La tutela dei minori

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La tutela dei minori
Indice
Presentazione
Parte prima
Il quadro di riferimento
1. Tutela dei minori e nuove transizioni familiari (P. Donati)
2. Tutela dei minori tra ambito pubblico e sfera privata (F. D’Agostino)
3. Reti e facilitazioni di reti nella tutela dei minori (F. Folgheraiter)
4. Lavoro sociale e tutela dei minori nella storia
del social work (B. Bortoli)
Parte seconda
La partecipazione negli interventi di tutela.
Coinvolgere il minore e la famiglia
1. Il valore delle conoscenze esperienziali (M.L. Raineri)
2. Il lavoro con le famiglie nella tutela minorile:
le Family Group Conference (G. Burford)
3. Il Family Group Decision-Making:
risultati di ricerca utili per il lavoro sul campo (K. Morris)
4. Favorire le interconnessioni nelle situazioni di incertezza:
metodi dialogici relazionali (T.E. Arnkil)
5. La voce dei minori: partecipazione e interventi
di tutela (J. Dalrymple)
6. Ascoltare il minore conteso (M. Malagoli Togliatti)
7. Assessment e progetto di intervento negli allontanamenti:
costruzione e sperimentazione di uno strumento
partecipativo (S. Serbati, M. Ius, S. Me e P. Milani)
Parte terza
Tutelare i legami. Sostegno ai genitori e riunificazioni
1. La relazione con le famiglie d’origine:
una sfida antropologica per le professioni sociali (M. Tuggia)
2. Tutelare i minori prendendosi cura delle loro famiglie:
analisi di un’esperienza di auto/mutuo aiuto (E. Cabiati)
3. Le Comunità di accoglienza e il lavoro con le famiglie
(M. Secchi e V. Calcaterra)
4. Il rientro in famiglia dei minori allontanati (E. Farmer)
5. Esperienze di accompagnamento nelle riunificazioni:
il progetto Tandem (E. Bana)
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6. La mediazione familiare e i gruppi di parola per figli
di genitori separati: accompagnare la riorganizzazione
dei legami familiari (C. Marzotto e M. Bonadonna)
Parte quarta
Famiglie che accolgono. Promuovere solidarietà
1. Per un approccio «comunitario» ai percorsi
di promozione dell’accoglienza familiare
(M. Giordano, M. Iavarone e C. Rossi)
2. Le famiglie affidatarie in rete: indagine conoscitiva
sull’esperienza della Comunità Murialdo
in Trentino-Alto Adige (V. Carletti e M. Pellegrini)
3. Sostenere e accompagnare le famiglie affidatarie (V. Castelli)
4. Io, fratello affidatario: una testimonianza (D. Del Corno)
Parte quinta
Minori in comunità. La qualità dell’accoglienza residenziale
1. Valutazione della qualità relazionale della rete di accoglienza
residenziale per minori in Lombardia (D. Bramanti)
2. Quali qualità nelle comunità per minori? (S. Mandrini)
3. La persona bambino al centro dell’intervento:
l’esperienza del Centro per l’Infanzia di Trento (A. Berloffa)
Parte sesta
Tra due patrie. La tutela dei minori migranti
1. Senza famiglia: la condizione dei minori stranieri
non accompagnati in Italia (G.G. Valtolina)
2. La tutela giuridica dei minori migranti: servizi sociali,
giudici e interesse del minore straniero (L. Miazzi)
3. Il minore e la famiglia migrante: bisogni e pratiche di tutela
tra scuola e servizi territoriali (M. Colombo)
4. SeiPiù: valore, fiducia, riuscita delle seconde
generazioni (L. Tieghi e M. Traversi)
5. Il ruolo dell’Ufficio scolastico provinciale nella tutela
dei minori immigrati: l’esperienza mantovana (L. Balboni)
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Parte settima
Dopo i diciotto anni. Esperienze di accompagnamento all’autonomia 439
1. Uscire dall’assistenza e costruire resilienza: auto/mutuo aiuto,
cittadinanza attiva e lavoro di rete con giovani adulti (F. Zullo)
2. Il Bed & Breakfast Protetto (F. Colombo)
3. L’esperienza dei domicili autonomi (I. Mochen)
Conclusioni
Diamo un orizzonte umano al welfare per i minori 441
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Presentazione
La tutela dei minori è forse l’ambito dei servizi sociali maggiormente
controverso, quello in cui più spesso le decisioni e l’azione dei professionisti
coinvolti (assistenti sociali, psicologi, educatori, magistrati, ma anche insegnanti
e operatori sanitari) sono oggetto di diatribe e polemiche. È anche l’ambito in
cui gli operatori si sentono particolarmente gravati dalla complessità delle situazioni, dalla sensazione di impotenza, dal classico dilemma di come conciliare
le esigenze di controllo e di aiuto/recupero. Si tratta di una posizione scomoda
e contestata, a tal punto che è forte il rischio di demoralizzazione e anche di
burnout, e i livelli di turnover sono spesso elevati, pur nel fascino che da sempre
questo ambito di lavoro esercita sui neofiti. Ci sono difficoltà che possono in
effetti demotivare, far rassegnare all’evidenza di non poter fare più di tanto.
