Cardiometabolica News Numero 5 - Fondazione Italiana per il Cuore
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Cardiometabolica News Numero 5 - Fondazione Italiana per il Cuore
CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 1 Malattie cardiometaboliche: cosa c’è di nuovo? Jean-Pierre Després: sessant’anni di mele e pere Malattie metaboliche e ipertensione arteriosa Si è tenuto di recente a New York il XVI International Symposium on Drugs Affecting Lipid Metabolism, organizzato dalla Fondazione Giovanni Lorenzini (Milano e Houston) con il Weill Cornell Medical College (New York), sotto gli auspici delle maggiori [...] Già nel 1947 il medico francese Jean Vague aveva definito chiaramente con un semplice paragone vegetale – mela o pera? – la diversa distribuzione del tessuto adiposo nell’uomo e nella donna. Nel primo gli adipociti si concentrano soprattutto a livello addominale [...] Nelle recenti Linee guida ESH/ESC per il trattamento dell’ipertensione arteriosa (Eur Heart J 2007; 28: 1462-536), gli specialisti in malattie metaboliche trovano spunto di particolare interesse in alcuni capitoli dedicati al diabete mellito, alla sindrome metabolica [...] vedi pag 5 vedi pag 7 vedi pag 10 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 2 numero 05 febbraio 2008 in questo numero Editoriale Strategie educazionali, stile di vita e rischio cardiovascolare di Maria Teresa Lavazza e Antonino Mazzone 3 Articoli Malattie cardiometaboliche: cosa c’è di nuovo? di Stefano Bellosta 5 Jean-Pierre Després: sessant’anni di mele e pere di Ercole Frigg 7 Alberto Zanchetti: capiremo meglio, è una PROMISE di Federico Mereta 9 Malattie metaboliche e ipertensione arteriosa di Antonio C. Bossi e Antonino Pitì 10 Pubblicazione a cura della Fondazione Italiana per il Cuore Via Appiani 7 - 20121 Milano Direttore responsabile: Emanuela Folco Comitato editoriale: Pietro Amante; Antonio C. Bossi; Emanuela Folco; Alberto Lombardi; Federico Mereta; Rodolfo Paoletti; Andrea P. Peracino; Andrea Poli Layout grafico ed impaginazione: Monica Loredan - evectors Stampato a cura di: Lalitotipo - Via E. Fermi 17 20019 Settimo Milanese (MI) www.cardiometabolica.org Iscrizione Registro della Stampa (Tribunale di Milano) numero 212 del 4 Aprile 2007 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 3 Editoriale Strategie educazionali, stile di vita e rischio cardiometabolico Maria Teresa Lavazza, Medicina interna, Azienda ospedaliera “Ospedale di Legnano”; Antonino Mazzone, Presidente Federazione delle Associazioni dei Dirigenti ospedalieri internisti (FADOI) L e malattie cardiovascolari hanno un enorme impatto umano e sociale. Rappresentano la prima causa di mortalità e morbidità nei paesi occidentali. La fisiopatologia di tali patologie è complessa e multifattoriale; è legata alla presenza e all’interazione di fattori di rischio che determinano lo sviluppo e la progressione della malattia aterosclerotica fino alla comparsa della patologia conclamata. Studi di popolazione hanno permesso l’identificazione di tali fattori che raramente si presentano in un individuo in modo isolato; la maggioranza dei soggetti è esposta a più fattori che ne aumentano esponenzialmente il rischio e ne aggravano la prognosi. Negli ultimi anni si è sviluppata la concezione del rischio cardiovascolare globale che permette di commisurare la probabilità che il soggetto possa incorrere nell’evento clinico in base all’interazione dei diversi fattori presenti. Nel passato l’attenzione clinica si rivolgeva alla correzione dei singoli elementi quali l’ipertensione, la dislipidemia, il diabete e il fumo di sigaretta. L’allargamento delle conoscenze ha permesso di evidenziare nuovi elementi di rischio quali l’obesità addominale, lo stato proinfiammatorio e protrombotico cronico, l’omocisteinemia, la disfunzione endoteliale, lo stress ossidativo. Il concetto di sindrome metabolica avvalora la necessità di individuare, in ogni soggetto, non più il singolo fattore di rischio ma la molteplicità dei deter- www.cardiometabolica.org minanti che possono condurre allo sviluppo della patologia. L’approccio terapeutico che deriva da questa visione dell’individuo esula pertanto dalla correzione del singolo fattore di rischio presente, ma si pone l’obiettivo di affrontare i problemi del soggetto nella loro globalità. Identificare e trattare precocemente i fattori di rischio cardiovascolari ha permesso di ridurre significativamente la morbilità e mortalità cardiovascolare, per quanto rimanga evidente che la maggior parte dei pazienti a rischio cardiovascolare continui a sviluppare eventi clinici. Un recente studio condotto negli Stati Uniti ha analizzato le cause della riduzione della mortalità per malattie coronariche nel ventennio 1980-2000. I dati elaborati hanno mostrato un radicale cambiamento durante il XX secolo: dopo un picco verificatosi attorno al 1968, il tasso di mortalità corretto per età si è dimezzato. Due fattori hanno permesso questo declino: da una parte si è realizzata una sostanziale riduzione della prevalenza di alcuni fattori di rischio cardiovascolare quali il fumo, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa. Dall’altra parte si è modificato in modo rivoluzionario lo scenario terapeutico della patologia coronarica conclamata grazie all’utilizzo delle tecniche di rivascolarizzazione miocardica quali la trombolisi, il bypass aorto-coronarico, l’angioplastica e gli stent, non ultimo il ricorso agli ace-inibitori e alle statine. A fron- te di questi positivi risultati, sono però evidenti due eccezioni preoccupanti. L’analisi stima che l’incremento dell’indice di massa corporea (BMI) potrebbe rendere ragione di 26mila morti aggiuntive per coronaropatie nel 2050 e l’incremento del diabete mellito di circa 35mila altri decessi. Gli Stati Uniti spendono per le spese sanitarie più di ogni altra nazione al mondo ma il rientro in termini di salute pubblica è del tutto inadeguato. Questa discrepanza è legata all’influenza negativa che esercitano alcuni comportamenti personali. È divenuto evidente che l’obesità, la sedentarietà e il fumo di sigaretta sono responsabili di morti premature. L’obesità ed il fumo hanno caratteristiche comuni: entrambi hanno elevata prevalenza, iniziano nell’età infantile e nell’adolescenza, coinvolgono interessi di mercato, sono diffusi nelle classi sociali più modeste e nelle regioni più povere del sud del mondo, sono difficili da trattare e sono meno considerati dalla classe medica. La diffusione mondiale dell’obesità nell’infanzia è sempre più evidente e preoccupante. Lo studio di una coorte di bambini danesi ha evidenziato che l’incremento del BMI durante l’infanzia è associato all’incremento del rischio di coronaropatie in età adulta. Tale associazione è più forte nei soggetti