può bloccare l’azione: sarebbe la fine del moto di Resistenza, che agisce consapevole della ricaduta delle sue azioni, soprattutto se ben riuscite, sui civili, spesso familiari. La stessa fuga di Karski dall’ospedale di Nowy Sącz dove era ricoverato dopo le torture subite dalla Gestapo, in conseguenza del suo arresto in Slovacchia nel giugno del 1940, costerà la vita ad almeno 32 abitanti, fucilati dai tedeschi il 9 31 Sulla vita quotidiana nella Varsavia occupata dai tedeschi, che spiega anche molti passaggi del libro di Karski, cfr. TOMASZ SZAROTA, Okupowanej Warszawy dzień powszedni. Studium historyczne, Cyztelnik, Warszawa 2010. 32 JAN KARSKI, op. cit., p. 135. Così, fra gli altri, anche nel romanzo di ANDRZEJ SZCZYPIORSKI, La bella signora Seidenman, Adelphi, Milano 1988. 33 JAN KARSKI, op. cit., p. 281. 71 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO agosto del 1940 per rappresaglia. Ma anche il salvataggio di Karski a opera della Resistenza non era avvenuto per ragioni umanitarie, bensì strategiche, per preservarne il ruolo e il silenzio in caso di ulteriori torture. Si è prima strumenti e poi persone. Questo vale anche per le staffette – cui Karski dedica un lungo capitolo – elemento fondamentale, sacrificato spesso per qualche cosa di cui oggi sfugge l’importanza: la distribuzione della stampa clandestina, a volte più utile per preservare la vita politico-culturale che per fini strettamente legati alla cospirazione. Anche qui, il rimando all’attività clandestina di stampa dal 1772 alla fine della Prima guerra mondiale è un consapevole richiamo storico cui ispirarsi. In effetti, il fronte della guerra psicologica, specialità di Karski, con la propaganda che l’accompagna, è importante, oggi e in futuro. Lo sanno bene anche i tedeschi che infieriscono barbaramente sulle staffette pur sapendo che, secondo le auree regole della cospirazione, sono compartimentate e conoscono solo i contatti essenziali. Ma la tortura, con i racconti, le verità e le leggende sulla stessa che circolano, serve a creare il terrore, dovrebbe costituire un deterrente. È una lotta senza esclusione di colpi. Mi ha posto interrogativi di carattere politico e storio72 grafico la lunga dissertazione che Karski fa sui metodi impiegati dalla Resistenza, in cui rientra l’infettare i tedeschi invogliandoli a rapporti con prostitute ammalate di sifilide, l’utilizzo di germi di tifo per contaminare cibi e bevande e così via in un crescendo che Karski in toni severi sanziona come necessario, al pari dell’azione eclatante che comporta rappresaglie sproporzionate sui civili. Così è se vi pare. Mi ha colpito che egli insistesse – in un libro rivolto a un pubblico occidentale, a quelle persone che passeggiavano nella piazza Lafayette di Washington “vestite con eleganza, ben nutrite, soddisfatte di sé”34 – su questi aspetti meno ortodossi: non temeva di apparire un barbaro dell’est, di suscitare perplessità presso un mondo così lontano dal suo, forse pronto all’idea dei bombardamenti, ma non a quella della trappola a sfondo sessuale o dell’epidemia procurata? Lukas sostiene che già nell’Unione per la Vendetta (Związek Odwetu) creata nella primavera del 1940 per condurre operazioni di sabotaggio, diversione e rappresaglia venivano tenuti corsi che istruivano anche sugli aspetti della guerra chimica, batteriologica e tossicologica35: si può ritenere che avranno fornito co34 35 IVI, p. 489. RICHARD C. LUKAS, op. cit., p. 63. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 noscenze poi fatte proprie dagli organismi ufficiali di organizzazione della lotta clandestina. I tedeschi del resto si sentivano vulnerabili alle azioni della Resistenza in città, come testimoniano, per esempio, le parole di Ludwig Hahn – il consigliere “politico” del generale delle SS Jürgen Stroop, lo spietato artefice della liquidazione del ghetto –, che confessava di temere l’estensione della rete di informazione clandestina polacca e i rischi derivanti dal contatto, anche inconsapevole, con membri della Resistenza: “I polacchi riescono a minarci il morale con i mezzi più disparati: dall’alcol alle bettole, dalle puttane alla demoralizzazione ideologica, dal terrore agli attentati armati in piena strada”36. Ma per i resistenti polacchi molte operazioni di guerra non ortodossa dovevano risultare estremamente gravose. Il peso di un’inevitabile doppia morale, o meglio della sospensione delle norme morali usuali fino al soffocamento di normali sentimenti di umanità, deve essere stato enorme per un cattolico praticante come Karski: solo in nome della patria, solo in un’ottica di guerra “giusta” poté essere tollerato da lui e da molti suoi compagni di lotta in Europa. Quando Karski parte per il suo secondo viaggio con uno scapolare datogli da un prete amico che contiene l’ostia, il prete straniero si stupisce: quando mai si è vista una pratica del genere? Eppure quando si legge il suo racconto si capisce che anche questo ha un profondo significato e che il primo a riconoscervisi è lui stesso, cattolico e polacco. Senz’altro le pagine più toccanti e sconvolgenti espresse dall’autore sono quelle che descrivono l’incontro con i rappresentanti del movimento clandestino ebraico – Menachem Kirschenbaum per i sionisti e Leon Feiner per il Bund: la disperata cognizione dei suoi interlocutori che era in gioco la sopravvivenza stessa di tutti gli ebrei polacchi, il presentimento che nessuno sarebbe stato in grado di salvarli dallo sterminio è resa, nell’atmosfera spettrale dell’incontro, “una serata da incubo” dice Karski, in modo indimenticabile. Il legato che gli affidano è semplice ma impossibile: Moriremo tutti: magari qualcuno riuscirà a salvarsi, ma tre milioni di ebrei polacchi sono condannati. Lo sono anche altri portati qui da tutta Europa. Nessuno potrà impedirlo, né il movimento clandestino polacco, né quello ebraico. Faccia in modo che questa re36 KAZIMIERZ MOCZARSKI, Conversazioni con il boia, trad. it. di Vera Verdiani, postfazione Adam Michnik, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 172. 73 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO sponsabilità ricada sugli Alleati. Faccia in modo che non un solo rappresentante delle Nazioni Unite possa affermare di non aver saputo che in Polonia ci stavano uccidendo sistematicamente e che per noi l’unico aiuto poteva venire dall’esterno37. Sappiamo che il tormento di Karski sarà proprio di non aver potuto incidere sulle decisioni degli Alleati, che già da tempo avevano escluso di poter mutare strategie e obbiettivi per fermare lo sterminio, che in qualche misura, nonostante l’evidenza, continuavano in fondo a disconoscere come tale, interpretando che fosse in atto “solo” l’ennesima persecuzione di Faraone, assolvendosi così dall’incapacità di intervenire con mezzi altrettanto estremi come quelli messi in atto da Hitler. Ugualmente di un’intensità a tratti intollerabile sono le pagine dedicate alla visita di Karski nel ghetto e ancor più in quello che allora egli riteneva essere il campo di Bełżec e che invece era un campo di transito, altrettanto se non più spaventoso per l’assoluta ferocia delle modalità con cui veniva periodicamente svuotato dei suoi occupanti, destinati a morire già nei treni per il trasporto, anticipazione delle future camere a gas. Qui il senso di sgomento è accentuato dal contrasto fra l’umano Karski, in grado di vedere, capire e sentire e l’indifferenza 74 del suo accompagnatore, che nella versione non censurata del libro è un ucraino. Poco importa oggi la nazionalità di questo accompagnatore: un volonteroso carnefice dei tanti emersi in Polonia e altrove al momento del bisogno e poi forse rientrato nel quotidiano da cui la guerra l’aveva purtroppo tratto fuori a dar prova di sé38. Brutalmente, il già ricordato generale delle SS Jürgen Stroop, rievocando la liquidazione del ghetto di Varsavia da lui condotta nel 1943 nelle sue conversazioni con Kazimierz Moczarski, membro dell’AK, con cui divise dopo la guerra per nove mesi la stessa cella nel carcere di Mokotów, esprime il suo disprezzo per gli “ascari” – lituani, lettoni, estoni – che non sempre furono in grado d’affiancare i tedeschi nelle operazioni. Fra l’antisemitismo professato e la capacità di uccidere indiscriminatamente esisteva una distanza di cui Stroop non riusciva a capacitarsi. Come nel caso di un lettone che fremeva di entrare nel ghetto, ma poi al dunque si rivelò un 37 JAN KARSKI, op. cit., p. 403. DANIEL. J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler, Arnoldo Mondadori, Milano 1997. Sulle tesi di Goldhagen e le polemiche cui hanno dato luogo cfr. MICHAEL BRENNAN, Some Sociological Contemplations on Daniel J. Goldhagen’s Hitler’s Willing Executioners, in «Theory Culture Society», 18 (4), 2001, pp. 83-109. 38 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 “perfetto cretino”, perché una volta dentro, questo nordico dagli occhi azzurri, piangeva: Balbettava parole rotte: che “non ce la faceva... che tutto quel sangue, quei cadaveri, quei bambini...” e roba del genere. Incapace di dominarmi lo colpii in faccia e lo feci buttare fuori dal ghetto insieme a quegli altri smidollati di “ascari”39. Ma qui si apre un discorso molto complesso, come ha dimostrato Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati, cercando di delineare i contorni della cosiddetta “zona grigia” dentro e fuori dall’universo concentrazionario40. Se si può usare il termine zona grigia in senso lato, va da sé che essa variò da paese a paese, da situazione a situazione, ma senz’altro permise l’espletarsi dei crimini nazisti. Resta poi sempre la necessità per lo storico di capire quali fossero le effettive possibilità da parte di una popolazione di interferire con i piani di sterminio portati avanti sistematicamente dai nazisti e dai loro più determinati collaboratori. Vale secondo me la riflessione che conduceva Borejsza a proposito della polemica innescata da Klaus-Peter Friedrich41: sulle forme di collaborazione con l’occupante tedesco (a lungo nascoste), l’antisemitismo e l’anticomunismo della Resistenza polacca, l’atteggiamento verso gli ebrei, l’arrivo dei Volksdeutch in Polonia, le attività della polizia polacca (PP) e dei polacchi ai servizi di costruzione (Baudienst)42. Indicando lo storico tedesco in conclusione che la volontà di lotta e di resistenza non coinvolse più del 25% della popolazione polacca, in realtà fornisce una cifra molto alta rispetto alla realtà europea dove Bédarida parlava di un 1 o 2% della popolazione totale coinvolta in forme di resistenza attiva43. È equilibrato, a mio avviso, lo studio di Lukas che mette sempre in rilievo la complessità del quadro politico e bellico polacco e fa giustizia di molti stereo39 KAZIMIERZ MOCZARSKI, op. cit., p. 199. PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. 41 KLAUS-PETER FRIEDRICH, Über den Widerstandsmythos im besetzten Polen in der Historiographie, in «Zeitschrift fur Sozialgeschichte des 20. und 21. Jahrhunderts», 1.3.1998, pp. 10-60. 42 JERZY W. BOREJSZA, La Resistenza in Polonia, cit., p. 80. 43 Il rimando di Borejsza è: FRANÇOIS BÉDARIDA, Résistants, in 1938-1948. Les années de tourmente. De Munich à Prague. Dictionnaire critique, a cura di Jean-Pierre Azéma, François Bédarida, Flammarion, Paris 1995, p. 703. 40 75 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO tipi, non nascondendo certo le difficoltà di giungere a una valutazione complessiva dei rapporti fra polacchi ed ebrei nelle condizioni estreme dell’occupazione nazista. Certo non in tutti i paesi, come in Polonia, la pena per l’aiuto agli ebrei era quella di morte, né era così difficile prestare un aiuto effettivo a coloro che erano rinchiusi nel ghetto44. In nessun altro paese d’Europa, del resto, gli ebrei diedero prova di così grande determinazione e capacità di resistenza armata, se consideriamo che l’insurrezione durò praticamente dal gennaio al maggio del 1943. Per tornare alla testimonianza di Stroop, nelle cui pieghe si celano molti non-detti, dal punto di vista tedesco gli ebrei polacchi erano particolarmente combattivi sulla scia dell’esempio e dell’insegnamento polacco. Non a caso nei suoi molti rapporti ai comandi superiori sulle operazioni nel ghetto egli parla ripetutamente di “banditi” e “terroristi” polacchi, come delle bandiere ebrea e polacca innalzate insieme in segno di sfida45. Proprio a questo proposito in una delle conversazioni con Moczarski ricorda come sia stato per lui prioritario cercare di rimuoverle: La questione delle bandiere rivestiva un profondo significato politico e morale. Faceva 76 presente il problema polacco a centinaia di migliaia di persone, le ispirava, le incitava. Accomunava tutta la popolazione del Governatorato Generale e, in particolare, creava un legame fra gli ebrei e i polacchi. Come strumento di lotta, le bandiere e i colori nazionali equivalgono non a uno, ma a mille cannoni a tiro rapido. Lo capivano tutti: Heinrich Himmler, Krüger, Hahn. Il Reichfürer gridava al telefono: “Senti Stroop: tira giù quelle due bandiere a qualsiasi costo!”46. Stroop in più occasioni spende parole d’elogio per le qualità combattenti degli ebrei, sia di coloro che conducevano la lotta nei boschi, da soli o con gruppi di resistenti polacchi, sia a proposito degli ebrei che condussero la battaglia nel ghetto contro le forze tedesche da lui comandate. Parlando a Moczarski di questi ultimi, Stroop ammette: 44 TERESA PREKEROWA, Konspiracyjna Rada Pomocy Żydom w Warszawie 1942-1945, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1982; KAZIMIERZ IRANEK-OSMECKI, Kto ratuje jedno życie... Polacy i Żydzi 1939-1945, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009. Sul ghetto di Varsavia, le condizioni di vita al suo interno e i difficili rapporti con l’esterno, nella ormai vasta letteratura, restano vivida testimonianza EMANUEL RINGELBLUM, Sepolti a Varsavia, Mondadori, Milano 1962; MICHEL BORWICZ, L’insurrection du ghetto de Varsovie, R. Juillard, Paris 1966. 45 Cfr. il rapporto di Jürgen Stroop al generale Krüger del 26 maggio 1943 in GIORGIO VACCARINO, Storia della Resistenza in Europa, cit., pp. 392-393. 46 KAZIMIERZ MOCZARSKI, op. cit., pp. 195-196. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Adesso non avevamo più a che fare con delle masse abuliche. Quella era l’élite sionista, gente che sapeva perché e per che cosa combatteva. Gente dura, dotata di carattere, addestrata, approvvigionata. Tenace, astuta, pronta a morire47. Qui Moczarski, che senza dubbio aveva in mente l’Insurrezione di Varsavia del 1944, non può trattenersi dal chiedergli se non creda che gli insorti del ghetto “sapessero anche loro che la cosa più importante non è la morte, ma il modo in cui si muore? Non crede che difendessero la dignità umana e la futura memoria della loro società?”. E Stroop, che non può contraddire se stesso e le ragioni che hanno sostenuto la sua vita e la sua azione di boia, appunto, risponde istantaneamente che gli ebrei non hanno, non sono in grado di avere “il sentimento dell’onore e della dignità. In realtà l’ebreo non è un uomo a pieno titolo. Gli ebrei sono dei subuomini. Hanno sangue, tessuti, ossa e pensieri diversi da quelli di noi europei, ‘ariani’ e, soprattutto, da quelli di noi ‘nordici’”48. Egli sa del resto bene, nella sua astuzia difensiva, che il problema dei rapporti fra polacchi ed ebrei è destinato a rimanere controverso nel dopoguerra, per cui a un certo punto delle sue conversazioni/confessioni minaccia in sede processuale di mentire, di dichiarare cioè “che i polacchi guardavano con indif49 ferenza – anzi con approvazione – la liquidazione degli ebrei” . In realtà, il governo polacco a più riprese non fece mistero con gli Alleati delle allarmanti notizie che provenivano dalla Polonia, né si astenne dal chiedere decisivi interventi da parte loro. Come scrive Lukas: The policies of the Sikorski government on behalf of the Jews took courage to balance between two criticisms: Some Poles in the emigration and in the homeland thought the London Poles paid too much attention to the Jews, while many western Jews, oblivious to the tragic experiences the poles endured at the hands of the Nazis, believed the Polish government did not do enough for their kinsmen in Poland50. E in ogni caso, come ricorda proprio Lukas, non avrebbe dovuto sussistere più alcun dubbio sullo sterminio degli ebrei nelle menti dei politici occidentali dopo l’ampio lavoro informativo condotto da Karski a Londra e negli Stati Uniti51. 47 48 49 50 51 IVI, p. 210. IVI, p. 210-211. IVI, p. 239. RICHARD C. LUKAS, op. cit., cfr. in part. il cap. 6, pp. 152-181, p. 161. IVI, p. 158. Si veda anche il testo molto ricco di informazioni di TADEUSZ BÓR-KOMOROWSKI, 77 GIULIA LAMI STORIA DI UNO STATO SEGRETO In ultimo vorrei sottolineare un altro aspetto di questo libro: al di là dell’intento prettamente politico e a futura memoria da cui era ispirato, è anche un’opera letteraria. Molti episodi sono senz’altro costruiti con omissioni e inesattezze per ragioni di cautela, altri sembrano inseriti a scopo didascalico o per esprimere con immagini concrete i sentimenti dell’autore per far fluire la narrazione. Così, come poi conferma Bernardini nella postfazione, l’incontro a Berlino con i due amici d’anteguerra che esprimono solo odio antisemita davanti al pur impressionante racconto di ciò che egli ha visto nel campo di transito. Sono figure paradigmatiche, forse la summa di immagini di amici tedeschi liberali e non ostili ai polacchi di prima della guerra, sui cui sentimenti nell’ora fatale Karski si sarà interrogato, vedendo l’agire dei loro connazionali all’opera in Polonia. Nessuna umanità, empatia, comprensione, ma fedeltà a Hitler o meglio a chi permetteva loro di esternare sentimenti forse a lungo sopiti. È una certezza o un timore quello che Karski vuol rappresentare? I tedeschi ne escono perduti. Ma perduto si sentiva anche Karski. Vi è una differenza fra il Karski letterario del 1944 e il Karski cinematografico dell’intervista a Claude Lanzmann del 1978. Sono passati decenni di riflessioni, di studi, di confronti di 78 memorie, di rappresentazioni, di racconti52. La visione del Karski anziano è più complessa, ma più dolente e impietosa. Ricordo le parole citate nel libro che Gabriele Nissim ha dedicato a Karski. Da un’intervista del 1981: Ma io sono anche un cristiano ebreo. Io sono un cattolico praticante. Sebbene io non sia un eretico, la mia fede mi dice che l’umanità ha commesso un secondo peccato originale, con le sue azioni, con l’omissione di soccorso, con l’indifferenza, con l’insensibilità, con l’egoismo, con l’ipocrisia e una fredda razionalizzazione. [...] Questo peccato perseguiterà l’umanità fino alla fine dei tempi. Questo peccato mi perseguita. E io voglio che sia così53. [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 60-78] The secret Army, Gollancz ltd, London 1951. Ricco di particolari sulla missione di Karski negli Stati Uniti è il recente EWA CYTOWSKA-SIEGRIST, Stany Zjednoczone i Polska 1939-1945, Neriton, Warszawa 2013. 52 Si veda PIETRO MARCHESANI, Echi della rivolta del ghetto di Varsavia nella letteratura polacca contemporanea, a cura di Laura Quercioli Mincer, in «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 2013, pp. 298-316. 53 GABRIELE NISSIM, La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti, Mondadori, Milano 2011, p. 140. MACIEJ PODBIELKOWSKI Lo Stato clandestino polacco 1. La Campagna di settembre e la quarta Spartizione della Polonia I l 1° settembre 1939 alle ore 4.45 la Germania dette inizio alle operazioni belliche contro la Polonia senza alcuna formale dichiarazione di guerra. Nonostante la superiorità numerica del nemico (più che doppia), l’esercito polacco resistette oltre un mese. La Polonia, legata da trattati d’alleanza a due potenze mondiali, la Francia e la Gran Bretagna, non ottenne l’aiuto promesso. I governi di questi Stati si limitarono soltanto a una formale dichiarazione di guerra contro Hitler, senza intraprendere alcuna attività bellica. Il 17 settembre le truppe dell’Armata Rossa oltrepassarono le frontiere della Polonia. Questo passo fu la conseguenza dell’accordo firmato tra Germania e Unione Sovietica il 23 agosto 1939, passato alla storia come il trattato Ribbentrop-Molotov. L’accordo politico-militare riguardante le zone d’interesse dei rispettivi paesi in Europa centrale costituiva una clausola segreta del documento. Il 28 settembre 1939, mentre ancora si registravano combattimenti dovuti a isolati focolai di resistenza, Germania e Unione Sovietica firmarono un trattato d’amicizia, accordandosi anche sulla questione dei confini e sulla definitiva spartizione delle terre polacche. L’originaria linea di divisione dei territori occupati, coincidente con il corso della Vistola, fu spostata lungo il fiume Bug (linea Curzon), come ricompensa per l’ingresso della Lituania nella zona di influenza sovietica1. Nonostante la drammatica piega degli eventi, la Polonia non capitolò. Nessun politico polacco si disse pronto a collaborare con gli occupanti, a diffe1 Cfr. SŁAWOMIR DĘBSKI, Między Berlinem a Moskwą. Stosunki niemiecko-sowieckie 1939-1941, Polski Instytut Spraw Międzynarodowych, Warszawa 2007; Geneza paktu Hitler-Stalin. Fakty i propaganda, a cura di Bogdan Musiał, Jan Szumski, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2012. 79 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO renza di molti altri Stati che in seguito sarebbero stati sconfitti dalla Germania e in cui s’instaurarono governi collaborazionisti. Nella notte tra il 17 e il 18 settembre le più alte autorità della Repubblica di Polonia attraversarono il confine, rifugiandosi nell’alleata Romania. In questo modo allontanavano qualsiasi ipotesi di capitolazione nei confronti dei tedeschi, garantendo al contempo la continuazione dell’esistenza dello Stato. A causa delle pressioni di Hitler, il governo romeno internò il presidente con i politici al suo seguito. Vista la situazione, il presidente Mościcki ricorse a un particolare iter costituzionale, che gli permetteva di nominare come suo successore il maresciallo del senato, Władysław Raczkiewicz, che si trovava in Francia. La nomina di Raczkiewicz fu la prova di una precisa volontà di giungere a una soluzione di compromesso con l’opposizione. Il 30 settembre, infatti, Raczkiewicz affidava l’incarico di premier e comandante supremo dell’esercito al gen. Władysław Sikorski, leader ufficioso dell’opposizione che godeva dell’esplicito appoggio della Francia. Il presidente si impegnò a fare uso delle proprie ampie prerogative di comune accordo col governo. Entrarono a far parte del nuovo gabinetto i ministri dei quattro principali partiti di opposizione. In questo modo si giunse a un sostanziale mutamento politico al vertice del 80 governo polacco, nonché a una modifica informale della Costituzione2. Tale ordine perdurò fino alla fine del 1944. 2. Due occupazioni 2.1 L’occupazione tedesca Dopo la Campagna del settembre 1939 iniziò l’occupazione della Polonia, destinata a durare diversi anni. I tedeschi occuparono i territori polacchi fino ai fiumi Bug e San. Il territorio a est di questi fiumi era invece occupato dall’Unione Sovietica. La maggior parte dei territori conquistati dai tedeschi (Pomerania, Grande Polonia, Slesia e Masovia settentrionale e occidentale con le città di Łódź, Płock e Włocławek) furono direttamente annessi al Reich. La popolazione polacca di questi territori fu privata dei diritti civili e di quelli allo studio e alla cultura, del diritto a scegliersi liberamente un lavoro, di trasferirsi e viaggiare liberamente. Chi non sottostava a queste regole rischiava l’arresto, la deportazione 2 Cfr. JÓZEF GARLIŃSKI, Poland in the Second World War, Macmilan, London 1985. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 in un campo di concentramento o la pena capitale. Quasi un milione di abitanti furono deportati da quelle terre nelle zone interne del paese, dove venne istituito il Governatorato Generale, sottoposto a un regime di occupazione. Facevano parte del Governatorato Generale i rimanenti territori occupati dai tedeschi: la Masovia centrale e meridionale con Varsavia e Radom, nonché la Piccola Polonia con Cracovia, Kielce e Lublino; a dirigerlo vi era Hans Frank, con il titolo di governatore generale e con un potere assoluto. Cracovia era la capitale del Governatorato e il Wawel il luogo di residenza del governatore. Il territorio occupato era diviso in distretti a capo dei quali erano stati posti altrettanti governatori. L’amministrazione, la polizia e la giustizia erano gestite da istituzioni tedesche, mentre ai polacchi fu permesso di ricoprire cariche esecutive soltanto ai gradi più bassi della gerarchia amministrativa (sindaci, capi villaggio, borgomastri). Lo status legale, le condizioni occupazionali e di vita dei polacchi che risiedevano nel Governatorato Generale erano assimilabili a quella di sudditi privati dei più basilari diritti civili. Le autorità tedesche instaurarono un regime di occupazione più duro di qualsiasi altra occupazione tedesca in atto. Nelle città vigeva il coprifuoco; l’istruzione era limitata alle sei classi della scuola elementare, mentre vennero abolite quella secondaria e superiore. Le istituzioni di alta formazione furono chiuse, mentre insegnanti e professori universitari furono arrestati. Fu impedito il funzionamento di grandi istituzioni culturali quali i teatri, le gallerie, i musei. Fu fatto divieto di eseguire opere di compositori polacchi e di Chopin in particolare. Quasi immediatamente dopo la conquista e la sottomissione del paese, le autorità tedesche diedero il via a un’operazione segreta dal criptonimo AB: l’eliminazione fisica dell’élite intellettuale polacca. Morirono circa 50.000 persone. Solo a Palmiry, nei dintorni di Varsavia, vennero seppellite più di 2.000 vittime3. I tedeschi colpirono anche la Chiesa polacca. Nel solo Governatorato Generale morirono – nelle esecuzioni o nei campi di concentramento – più di 2.500 religiosi. Il simbolo del martirio del clero polacco è San Maksymilian Kolbe, che sacrificò ad Auschwitz la propria vita accettando di morire di fame al posto di un altro prigioniero. 