Sappiamo bene che, per i servizi di tutela, il mandato istituzionale esplicito
è molto forte, perché la sofferenza dei più piccoli — una sofferenza innocente — è
forse quella che più scuote a livello emotivo, quella rispetto a cui sembra anche
troppo ovvio si debba intervenire, e intervenire in maniera tempestiva e risolutoria.
Gli operatori si trovano così sulle spalle, in questo campo assai più che in altri,
aspettative pesanti, talvolta quasi miracolistiche. È un po’ come se fossero delegati
a rimuovere dal mondo il dolore più urtante di tutti, quello più faticoso da reggere
e, quindi, quello che più si vorrebbe togliersi dalla vista. E, se gli operatori non
riescono o se sembra arrivino tardi, il biasimo pubblico è ovviamente proporzionale al generale sentimento per cui i più piccoli fanno pena e andrebbero protetti.
Contemporaneamente, però, i servizi si trovano a operare in un contesto in
cui il cosiddetto «superiore interesse del minore» risulta — per lo meno a livello
di rappresentazione collettiva — sempre meno chiaro. Siamo in un campo in
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cui i proclami non si contano più, salvo poi venire continuamente contraddetti
in nome di libertà «altre». Pensiamo alla tutela dell’immagine dei minori sui
media; al susseguirsi di allarmi come quelli su un’alimentazione poco salutare,
o sulla violenza nei videogiochi, o sull’utilizzo indiscriminato della televisione o
del web, poi contraddetti — nei fatti — con tranquilla ipocrisia, in nome della
libertà di informazione, o delle esigenze commerciali, o anche solo del preteso
diritto degli adulti ad avere prima di tutto per se stessi possibilità di scelta,
tempo, spazio, reddito disponibile. O, per fare un altro esempio, pensiamo a
quando l’esigenza di tutela viene riduttivamente avvertita in rapporto all’immagine più superficiale ed esteriore della persona minorenne in questione. Un
bambino piccolo di solito fa tenerezza, ma se invece è un ragazzino rom con uno
sguardo di sfida, o una diciassettenne fisicamente già donna, allora le norme a
loro tutela rischiano, a volte, di essere considerate come fastidiosa burocrazia,
anche qui perché altri interessi prendono il sopravvento.
Ma la difficoltà, per gli operatori, non è solo («solo» si fa per dire) quella
di vedersi attribuire aspettative di tutela molto alte, mentre nel contempo è
decisamente basso il consenso rispetto a cosa significhi tutelare.
Crediamo si possa rintracciare un ulteriore nodo critico, forse in qualche
modo più profondo e pervasivo. È molto diffusa l’idea secondo cui tutelare il
minore significa essenzialmente difenderlo da una famiglia dannosa, in quanto
trascurante o abusante.
Questa idea è sostanzialmente condivisibile, pur nella sua schematicità,
ma ha un grave difetto: porta facilmente a collocare il minore-vittima da una
parte e i genitori-incapaci (o cattivi) dall’altra, e può quindi spingerci a lavorare
con l’atteggiamento implicito che, negli interventi di tutela, porsi dalla parte
del minore (qualsiasi cosa questo significhi) comporti il mettersi contro la sua
famiglia, o comunque prenderne debitamente le distanze.
I ricorrenti processi mediatici che, in questo campo, prendono di mira gli
interventi dei magistrati e degli assistenti sociali, cavalcano spesso proprio una
polarizzazione del genere. Tribunali e servizi vengono visti come «quelli che
portano via i bambini», come autori di «sequestri di stato», contro i genitori
appunto, genitori verso cui si ha buon gioco a muovere la simpatia dell’opinione
pubblica — non da ultimo perché si trovano in giro ben pochi genitori davvero
certi della propria adeguatezza.