di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile, aumenta con l’età dei bambini in entrambi i sessi ed 3 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 è proporzionale ai valori di BMI. Dal 1970 negli Stati Uniti la prevalenza dell’obesità è raddoppiata nei bambini fino a 5 anni e triplicata negli adolescenti. Sulla base della prevalenza, nell’anno 2000, del sovrappeso negli adolescenti americani, la proiezione della prevalenza di adulti obesi nel 2020 aumenterebbe dal 30 al 37 per cento negli uomini e dal 34 al 44 per cento nelle donne. A ciò conseguirebbe, a causa dell’associazione con alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico e della pressione arteriosa, un incremento della prevalenza di eventi cardiovascolari del 2 per cento nel 2021 e dell’11 per cento nel 2035. La strategia pubblica per il controllo del fumo ha portato alla riduzione della prevalenza di tale abitudine, sebbene ancora in modo incompleto. Ad oggi invece, se si escludono gli interventi di chirurgia bariatrica, le misure efficaci per combattere l’obesità sono senza dubbio più limitate. È peraltro ormai nota l’efficacia della riduzione del peso corporeo nella prevenzione del rischio cardiovascolare. Dati ottenuti dal Framingham Offspring Study mostrano che piccoli cambiamenti del peso corporeo sono associati a cambiamenti significativi nella somma dei fattori di rischio cardiovascolare: una riduzione ponderale di 2,25 kg riduce la somma del rischio del 48 per cento negli uomini e del 40 per cento nelle donne. In pazienti obesi affetti da diabete mellito tipo 2, una modesta riduzione del peso determina un miglioramento della sensibilità all’insulina, del controllo glicemico e del ricorso ai farmaci ipoglicemizzanti. Una metanalisi di 70 studi clinici ha dimostrato una relazione diretta tra calo ponderale e miglioramento del profilo lipidico. La perdita di peso riduce la pressione arteriosa sistolica e diastolica. Il Trials of Hypertension Prevention, Phase II (TOHP II) ha dimostrato una relazione lineare fra riduzione ponderale e riduzione dei valori sistolici e diastolici. Riduzioni del peso del 5-10 per cento hanno evidenziato un impatto signifi- 4 Page 4 cativo sui diversi componenti della sindrome metabolica. Da ultimo un modesto calo ponderale può prevenire lo sviluppo del diabete tipo 2. Dati ottenuti dal Finnish Diabetes Prevention Study e dall’United States Diabetes Prevention Program Research Study dimostrano che, in soggetti obesi e sovrappeso, modifiche dello stile di vita (riduzione dell’introito energetico e incremento dell’attività motoria) riducono del 6 per cento il peso corporeo e del 58 per cento l’incidenza di diabete rispetto al placebo. L’attività fisica riduce il rischio cardiovascolare di un ordine di grandezza pari alla riduzione del rischio data dalla sospensione dell’abitudine al fumo. Nonostante le modifiche indotte dall’attività fisica sui singoli fattori di rischio tendano a essere modeste (5 per cento riduzione dei lipidi, 3-5 mmHg di pressione arteriosa, 1 per cento di HbA1c), la riduzione globale del rischio raggiunge il 30 per cento. I meccanismi biologici sottostanti quest’associazione non erano del tutto chiari. Un’analisi sui partecipanti del Women’s Health Study ha dimostrato che tali effetti benefici sono legati ad alterazioni dei biomarker infiammatori/emostatici. È emerso che l’attività fisica regolare ha un effetto antiinfiammatorio documentato dalla riduzione di PCR e ICAM. Potrebbero essere in gioco modificazioni di altri meccanismi sottostanti, quali le adipochine proaterogene, la sensibilità insulinica e la funzione emostatica e antiossidante dell’endotelio coronarico. Queste evidenze suggeriscono la necessità di interventi terapeutici volti a ridurre il rischio cardiovascolare globale del paziente, a partire da cambiamenti delle sue abitudini personali e confermano la necessità di strategie educazionali orientate a modifiche dello stile di vita che prevedano come terapie di prima linea la cessazione del fumo e la correzione dell’obesità e del sovrappeso. Gli obiettivi da raggiungere sono una riduzione modesta (5-10 per cento) del peso corporeo iniziale e una riduzione dell’introito calorico totale, soprattutto dei grassi saturi, del colesterolo, del sodio e degli zuccheri semplici. I genitori dovrebbero farsi carico del benessere dei figli scegliendo cibi di alta qualità nutrizionale, limitare la permanenza davanti alla televisione e fornire un modello di stile di vita adeguato. Contestualmente va incoraggiata l’attività motoria articolata su 60 minuti di esercizio fisico continuo o intermittente, preferibilmente quotidiano. BIBLIOGRAFIA 1. Grundy S, Cleeman JI, Daniels SR, et al. An American Heart Association/National Heart, Lung and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005; 112: 2735-52 2. Ford ES, Ajani UA, Croft JB, et al. Explaining the Decrease in U.S. Deaths from Coronary Disease, 1980-2000. N Engl J Med 2007; 356: 2388-98 3. Schroder SA. We Can Do Better – Improving the Health of the American People. 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Stefano Bellosta Dipartimento di Scienze farmacologiche, Università degli Studi di Milano S i è tenuto di recente a New York il XVI International Symposium on Drugs Affecting Lipid Metabolism, organizzato dalla Fondazione Giovanni Lorenzini (Milano e Houston) con il Weill Cornell Medical College (New York), sotto gli auspici delle maggiori Società Internazionali che si interessano di patologie cardiovascolari. L’argomento principale è stato l’approccio alla terapia farmacologica delle malattie cardiovascolari. L’utilizzo di numerose classi di farmaci, tra cui le statine, i fibrati e le resine a scambio ionico, ha permesso di ridurre notevolmente incidenza e mortalità delle malattie cardiovascolari, che sono la prima causa di morte e invalidità ormai in tutto il mondo. Un’analisi degli studi clinici documenta una riduzione media delle lipoproteine a bassa densità (LDL) del 30 per cento, a cui si associa una riduzione degli eventi cardiovascolari del 28 per cento. Malgrado questo notevole successo, rimane dunque una percentuale non trascurabile di pazienti che non ottengono un beneficio evidente. Per migliorare la risposta alla terapia è quindi necessario tentare strade nuove: approcci farmacologici innovativi o conoscenze più approfondite sui processi patologici e sui bersagli da colpire. Tra i principali fattori di rischio per le malattie cardiovascolari vanno ricordati l’ipercolesterolemia (soprattutto elevati livelli plasmatici di LDL), l’ipertensione, il fumo e il diabete di tipo 2. Inoltre, ricerche approfondite hanno evidenziato come la presenza contemporanea di diversi di questi fattori di rischio sia associata ad un aumentato rischio cardiovascolare in percentuali superiori a quanto ci si potrebbe