leggi in pdf - Cultura Commestibile

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leggi in pdf - Cultura Commestibile
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77
uesta settimana
il menu è
DA NON SALTARE
Kerry Kennedy,
paladina dei diritti
“
Taxi!!!!
Io ho utilizzato Uber a New York
con un amico. L’ho trovato un servizio
straordinario, dalla prossima settimana
affronteremo anche questo
Matteo Renzi poche ore dopo
che il ministro dei Trasporti Maurizio
Lupi aveva detto che
una ‘declinazione’ del servizio,
‘Uberpop’ “contrasta con la legge”
Siliani e Morrocchi a pagina 2
PICCOLE ARCHITETTURE
Un aeroporto
piccolo piccolo
Stammer a pagina 5
OCCHIO X OCCHIO
L’espressionimo
astratto di Siskind
Cecchi a pagina 7
PECUNIA&CULTURA
Cosa c’è nel nuovo
decreto cultura
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
San Gimignano
made
in Cina
Giani
in 3D
Siliani a pagina 9
C
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.com
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di Simone Siliani e Michele Morrocchi
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sabato 17 maggio 2014
DA NON SALTARE
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Foto di Harry Benson
[email protected] twitter @michemorr
M
ary Kerry Kennedy è nata
a Washington nel 1959, figlia di Robert Francis
Kennedy e di Ethel Skakel
Kennedy, settima degli 11 figli della
coppia. Dal 1981 Kerry è un’agguerrita attivista per i diritti umani; nel
1988 ha fondato il Robert F. Kennedy
Center for Human Rights e fino al
1995 è stata direttrice del Robert F.
Kennedy Memorial. Concede questa
intervista in esclusiva a Cultura Commestibile nei locali del Centro Robert
F.Kennedy alle Murate a Firenze,
dove la Fondazione ha trovato casa da
qualche anno e svolge un’intensa attività di promozione della cultura dei
diritti umani e della giustizia.
Suppongo che essere qui a Firenze, nella
sede della Fondazione Robert Kennedy,
sia per lei un risultato e una emozione
particolare. Vogliamo partire da qui per
questa intervista?
Sono felice di essere a Firenze. E’ una
città in cui ci sono più di 40 Università, tantissimi giovani (a partire dal
suo sindaco), molta energia; è la città
della formazione in Italia, ma anche
un punto di riferimento in Europa.
Una città con una profonda e ricca
storia, legata alla comunità internazionale. Quindi il posto perfetto per la
nostra International RFK House. E
poi le Murate sono un luogo straordinario: è stato un monastero per quasi
mille anni, poi è diventato il carcere
minorile. Ha una straordinaria energia
e avverto qui un così intenso senso di
pace. E’ un luogo che ha fatto una profonda esperienza di sofferenza e molta
spiritualità. E’ il luogo perfetto per il
lavoro che stiamo facendo con i difensori dei diritti umani nel mondo.
Parlando di giovani, molti sono venuti a
visitare la mostra fotografica “Freedom
Fighters” sul movimento per i diritti civili
negli Stati Uniti, che avete organizzato
alle Murate: cosa attrae ancora, dopo
mezzo secolo, di quel movimento gli adolescenti di oggi?
Penso che il movimento per i diritti
civili ha sollevato alcuni valori universali; i temi dell’alienazione, delle persone che lottano per la giustizia,
dell’importanza del coraggio,di impegnarsi per i diritti, per una causa che è
più grande di te stesso, del sacrificio
per la tua comunità. Queste sono
tutte cose che erano importanti per il
movimento dei diritti civili e di cui i
giovani fanno esperienza nella loro
vita di ogni giorno. Sono i giovani che
si prendono cura degli altri, che usano
il potere non per promuovere se
stessi. I giovani capiscono queste cose
e vogliono che la loro vita sia da questo caratterizzata, sia che si impegnino
contro il bullismo nelle scuole, sia
quando pensano alla loro visione su
come vanno le cose nel mondo, in
Siria come in Nigeria o in Crimea. Ciò
che è avvenuto in Nigeria non è qualcosa del passato o di un paese lontano: avvengono qui, oggi, nella
nostra comunità.
I diritti
civili
per una
Kennedy
Foto di Harry Benson
Il movimento per i diritti civili sembra
essere una storia infinita: qual è la situazione oggi negli Stati Uniti sotto questo
profilo?
Ovviamente le cose sono cambiate
drammaticamente negli ultimi 45
anni; ma detto questo, abbiamo ancora una lunga strada da percorrere
per i diritti civili degli afro-americani,
oppure se guardiamo al tema dell’educazione, oppure alle disuguaglianze
sociali, lo squilibrio di rappresentanza
nel governo (tanto a livello locale che
nazionale, che nelle imprese). C’è ancora tanta strada da fare per la popolazione afro-americana negli Stati
Uniti. Ci sono problemi di altre minoranze. Così come per i diritti delle
donne: 72 centesimi su 1 dollaro sono
prodotti dagli uomini. C’è ancora
molto razzismo nei confronti dei latinos, degli asiatici. Quindi, sì, c’è ancora molto da fare.
E dal suo punto di vista l’Amministrazione Obama è stata sufficientemente
impegnata sulla causa dei diritti umani?
Beh, sì e no. Sì, in generale è stata una
questione molto importante e il fatto
di avere un afro-americano come Presidente e Michele Obama come first
lady e le loro due straordinarie e adorabili figlie alla Casa Bianca è simbolicamente molto importante. Alcune
delle istanze che hanno abbracciato,
ad esempio l’obesità, è un grande
tema di sanità nella comunità afroamericana. Detto questo, il Presidente
Obana non ha fatto di questi temi il
punto focale della sua amministrazione; non ne fa oggetto dei suoi discorsi pubblici e non promuove
continuamente il dibattito intorno a
questi temi. Quindi c’è ancora molto
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da fare.
La vostra Fondazione in questo momento su quale specifico problema dei
diritti umani si sta focalizzando?
Stiamo facendo molto lavoro sui diritti delle minoranze LGBT, in particolare in Uganda dove hanno appena
approvato una legge che punisce con
il carcere queste “deviazioni” sessuali.
Questo è un tema rilevante anche qui
in Italia, dove c’è molta omofobia;
così come nel mio paese. Non c’è bisogno del passaporto per trovare
l’omofobia. Un altro tema, parlando di
razzismo, su cui stiamo lavorando: abbiamo appena aperto una petizione
contro il governo della Repubblica
Dominicana per una sorta di “pulizia
etnica” che ha perpetrato contro i Dominicani discendenti di Haiti attraverso una legge che nega e revoca loro
la cittadinanza pur essendo nati nella
Repubblica Dominicana. Inoltre in
Messico stiamo lavorando sui diritti
delle popolazioni indigene, in particolare sul diritto all’educazione. Questi
sono temi che hanno tutti a che fare,
in qualche modo, con l’alienazione di
minoranze nella società. Quindi,
anche se sono dislocati in diverse
parti del mondo, le troviamo tutte
anche nelle nostre comunità e ci sono
molti insegnamenti da trarre da queste campagne anche per noi. Io sono
particolarmente contenta del lavoro
che stiamo facendo qui a Firenze: al
Centro per la Giustizia e i Diritti
Umani “Robert F.Kennedy” abbiamo
organizzato 15 mostre fotografiche
sul tema dei diritti umani; nell’ultimo
anno abbiamo avuto migliaia di visitatori e tantissime scuole. Abbiamo
anche formato oltre duecento Difensori dei Diritti Umani nel nostro programma di formazione: abbiamo, ad
esempio, formato degli “attivisti digitali”; abbiamo utilizzato i social media
per favorire il cambiamento nella società. Organizziamo i “Martedì dei
Diritti Umani” in cui invitiamo esperti
a parlare di questi temi con i cittadini.