Perché gli operatori della tutela tante volte non vedono alternative allo
stare «dalla parte del minore/contro i genitori»? Forse è qualcosa che ha a che
Presentazione
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fare con l’irrealistica aspirazione di poter ridare al minore un’altra famiglia
quasi perfetta. In altri casi può essere invece una specie di scelta di priorità,
del tipo: difficile far qualcosa con questi genitori, lavoriamo almeno per i figli.
A prescindere da come prenda corpo, l’atteggiamento «dalla parte del minore/
contro i genitori» pone gli operatori della tutela in un cortocircuito logico, oltre
che emotivo. Non è realisticamente possibile, credo, essere davvero dalla parte del
bambino se si è contro i suoi genitori, perché in qualche modo i suoi genitori e
la sua famiglia fanno parte di lui, sono parte costitutiva della sua storia e della
sua identità. Anche nei casi limite in cui non sono più presenti da tempo o non
lo sono mai stati, per prenderci cura del minore dovremo prenderci cura anche
dell’immagine di loro che il figlio porta comunque con sé.
Crediamo sia, questa, una grande scommessa per gli operatori dei servizi
di tutela. Una scommessa che va affrontata sul campo e in maniera situata, a
partire dalla realtà contingente, non limitandosi a un dibattito talvolta capzioso su questioni di principio (se sia teoricamente giusto o legittimo, e a quali
condizioni, intervenire nei rapporti fra un minore e chi l’ha messo al mondo),
con il rischio di perdere di vista la vita reale delle persone, che invece dovrebbe
restare al centro di ogni decisione e di ogni intervento.
Un’idea forte che ci siamo proposti di esplorare in questo volume, e nel
Convegno da cui l’opera ha preso avvio,1 è fondamentalmente questa: che i percorsi di tutela minorile, per risultare davvero efficaci, vadano costruiti partendo
dal punto di vista dei minori e delle famiglie interessate. Le famiglie, anche e
soprattutto quelle in difficoltà, vanno ascoltare per poter costruire progetti di
aiuto che siano davvero praticabili per loro, dal loro punto di vista. Perché, senza
questa condizione basilare, crediamo che i progetti di aiuto servano a ben poco.
Vanno in questa direzione alcune delle proposte innovative, alcune già ben
sperimentate a livello internazionale ma poco conosciute o poco diffuse in Italia,
che il testo propone all’attenzione dei lettori italiani: in particolare, i gruppi
di auto/mutuo aiuto per genitori con figli minorenni sottoposti a procedimenti
penali o a provvedimenti tutelari; inoltre, le Family group conferences, riunioni
in cui genitori, parenti e amici vengono aiutati a costruire un piano di tutela
I contributi pubblicati in questo volume si basano su una parte delle relazioni e degli
interventi presentati al Terzo Convegno internazionale sulla Qualità del welfare, dal titolo
La tutela dei Minori: buone pratiche e innovazioni, tenutosi a Riva del Garda nel novembre
2010.
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dei propri minori; il lavoro di operatori appositamente dedicati all’advocacy,
cioè ad aiutare un bambino — anche piccolo — a esprimere ciò che pensa o
ciò che prova rispetto alle decisioni che lo riguardano.
Il volume comunque cerca, per quanto possibile, di proporre riflessioni
riguardo a un ventaglio abbastanza ampio di modalità di intervento, comprendendo accanto ad alcune «novità» anche filoni maggiormente consolidati,
nella convinzione che vi siano ampi margini per ripensare in modo proficuo ai
lati positivi di quanto si sta sperimentando da tempo, e per realizzare ulteriori
miglioramenti. Particolare attenzione viene data a una «lettura relazionale»
dei vari interventi, vale a dire alla loro capacità di essere riflessivi e consistenti
nel gestire i contesti relazionali, facilitando il dialogo e la compartecipazione
alle decisioni tra i diversi soggetti interessati (minori, genitori, altri familiari,
volontari, professionisti, ecc.), pur senza disattendere la cornice normativa del
controllo istituzionale.