aspettare normalmente. La presenza contemporanea di più fattori di rischio configura una specifica condizione – la sindrome metabolica (SM) – www.cardiometabolica.org caratterizzata dai principali fattori di rischio cardiovascolari: diabete o pre-diabete, crescente prevalenza di obesità, soprattutto a livello addominale, ipertensione e alterati livelli dei lipidi plasmatici [bassi livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL) e aumentati livelli di trigliceridi e di LDL piccole e dense (sdLDL)] (1-3). La fisiopatologia sembra essere principalmente dovuta alla comparsa di resistenza all’insulina con un eccesso di liberazione di acidi grassi (1). Questa alterazione del metabolismo degli acidi grassi nel tessuto adiposo determina un aumentato rilascio di acidi grassi liberi nella circolazione, che a sua volta causa una serie di anomalie nel profilo delle lipoproteine circolanti, tra cui bassi livelli di HDL, alti livelli di TG e VLDL, con livelli normali di LDL. La percentuale della popolazione portatrice di questa condizione aumenta in tutto il mondo ed è fondamentale ridurre l’incidenza di questi fattori al fine di ridurre il rischio cardiovascolare. L’approccio terapeutico ai pazienti con SM prevede quindi un intervento multidisciplinare che associa una modifica dello stile di vita a un approccio di tipo farmacologico, al fine di ridurre il rischio di sviluppare alterazioni metaboliche che possono causare malattie cardiovascolari (4). La SM sembra colpire una significativa porzione della popolazione. Si calcola che fino all’80 per cento dei quasi 200 milioni di adulti diabetici nel mondo morirà di patologie cardiovascolari. Allo stesso modo i pazienti con SM hanno un rischio tre volte maggiore di sviluppare patologie cardiovascolari (infarto e/o ictus) e due volte maggiore di morire rispetto a soggetti senza SM. I malati di SM corrono inoltre un rischio cinque volte maggiore di sviluppare – se non è già presente – diabete di tipo 2. Per questo mortalità e morbilità per SM e diabete sono di gran lunga superiori a quelle per AIDS, anche se il problema non è riconosciuto in maniera eguale. Secondo il NCEP-ATP III (5), circa un terzo degli uomini e delle donne di mezza età nei Paesi occidentali ha la SM. E ciò rappresenta un potenziale rischio per la salute, dato che la SM si associa ad un’aumentata mortalità per cause cardiovascolari e per tutte le cause (1). In uno studio prospettico rappresentativo condotto su 1.209 uomini finlandesi, senza evidenze di malattie cardiovascolari, cancro o diabete, e seguiti per 10 anni dall’età di 40-60 anni, i pazienti con SM avevano una probabilità di morire per malattie cardiovascolari 3-4 volte superiore a quelli senza SM (6). Questo pericolo associato alla presenza della SM rende necessario un trattamento aggressivo per cercare di modificare i fattori di rischio cardiovascolare. Secondo l’Evidence Based Medicine, l’approccio terapeutico ottimale alla SM richiede di cambiare lo stile di vita e di trattare in maniera appropriata i fattori di rischio associati. Particolare attenzione dovrebbe essere rivolta anche alla presenza di fattori di rischio emergenti (7). L’ATP III raccomanda che i pazienti a rischio cardiovascolare moderato o elevato siano trattati con farmaci in grado di ridurre del 30-40 per cento i livelli di colesterolo LDL (CLDL). Per definizione i pazienti con SM hanno molteplici fattori di rischio, di conseguenza dovrebbero raggiungere dei valori ottimali di C-LDL (<130 mg/dL) e di colesterolo non-HDL (<160 mg/dL). In un successivo report, l’ATP III ha inoltre introdotto un nuovo valore di C-LDL (<70 mg/dL) auspicabile come opzione terapeutica nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare, come 5 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 6 quelli con SM, diabete o preesistenti patologie cardiovascolari (8). vantaggi e svantaggi di ogni farmaco ipolipemizzante disponibile. Esistono numerosi target terapeutici per ridurre gli elevati livelli di rischio della SM. Mentre non esiste un unico trattamento della sindrome nel suo insieme, è ormai accettato che cambiamenti dello stile di vita (in particolare l’intervento sulla dieta e sull’attività fisica) costituiscono la prima linea di intervento (1). Una dieta mediterranea ricca in cereali, frutta, verdura, legumi, noci e olio di oliva può essere efficace nel ridurre sia la prevalenza della SM sia il rischio cardiovascolare associato. Il beneficio della dieta potrebbe derivare dalla riduzione della lieve infiammazione associata alla SM. Tra i principali agenti utilizzati contro la SM vi sono le statine, i fibrati, l’acido nicotinico (2) e l’ezetimibe, un inibitore dell’assorbimento intestinale del colesterolo utilizzato in associazione con le statine. Le statine sono i farmaci di prima scelta per i pazienti che necessitano di raggiungere i livelli auspicabili di C-LDL, mentre la terapia con fibrati può essere un’alternativa per i pazienti con il profilo lipidico tipico della SM. A favore delle statine (che in prevalenza riducono i livelli di C-LDL) vi sono i numerosi studi che hanno evidenziato il loro beneficio nei pazienti a rischio cardiovascolare, inclusi quelli con SM. Infatti, sebbene il principale effetto delle statine sia abbassare i livelli di C-LDL, esse permettono anche di abbassare altre lipoproteine contenenti la apoB e di indirizzare la composizione delle particelle verso un profilo meno aterogeno, per quanto la loro efficacia non sia assoluta. Oltre alle statine, anche i fibrati sono molto efficaci nel normalizzare i livelli dei lipidi plasmatici (principalmente C-HDL e TG) e possono migliorare anche la resistenza all’insulina (2). L’uso concomitante di statine e fibrati (o di altri farmaci come ezetimibe) potrebbe quindi essere di grande interesse nei pazienti in cui i livelli di C-LDL sono controllati dalla terapia con statine, mentre non lo sono i livelli di CHDL e/o TG. Anche se è necessario valutare bene quale fibrato/statina associare, a causa delle possibili interazioni tra queste classi di farmaci (9). Quando il cambiamento dello stile di vita appare inadeguato, diventa necessario trattare i singoli fattori della SM, in modo che una riduzione del rischio associato a ognuno di essi contribuisca a ridurre il rischio complessivo di malattia cardiovascolare e diabete. Tra i diversi fattori di rischio metabolici, particolare attenzione dovrebbe essere rivolta alla dislipidemia. La triade data da alti livelli di sdLDL, con il concomitante aumento di particelle ricche in TG, e bassi livelli di HDL, forma la dislipidemia aterogena della SM, che a sua volta – con o senza progressione a diabete – è quindi un potente fattore aterogeno. Così, la riduzione del rischio cardiovascolare nella SM non richiede solo un intervento aggressivo sui livelli di C-LDL, ma