Ha fatto cenno agli “Attivisti digitali”.
Sembra che le tecnologie digitali hanno
ampliato le possibilità per i cittadini di
avere consapevolezza delle violazioni dei
diritti umani. In fondo la Primavera
Araba è nata attraverso i twitt dei giovani arabi nelle piazze. Tuttavia, di
fronte a questa accresciuta consapevolezza, la politica sembra non essere in
grado comprendere e tradurre questa
consapevolezza in azione politica e leggi
a tutela dei diritti umani e della giustizia.
Direi che è una lotta continua e noi
dobbiamo affrontare questo scontro.
Ci sono molte storie di successo del
movimento per i diritti civili nel determinare cambiamenti politici.
Quando ho iniziato a lavorare nel
campo dei diritti umani agli inizi degli
anni ‘80, gran parte dell’America Latina era dominata da dittature di destra ma oggi nessuna di quelle
dittature è in piedi. Tutta l’Europa
orientale era sotto il comunismo,
mentre oggi non c’è più nessun leader
comunista rimasto in quella parte del
DA NON SALTARE
Intervista
alla figlia
di Bobby, Kerry
Robert F.Kennedy International
La “Robert F.Kennedy International House” si è trasferita a Firenze alla fine del
2011, nella sede delle Murate restaurate dal Comune di Firenze e restituite alla
città, trasformandole da luogo di sofferenza in luogo di pace. Prima di questo trasferimento, il Centro europeo si occupava soltanto del progetto educativo “Speak
Truth to Power”, che nasce da un libro-intervista a 51 leader dei diritti umani che
Kerry Kennedy pubblicò tra il 1998 e il 1999, girando il mondo e toccando il maggior numero di paesi possibili. Il progetto si compone di un manuale educativo, di
una pièce teatrale scritta da Ariel Dorfman e da una mostra fotografica su questo
lungo viaggio. Sono state distribuiti oltre 900.000 di questi manuali educativi, di
cui circa 100.000 qui in Italia, con altrettante attività didattiche che si svolgono
nelle scuole. In questa attività vengono, talvolta, coinvolti di difensori dei diritti
umani e quelli che definiamo i “local hero”, cioè i testimoni italiani dei diritti
umani che aiutano gli studenti a far capire che questi temi non sono lontani, riguardano ciascuno di loro. La pièce teatrale è stata interpretata negli Stati Uniti
da grandi attori come Meryl Streep e Martin Sheen; in Italia è stato Lucio Dalla a
curarne la regia e ad organizzare un grande spettacolo e un tour in tutta Italia fra
il 2003 e il 2004. Ma lo spettacolo teatrale ha avuto versioni video realizzato da
alcune scuole e una rappresentazione in un carcere in Romania portata in scena
dai detenuti (uno dei quali scritturato poi in una compagnia teatrale).
Qui a Firenze abbiamo creato un Centro di alta formazione sui diritti umani, non
più solo per gli studenti delle scuole medie e superiori, ma anche per gli universitari
e i professionisti. All'interno del Centro vengono anche ospitati i “digital activist”,
coloro che si battono per i diritti umani attraverso le tecnologie digitali. Abbiamo
costruito la International House: 12 camere in cui vengono ospitati questi attivisti
a Firenze, dove lavorano insieme e seguono corsi di aggiornamento e formazione.
Al Centro si svolgono attività culturali, fondate sul legame fra arte e diritti umani,
con mostre (fra le quali “Freedom Fighters” sulla storia del movimento dei diritti
civili negli Stati Uniti, “Ladies for Human Rights” dell'artista romano Marcello
Reboani che ha omaggiato 18 donne che hanno dedicato la loro vita ai diritti
umani)
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mondo: tutti vivono sotto regimi democratici. In Sudafrica eravamo agli
apici dell’apartheid, e oggi il Sudafrica
può vantare una serie di governi eletti
democraticamente da tutto il popolo.
Marcos dominava le Filippine; avevamo i militari al potere in Corea del
Sud; i diritti delle donne non erano
nell’agenda politica. Tutti questi cambiamenti sono avvenuti non perché i
governi li hanno voluti e guidati; né li
volevano i militari o le multinazionali.
Sono avvenute per merito delle persone comuni che hanno abbracciato
la causa, il sogno dei diritti umani e li
hanno resi reali. Penso che il movimento per i diritti umani ha una
grande storia di successi. Infatti, se ci
guardiamo intorno nel mondo di oggi
– anche se ci sono ancora tante sfide
e minacce – penso che Martin Luther
King aveva ragione: la storia si piega
verso la giustizia. O almeno dobbiamo piegarla in tal senso.
C’è una discussione in corso sulla natura
di regimi politici come quello di Putin in
Russia e alcuni le definisco “democrature”, cioè regimi che hanno la forma
della democrazia, ma la sostanza di una
dittatura.
Parliamo di Putin e la democrazia. La
democrazia non è soltanto voto popolare, ma ha bisogno di molto di più: libere e giuste elezioni certo, ma anche
istituzioni democratiche, libera
stampa che garantisca libere elezioni;
implica la possibilità che i cittadini abbiano reale accesso all’educazione per
tutti, a un welfare decente, al lavoro,
alla casa. Tutti questi diritti di base
che consentono ad una democrazia di
fondare solide radici. Così la presa del
potere di Putin in Crimea è una sorta
“putsch” da parte di un leader autocratico. Ma, abbiamo visto le recenti notizie dei cittadini che hanno respinto
le truppe russe, quindi c’è ancora speranza grazie alla gente comune.
Per concludere, ci piacerebbe un suo pensiero su suo padre, sulla traccia che ha
lasciato nella vita sociale e politica negli
Stati Uniti di oggi.
Penso che la vita di mio padre è, alla
fine, riassumibile nel detto “togli il tuo
stivale dal suo collo!”. Lui ha speso
tanta parte del suo tempo a cercare di
fermare i bulli del mondo e lui veramente credeva nella dignità umana e
nella necessità e urgenza di proteggerla e promuoverla. Quando Martin
Luther King morì, lui citò il filosofo
greco che disse “Noi dobbiamo sforzarci di domare il selvaggio che è in
ogni uomo e rendere gentile la vita del
mondo”. Ecco per cosa ha speso la sua
vita. Ed è, in fondo, quello che stiamo
facendo qui al Centro “Robert Kennedy: addomesticare il selvaggio
nell’uomo, indagare sugli abusi dei diritti umani, spingere i governi al cambiamento, portare i tribunale quelli
che violano i diritti umani, difendere
le vittime, creare il cambiamento. Allo
stesso tempo, rendere gentile la vita
del mondo, liberare le persone con
l’amore, la dignità, l’allegria, la gioia.
E’ tutto quello che stiamo cercando di
fare.