Pierpaolo Donati, Fabio Folgheraiter e M. Luisa Raineri
Capitolo terzo
Reti e facilitazione di reti
nella tutela dei minori
Fabio Folgheraiter
(Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Il contributo di Pierpaolo Donati (in questo volume) dice della fluidità
delle transizioni familiari e dell’utilità strategica di uno sguardo relazionale
per contrastare gli effetti di tale instabilità. L’idea di relazione contempla allo
stesso tempo stabilità e fluidità ed è proprio questa sua ambivalenza che la
rende un concetto formidabile, dato che la scivolosità e la complessità della
materia sociale richiedono sia duttilità sia fermezza (di pensiero e di azione)
per venirne a capo in qualche modo, come nel judo quando ci si flette e al
contempo si fa leva su se stessi per sbilanciare l’avversario. Il semplice resistere,
l’opporre un muro al dilagare delle libertà che producono danni e disagi, comporta l’evidente rischio di farsi spazzare via dalla forza degli eventi. La libertà
distruttiva chiama come antidoto libertà costruttiva, e non limitazioni cieche.
Vorrei appoggiarmi a queste premesse per inquadrare metodologicamente
la materia spinosa della tutela dei minori e dell’aiuto alla genitorialità, evidenziando in primo luogo che la massima flessibilità del pensiero in questo
campo minato è affermare subito ciò che è implicito e dirompente nella
metodologia relazionale: vale a dire che io, professionista, posso tutelare
davvero il minore se trovo il modo di fare sì che il minore in qualche grado
tuteli un poco anche me, proprio mentre io lo tutelo. Flessibilità è affermare
che io posso davvero aiutare la genitorialità solo se consento ai genitori di
aiutarmi mentre io aiuto loro.
Come sappiamo, i servizi sociali e giudiziari si trovano in questo
momento in una certa impasse strategica e tecnica, di fronte al compito di
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tenere a bada le famiglie. Da questo impantanamento si esce, a mio avviso,
a una precisa condizione: che i servizi trovino il modo di aprire dei canali
affinché le famiglie possano anche loro, in parte, «tenere a bada» i servizi
stessi, per così dire. Meglio: che i servizi trovino il modo di aprire dei canali per far sì che le famiglie possano essere benefiche per i servizi, nello
stesso tempo e allo stesso modo di come i servizi lo sono per le famiglie.
Astrattamente, diciamo che dobbiamo immettere circolarità — autentica
relazione, cioè reciprocità — nelle prospettive della cura, affinché sia umana
e dunque realmente efficace.
Reciprocità vuol dire rispettare la famosa regola aurea del «non fate
agli altri ciò che non vorreste che essi facessero a voi». Questa regola dice
agli operatori: non fate alle famiglie ciò che non vorreste che le famiglie
facessero a voi. Volta al positivo: operatori, cercate di fare alle famiglie ciò
che voi vorreste che esse facessero a voi. Ad esempio: noi operatori vorremmo
che le famiglie si fidassero di più di noi? Allora fidiamoci di più di loro…
Vorremmo che le famiglie ascoltassero di più le nostre raccomandazioni?
Allora ascoltiamo di più le loro… Vorremmo che le famiglie cambiassero
il loro modus vivendi? Allora se necessario cambiamo anche noi il nostro
modus operandi, e così via. La circolarità relazionale è essenziale in tutte
le cure, ma forse ancor più nella tutela dei minori, anche se il campo ci
appare come il legittimo regno dell’unidirezionalità, fino agli estremi
della coazione.
Perché questa intuizione relazionale non sia solo una provocazione
o uno slogan a effetto, proverò ad articolare il ragionamento partendo da
due evidenze:
a) La prima è che, nonostante i procedimenti di tutela siano per l’appunto
«procedimenti» e quindi debbano avere una loro rigidità e impersonalità,
essi non possono rimanere delle macchinette standardizzanti indifferenti agli esiti. Nonostante il fine della tutela sia quello di mantenere
o ripristinare un ordine, l’auspicato ordine risultante dovrebbe essere
plasmato in contenuti ad hoc — auspicabilmente i più alti possibile in
ogni situazione data. Questo imperativo deontologico verso la massima
individualizzazione e la massima sensatezza della azione istituzionale si
impone perché la materia di cui parliamo non è una materia qualsiasi,
ma è la nuda vita, come direbbe Agamben: l’umanità più esposta e più
indifesa, di fronte a se stessa e di fronte al diritto impersonale.