anche su ogni altra componente della dislipidemia, per ridurre i livelli dei TG e aumentare quelli delle HDL e le dimensioni medie delle particelle LDL. In base alle evidenze sperimentali, il principale bersaglio terapeutico nella SM è il C-LDL (2). Nei pazienti con dislipidemia aterogena e alti livelli di TG, una volta raggiunti livelli auspicabili di C-LDL, il colesterolo non-HDL diventa il secondo target terapeutico, mentre il terzo target è infine l’aumento del CHDL. Per fornire il tipo e il grado di trattamento raccomandato dalle linee guida attuali, il clinico dovrebbe conoscere 6 Infine, durante il Simposio sono stati presentati anche i risultati di uno studio con rimonabant, un inibitore selettivo del recettore CB1 dei cannabinoidi. Il trattamento con questo nuovo farmaco ha portato a una riduzione significativa del peso e della circonferenza addominale dei pazienti, insieme a un miglioramento dei fattori di rischio cardiometabolico come la resistenza all’insulina, il profilo glucidico e lipidico (C-HDL e TG), con una riduzione complessiva del numero dei pazienti con SM. Sono stati osservati, però, alcuni effetti secondari sul tono dell’umore, che dovranno essere studiati con attenzione per poter valutare a lungo termine il profilo di sicurezza e tollerabilità di questo farmaco. Nell’approccio terapeutico al paziente con malattie cardiovascolari è quindi molto importante un corretto stile di vita, con particolare attenzione all’esercizio fisico. Se ciò non porta a un beneficio sufficiente, è necessario intervenire con i farmaci, in particolare associandone due o più classi ad azione complementare. Queste terapie combinate potrebbero ridurre notevolmente il rischio residuo non controllato con un solo farmaco, sottolineando ulteriormente la necessità di un approccio multidisciplinare alla terapia delle malattie cardiovascolari e in particolare della SM. BIBLIOGRAFIA 1. Eckel RH, Grundy SM, Zimmet PZ. The metabolic syndrome. Lancet 2005; 365: 1415-28 2. Grundy SM, Cleeman JI, Daniels SR, et al. Diagnosis and management of the metabolic syndrome: an American Heart Association/National Heart, Lung, and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005; 112: 2735-52 3. Haffner SM. 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Circulation 2004; 109: III50-III57 www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 7 Jean-Pierre Després: sessant’anni di mele e pere Ercole Frigg giornalista G ià nel 1947 il medico francese Jean Vague aveva definito chiaramente con un semplice paragone vegetale – mela o pera? – la diversa distribuzione del tessuto adiposo nell’uomo e nella donna. Nel primo gli adipociti si concentrano soprattutto a livello addominale, nella seconda il loro accumulo è prevalente in corrispondenza dei fianchi e delle cosce. Sessant’anni dopo quella prima osservazione, l’adiposità localizzata a livello addominale non è più considerata come un semplice carattere sessuale secondario, al limite con una valenza estetica, bensì come un potenziale fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo. In altre parole, nel definire il rischio stesso non si può parlare tout court di obesità, quanto piuttosto di localizzazione del tessuto adiposo in eccesso. Se si concentra intorno ai visceri addominali, allora va considerato pericoloso. Ne è convinto anche Jean-Pierre Després, tra i massimi esperti mondiali di rischio cardiometabolico, che ha presentato i suoi studi più recenti a Perugia, in occasione del congresso nazionale della Società italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi. «Fino a oggi l’obesità era mal definita, almeno sotto l’aspetto del rischio cardiovascolare globale» è il parere di Després. «Nel definire il profilo di rischio del soggetto non credo che ci si possa limitare a parlare solo di peso, ma che si debba definire anche la localizzazione dell’eccesso adiposo nell’organismo. Quando si concentra soprattutto intorno ai visceri addomina- www.cardiometabolica.org li, cresce il rischio di sviluppare specifiche alterazioni metaboliche come l’aumento dei trigliceridi e il calo del colesterolo HDL. Per questo ritengo che il tessuto adiposo viscerale vada considerato pericoloso e che di questo fattore si debba tenere conto quando si definisce il rischio cardiometabolico del soggetto». Caricatura della forma “a mela” (metabolicamente pericolosa, più comune nell’uomo, a sinistra) e “a pera” (metabolicamente protettiva, più comune nella donna, a destra). Il fatto che l’obesità sia diventata oggetto di ironia ha impedito a lungo di comprendere le sue implicazioni sanitarie. L’obesità può inoltre favorire l’insorgenza di problemi muscolo-scheletrici e psicologici, oltre ad avere pesanti effetti sulla qualità della vita. Per definire in modo appropriato il rischio cardiometabolico del soggetto, quindi, non bastano più i soli parametri di peso e statura. Occorre un elemento in più, che la comunità scientifica ha identificato nella circonferenza addominale rilevata mediante la sua semplice misurazione con un metro a nastro da sarto (vedi box a pag. 8). Després è convinto che questo parametro, di facile misurazione anche da parte del medico di medicina generale, sia un indicatore affidabile del rischio. «La misurazione del giro vita è semplice e può essere effettuata da tutti i medici di medicina generale, che rappresentano uno snodo fondamentale nello screening dei disturbi cardiometabolici» osserva il cardiologo canadese. «Lo provano i risultati dello studio IDEA (Circulation 2007; 116: 1942-51, vedi box), che abbiamo condotto proprio per valutare la prevalenza dell’obesità addominale nella popolazione e che ha coinvolto 6.425 medici in tutto il mondo. Attraverso un semplice video i medici hanno imparato in pochi secondi a prendere questa misura, così importante ai fini della diagnostica cardiometabolica». di screening per la valutazione del rischio cardiovascolare ci sono ovviamente anche altre evidenze scientifiche, come la ricerca (BMJ 2005; 331: 455-6) condotta da un gruppo di sanitari inglesi guidati da David Haslam, coordinatore del National Obesity Forum. Ma ci sono soprattutto le ricerche sul tessuto adiposo e sulle differenti azioni endocrino-metaboliche da esso sostenute e legate alla sua localizzazione. Il grasso viscerale presenta infatti caratteristiche diverse rispetto a quello sottocutaneo sia per quanto riguarda la struttura delle cellule sia per i loro effetti sull’organismo. Gli adipociti viscerali si possono infatti considerare vere e proprie «centrali endocrino-metaboliche» che favoriscono il rilascio di sostanze attive su processi significativi sotto l’aspetto del rischio cardiometabolico. Resta però un problema: come può il medico generalista distinguere l’obesità viscerale da quella sottocutanea, seppure in presenza di un aumento