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LO ZIO DI TROTSKY
LE SORELLE MARX
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LA STILISTA DI LENIN
Vinceti
ai Caraibi
matrimonio
S.Gimignano made in Cina Un
da favola
E via, verso nuove avventure! Il nostro mito, Silvano Vinceti, l’Indiana
Jones de’ noantri, dopo aver dato
una spolveratina alle ossa della Gioconda, sta veleggiando verso le
coste caraibiche
di Haiti alla
ricerca di
nuove ossa di
morto, quelle
del capitano
della caracca (o
come si dice volgarmente, la caravella) ammiraglia di Cristoforo Colombo, la “Santa Maria”,
incagliata e affondata la notte di
Natale del 1492 su un reef dell’isola. L’amichetto del Nostro,
l’esploratore subacqueo Barry Clifford, è sicuro di aver trovato il relitto
e, quindi, si è affrettato a chiamare
il più famoso necrofilo del mondo.
“Hello Silvano, how are you? I have
a great occasion for you: come in
Haiti to find the bones of Cristoforo
Colombo! I found the Santa Maria!
Take your bathing suit and solar
cream!”. E’ noto – e anche il Vinceti
lo sa – che Cristofono abbandonò la
nave insieme alla ciurma, ma vuoi
che qualche scheletro di marinaio
non sia affogato da quelle parti? E
che ci vuole? Qualche bel video per
la Fox e il gioco è fatto! Poi mettiamo tutto in mostra nel bel complesso di S.Orsolas, vicino a capo
Guacanagari.
Dopo essere stata liquidata dalla
Regione Toscana, all’agenzia di comunicazione Ls&Blu di Roma non
sapevano che cosa farsene delle immagini ritoccate con Phtotoshop
della Toscana della campagna di
comunicazione “Divina Toscana”.
Ci hanno pensato su qualche
giorno, hanno fatto un po' di telefonate e hanno trovato la quadra: “la
vendiamo ai cinesi: quelli ormai si
comprano tutto il Tuscan sound”.
Ed ecco che quelli hanno fatto una
cineseria: hanno deciso
una San Gimignano formato Disneyworld: una
copia perfetta della cittadella medievale in stile outlet, in cui
sfogare i milioni di turisti cinesi. E
hanno scelto la campagna di comunicazione della Ls&Blu riveduta, corretta e ri-taroccata, per una manciata
di yen. Nella comunicazione è come
nella legge di conservazione della
massa postulato da Lavoisier: nulla si
crea, nulla si distrugge, tutto si ricicla.
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
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I CUGINI ENGELS
Registrazione del Tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
Nem Nuovi Eventi Musicali
Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
contatti
www.culturacommestibile.com
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www.facebook.com/
cultura.commestibile
“
“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
Come tutte le giornaliste che si occupano
di moda ed eventi aspetto con ansia questa sera il matrimonio dell’anno, a Firenze al Forte di Belvedere, tra Kim
Kardashian e Kanye West. La messe di
ospiti prevista (da Jay Z a Beyoncé, da
Janet Jackson a Alicia Keys) e il loro
look assicurano materiale per critiche
per i prossimi lustri. Per non parlare
della sposa spesso più famosa per la sua
assenza di capi di abbigliamento che per
la presenza. Ma un'altra curiosità mi attanaglia oggi: sapere se qualcuno dei nostri vip riuscirà a imbucarsi all’evento.
Magari il vicesindacoreggentecandidatoquasisindaco Nardella a rappresentare
la città. E soprattutto come si vestirà per
andare all’evento? Al povero Nardella
infatti chi cura la campagna elettorale
han detto che doveva dare un’immagine
giovane di sé per che lui ha interpretato
semplicemente togliendosi la giacca e la
cravatta ma rimanendo impettito in camicie bianche da abito a cui mai ha tirato su le maniche o slacciato un bottone
oltre a quello del colletto. Sconsigliamo
anche, nel caso volesse presenziare alle
nozze rap, quei golfini dai colori smorti
che hanno caratterizzato le serate del
candidato o la polo Fred Perry (ma non
era di destra negli anni ’70?) blu con
logo evidenziatore portata alle cascine.
Oddio nemmeno presentarsi con pantaloni vita bassa tre taglie superiori canottiera bianca, gioielleria bene in vista e
cappellino da baseball per avere un look
rap potrebbe essere una buona idea.
Qualunque cosa voglia però indossare
una cortesia, capisco che deve dare di sé
un immagine positiva e rassicurante ma
quel sorriso stampato e forzato, per una
volta lo lasci a casa.
Giani in 3D
VRQJVRQJ
Parlando di un libro sulla storia della musica forse è sconveniente parlare di una voce fuori
dal coro. Ma è la prima sensazione che sgorga leggendo il libro di Glauco Ferretti che, finalmente ci viene da dire, smonta i mitologici anni ‘60. Non si parla qui delle ragazzine
urlanti per i Beatles al Vigorelli, oppure del cantautorato impegnato che tra eskimi e chitarre
lanciava appelli per fare l’amore e non la guerra. Si racconta il lato oscuro di quei ‘60, dei
gruppi rimasti confinati alle Case del Popolo del fiorentino o alle Comuni del basso bresciano, oppure di quelli partiti per Amsterdam con un vecchio furgone e poi rimasti nei
Paesi Bassi a servire patatine ai chioschi fuori lo stadio. Un elenco di fallimenti che toglie
quella patina di straordinarietà alla decade, assolutamente da leggere per ricordare che
spesso si parte da “Contessa” e si arriva ad “C’è posta per te”.
“Ma come ho fatto a non
pensarci prima!” ha esclamato sulla sedia mentre
guardava Grillo intervistato da Vespa a
“Porta a Porta”. Il comico genovese aveva
appena dichiarato che, negli USA, la
gente si disegnava le cose sul pc e poi andava a stamparsele con una stampante
3d in Comune. Fu lì che ebbe l’intuizione
e pensò che sarebbe bastato scannerizzarsi in tre dimensioni, far acquistare all’amministrazione una stampante 3d
(piuttosto grande in effetti), e far stampare almeno una decina di copie di se
stesso. Con 10 Giani in contemporanea
nessun rinfresco, inaugurazione, banchetto, comunione, vernissage sarebbe
perso. Ogni evento della città lo avrebbe
visto, ancor di più, presente; ogni vassoio
di crostini avrebbe avuto il suo assaggio.
Era la realizzazione di un sogno. Un
unico rimpianto lo colse: la stampante
avrebbe dovuto metterla in Regione e non
più in Comune.
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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ
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sabato 24 maggio 2014
di John Stammer
“A
very small airport” disse
Susan al suo primo atterraggio a Firenze. In
effetti per gli standard
dei medi aeroporti inglesi quello di Firenze Peretola, intitolato ad Amerigo Vespucci che lì vicino, nel borgo di Peretola
aveva la casa di famiglia, si presentava
come “molto piccolo”. Ancora oggi l’aeroporto di Firenze, che nel frattempo, dai
primi anni ‘90 del secolo scorso, si è dotato di importanti miglioramenti strumentali e logistici, primo fra tutti l’ILS
(Instrumental Landing System), non è
molto grande.
La pista è sempre di 1.650 metri nominali, orientata per 050’-230’, che si riducono notevolmente se si atterra, o si
decolla, da e verso Monte Morello, e l’aerostazione denuncia visivamente le diverse fasi della sua costruzione. Ancora
oggi si presenta come un insieme eterogeneo di edifici collegati fra di loro, che
si distinguono per età e funzioni. Parallelo all’Autostrada per il mare si può vedere il primo ampliamento, realizzato a
fianco della vecchia aerostazione, progettato da Rino Vernuccio nei primi anni ‘80
del secolo scorso con una tipologia che
ricorda gli hangar dei vecchi aeroporti. In
adiacenza a questo c’è l’ampliamento
degli anni ‘90, che fino a poco tempo fa
ospitava la sala del “check in”, e che ora
attende una sua nuova destinazione. Ed
infine ancora più a nord si erge il nuovo
ampliamento, iniziato alla fine dello
scorso decennio. Una varietà tipologica
e funzionale che sembra voler ricordare
ai passeggeri la vocazione “vernacolare”
delle nostre città del sud, a conferma che
Firenze è una città del sud d’Europa.