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b)La seconda evidenza è che la ricerca di un nuovo ordine, il più alto
possibile, emergente dall’eventuale caos che qui in questo momento
mettesse a rischio la vita futura di un minore e ponesse la famiglia alla
mercé delle istituzioni, è per definizione un processo polifonico. Per
l’appunto: troppo alta e delicata è la posta in gioco per permettere a
una sola voce, o a poche voci, di prevalere. È sempre un guaio quando a
prevalere e a prendere la decisione è una voce solitaria, anche se questa
voce fosse illuminata e non, come a volte può anche accadere, una voce
standardizzata o sgraziata. Abbiamo bisogno di più voci, ma non basta: è
necessario che ciascuna voce in campo parli una lingua ragionevole, cioè
sia aperta alla riflessività.
E qui incontriamo il paradosso della tutela. La protezione dei minori
è un campo ad alta normatività, in cui le regole sono preziosissime perché
servono a garantire oggettività, rigore e senso dell’equità, per tenere a bada
da un lato la eventuale distruttività della famiglia e dall’altro i possibili abusi
degli operatori. Ma proprio tenendo fermo questo principio diciamo che
abbiamo bisogno di forzare il fronte dal lato contrario. Un po’ di speranza,
rispetto al disastro in cui ci ha cacciati la nostra cultura tecnologica, potrà
venire solo da una robusta irrorazione di riflessività — vale a dire dalla libera
ragionevolezza degli umani coinvolti.
E questo è il paradosso: l’espressione del libero pensiero è proprio ciò
che la regolazione tende a limitare. Se io legittimamente fisso una regola,
faccio questo allo scopo preciso di impedire a Tizio e a Caio, e a chicchessia,
di pensare come crede nella situazione contingente x o y. Voglio far sì che
si attenga al mio canovaccio e sia in qualche modo obbligato a seguire una
pista. Se anche avesse una idea migliore, la deve tenere nel cassetto. Diciamo
che è riflessivo il regolatore, affinché sia un poco irriflessivo, al limite quasi
automatizzato, l’agente regolato.
Questa logica però, a ben vedere, non tiene. Non vale neanche nella
pratica pura del diritto, come ci ha mostrato Zagrebelsky nel suo libro
Intorno alla legge (2009). Anche un puro «applicatore» della legge, quale
è un giudice ad esempio, non applica mai semplicemente la norma. La
legge va sempre ragionata e re-inventata mentre la si usa in pratica. Se è
così nella fredda giurisprudenza, figuriamoci nel welfare! Come possiamo
promuovere o ripristinare il welfare senza riflessività e ponderazione, la più
ampia e condivisa possibile?
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La questione è quella di capire a fondo come tenere assieme queste
due istanze, quella oggettivizzante del procedimento e quella soggettivizzante del senso degli svariati attori (stakeholders) che sul campo giocano la
partita. L’istanza oggettiva è «sovra-umana» per così dire, cioè «sta sopra» la
volontà degli uomini; quella soggettiva è umanissima — o troppo umana,
come direbbe Nietzsche — cioè viene fuori dall’intimo degli uomini nel
loro arrabattarsi qui e ora.
La soggettività deve plasmarsi e crescere nella relazione fino a toccare
di volta in volta un punto di arrivo sensato e ragionevole, una sorta di
creatività realizzata che il procedimento astrattamente contempla ma che
mai avrebbe potuto produrre senza l’animo ben disposto degli uomini. E
però quella soggettività volenterosa forse non sarebbe andata da nessuna
parte se nel contempo un’oggettività ex ante non l’avesse sorretta e sospinta,
come quando una arteria elastica, rilasciandosi e comprimendosi, spinge e
direziona i flussi la dove ce n’è più bisogno, in una miriade di destinazioni
e distretti vitali.
Queste ambivalenze di cui parliamo — fluidità solida; creatività incardinata, ecc. — ci portano alla famosa metafora della rete, che è il tema
di questo contributo. Purtroppo la rete ormai è diventata una immagine
un poco consunta, perché di questo concetto si è abusato in questi anni
tirandolo in mezzo a proposito e a sproposito, forse più spesso in questo
secondo malo modo. Vorrei allora spendere qualche parola per dire che cosa
è una rete nel nostro modo di vedere.
Una rete è un insieme di punti autonomi e però collegati. La loro autonomia non li fa chiudere nella solitudine, a protezione della loro intangibilità,
ma anzi li incoraggia ad aprirsi e andare alla ricerca di contatti e scambi.