del giro vita? A sostenere il ruolo fondamentale della misurazione del giro vita come test «Oggi penso si possa dare una risposta chiara a questa domanda, fondamentale per la pratica clinica quotidiana» spiega Després. «Un nostro ampio studio epidemiologico, in corso di pubblicazione, dimostra come in presenza di un giro vita superiore ai 7 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 8 le è un fattore di rischio cardiovascolare. Solo a quel punto inizia un programma integrato per ridurre il tessuto adiposo viscerale. La nostra esperienza in questo senso è emblematica. Come si misura il girovita L’obesità addominale si può individuare facilmente misurando il giro vita. Può bastare un semplice metro a nastro da sarto, procedendo così: 1. togliere la camicia o la maglietta e slacciare la cintura dei pantaloni; 2. posizionare il metro a metà tra la parte più alta dell’osso dell’anca e l’ultima costa, in fondo alla cassa toracica, parallelamente al pavimento; 3. prendere la misura solo con l’addome rilassato e dopo avere espirato. valori consigliati, un’ipertrigliceridemia sia l’elemento determinante per poter parlare con certezza di obesità viscerale, quindi di rischio cardiometabolico. Se i trigliceridi sono aumentati, significa che è presente grasso viscerale. Se invece sono nella norma, è probabile che l’accumulo di tessuto adiposo sia in prevalenza sottocute. Per questo è importante rilevare sempre il giro vita e – se supera i valori consigliati – attuare una serie di misure per ridurlo. Il nostro modello prevede un monitoraggio nel tempo dei pazienti in trattamento con un regime alimentare e un programma di attività fisica: ogni mese sono sottoposti a visita dietologica e fisiatrica. Occorre soprattutto avvertire la persona che la presenza di obesità addomina- Jean-Pierre Després insegna alla Divisione di Kinesiologia, Dipartimento di Medicina sociale e preventiva all’Università Laval, Québec, Canada. Després ha ottenuto il PhD in Fisiologia dell’esercizio nel 1984, sempre all’Università Laval. Nei due anni successivi ha seguito un corso di perfezionamento al Dipartimento di Medicina, Università di Toronto. Nel 1986 è tornato definitivamente all’Università Laval. Nel 1991 è stato nominato Direttore associato del CHUL Lipid Research Center, di cui è stato Direttore scientifico dal 1995 al 2000. Dal 1999 al 2005 è stato docente di Nutrizione umana, Lipidologia e Prevenzione cardiovascolare, sempre all’Università Laval. Dal 1999 è inoltre Direttore della ricerca cardiologica all’Istituto cardiologico del Québec. Dal 1992 al 2000 è stato Direttore dell’International Journal of Obesity e oggi fa parte del board editoriale di numerose riviste scientifiche. Després, che ha pubblicato più di 400 articoli su riviste peer-reviewed e ha scritto 45 capitoli di libro, si occupa di valutazione e trattamento dell’obesità, distribuzione del tessuto adiposo, metabolismo lipidico, diabete, sindrome metabolica, esercizio, nutrizione e prevenzione-trattamento dei fattori di rischio cardiovascolare. Abbiamo condotto uno studio su 150 maschi adulti, seguiti ogni mese da un dietologo e da un fisiatra. In un anno abbiamo ridotto in media il peso di sette chili, ma soprattutto il giro vita di otto centimetri: tutto senza utilizzare farmaci, che vanno impiegati solo se e quando necessario, là dove il paziente non risponda a interventi sullo stile di vita. Già il solo approccio educazionale può migliorare significativamente il rischio cardiovascolare: pensate che circa un paziente con obesità addominale su due ha un’intolleranza al glucosio e quindi, se non si interviene, è destinato a sviluppare la patologia. Ebbene, il nostro studio ha dimostrato che il solo approccio educazionale dimezza l’intolleranza al glucosio ai controlli mensili. Ma non basta: la riduzione del grasso viscerale comporta un aumento del colesterolo HDL, ad azione protettiva sui vasi, mentre fa abbassare i trigliceridi e determina un calo della proteina C-reattiva». IDEA conferma il link tra obesità addominale, malattie cardiovascolari e diabete Lo studio International Day for the Evaluation of Abdominal obesity (IDEA), appena pubblicato su Circulation, conferma che elevati valori di giro vita si correlano strettamente con patologie cardiovascolari e diabete e sono indipendenti dall’indice di massa corporea (BMI) e dall’età. Lo studio ha valutato la prevalenza dell’obesità addominale su circa 170mila persone reclutate da oltre 6.300 medici di medicina generale in 63 Paesi. IDEA dimostra che l’adiposità addominale, valutata mediante la semplice misurazione del giro vita, è significativamente associata all’aumento del rischio cardiovascolare e del diabete in tutto il mondo. I risultati della ricerca indicano inoltre che la circonferenza addominale e il BMI sono marcatori di rischio cardiovascolare e diabete indipendenti dall’età, dal sesso e dall’origine geografica dei soggetti. «Lo studio IDEA conferma l’importanza della misurazione della circonferenza addominale nelle cure primarie insieme a BMI, pressione arteriosa, glicemia e profilo lipidico, al fine di identificare i pazienti che presentano un rischio maggiore di patologie cardiovascolari e diabete» ha spiegato Beverley Balkau, epidemiologo all’INSERM U780IFR69 di Villejuif (Francia) e coordinatore dello studio. IDEA non ha valutato solo la prevalenza dell’obesità addominale, ma ha definito pure il legame tra giro vita e BMI da una parte, malattie cardiovascolari e diabete dall’altra. «I risultati hanno dimostrato che i due parametri sono correlati in maniera indipendente con questi quadri patologici, in entrambi i sessi. La correlazione è tuttavia più significativa per il giro vita. Il rapporto si osserva anche per i pazienti normopeso, in particolare per il diabete» ha aggiunto Balkau. 