A dire il vero nel 2007 l’AdF (Aeroporto
di Firenze spa), società che gestisce l’aeroporto, oggi a prevalente capitale privato, dopo che il Comune di Firenze e
altri soci pubblici avevano venduto nel
2003 le proprie quote azionarie) guidata
da Michele Legnaioli aveva tentato di
“riordinare” il sistema aeroportuale fiorentino. Aveva in primo luogo indetto un
concorso di architettura per il completo
rifacimento della aerostazione, ma aveva
anche cominciato a pensare ad una soluzione per la pista che eliminasse le limitazioni dell’orientamento e il rumore
indotto sull’abitato di Peretola. Un intervento che era stato pensato come radicale e risolutivo delle difficoltà che la
continua crescita di passeggeri provocava
nel funzionamento del sistema aeroportuale e nella vita di migliaia di cittadini di
Peretola e Quaracchi. Un intervento che
faceva seguito alle nuove procedure di
decollo, rese obbligatorie dai primi anni
2000, che avevano cercato di evitare il
sorvolo degli abitati, tentando di limitare
il rumore degli aerei in decollo sugli abitati.
Il concorso si fece e fu vinto dal progetto
dello studio di architettura inglese Pascall-Watson e dalla società di ingegneria
Ausglobe Formula Spa.
“Un edificio dal segno sobrio, con l’obiettivo dichiarato di unire la tradizione artistica e architettonica di Firenze con la
funzionalità di un moderno terminal.
Un aeroporto
piccolo piccolo
Non forme avveniristiche, piuttosto una
architettura lineare che ricalca in buona
parte l’esistente: gli elementi nuovi saranno un colonnato all’ingresso, cellule
fotovoltaiche sulla facciata e il tetto dell’aerostazione in parte coperto a verde.”
Questa la descrizione del progetto vincitore dalla cronaca di un quotidiano della
città.
Ma le difficoltà economiche, l’incertezza
sulla “governance” della società e anche
le continue polemiche sull’orientamento
della pista, e conseguentemente sulla “capacità” del sistema aeroportuale di ampliare significativamente il numero dei
passeggeri in transito (difficoltà tutte ancora perduranti), consigliarono una realizzazione parziale del progetto.
La maggiore urgenza era quella di ampliare la zona del “check in” e di dotare
l’aerostazione di un adeguato spazio per
il ritiro bagagli. E così fu deciso di realizzare, a partire dalla fine del 2008, solo
una parte del grande progetto di Pascall
e Watson.
Quello che vede oggi contribuisce comunque a comprendere come la scelta
del progetto vincente fu giusta.
Un nuovo edificio elegante, con la facciata ricoperta di acciaio “corten” e un interno quasi “sfavillante” con i pilastri
rivestiti in lamiere a specchio che ampliano lo spazio e dilatano le distanze.
L’ampliamento ha consentito di avere a
disposizione dei passeggeri oltre 6.000
mq nuovi di cui 2.500 mq per la nuova
sala check-in con 40 banchi accettazione
e 2.000 mq per il nuovo impianto di smistamento bagagli, in grado di gestire oltre
1.500 bagagli l’ora con triplo livello di
controllo ai raggi X. Con questi interventi la capacità complessiva del terminal
è di 2,4 milioni di passeggeri annui. L’intervento è stato inaugurato nell’ottobre
del 2011.
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ISTANTANEE AD ARTE
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sabato 24 maggio 2014
di Laura Monaldi
[email protected]
Renato Ranaldi
I
l percorso estetico di un artista
nasce da una forte e decisa presa
di coscienza sulle possibilità inedite che l’opera d’arte deve e può
offrire, non solo al fruitore ma anche
all’intero Sistema delle Arti: una vera
e propria riflessione intellettuale tessuta fra prassi e teoria, fra poetica personale e immaginario collettivo, fra
ciò che l’artista destina alla Storia e
ciò che la cifra storica rappresenta.
In quest’ottica Renato Ranaldi coglie
e concretizza, nella plasticità delle
forme, il silenzio onnisciente che
l’opera d’arte porta in sé, nella sua assolutezza e nella sua totalità di essere
prodotto-limite dello spirito umano.
Fin dai primissimi anni Sessanta le
complessità teoriche e pragmatiche,
proprie dell’artista, si articolano in
continue divagazioni che fuggono la
tradizione canonica in modo ironico
e valutativo, in un divenire incessante
di ambiguità e considerazioni autocritiche, fra simbologie visive e illusioni,
fra fenomenologie e realtà. Paradigmatica, in tal senso, è l’attenzione al
disegno, alla prospettiva, alle angolature, alle infinite morfologie plastiche
e rappresentative, all’essenzialità, alla
formalizzazione delle linee e alle
complessità ideologiche e culturalmente eclettiche che stanno alla base
di un’opera, plasmata secondo un’elaborazione personale, fuori dagli
schemi e dalla koinè contemporanea,
nell’intento concreto di stravolgere i
principi, le modalità e le finalità estetiche della tradizione, con una radicale operatività trasgressiva a tutto
campo – dalla pittura alla scultura,
dalla musica al cinema, dal disegno
alle carte saggistiche. Una complessità estetica prettamente originale e
sofferta, in quanto effettiva e simultanea messa in discussione dell’assolutismo artistico: una sorta di filologia
estetica che ribadisce la relatività e la
necessità di superare e rendere vane
le fenomenologie e le oggettualità di
un’Arte, ormai intesa come un circuito chiuso, dal quale è inevitabile
tentare un’uscita attraverso l’improbabile, l’imprevedibile e un citazionismo formale ricercato e rovesciato di
senso, quasi parodico e tragicomico.
In Renato Ranaldi la poetica, libera e
immaginativa, si unisce al concettuale
e alla dissacrazione, facendo dell’opera d’arte una spazialità complessa, che invita a porre lo sguardo
sull’invisibile, in quanto enigma della
«vita simbolica della visione» e organismo vitale in cui sovvertire l’ordine in nome del rinnovamento e
mettere in evidenza le tautologie della
materia e l’immediatezza del gesto:
una retorica plastica e visiva, attraverso la quale l’opera si caratterizza
per la presenza di motti di spirito dal
sapore evocativo, come sonorità poetiche armoniche ma, allo stesso
tempo, dissonanti con l’attualità e la
cifra storica messa in discussione. Di
fatto l’attenzione all’archetipo si qua-
La forma
del silenzio
In alto Il delicato equilibrio di un artista, 1973, Grafite e oggetto di cartone telato sporgente, applicato su tavola A destra Bracciarchetipo, 1980, Cartapesta e
rame. Sotto Autoritratto, 1990 Smalto su legno, lamiera d’ottone e luce elettrica. Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
lifica non solo come opposizione al
conformismo pittorico post-informale, ma anche come volontà di operare riscoprendo il grado zero, in
quanto essenza sostanziale delle cose
sensibili e immagine primordiale
dell’inconscio collettivo, sintesi dell’esperienza simbolica della Storia
umana, che l’artista riscrive e lascia
contemplare in un’inedita e personale
interpretazione.