Sottolineo: è proprio il fatto di sentirmi sicuro della mia autonomia — la
consapevolezza che nessuno mi potrà costringere a fare qualcosa che io non
voglia — che mi incoraggia a tentare l’incontro con l’altro. Ovviamente
l’incontro sarà più produttivo e utile per i nodi coinvolti quanto più ciascuno è portatore di una originalità, una differenza costitutiva che arricchisce
l’insieme intero. Se tutti fossero uguali o molto simili, gli scambi sarebbero
inutili, apporterebbero poca novità, perché è dalla mescolanza costruttiva
delle differenze che si crea nuova intelligenza.
Gli esseri umani formano reti quando si relazionano da autonomi soggetti e ragionano alla pari pur essendo diversi, pur essendo eventualmente,
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in origine, portatori di un diverso tenore intellettuale o ruolo o status sociale
(«in origine» significa: prima e al di fuori di quella rete cui si riferiscono).
Come singoli nodi, le persone sono diverse in sapienza ed esperienza, ma
come rete esse controbilanciano le diversità in un legame che le fa ragionare
da eguali in linea presuntiva (cioè dicono cose diverse, ma tutti le possono
«dire» allo stesso modo, affinché assieme si possa rielaborare con calma il
contributo di tutti).
Queste sono quindi le caratteristiche identitarie di una vera rete —
persone diverse ma alla pari, ciascuna importante allo stesso grado per
arrivare ad una decisione condivisa. Per esclusione capiamo allora che cosa
è una non-rete, per così dire, o una rete apparente, quando non posticcia.
Se, ad esempio, le persone in relazione sono imbonite da un leader e il loro
cervello va all’ammasso, esse formano piuttosto branchi, o per l’appunto
masse. Se il loro cervello è squadrato dentro direttive per cui debbono eseguire comandi superiori, formano squadre o quadriglie o reparti dell’esercito
o uffici burocratici ideal-tipici, di weberiana memoria. Se il loro cervello
e il loro linguaggio sono forzati entro una teoria o un sapere specializzato,
cosicché ciascuno incontra l’altro non per ragionare con lui ma per spiegargli
il proprio sapere codificato o al limite anche per farlo prevalere, abbiamo
qualcosa di simile a certe équipe multiprofessionali, come ce ne sono nei
nostri servizi. In generale, quando le persone servono ciascuna a un fine,
affinché poi dal loro incastro funzionale esca un qualche funzionamento
semi-automatico, abbiamo un sistema. Il sistema è una forma di interazione
umana predefinita, un cliché, una struttura portatrice di un suo senso
funzionale, ma neanch’esso è una rete (nonostante vi sia chi continua a fare
confusione su questa distinzione).
La tendenza dei servizi sociali moderni è quella di costruire dei meccanismi relazionali più che delle reti, meccanismi per giunta pensati a vantaggio
dei servizi stessi. Le équipe, ad esempio, sono congegni finalizzati a integrare
saperi e forze così da costituire una specie di falange romana ben compattata
contro il «nemico», per scongiurare il rischio che gli specialisti restino con
un palmo di naso di fronte alle resistenze, e alle impertinenze perfino, dei
soggetti-utenti. Il paradosso è che tanto più sono considerati deboli i soggetti
da curare, tanto più i servizi sentono la necessità di rafforzarsi per venirne
a capo, di fare gioco di squadra e di alzare il livello tattico degli interventi
(il loro grado di malizia, potremmo dire).
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Quelle che vengono spesso impropriamente definite reti, nel linguaggio
gergale dei servizi, sono delle «sante alleanze» tra solutori affinché si eviti di
fare brutta figura nella lotta contro i problemi, nella tacita ipotesi che i problemi umani debbano essere tecnicamente sbaragliati, più che umanamente
fronteggiati. Tutto questo arroccamento costruito sulla retorica delle reti è
paradossale e in aperto contrasto con lo spirito dell’empowerment, invocato
a destra e a manca ma non sempre a proposito.
Venendo al dunque, diciamo che nella tutela minorile abbiamo bisogno
di reti autentiche, non di loro simulacri. I servizi hanno bisogno di evocare lo
spirito autentico della rete proprio quando sembrerebbe il contrario, quando
cioè l’intervento sociale sconfina nell’imposizione, quando sembrerebbe di
essere costretti a non guardare in faccia nessuno. Quando siamo chiamati
a fare tutt’altro rispetto a collaborare, quando cioè dobbiamo impedire alle
persone di fare quello che vogliono sulla base del fondato timore che esse
facciano danni, e danni grossi, se lasciate libere di esprimere la loro soggettività — soggettività che noi dall’esterno anche giustamente possiamo
considerare «malata» o «viziata» o «minata» o «deviante» ecc. — proprio
in quel momento dobbiamo cercare di uscire dagli schemi intuitivi e fare
uno scatto mentale.