3 Cfr. JOCHEN BÖHLER, KLAUS-MICHAEL MALLMANN, JÜRGEN MATTHÄUS, Einsatzgruppen w Polsce, Bellona, Warszawa 2009; MARIA WARDZYŃSKA, Był rok 1939. Operacja niemieckiej policji bezpieczeństwa w Polsce. Intelligenzaktion, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009. 81 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO Il programma a lungo termine (General Ost-Plan) prevedeva la sopravvivenza della popolazione polacca in proporzioni residuali (tra i cinque e i dieci milioni di abitanti) come riserva di forza lavoro a basso costo4. Si prese anche in considerazione il futuro il trasferimento dei polacchi a est (ad es. in Siberia). L’obbligo all’attività lavorativa scattava al compimento del sedicesimo anno d’età. Si deportarono in massa operai polacchi nel Reich, ridotti ai lavori forzati nelle fabbriche o nell’agricoltura. Le autorità limitarono drasticamente le possibilità della popolazione di fare acquisti, regolamentando il commercio di alimenti quali la carne, i grassi e lo zucchero. Il commercio di tali alimenti al di fuori del sistema di razionamento era severamente vietato5. Leggi draconiane prevedevano la pena di morte o la deportazione persino per reati relativamente lievi, quali ad es. il contrabbando di generi alimentari. Speciali tribunali di polizia, di fronte ai quali non v’era possibilità di difesa, emettevano sentenze inappellabili. Inoltre, la maggior parte delle sentenze veniva emessa in contumacia e in maniera sommaria, cosa che significava un’estrema velocizzazione del procedimento e una quasi sicura condanna a morte o alla deportazione. Spesso veniva applicato il principio della responsabilità collettiva, in 82 base al quale venivano condannate persone arrestate casualmente come ritorsione per un danno inflitto alla Germania o alle sue istituzioni6. 2.1.1 La situazione degli ebrei L’ideologia della Germania nazista era fondata sul razzismo, basato sulla divisione dell’umanità in razze superiori e inferiori. Al vertice di questa scala gerarchica c’era la razza nordica, i tedeschi, mentre i popoli considerati inferiori dovevano sottomettersi e servirli. L’odio più intenso era riservato a ebrei e zingari (Rom), ai quali non veniva nemmeno riconosciuto il diritto di esistere. Fin 4 A questo proposito cfr. GÖTZ ALY, SUSANNE HEIM, Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und die deutschen Pläne für eine neue europäische Ordnung, Hoffmann & Campe, Hamburg 1991; CZESŁAW MADAJCZYK, Generalny Plan Wschodni: Zbiór dokumentów, Główna Komisja Badania Zbrodni Hitlerowskich w Polsce, Warszawa 1990; Memoriale del prof. Konrad Meyer-Hetling, Generalny Plan Wschodni – prawne, gospodarcze i przestrzenne podstawy odbudowy wschodu (ted. Generalplan Ost – rechtliche, wirtschaftliche und räumliche Grundlagen des Ostaufbaus); TERESA ŚWIEBOCKA, HENRYK ŚWIEBOCKI, Auschwitz – Rezydencja śmierci, Państwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau, Biały 2007. 5 Cfr. CZESŁAW MADAJCZYK, op. cit. 6 Cfr. TOMASZ SZAROTA, Okupowanej Warszawy dzień powszedni, Wydawnictwo Czytelnik, Warszawa 2010. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 dall’inizio dell’occupazione gli ebrei furono obbligati a portare su di sé un contrassegno particolare: la Stella di David. Successivamente, a cominciare dal 1940, si iniziò a trasferirli in zone a essi esclusivamente riservate, all’interno delle città più grandi, nei cosiddetti “ghetti”, dai quali era proibito uscire, pena la morte. La stessa fine sarebbe toccata ai polacchi che vi fossero entrati, per non parlare di chi si fosse spinto ad aiutare gli ebrei. Le condizioni di vita nei ghetti erano disumane. Le persone vivevano in terribili condizioni di affollamento, spesso senza servizi sanitari e igienici; la fame imperava e si diffondevano le malattie, decimando gli abitanti. Particolari sofferenze toccarono ai più deboli: bambini, malati, anziani. I tedeschi infierivano sugli ebrei, umiliandoli e obbligandoli ai lavori pesanti. L’uccisione di un ebreo non era punita in alcun modo. A gennaio del 1942, durante la conferenza di Wansee, fu pianificata la “soluzione finale del problema ebraico” (Endlösung). Si trattava della condanna a morte per ogni singolo individuo appartenente al popolo ebraico. Gli ebrei polacchi ed europei venivano deportati e massacrati nei campi di sterminio di Auschwitz (Oświęcim), Treblinka, Majdanek, Sobibór, Bełżec e in altri. Il 19 aprile 1943 scoppiò l’insurrezione nel ghetto di Varsavia. Dopo averla stroncata, i nazisti rasero al suolo l’intero ghetto7. 2.2 L’occupazione sovietica A differenza dei tedeschi, che non nascondevano le loro intenzioni nei confronti della nazione polacca, l’Unione Sovietica si sforzava di giustificare la propria politica richiamandosi ad argomenti propagandistici. L’aggressione dell’Armata Rossa del 17 settembre venne chiamata “aiuto fraterno alle nazioni bielorussa e ucraina”. Le autorità sovietiche affermarono che era stata necessaria in considerazione del venir meno dello Stato polacco, ammantando così di una parvenza di legalità l’annessione all’Unione Sovietica delle terre orientali polacche. Nei territori occupati dall’Armata Rossa fu organizzata una specie di farsa 7 A questo proposito cfr. TIMOTHY SNYDER, Bloodlands: Europe between Hitler and Stalin, Basic Books, New York 2010; CHRISTOPHER R. BROWNING, The Origins of the Final Solution: The Evolution of Nazi Jewish Policy, September 1939 – March 1942, University of Nebraska Press, Lincoln 2004; DAVID CESARANI, Eichmann: His Life and Crimes, Vintage, London 2006; WŁADYSŁAW BARTOSZEWSKI, ZOFIA LEWINÓWNA, Ten jest z ojczyzny mojej. Polacy z pomocą Żydom 1939-1945, Świat Książki, Warszawa 2007; STEFAN KORBOŃSKI, Polacy, Żydzi i Holocaust, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2011; TERESA PREKEROWA, Konspiracyjna Rada Pomocy Żydom w Warszawie 1942–1945, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1982. 83 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO elettorale. Già il 22 ottobre 1939 si impose ai cittadini polacchi di votare liste di candidati (preparate a Mosca) per le assemblee popolari della “Bielorussia Occidentale” con capitale Białystok e dell’”Ucraina Occidentale” con capitale Leopoli. Questi parlamenti fantoccio inviarono poi la “richiesta” di annessione all’URSS, cosa che ebbe luogo il 2 novembre 1939. Allo stesso modo dei tedeschi, i sovietici iniziarono arrestando i rappresentanti dell’intellighenzia polacca e mettendo a morte molti patrioti polacchi, inclusi appartenenti alla gioventù scoutistica. La forma principale di lotta contro i polacchi consisteva nel loro trasferimento e deportazione verso campi di lavori forzati in Siberia, corrispondenti ai campi di concentramento tedeschi; in alternativa capitava anche che essi venissero obbligati a emigrare altrove, lontano dalla propria regione di origine. Fino al giugno 1941 quasi 900.000 persone furono deportate a est, in carri bestiame, senza cibo e spesso anche senza acqua. I genocidi più noti sono quelli compiuti a Katyń, Miednoje e Char’kov, dove morirono più di 22.000 ufficiali e poliziotti, fatti prigionieri nel settembre del 1939. L’ordine di fucilazione fu firmato da Stalin e da membri del Politbjuro il 5 marzo 19408. 84 3. Lo Stato clandestino polacco Le prime iniziative per organizzare un’attività cospirativa risalgono già agli ultimi giorni della difesa di Varsavia nel settembre del 1939. Nacque un’organizzazione segreta chiamata Servizio per la Vittoria della Polonia [Służba Zwycięstwu Polski, SZP], con a capo il gen. Michał Karaszewicz-Tokarzewski e il politico socialista Mieczysław Niedziałkowski. Il premier Władysław Sikorski aveva invece un’altra concezione di ciò che doveva essere lo Stato clandestino polacco. Secondo le sue istruzioni, che giunsero nel paese nell’autunno del 1939, si procedette all’organizzazione di strutture cospirative statali articolate su due settori ben distinti, per quanto tra loro collaboranti: una civile e l’altra militare. A capo di quello civile si trovava il delegato del governo interno, funzione ricoperta, in successione, dalle seguenti personalità: Cyryl Ratajski, Jan Piekał8 Cfr. RICHARD C. LUKAS, Zapomniany holokaust. Polacy pod okupacją niemiecką 1939-1944, Dom Wydawniczy Rebis, Poznań 2012; STANISŁAW CIESIELSKI, WOJCIECH MATERSKI, ANDRZEJ PACZKOWSKI, Represje sowieckie wobec Polaków i obywateli polskich, wyd. II, Ośrodek Karta, Warszawa 2002; JANUSZ ZAWODNY, Death in the Forest. The Story of the Katyn Forest Massacre, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1962. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 kiewicz, Jan Stanisław Jankowski, Stefan Korboński. Al delegato faceva capo una delegazione articolata in dipartimenti, corrispondenti a quelli che in tempo di pace sono i Ministeri: degli Affari Interni, dell’Informazione, della Cultura e Istruzione, del Lavoro, dell’Agricoltura, dell’Industria. Essi si occupavano allo stesso tempo sia di incombenze immediate (ad es. la creazione di una rete scolastica clandestina, la tutela delle opere d’arte dalla distruzione o dalla requisizione e trasferimento in Germania, la registrazione dei danni provocati dagli occupanti, gli aiuti alla popolazione) sia di programmare azioni per la ricostruzione a guerra finita. Il Dipartimento dell’Agricoltura elaborò un piano per la creazione di aziende agricole statali che diffondessero moderne tecniche di coltivazione. Il Dipartimento di Giustizia lavorò invece a un Codice di Moralità Civica, punto di riferimento per i tribunali dello Stato clandestino, che sulla base di quelle norme contrastavano qualsiasi accenno di collaborazione col nemico9. L’aiuto agli ebrei era compito inizialmente di uno specifico reparto dell’Ufficio Informazione e Propaganda, mentre a partire dal settembre 1942 se ne occupò Żegota, il Consiglio per l’aiuto agli Ebrei, con a capo Zofia KossakSzczucka, proveniente da una piccola organizzazione cospirativa, il Fronte di Rinascita della Polonia. Si tratta dell’autrice della famosa Protesta, intesa a rendere consapevole la società delle dimensioni dello sterminio intrapreso nel ‘42, un appello a reagire alle coscienze di tutto il mondo10. Accanto al delegato del governo operava il parlamento cospirativo, che raccoglievano delegati dei partiti politici polacchi che aderivano alla coalizione di governo: il Partito Socialista Polacco, il Partito Popolare, il Partito Cristiano del Lavoro, il Partito Nazionale. Esso si chiamò inizialmente Comitato Politico d’Intesa, poi Rappresentanza Politica Nazionale e dal gennaio 1944 Consiglio di Unità Nazionale, guidato dal socialista Kazimierz Pużak. Il ramo civile della struttura cospirativa si occupò anche di organizzare tribunali che giudicassero i collaborazionisti o condannassero i funzionari tedeschi macchiatisi di delitti particolarmente efferati. Si prepararono anche piani di riforma sociale e politica per la futura Polonia indipendente. Il documento più importante promulgato dal Consiglio di Unità Nazionale è quello del 15 marzo 1944, dal titolo Per che cosa combatte la Polonia, che 9 Cfr. STEFAN KORBOŃSKI, The Jews and the Poles in World War II, Hippocrene Books, New York 1989. 10 Ibidem. 85 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO dava una visione futura del paese: la sua collocazione nell’Europa e nel mondo, i suoi confini postbellici, le alleanze, la conformazione democratica del governo, della società e dell’economia. La Polonia, in quanto prima vittima della guerra, s’aspettava un mutamento profondo dei rapporti politici internazionali e ambiva a un’adeguata posizione nel consesso degli Stati liberi e democratici, in considerazione dei meriti conquistati nella lotta alla Germania nazista e degli innumerevoli sacrifici, incessantemente affrontati fin dall’inizio della guerra. Il Consiglio dichiarò che la Polonia aderiva ai valori cristiani e umanistici, fondamento della civiltà europea. Il punto di riferimento per la costituzione del nuovo ordine postbellico doveva essere la Carta Atlantica, che garantiva a tutti i paesi il diritto all’eguaglianza, alla sovranità e alla piena libertà, articolata nelle sue strutture sociali. La Polonia del dopoguerra avrebbe ricercato la propria sicurezza vuoi nell’alleanza con gli Stati occidentali, vuoi con le organizzazioni internazionali, vuoi – e questo fu un elemento di novità – aspirando a un federalismo regionale centro-europeo. L’intenzione era di allargare ai restanti Stati centro-europei la confederazione ceco-polacca pianificata in precedenza. Essa avrebbe dovuto es86 sere in grado di opporsi efficacemente tanto alla Germania quanto a eventuali aspirazioni imperialiste dell’URSS. Il fatto che il documento menzionasse lo Stato lituano equivaleva a un’assunzione di responsabilità da parte della Polonia nei confronti dei Paesi Baltici, annessi all’URSS nel 1940. Si postulava la necessità di intrattenere rapporti di pacifico vicinato con l’URSS, escludendo al contempo nel modo più categorico qualsiasi ingerenza sovietica, soprattutto la possibilità da parte di quest’ultima di imporre alla Polonia un sistema socialista. La Terza Repubblica doveva nascere come Stato democratico. Questo riguardava non solo le istituzioni politiche ma anche aspetti essenziali nell’ambito dei rapporti sociali. L’aspirazione era quella di affidare allo Stato democratico e al governo indipendente un ruolo predominante nel dirigere la vita economica, sociale e culturale del paese. L’economia era vista come campo d’azione di tre settori: quello pubblico, amministrato dallo Stato sulla base di una pianificazione e che avrebbe compreso i settori strategici e più innovativi dell’industria, e i due settori a esso complementari, quello cooperativo e quello privato. In tutte le tipologie di impresa doveva instaurarsi un autogoverno dei lavoratori, fornito di propri organi dirigenti, che promuovesse rapporti democratici tra datore di lavoro e dipendenti. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Fu prevista una radicale riforma della proprietà terriera. Grazie a una parcellizzazione forzata della grande proprietà sarebbero dovute nascere imprese agricole a conduzione familiare, capaci di una produzione su grande scala. Lo Stato avrebbe dovuto impegnarsi a vantaggio dell’istruzione dei cittadini, in particolar modo della classe operaia e contadina, lavorando attivamente per democratizzare l’accesso ai benefici di una cultura di più alto grado e per favorire le relazioni interpersonali a tutti i livelli della vita sociale. Nell’ambito delle politiche riguardanti la questione delle nazionalità influì senz’altro l’esperienza bellica. La Polonia partiva dal presupposto della inamovibilità dei confini orientali, così come erano stati delineati dal trattato di Riga nel 1921, pensando di risolvere il problema delle minoranze concedendo loro l’autonomia e conservando al contempo l’integrità territoriale del paese. D’altra parte si consideravano acquisizioni territoriali sicure – a nord e a ovest – la Prussia Orientale, la Pomerania Centrale, la Slesia Inferiore fino a Opole con il confine lungo il corso dell’Oder11. A partire dal dicembre del 1939 la sezione militare dello Stato clandestino fu chiamata Unione per la Lotta Armata [Związek Walki Zbrojnej, ZWZ], e dal 1942 Esercito Nazionale [Armia Krajowa, AK]. Il cambio di denominazione non era casuale: quella nuova sottolineava il fatto che l’esercito in questione era parte delle forze armate polacche impegnate al fianco degli Alleati. Il cambio di denominazione significava anche l’avvenuta unificazione in un’unica struttura di molte formazioni militari fino ad allora operanti in autonomia, quali i “Battaglioni Contadini”, i settori delle Forze Armate Nazionali e altre ancora. I soldati e gli ufficiali dell’AK prestavano giuramento, ricevevano un’istruzione militare e partecipavano ad azioni armate contro i tedeschi. Una parte di essi conduceva una normale vita civile, mentre altri appartenevano a formazioni partigiane stanziate nelle foreste e conducevano azioni armate contro il nemico. Per le fila dell’AK passarono più di 300.000 soldati. A capo dell’esercito era il comandante generale, nominato dal comandate supremo in esilio. Ricoprirono la funzione di comandante generale, in successione, i generali Stefan Rowecki, pseud. “Grot”, Tadeusz Komorowski, pseud. “Bór”, Leopold Okulicki, pseud. “Niedźwiadek”. Al comandante era sottoposto il comando generale, i cui reparti specializzati si occu11 STEFAN KORBOŃSKI, W imieniu Rzeczypospolitej, Instytut Literacki, Paryż 1954; ANDRZEJ FRISZKE, O kształt Niepodległej, Biblioteka Więzi, Warszawa 1989. 87 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO pavano dei collegamenti, dell’addestramento militare, dello spionaggio, degli armamenti, dell’informazione e della propaganda. Al comando generale rispondevano delle sezioni territoriali: c’erano tre regioni (Varsavia, Leopoli e quella Occidentale), suddivise in distretti (corrispondenti ai voivodati), a loro volta articolati in circoscrizioni (corrispondenti alle province) e infine in avamposti (corrispondenti ai comuni). Al livello più basso i soldati erano organizzati in plotoni, squadre e sezioni. Una sezione era composta di cinque soldati. La regola basilare della cospirazione era che i soldati dovessero conoscere esclusivamente i membri della propria sezione e solo per pseudonimo; il loro comandante a sua volta conosceva soltanto il proprio diretto superiore12. I compiti dell’esercito si dividevano nella preparazione di un’insurrezione generale contro i tedeschi e nella messa in atto delle cosiddette “azioni ordinarie”. La realizzazione dello scopo principale dipendeva dalla situazione globale, ossia dall’offensiva definitiva degli Alleati e dal collasso delle forze tedesche. Nella categoria delle “azioni ordinarie” rientravano le azioni di diversione (attacchi diretti alle forze tedesche), di sabotaggio (attività clandestine a scapito dell’occupante), di autodifesa, di addestramento militare, di spionaggio, di col88 legamento con i centri dell’emigrazione, di divulgazione a mezzo stampa. La cospirazione fu attiva persino all’interno dei campi di concentramento. Il capitano di cavalleria Witold Pilecki mise in piedi proprio ad Auschwitz una famosissima cellula, per l’organizzazione della quale si fece arrestare di proposito dalla Gestapo. Dopo la fuga stilò un esteso rapporto per documentare il genocidio perpetrato dai tedeschi nei confronti di polacchi ed ebrei. A garantire i collegamenti con Londra furono, oltre alle trasmissioni radio, emissari e corrieri. Tra gli emissari più celebri ricordiamo Jan Kozielewski, pseud. “Jan Karski”, Zdzisław Jeziorański, pseud. “Jan Nowak”, Jerzy Lerski, pseud. “Jur”, e Kazimierz Leski, pseud. “Bradl”13. La missione di Karski a cavallo tra il ‘42 e il ‘43 fu preceduta da due “sopralluoghi” estremamente rischiosi. Il primo fu quello nel ghetto di Varsavia. Il secondo ebbe luogo in una piccola località, Izbica Lubelska, dove i tedeschi avevano allestito una sorta di ghetto di transito, da cui partivano i convogli dei deportati destinati alle esecuzioni di massa. Karski riuscì a penetrarvi indossando 12 Cfr. TOMASZ STRZEMBOSZ, Rzeczpospolita podziemna, Wyd. Krupski i S-ka,Warszawa 2000. KAZIMIERZ LESKI, Życie niewłaściwie urozmaicone: wspomnienia oficera wywiadu i kontrwywiadu AK, wyd. 4, Oficyna Wydawnicza, Warszawa 2001. 13 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 la divisa di una delle guardie, divenendo così il testimone non solo delle scene di disperazione di coloro che vi dovevano attendere i convogli della morte, ma anche delle modalità di esecuzione dentro vagoni allestiti a quello scopo14. Dopo un viaggio di diverse settimane attraverso Francia, Spagna e Gibilterra, giunse in Occidente. Negli Stati Uniti presentò il suo rapporto al presidente Roosevelt in persona e ad alcuni altissimi funzionari del governo americano. La relazione fu accolta con incredulità e non suscitò le reazioni sperate15. Basandosi sul rapporto di Karski, il 10 dicembre 1942 il ministro degli Esteri della Repubblica di Polonia in esilio a Londra indirizzò al Consiglio delle Nazioni Unite un’ampia nota, scrupolosamente documentata, dal titolo Lo sterminio di massa degli ebrei nella Polonia occupata dalla Germania16. L’ufficio Informazione e Propaganda dell’AK, diretto dal colonnello Jan Rzepecki, si occupò di pubblicare stampati in polacco per contrastare la propaganda tedesca. Il più importante giornale della Resistenza polacca era un settimanale, il «Biuletyn Informacyjny», redatto da Aleksander Kamyński, pseud. “Kamyka”, la cui tiratura nel 1944 superava le 40.000 copie. Il primo numero uscì già il 5 novembre 1939. La tiratura di tutta la stampa della Resistenza polacca ammontava a circa 200.000 esemplari. Nella sola Varsavia operavano alcune decine di stamperie clandestine sotto la direzione dell’AK17. Tutte le attività di diversione, sabotaggio, autodifesa e rappresaglia facevano capo alla Direzione della Diversione dell’AK (Kierownictwo Dywersji Komendy Głównej Armii Krajowej, KEDYW). Oltre le linee del fronte tedesco-sovietico un’intensa attività di spionaggio, diversione e sabotaggio era invece condotta dal reparto “Wachlarz” (Ventaglio) agli ordini – tra gli altri – di Remigiusz Grocholski18. Il risultato delle azioni condotte tra il gennaio 1941 e il giugno 1944 fu il deragliamento di 700 treni, l’incendio di 400 convogli militari, la distruzione di più di 4.000 veicoli; furono dati alle fiamme 130 magazzini di armi e rifornimenti 14 In realtà, le modalità di sterminio rilevate da Jan Karski sarebbero state messe in dubbio dallo storico dell’Olocausto RAUL HILBERG in Recording the Holocaust, intervista rilasciata a Ernie Meyer, «The Jerusalem Post», International Edition, 1338, 28.06.1986, p. 9 [N.d.C.]. 15 Cfr. JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013. 16 Ibidem; EDWARD RACZYŃSKI, W sojuszniczym Londynie, Polish Research Centre, Londyn 1960. 17 GRZEGORZ MAZUR, Biuro Informacji i Propagandy SZP-ZWZ-AK 1939-1945, Instytut Wydawniczy Pax, Warszawa 1987. 18 CEZARY CHLEBOWSKI, „Wachlarz”. Monografia wydzielonej organizacji dywersyjnej Armii Krajowej: wrzesień 1941 – marzec 1943, Instytut Wydawniczy PAX, Warszawa 1983. 89 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO vari, danneggiati quasi 2.000 vagoni e circa 7.000 locomotive; bruciarono più di 1.000 cisterne di benzina, furono fatti saltare 40 ponti ferroviari, distrutti cinque pozzi petroliferi, bloccati tre grandi altiforni. Nelle fabbriche di armi si compirono quasi 25.000 atti di sabotaggio. Più di 5.000 funzionari di polizia, soldati e Volksdeutsche furono vittime di attentati. Vennero anche liberati dei prigionieri da sedici differenti prigioni. Tra le azioni di diversione più spettacolari vanno annoverate il blocco del nodo ferroviario di Varsavia (7-8 ottobre 1942), l’attentato dinamitardo alla stazione del servizio ferroviario metropolitano di Berlino (15 febbraio 1943), l’attentato a Franz Kutschera, comandante delle SS e della polizia nel distretto di Varsavia (1 febbraio 1944) 19. Nell’ambito delle operazioni di autodifesa, vennero sottratti alla Gestapo alcune centinaia di prigionieri, salvandoli così dagli interrogatori, dalle torture e dalla morte. Si coprirono di gloria i partecipanti all’Azione Arsenale (tra cui Tadeusz Zawadzki, pseud. “Zośka”, e Alek Dawidowski, pseud. “Alek”: quest’ultimo fu l’unico a morire per le ferite riportate). Il 26 marzo 1943 liberarono il loro compagno Janek Bytnar, pseud. “Rudy”, insieme a venticinque altri 90 prigionieri del carcere del Pawiak. L’impresa più incredibile del “Wachlarz” fu la liberazione dei prigionieri rinchiusi in un carcere della Gestapo a Pińsk, nella regione dei kresy wschodnie [Confini orientali] 20. Grazie all’attività di spionaggio dell’AK fu individuato nell’isola di Uznam il luogo di produzione dei razzi V1 e V2, cosa che permise all’aviazione britannica di colpirlo e di interromperne così la produzione. Uno dei più grandi contributi dello Stato polacco alla sconfitta della Germania nazista fu la trasmissione ai Servizi Segreti britannici del risultato dei lavori di tre matematici polacchi, Marian Rejewski, Jerzy Różycki ed Henryk Zygalski, che ancor prima dello scoppio della guerra erano riusciti a decifrare i codici della macchina Enigma, impiegata dai tedeschi per cifrare le proprie trasmissioni. Dal febbraio 1942 cominciarono a venire accolti in Polonia ufficiali polacchi addestrati in Inghilterra, destinati ad attività di sovversione e spionaggio (i cosiddetti cichociemni). Ne furono paracadutati complessivamente 316. Fu i19 ANNA BORKIEWICZ-CELIŃSKA, Batalion „Zośka”, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1990. 