8 www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 9 Alberto Zanchetti: capiremo meglio, è una PROMISE Federico Mereta Giornalista L a sindrome metabolica è un’entità costituita da diversi fattori di rischio cardiometabolico, che spesso comprende l’obesità addominale. Da tempo si sa che la presenza di sindrome metabolica si associa a un maggior rischio di mortalità cardiovascolare e per tutte le cause. La sindrome è presente in diverse popolazioni di pazienti, ma non si conosce ancora in una popolazione sufficientemente ampia la sua prevalenza in concomitanza con ipertensione o alterazioni del metabolismo lipidico. In particolare, solo studi epidemiologici condotti su piccole popolazioni hanno indagato la prevalenza della sindrome metabolica in soggetti valutati presso centri per l’ipertensione e per il trattamento delle dislipidemie. Per offrire una risposta a questi interrogativi epidemiologici e offrire un quadro sulla prevalenza dell’obesità addominale e della sindrome metabolica in Italia in popolazioni afferenti a centri per l’ipertensione e per le dislipidemie, è stato condotto e realizzato lo studio PROMISE (Prevalence of Abdominal Obesity and Metabolic Syndrome and Their Association with Organ Damage in Hypertension and Lipid Clinics). Lo studio nel setting ipertensione è stato coordinato da Alberto Zanchetti, già professore ordinario di Medicina interna all’Università Statale e direttore del Centro di Fisiologia clinica e Ipertensione all’Ospedale Maggiore, entrambi a Milano, che ha recentemente presentato i risultati preliminari del trial, relativi ai pazienti afferenti ai soli centri per l’ipertensione. Cardiometabolica (CM): Professor Zanchetti, perché è stato condotto lo studio PROMISE? www.cardiometabolica.org Alberto Zanchetti (AZ): Lo spunto è venuto dalla letteratura scientifica. Numerosi trial epidemiologici hanno dimostrato che l’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare e, nel contempo, hanno confermato che raramente l’aumento della pressione arteriosa rappresenta un fenomeno isolato. Spesso, infatti, l’ipertensione si associa ad altri fattori di rischio cardiovascolare, come l’aumento del colesterolo-LDL o il diabete, e di frequente queste alterazioni del metabolismo concorrono a definire il rischio cardiovascolare globale. Con lo studio PROMISE abbiamo voluto valutare se e quanto l’ipertensione si associ a una serie di fattori di rischio significativi, ma di tipo metabolico, come bassi valori di colesterolo-HDL, elevata trigliceridemia e obesità addominale. Lo studio rappresenta quindi un importante tassello nelle conoscenze sui rapporti tra l’ipertensione e i cosiddetti “fattori di rischio cardiometabolico”. CM: Quali sono stati i criteri per il reclutamento dei soggetti in osservazione? AZ: Lo studio, a mio parere, assume un particolare significato per due diversi aspetti. Innanzitutto è stato condotto in Italia, ed esclusivamente su centri nazionali, diffusi su tutto il territorio della penisola. Questo significa che offre uno “spaccato” di prevalenza estremamente preciso e mette a disposizione dati molto significativi, in grado di aiutare lo specialista nella pratica clinica. Il secondo aspetto significativo è legato alle caratteristiche dei centri coinvolti: hanno partecipato centri per l’ipertensione e strutture dedicate allo studio dell’aterosclerosi, che hanno arruolato pazienti con alterazioni del metabolismo lipidico. CM: A che punto è la valutazione dei risultati? AZ: Al momento lo studio si può considerare concluso e sono in corso le analisi dei dati ottenuti. Non sono ancora disponibili risultati definitivi sull’intera coorte di pazienti inserita nel trial, ma esistono informazioni relative ai circa 690 soggetti reclutati nei centri per l’ipertensione che hanno partecipato all’indagine. Questi primi dati, seppure parziali, sono stati presentati ufficialmente al recente congresso della Società europea per l’Ipertensione (ESH) tenutosi a Milano. CM: Cosa emerge da questi primi, parziali risultati? AZ: Penso che i dati disponibili offrano già un quadro abbastanza preciso e allarmante circa la frequenza dell’associazione tra ipertensione e quella che modernamente è chiamata “sindrome metabolica”. Se prendiamo come parametro la definizione di sindrome metabolica dell’ATP III, la prevalenza di questa condizione nell’iperteso seguito presso centri specializzati si aggira intorno al 30 per cento. Se invece si considera la definizione di sindrome metabolica data dall’International Diabetes Federation (IDF), si arriva addirittura al 37 per cento. In ogni caso, possiamo dire che più o meno un paziente iperteso su tre presenta fattori di rischio cardiometabolico. Più in particolare, solo un terzo degli ipertesi in cura presso i centri ha un solo fattore di rischio cardiovascolare, appunto l’ipertensione, un altro terzo presenta un secondo fattore di rischio e l’ultimo terzo è esposto a tre o più fattori di rischio, come appunto quelli considerati nella sfera della sindrome metabolica. 9 CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 7:02 Page 10 Malattie metaboliche e ipertensione arteriosa Antonio C. Bossi Direttore, U.O. Malattie metaboliche e Diabetologia A.O. “Ospedale Treviglio-Caravaggio” Antonino Pitì Direttore Dipartimento Area medica, Direttore U.O. Cardiologia A.O. “Ospedale Treviglio-Caravaggio” N elle recenti Linee guida ESH/ESC per il trattamento dell’ipertensione arteriosa (Eur Heart J 2007; 28: 1462-536), gli specialisti in malattie metaboliche trovano spunto di particolare interesse in alcuni capitoli dedicati al diabete mellito, alla sindrome metabolica e alle dislipidemie. Tra i fattori che influenzano la prognosi del paziente iperteso si riconoscono: • la dislipidemia (ipercolesterolemia >190 mg/dL; incremento di C-LDL >115mg/dL; bassi valori di C-HDL: <40 mg/dL nell’uomo, <46 mg/dL nella donna; ipertrigliceridemia >150 mg/dL); • l’iperglicemia a digiuno (tra 102 e 125 mg/dL), l’intolleranza ai glucidi dopo test di tolleranza al glucosio e il diabete mellito; • l’obesità addominale (intesa come giro vita >102 cm nell’uomo e >88 cm nella donna). È ben nota l’associazione tra diabete e ipertensione, così come le pericolose conseguenze di tale combinazione: numerosi studi hanno valutato poi gli effetti indesiderati che alcuni farmaci antiipertensivi possono svolgere sul metabolismo glucidico, specie diuretici e/o beta-bloccanti rispetto ad ACE-inibitori (studio ALLHAT), antagonisti del recettore AT1 dell’angiotensina (studi LIFE e ALPINE) o Ca-antagonisti (studi NORDIL, INSIGHT, INVEST). Anche lo studio SHEP ha riportato una maggior incidenza di diabete nel braccio in trattamento con diuretici (e, spesso, beta-bloccante). Peraltro, nonostante i dati non positivi dello studio DREAM [che ha tuttavia evidenziato nei casi trattati con ramipril un aumento significativo (P<0,001) dei pazienti che regrediscono a normoglicemia], una recente 10 metanalisi (Elliott WJ, et al. Lancet 2007; 369: 201-7) ha evidenziato come l’insorgenza di nuovi casi di diabete sia la più bassa con sartani e ACE-inibitori, mentre è via via più alta nei gruppi trattati con Ca-antagonisti, placebo, beta-bloccanti o diuretici. I pazienti diabetici sono considerati a rischio elevato o molto elevato: per ottenere la massima protezione cardiovascolare possibile l’obiettivo è quello di raggiungere valori <130/80 mmHg. Ci sono convincenti evidenze degli effetti benefici di una maggior riduzione pressoria nei diabetici tipo 2, come dimostrato dagli studi HOT, UKPDS e confermato dai trial ABCD. Purtroppo sono limitate le evidenze dei benefici ottenibili raggiungendo il goal di valori <130/80 mmHg: alcuni trial hanno raggiunto una diastolica inferiore o molto vicina agli 80 mmHg, ma pochi studi sono riusciti a ottimizzare la sistolica a valori prossimi ai 130 