Ragionando contro-intuitivamente ma sensatamente dobbiamo capire
che proprio quando vi è la necessità assoluta di interferire nella vita altrui,
quella vita se possibile va tenuta in gioco. Va messa in rete e rispettata, non
combattuta. Lo stesso procedimento dovrebbe tenere conto che, nel ragionamento che porta a prendere decisioni sulla vita di un essere «altro», in
quel ragionamento Alter debba esserci sempre. O meglio, diciamo che deve
esserci fino a prova contraria, vale a dire fino all’evidenza dimostrata che non
voglia saperne di essere tenuto in gioco e che anzi l’unico suo desiderio sia
quello di far saltare il tavolo e rimanere senza freni. Ma prima di attribuire
un tale sentimento autodistruttivo ad una famiglia, occorre averne le prove
empiriche certe, perché in linea logica è sensato presupporre il contrario.
Il principio generale cui dovremmo attenerci è che ogni persona e
anche ogni famiglia non può essere indifferente a se stessa e al proprio
soffrire; che ogni famiglia in fondo avverte che cosa è bene per lei; magari
non sa esprimerlo, quel suo sentire, tanto meno verbalmente; di più, magari
non sa agire spontaneamente in direzione di quel tale ipotetico bene, e anzi
fa l’esatto contrario. Anche di fronte a tali evidenze, tuttavia, dobbiamo
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chiederci se è proprio così, se il comportarsi in apparenza contro il proprio
bene voglia dire davvero non averlo a cuore. Perché vi sono da considerare
anche le condizioni entro cui un comportamento irragionevole viene messo
in atto. Non sempre il comportarsi in un certo modo in condizioni di stress
e tensione vuol dire volere davvero quel che si fa. Per cui il quesito è: in altre
condizioni meno traumatiche e turbolente, che cosa succederebbe?
Un ragionevole pensiero metodologico ci dovrebbe portare pertanto a
supporre che quando una famiglia può riflettere a fondo su se stessa, schermata
dalle tensioni o dal caos della vita quotidiana fuori controllo, essa in genere
può riconoscere il proprio interesse autentico e può arrivare a desiderare un
auspicabile movimento in avanti. Forse non sempre è esattamente il movimento che pretenderebbe un’entità esterna a quella famiglia (un giudice
o un assistente sociale, uno psicologo, ecc.) ma comunque può essere un
movimento costruttivo — un muoversi verso un bene maggiore — tra i tanti
teoricamente possibili. Il compito dei servizi è portare la famiglia entro la
cornice schermata di un ambiente compatibile con il ragionamento calmo
e alla pari, che è tipico di una rete vera.
Nella tutela minorile il welfare viene fuori quando la famiglia è disposta a mettere in gioco la propria rigidità e accetta il cambiamento, cioè
la sfida di rielaborare la propria situazione e pianificare un nuovo progetto
di vita assieme ai servizi. Analogamente i servizi dovrebbero anch’essi
essere disposti a mettere in questione le loro rigidità non necessarie e
accettare anch’essi la sfida della flessibilità, cioè accettare di ripianificare
il loro stile operativo nel contatto con la famiglia, a mano a mano che un
ragionamento condiviso viene avanti. Ora, questo incontro alla pari in
rete non può avvenire per caso. Richiede un certo lavoro, una fatica mirata
esattamente a quell’esito.
È questa fatica finalizzata a sostenere le relazioni che noi denominiamo «lavoro di rete» e che dovrebbe essere assicurato primariamente dagli
operatori sociali. In essenza, si tratta di un lavoro di facilitazione, vale a dire
uno sforzo per rendere più facile, agevole e sciolto, il lavoro altrui mirante
allo stesso fine del nostro. Un operatore relazionale è facilitatore quando
non si affatica per risolvere lui o per imporre lui un intervento, ma quando
sostiene altre persone motivate nel progettare una azione condivisa, di cui
lui stesso è parte. E, fortunatamente, questo stile operativo è più facile da
agire che da capire in teoria.