20 TOMASZ STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne podziemnej Warszawy 1939-1945, PIW, Warszawa 1978; CEZARY CHLEBOWSKI, op. cit. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 noltre condotta un’azione diversiva di propaganda rivolta ai soldati tedeschi (l’Azione N). Fino al luglio del 1944 morirono in battaglia, fucilati o torturati in prigione circa 34.000 soldati dell’AK o di formazioni a esso subordinate21. Lo scoutismo giocò un ruolo importante nel disegno cospirativo. Durante la guerra era conosciuto con il nome di Szare szeregi (Schiere grigie). Il loro comandante nel periodo precedente l’insurrezione di Varsavia e durante la stessa insurrezione fu Stefan Broniewski, pseud. “Orsza”. Gli Szare szeregi suddividevano la gioventù in tre gruppi in base all’età. I più grandi, a partire dai diciotto anni, prestavano servizio nei reparti d’assalto. I più giovani, dai quindici ai diciassette anni, si formavano nelle scuole militari per venire poi impiegati in azioni di piccolo sabotaggio, come dipingere il simbolo dell’ancora (la Polonia combattente) o della tartaruga (incitamento al lavoro improduttivo), strappare le bandiere tedesche, issare quelle polacche nei giorni di festa nazionale. I ragazzi tra i tredici e i quindici anni entravano a far parte di gruppi il cui patrono era la celebre figura medievale del cavaliere Zawisza il Nero. Gli Zawiszacy non erano impiegati direttamente in azioni che ne mettessero a rischio la vita. Sotto la guida di compagni-istruttori più anziani studiavano la storia, imparavano canzoni patriottiche, apprendevano specifiche capacità da scout che sarebbero tornate utili nella futura lotta contro i tedeschi22. Una delle forme più diffuse di Resistenza era l’istruzione clandestina. Rischiando l’arresto e la deportazione nei campi di concentramento, gli insegnanti organizzavano segretamente lezioni che si tenevano in abitazioni private, messe a disposizione dai genitori degli alunni. Si studiava in piccoli gruppi di una decina di persone, spesso cambiando luogo di riunione. Si erano escogitati anche segni convenzionali per comunicare e assicurarsi che in un dato luogo non fosse in corso una perquisizione; si facevano anche gli esami di maturità, poi riconosciuti validi a guerra finita. Le scuole superiori, le università e i politecnici funzionavano clandestinamente: non solo ci si laureava, ma addirittura ci si addottorava. 21 ANDRZEJ PACZKOWSKI, PAWEŁ SOWIŃSKI, DARIUSZ STOLA, Wkład Polski i Polaków w zwycięstwo Aliantów w II wojnie światowej Ministerstwo Spraw Zagranicznych, Departament Promocji, Warszawa 2005, <www.ww2.pl/Polski,wysiłek,zbrojny,8.html>; TOMASZ STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne, cit.; JÓZEF GARLIŃSKI, Intercept. The Enigma War, Charles Scribners Sons, New York 1980. 22 TOMASZ STRZEMBOSZ, Szare Szeregi jako organizacja wychowawcza, Instytut Wydawniczy Związków Zawodowych, Warszawa, 1981. 91 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO 3.1 Lo Stato clandestino e l’evolversi della situazione internazionale Fino al giugno del 1940 i polacchi fecero affidamento su una rapida vittoria degli Alleati, contro i quali Hitler aveva iniziato a combattere nel maggio del 1940. Dopo sei settimane, il 22 giugno, la Francia capitolò e questo forse fu il momento più drammatico di tutti i sei anni del conflitto. Restava solo la Gran Bretagna a combattere contro la Germania: proprio in Gran Bretagna s’era trasferito il governo polacco in esilio, insieme alla maggioranza dei soldati polacchi evacuati. La situazione politica e militare cambiò nel 1941: il 22 giugno del 1941 Hitler attaccò l’Unione Sovietica. Impreparato e sorpreso, Stalin doveva contare ora sull’aiuto dell’Occidente. Il 7 gennaio il Giappone attaccò gli Stati Uniti bombardando lo strategico porto di Pearl Harbour nelle Hawaii. La guerra assunse una dimensione mondiale. Tutto questo influì sulla situazione polacca. Dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica i russi divennero indirettamente alleati del governo polacco. A Londra, il 30 luglio 1941, il premier Sikorski e l’ambasciatore dell’URSS Ivan Majskij firmarono un trattato con il quale i sovietici riconoscevano nuovamente lo 92 Stato polacco e le sue autorità in esilio, instaurando inoltre con la Polonia rapporti diplomatici; i polacchi inviati in Siberia o imprigionati dovevano riacquistare la libertà. Venne loro riconosciuta la cittadinanza polacca e si permise che si unissero all’Armata Polacca, costituitasi in URSS sotto il comando del generale Władysław Anders. Temendo tuttavia che tale esercito si rivelasse un importante atout nei giochi per il futuro della Polonia, Stalin se ne sbarazzò nel 1942: con le angherie inflittegli, il cattivo equipaggiamento, le accuse di spionaggio, spinse gli alti comandi a portare l’esercito fuori dall’Unione Sovietica; gli uomini dovettero mettersi in marcia attraverso l’Iran per arrivare in Medio Oriente. Dai suoi ranghi si formò il 2° Corpo delle Forze Armate Polacche in Occidente. Nel 1944 e nel 1945 questi reparti combatterono in Italia (battaglia di Monte Cassino, 18 maggio 1944). Quando, dopo la vittoria dei russi a Stalingrado (febbraio 1943), le sorti della guerra iniziarono a mutare chiaramente a svantaggio della Germania, Stalin, prevedendo di dominare l’Europa centrale, cominciò a mirare non solo alla sottomissione politica e militare di tutti gli Stati che si trovavano in quella zona del continente, ma soprattutto a imporre loro il totalitarismo comunista. L’esistenza PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 di un governo polacco in esilio era una minaccia per la realizzazione di simili propositi, così come lo erano le strutture cospirative dello Stato polacco clandestino nel paese stesso e le unità militari che operavano a fianco degli Alleati. Nella primavera-estate del ‘43 la situazione internazionale della Polonia iniziò rapidamente a peggiorare. Nell’aprile del 1943 scoppiò la crisi di Katyń. Il 16 aprile i tedeschi annunciarono la scoperta a Katyń, non lontano da Smolensk, di fosse comuni di prigionieri polacchi: i prigionieri dei sovietici dal 1939. Il premier Sikorski non diede credito alle repliche di Stalin, che accusava a sua volta i tedeschi, rivolgendosi invece alle autorità della Croce Rossa Internazionale in Svizzera per ristabilire la verità dei fatti. Il dittatore sovietico prese questa mossa a pretesto per rompere le relazioni diplomatiche con il governo polacco, il 26 aprile. Nell’estate del 1943 si verificarono due tragici avvenimenti. Il 30 giugno la Gestapo arrestò a Varsavia il comandante generale dell’AK, gen. Stefan Rowecki, pseud. “Grot”; il 4 luglio morì in una catastrofe aerea a Gibilterra il premier gen. Władysław Sikorski, uomo autorevole in patria e presso gli Alleati. Lo sostituì Stanisław Mikołajczyk del Partito Popolare; comandante supremo divenne il gen. Kazimierz Sosnkowski, mentre il gen. Tadeusz Komorowski, pseud. “Bór”, venne nominato comandante generale dell’AK. Nocquero agli interessi polacchi anche le gravi decisioni assunte durante la conferenza di Teheran (Iran) tra i leader delle tre superpotenze (Josif Stalin, Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill). Senza informare gli alleati polacchi, essi si accordarono per l’annessione all’Unione Sovietica dei territori orientali della Polonia fino alla linea del fiume Bug23. 3.2 L’operazione Burza L’assenza di rapporti diplomatici tra la Polonia e l’URSS, e le precedenti esperienze riguardanti la politica di Stalin indussero le autorità del governo polacco in esilio a pianificare un’azione che avesse lo scopo di manifestare all’URSS il diritto alla sovranità della Polonia su tutto il suo territorio. Questo aveva un significato particolare nei territori orientali, che Stalin aveva annesso già nel 1939 23 JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, 1919-1945: From Versailles to Yalta, Lanham, Maryland 1985. 93 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO in forza del patto Molotov-Ribbentrop. L’operazione, cui fu dato il nome in codice Burza (Tempesta), presupponeva che le formazioni dell’AK prendessero a collaborare militarmente con l’Armata Rossa allo scopo di respingere i tedeschi unendo le forze. Allo stesso tempo, le locali autorità civili polacche dovevano uscire dalla clandestinità, per assumere il ruolo di responsabili per il territorio nazionale. Nel gennaio del 1944 l’Armata Rossa attraversò il confine polacco del 1939. I russi si avvalsero dell’aiuto dell’AK per la presa delle città più importanti, quali Vilna (operazione Ostra Brama) o Leopoli. In seguito internarono gli ufficiali e i soldati dell’AK. I primi furono spediti in campi di concentramento in Siberia, ai secondi fu data una possibilità di salvarsi, arruolandosi nell’Esercito Popolare polacco (Ludowe Wojsko Polskie), assoggettato ai sovietici. Durante l’estate del 1944 la situazione bellica in Europa iniziò a mutare rapidamente. L’Armata Rossa continuava la sua offensiva verso la linea della Vistola. Il 6 giugno, però, gli Alleati occidentali aprirono un secondo fronte interno al continente, eseguendo uno sbarco in Normandia (operazione dal criptonimo Overlord). Il 23 agosto scoppiò un’insurrezione a Parigi, che in capo a qualche 94 giorno portò alla cacciata dei tedeschi24. Nel frattempo, il 22 luglio i comunisti polacchi votarono per la convocazione, a Chełm (occupata dall’esercito sovietico) nel voivodato di Lublino, di un Comitato Polacco di Liberazione Nazionale (Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego, PKWN). La sua composizione e il manifesto programmatico furono decisi a Mosca. Il PKWN si arrogò il diritto di governare la Polonia e di rappresentarla nel mondo, proclamando illegale il legittimo governo polacco in esilio. La propaganda comunista falsò la verità sulla lotta dell’AK, portata avanti dall’inizio della guerra contro i tedeschi. Sui manifesti apparve l’oltraggioso slogan “AK: il nano sputacchiante della Reazione”. La polizia politica comunista – chiamata comunemente “UB” (abbreviazione di Urząd Bezpieczeństwa, Dipartimento di Sicurezza) prese ad arrestare le persone legate allo Stato polacco clandestino25. 24 TOMASZ STRZEMBOSZ, Akcje zbrojne, cit. TADEUSZ ŻENCZYKOWSKI, Polska lubelska 1944, Editions Spotkania, Paryż 1987, Warszawa 1990. 25 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 4. L’insurrezione di Varsavia 4.1 La decisione Nella situazione in cui i soldati dell’AK venivano arrestati dai sovietici e il PKWN si dichiarava l’unico governo legittimo, divenne ovvio che Stalin puntasse alla totale sottomissione della Polonia. I capi dello Stato clandestino polacco si trovarono di fronte a un quesito drammatico: se convenisse adattarsi passivamente all’inevitabile corso degli eventi o se valesse la pena di fare ancora un tentativo per invertirne il catastrofico andamento. Ogni scelta portava con sé un serio rischio e conseguenze difficili da prevedere. Un’attesa passiva dello sviluppo degli avvenimenti avrebbe significato anche rassegnarsi al dominio sovietico e, quel che è peggio, avrebbe subordinato il destino della popolazione civile ai piani bellici tedeschi. Il governatore del distretto di Varsavia, Fischer, intendeva costringere 100.000 uomini a scavare un vallo anticarro, lasciando presagire che i tedeschi avrebbero difeso la città fino all’ultimo. La propaganda tedesca paragonava cinicamente la situazione attuale al memorabile agosto del 1920, quando l’Armata Rossa era alle porte della capitale. Adesso i tedeschi esortavano i polacchi alla “difesa comune della città”. La decisione di far scoppiare l’insurrezione a Varsavia fu presa nella cerchia dei più importanti leader dello stato polacco clandestino, tra cui il comandante in capo dell’AK, il generale Tadeusz Komorowski, pseud. “Bór”, e il delegato del governo per la Polonia occupata, Jan Stanisław Jankowski. L’autorizzazione a questa decisione era stata preventivamente accordata dal governo polacco in esilio. Quando fu impartito l’ordine di far scoppiare l’insurrezione, i dirigenti polacchi erano convinti che l’Armata Rossa si trovasse già quasi ai confini del quartiere Praga, sulla riva destra di Varsavia, e che sarebbe stata in grado di iniziare immediatamente a combattere per liberare la città. Oggi è difficile stabilire se le notizie sull’avanzare del fronte fossero attendibili. Sappiamo che i tedeschi riuscirono inizialmente a contenere l’avanzata sovietica, ma anche che l’Armata Rossa aveva acquisito capacità offensive sin dalla metà di agosto. Tuttavia per ordine di Stalin fino al 10 settembre non le impiegò per andare in soccorso di Varsavia in lotta. Vale anche la pena di notare che i russi stessi avevano sfidato i varsaviani affinché insorgessero, inviando loro appelli attraverso l’emittente comunista “Kościuszko”26. 26 Cfr. ADAM BORKIEWICZ, Powstanie warszawskie. Zarys działań natury wojskowej, Instytut 95 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO 4.2 Il premier Mikołajczyk a Mosca Il premier del governo polacco in esilio si recò a Mosca. Contava sul fatto che lo scoppio dell’insurrezione avrebbe indotto Stalin a rivedere i suoi rapporti con la Polonia. Si aspettava in primo luogo che gli venissero accordati aiuti militari, senza i quali la lotta armata dell’AK nella capitale era condannata alla sconfitta. Aveva tenuto conto del fatto che il prezzo politico di un aiuto potesse essere alto, e prendeva sicuramente in considerazione la necessità di arrivare a un compromesso. Nemmeno i peggiori precedenti dei tormentati rapporti polaccosovietici potevano far pensare però che il dittatore sovietico intendesse sacrificare una città di un milione di abitanti collocata nel centro dell’Europa al fine di un totale assoggettamento dello Stato polacco. Eppure le cose andarono così. Il dittatore per prima cosa si assicurò di quale fosse lo stato effettivo della situazione in Polonia. Quando le notizie sugli scontri di Varsavia furono confermate, scelse di prendere tempo. Al premier Mikołajczyk propose di intraprendere trattative immediate con i delegati del PKWN, con a capo Bolesław Bierut, convocati in tutta fretta. Inutili furono gli appelli di Mikołajczyk ai sentimenti patriottici dei 96 funzionari del governo polacco a Lublino. A Bierut infatti premeva più di tutto dare una prova di fedeltà: nei confronti di Mikołajczyk assunse una posizione più intransigente dello stesso Stalin. La condizione per giungere a un accordo consisteva nell'abolizione della clausola di obbedienza al presidente e al comandante supremo dell’esercito, nonché nell’abrogazione della Costituzione di Aprile, ovvero della legittimazione giuridica del governo polacco in esilio. Come contropartita per la metà delle cariche governative concesse al raggruppamento di Mikołajczyk dal Partito Operaio Polacco venne richiesta la rinuncia a ogni diritto sui voivodati orientali della Repubblica di Polonia. Nelle circostanze attuali questo avrebbe significato tradire la fiducia di un’intera classe politica, impegnata da cinque anni nella difesa della sovranità nazionale, se non direttamente la resa incondizionata a un nuovo occupante. Mikołajczyk tornò pertanto a Londra con una maggiore consapevolezza di quali fossero i veri piani di Mosca, pur facendo wydawniczy PAX, Warszawa 1969; NORMAN DAVIES, La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, edizione italiana a cura di Maurizio Pagliano, trad. it. di Caterina Balducci et al., Rizzoli, Milano 2004; JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, cit.; EWA CYTOWSKASIEGRIST, Stany Zjednoczone i Polska, Neriton, Warszawa 2013; ALEXANDRA RICHIE, Warsaw 1944. The Fateful Uprising, Harper Collins Publishing, London 2013. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 ancora affidamento sulla possibilità che le democrazie occidentali fossero in grado di fornire un aiuto effettivo al suo paese27. 4.3 I combattimenti Il 1° agosto alle ore 17 oltre 45.000 soldati dell’AK iniziarono a combattere per la liberazione della città e dello Stato polacco. L’AK era un esercito particolare. Si componeva di volontari, arruolatisi spontaneamente. In stragrande maggioranza si trattava di giovani, di età compresa tra i diciotto e i trent’anni. Il comando dell’insurrezione aveva previsto che la battaglia sarebbe durata al massimo cinque, sei giorni. Tanti ne permettevano di combattere i modesti armamenti, tra i quali un ruolo predominante ebbero le armi di produzione propria (le granate ET-40 o “filipinki” e i mitra modello “Sten” e “Błyskawica”). Fino a quel momento il piano era di impadronirsi dei punti strategici: i forti, le stazioni di polizia, le stazioni ferroviarie, la centrale elettrica, gli acquedotti, la posta centrale e, cosa particolarmente importante, i ponti con le arterie di transito. Si supponeva che in questo modo il nemico avrebbe visto interrotti i collegamenti con i reparti di prima linea schierati sulla riva orientale della Vistola. La realtà si rivelò tuttavia ben lontana dalle aspettative degli insorti. Durante i primi giorni essi si impadronirono dei quartieri centrali posti sulla riva sinistra della Vistola: Śródmieście, Stare Miasto, Powiśle, Czerniaków, quelli che sarebbero rimasti più a lungo nelle loro mani, nonché di quartieri più periferici, come Mokotów, Żoliborz, Wola e parte di Ochota. Le parti liberate della città non costituivano un territorio continuo, attraversate com’erano da zone ancora sotto il controllo nemico: difficili da conquistare erano le grandi piazze, i tratti importanti delle strade principali (ad esempio Aleje Ujazdowskie, Aleje Jerozolimskie, Marszałkowska, Krakowskie Przedmieście). La comunicazione tra aree isolate avveniva attraverso la rete fognaria urbana. Nel quartiere di Praga, dopo tre giorni di lotta, in certi punti isolati i combattimenti cessarono del tutto. Inizialmente nelle zone liberate di Varsavia regnò l’entusiasmo. Le persone correvano in strada, liete alla vista dei colori e dei simboli nazionali polacchi, vietati dal settembre del 1939. Per sessantatre giorni, ovunque combattessero gli 27 JANUSZ ZAWODNY, Powstanie Warszawskie w walce i dyplomacji, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 1994; EWA CYTOWSKA-SIEGRIST, op. cit.; NORMAN DAVIES, op. cit.; ALEXANDRA RICHIE, op. cit. 97 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO insorti, era tornata a vivere una repubblica indipendente. I poteri statali presero ad agire allo scoperto, funzionava l’amministrazione che organizzava la vita quotidiana della popolazione. La carica di sindaco fu affidata a Marceli Porowski. In certi quartieri principali entrarono in funzione organi di autogoverno spontanei, che si occupavano degli approvvigionamenti di cibo e acqua, di mantenere l’ordine, organizzare le azioni di soccorso, spegnere gli incendi. Uscirono numerose testate giornalistiche. Gli scout del gruppo “Zawisza” garantirono il servizio postale, che fu in grado di recapitare circa 10.000 lettere al giorno. Tutto ciò contribuiva a tenere in vita una Polonia resuscitata su un fazzoletto del suo territorio. Il prezzo pagato per questa piccola “porzione di libertà” fu enorme. Sessantatre giorni di combattimenti costarono la vita di 25.000 soldati polacchi e di circa 150.000 civili. I soldati e i civili non perivano solo in combattimento. Trovavano la morte tra le fiamme degli incendi, restavano sepolti dalle rovine delle case distrutte, cadevano sotto i proiettili delle carabine o le bombe dell’artiglieria pesante e dell’aviazione. Molti morirono per deperimento, malattie e fame. Nei giorni tra il 5 e il 7 agosto i tedeschi, su ordine di Hitler, intrapresero 98 massacri inauditi nei quartieri riconquistati di Wola e Ochota. Nel corso di esecuzioni di massa sterminarono tutti gli abitanti degli stabili evacuati, concentrandoli nelle piazze o nei cortili. Non vennero risparmiati nemmeno i pazienti, i medici e le infermiere negli ospedali. Così morirono oltre 50.000 abitanti: lo stesso destino sarebbe toccato all’intera città. Prima che le formazioni tedesche prendessero Wola, gli insorti ottennero in quella parte della città una vittoria importante. I soldati del battaglione “Zośka” presero il campo di concentramento tedesco di Gęsiówka. La struttura fu occupata grazie all’impiego di un carro armato tedesco Panther conquistato ai tedeschi. Nel campo si trovavano più di trecento ebrei costretti ai lavori forzati. Molti di loro, in un gesto di solidarietà, si unirono all’insurrezione e la sostennero combattendo nelle file di reparti ausiliari. Dopo la presa di Wola da parte dei tedeschi, gli insorti e i civili sopravvissuti si rifugiarono a Stare Miasto. Volendo aprirsi un varco che gli permettesse di raggiungere Praga attraverso il Ponte Kierbedzia (oggi Śląsko-Dąbrowski), i tedeschi attaccarono con violenza l’antico centro cittadino. Alla fine di agosto la situazione degli insorti in quella parte della città divenne disperata. Tormentati PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 dai continui bombardamenti aerei, dai lanciarazzi (conosciuti come “armadi” o “vacche”28) e da artiglieria ferroviaria pesante, gli esausti difensori di Stare Miasto non furono in grado di opporre ulteriore resistenza. Nella notte tra il 31 agosto e il 1 settembre gli insorti tentarono di sfondare le linee nemiche a Śródmieście. L’attacco fu sventato tuttavia dal fitto fuoco delle mitragliatrici. Solo un piccolo reparto sotto la guida di Ryszard Białous, pseud. “Jerzy”, riuscì ad arrivare alla chiesa di Sant’Antonio in via Senatorska. Di lì, vestiti con tute mimetiche di preda bellica, i polacchi attraversarono i Giardini Sassoni occupati dai tedeschi. I reparti rimasti dovettero ritirarsi in direzione di Śródmieście per l’unica via possibile: attraverso i canali fognari. I soldati intrapresero una marcia di molte ore verso le zone ancora libere della città in condizioni straordinariamente difficili. Marciavano piegati in due, sguazzando in ginocchio nelle acque nere. Erano sotto il costante pericolo rappresentato dall’esplosione di granate e dai gas asfissianti gettati nelle fogne attraverso i tombini. Nelle rovine occupate di Stare Miasto si ripeterono – in misura non molto minore – le scene già viste a Wola di esecuzione in massa della popolazione civile. Śródmieście era un quartiere posto al centro della città, a lungo difeso dagli attacchi in massa del nemico, che prima aveva dovuto procedere alla presa delle zone più periferiche. Chi vi giungeva ritirandosi da altri quartieri era colpito da un ordine relativo e dalla pace che vi regnava, si sorprendeva alla vista dei vetri delle finestre intatti, si stupiva per le condizioni sanitarie tutto sommato accettabili. A causa della passività dell’esercito sovietico, il destino dell’insurrezione lasciata a sé stessa era comunque compromesso. I governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna non si decidevano a fare nessuna pressione energica su quello sovietico. Il loro modesto apporto nella lotta insurrezionale furono i lanci di armi, munizioni e rifornimenti effettuati dall’aeronautica alleata. Le loro quantità erano tuttavia simboliche. A determinarne la scarsità fu il rifiuto di Stalin di permettere scali oltre la linea sovietica del fronte. In simili condizioni, gli aerei dovevano percorrere i duemila chilometri che dividevano Varsavia dagli aeroporti nell’Italia meridionale (o in Inghilterra) sia all’andata che al ritorno. Contrariamente a quanto stabilito in precedenza, non furono inviati a Varsavia come rinforzi per 28 Entrambi i nomi si riferiscono a mortai e lanciarazzi multipli tedeschi di tipo Nebelwerfer [N.d.T.]. 