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OCCHIO X OCCHIO
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
di Danilo Cecchi
[email protected]
S
e l’incauto accostamento fra
Jackson Pollock e Michelangelo ha suscitato (giustamente)
prevedibili dubbi e perplessità,
vale forse la pena di ricordare come alla
figura del creatore dell’Action Painting
sia stata accostata, in più di un’occasione, quella del fotografo americano di
origine ebrea-russa Aaron Siskind
(1903-1991). Dopo un periodo dedicato alla pratica della fotografia “sociale” insieme alla “New York Photo
League” di ispirazione comunista, ma
più attento alla composizione ed al
ritmo che non ai contenuti figurativi
delle sue immagini, sul finire degli anni
Quaranta Siskind rimane folgorato
dalle opere di pittori come Willem De
Kooning, Franz Kline, Mark Rothko, e
naturalmente Jackson Pollock, e viene
coinvolto nel clima culturale che si respira fra New York e Chicago. Il suo
stile cambia in maniera radicale, l’attenzione al dettaglio diventa fondamentale
ed ossessiva, avvicinandolo a fotografi
come Minor White, Gita Lenz ed
Harry Callahan, che incontra personalmente nel 1950. Nel 1951 Elaine de
Kooning definisce Siskind come un
“pittore fotografo”, e le sue opere gli
meritano l’appellativo di fotografo
“espressionista astratto”. Se non l’unico,
certamente il più grande. Come Pollock egli punta sull’immediatezza dell’espressione, come Kline insegue il
movimento del gesto poetico, come
Kandinsky cerca le analogie fra le forme
visive e le cadenze e le sonorità musicali. Le sue immagini trascendono la
materia raffigurata, sublimando le
forme ed esaltando i ritmi, trasformando le superfici piane o tridimensionali in ritagli significativi ed altamente
simbolici, venati di ironia e di un sottile
nonsense. Le sue immagini sono
aperte, spesso incomplete, rappresentano delle domande ma difficilmente
suggeriscono delle soluzioni, la cornice
taglia la forma rendendola dinamica,
aperta, non conclusa. Siskind non cerca
l’equilibrio, stimola la ricerca, spinge
verso soluzioni non convenzionali,
sprigiona le forze verso rapporti dinamici. In molte delle sue immagini si ritrova qualcosa della furia creativa del
pittore, lui stesso confessa di essere cosciente che quello che lui sente è il
“quadro” che sta facendo. Che fra fotografia e pittura vi sia sempre stato un
rapporto biunivoco, anche prima di Siskind, è cosa ormai assodata. Questo
rapporto si è manifestato storicamente
ad ogni passaggio, dal realismo all’impressionismo, dal cubismo al surrealismo, dal dadaismo al costruttivismo. In
tutti i casi vi è stato uno scambio di
esperienze, fino alle fasi artistiche più
recenti. Ma nel caso dell’espressionismo astratto accade qualcosa di diverso,
ed il rapporto fra l’operatore artistico e
la realtà viene completamente ribaltato.
Perché nell’action painting l’atto del dipingere è inscindibile dall’opera, in un
certo senso è l’opera stessa, mentre in
fotografia questo non accade, neppure
L’
Espressionismo astratto
di
Aaron Siskind
nelle fotografie di Siskind. Le sue immagini sono sempre frutto di osservazione, le sue inquadrature sono
misurate, i suoi soggetti sono frutto di
scelte ponderate, l’energia delle immagini è calcolata. Al di là di certe analogie
formali con l’espressionismo astratto, il
suo metodo è assolutamente opposto.
Il tema dell’immagine viene “trovato”
perché viene “cercato”, non viene mai
“creato” dal nulla, dall’immaginazione
o dall’azione. La fotografia coglie tutto
insieme ed in un solo istante, non è mai
uno “work in progress”. L’occhio viene
educato a percepire le forme della realtà, a distinguerle nel caos, a distillarle
nel marasma visivo, a “ricreare” la realtà
secondo degli schemi mentali, spesso
unici ed originali. Siskind lo ammette,
almeno in parte, quando dice “Noi vediamo secondo l’educazione che abbiamo ricevuto, nel mondo vediamo
solo ciò che abbiamo imparato a vedere, quello che siamo stati condizionati ad aspettarci di vedere. Come
fotografi però dobbiamo imparare a vedere senza tutti questi preconcetti.”
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PECUNIA&CULTURA
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.com
di Simone Siliani
[email protected]
C’
è materia di riflessione
anche per noi nell'assegnazione dei prestigiosi European Museum of the Year
Awards avvenuta lo scorso 17 maggio
in Estonia da parte dell'European Museum Forum. Non tanto per una sorta
di orgoglio patrio frustrato giacché
nessun museo italiano risultava fra le
36 candidature, quanto per l'indirizzo che, giustamente, l'organizzazione indipendente ha mostrato nelle
sue decisioni che evidentemente segnalano un grande deficit di innovazione nel campo museale nel nostro
paese. La EMF nasce per promuovere l'innovazione museale e incoraggiare la diffusione di buone pratiche
e progetti in Europa. Quest'anno il
premio (consistito nella consegna
per un anno dell'opera di Henry
Moore, “The Egg”) è andato al
Museo dell'Innocenza di Istanbul,
museo voluto da Orhan Pamuk per
raccontare la storia della sua città
negli ultimi 70 anni. Altre menzioni
sono andate a musei che hanno saputo innervarsi nella storia e anche
nelle contraddizioni delle comunità
di cui contribuiscono a costruire e
manifestare l'identità attraverso la
emersione della memoria (pensiamo
allo Žanis Lipke Memorial di Riga in
Lettonia che racconta l'opera umanitaria del contrabbandiere lettone
Italia
La grande assente
agli Oscar dei Musei
ANIMALI IN POESIA
L’ultima passeggiata di Pascoli
di Franco Manescalchi
[email protected]
Nell’Ultima passeggiata (in Myricae)
Giovanni Pascoli partendo dall’alba fa
un percorso in cui si immerge nella
natura e coglie, nel contesto agricolo,
la presenza viva del mondo animale
domestico o selvatico.
Così, già nella nebbia mattinal, egli annota che un villano le lente vacche
spinge all’aratura; uno semina, mentre
un altro ribatte le porche con sua
marra pazïente.
E il passero saputo in cor già gode per i
semi da beccare, insieme al pettirosso.
Continuando il cammino, nell’alba, il
poeta sente il canto della lodola, alta. I
solchi mira quella sua pupilla lontana,
e i bianchi bovi a coppie sparsi, mentre che il villano il canto del cuculo ha
nell’orecchi.
Passando poi vicino a una cascina il
poeta scorge una massaia indaffarata e
vispa che d’arguti galletti ha piena l’aia;
e spessi nella pace del mattino/delle
utili galline ode i richiami.
Più avanti, Tra gli argini su cui mucche
tranquilla-/mente pascono, bruna si
difila
la via ferrata che lontano brilla.
I buoi, il passero e il pettirosso, la lodola, il cuculo, i galletti, le mucche, un
mondo operoso e canoro e poi una
memoria di un volo di rondini.
Dopo rissosi cinguettìi nell’aria,
le rondini lasciato hanno i veroni
della Cura fra gli olmi solitaria.
Quanti quel roseo campanil bisbigli
udì, quel giorno, o strilli di rondoni
impazïenti a gl’inquïeti figli!