mmHg. Vi sono però evidenze (giudicate sufficienti, ma non conclusive) che valori pressori <130/80 mmHg aiutino a preservare la funzione renale, specie in presenza di proteinuria. Uno spazio adeguato è riservato al cambiamento dello stile di vita: cessazione del fumo, riduzione del peso corporeo e sua stabilizzazione, riduzione dell’eccessivo consumo di alcol, regolare attività fisica, riduzione dell’utilizzo di sale, incremento del consumo di frutta e verdura, con riduzione dell’apporto di grassi (specie saturi). Nei pazienti diabetici tipo 1 vi sono importanti evidenze dell’efficacia degli ACE-inibitori nel ritardare la progressione della complicazione renale. Per quanto riguarda il trattamento della nefropatia nei diabetici di tipo 2, i ri- sultati degli studi IRMA2 e IDNT (Parving et al. N Engl J Med 2001; 345: 870-8; Lewis et al. N Engl J Med 2001; 345: 851-60), condotti con il bloccante del sistema renina-angiotensina irbesartan, hanno evidenziato nei pazienti con disfunzione renale incipiente o franca un effetto di protezione nei confronti della progressione della nefropatia. Dallo studio IDNT, come pure da numerosi altri trial, è dimostrato il fatto che la riduzione della PA protegge i diabetici tipo 2 da eventi cardiovascolari. In sostanza, ai pazienti diabetici tipo 2 si deve raccomandare di raggiungere valori di PA <130/80 mmHg: la terapia farmacologica non solo è spesso indispensabile, ma richiede frequentemente l’associazione di diversi principi attivi. La tabella I riassume le indicazioni consigliate. Anche la sindrome metabolica ha adeguato rilievo: alcuni danni d’organo possono essere presenti indipendentemente dalla presenza di ipertensione arteriosa come componente diagnostica della sindrome. Le attuali linee guida consigliano la riduzione del peso corporeo per mezzo di diete ipocaloriche e esercizio fisico. Nei pazienti con sindrome metabolica è indicato l’utilizzo di farmaci antipertensivi, ipoglicemizzanti o ipolipemizzanti per trattare queste anomalie cliniche. Poiché il rischio cardiovascolare è elevato, si deve perseguire un rigoroso controllo della PA: riduzione a livelli inferiori a quelli diagnostici per la sindrome stessa (130/85 mmHg), anche se il valore “ottimale” da raggiungere in tali pazienti non è mai stato definito da studi randomizzati. Se non vi sono specifiche indicazioni, si dovreb- www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr05_esec:numero05 6-03-2008 bero evitare beta-bloccanti per gli effetti indesiderati sull’incidenza di nuovi casi di diabete, sul peso corporeo, sulla sensibilità insulinica e sul profilo lipidico: tali effetti sembrano essere meno evidenti nei nuovi beta-bloccanti vasodilatatori (carvedilolo e nebivololo). Anche i tiazidici (specie ad alte dosi) sono caratterizzati da effetti diabetogeni e dismetabolici, per cui non si raccomanda il loro utilizzo come prima scelta. Per iniziare è meglio considerare farmaci antagonisti del recettore dell’angiotensina o ACE-inibitori. Se la PA non è controllabile in monoterapia è opportuno aggiungere un Ca-antagonista, che è metabolicamente neutrale. Peraltro, poiché i soggetti con sindrome metabolica sono spesso obesi e hanno un’ipertensione sensibile al sodio, si può anche utilizzare un diuretico tiazidico a basso dosaggio. Mancano evidenze conclusive per un utilizzo di antidiabetici in pazienti con sindrome metabolica senza diabete. L’utilizzo di inibitori dell’alfa-glucosidasi in soggetti intolleranti ai glucidi riduce la progressione verso il diabete tipo 2, ma non sono state evidenziate differenze di morbilità, mortalità, livelli di HbA1c o pressione arteriosa. I tiazolidinedioni stimolano il recettore PPARgamma, cosa che sono in grado di fare (in minor misura) anche alcuni antagonisti del recettore dell’angiotensina. Il rosiglitazone è stato testato in pazienti con intolleranza glucidica e ha dimostrato di poter prevenire l’insorgenza di diabete. Purtroppo tali composti determinano incremento del peso corporeo e inducono ritenzione idrica, così i loro potenziali benefici rimangono poco chiari se non vi è un diabete conclamato. Oltretutto, dopo la pubblicazione di queste Linee guida, sono comparse alcune osservazioni (Nissen SE, et al. N Engl J Med 2007; 356: 2457-71) che hanno fatto rilevare un potenziale aumento di mortalità per infarto e/o per scompenso cardiocircolatorio in pazienti trattati con rosiglitazone (che è un PPAR-gamma agonista puro): la diatriba non è affatto conclusa, per cui sembra ragionevole attendere i risultati di ulteriori studi clini- www.cardiometabolica.org 7:02 Page 11 Tabella I. Trattamento anti-ipertensivo nei pazienti diabetici Insistere con misure non-farmacologiche, incoraggiando tutti i diabetici tipo 2 a perdere peso corporeo e ridurre l’apporto di sale L’obiettivo dovrebbe essere una pressione arteriosa (PA) <130/80 mmHg e un trattamento farmacologico deve essere instaurato anche se la PA è nel range elevato-normale Per ridurre la PA si possono utilizzare tutti i farmaci efficaci e ben tollerati; spesso è necessaria la combinazione di due o più farmaci Le evidenze disponibili indicano che ridurre la PA protegge dalla comparsa e progressione del danno renale; si può ottenere una maggior protezione utilizzando bloccanti del sistema renina-angiotensina (antagonisti recettoriali dell’angiotensina o ACE-inibitori) Un bloccante del sistema renina-angiotensina dovrebbe essere preferito come monoterapia (se questa è sufficiente) e dovrebbe in ogni caso far parte di una terapia di combinazione La microalbuminuria dovrebbe rapidamente indurre all’utilizzo di farmaci antipertensivi anche se la PA è nel range normale-elevato. I bloccanti del sistema renina-angiotensina hanno spiccato effetto antiproteinurico: è da preferire il loro utilizzo Si dovrebbero utilizzare strategie di intervento contro tutti i fattori di rischio cardiovascolare, comprendendo le statine Si dovrebbe misurare la PA anche in posizione eretta a causa della frequente ipotensione posturale ci randomizzati (Home PD, et al. Diabet Med 2007; 24: 626-34), mantenendo particolare attenzione all’uso del rosiglitazone in pazienti a rischio per scompenso cardiaco. Un altro tiazolidinedione, il pioglitazone (agonista gamma e parzialmente alfa) ha mostrato invece di ridurre significativamente l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori (PROACTIVE). Il rimonabant, nuovo farmaco bloccante il recettore C1 degli endocannabinoidi, ha permesso di ottenere una riduzione significativa del peso corporeo e della circonferenza della vita, unitamente a favorevoli cambiamenti di altri fattori di rischio cardiovascolare, come la glicemia, il C-HDL, la trigliceridemia e l’insulino-resistenza in studi controllati (studi RIO). Il farmaco non aumenta la PA, anzi ne favorirebbe una riduzione. La tabella II