99 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO l’insurrezione i soldati della 1a Brigata Aerotrasportata Indipendente del generale Stanisław Sosabowski. Invece che per prestare aiuto all’insurrezione, le truppe aerotrasportate polacche furono impiegate nell’operazione effettuata dagli eserciti alleati ad Arnhem (in Olanda) nei giorni tra il 21 e il 26 settembre. Nonostante combattimenti accaniti, l’operazione – conosciuta col nome in codice Market Garden – si concluse con una disfatta. Il dittatore sovietico decise di avanzare verso Praga il 9 settembre. Stalin permise anche lo sbarco di piccoli reparti del 1° Corpo d‘Armata polacco del generale Zygmunt Berling. I soldati polacchi, non preparati ai combattimenti in città, attraversarono la Vistola nei giorni tra il 15 e il 18 settembre, attestandosi nella testa di ponte di Czerniaków, senza peraltro che gli fosse stato assicurato un appoggio di artiglieria. Lo sbarco tanto atteso dagli insorti, che contavano sull’arrivo di rinforzi rilevanti, si concluse con una sconfitta e con pesanti perdite. Vista la situazione, il comando dell’AK prese la decisione di trattare la resa. I negoziati, tenutisi a Ożarów, fuori Varsavia, si conclusero il 2 ottobre con un accordo per il cessate il fuoco29. 100 5. Dopo l’Insurrezione Solo l’armistizio riconobbe ai soldati che combattevano nell’AK lo status di combattenti. Ciò significava che, contrariamente a quanto avvenuto all’inizio dell’insurrezione, non sarebbero stati puniti per aver preso parte ai combattimenti, ma sarebbero finiti in campi di prigionia (ad es. Langwasser, Oberlangen e molti altri). I soldati furono accompagnati lungo la strada verso la prigionia dal comandante dell’AK, gen. Bór-Komorowski. La popolazione civile, che contava circa 150.000 persone, abbandonò la città e fu inviata verso il campo di transito di Pruszków, fuori Varsavia. Molti di loro finirono in campi di concentramento (Oświęcim) o ai lavori forzati all’interno del Reich. Una parte fu deportata nel Governatorato Generale o si disperse volontariamente. 29 NORMAN DAVIES, op. cit.; ANDRZEJ LEON SOWA, Historia polityczna Polski 1944-1991, Wydawnictwo Literackie, Kraków 2011; PAWEŁ UKIELSKI, Spór o Powstanie Warszawskie, in «Biuletyn IPN», 8-9 (103-104), sierpień-wrzesień 2009; NIKOŁAJ IWANOW, Powstanie warszawskie widziane z Moskwy, Znak, Kraków 2010. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 5.1 Mikołajczyk di nuovo a Mosca Durante la terza settimana di ottobre il premier Mikołajczyk si trovò nuovamente nella capitale dell’URSS. Accompagnò in questa occasione il premier Winston Churchill, che fece appello ai sentimenti di responsabilità e di realismo politico del capo del governo polacco. I negoziati con i comunisti avrebbero rappresentato l’ultima possibilità di salvare l’indipendenza della Polonia, il cui futuro, dopo il fallimento dell’insurrezione, appariva in tinte ancora più fosche. Gli interlocutori di Mikołajczyk adesso parlavano da una posizione di forza. L’NKVD sgominava con grande brutalità i reparti dell’AK che uscivano dalla clandestinità. In modo analogo a quanto era avvenuto nel sec. XIX dopo la sconfitta insurrezionale, venne il tempo della repressione post-insurrezionale. La ricompensa per anni di lotta eroica ai tempi dell’occupazione tedesca e per la collaborazione dell’AK con l’Armata Rossa nella lotta contro Hitler furono gli internamenti, le condanne a morte, le deportazioni di massa in Siberia. Durante le trattative vennero a galla anche gli accordi di Teheran. L’Occidente, senza informare gli alleati polacchi, aveva ceduto a Stalin oltre il cinquanta per cento del territorio antebellico della Repubblica di Polonia, ratificando in un certo senso quanto deliberato dal patto Molotov-Ribbentrop30. 5.2 Il governo Arciszewski Il capo del governo polacco rifiutò le condizioni dell’accordo. Era tuttavia conscio che il livello delle aspettative politiche andava commisurato a condizioni drammaticamente peggiorate. La posta in gioco pertanto non era una ripartizione delle cariche piuttosto che un’altra, ma la conservazione stessa della Polonia come Stato e dell’identità nazionale. Con simili presupposti, le posizioni politiche nel campo dell’indipendenza polacca subirono una brusca polarizzazione. In novembre, Mikołajczyk si dimise dalla carica di premier. Con lui lasciarono il governo tutti i membri del Partito Popolare. Fu eletto primo ministro Tomasz Arciszewski del Partito Socialista Polacco che, insieme al Partito dei Lavoratori e al Partito Nazionale, si dichiarò a favore di un’inflessibile rivendi30 JANUSZ KAZIMIERZ ZAWODNY, Powstanie Warszawskie w walce i dyplomacji, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2006; IDEM, Nothing but Honour. The Story of Warsaw Uprising 1944, Hoover Institution Press, 1978. 101 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO cazione dei diritti della Polonia alla piena sovranità e integrità territoriale. Mikołajczyk aveva scelto la difficile strada del compromesso, irta di pericoli, pagandola con l’incomprensione e perfino con accuse di tradimento31. 6. Jalta Nei primi giorni del febbraio del 1945 ebbe luogo a Jalta, in Crimea, la conferenza delle potenze alleate con la partecipazione di Stalin, del presidente USA Roosevelt e del premier della Gran Bretagna Churchill. Si accordarono per revocare il riconoscimento diplomatico al governo polacco in esilio e accettare la nomina del Governo Provvisorio di Unità Nazionale. La composizione di quest’ultimo si sarebbe basata sul Governo Provvisorio comunista, come si chiamava dal gennaio 1945 quello che fino ad allora era stato il PKWN. Il compromesso (o un suo succedaneo) sarebbe consistito in due concessioni: l’inserimento nella compagine governativa di un gruppo di politici democratici provenienti dalla Polonia e dall’emigrazione, e la promessa di libere elezioni democratiche32. 102 6.1 Il processo dei Sedici Le strade degli insorti iniziarono a dividersi a partire dalla sconfitta. I soldati e gli ufficiali finirono nei campi di prigionia. Con i civili, lasciarono Varsavia Jan Stanisław Janowski, il delegato del governo per la Polonia, Kazimierz Pużak, presidente del Consiglio di Unità Nazionale, il gen. Leopold Okulicki, pseud. “Niedźwiadek”, neo-nominato comandante generale dell’AK e il gen. August Fieldorf, pseud. “Nil”, capo dell’organizzazione rigorosamente segreta “NIE”. I sovietici si servirono dell’“ampliamento”, già previsto a Jalta, del Governo Provvisorio33, per eliminare i dirigenti dello Stato polacco clandestino. Attirati in una trappola con la proposta di trattative per il futuro della Polonia, furono condotti a Mosca. A seguito del processo dei Sedici, tenutosi nel 1945, furono giustiziati – benché fossero stati formalmente condannati solo a una lunga 31 ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit. Cfr. JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, cit.; GREGOR DALLAS, Poisoned Peace 1945. The War That Never Ended, Yale University Press, Yale 2005. 33 ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit. 32 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 prigionia – Leopold Okulicki, Jan Stanisław Jankowski e Stanisław Jasiukowicz. Solo Antoni Pajdak, sostituto del delegato del governo per la Polonia, fu inviato a Vladimir sulla Kljaz’ma, da cui tornò in patria dopo sei anni. Dei rimanenti dodici, graziati e liberati da Stalin nel 1945, si sarebbe occupata in Polonia la “giustizia popolare”34. 7. La Seconda Cospirazione Dopo l’arresto dei sedici, la dirigenza della Delegazione di Governo in Polonia fu assunta da Stefan Korboński, ex capo del Direttorato di Resistenza Civile (Kierownictwo Walki Cywilnej), mentre alla guida del Consiglio di Unità Nazionale andò Jerzy Braun, del Partito del Lavoro. Lo scioglimento dell’AK e la revoca del giuramento militare da parte del generale Okulicki il 19 gennaio del 1945 non posero fine alle cospirazioni militari. Il compito di integrare i reparti dispersi dell’AK fu affidato alla Delegazione delle Forze di Difesa con a capo il colonnello Jan Rzepecki. Quei tempi vengono chiamati col nome di Seconda Cospirazione. Quello fu anche il primo apogeo della repressione comunista. Gli organi dello Stato polacco clandestino furono dichiarati illegali, e l’appartenenza all’AK veniva perseguita e punita35. 7.1 L’esperimento di Mikołajczyk Parallelamente al processo dei Sedici ebbero luogo a Mosca le trattative in merito al Governo Temporaneo di Unità Nazionale con la partecipazione di Stanisław Mikołajczyk, ex premier del governo a Londra e capo del Partito Popolare Polacco. Alla base della sua strategia vi erano le elezioni democratiche garantite dagli Alleati. Il 2 luglio del 1945 Mikołajczyk entrò nel Governo Provvisorio di Unità Nazionale. Condizione per la collaborazione con i comunisti era la soluzione del problema dello Stato clandestino. L’amnistia dell’agosto 1945 prometteva la fine delle persecuzioni. Si esigeva tuttavia l'uscita dalla clandestinità, cosa che sem34 NORMAN DAVIES, op. cit. ANDRZEJ LEON SOWA, op. cit.; Słownik Historii Polski 1939-1948, a cura di Andrzej Chwalba, Tomasz Gąsowski, Anna Wiekluk, Księgarnia Akademicka, Kraków 1996; HENRYK KOZŁOWSKI, 12 Miesięcy przez wiele lat. Wspomnienia z AK i inne, Bellona, Warszawa 2010. 35 103 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO brava essere foriera di ulteriori misure repressive, solo rimandate nel tempo. Fu l’appello di “Radosław” che convinse tanti soldati a correre un simile rischio. Lo si ascoltò, anche se l’accordo di cui l’appello di faceva latore era stato ratificato in carcere. L’esperimento di Mikołajczyk diede fin dall’inizio notevoli risultati. Il PSL aveva 800.000 iscritti, e il congresso del partito promulgò un programma politico corrispondente alla visione della Repubblica resuscitata concepita dal parlamento clandestino polacco. Alla guida del partito fu posto il rappresentante della Delegazione del Governo in Polonia, Stefan Korboński. Riprese le sue attività anche il Partito del Lavoro, di stampo democristiano. Uno degli esponenti più impegnati fu Jerzy Braun, autore del Testamento della Polonia in lotta e redattore del «Tygodnik Warszawski». Dopo la liquidazione della rivista, avvenuta nel 1947, Braun fu condannato all’ergastolo per aver tentato di rovesciare il regime popolar-democratico. Fu Kazimierz Kobylański, sottoposto al processo dei Sedici, ad adoperarsi affinché uscisse allo scoperto anche il Partito Nazionale. Il Memoriale del 23 agosto indirizzato a Bierut fu firmato, tra gli altri, anche da Kazimierz Stojanowski, dello “Stato Nazionale” dell’insurrezione. Si concluse con un fiasco il tentativo di creare un Partito Socialdemocratico Polacco. Kazi104 mierz Pużak, il nestore dei socialisti polacchi, fu condannato a dieci anni di detenzione. Durante il quarto anno di prigionia sarebbe caduto dalle scale, procurandosi traumi mortali. I testimoni riferirono di un’agonia protrattasi diverse ore senza alcun soccorso medico. Non arrivò al processo Antoni Zdanowski. Fu restituito alla famiglia in agonia. Józef Dzięgielewski, condannato a nove anni, morì di tubercolosi nel 1952, scarcerato prima della decorrenza dei termini. Tadeusz Szturm de Strzem (condannato a dieci anni) e Stefan Zbrożyń (condannato a sei anni) sarebbero invece riusciti a vedere il disgelo insieme a Władysław Gomułka36. 7.2 Il giro di vite o “la seconda tappa della costruzione del socialismo” L’elezione di Bolesław Bierut alla carica di presidente della nuova Repubblica fu festeggiata con una serie di processi dimostrativi “ai nemici della democrazia popolare”. Nel primo di questi, furono condannati alla pena di morte per spionaggio Waldemar Baczaków, pseud. “Arne”, del reggimento “Baszta”, 36 KRYSTYNA KERSTEN, Narodziny systemu władzy. Polska 1943-1948, Wydawnictwo “Gama”, Warszawa 1990; MAREK LATYŃSKI, Nie paść na kolana. Szkice o opozycji lat czterdziestych, Polonia Book Fund, Londyn 1985. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 ferito per ben cinque volte durante i combattimenti a Mokotów, Witold Karlicki e Ksawery Grocholski, nipoti del comandante di “Wachlarz”. Le condanne furono eseguite prima della proclamazione dell’amnistia nel marzo del 1947. Questa fu invece applicata agli imputati del processo al primo comando della formazione Libertà e Indipendenza (Wolność i Niezawisłość, WiN). Il dirigente Jan Rzepecki tentò di salvare i suoi sottoposti, rivelando la struttura del comando e facendo autocritica in tribunale. La tattica ebbe successo. Le condanne già emesse furono abbreviate e i condannati ottennero la libertà. Alla conferenza segreta dei partiti comunisti a Szklarska Poręba nel settembre del 1947 il rappresentante di Stalin, Andrej Ždanov, comunicò la necessità di un passaggio alla “fase successiva della costruzione del socialismo”. Le conseguenze si fecero immediatamente tangibili per gli imputati nel processo del 2° comando di WiN. Il vice capo Franciszek Niepokólczycki, ex vice dirigente del KEDYW, fu condannato alla pena di morte. Rifiutò di denunciare i commilitoni e di consegnarli nelle mani dell’UB. Tuttavia la pena gli fu scontata e Niepokólczycki fu rilasciato nel dicembre del 1956. Il 1948 iniziò con il crimine giudiziario ai danni del capitano di cavalleria Witold Pilecki, condannato a morte per spionaggio a favore degli stranieri. Alla vigilia di Natale del 1948 ebbero inizio gli arresti dei primi insorti del battaglione “Zośka”, ammantato di leggenda. Il primo a essere fermato fu Jan Rodowicz, allora studente del Politecnico di Varsavia, intorno al quale orbitava qualche decina di amici e amiche coinvolti nell’insurrezione. Documentavano la storia di “Zośka”, studiavano, si divertivano, si innamoravano e mettevano su famiglia. Usciti dalla clandestinità nel 1945, non avevano alcuna fiducia nel potere. Nascondevano delle armi come ricordo. Tutte queste “colpe” finirono negli atti di accusa. La loro vita sociale fu bollata come spionaggio, le escursioni in montagna fatte passare per esercitazioni in campi di addestramento, le lettere tra amici come le prove dell’esistenza di una rete cospirativa. All’inizio di gennaio 1949 “Kmita” incontrò “Anoda” in un corridoio dei locali di sicurezza presso via Koszykowa: Henryk Kozłowski era ancora in forma, scherzava. Il 7 gennaio era già morto. Secondo gli inquirenti sarebbe deceduto saltando dalla finestra aperta dal quarto piano della sede del Ministero di Pubblica Sicurezza. “Kmita” aveva davanti a sé ancora un anno di istruttoria (pestaggi, ore trascorse in piedi davanti a una finestra aperta d’inverno, cella di punizione), un processo di due giorni, una 105 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO pena di morte comminatagli quattro volte e la lunga attesa dell’esecuzione. Tutto si concluse con un’esecuzione simulata, il passatempo in voga presso i sadici carcerieri di via Rakowiecka. Bierut si avvalse del diritto di concedergli la grazia37. 7.3 Non bis in idem Le successive sorti degli amnistiati negli anni 1945-1947 o dei condannati “inadeguatamente” furono sottoposte senza sosta a verifica. Il capo del controspionaggio del comando generale dell’AK, Bernard Zarzewski, aveva già trascorso in carcere un anno, dal febbraio del 1946 al marzo del 1947, ma nel 1954 fu emessa nei suoi confronti una nuova sentenza a quindici anni di detenzione. Nonostante la successiva riabilitazione giudiziaria, non gli fu concesso di tornare alla pratica dell’avvocatura. A Kazimierz Leski, che sotto le spoglie del “colonnello Bradl” della Wermacht si era procurato e aveva trasmesso agli Alleati i piani delle fortificazioni tedesche in Normandia, nel 1951 vennero inflitti ulteriori dieci anni di carcere per presunta “collaborazione con l’occupante”. Il redattore di «Wiadomości Powstańcze», Kazimierz Moczarski, venne condannato nel 1945 a 106 dieci anni di detenzione. Nel 1948 il suo caso venne riesaminato. Detenuto nello stesso locale col carnefice del ghetto di Varsavia, Jürgen Stroop, nel 1952 egli venne sottoposto al cosiddetto “processo in cella” e condannato a morte. La notizia della commutazione della pena in ergastolo giunse all’interessato solo nel 1955. Kazimierz Pluta-Czachwowski, vicecapo di stato maggiore presso il comando generale dell’AK, nel 1945 venne deportato in Kazachstan dall’NKVD, ma in patria lo attendeva un ulteriore processo. Il 7 dicembre del 1953 fu condannato a quindici anni di prigionia e rinchiuso nella famigerata prigione di Rawicz38. Il più alto ufficiale dell’AK assassinato dal regime fu il comandante del KEDYW, generale August Emil Fieldorf. All’inizio del 1945, fermato per caso dall’NKVD, fu inviato in un campo negli Urali, senza che ne fosse stata accertata l’identità. Tornò in Polonia nel 1948, senza unirsi alla cospirazione. Quando nel 1951 decise di uscire dalla clandestinità, fu immediatamente arrestato. Rifiutò 37 JOANNA WIELICZKA-SZARKOWA, Żołnierze wyklęci. Niezłomni bohaterowie, Wydawnictwo AA, Kraków 2013; HENRYK KOZŁOWSKI, op. cit. 38 KAZIMIERZ LESKI, op. cit.; ZDZISŁAW A. ZIEMBA, Prawo przeciwko społeczeństwu. Polskie prawo karne w latach 1944-1956, Katedra Socjologii Moralności i Aksjologii Ogólnej, Inst. Stosowanych Nauk Społecznych, Uniw. Warszawski, Warszawa 1997. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 con sdegno l’offerta di aver salva la vita a patto di collaborare con gli agenti infiltrati in ciò che rimaneva del movimento cospirativo. Nel 1952 venne condannato a morte per “collaborazione” con la Gestapo. Il Consiglio di Stato della Repubblica di Polonia, sotto la guida di Aleksander Zawadzki, decise di non avvalersi del diritto di grazia. La condanna fu eseguita il 23 febbraio del 1953. Stalin sarebbe morto il 5 marzo... 39. Il servizio in un reparto civile dello Stato clandestino era equiparato alla partecipazione alla lotta armata. Durante l’occupazione tedesca, il destino del delegato del governo Jan Piekałkiewicz, trucidato nel Pawiak, fu condiviso da decine di funzionari di strutture a lui afferenti. Nonostante molti di loro optassero per un comportamento “pragmatico”, la Polonia Popolare li trattò con sospetto e nel tempo regolò duramente i conti con loro. Marceli Porowski, sindaco di Varsavia ai tempi dell’insurrezione, divenne vicedirettore del Dipartimento per l’autogestione nel Ministero dell’Amministrazione. Dopo l’allontanamento del PSL dal governo, Porowski fu sistematicamente dimissionato e nel 1951 costretto ad andare in pensione. Il 10 febbraio del 1952, dopo un’indagine durata un anno, fu condannato alla pena capitale per spionaggio. Bierut si avvalse del diritto di grazia. Poi, la consueta “routine”: ergastolo, liberazione anticipata nel 1956, riabilitazione. Porowski morì nel 1963. Un altro membro del governo clandestino polacco, Witold Maringe, decise di mettere a disposizione delle nuove autorità i risultati delle ricerche effettuate dal suo dicastero dell’Agricoltura durante la fase cospirativa. A suscitare il loro interesse era stata infatti l’idea di organizzazioni agricole statali basate su moderni criteri di gestione, da affidarsi a un’apposita istituzione esecutiva. Nel 1949 Maringe venne arrestato e nel 1951 condannato all’ergastolo in base all’assurda accusa di spionaggio e sabotaggio della rete di imprese agricole da lui stesso creata. Nel 1950 venne processato il Capo-Giovane Esploratore della Repubblica di Polonia Zbigniew Heidrich, ex comandante supremo dell’Unione Scoutistica Polacca, nella Delegazione di Governo per la Polonia, impiegato alla sezione controlli. Non gli furono d’aiuto i consigli che aveva elargito nel dopoguerra per la riattivazione di numerosi stabilimenti industriali. Sarebbe finito in prigione per sette anni. Liberato con la condizionale dopo il compimento di metà della pena, si 39 STANISŁAW MARAT, JACEK SNOPKIEWICZ, Zbrodnia. Sprawa generała Fieldorfa-Nila, Wyd. Alfa, Warszawa 1989; TADEUSZ KRYSKA-KARSKI, STANISŁAW ŻURAKOWSKI, Generałowie Polski Niepodległej, Editions Spotkania, Warszawa 1991. 107 MACIEJ PODBIELKOWSKI LO STATO CLANDESTINO POLACCO dedicò al lavoro scientifico. In uno degli ultimi processi per spionaggio a favore degli USA e del Vaticano fu condannato a sei anni anche Jan Stamler, vicedirettore del Dipartimento dell’Informazione e della Propaganda. [Traduzione dal polacco di Francesco Cabras (dal paragrafo La Campagna di settembre e la quarta Spartizione della Polonia al paragrafo Lo Stato clandestino e l’evolversi della situazione internazionale incluso) e di Alessandra Angelini (dal paragrafo Operazione Burza fino alla fine). Revisione e cura di Luca Bernardini] [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 79-108] 108 EWA WIERZYŃSKA La memoria resuscitata. Il programma “Karski: una missione incompiuta” (2010-2014) L a memoria collettiva è un fenomeno strano, soggetto a disturbi sorprendenti, tra cui Alzheimer politici o amnesie sciovinistiche. Potrei sicuramente proseguire con la metafora, visto che la memoria della Seconda guerra mondiale in Polonia sembra essere colpita da diverse patologie di questo tipo. Peraltro, almeno da questo punto di vista, la Polonia non è certo isolata. Spero pertanto che il tentativo di inserire la vicenda di Jan Karski nella narrazione popolare della guerra possa servire d’esempio anche ad altre nazioni o popoli alle prese con problemi analoghi nel raccontare la propria storia. Ho incontrato per la prima volta Jan Karski a Chicago nel 1986. Vi abitavo dal 1985, esule politica dalla Polonia del gen. Wojciech Jaruzelski. Karski era ormai stato “scoperto” dal cineasta francese Claude Lanzmann. Il monumentale documentario Shoah, lungo ben nove ore e mezza, comprendeva una parte di quasi un’ora in cui Karski ricostruiva le sue due visite nel ghetto di Varsavia. La scena iniziale è difficile da dimenticare: Karski vorrebbe “tornare indietro nel tempo”, ma non può. È la sua stessa memoria, così a lungo repressa, a impedirglielo. Karski ha una crisi di pianto e si allontana dalla cinepresa. Lanzmann fortunatamente insiste e grazie alla sua risolutezza abbiamo un documentario capolavoro, di cui la parte dedicata a Karski è probabilmente la testimonianza più appassionante di un non ebreo sulla messa in atto della soluzione finale nella Polonia occupata dai nazisti. Il 1985 era l’anno in cui Karski, per molti anni professore della Georgetown University, dove godeva di grande popolarità (pur senza aver mai fatto parola delle sue esperienze durante la guerra) aveva pubblicato il suo opus magnum 109 EWA WIERZYŃSKA LA MEMORIA RESUSCITATA scientifico sulla storia della diplomazia, The Great Powers and Poland, 1919-1945. From Versailles to Yalta1. Come uomo e come accademico aveva lavorato per anni a quel libro, la sua più grande opera, nel tentativo di restituire un senso a quella Storia di cui era stato uno dei protagonisti. Nella sua patria, in Polonia, il nome di Karski era finito sulla lista nera del regime comunista insediatosi dal 1945 fino al 1989. Il suo nome, come quello di altri eroi anticomunisti che avevano combattuto durante la Seconda guerra mondiale, non poteva essere menzionato. Occorre anche tener presente che durante il comunismo la storia dell’Olocausto era stata distorta e riscritta fino a essere resa irriconoscibile. Libri di testo e luoghi della memoria erano caduti vittime di un’“amnesia ufficiale” e anche in ambiente accademico, pur vigendo una qualche libertà di ricerca, si veniva scoraggiati dall’affrontare “i temi controversi della Seconda guerra mondiale” a causa della nota ipersensibilità in questo campo dei capi sovietici degli apparatchiki comunisti polacchi. Il cosiddetto drugi obieg, il “secondo circuito” dell’editoria (ossia le pubblicazioni edite e distribuite clandestinamente dagli ambienti della dissidenza) – grazie al quale in Polonia uscirono libri di enorme rilevanza per la storia nazio110 nale, pubblicati all’estero da scrittori emigrati o da storici stranieri – permise che anche The Great Powers venisse pubblicato in patria, senza riscuotere però il successo che meritava, probabilmente perché si trattava di una versione ridotta, dai caratteri piccolissimi, priva di note a piè di pagina e della bibliografia2. Nel 1990 Karski esprimerà, in un’intervista a «Rzeczpospolita», la sua estrema gratitudine agli editori, ma anche tutta la propria delusione3. Quella stessa intervista ricordò al pubblico polacco l’esistenza di Jan Karski, com’era del resto già accaduto nel 1987 con «Tygodnik Powszechny». Diversamente da «Tygodnik Powszechny», settimanale cattolico rivolto a un pubblico piuttosto ristretto di intellettuali e pertanto meno soggetto a ingerenze da parte della censura4, «Rzeczpospolita» era un quotidiano a larga tiratura. Vale 1 JAN KARSKI, The Great Powers and Poland, 1919-1945. From Versailles to Yalta, University Press of America, Lanham 1985, poi Rowman & Littlefield Publishers, Lanham 2014 [N.d.C.]. 2 IDEM, Wielkie mocarstwa a Polska, Część 1: Od Wersalu do Września; Część II: Od Września do Jałty, Wydawnictwo Społeczne KOS, Warszawa 1987; IDEM, Wielkie mocarstwa wobec Polski, 1914-1945. Od Wersalu do Jałty, Wydawnictwo Poznańskie, Poznań 2014 [N.d.C.]. 3 Cfr. Własna racja stanu. Rozmowa z profesorem Januszem [sic!] Karskim, rozmawiała Justyna Duriasz, «Rzeczpospolita», 16.04.1990, pp. 5-6 [N.d.C.]. 