Quindi, da un’aia, appare un cane
colto nella sua vivezza, al passaggio di
un carro:
sbuca il can dalla fratta, come il vento;
lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia.
Il carro è dilungato lento lento.
Il cane torna sternutando all’aia.
L’ultima passeggiata si conclude a sera
in un sogno accanto al fuoco, con un
madrigale a un tu immaginario dai
toni oraziani per la parca mensa e virgiliani per i dolci ruminanti.
In realtà tutta la passeggiata muove
verso e dentro la poesia della vita con i
suoi linguaggi molteplici che si intessono fra sogno e realtà nella voce
chiare del creato.
Al camino, ove scoppia la mortella
tra la stipa, o ch’io sogno, o veglio
teco:
mangio teco radicchio e pimpinella.
Al soffiar delle raffiche sonanti,
l’aulente fieno sul forcon m’arreco,
e visito i miei dolci ruminanti:
poi salgo, e teco - O vano sogno!
Quando
nella macchia fiorisce il pan porcino,
lo scolaro i suoi divi ozi lasciando
spolvera il badïale calepino:
chioccola il merlo, fischia il beccaccino;
anch’io torno a cantare in mio latino.
Cioè, come il merlo e il beccaccino salutano il giorno chioccolando e fischiando, pure il poeta “torna a
cantare in suo latino”, in quanto anche
la voce della poesia fa parte della natura.
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8
n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
Lipke che salvò la vita a oltre 50 ebrei
del ghetto durante la Seconda Guerra
Mondiale che ha vinto il “Kenneth
Hudson Award”, o al Flossenbürg
Concentration Camp Memorial in
Germania o al Kazerne Dossin Memorial a Mechelen in Belgio). Sono
operazioni culturali importanti, che
non si fondano sull'evento spot, oppure su mastodontiche strutture o
scioccanti installazioni artistiche o,
ancora, su imponenti collezioni.
Forse è quello che oggi vogliamo da
un museo per la vita delle comunità;
qualcosa che mette meglio a fuoco il
senso, la funzione di un museo moderno che la EMF ha voluto premiare.
Noi
pensiamo
opportunamente: è tempo, anche e
soprattutto in Italia, di iniziare a domandarsi perché facciamo un museo
e a cosa serve. E' evidente che l'idea
di realizzare un museo per scopi di
sviluppo economico si è dimostrata
sbagliata (noi a Cultura Commestibile lo diciamo da tempo), così come
non ha senso realizzare un museo per
stupire o meravigliare un pubblico
che ha a disposizione mille altre occasioni e strumenti per indursi simili
emozioni. Il Museo dell'Innocenza di
Istanbul è stato premiato perché rappresenta un “nuovo modello locale e
sostenibile di sviluppo museale” e
per i suoi elevati standard di “qualità
pubblica” non solo per il patrimonio
esposto, ma anche per l'accoglienza
riservata ai visitatori. Pensiamo sotto
questi due profili (sostenibilità dello
sviluppo museale e accoglienza) a
quanto lontano sia un museo come
gli Uffizi e tutti i suoi emuli in miniatura in Italia.
Ma molte altre menzioni sono andate
a musei che hanno saputo ricreare
una atmosfera integrata con il design
dell'edificio (l'Estonian Maritime
Museum a Tallin), o per il dinamismo espositivo unito all'attualità
socio-culturale del tema (il Bildmuseet a Umeå in Svezia, che promuove
la cultura europea del dialogo interculturale), o a musei che hanno affrontato problematiche immateriali
di ordine generale (come il Museo
Occidens/Catedral de Pamploma in
Spagna per aver affrontato il tema dei
valori della civilizzazione dell'Occidente nell'affrontare le sfide della democrazia, solidarietà, giustizia, pace
e libertà), o ancora per aver saputo
coinvolgere i volontari della comunità locale (il Saurer Museum di
Arbon in Svizzera). Tutte problematiche che i musei italiani non sembrano voler affrontare, forse paghi di
esporre il proprio splendido passato,
ritenendo erroneamente che questo
di per sé costituisca attrattività e rilevanza museale. In una parola nessuna
propensione alla innovazione perché
scarsa è la riflessione sulla funzione
del museo nella società contemporanea. Entro il prossimo 20 giugno si
potranno presentare candidatura per
gli EMYA 2015, ma al di là di questa
scadenza, urge una riflessione culturale in Italia su questi temi.
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POLIS&CULTURA
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di Simone Siliani
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A
nnunciato già lo scorso 15 maggio, sta per prendere vita un importante Decreto legge del
Governo per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e
per il rilancio delle attività culturali e del
turismo. Il provvedimento, come ormai
da tradizione, è assai articolato e non in
tutte le sue parti presenta le caratteristiche dell’urgenza che un decreto richiederebbe. Tuttavia, pur in una versione
ancora non definitiva, reca molte importanti novità. Qui ci limiteremo a
quelle relative alla cultura, lasciando per
il momento sullo sfondo quelle per il
turismo (pure importanti come la riforma dell’ENIT).
In primo luogo le parti che vanno sotto
la dizione di “mecenatismo culturale”.
Come già la normativa della Regione
Toscana (che, però, presenta un limite
assoluto di 1 milione di euro), il DL
prevede la possibilità di una detrazione
d’imposta (non oltre il 20% del reddito
complessivo) per quanti vorranno disporre erogazioni liberali (non sponsorizzazioni, è bene precisare) a favore di
restauri e manutenzione di beni culturali, a sostegno di musei e istituti culturali pubblici, per fondazioni
lirico-sinfoniche o enti senza scopo di
lucro operanti solo nello spettacolo. I
soggetti beneficiari dovranno dare pubblica comunicazione delle erogazioni liberali ricevute e della loro destinazione.
Il governo sceglie la strada, tante volte
evocata ma finora mai davvero praticata, delle facilitazioni fiscali per chi destina risorse alla cultura: ci sembra un
indirizzo giusto che dovrà essere sostenuto da un’adeguata promozione affinché dia i frutti sperati, se non altro per
la istituzioni e i beni culturali del governo stesso.
Altre disposizioni minori, ma interessanti, attengono sempre allo sviluppo
della cultura, come l’istituzione della Capitale italiana della cultura. Per la verità,
per le modalità di individuazione, sembra
piuttosto un premio di consolazione per
le città candidate a Capitale europea della
cultura 2019 che non risulteranno vincitrici. Il governo stanzia 5 milioni di euro
annui, ma più interessante appare la disposizione che prevede che gli investimenti connessi alla realizzazione dei
progetti presentati dalla città che sarà designata Capitale italiana della cultura saranno esclusi dal tetto del patto di
stabilità interno degli enti locali. Vengono
poi stanziati 3 milioni di auro annui per
ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016
per progetti culturali elaborati dagli enti
locali nelle periferie urbane: la somma è
così risibile da risultare quasi ridicola.
Tuttavia è interessante che si sia deciso
valorizzare i progetti culturali come elementi di riqualificazione delle periferie
delle città. Inoltre si prevede che il 20%
del Fondo unico di giustizia, costituito
dalla vendita di beni sottratti al potere
mafioso, sia destinato alla tutela del patrimonio culturale.