riassume le indicazioni consigliate. Infine, vengono appositamente considerati i trattamenti della dislipidemia e dell’iperglicemia perché possono interessare, quali ulteriori fattori di rischio, i pazienti ipertesi. Tabella II. La sindrome metabolica Per porre diagnosi di sindrome metabolica secondo NCEP-ATPIII devono essere presenti 3 dei seguenti determinanti: • circonferenza addominale ≥102 cm negli uomini e ≥88 cm nelle donne • trigliceridemia ≥150 mg/dL • C-HDL <40 mg/dL negli uomini e <50mg/dL nelle donne • PA ≥130/85 mmHg • glicemia >110 mg/dL (incluso il diabete mellito) La sindrome metabolica è caratterizzata dalla combinazione variabile di obesità viscerale, alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e ipertensione arteriosa. Ha un’elevata prevalenza nell’età matura e senile I portatori di sindrome metabolica presentano spesso microalbuminuria, ipertrofia ventricolare sinistra e rigidità arteriosa; il loro rischio cardiovascolare è elevato, così come il rischio di sviluppare diabete È necessaria la rilevazione ambulatoriale e domiciliare della PA; inoltre, le procedure diagnostiche dovrebbero prestare particolare attenzione alla valutazione del danno d’organo subclinico Tutti i soggetti con sindrome metabolica devono adottare uno stile di vita salutare. In presenza di ipertensione bisogna instaurare trattamento farmacologico con un farmaco che non favorisca l’insorgenza di diabete, quindi un bloccante del sistema renina-angiotensina con l’aggiunta (se necessario) di un calcio-antagonista o di un tiazidico a basso dosaggio. È desiderabile mantenere la PA nel range della normalità La mancanza di evidenze cliniche derivanti da specifici trial non consente di suggerire l’utilizzo di farmaci anti-ipertensivi in soggetti normotesi con sindrome metabolica, anche se vi sono alcune evidenze che il blocco del sistema reninaangiotensina possa ritardare l’incidenza di ipertensione Statine e farmaci antidiabetici dovrebbero essere utilizzati solo in presenza, rispettivamente, di dislipidemia e diabete. Gli insulino-sensibilizzanti hanno dimostrato di ridurre l’insorgenza di nuovi casi di diabete, ma i loro vantaggi e svantaggi in soggetti con intolleranza glucidica o sindrome metabolica devono ancora essere dimostrati 11 6-03-2008 7:02 Farmaci ipolipemizzanti. I dati epidemiologici rilevano che le concentrazioni di colesterolo sono strettamente correlate con gli eventi coronarici, ma non con l’ictus, mentre le statine hanno dimostrato di essere efficaci nella prevenzione di entrambi gli eventi, sia nei soggetti normotesi sia negli ipertesi. Nel più grande studio randomizzato, l’Heart Protection Study, simvastatina fu in grado di ridurre gli eventi cardio-cerebrovascolari in pazienti già cardiopatici. Risultati simili si ottennero con pravastatina (studio PROSPER 62 per cento di pazienti ipertesi) e atorvastatina (studio SPARCL, pazienti con pregresso ictus). Ne consegue che i pazienti (anche anziani) con cardio-vasculopatia (coronaropatia, arteriopatia periferica, pregresso ictus o diabete almeno da 10 anni) devono essere trattati con statina. Il loro obiettivo terapeutico dovrebbe essere colesterolo totale <175 mg/dL e C-LDL <100 mg/dL, potendo prendere in considerazione anche limiti inferiori (155 e 80 mg/dL, rispettivamente). Due trial hanno valutato i benefici delle statine specificamente in pazienti ipertesi: ALLHAT e ASCOT. Nel primo la somministrazione di pravastatina in circa 10mila pazienti, pur riducendo la colesterolemia, non mostrò effetti significativi su coronaropatie, ictus e mortalità. Al contrario, nel secondo, atorvastatina (in oltre 10mila soggetti ipertesi con un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare) determinò una riduzione sostanziale degli eventi cardiovascolari (-36 per cento) e dell’ictus (-27 per cento), probabilmente grazie alla maggiore efficacia ipocolesterolemizzante osservata. I livelli da raggiungere dovrebbero essere <190 mg/dL per la colesterolemia totale e <115 mg/dL per il CLDL utilizzando misure non farmacolo- Page 12 giche e statine. Per chi non è a target (o con ulteriori anomalie lipidiche, per esempio bassi livelli di C-HDL e ipertrigliceridemia) si può considerare – dopo consulenza specialistica – l’aggiunta di ezetimibe o altre terapie. Controllo glicemico. Il diabete e l’intolleranza ai glucidi sono fattori maggiori di rischio cardiovascolare; l’ipertensione, poi, si associa a un raddoppio del rischio di sviluppare diabete tipo 2. Un efficace controllo glicemico è di grande importanza nei pazienti ipertesi: nello studio UKPDS i diabetici ipertesi hanno tratto grande beneficio dal controllo glicemico intensivo, specie per le complicazioni microvascolari. Altri studi hanno dimostrato che trattamenti più intensivi proteggono anche contro le complicazioni macrovascolari e lo studio EDIC ha recentemente dimostrato che questo è vero almeno nei diabetici tipo 1. Esiste un’associazione diretta tra complicazioni micro- o macrovascolari e HbA1c media, senza indicazione della soglia sotto la quale il rischio possa ulteriormente diminuire. L’obiettivo terapeutico per la glicemia preprandiale è 108 mg/100mL, con un’HbA1c <6,5 per cento. L’utilizzo dei diuretici tiazidici e dei beta-bloccanti potrebbe richiedere un trattamento ipoglicemizzante più intenso a causa dei loro effetti sul metabolismo glucidico. Ulteriori informazioni sull’importanza di uno stretto compenso glicemico saranno disponibili dopo il completamento degli studi ACCORD e ADVANCE (di cui è stata recentemente pubblicata una prima osservazione: Patel A, et al. Lancet 2007; 370: 829-40), che valuteranno anche l’effetto protettivo di uno stretto controllo pressorio. La tabella III riassume le indicazioni consigliate. è un progetto della Fondazione Italiana per il cuore Tabella III. Trattamento dei fattori di rischio associati Farmaci ipolipemizzanti - Tutti i pazienti ipertesi con malattia cardiovascolare o diabete tipo 2 dovrebbero essere presi in considerazione per una terapia con statine al fine di raggiungere livelli di Colesterolemia totale <175mg/dL e C-LDL <100mg/dL (o meno, se possibile) - Pazienti ipertesi senza malattia cardiovascolare ma a rischio elevato (>20 per cento di eventi in 10 anni) dovrebbero essere considerati per un trattamento con statine anche se i loro livelli basali di colesterolemia (totale e LDL) non sono elevati Controllo glicemico - Un efficace controllo glicemico è della massima importanza in pazienti ipertesi e diabetici - In questi pazienti il trattamento dietetico e farmacologico del diabete dovrebbe tendere al raggiungimento di livelli glicemici a digiuno <108 mg/dL con una HbA1c <6,5 per cento 12 con un grant educazionale di www.cardiometabolica.org Depositato presso l’AIFA in data 21/02/2008 – Cod. 60515588 CardioNEWS_nr05_esec:numero05