4 Cfr. ibidem [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 la pena di ricordare che – nonostante la precedente intervista sul «Tygodnik Powszechny», a causa della persistente assenza di informazioni su di lui – il suo sottotitolo era Conversazione con il prof. Janusz Karski, e non Jan, come ci si sarebbe dovuti aspettare. L’intervistatrice, Justyna Duriasz, una giovane studentessa di storia che si trovava negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio, era ben decisa a far sì che la Polonia riscoprisse Jan Karski. Fu lei a curare la redazione dell’intervista, annotata in una splendida calligrafia, assicurandosi che ogni dichiarazione corrispondesse al pensiero di Karski e redigendola nel miglior polacco possibile. Quando rientrò in Polonia, per Natale Karski le inviò un pacco dono con del prosciutto in scatola e della frutta: la Polonia soffriva ancora di una grave penuria di generi alimentari e la vita all’epoca non era davvero tutta rose e fiori. Nel 1986, quando lo incontrai per la prima volta, Jan Karski stava promuovendo il suo libro, e io fui una dei fortunati che ebbero la possibilità di sentirlo parlare di quegli anni fatali tra il 1919 e il 1945, in un confortevole appartamento con vista sul lago Michigan. Vestito in modo impeccabile e piuttosto inavvicinabile nel suo contegno, Karski parlò a lungo delle circostanze che avevano fatto sì che dalla fine della Seconda guerra mondiale la Polonia, come i Paesi Baltici e altri Stati dell’Europa orientale, fosse finita sotto lo spietato tallone d’acciaio di Stalin. Karski si dimostrò loquace: era un oratore affascinante, un attore eccellente. Ormai ero al corrente della sua figura e del suo eroico passato come esponente di punta dello Stato clandestino polacco, il più esteso e ramificato tra tutti i movimenti della Resistenza antinazista europea, e mi aspettavo una specie di eroe romantico: con mia gran sorpresa, il conferenziere impartì al suo pubblico una lezione di lucido realismo politico. “Come hanno potuto il presidente Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro Winston Churchill tradire la nazione che ha combattuto dal primo all’ultimo giorno di guerra, sacrificando la generazione dei suoi figli migliori?”, chiese qualcuno dalla sala. “Come hanno mai potuto i leader del mondo libero infrangere la promessa fatta al popolo polacco e consegnare quel paese insanguinato, quel fedele alleato, a Stalin?”. Era un interrogativo pesante. Karski non batté ciglio: “Occorre comprendere che Roosevelt non era il presidente della Repubblica di Polonia, bensì degli USA”. Il tono della sua voce era quasi sarcastico, mentre sottoponeva a disamina le decisioni politiche e di- 111 EWA WIERZYŃSKA LA MEMORIA RESUSCITATA plomatiche degli Alleati, arrivando ad affermare che l’enorme quantità di sangue versato dalla Polonia, la distruzione della sua capitale, il sacrificio della generazione dei suoi figli migliori, erano stati ritenuti fattori di scarsa rilevanza. Sottolineò che a risultare decisivi per le sorti di quel terribile conflitto erano state le decine di migliaia di carri armati, aeroplani, navi insieme al resto dell’arsenale bellico degli Alleati e non certo la volontà polacca di combattere. Tempo dopo, durante gli anni Novanta, ci eravamo trasferiti a Washington e mio marito, giornalista, aveva fatto amicizia con Jan Karski, registrando decine di ore di conversazioni con lui, ormai in pensione e da poco vedovo (la moglie, Pola Nireńska, ebrea, si era suicidata nel 1992 gettandosi dal loro appartamento all’undicesimo piano). Le interviste registrate da mio marito Maciej venivano trasmesse in Polonia dall’emittente «Voice of America». Mio marito era rimasto profondamente colpito dall’originalità del pensiero di Jan Karski, dal carattere spesso provocatorio delle sue idee. Man mano che registrava nuove conversazioni, i suoi supervisori alla radio iniziarono ad avere qualche perplessità. In una verifica del programma gli venne chiesto come mai la sezione polacca di «Voice of America» 112 dedicasse tante risorse per registrare “una figura ignota”. Soltanto nell’inverno del 1999 il settimanale «Time» avrebbe inserito Karski nella lista delle cento personalità più rilevanti del XX secolo: Maciej riuscì comunque a difendere il suo progetto e a continuare le registrazioni 5. Così come continuarono le visite di Karski a casa nostra. Il professore, ormai anziano, non aveva la patente, e capitava che mi chiedesse di portarlo da qualche parte. Per me era un grande onore. Nel 2005 sono tornata in Polonia dagli USA, dopo aver trascorso ventuno anni all’estero, e ho trovato completamente assente ogni ricordo di Jan Karski. È stato un vero shock. Nessuna menzione di Karski nei libri di testo scolastici. Nessun libro di Karski in commercio. Nessun articolo per gli anniversari della sua morte. Nessuna replica dei numerosi documentari in cui compariva. Il pubblico in preda a un’amnesia totale. Persino gli accademici non sembravano farci gran caso, presi com’erano dalla riscoperta del passato ebraico e dei brutali atti di violenza, spesso dimenticati, compiuti dai polacchi “etnici” nei confronti dei loro concittadini ebrei. Ma cosa era andato storto? 5 Una trascrizione delle conversazioni tra Jan Karski e Maciej Wierzyński è stata pubblicata nel 2012, cfr. JAN KARSKI, MACIEJ WIERZYŃSKI, Emisariusz własnymi słowami, PWN, Warszawa 2012 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Vorrei avere una risposta. D’altra parte, Karski non era certo l’unico a essere finito nel dimenticatoio. La stessa sorte era spettata ad altri, primo fra tutti a Witold Pilecki, il “volontario di Auschwitz”: l’averlo “infiltrato” in quel celebre campo era stato uno dei molti tentativi delle organizzazioni clandestine polacche di dare vita alla Resistenza nei lager e di ricevere resoconti di prima mano su che cosa vi stesse avvenendo. Un altro eroe dimenticato era Henryk Sławik, un operatore sociale slesiano a capo delle attività clandestine nei campi di internamento ungheresi dove si trovavano i soldati polacchi dopo il settembre 1939. Sławik aveva salvato numerosi ebrei, fra cui tantissimi bambini, grazie alla sua capacità di procurarsi documenti con identità fittizie. Dei tre, sicuramente il più noto nel mondo era Jan Karski, grazie all’epico documentario di Claude Lanzmann e al conseguente ruolo di testimone non ebreo che aveva messo in allarme il mondo sullo sterminio degli ebrei quando ancora sarebbe stato possibile salvare milioni di persone. La narrazione dell’Olocausto elaborata da intellettuali e scrittori prevalentemente ebrei, soprattutto da storici quali Raul Hilberg e Walter Laqueur6, nonché dai musei dell’Olocausto sorti un po’ dappertutto in America del Nord e in Europa, hanno inserito Karski al centro della trama della storia ebraica della Shoah. La storia di Karski e della sua testimonianza sono divenute un elemento centrale di quella narrazione, dal momento che sollevano una questione cruciale: i leader della potenze alleate, coloro che erano a capo delle diverse istanze militari, sociali, politiche e intellettuali, le loro rispettive comunità sapevano che era in corso uno sterminio sistematico, ma non avevano fatto nulla. Perché? La ragione dell’assenza di Karski dal panorama polacco non è così scontata. Certo, si potrebbe affermare che dopo il 1989 i polacchi erano troppo impegnati a costruire una democrazia per guardarsi indietro. E quando si guardavano indietro, lo facevano per motivi pratici, per cercare ispirazione o per tentare di costruire il mito di un’eccezionalità polacca. Un altro noto emigrato, Jan Nowak-Jeziorański, godeva di grande consenso e di un’enorme popolarità presso i media, perché aveva sempre una risposta per ogni quesito, anche il più difficile. Non solo, ma i suoi programmi alla “Vogliamoci bene”, pieni di saggi consigli per 6 Cfr. RAUL HILBERG, The Destruction of the European Jews, Holmes and Meier, London 1985; IDEM, Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1939-1945, Harper Collins, New York 1992; WALTER LAQUEUR, The Terrible Secret. An Investigation into the Suppression of Information about Hitler’s ‘Final Solution’, Weidenfeld and Nicolson, London 1980 [N.d.C.]. 113 EWA WIERZYŃSKA LA MEMORIA RESUSCITATA un popolo che stava conoscendo tutti i problemi di un periodo di transizione, sembravano fatti apposta per trasmettere al pubblico ciò di cui aveva più bisogno: la speranza in un domani migliore. Da questo punto di vista gli studi polacchi sull’Olocausto sono risultati un elemento a sé stante. E infatti non sono mancate le opinioni critiche, quando le ricerche si sono incentrate sui particolari più scabrosi e soprattutto sull’indubbia débâcle morale dei cristiani polacchi in circostanze come quella di Jedwabne durante la guerra, di Kielce dopo la guerra e in tante altre occasioni in altri luoghi7. Karski, l’eroe dell’Olocausto, non era visto di buon occhio all’interno di una simile cerchia, dal momento che sembrava fornire una sorta di cortina fumogena per i critici di quell’importante campo di indagine. A preoccuparli era infatti la possibilità che venissero allo scoperto questioni come la collaborazione dei polacchi con gli occupanti tedeschi nel tentativo di estirpare la comunità ebraica, dal momento che simili rivelazioni avrebbero compromesso l’immagine della Polonia nel mondo. Usare la storia di Jan Karski per dimostrare come i polacchi fossero la più nobile tra le nazioni, e che lo Stato clandestino polacco fosse la più nobile e splendida organizzazione – irremovibile a qualsiasi cedimento antisemita – po114 teva sicuramente corroborarci, ma contraddiceva tanto la verità storica quanto lo stesso complesso messaggio di Jan Karski, per il quale la Shoah aveva rappresentato un “secondo peccato originale” e in nessun caso era lecito porre a confronto la sorte dei polacchi, per quanto tragica fosse stata, con quella degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Quali che siano state le ragioni di un simile fenomeno, la storia di Jan Karski ha avuto delle difficoltà a mettere radici in Polonia. A molti dei sostenitori del programma quadriennale incentrato sulla figura dell’Emissario è sembrato evidente che fosse necessario resuscitare la memoria di Jan Karski nel suo paese, la Polonia. Non solo perché la sua storia era interessante, non solo perché avevamo a che fare con una fonte inesauribile di materiali documentari, ma soprattutto perché nessuna nazione può permettersi il lusso di ignorare una simile vicenda e un tale eroe. Come ha detto Zbigniew Brzeziński, Karski appartiene alla prima fila degli eroi nazionali polacchi, accanto a Tadeusz Kościuszko e Józef Piłsudski. 7 Sul massacro di Jedwabne e il pogrom di Kielce si veda, in italiano: JAN T. GROSS, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002 [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Questo è il motivo per cui come Museo della Storia della Polonia abbiamo dato vita al programma educativo quadriennale chiamato Jan Karski. Una missione incompiuta (Jan Karski. Niedokończona misja), collocandolo tra due date: il decimo anniversario della sua morte, il 13 luglio 2010, e il centenario della nascita, il 2014. La decisione del parlamento polacco di proclamare il 2014 “Anno di Jan Karski”, annunciata il 6 novembre 2013, è stata il coronamento di tre anni di iniziative in questo senso. Oggi, nel quarto anno del programma, possiamo vantarci di aver dato vita o collaborato a centocinquanta eventi pubblici, compresi le undici Giornate di Jan Karski in altrettante città polacche, congressi, incontri, dibattiti, libri, pubblicazioni, dozzine di inaugurazioni di mostre, una bella biografia fotografica, una graphic novel in italiano, diversi progetti cinematografici e produzioni teatrali, e un’infinita serie di articoli e programmi radio e TV in Polonia e nel mondo. Possiamo dire senza timori di smentite che siamo riusciti a riportare Jan Karski sotto il tetto polacco e che egli è destinato a rimanervi. Sarà una memoria di lunga durata? Difficile dirlo con certezza, ma per come la vedo io, credo sia stato superato quel punto di non ritorno per cui sarà difficile che la fiamma del ricordo possa spengersi. La “questione Karski” è stata posta. E bisogna dire che la giornata di studi tenutasi a Milano, l’inaugurazione delle mostre nella stessa città, a Roma, Udine e Cesena, hanno svolto un ruolo importante negli sforzi compiuti per renderla sempre più una questione condivisa. [Traduzione dall’inglese di Luca Bernardini] [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 109-115] 115 GIOVANNA TOMASSUCCI Pola Nireńska, la moglie dell’“ebreo cristiano” Jan Karski 1. Un ritratto “invisibile” I n uno dei frammenti non utilizzati della lunga intervista di Lanzmann a Jan Karski, oggi accessibile sul sito internet dell’Holocaust Memorial Museum (<www.ushmm.org>), la cinepresa inquadra fugacemente un suo ritratto un po’ zingaresco. Pola ci sorride mestamente, vestita di rosso, con un barboncino nero sulle ginocchia, a destra del divano su cui Jan Karski – con una tensione che 116 lo attraversa come una scarica elettrica – narra la sua visita clandestina nel campo di concentramento di Bełżec. Compare solo per un istante e solo in effigie… Perché in quell’inverno del 1978 Paula Nirensztajn Karski (in arte Pola Nireńska, 1910-1992), dopo aver tentato inutilmente di assistervi, fuggiva da quelle strazianti riprese a casa loro, che ridavano corpo ai fantasmi della sua famiglia sterminata. Pochi sanno che Karski aveva sposato in seconde nozze una coreografa e danzatrice di fama internazionale, nata a Varsavia da una famiglia borghese di origine ebraica. Fin dai primi anni della sua carriera, anche per non creare imbarazzo ai parenti, aveva mutato il cognome nel più slavo Nireńska e il nome in Pola, diminutivo diffuso tra molte ebree della sua generazione: richiamo anche al mondo della cultura e dello spettacolo polacco (si pensi all’attrice Pola Negri e alla scrittrice Pola Gojawiczyńska). Karski l’aveva già vista danzare a Londra, per caso, all’epoca della loro giovinezza, alla fine degli anni Trenta. Nel decennio successivo la guerra e la Shoah li avrebbero fatti entrambi approdare negli Stati Uniti. Altrettanto per caso, nei primi anni Sessanta, a Washington, lui venne a sapere che si esibiva in PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 una sinagoga e volle rivederla: la leggenda narra che per poterla contattare e invitarla a colazione ricorse alla mediazione del rabbino1… Lei aveva un bel corpo sottile, un’eleganza particolare nei movimenti, un volto dall’aria esotica, zigomi sporgenti, una bocca grande e sensuale, un naso forte e soprattutto degli occhi neri, molto penetranti, dalle sopracciglia arcuate. Aveva superato i cinquant’anni e aveva quattro anni più di lui, ma era ancora molto bella e affascinante. Si sposarono nel luglio 1965. Pola, che sapeva bene il polacco (i suoi genitori, anche se ebrei, le avevano fatto frequentare una scuola cattolica, fatto all’epoca non infrequente), si rifiutava tuttavia di parlarlo con Jan: comunicavano solo in inglese, che nessuno dei due sapeva alla perfezione. Nutriva verso i polacchi il doloroso rancore di tanti ebrei sopravvissuti ed esiliati (durante la guerra aveva perso gran parte dei parenti, settantaquattro persone). Spesso si rifiutava di accompagnare il marito durante le sue conferenze sulla Seconda guerra mondiale, rimproverandogli di fare propaganda sciovinistica filo-polacca2. Tra di loro c’era una sorta di patto non scritto, non parlavano della Shoah e in genere non mettevano in contatto i loro due diversi mondi: l’insegnamento universitario alla Georgetown di lui, la carriera di danzatrice e coreografa di lei. Pola seguì il marito solo per una serie di conferenze tenute nel ‘67 in vari paesi del Mediterraneo, dell’Asia e dell’Africa: non lo accompagnò neanche quando lui si recò in Polonia, nel ‘74. Come molti ebrei polacchi sopravvissuti, aveva deciso di non tornare mai più nella terra in cui tanti suoi cari erano morti così atrocemente. Quando si erano sposati, Jan l’aveva spinta a convertirsi al cattolicesimo e a frequentare la chiesa assieme a lui: una scelta da lei condivisa con un’apparente leggerezza, in nome del fatto che anche la madre di Gesù era ebrea, ma che poi l’aveva tormentata, aumentandone i già penosi sensi di colpa. Invecchiando, soffriva di forti dolori alle ossa. Come ricorda Kaya MireckaPloss, sua vecchia amica e, dopo la sua morte, nuova compagna di Karski, il 25 luglio 1992 salì su uno sgabello appositamente acquistato il giorno prima e volò giù dal balcone dell’undicesimo piano della loro casa, a Bethesda, nei pressi di Washington. Era il suo sesto tentativo di suicidio: dai cinque precedenti, in cui 1 Cfr. JOANNA LESZCZYŃSKA, Jan Karski: bohater z poczuciem winy?, in «Dziennik Łódzki», 18.06.2012, <tinyurl.com/qgfefoo>. 2 ALEKSANDRA KLICH, Jak katolik został Żydem, in «Gazeta Wyborcza», 13.07.2010, <wyborcza. pl/1,76842,8132619,Jak_katolik_zostal_Zydem.html?as=4>. 117 GIOVANNA TOMASSUCCI POLA NIREŃSKA aveva ingerito dei sonniferi, Jan l’aveva sempre salvata3. Avrebbe compiuto 82 anni tre giorni dopo. “Nella mia vita c’è stato un cambiamento doloroso: mia moglie non c’è più e io sono solo – imparo la solitudine. […] La sua tomba mi aspetta”4, scriverà Jan, disperato. Ventotto anni prima anche Marian Kozielewski, suo fratello maggiore, detenuto politico sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, si era ucciso, probabilmente perché non riusciva ad ambientarsi nella nuova realtà statunitense. Nel 1981, un anno prima che di essere proclamato Giusto tra le nazioni, Karski aveva preso parte alla conferenza Concentration Camps Liberators, organizzata a Washington da Elie Wiesel. Rompendo il suo tradizionale riserbo, nel suo discorso aveva fatto cenno al ruolo del suo rapporto con la moglie: Il Signore mi ha assegnato il compito di parlare e scrivere durante la guerra, quando, così mi sembrava, la cosa poteva essere di aiuto. Io non l’ho fatto. Per me, oggi, 28 ottobre 1981, il sipario è ormai calato. Il teatro è vuoto. Inoltre, verso la fine della guerra, ho appreso che il governo, i leader, gli studiosi e gli scrittori non avevano idea di cosa fosse accaduto agli ebrei. Per loro tutti fu una sorpresa. L’assassinio di sei milioni di innocenti 118 era un segreto, un “terribile segreto”, come lo ha chiamato Laqueur. Così io sono divenuto un ebreo. Anche tutti gli ebrei assassinati sono divenuti la mia famiglia, allo stesso modo della famiglia di mia moglie, perita interamente nei ghetti, nei campi di concentramento, nelle camere a gas. Ma io sono un ebreo cristiano. Io sono un cattolico praticante5. Quel terribile segreto c’era stato anche tra lui e Pola. 2. La danza che cambia la vita Nireńska era figlia di un’agiata famiglia di un fabbricante di cravatte di Varsavia che commerciava con la Germania. Era dotata per la musica, la ginnastica, il canto e il disegno (quello scientifico in particolare) e aveva scoperto la danza a 9 anni, durante un campo estivo. Così, all’insaputa dei suoi, aveva iniziato a prendere lezioni (a Varsavia esisteva da tempo un corpo di ballo di alto livello, 3 Cfr. l’intervista di Kaya Mirecka-Ploss, ibidem. Lettera di Jan Karski, 30.11.1992, <www.karski.org.pl/karski/zona>. [Tutte le traduzioni contenute in questo saggio sono mie, G.T.]. 5 Cit. in Voices From the Holocaust, a cura di Harry James Cargas, University Press of Kentucky, Lexington 2013, pp. 64-65. 4 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 con rapporti internazionali con la Russia, la Francia e l’Italia), scoprendo in breve tempo la sua vera passione, la danza moderna. Come tante ragazze europee ribelli e coraggiose (tra cui molte di origine ebraica), Pola era attratta dalla libertà e dall’anticonformismo delle danzatrici moderne. A 17 anni ideò la sua prima coreografia, sulle note della Danse macabre di Saint-Saën, e la interpretò per la sorella, nella cucina di casa loro: aveva ormai chiaro che voleva dedicare la sua vita alla danza. I genitori erano contrari, ma lei riuscì ad averla vinta – come amava raccontare ad amiche e allieve – rinchiudendosi in camera e facendo lo sciopero della fame e della sete per tre giorni. Loro cedettero: per spingerla a uscire le fecero scivolare da sotto la porta il suo passaporto6. La sua lotta per danzare ricalca quella di altre ballerine di origine borghese, come Ida Rubinstein, Katya Delakova o Valeska Gert, o della sua connazionale, anch’essa di origine ebraica, Judit Berg, interprete del personaggio della Morte nel film Il Dybbuk (1937). Pur ponendo la condizione che non si esibisse mai in pubblico, la sua famiglia la aiutò a trovare un posto a Dresda, nella scuola di Mary Wigman, un’artista frequentatrice del caffè Voltaire e dei circoli del Bauhaus. Per finanziarsi il soggiorno e gli studi, la diciassettenne Pola impegnò l’intera somma della propria dote, mentre il padre le devolse gli introiti dell’affitto di uno stabile a Berlino7. L’insegnamento della Wigman, basato sulla tecnica dell’Ausdruckstanz (danza di espressione) prevedeva anche lo studio dell’arte, della storia delle religioni, della filosofia e della teosofia. Pola rivelò anche un notevole talento musicale, in particolare nelle percussioni (che continuerà a utilizzare nella sua carriera) e si diplomò nel ‘32 come miglior allieva. La Wigman la chiamò a partecipare a una tournée della sua compagnia negli USA. Al loro ritorno, due anni dopo, Hitler era salito al potere: Pola verrà cacciata insieme agli altri collaboratori di origine ebraica della scuola (quasi la metà dello staff), nell’estate del ‘34. Lo ricorderà anni dopo in un’intervista: Fuori dell’edificio era appesa una svastica. La segretaria, che conoscevo da quattro anni, stava seduta nello studio vestita con un’uniforme da truppa d’assalto. Mi fu detto che non potevo vedere la Wigman, perché era impegnata con altri. Restai nei paraggi per due giorni, sperando di incontrare Mary, ero venuta da lontano ed ero molto povera. Alla fine 6 Cfr. <http://kulturaenter.pl/choreografie-nieobecnosci/2014/06/>. SUSAN MANNING, Ecstasy and the Demon: Feminism and Nationalism in the Works of Mary Wigman, University of California Press, Berkeley 1993, p. 299. 7 119 GIOVANNA TOMASSUCCI POLA NIREŃSKA Gretl Kurt mi disse che Mary Wigman voleva affidarmi un corso estivo. Le risposi: “Mary si è dimenticata che io sono ebrea”, feci le valige e ripartii8. Rientrò per un anno a Varsavia, a insegnare al conservatorio. Una borsa di studio del governo polacco le permise anche di perfezionarsi e formare una piccola compagnia. Le sue esibizioni solistiche, vicine all’arte del mimo e all’estetica espressionista della Wigman, erano sempre più apprezzate. Nel ‘33, al Festival della Danza nella capitale polacca, un critico scrisse: “Nireńska, Polonaise, représente un type fort, décidé, sûr de soi, de ses moyens et de son but. Son Cri a ému l’assistance”9. Proseguì gli studi a Vienna con la morava Rosalia Chladek, anch’essa pioniera dell’Ausdruckstanz, aggiudicandosi il 1° premio per la coreografia e il 2° per le sue interpretazioni solistiche all’importante Festival Internazionale di Danza del ‘34 (in Polonia un giornale della destra nazionalistica antisemita gridò allo scandalo perché un’ebrea osava interpretare danze folcloristiche polacche)10. L’anno dopo si esibì al teatro Josestadt, uno dei più importanti della città. Il premio la impose all’attenzione internazionale: Angiola Sartorio, nota 120 ballerina e coreografa italo-tedesca (collaboratrice del Sogno di una notte di mezza estate di Max Reinhardt a Firenze), la invitò a danzare per il Maggio Musicale Fiorentino. Fu un soggiorno breve, durante il quale Pola si esibì nell’Aida e insegnò senza entusiasmo nella scuola della Sartorio11. Ma fu a Firenze che incontrò il connazionale Artur Rubinstein, che per primo le suggerì l’idea di emigrare negli Stati Uniti. Di lì a poco, nel ’35, si trasferirà invece a Londra12, per sposare un giovane pilota della RAF di origini argentine: era il conte John Justinian de Ledesma, attore meglio noto con lo pseudonimo di John Justin (protagonista anche del film Il ladro di Bagdad, 1940), più giovane di lei di sette anni. Pola partecipava a spettacoli nelle basi militari della RAF e dell’Armata Polacca in esilio: come già in 8 POLA NIREŃSKA, Intervista a Suzan Moss, 18.02.1986, Pola Nirenska Collection, Library of Congress, cit. in KAREN A. MOZINGO, Crossing the Borders of German and American Modernism: Exile and Transnationalism in the Dance Works of Valeska Gert, Lotte Goslar, and Pola Nirenska, Tesi di Dottorato, The Ohio State University, p. 123. 9 ST[ANISŁAW] GŁOWACKI, Premier concours de la dance artistique a Varsovie, Archives Internationales de la Dance, juillet 1933, p. 106. 10 ALEKSANDRA KLICH, Jak katolik został Żydem, cit. 11 DAVID LYMAN, An Old World Modernist Working in the Present, in «Washington Dance View», 1987, pp. 5-9. 12 Cfr. KAREN A. MOZINGO, op. cit., p. 124. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Germania e Austria, si trattava anche di danze del folclore polacco (nella rivista It’s in the Bag e in un musical su Chopin, Waltz Without End): le sue interpretazioni venivano trasmesse anche alla tv britannica. Riuscì a fondare un proprio studio e a collaborare con danzatori di grande fama, quali i tedeschi Kurt Jooss e Sigud Leeder (formatisi anch’essi nell’ambito dell’Ausdruckstanz) o con la fondatrice del prima compagnia di danza contemporanea in Inghilterra, Dame Marie Rambert, anch’essa ebreo-polacca. Lavorò anche come indossatrice e posò per il noto scultore Jacob Epstein, un angloamericano dalle radici ebraico-polacche (di una sua testa in bronzo, da lui scolpita nel ‘37, si sono purtroppo perse le tracce). Durante la guerra venne a sapere dello sterminio di buona parte della sua famiglia, tra cui una sorella amatissima, catturata dai nazisti perché nessuno le aveva porto aiuto. Solo nella primavera ‘47, durante una tournée a Gerusalemme e Tel Aviv, poté finalmente riabbracciare i genitori e il fratello, emigrati in Palestina negli anni Trenta. Dopo aver divorziato, nell’autunno del ‘49, grazie all’invito di Ted Shawn al Jacob’s Pillow Dance Festival, si trasferì a New York. Fu un salto coraggioso, che le creò non poche difficoltà: non aveva denaro, nemmeno per nutrirsi, arrivò a pesare 47 chili. Lavava i piatti di notte in un ristorante italiano per potersi mantenere e studiare con i più importanti esponenti della danza contemporanea, Doris Humphrey, José Limón e Louis Horst. La favoriva il fatto di aver studiato e collaborato con la scuola Wigman: molti suoi ex colleghi e studenti si erano rifugiati negli USA durante il nazismo ed erano tuttora attivi a New York, Hollywood, Washington. Tra di loro c’erano la più giovane Erika Thimey e Jan Veen (già Hans Weiner), fondatore del Boston Conservatory Dance Program. Grazie a lui Pola potrà fare il suo debutto americano, nel ‘50 a Boston, presentando i suoi assolo e le danze ispirate al folklore polacco. Portavano titoli eloquenti: Eastern ballad, St. Bridget, Stained-glass Window, Sarabande for the Dead Queen, La puerta del vino, Peasant Lullaby, Mad Girl, Dancer’s Dilemma e Unwanted child. In A Scarecrow Remembers (19461957) Nireńska interpretava uno spaventapasseri che, quando ricordava un passato felice e definitivamente perduto, si trasformava in un elegante signore con un bastone da passeggio. Nel ‘51 la nota ballerina Evelyn de la Tour la invitò a collaborare con il Dance Workshop di Georgetown. Pola vi si trasferì, anche per sfuggire alla forte 121 GIOVANNA TOMASSUCCI POLA NIREŃSKA concorrenza tra i danzatori newyorkesi, ma la sua vita era ancora precaria, alloggiava nello stabile della scuola, dove il bagno era “condiviso con gli scarafaggi”. Ciò malgrado ebbe la possibilità di dedicarsi meno all’insegnamento (necessario a sopravvivere), per concentrarsi sulla ricerca coreografica che la appassionava. Nel ‘56, ottenuta la cittadinanza americana, riuscirà finalmente a fondare una sua compagnia, la Nirenska Dance Company. In quegli anni cercò di prendere le distanze dalla danza espressionistica, assecondando i critici americani che la invitavano ad assimilare le nuove tendenze nordamericane. Nel 1960 aprì un suo studio, con un notevole successo, in un edificio da lei progettato. Nel 1968, tre anni dopo il matrimonio con Karski, a causa di forti crisi depressive, purtroppo destinate a intensificarsi, si ritirerà dalle scene. Si dedicherà alla fotografia, in particolare ai ritratti, esperienza che lascerà echi nelle sue successive coreografie, e alla progettazione della sua casa a Georgetown. Dal 1977, alcuni amici e collaboratori la convinsero a riprendere alcuni suoi progetti. Ritornò a insegnare al Dance Exchange con l’ex allieva Liz Lerman, e al Glen Echo Dance Theater di Jan Tievsky. Un riconoscimento importante fu il Metropolitan Dance Award. 122 3. La danza resuscita la memoria L’assolo Eternal Insomnia of Earth (risalente all’ultimo periodo prima del suo ritiro dalle scene, nel ‘68) si svolgeva sopra e attorno a un’enigmatica grande scatola nera, su uno sfondo altrettanto nero e impenetrabile. I movimenti della ballerina, prima lenti, poi sempre più convulsi, esprimevano le sofferenze di un corpo percorso da tensioni interiori. I “tumulti”, che Nireńska chiamava “insonnia della terra” (una terra inquieta, ma costretta a rimanere ancorata alla propria orbita), sono condivisi anche da chi cerca di distaccarsi dal proprio destino e dalle proprie radici. In questa metafora autobiografica, il corpo, sottoposto a rotazioni e torsioni, scomode e problematiche, è come sospeso a mezz’aria, in un’alienante oscurità magmatica. Anche in un altro assolo, Exits, interpretato da Liz Lerman, l’angoscia assume le forme di una lotta con la disperazione: il corpo della ballerina assume le posizioni più varie sopra, accanto e dietro una sedia da salotto borghese, in una tenebra angosciosa e in un tempo sospeso, come immobilizzato in una sequenza di fotogrammi. I temi sono quelli caratteristici di PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Pola, legati alla perdita, all’assenza, al lutto. Essi sono suggeriti anche dai richiami a una celebre poesia di Dylan Thomas, Do Not Go Gentle into That Good Night, che rievoca la “furia contro il morire della luce”, l’impossibilità di andare “docili in quella buona notte” e di considerare “giusta” la tenebra. Come Pola, anche molti suoi amici e collaboratori erano di origine aschenazita e mettevano in scena spettacoli di danza su temi ebraici: lei stessa aveva creato nell’84 la Jewish song (The old and the new). Ciò nonostante, per buona parte della sua carriera aveva evitato ogni riferimento alla Shoah, divenuta una sorta di tabù. Alcuni episodi nella vita del marito la spinsero tuttavia a un ritorno creativo a quel tema. Nel ‘78 il presidente Carter lo aveva designato a formare una commissione sull’Olocausto, presieduta da Elie Wiesel, la stessa che avrebbe indetto la già citata conferenza Liberators. In quello stesso anno, dopo molte esitazioni, Karski accetterà di rilasciare a Claude Lanzmann la sua lunga intervista. Questa trasgressione del mutuo patto di silenzio con Pola stimolò la nascita della sua ultima coreografia, nota come la Holocaust tetralogy (sottotitolo: In memoria di coloro che amavo e che non ci sono più). Composta dolorosamente in un lungo arco di tempo (1982-1990), era divisa in quattro sezioni: Life (Whatever begins also ends), Dirge, Shout e The train. Più di ogni altro suo spettacolo, essa rappresentò per Nireńska la possibilità di recuperare le varie esperienze della sua intensa carriera (per la sua enfasi ed espressività la critica la definì una sorta di “resurrezione” dell’estetica della Ausdruckstanz) e della sua drammatica biografia, narrando esplicitamente il suo distacco dalla famiglia, l’esilio, la guerra e la morte delle persone a lei più care. In Vita (1983) appare una famiglia composta di sole donne: una madre con le sue cinque figlie, che si manifestano affetto e tenerezza. La madre è vestita lugubremente di nero, è statica o si muove in maniera trattenuta, ma le figlie, piene di vita e giovinezza, non colgono ancora questo segno premonitore di distruzione e morte. Nella seconda sezione, Lamento (1982), composta sulla musica del Concerto grosso n. 1 di Ernest Bloch, le donne cercano di riformare la catena degli affetti, ma i legami sono spezzati e i movimenti ora rallentati, ora enfatizzati. La terza e quarta parte sono un crescendo di angoscia. In Grido (1986), unico assolo del ciclo, dallo stesso titolo di una sua interpretazione degli anni Trenta, risuo- 123 GIOVANNA TOMASSUCCI POLA NIREŃSKA nano terrore e disperazione e un urlo silente. In Treno (1990) assistiamo alla morte atroce e disperata di tutte e sei le donne. Ognuna di loro lotta convulsamente, annaspando contro l’invisibile porta del treno o della camera a gas, ognuna osserva impotente le altre morire: l’ultima è la madre, disperata, che perisce inveendo contro un Dio assente, davanti a un mucchio esanime di corpi. Attraverso la ripetizione o variazione di passaggi, con una diversa velocità e intensità (caratteristiche della sua estetica), la Tetralogia rappresenta la rottura degli affetti familiari e del mondo di origine e la solitudine angosciosa e incondivisibile di vittime e sopravvissuti... Lo spettacolo è stato accostato ai cosiddetti yizker bikher (in yiddish: libri della memoria), che raccoglievano testimonianze del passato della comunità aschenazita distrutta nella Shoah. Proprio quel tentativo di rievocare e condividere la sua dolorosa storia, si trasformò per Pola in una sorta di vaso di Pandora. Lei, che chiedeva ai suoi interpreti solisti di andare in profondità delle proprie emozioni, non riuscì a sfuggire ai suoi fantasmi. Durante le prove dell’ultima sezione, in cui venivano rievocate la deportazione e le camere a gas, ebbe delle crisi psicotiche e Karski dovette far sospendere lo spettacolo al Kennedy Center. 124 L’intera Tetralogia verrà rappresentata solo nel luglio del ‘90, al Dance Place, in occasione del suo ottantesimo compleanno, da allievi e collaboratori13. Dopo il suo tragico suicidio, verrà reinterpretata nel ‘94 da una giovane amica di famiglia, Laura Schandelmeier: più recentemente la sua seconda sezione è stata ricostruita, con il titolo polacco Lament, dallo Śląski Teatr Tańca di Bytom. Benché l’intera carriera di Nireńska abbia narrato l’angoscia, la memoria e la perdita (era vissuta e aveva lavorato in ben quattro diversi paesi, oltre che in Polonia), solo verso la fine della vita riuscì a fondere assieme le diverse componenti della sua lunga esperienza. Aveva ereditato dalla Wigman l’eclettismo e la cura della preparazione musicale dei ballerini, cui lasciava comunque un’ampia libertà di collaborazione e improvvisazione. Per le sue coreografie ricorreva spesso a materiale musicale eterogeneo: alla musica classica (da Bach ai maestri del Novecento), al folk dei più vari paesi, alle canzoni, ai contemporanei (Philip Glass) o al jazz (ad esempio Miles Davis, Ella Fitzgerald e Duke Ellington nella Tetralogia). I critici ricordano 13 RIMA FABER, Nirenska: A Pioneer of Modern Dance in DC, <www.bourgeononline.com/ 2008/ 01/rima-faber-on-pola-nirenska>. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 come le sue coreografie, scarne ma ricolme di richiami emotivi, creassero sorta di una massiccia e pesante scultura tridimensionale14. Pola amava la vita e invitava a fondere tutte le suggestioni nella danza: ripeteva ai suoi interpreti: “guardati attorno, osserva la gente, gli edifici, per poter imprimere tutte le tue reazioni nella coreografia”15. Oggi è considerata una matriarca della danza moderna americana e una delle interpreti più coraggiose del tema dell’ Olocausto. Nel fondo depositato alla Library of Congress si trova la sua ampia corrispondenza (1934-1992) con i più grandi esponenti della danza europea e americana, tra cui Mary Wigman, Rudolf Laban, Martha Graham, Louis Horst, Doris Humphrey, Kurt Jooss, Jan Tievsky, Jan Veen, accanto a fotografie, documenti, registrazioni video e DVD. Poco dopo la sua morte, nel 1993 Karski le intitolò un premio (che in seguito porterà anche il suo nome), assegnato ogni anno dall’YIVO a studiosi delle tradizioni culturali degli ebrei polacchi: tra di loro vi sono stati ProkopJaniec, Ficowski, Grynberg, Tomaszewski, Adamczyk Garbowska. La lapide della tomba di Pola e Jan, nel cimitero di Mount Olivet, ricorda in maniera semplice e assolutamente paritaria i loro nomi e le loro date di nascita e di morte. Nonostante Karski fosse sempre stato contrario a ogni tipo di monumento funebre, nel novembre del 2012 il ministro degli Esteri Sikorski, in visita a Washington, ha dichiarato l’intenzione del governo polacco di far scolpire entro il 2014 (centenario della sua nascita) un bassorilievo che ne ricordasse l’eroismo durante la guerra. Il progetto, che ignorava del tutto la figura di Nireńska, è stato bloccato tra le proteste della famiglia e di parte dell’opinione pubblica in Polonia16. 14 Cfr. JENNIFER DUNNING, Pola Nirenska, a Choreographer and Teacher, is a Suicide at 81, in «The New York Times», 31.07.1992. 15 Biographical Sketch, in Pola Nirenska Collection. Guides to Special Collections in the Music Division of the Library of Congress, <http://socialarchive.iath.virginia.edu/xtf/view?docId=nirenska -pola-cr.xml>. 16 ALEKSANDRA KLICH, Tylko dzieci, Janku, odkupią winy, in «Gazeta Wyborcza», 161, 13.07.2010, p. 12, <www.jankarski.org/mediateka/materialy/material/photos//26/>. 125 GIOVANNA TOMASSUCCI POLA NIREŃSKA Bibliografia e sitografia ANDREA AMORT, Tanz im Exil, Ausstellung al Österreichischen Theatermuseum [Ciclo di conferenze e performance in collaborazione con il Festival tanz2000.at & ImPulsTanz, Wiener Akademietheater, 2000]. JENNIFER DUNNING, Pola Nirenska, a Choreographer and Teacher, is a Suicide at 81, in «The New York Times», 31.07.1992. RIMA FABER, Nirenska: A Pioneer of Modern Dance in DC, <www.bourgeononline.com/2008/01/ rima-faber-on-pola-nirenska>. ST[ANISŁAW] GŁOWACKI, Premier concours de la dance artistique a Varsovie, Archives Internationales de la Dance, juillet 1933, p. 106. 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Sono incappato nella storia di Jan Karski casualmente quando, sfogliando le pagine culturali del quotidiano «La Repubblica» del 10 luglio 2011, mi imbattei in un articolo di Andrea Tarquini dal bel titolo L’infiltrato nell’orrore, che raccontava la rocam128 bolesca vita di Jan Kozielewski. L’occasione era la pubblicazione in Germania – per la prima volta – di Story of a Secret State, il racconto autobiografico giunto in Italia qualche tempo dopo con il titolo La mia testimonianza davanti al mondo1. Mi precipitai a documentarmi sul personaggio, mettendo da parte quella cartella del giornale che dedico a spunti narrativi e documentazioni ancora senza una destinazione nel mio lavoro. Mi chiedevo come mai nessuno avesse finora prodotto un film su quella vita avventurosa e tragica, né tantomeno un fumetto. Contattai immediatamente Lelio Bonaccorso, disegnatore con cui ho la fortuna di intrattenere una collaborazione lunga e solida, e trovai in lui lo stesso entusiasmo e la stessa curiosità che mi avevano riempito la testa di idee. Jan Karski era un personaggio universale: un eroe – senza alcun timore nell’usare questo termine – o ancor meglio un eroe scomodo, dai valori universali come la solidarietà e la fratellanza, un senso di giustizia e del dovere oggi forse incredibili. Come incredibile era la sequela di peripezie cui era scampato e la sorte della sua testimonianza dopo la morte. Raccontare Jan Karski equivaleva a raccontare una pagina poco nota del passato di noi europei, ma meritevole di visibilità. Inevitabilmente, 1 JAN KARSKI, La mia testimonianza davanti al mondo, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, Milano 2013. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 sapevo che non avremmo potuto “vendere” il nostro progetto a un editore come un semplice libro sull’Olocausto, tenendo conto degli inarrivabili capolavori del fumetto che trattano lo stesso tema, come il pluripremiato Maus di Art Spiegelman. A tutti gli effetti, un libro su Jan Karski non sarebbe stato il solito libro sulla Shoah, né si sarebbe concentrato sul racconto di un singolo fatto, di una singola tragedia. Era mia intenzione, sin da subito, raccontare anche il lato avventuroso dei viaggi di Jan Karski e l’epicità e la tragicità della Resistenza polacca, in un crescendo di tensione e drammaticità fino alla scoperta finale: l’infiltrazione prima nel ghetto di Varsavia poi nel lager di Izbica Lubelska. Alla sfortuna del suo racconto e della sua figura avremmo dedicato un epilogo amaro. Di certo, l’editore avrebbe intuito l’importanza della storia che volevamo narrare, così come le inevitabili potenzialità di mercato. Da parte nostra, la possibilità di raccontare a fumetti un personaggio di tale caratura, oltre ad affascinarci, conquistarci e appassionarci, dal punto di vista editoriale ci garantiva per esperienza una facile diffusione nelle scuole. Con un fumetto dal titolo eloquente ed efficace come Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto avremmo potuto rompere il muro di diffidenza tra i più giovani e promettere ai lettori (di tutte le età) una lettura avvincente. 1.2 La documentazione Il primo problema da affrontare una volta valutata la fattibilità e l’appetibilità del progetto, è stato trovare le fonti. Per fortuna, l’edizione britannica di Story of a Secret State è venuta in mio soccorso2. Ad essa ho affiancato Un testimone inascoltato di Yannick Haenel3, riassunto forse discutibile dell’autobiografia di Karski nonché della sua lunga intervista a Claude Lanzmann per il monumentale documentario Shoah. Proprio Shoah è stato fondamentale sia per lo studio della biografia di Karski sia per la possibilità di vederlo in azione. I movimenti, i tic, i gesti tipici di Karski fanno parte del personaggio quanto le sue esperienze, e in un medium come il fumetto, così improntato all’uso dell’immagine, erano fondamentali. I video di Shoah e le varie interviste disponibili su Youtube, per lo più estratti dalla stessa opera e da The Karski Report, sempre di Lanzmann, sono stati fondamentali per il disegnatore. Il faro, in fase di 2 3 JAN KARSKI, Story of a Secret State. My report to the World, Penguin Books, London 2011. YANNICK HAENEL, Un testimone inascoltato, Ugo Guanda Editore, Milano 2010. 129 MARCO RIZZO JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI sceneggiatura, è stato Story of a Secret State, a cui si è aggiunta ben presto l’edizione italiana, dato che al momento della pubblicazione del libro per Adelphi, nell’aprile del 2013, eravamo ancora al lavoro sul fumetto. Il contatto nato quasi per caso con il professore Luca Bernardini, docente di Lingua e Letteratura Polacca all’Università degli Studi di Milano, è stato fondamentale per entrare tra le pieghe della Storia, come dimostrato nella sua stessa opera di adattamento del testo di Karski. Man mano che gli mostravamo le tavole in lavorazione, raccoglievamo suggerimenti, appunti e consigli di natura storica. La lettura della versione italiana di Story of a Secret State mi ha permesso di mettere ordine tra le varie incongruenze nelle fonti, dato il ricco apparato di note. Alle documentazioni sulla vita di Karski si è aggiunto lo studio del contesto, sia ai fini della sceneggiatura che del disegno. Mentre Lelio studiava divise, armi, mezzi da guerra, auto, palazzi, costumi, il sottoscritto era impegnato in apparenti amenità come il calcolo della distanza tra due città teatro degli eventi, la scala gerarchica delle Shutzstaffen o i termini usati nell’esercito polacco. Non essendo mai stato in Polonia, lo studio delle architetture e di varie nozioni storiche e geografiche è stato cruciale per dettagliare al meglio la sceneggiatura, passata poi al disegnatore. 130 1.3 Un compromesso con la Storia Una volta raccolta la documentazione, è giunta la parte più difficile, ossia la selezione necessaria nel marasma di informazioni raccolte. È stata una fase molto delicata, non solo perché comprendeva la rinuncia di alcuni elementi, ma perché sapevo che mi avrebbe potuto esporre a critiche. Consapevole che il mestiere del narratore è diverso da quello dello storico o dello studioso, mi sono sempre posto l’obiettivo della verosimiglianza più che della verità, tenendo conto innanzitutto delle necessità e delle richieste imposte dal medium del fumetto, poi delle richieste possibili di un lettore occasionale. Come già scritto nella postfazione in coda al volume, la lunga e complessa storia di Jan Karski era impossibile da condensare in un centinaio di pagine di fumetto. Abbiamo operato tagli e sintesi, omettendo alcuni passaggi, approfondendo certi momenti più di altri. In alcuni casi abbiamo anche condensato in un unico personaggio più figure presenti nella storia di Jan. Seguendo le regole non scritte del racconto romanzato, abbiamo creato un “nemico” con il dottor Fischer, un “interesse amoroso” con PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 Joanna (sintesi delle numerose staffette partigiane raccontate e incontrate da Karski nella propria odissea), oltre a un “cast di comprimari”, personaggi ricorrenti, realmente esistiti nella vita del partigiano. A volte, alcune figure hanno fatto spazio ad altre, come l’ambasciatore polacco in Usa Jan Ciechanowski, che accompagnò Karski all’incontro con Roosevelt ma che nella nostra storia cede il posto al giudice della Corte Suprema Felix Frankfurter, uno dei contatti che aiutò Jan in America. Lo stesso Frankfurter viene utilizzato come escamotage narrativo nel finale per creare un dialogo con Jan che sia “conclusivo” e chiuda i nodi in sospeso, svelando determinati retroscena cruciali. Si tratta sempre di scelte dure, di certo sofferte da parte del narratore poiché pongono chi scrive in imbarazzo nei confronti della Storia. D’altro canto vorremmo che il nostro fumetto fosse letto tenendo conto di tutti i suoi diversi piani di lettura: dal dramma reale all’avventuroso romanzo di formazione. Nella succitata postfazione scrivevo: Quella di Jan è una vicenda tragica e commovente, ma anche un avvincente susseguirsi di fatti incredibili. È la storia di un eroe per caso, ma anche di un uomo comune sballottato dagli eventi. Alcuni compromessi sono dovuti alla necessità di semplificare la vicenda di Jan, costellata da mille peregrinazioni e peripezie. Esemplare è l’incontro con quella sorta di “governo ombra” polacco che lo incaricò di visitare il campo, un incontro avvenuto a Londra, e non in Polonia. Altre scelte sono legate a questioni più tecniche. Per esempio, il settembre 1939 in cui i tedeschi invasero la Polonia è ricordato come uno dei mesi più caldi della prima metà del XX secolo. Nella nostra versione abbiamo inserito la neve fin dai primi momenti dell’invasione, per comunicare il tempo decorso dal bombardamento della stazione di Oświęcim (città che diventerà tristemente celebre, come Auschwitz) all’arrivo dei russi. Ma è anche la citazione di un grande capolavoro del fumetto, L’Eternauta, e della sua metafora per raccontare la dittatura. Un’altra scelta “tecnica”, compiuta in seguito alla consultazione delle nostre fonti, è stata quella di mostrare le tipiche divise da campo di sterminio in quello che, con tutta probabilità, era un campo da dove poi sarebbero stati smistati i prigionieri sopravvissuti. Negli anni, anche se nei propri diari Karski affermò di avere visitato il campo di Bełżec, alcuni storici sono giunti alla conclusione che si fosse infiltrato in un Durchgangslager (una sorta di punto di snodo) a metà strada tra Bełżec e Lublino. Quelle divise sono un’immagine forte, evocativa, che inevitabilmente richiama il setting e le suggestioni comunicate in tanti film, documentari, foto, graphic novel e libri che hanno scosso il nostro animo. Per le pagine più intense, il vero climax del libro, ossia la visita al ghetto di Varsavia e quella nel campo, mi sono affidato il più possibile ai diari di Karski. Nella sequenza nel campo sono le sue parole, nella traduzione di Luca Bernardini, a incorniciare la visione della tragedia illustrata da Lelio. Per quella forma di rispetto di cui sopra, ho pensato che solo lui potesse tornare a essere, ancora una volta, testimone della 131 MARCO RIZZO JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI Storia davanti al mondo. Qua e là, nelle pagine precedenti, le parole dello stesso Jan sono riprese da interviste e suoi testi e inserite nei testi dei balloon, così come i discorsi e le testimonianze autentiche delle persone da lui incontrate. Ci siamo offerti come mediatori di una complessa e ricca storia, come portavoce di una figura ingiustamente dimenticata (almeno nel nostro Paese) e che merita di essere scoperta o riscoperta4. 1.4 La proposta e la pubblicazione Prassi vuole che per la proposta di un progetto a fumetti a un editore si presenti una pitch, una raccolta di testi e immagini che possano suggestionare e convincere l’editore. Solitamente si allegano al soggetto esteso e a una sinossi breve una decina di tavole (ossia pagine). Per arricchire la proposta, abbiamo allegato alcune immagini in bianco e nero e a matita, studi dei personaggi e delle atmosfere. La proposta è stata girata in tempi brevi all’editore Rizzoli Lizard, branca del gruppo RCS molto prestigiosa, specializzata nella pubblicazione di fumetti, e con cui avevamo già collaborato. Rizzoli Lizard pubblica fumetti molto celebri, come la saga di Corto Maltese di Hugo Pratt e Lo Sconosciuto di Magnus. 132 L’idea ha affascinato immediatamente la casa editrice, che ha accettato la nostra proposta di osare un volume a colori. Evidentemente i costi di produzione sarebbero stati maggiori, e gli sforzi di realizzazione più intensi. Lelio Bonaccorso ha raccolto attorno a sé una squadra di coloristi: Chiara Arena, Claudio Naccari e Giulio Rincione. Il loro lavoro sulle atmosfere e quella che in termini cinematografici potremmo chiamare “fotografia” ha contribuito a trasformare il nostro fumetto in un volume graficamente appetibile, dove gli sfondi, le ambientazioni con i loro dettagli, diventano protagonisti al pari dei personaggi. Per la sceneggiatura ho scelto un ritmo sincopato, con accelerazioni e rallentamenti nella narrazione a seconda dei passaggi narrati, dialoghi secchi e brevi, scene mute di “atmosfera” che si alternano a dialoghi serrati. L’effetto, combinato con inquadrature originali e la suddetta forma di colorazione, è “cinematografico”: il fumetto ha il sapore di un film su carta, un genere di approccio derivato dai comic book americani e molto apprezzato trasversalmente dal pubblico. Di concerto con l’editore, abbiamo stabilito la possibile data di uscita, fissandola a gennaio 2014. La concomitanza con la Giornata della Memoria, per 4 MARCO RIZZO, Un compromesso con la Storia in MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski, l’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 141-142. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 quanto frutto di una riflessione forse cinica, avrebbe garantito una maggiore attenzione dei media generalisti verso la nostra opera. Per di più, le scadenze autoimposte dal ritmo di lavoro coincidevano in ogni caso con una possibile pubblicazione a fine gennaio. Nelle fasi di lavorazione finale, le tavole sono state completate da Maurizio Clausi nel ruolo di letterista: a lui il compito di disegnare con dei programmi ad hoc le nuvolette e le didascalie e di riportarvi all’interno i dialoghi che avevo preparato in sceneggiatura. 2. Sugli scaffali 2.1 Il debutto In occasione dell’uscita del volume, «La Lettura», supplemento culturale de «Il Corriere della Sera», dedicò due pagine alla tragedia della Shoah, occupando la parte superiore delle due pagine con un fumetto realizzato ad hoc. Su richiesta dell’editore, per «La Lettura» abbiamo realizzato una tavola a sviluppo orizzontale in cui narravamo quanto avevamo volutamente omesso nel libro, lasciandolo nel mistero: l’incontro tra Jan Karski e Franklin Delano Roosevelt. È servito da prologo e da lancio del volume, arrivato sugli scaffali tre giorni dopo il supplemento domenicale. Sono seguite numerose recensioni e segnalazioni su diverse testate («La Repubblica», «Il Venerdì di Repubblica», «D», «L’Unità», la «Gazzetta del Sud», «L’Arena di Verona», «il Tirreno», «Pagine Ebraiche», <espresso.repubblica.it>, <linkiesta.it>, <wired.it>, <fanpage.it>, <msn.it>, <gazzettadellosport.it>,) oltre a importanti passaggi televisivi come alla rubrica Do Re Ciak Gulp del Tg1 e radiofonici come a Pagina 3 di Radio Rai e Pagine in Frequenza di GR RAI, Virgin Radio e RadioLab. In maniera del tutto autonoma e sorprendente, la pubblicazione ha fatto sentire la suo eco fino in Polonia, dove diversi giornalisti si sono interessati alla curiosa circostanza che ha visto due fumettisti italiani occuparsi di Karski. Il lancio del volume è coinciso con le prime due presentazioni al pubblico: un incontro all’Istituto Polacco di Roma il 25 gennaio (accompagnato da una mostra dedicata a Karski, comprendente anche stampe delle tavole) e uno al Museo della Resistenza di Torino l’indomani, a cui sono seguiti fino a febbraio incontri a Rimini, Palermo, Trapani e Messina. Nei giorni dell’uscita è stato distribuito su Youtube anche un book-trailer, realizzato animando e doppiando alcune pagine del fumetto e mescolandole a filmati d’epoca. 133 MARCO RIZZO JAN KARSKI, L’EROE DEI FUMETTI 2.2 La critica e le vendite Le vendite del fumetto si sono dimostrate subito positive, portando a un esaurimento della prima tiratura nei primi due mesi e all’immediata pubblicazione di una ristampa, che più che tale andrebbe definita “riedizione” visto che contiene alcune correzioni ai disegni e ai testi. La critica ha continuato a commentare il volume anche a settimane dall’uscita. Riportiamo alcuni esempi: Marco Rizzo, giornalista e sceneggiatore, e Lelio Bonaccorso, illustratore, hanno magistralmente riesumato la storia di Karski, praticamente assente dai libri scolastici. Seppur operando dei tagli, per pura esigenza narrativa essendo un fumetto, i due autori hanno comunque saputo ricostruire i passaggi salienti dell’eroica vita del protagonista, accendendo un riflettore su un personaggio a molti ignoto. Karski non è mai stato raccontato neppure dal cinema, che di eroi che salvarono gli ebrei ne ha raccontati tanti 5. Probabilmente leggerò altro sulla storia di Jan Karski e il merito sarà ancora di questo bellissimo libro a fumetti. Mi ha fatto scoprire pezzi di storia che ignoravo, ricordandomi quale nobiltà d’animo e di principi sia servita per sconfiggere il nazifascismo. Il fondamento di un sistema di valori che hanno reso l’Europa post-fascista capace di settanta 134 anni di convivenza pacifica6. È difficile non accorgersi della passione e dell’entusiasmo con i quali il romanzo grafico è stato realizzato. I testi di Marco Rizzo sono crudi e immediati, ma lasciano spesso spazio alla riflessione tra le righe. L’autore dà nuovamente prova delle sue capacità narrative, unite a una spiccata sensibilità; doti necessarie per potersi confrontare con opere di questa importanza. I disegni di Lelio Bonaccorso, nonostante lo stile fortemente caricaturale, si sposano perfettamente con le atmosfere e le dinamiche espresse o sottese a questa magnifica storia. L’artista dimostra anche una naturale inclinazione alla rappresentazione storica e un’attenta cura per i dettagli7. La fortuna del fumetto sembra pronta a replicarsi anche all’estero. A poche settimane dall’uscita, in Polonia i diritti per il volume sono stati riservati dall’editore Alter, in Spagna da Norma Editorial, in Francia da Steinkis Editions8, 5 MANUELA CASERTA, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, in «L’Espresso», 20.02.2014, <caserta.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/02/20/jan-karski-luomo-che-scopri-lolocausto>. 6 ENRICO COLAIACOVO, Il mio nome sarà Jan Karski, <autori.fanpage.it/il-mio-nome-sara-jan-karski>. 7 Recensione di GIAMPIERO BRONZETTI a Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, <www.ilbar delfumetto.com/index.php?action=show&id=1594>. 8 La pubblicazione in Polonia e Francia è prevista per novembre 2014, in Spagna per fine 2015. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 mentre sono in corso trattative con editori di altri paesi. A oggi risulta essere il fumetto firmato dal sottoscritto con più edizioni estere, quasi a riprova di quanto avevo intuito anni fa, con quella casuale lettura del sunto biografico di Jan Karski: è una storia potente, portavoce di valori universali, è come se scalpitasse per farsi conoscere. Da parte nostra, abbiamo fatto il possibile perché, con il rispetto per il personaggio che ci eravamo prefissati – come è nostra prassi nei lavori di adattamento –, la vita di Karski raggiungesse un pubblico il più ampio possibile. E perché no, anche il più giovane. [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 128-135] 135 INSERTO DOCUMENTARIO The Jewish Mass Executions. Account by an Eye-Witness, in ALEXEI TOLSTOY, A POLISH UNDERGROUND WORKER, THOMAS MANN, Terror in Europe. The Fate of the Polish Jews, National Committee for Rescue from Nazi Terror, London s.d. [1943], pp. 9-10. The Polish Underground State, in «Polish Fortnightly Review», 82, 15.12.1943, London, pp. 1-6 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 137 INSERTO DOCUMENTARIO 138 THE JEWISH MASS EXECUTIONS PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 139 INSERTO DOCUMENTARIO 140 THE JEWISH MASS EXECUTIONS PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 141 INSERTO DOCUMENTARIO 142 THE POLISH UNDERGROUND STATE PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 143 INSERTO DOCUMENTARIO 144 THE POLISH UNDERGROUND STATE PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 145 INSERTO DOCUMENTARIO 146 THE POLISH UNDERGROUND STATE PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 147 INSERTO DOCUMENTARIO 148 THE POLISH UNDERGROUND STATE PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 149 JAN KARSKI Shoah (Sterminio)* A metà ottobre di quest’anno [1985, N.d.T.] sono stato invitato ad assistere a una proiezione riservata del film Shoah, assieme ad altre persone: il monsignor George Higgins, professore di teologia cattolica, Richard Davies, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Varsavia, sincero amico dei polacchi, e Abraham Bumberg, apprezzato scrittore, anche lui simpatizzante della Polonia. Il film dura oltre nove ore. Non vi sono attori, ma solo interviste con le vittime dell’inferno dell’Olocausto, con i suoi diretti carnefici o con i testimoni 150 oculari. Vengono mostrati anche documenti originali e rapporti tedeschi. Alcune interviste (con i tedeschi) sono state filmate di nascosto. Vengono anche mostrati i lager, le camere a gas, i villaggi e le cittadine che si trovavano nei pressi dei campi, sia come apparivano durante la guerra, sia nel loro stato attuale. Claude Lanzmann, il regista, è francese. Ha girato il suo film in Polonia, Cecoslovacchia, Grecia, Olanda, Israele, Svizzera, Romania e America. Per realizzarlo ha impiegato quasi quindici anni della sua vita. Shoah è certamente il più grande film sulla tragedia degli ebrei girato dopo la Seconda guerra mondiale. Nessuno è riuscito a rappresentare lo sterminio degli ebrei durante la guerra con altrettanta profondità e brutalità, con altrettanta mancanza di pietà verso lo spettatore, a cui si gela il sangue nelle vene. D’altro canto la stessa struttura del film – con le sue connessioni tra eventi, persone, il passato e la natura – emana una poesia magica. La rasserenante bellezza degli alberi cresciuti sopra i luoghi dei supplizi, l’immacolato specchio d’acqua che cela * JAN KARSKI, Shoah (Zagłada), pubblicato originariamente in «Kultura» [Parigi], 11, novembre 1985, pp. 121-124 (versione parziale in francese: «Esprit», febbraio 1986). Pubblichiamo la presente traduzione per gentile concessione de «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Studi Franco Fortini». PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 le ceneri degli ebrei arsi vivi, i prati e i filari che nascondono i segreti atroci dei campi di concentramento, una processione che esce dalla chiesa dove erano stati rinchiusi gli ebrei deportati, le toccanti preghiere dei sopravvissuti in una sinagoga, un’anziana donna sopravvissuta che canta una canzone di quei tempi… Tutto ciò non solo sconvolge e atterrisce, ma affascina anche con la sua bellezza. È disumanamente atroce e indicibilmente innocente. Chi ha visto questo film non sarà mai capace di dimenticarlo. Venuto a sapere di Shoah, durante un’udienza pontificia a ex membri della Resistenza francese e belga, il papa l’ha voluto lodare per il suo significato morale e la coscienziosità del suo autore. Il film narra le indicibili sofferenze e lo sterminio di ebrei inermi, tra i quali oltre tre milioni di cittadini polacchi di origine o religione ebraica. Nulla più. Non descrive i retroscena degli anni di guerra, la conquista da parte del Terzo Reich di quasi tutta l’Europa o le crudeltà nei confronti dei popoli soggiogati. Non parla delle sofferenze delle popolazioni non ebraiche in Polonia, Russia, Grecia o Serbia. La sua ferrea struttura non lo permette. Lo scopo di Lanzmann è di rendere consapevoli che lo sterminio degli ebrei è stato un fenomeno unico, non paragonabile a nessun altro. In questo ha indubbiamente ragione. Il voler paragonare lo sterminio degli ebrei alle sofferenze delle popolazioni civili non ebraiche – anche se comprensibile dal punto di vista emotivo – è un errore. Naturalmente tutti i popoli hanno riportato perdite maggiori o minori, ma quelle tra gli ebrei sono state totali. Di questo Lanzmann non si dimentica neanche per un istante: lo intuisce chiaramente chiunque veda il suo film. Una così drastica delimitazione tematica desta l’impressione che gli ebrei siano stati abbandonati dall’intera umanità e che l’intera umanità sia rimasta insensibile alla loro sorte. Si tratta invece di un’impressione inadeguata, oltretutto demoralizzante, in particolare per le generazioni di ebrei nati dopo la guerra e per quelle a venire. Gli ebrei sono stati abbandonati dai governi, da coloro che detenevano un potere materiale o spirituale, non dall’umanità. In Europa alcune centinaia di migliaia di ebrei sono stati salvati, in Polonia alcune decine di migliaia. Chi nascondeva un ebreo rischiava la pena di morte insieme alla propria famiglia. Anche in Europa occidentale – sebbene le pene non fossero altrettanto dure – nascondere o aiutare un ebreo esponeva a rischi estremi. Ciò nonostante 151 JAN KARSKI SHOAH (STERMINIO) centinaia di migliaia di contadini, operai, intellettuali, sacerdoti, suore hanno aiutato gli ebrei in ogni paese d’Europa, mettendo a repentaglio la propria vita e quella delle persone loro vicine. Quanti tra di loro siano periti, questo lo sa solo Iddio. In Polonia era sorta un’organizzazione clandestina, il cui compito precipuo era di aiutare e nascondere gli ebrei. Il suo capo, Władysław Bartoszewski1, vive a Varsavia. A Łódź vive invece l’eroico comandante dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, Marek Edelman. Altri risiedono fuori dalla Polonia: avrebbero dovuto essere almeno ricordati nel film. Indipendentemente dalla struttura di Shoah, credo che sarebbe stato necessario rendere consapevoli gli spettatori, in particolare le giovani generazioni di ebrei e non ebrei, che persone del genere sono esistite. Gli ebrei hanno bisogno di saperlo per non perdere fede nell’umanità e nel proprio posto in mezzo a essa. I non ebrei per poter comprendere a cosa possano condurre la mancanza di tolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’odio, e cosa invece possa fare l’amore per il prossimo. Questo è ben più importante di qualsivoglia struttura. Soprattutto se si tratta di un film tanto grande e potente da condizionare lo spettatore. 152 La tecnica di Shoah si fonda su interviste, programmate o casuali, a persone sconosciute a Lanzmann. Tra questi alcuni polacchi, abitanti dei paesi o delle città prossime ai campi di concentramento. Alcune dichiarazioni testimoniano della loro compassione e bontà di cuore, altre – la maggioranza – sono invece sconvolgenti. Ecco delle donne di piccole cittadine che, alla domanda su cosa pensino dello sterminio degli ebrei, rispondono che dopo di esso la loro vita è migliorata: sono andate ad abitare nelle case appartenute agli ebrei, più lussuose di quelle in cui stavano prima della guerra. Una donna di un altro gruppo, senza essere stata interpellata, fa invece la predica a Lanzmann: quello che è capitato agli ebrei è stata una punizione divina per aver mandato a morte Cristo. Siamo nei pressi di una chiesa davanti a cui sfila una processione: evidentemente i precetti del Con1 Per una bibliografia in italiano e in francese sull’organizzazione Żegota, alla quale lo stesso Karski era affiliato, cfr. WŁADYSŁAW BARTOSZEWSKI, Le sang versé nous unit (sur l’histoire de l’aide aux juifs en Pologne pendant l’occupation), Interpress, Varsovie 1970; TERESA PREKEROWA, Żegota: commission d’aide aux Juifs, Éditions du Rocher, Monaco 1999; CARLA TONINI, Il tempo dell’odio e il tempo della cura, Silvio Zamorani editore, Torino 2005. Nonostante Bartoszewski avesse dichiarato la sua disponibilità a essere intervistato in Shoah, Lanzmann si rifiutò di incontrarlo [N.d.T.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 cilio Vaticano II – che hanno bollato come peccato un simile atteggiamento – non sono mai giunti fino a quella parrocchia. Ed ecco un intellettuale di città, che di sua iniziativa esce dalla folla per dichiarare davanti alla camera da presa e a Lanzmann quello che avrebbe visto un suo amico: un rabbino avrebbe spiegato agli ebrei destinati alla deportazione che quella loro sorte era la conseguenza di ciò che avevano fatto i loro progenitori: mandando a morire Cristo avevano fatto ricadere il suo sangue sui propri discendenti. L’intellettuale però non spiega che gli ebrei e il rabbino erano circondati da SS armate di pistole e manganelli. Viene poi chiesto a un contadino se non gli dispiaccia che non ci siano più ebrei e lui con un sorrisetto risponde che un po’ sì, un po’ no, che quando era giovane le ebree gli piacevano, ora che è vecchio la cosa gli è indifferente. Un altro polacco nei dintorni di Treblinka racconta di aver visto un trasporto di ebrei dall’Europa occidentale: alla stazione finale prima di Treblinka arrivavano carrozze-pullman, dentro c’erano corpulenti ebrei ed ebree pettinate di tutto punto. Sui tavolini delle carrozze c’erano “flaconi di profumi”, dice di aver visto valigie piene d’oro. Alla stazione uno degli ebrei era sceso dal treno e si era recato al buffet della stazione a comprarsi qualcosa, le porte del vagone non erano controllate, si poteva uscire a piacimento…. A due passi da Treblinka… Mio Dio! Nel film c’è anche un’intervista con me. Le circostanze in cui è stata concepita fanno intuire il metodo di Lanzmann e le limitazioni da lui previste per Shoah. Lanzmann mi venne a trovare nel 1977, portandomi del materiale che lo riguardava: le sue qualifiche, i suoi precedenti film, le recensioni positive ecc. Mi parlò del suo progetto: aveva sentito parlare e letto di me. Sosteneva che era mio dovere rilasciargli un’intervista. All’inizio rifiutai, mi ero lasciato dietro il mio passato di guerra e per oltre trent’anni non vi ero più tornato. Alla fine accettai, chiedendo che mi ponesse delle domande per iscritto, per potermi preparare. Lanzmann era contrario: niente risposte già pronte, mi avrebbe chiesto solo quello che concerneva il suo film, io dovevo raccontare ciò che ricordavo. Accettai, a condizione che non mi coinvolgesse in alcun dibattito, valutazione o conclusione di carattere politico: lui disse che questo non rientrava affatto nelle sue intenzioni. L’intervista ebbe luogo nel 1978 a casa mia: fu girata in due giorni, in tutto circa otto ore. Lanzmann è un uomo difficile, passionale, totalmente votato al proprio lavoro, intransigente nell’indagare e stabilire i fatti. Io ebbi più volte un 153 JAN KARSKI SHOAH (STERMINIO) cedimento nervoso, a lui capitò una volta. Mia moglie, non potendo sopportare tutto ciò, dovette uscire di casa2. Delle otto ore della mia intervista, sullo schermo ho visto una quarantina di minuti, in cui venivano descritte le sofferenze degli ebrei nel ghetto di Varsavia, le proteste e le disperate richieste di aiuto dei dirigenti ebrei clandestini ai governi occidentali. Il tempo riservato alla mia relazione e la costruzione di Shoah avevano costretto Lanzmann a omettere la parte dell’intervista su quella mia “missione ebraica” della fine 1942, a mio parere la più importante. Altri avevano già parlato – per oltre sette ore – delle sofferenze degli ebrei, molti lo avevano certamente fatto meglio di me. A mio parere il fulcro dell’intervista era il fatto di essere passato in Occidente, informando della tragedia e delle richieste degli ebrei ben quattro membri – primo di tutti Eden – del Gabinetto di Guerra britannico, il presidente Roosevelt con tre significativi membri del governo americano, il nunzio apostolico a Washington, alcuni dirigenti ebraico-americani e importanti scrittori e commentatori politici. Senza dubbio nessun altro oltre a me avrebbe potuto parlare di questo nel film, mostrando come i governi alleati – gli unici in grado di aiutare gli ebrei – li avevano invece abbandonati al loro destino3. 154 Se in Shoah si fosse assemblato questo materiale e si fosse fornita un’informazione generale sui tentativi di venire in aiuto agli ebrei, si sarebbe rappresentato il loro sterminio in una prospettiva storica certamente più adeguata. Sono stati i capi delle nazioni e i governi più potenti a deciderlo o a prendervi direttamente parte o ancora a rimanere indifferenti di fronte ad esso. La gente, la gente normale, migliaia di persone, è stata solidale con gli ebrei o li ha aiutati. L’arte potente, la potente volontà e la crudele verità di Shoah e questa sua stessa autolimitazione rendono necessario un altro film – altrettanto potente, altrettanto vero – che possa rappresentare quell’altra realtà dello sterminio. I governi, le organizzazioni sociali, le chiese, la gente di talento e di cuore dovrebbero 2 Su Pola Nireńska, la moglie di Karski, si veda il testo di Giovanna Tomassucci pubblicato in questo stesso numero di «pl.it» alle pp. 116-127 [N.d.T.]. 3 In un’intervista rilasciata ad Anna Bikont nell’ottobre del 1997 e apparsa su «Gazeta Wyborcza», Claude Lanzmann ha giustificato i tagli dell’intervista a Karski, nella parte relativa alla sua missione a Londra e a Washington, definendola più aneddotica e priva di quella tensione presente invece nel resoconto della sua visita al ghetto. L’appello di Karski (e di altri intellettuali polacchi) per un’integrazione al materiale presentato in Shoah è stato accolto da Lanzmann solo dopo la morte di Karski nel 2010, quando, dopo aver depositato nel 1996 presso l’Holocaust Memorial Museum di Washington una copia integrale dell’intervista, il regista ha finalmente montato un nuovo documentario, basato sulle parti eliminate, Il rapporto Karski, trasmesso dal canale TV Arte [N.d.T.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 individuare le forme di un impegno comune per poter produrre un’opera del genere. Non per smentire quello che ha mostrato Shoah: per integrarlo. Le terribili sofferenze della Seconda guerra mondiale pesano come un anatema sull’umanità. [Traduzione dal polacco di Giovanna Tomassucci] [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 150-155] 155 MARIA KUNCEWICZOWA Lo sconosciuto*1 I membri del Comitato non si conoscevano tutti tra loro, perciò si guardavano intorno di soppiatto per individuare in mezzo agli sconosciuti il volto dell’uomo venuto da laggiù. Un attimo dopo, molti dei presenti sofferma- rono la loro attenzione su un uomo minuto, dai lineamenti scavati e lo sguardo nevrastenico. Le donne gli sorridevano di sottecchi chinando il capo, gli uomini invece distoglievano lo sguardo. Alla fine il ministro si sedette alla scrivania, gli altri sprofondarono nelle poltrone, fecero stridere le sedie, tossicchiarono… “Signore e signori” disse il ministro “permettetemi di dare il benvenuto a 156 un così gradito ospite. Ho avuto già diverse volte il piacere di parlare con lui. Ma sono convinto di interpretare il vostro pensiero esprimendo ancora una volta la gioia di avere tra noi l’emissario del Paese…”. Mentre il ministro parlava in questo modo, gli sguardi di molti dei presenti corsero con deferenza verso l’uomo magro. Nel frattempo, su una sedia vicina alla scrivania del ministro qualcuno si mosse con energia e solo allora si poté constatare che era lì, e non altrove, che era seduto colui che nessuno conosceva. Era giovane, alto, scuro, era vestito talmente bene che l’abito e la cravatta passavano inosservati. Né il colore, né il taglio si discostavano dalla buona impressione generale. Con un foglio in mano sedeva sulla sua sedia con garbo e compostezza, come se non volesse rubare spazio o attenzione ai presenti. Teneva le palpebre abbassate, le ampie sopracciglia esprimevano calma. Quando gli sguardi di tutti caddero su di lui, quelle sopracciglia non tremarono e le palpebre non si sollevarono. Il ministro continuò a parlare, spiegando lo scopo della con1 MARIA KUNCEWICZOWA, Nieznajomy, pubblicato originariamente in «Nowa Polska», fasc. 3, marzo 1943; poi in W oczach pisarzy. Wybór opowieści wojennych, a cura di Gustaw HerlingGrudziński, Instytut Literacki, Rzym 1947 [N.d.T.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 ferenza e il tema della relazione dell’ospite. Nel farlo, protese il braccio verso di lui con fare ospitale. “È pronto?”, chiese infine. Lo sconosciuto sollevò le palpebre. I suoi occhi erano grandi, azzurri, quasi immobili. “Sì”, rispose, “posso accostarmi alla scrivania? Vorrei cancellare via via dagli appunti le cose che dirò”. Sul volto gli balenò un sorriso infantile. E come in un bambino, il sorriso, una volta svanito, non lasciò traccia di alcuna emozione sul suo viso. Iniziò la sua relazione da alcune osservazioni. Elencò una serie piuttosto lunga di questioni di primaria importanza che non intendeva affrontare. Delimitò con precisione l’ambito entro cui era possibile fargli domande. Per escludere a priori qualunque incomprensione, stabilì la terminologia politica, sottolineando che erano denominazioni “brutali” che mal si attagliavano ai contenuti di fenomeni che, nel paese occupato, avevano perso da tempo il significato che avevano prima della guerra. Si capiva che aveva difficoltà a trovare le parole. Prima di pronunciare una frase, osservava con sguardo severo qualcosa di ovvio per lui, ma invisibile al resto dei presenti. Era evidente che stava cercando di adeguare la sua terminologia a eventi remoti di cui subiva il condizionamento. Aggiunse a definizioni ormai comuni l’aggettivo “cosiddetto”. Il “cosiddetto” Paese. La “cosiddetta” società. La “cosiddetta” Destra o Sinistra. Definendo la connotazione attuale di quei fenomeni (la definizione riguardava una ristretta gamma di questioni affrontate nella sua relazione), sembrava contemplarne il nuovo significato, sconosciuto al mondo libero. Da quell’obbligo a trasporre una realtà ancora senza nome nel linguaggio di convenzioni superate scaturiva la sua difficoltà a parlare. Lo sconosciuto si esprimeva in modo cauto e impersonale. Non usava aggettivi per le azioni del nemico, né per quelle di chi lo combatteva in condizioni ridicole rispetto a un consueto confronto di forze. Parlava di denaro o condanne a morte con la stessa identica intonazione. Disse ad esempio, senza alcun pathos e interrompendosi solo quel tanto che gli serviva per respirare: “Le persone incaricate di fornire un bollettino radio comprensibile vengono retribuite in modo adeguato e regolare. Le condanne a morte per chi ascolta la radio sono eseguite senza possibilità di appello. Le probabilità di non essere scoperti mentre si ascolta la radio sono infinitesimali. I comunicati londinesi vengono stampati in extenso. L’opinione pubblica ne è immediatamente informata”. Nelle sue parole non c’era alcuna affettazione. C’era solo logica. Mostruosa per il mondo libero, naturale per quello asservito. 