Vi è poi il capitolo dedicato al Grande
Progetto Pompei che prevede una serie
Cosa c’è nel nuovo
decreto cultura
di norme che tendono ad accentuare il
carattere di straordinarietà e di deroga
alle norme amministrative in termini di
appalti di lavori pubblici nelle mani del
Direttore generale del progetto. Ora,
non potendo qui entrare nei dettagli,
viene da riflettere: se le procedure ordinarie della materia sono troppo complesse e lente, forse sarebbe opportuno
semplificare quelle per tutti i lavori pubblici (almeno riferiti ai beni culturali);
ICON
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
Diabolik rimane uno dei miti del
fumetto italiano il cui fascino si
mantiene costante nel tempo. Un
antieroe così poco italiano da stupirsi che proprio da noi, le sorelle
Giussani, idearono e riuscirono a
pubblicare un siffatto fumetto.
Merito del successo naturalmente,
oltre alle storie e al personaggio,
disegni che ne esaltano la spigolosità e il mistero con un uso delle
chine sempre perfetto e magistrale.
E’ dunque per celebrare questo
personaggio e due dei suoi giovani
e talentuosi autori che l’associazione “una mela per Eva” organizza
a partire dal 24 maggio una personale di Giuseppe di Bernardo e Jacopo Brandi presso la propria sede
de Le Sieci (via Boito 4, Le Sieci
Pontassieve) a cui intervverranno
per l’inaugurazione gli stessi autori.
Entrambi fiorentini con una larga
esperienza nel mondo del fumetto
italiano, Di Bernardo e Brandi, disegnatore e sceneggiatore il primo,
inchistrista il secondo, porteranno
alle Sieci le loro tavole dedicate al
ladro gentiluomo.
Durante l’inaugurazione di sabato
24 a partire dalle ore 17 i due autori realizzeranno e personalizzeranno dei disegni per gli
intervenuti.
Diabolika Valdisieve: Giueseppe di
oppure, come è parere di chi scrive,
nella situazione ambientale di Pompei
la deroga a norme, procedure e controlli potrebbe non tanto velocizzare i
lavori, ma aprire ulteriori spazi alle infiltrazioni della criminalità organizzata
o, quanto meno, a fenomeni opachi di
mala-amministrazione se non di corruzione.
Per quanto riguarda la valorizzazione
del complesso della Reggia di Caserta,
Diabolik
in Valdisieve
Bernando e Jacopo Brandi fumettisti di Diabolik. Inaugurazione sabato 24 ore 17 – Una mela per Eva
via Arrigo Boito 4, Le Sieci, Pontassieve.
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
il DL istituisce la figura del responsabile
unico del Progetto, o segretario generale della Reggia di Caserta. Dunque,
una figura che si preannuncia quasi
commissariale. Peccato che a questa denominazione, però, non corrispondano
effettivi poteri di un commissario. Infatti il segretario generale ha il compito
di convocare riunioni fra tutti i soggetti
pubblici e privati che operano nella
Reggia, per verificare le compatibilità
delle attività svolte con la destinazione
culturale, educativa e museale del sito.
E se si verifica l’incompatibilità, cosa
succede? Non sembra che il segretario
abbai poteri sostitutivi o autoritativi,
bensì quelli di coordinamento di questi
diversi soggetti. Infine il segretario predispone, d’intesa con la Soprintendenza speciale (cui il segretario si
affianca), il progetto di riassegnazione
degli spazi del complesso della Reggia
con l’obiettivo di restituirla alla sua destinazione culturale. Quindi tutto dipenderà
dall’autorevolezza
del
segretario e dall’appoggio che troverà
nel Ministro di turno.
Il DL prevede anche una interessante
norma per la tutela del decoro dei siti
culturali che, se applicata, potrebbe
avere effetti interessanti. Ministero e
Comuni, con specifiche procedure,
possono verificare che delle concessioni di suolo pubblico non siano più
compatibili con le esigenze di tutela del
decoro di certi siti culturali e quindi
possono procedere alla revoca di tali
concessioni. Così posteggi che deturpano una piazza storica, mercati rionali
che invadono sagrati di chiese monumentali, orrendi ed enormi cartelloni
pubblicitari su palazzi storici potrebbero essere rimossi o spostati (se non
fosse possibile trovare spazi alternativi
ed equivalenti in termine di potenziale
remuneratività, si procede ad indennizzo). A tutti a Firenze viene in mente
il mercatino davanti a S.Lorenzo o il
parcheggio in piazza del Carmine.
Vi sono infine disposizioni per le Fondazioni lirico-sinfoniche relative al personale in esubero (che passa alla società
in house del Mibact Ales S.p.A.), la proroga dei termini per le fondazioni che
non si sono adeguate in tempo con il
rinnovo degli organi di amministrazione (cosa che non depone a favore
dell’autorevolezza delle norme precedenti e che premia gli inadempienti).
Un intero articolo dedicato alla Italy
Tourist Card interessante anche per gli
aspetti legati alla cultura. Si obbliga le
Regioni ad introdurre negli atti di affidamento in concessione del servizio di
trasporto pubblico locale clausole che
obblighino il concessionario ad istituire
e fornire all’utenza un servizio di biglietteria telematica, integrabile in piattaforme digitali per la promozione
turistica e culturale di ogni livello territoriale. La sanzione per l’omissione di
questo impegno è la decadenza della
concessione. Si tratta di uno strumento
intelligente di integrazione di politiche
di mobilità pubblica con quelle del turismo e di valorizzazione culturale che
potrebbe dare risultati di crescita culturale importante.
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LUCE CATTURATA
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di Sandro Bini
www.deaphoto.it
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sabato 24 maggio 2014
Firenze 2008-2013 Itinerari notturni
Sandro Bini - Florence Night Movida (2008)
Florence Night Movida
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MUSICA MAESTRO
[email protected]
Musica da camera per il XXI secolo
La diffusione della world music ha determinato un profondo rivolgimento
degli ambienti musicali più diversi.
Non solo di quelli predisposti ad accogliere queste nuove influenze, ma
anche di quelli dove la formazione
classica avrebbe potuto determinare
una certa impermeabilità al fenomeno. Anche la stampa specializzata
ha preso atto di questo cambiamento:
testate come Amadeus e BBC Music
Magazine, tanto per fare un esempio,
dedicano uno spazio fisso alla world
music.
Questo cambiamento viene testimoniato soprattutto da molte registrazioni degli ultimi vent’anni, come
certi dischi dell’etichetta ECM o
quelli di gruppi come Kronos Quartet
(Night Prayers, Nonesuch, 1994) e
Harmonia Ensemble (Ulixes, Materiali Sonori, 2002).
Se queste sono piante ormai rigogliose, ce ne sono altre che stanno crescendo negli ultimi anni, come il
Kosmos Ensemble, che suona musica
da camera con la carica di un gruppo
rock.
Nato pochi anni fa in Gran Bretagna,
questo trio è composto da due musiciste inglesi, Harriet Mackenzie (vio-
celebre “The Lark Ascending” di Vaughan Williams; la trascinante “Kosanini” rielabora in chiave jazzistica il
Capriccio n. 24 di Paganini.
In tutto il disco la musica scorre robusta ma al tempo stesso distesa, caratterizzata da una fusione strumentale
particolarmente felice.
Ciascun musicista si dimostra capace
di coniugare tecnica e passione.
La perizia tecnica e la versatilità dei
tre musicisti trova ulteriore conferma
nell’attività che ciascuno svolge in
altri contesti. Harriet Mackenzie è attiva nel duo Retorica insieme a un’altra violinista inglese, Philippa Mo. Il
loro primo CD, English Violin Duos
(NMC, 2012) propone composizioni
di Jim Aichison, John McCabe e altri
autori inglesi contemporanei. La giovane violinista suona inoltre con
Milos Milivojevic nel duo In Accord.