157 MARIA KUNCEWICZOWA LO SCONOSCIUTO Ciò che riferì doveva in qualche modo costituire una ratifica dell’operato dell’Emigrazione. La ratifica non ebbe successo. “Lì vogliono conoscere la verità”, disse. “E la vengono a sapere. Ma sono costretti a cercarla per vie traverse. Attraverso i paesi neutrali. Attraverso l’Overseas Service. Perché da qui non arriva. Da qui arrivano l’ottimismo, l’incoraggiamento, le rassicurazioni… Tutte cose inutili. Cose per cui non vale la pena morire”. Pronunciò di nuovo la parola “morire” nello stesso modo in cui qui si diceva “pagare”. Nella sua interpretazione le due azioni si equivalevano: si paga con la vita, si paga col denaro. A equivalersi erano anche i beni in vendita: qui, un pranzo, un vestito… Là, la sopravvivenza di una nazione, l’onore di un uomo… Lo sconosciuto si rendeva chiaramente conto del significato effimero e paradossale di una simile equivalenza. Gli seccava essere costretto a suggerire equivalenze in un contesto in cui la sorte non aveva ancora obbligato tutti a cercarle. Con gli occhi, con il portamento lasciava intendere di apprezzare gli sforzi di quell’uditorio per comprendere un mondo anormale e di scusarsi con il mondo normale per tali difficoltà. Una volta sola la cortesia del relatore vacillò sotto l’onda dell’emozione. 158 “Quegli aerei abbattuti dai nostri”, disse, e il suo sguardo avvampò. “Quell’Orzeł, quel Sokół, quel Wilk…”1. S’interruppe. Nella sua mente stava sicuramente salutando coloro che anche nel mondo normale pagano con la vita l’acquisto di beni immateriali. Successivamente passò alle richieste politiche del paese occupato. Precisò le differenze tra i programmi dei partiti. Mentre presentava con tono accorato le richieste della “cosiddetta” Destra, “per dirla in modo brutale”, un signore in abito verde borbottò: “È di Destra”. Subito dopo l’ospite formulò le istanze della “cosiddetta” Sinistra, “per dirla in modo brutale”, e un signore in abito grigio si chinò verso il vicino: “Incredibile, è di Sinistra”. Poiché le idee della Sinistra trovavano in lui un commentatore non meno eloquente… “Forse è di Centro?”, sussurrò una biondina. Ma del Centro non si faceva parola in quel resoconto da laggiù, dove le sentenze di vita sono più pesanti delle sentenze di morte. Dunque tra Destra e Sinistra esistevano differenze come in passato. Ma erano differenze “per così dire”, giacché dal rapporto emergeva che laggiù sia i 1 Si tratta dei sommergibili Orzeł (Aquila), Sokół (Falco) e Wilk (Lupo) della Marina da guerra polacca, che nel 1939 erano riusciti a riparare in Gran Bretagna e a continuare le azioni belliche contro i tedeschi [N.d.C.]. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 seguaci della Sinistra sia quelli della Destra morivano per la stessa cosa: la libertà. Resi edotti di un simile fatto, i presenti vennero a sapere – senza che la cosa potesse ormai stupirli – che né la Sinistra né la Destra erano inclini a fare concessioni a favore delle potenze confinanti. In chiusura l’ospite riportò ancora una richiesta del “cosiddetto” Paese. Il “cosiddetto” Paese non voleva che la propaganda lo definisse sofferente. Voleva essere chiamato combattente. Seguì la parte informale della serata: le domande. Le persone si rianimarono. Desideravano da tempo uscire dalle questioni di massima, superare la distanza ufficiale, parlare normalmente con un compatriota. Non erano interessate tanto al comunicato, quanto alle indicazioni personali che giungevano da laggiù, alle informazioni che potevano ottenere qui. Erano interessate a stabilire un contatto. E anche – chissà se non più di ogni altra cosa – a chiarirsi a vicenda perché loro erano qui, quelli erano laggiù e quali sarebbero potute essere le possibilità comuni. Qualcuno si alzò persino dalla sedia, avviandosi in direzione dell’ospite con l’intenzione di stringergli la mano. Ma l’emissario continuava a rimanersene seduto con grande compostezza, le mani giunte sulle ginocchia, il foglio di carta piegato in quattro, tenuto tra dita placide e sottili. Se ne stava seduto come se fosse capitato lì per caso, di passaggio… Qualcuno che non aveva senso conoscere di persona. L’uditorio tornò al suo posto. Il segretario annotava chi voleva prendere la parola, il ministro la concedeva. Il primo a fare una domanda su una questione tecnica fu il direttore di un’agenzia governativa. Mentre balbettava e arrossiva, l’emissario lo guardò come un istante prima aveva guardato la scrivania e prima ancora le proprie unghie: con attenzione e senza emozioni. Non rispose subito. Soppesò qualcosa tra sé, o forse stava ricordando, scegliendo qualcosa… “Non è di pertinenza del mio reparto”, disse infine, “può ottenere queste informazioni per altre vie”. Liquidò tutte le domande di questo tipo allo stesso modo, sempre dopo un attimo di riflessione. Dalle sue risposte spirava una grande freddezza. Una freddezza non di questo mondo. Le spiegazioni che gli venivano chieste non avrebbero violato alcun Segreto, per fornirle sarebbe stato sufficiente un piccolo sforzo di memoria, un errore non avrebbe provocato danni. L’emissario si rifiutava di fare quel 159 MARIA KUNCEWICZOWA LO SCONOSCIUTO piccolo sforzo o quell’errore sia pur irrilevante. Era una questione che sapeva di ferite, di prigione e di morte – domande poste da persone libere, accolte per una via “diversa”, sotterranea, da persone senza libertà – per lui era solo a partire da una tale questione che sarebbe stato possibile affrontare sforzi ed errori… Aveva la parte inferiore del viso coperta da piccole cicatrici bluastre. Forse una volta, all’estero, aveva dovuto ingoiare una domanda e non aveva voluto spalancare la mascella, quando il torturatore gli aveva traforato i denti con uno strumento aguzzo e improvvisato. Una cosa era certa: il prezzo della libertà di tutti lo aveva pagato di persona, nell’anno del Signore 1943, ma non aveva mai comprato la libertà per sé. Quindi si era disabituato ai regali. Si era disabituato anche agli errori per i quali non si rischia un’esecuzione collettiva. “Che significa?” bisbigliò qualcuno. “Perché non vuole parlare?”. Qualcun altro fece spallucce: “Una psicosi”. Nel frattempo l’emissario aveva rotto il silenzio. “Il Paese si stupisce”, disse “che ci chiediate così poche informazioni. In realtà di materiali ve ne inviamo, ma poi le radio di tutto il mondo non li tra160 smettono. Perciò se ora del nostro Paese non si parla, visto che la sua situazione nel mondo è così meravigliosa, è evidente che i nostri materiali non sono ciò che serve. E allora perché nessuno da qui chiede i materiali giusti?” Calò il silenzio. Il ministro socchiuse ostentatamente gli occhi, qualcuno arrossì, altri impallidirono, qualcuno fece un sibilo imbarazzato, qualcun altro si chiese ad alta voce: “Che cosa? Una situazione meravigliosa?” L’ospite, dopo aver fatto la sua domanda, sembrava un po’ più sicuro sulla sua sedia, leggermente curvato in avanti. “Sì, una situazione meravigliosa”, ripeté, “il contributo militare e politico del paese alla guerra è enorme”. Sui volti dei presenti baluginò un sorriso un po’ folle, un po’ scaltro. Le teste scattarono all’indietro, le palpebre si chiusero, i respiri si fermarono, come capita ai passeggeri di un treno in corsa che scorgono sullo stesso binario un altro treno che gli viene incontro a tutta velocità. Un treno rosso di sangue, un treno fantasma… “Non abbiamo stipulato un armistice, non abbiamo un Quisling”, sbuffava quel treno in modo sempre più chiaro, sempre più vicino, sempre più forte. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 I passeggeri londinesi si fecero piccoli piccoli. “Non avete stipulato un armistice, non avete un Quisling” dicevano ai passeggeri dalla Polonia, “sappiamo qual è stato il vostro contributo: il martirio degli inermi, l’incorruttibilità degli affamati, la generosità dei miserabili. Onore a voi. Ma fermatevi prima di venirci addosso. Perché alle nostre spalle c’è un precipizio. Il precipizio senza fondo del mondo normale”. “Dunque Lei crede”, disse il ministro, “che le radio di Ankara, Zurigo, Stoccolma, per non parlare ovviamente di Londra, Washington e Mosca, aspettino solo i materiali che mi mandano da laggiù?”. L’ospite si girò lentamente verso la poltrona del Presidente. Era come se quella poltrona, completamente occupata dal grasso ministro barbuto, fino a quel momento gli fosse apparsa vuota, visto che inarcò leggermente le ampie sopracciglia con un’espressione di stupore. Un attimo dopo rivolse lo sguardo alla lampada, in silenzio. Furono le persone in sala, fino ad allora indifferenti, a reagire subito. Ridacchiavano, si scambiavano occhiatine, l’ostilità prese a concentrarsi ora a un’estremità della sala, ora all’altra… Lo sconosciuto non seguiva l’evolversi della faida locale. Apriva e chiudeva il suo foglio. Impenetrabile, aspettava. Calò di nuovo il silenzio. L’uomo che sedeva in mezzo a loro non aveva dunque alcun interesse per le questioni locali? Non intendeva indovinare o scoprire nulla? Non voleva approfittare di nulla? Alla fin fine chi era? Un intellettuale? Sì. Ma l’accento con cui pronunciava i verbi era duro, quasi campagnolo. Dita lunghe e sottili? Sì. Ma quando parlava delle speranze del “popolo”, la sua voce assumeva una sfumatura proletaria. Un abito impeccabile? Sì. Ma il colletto della camicia era logoro. L’inflessione non era orientale, ma neanche occidentale, o meridionale. E il lessico non era né ricco, né povero. Era giovane, ma aveva la calma di un vecchio. Era calmo, ma forte, come qualcuno che non conosce la vecchiaia. Che cosa sapeva davvero? Che si aspettava? Da che casa era uscito, quand’era andato a scuola per la prima volta? Com’era la madre che lo coccolava? Com’era il padre che lo puniva? Dov’erano quella città e quel villaggio che avevano formato la sua visione del mondo? E da dove aveva preso la forza (da Dio o da Satana?) per tramutarsi – lui, un ragazzo – in una figura mitologica, emissario di onnipotenti miserabili presso ministri impotenti, per divenire il messaggero del Segreto? 161 MARIA KUNCEWICZOWA LO SCONOSCIUTO “Altre domande?”, chiese educatamente. Un signore dai capelli castani si alzò di scatto dalla sedia, arrossì, il petto ansimante, fece un brusco movimento con la mano, aprì la bocca e rimase bloccato in quella posizione. Un attimo dopo, senza aver detto una parola, si rimise a sedere. Finalmente, da un angolo della sala, da dietro le spalle di altre persone, si levò timida una voce. “La prego, non mi risponda, se non può farlo. Ma voglio chiederle due cose: chi sarà ad avere la meglio nel Paese, la Sinistra o la Destra? E il Paese che cosa vuole, una guerra lunga o una guerra breve?”. Per la prima volta nel corso della serata, lo sconosciuto si mostrò agitato. Arretrò sulla sedia, gli tremarono le labbra. Fissò lo sguardo su un punto lontano. “Chi avrà la meglio?”, ripeté lentamente, “chi…”, rifletté, e all’improvviso, come destandosi da un sogno, disse quasi gridando: “Non lo so! Nessuno lo sa …”. S’interruppe. Di nuovo s’immerse nei suoi pensieri e di nuovo ne riemerse, turbato. “Per quanto riguarda la guerra… Il Paese ovviamente lo sa. Sa che dal 162 punto di vista storico la ragione di Stato richiede una guerra lunga. Ma dal punto di vista biologico, la ragione di Stato richiede una guerra breve”. Un’ombra attraversò gli occhi dell’emissario, le pupille gli si fecero scure e spente. Terminò a bassa voce: “Il prima possibile”. Fu spaventoso. L’ombra passò dagli occhi dell’emissario alla sala intera, si fece nera e densa. In quell’oscurità si poteva scorgere soltanto l’altra estremità del mondo, la regione degli assenti, da cui correva incontro a questo mondo il treno fantasma col suo carico di “materiali”: cadaveri di civili, bluastri, verdi o bianchi come nebbia, corpi di uomini e donne mutilati dalle torture, dal gelo, dalla fame, milioni di scheletri di bambini, mandrie di madri impazzite, masse di prigionieri coperti di fango che fuggivano attraverso gallerie sotterranee, milioni di cervelli rinsecchiti, di ventri gonfi, di cuori impavidi. Il treno correva da solo, senza macchinista, senza fuochista, come un razzo interstellare scagliato dai terresti verso i marziani. Sfrecciava in alto, sfrecciava veloce, sfrecciava infallibile, e i terrestri, che avevano scagliato in cielo il loro “contributo”, avevano pur sempre il diritto di ritenere che la situazione fosse “meravigliosa”. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 I membri del Comitato lo capirono, e fu spaventoso… Ma nei ristoranti londinesi era giunta l’ora del dinner: l’incontro doveva terminare. “Quindi il Paese lo sa”, disse quella stessa timida voce. “E lo sappiamo anche noi. Che conclusione possiamo trarne? Quale ragione è più importante: quella storica o quella biologica? E noi qui che dobbiamo fare?”. Lo sconosciuto si alzò. Si alzò come il giorno sorge dalla notte: misteriosamente, potendo significare tutto o non significare nulla. “Non c’è alcuna conclusione”, disse. “Cosa ancora più importante, questo non lo sa nessuno né qui, né laggiù. Che cosa dovete fare? Fate le vostre cose. Forse un giorno le due strade si incontreranno, da qualche parte”. Il pubblico si avviò all’uscita, senza presentarsi all’ospite e senza salutarlo. I cognomi di qui, le convenzioni di qui, laggiù non avevano alcuna importanza. Lui invece non aveva un cognome o una formula da poter impiegare qui. I londinesi uscirono in fretta. Sulla porta dell’ascensore c’era quell’uomo minuto, dai lineamenti scavati e lo sguardo nevrastenico, che sulle prime una parte del pubblico aveva scambiato per l’emissario. Ancora più di prima aveva l’aspetto di Cristo. Le donne si intenerirono di colpo e lo attorniarono. Qualcuna, sussurrando, disse il proprio nome. “Noi ancora non ci conosciamo”. Un amico gli chiese: “Allora, lo Sconosciuto ti ha portato notizie di tua moglie?”. L’uomo magro si asciugò una lacrima. “No, nessuna notizia”. Le donne gli strinsero la mano. Finalmente qualcuno soffriva e parlava in modo comprensibile. [Traduzione dal polacco di Alessandro Amenta] [«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 5, 2014, pp. 156-163] 163 INSERTO ICONOGRAFICO PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 165 Jan Kozielewski alla sua scrivania, Varsavia, 1935. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan Karski Papers, box 25 folder 2). INSERTO ICONOGRAFICO 166 Jan Kozielewski, San Silvestro del 1938. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan Karski Papers, box 25 folder 2). PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 167 Jan Karski, anni ‘40 del XX sec. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile concessione (Hoover Institution Archives, Register of the Jan Karski Papers, box 25 folder 2). INSERTO ICONOGRAFICO 168 Pola Nireńska e Jan Karski nel giorno del loro matrimonio (1965). PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 169 Jan Karski. Per gentile concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison). INSERTO ICONOGRAFICO 170 Il professor Jan Karski alla Georgetown University, 1985. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison). PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 171 Jan Karski, Washington, 2000. Foto del Museo di Storia della Polonia, per gentile concessione (Copyright: © Photograph by Carol Harrison). INSERTO ICONOGRAFICO 172 8 In alto: La tomba di Pola Nireńska e Jan Karski. In basso: Il cippo dedicato a Jan Karski nel Giardino dei Giusti di Varsavia, eretto il 5 giugno 2014. L’iscrizione recita: “A Jan Karski (1914-2000), emissario della Polonia clandestina, che si appellò affinché venisse fermato lo sterminio degli ebrei e che definì la passività degli Alleati il ‘secondo peccato originale dell’umanità’”. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 173 La cerimonia in onore di Jan Karski nel Giardino dei Giusti presso il parco del Monte Stella, tenutasi a Milano il 7 aprile 2011. Da sinistra: l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti, l’interprete Amedeo Poggi, Ewa Wierzyńska del Museo di Storia della Polonia; in seconda fila: l’allora console della Repubblica di Polonia in Milano Krzysztof Strzałka e Gabriele Nissim, fondatore di Gariwo. Per gentile concessione dell’associazione Gariwo, la foresta dei Giusti onlus. INSERTO ICONOGRAFICO 174 Il 21 agosto è giunto a Milano il raid motociclistico Varsavia-Angers, effettuato dal Warsaw Chapter of Harley Owners Group (HOG) lungo l’itinerario della prima missione di Jan Karski come emissario del governo clandestino polacco. Il raid è stato organizzato dal Centrum Dialogu im. Marka Edelmana di Łódź e dal Warsaw Chapter HOG per celebrare il centesimo anniversario della nascita di Jan Karski,. Ha toccato Košice, Lubiana, Milano, Angers. A Milano, i partecipanti al raid e i membri di alcuni chapter lombardi dell’HOG sono stati ricevuti dalla viceconsole Zuzanna Schnepf Kołacz presso il Giardino dei Giusti, al parco del Monte Stella, dove si trovano gli alberi dedicati a Jan Karski e Marek Edelman. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 175 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 58. Per gentile concessione. INSERTO ICONOGRAFICO 176 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 89. Per gentile concessione. PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 177 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto, Rizzoli Lizard, Milano 2014, p. 106. Per gentile concessione. INSERTO ICONOGRAFICO 178 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust, Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 7. Per gentile concessione PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI 5 / 2014 179 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust, Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 30. Per gentile concessione. INSERTO ICONOGRAFICO 180 MARCO RIZZO, LELIO BONACCORSO, Jan Karski. Człowiek, który odkrył Holokaust, Wydawnictwo Alter, Kraków 2014, p. 65. Per gentile concessione Gli autori di questo numero LUCA BERNARDINI È professore associato di Slavistica e insegna Letteratura e cultura polacca all’Università degli Studi di Milano. Ha scritto una monografia sui Viaggiatori e i residenti polacchi a Firenze e curato l’edizione italiana di opere di Tadeusz Borowski, Miron Białoszewski, Wisława Szymborska, Adam Zagajewski. Ha scritto saggi e articoli sulle rappresentazioni della Shoah nella letteratura polacca ed è il curatore de La mia testimonianza davanti al mondo. Storia di uno Stato clandestino, Adelphi, Milano 2013, edizione italiana di Jan Karski, Story of a Secret State, Boston 1944. MARCELLO FLORES Insegna Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, dove dirige anche lo European Master in Human Rights and Genocide Studies. Ha compiuto soggiorni di studio e periodi d’insegnamento a Berkeley, Cambridge, Parigi, Mosca e Varsavia, dove è stato per due anni addetto culturale presso l’Ambasciata italiana. Dal 2006 al 2011 è stato Assessore alla Cultura del Comune di Siena. Tra i suoi lavori: Storia dei diritti umani (2008), La fine del comunismo (2011), Il genocidio degli armeni (2006), 1917. La rivoluzione (2007), Tutta la violenza di un secolo (2005), Il secolo-mondo. Storia del Novecento (2001). KONSTANTY GEBERT È nato a Varsavia nel 1953 e lavora come reporter per «Gazeta Wyborcza», il più importante quotidiano polacco. Negli anni Settanta del XX sec. ha fatto parte dell’opposizione democratica al regime comunista, negli anni Ottanta ha iniziato a lavorare come giornalista clandestino (con lo pseudonimo di Dawid Warszawski). È stato uno dei fondatori dell’Università ebraica volante e del periodico di pensiero polacco-ebraico «Midrasz». Ha scritto una dozzina di libri, ad es. sui negoziati tra potere politico e opposizione polacca tenutisi presso la cosiddetta “Tavola Rotonda”, sulla guerra nella ex Jugoslavia, sulla storia di Israele, nonché diversi commenti alla Torah. GIULIA LAMI È professore ordinario di Storia dell’Europa orientale presso l’Università degli Studi di Milano. Membro di molte commissioni e associazioni internazionali, le sue pubblicazioni riguardano la storia e la storiografia dell’Europa centro-orientale in epoca moderna e contemporanea. Tra queste, oltre a vari articoli e saggi, si possono ricordare le monografie La questione ucraina fra ‘800 e ‘900 (2005), Ucraina 1921-1956 (2008), L’Europe centrale et orientale au XIXe siècle d’après les voyages du romancier et journaliste suisse Victor Tissot (2013). 181 MACIEJ PODBIELKOWSKI Nato a Varsavia nel 1962, si è laureato in Storia all’Università di Varsavia nel 1987; ha lavorato come assistente (adjunkt) presso l’Istituto di Storia dell’Università di Varsavia dal 1988 al 1996. Successivamente, dal 1996 al 2006, è stato insegnante di storia nei licei; dal 2006 lavora al Museo dell’Insurrezione di Varsavia (1944) come specialista della didattica e guida per i visitatori. MARCO RIZZO È giornalista, scrittore e sceneggiatore. Ha scritto per «L’Unità», «Wired», «Il Corriere della Se- ra» e altre testate. Autore del libro inchiesta Supermarket mafia. A tavola con cosa nostra e della fiaba L’invasione degli scarafaggi. La mafia spiegata ai bambini, è noto soprattutto per le numerose graphic novel, tra cui Peppino Impastato. Un giullare contro la mafia, vincitore del Premio Giancarlo Siani, Ilaria Alpi. Il prezzo della verità, vincitore del Premio Micheluzzi, e Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto. I suoi libri sono stati pubblicati in Polonia, Francia, Spagna, Stati Uniti e Olanda e tavole da suoi fumetti sono state esposte a Parigi, Seoul e al MAR di Ravenna. PAWEŁ STASIKOWSKI Laureato in Filologia italiana all’Università Jagellonica di Cracovia, ha iniziato a lavorare in diplomazia nel 1995. Negli anni 1996-2001 è stato prima viceconsole e poi console presso il Consolato della Repubblica di Polonia in Milano, quindi Consigliere presso il Cerimoniale Diplomatico MAE a Varsavia. Dal 2006 al 2010 è stato vicedirettore dell’Istituto Polacco di Roma. Nel 2010 rientra a Varsavia al Cerimoniale Diplomatico MAE e ne diviene il vicedirettore. Capo del 182 “protocollo della presidenza” durante la presidenza della Polonia nel Consiglio dell’UE nel 2011. A febbraio del 2013 assume a Roma la carica di Direttore dell’Istituto Polacco e Primo Consigliere per gli affari culturali dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia. Fino al 31 dicembre 2015 presidente del Cluster EUNIC Roma (European Union National Institutes for Culture). GIOVANNA TOMASSUCCI È professore associato di Letteratura polacca all’Università di Pisa. Nella sua attività di ricerca ha affrontato i temi della cultura del Rinascimento, Barocco, Romanticismo, della letteratura tra le due guerre e del secondo Novecento in Polonia. È autrice di oltre un centinaio fra contributi critici e traduzioni dal polacco. Ha curato, fra gli altri: Julian Tuwim, Noi ebrei polacchi (2009); Tadeusz Borowski, Da questa parte, per il gas (2009); Hanna Krall, Il dibbuk e altre storie (1997). Tra i suoi progetti, un libro dedicato agli scrittori ebrei polacchi della prima metà del Novecento. EWA WIERZYŃSKA Lavora al Museo di Storia della Polonia di Varsavia come addetta alle relazioni internazionali ed è la responsabile del programma educativo Jan Karski. Una missione incompiuta. È stata la vicedirettrice del Museo della Storia degli Ebrei Polacchi. Laureata alla Szkoła Główna Handlowa e all’Università di Varsavia, è autrice di numerosi libri e articoli nel campo della divulgazione storica. Emigrata dalla Polonia nel 1984 per motivi politici, ha trascorso vent’anni negli Stati Uniti, lavorando come giornalista freelance, nel campo delle pubbliche relazioni e della pubblicità. Tra il 1992 e il 2000 ha abitato a Washington, dove ha conosciuto Jan Karski. Dal suo ritorno in Polonia nel 2005 ha dedicato gran parte del suo tempo a mantenere vivo il ricordo di Karski.
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