Il musicista serbo fa parte anche del
London Tango Quintet, un quintetto
molto apprezzato.
Meg Hamilton ha collaborato con artisti arabi, yiddish e compare in Mortissa, il primo CD della cantante turca
Cigdem Aslan. Quest’ultima è un’artista molto interessante della quale parleremo presto.
di Alessandro Michelucci
lino) e Meg Hamilton (viola), e dal
serbo Miloš Milivojević (fisarmonica).
La formazione insolita mette in evidenza la volontà di coniugare tradizioni colte e popolari eterogenee:
balcaniche, mediorientali, nordafricane, sudamericane.
Il trio ha esordito nel 2009 con il CD
Mazi Mazi, dove si contraddistingue
per un approccio basato sulla massima versatilità, spaziando da Brahms
a Piazzolla, dal klezmer alla tradizione
greca.
Il risultato è una musica succosa,
come annuncia la melagrana evocata
nel titolo del secondo CD, Pomegranate. Nel nuovo lavoro il trio viene integrato da due ospiti, il percussionista
Vasilis Sarikis e la violoncellista Shirley Smart.
Per gustare il sincretismo non è necessario ascoltare tutto il disco, perchè lo
si coglie anche all’interno di ciascun
brano. “Liberklezango” è una rilettura
in chiave klezmer del “Libertango”
piazzolliano; “The Lark” fonde spunti
della tradizione mitteleuropea con il
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PECUNIA&CULTURA
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.com
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
G
iancarlo Passarella è sempre
stato un vulcano di idee, ma
soprattutto è stato un uomo
che ha seguito testardamente
la sua passione. Tanto da farla diventare il suo lavoro e la sua vita. Ha fondato una fanzine da Guinnes dei
primati sui Dire Straits, ha creato il
sindacato dei fan club italiani, ha fatto
radio, dirige una testata online (musicalnews.com), ha scritto una ventina di libri sui Dire Straits ed un libro
recentemente uscito su Ligabue (Con
questa faccia qui, Arcana, 2013) il
tutto all’insegna della buona musica
e della voglia di seguirla e collezionarla.
Non pago di tutto questo ha fondato
anche una una casa discografica la
U.d.U Records (dove UdU sta per
Ululati dall’underground altra fanzine storica e gloriosa) che senza
scopo di lucro produce e lancia giovani talenti musicali. Una casa discografica che usa un metodo di
promuoversi piuttosto singolare. Intanto i cd li regala e non li vende. O
meglio li scambia con francobolli. Infatti per ricevere i cd, gratuitamente,
degli artisti pubblicati da UdU Records basta inviare una busta con un
po’ di francobolli commemorativi o
particolari alla casa discografica.
I francobolli faranno poi la gioia dei
collezionisti mentre i gruppi prodotti
avranno modo di farsi conoscere ad
un pubblico più vasto, il tutto mettendo insieme due oggetti, franco-
Un francobollo per un cd
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
VINTAGE
Il Franco
Miratore
Gli epigrammi
di Franco Manescalchi
nelle pagine di Ca Balà
a cura di Paolo della Bella
NOVEMBRE
1972
Verrà il Natale e avrà i tuoi pacchi
questi pacchi che ci accompagnano
dal mattino alla sera grossi assurdi
come un vecchio debito
o un vizio a rate i tuoi pacchi
saranno una vana parola
un grido taciuto un silenzio
così li apri ogni sera
quando sotto il peso ti pieghi
per tutti Natale ha un suo pacco.
Verrà il Natale e avrà i tuoi pacchi:
sarà come ammettere un vizio
come vedere nello specchio
riemergere conti e cambiali
come ascoltare una condanna
per mora.
Faremo la cessione dello stipendio
muti.
Il baratto che salva
gli oggetti
in via di estinzione
bollo e cd, che stanno andando ormai
a scomparire.
Insomma un modo innovativo ma
efficace per diffondere passione. Per
ulteriori informazioni su questo baratto
http://
www.musicalnews.com/articolo.php?
codice=25597&sz=1
Il harciof
ripieno
150 gr di pecorino grattugiato
5 uova
500 gr di pancarrè
¼ di latte
5 spicchi d’aglio
1 limone
Prezzemolo
Olio extra vergine d’oliva
Preparazione:
Sbriciolate le fette di pancarrè in una
zuppiera, versataci sopra il latte e lasciate che assorba tutto il latte. Su-
Ho udito il fischio delle “gazzelle”
ho visto schiere di celerini
con le visiere coi manganelli
col mitra in pugno neri corvini.
Sono venuti quando fu scuro
i celerini senza dir niente
hanno picchiato con rabbia duri
gli scioperanti: la buona gente.
Ognuno è entrato dentro un portone
ed è fuggito fin sopra i tetti
per non finire nella prigione
spinto da lunghi freddi moschetti
mentre gli “abeti” brillano accesi
là nella casa qui sulla via
perché è la ricca festa borghese:
sangue e champagne morte e allegria.
MENÙ
di Michele Rescio
[email protected]
Il Carciofo è una pianta di origine
mediterranea, molto nota fin dall'antichità per i pregi organolettici del
capolino (le prime descrizioni risalgono allo storico greco Teofrasto).
L'attuale nome volgare in molte lingue del mondo deriva dal neo-latino
"articactus" (in alcuni dialetti settentrionali è chiamato articiocco); il
nome italiano "carciofo" e lo spagnolo "alcachofa" derivano dall'arabo "harsciof ".
La coltura del carciofo è diffusa in
alcuni Paesi del Mediterraneo, in
particolare soprattutto Italia, poi
Francia e Spagna, mentre è poco conosciuto in molti altri Stati.
La maggior parte della produzione
commerciale è destinata al consumo
fresco, il resto all'industria conserviera e dei surgelati. La coltura del
carciofo è diffusa soprattutto nell'Italia meridionale, dove con il risveglio anticipato della carciofaia in
estate è possibile anticipare l'epoca
delle raccolte all'inizio dell'autunno.
Carciofi ripieni
Chi ama questi magnifici vegetali
l’avrà mangiato in tantissimi modi:
fritto, arrostito, crudo in insalata,
con la carne, eccetera. Io li preferi-
sco ripieni, senza carne, e vi riporto
la ricetta così come li preparava mia
madre.
Ingredienti per 4 persone:
8 carciofi
500 gr di cipollotti freschi
bito dopo strizzatelo in modo che il
pane sia quasi asciutto e posatelo in
un altro recipiente. Tritate finemente l’aglio, il prezzemolo, e unitelo al pane; aggiungete uova e
pecorino e amalgamate il tutto servendovi di un cucchiaio. Assaggiate,
e se necessario aggiustate di sale.
Bene! Adesso prepariamo i carciofi:
tenete a portata di mano il limone
tagliato a metà. Togliete le foglie
dure dai carciofi. Togliate le punte
spinose, tagliate i gambi completamente e teneteli da parte. Detergete
i carciofi con il limone, così eviterete
che anneriscono. Spellate i gambi e
fate la stessa operazione con il limone. Adesso allargate delicatamente le foglie dei carciofi e fate in
modo che si formino dei piccoli crateri e spruzzate all’interno il succo
del limone rimasto, poi, con un cucchiaio, riempiteli con la farcia. In
una pentola che li possa contenere
tutti, mettete sul fondo i cipollotti
tritati e un filo d’olio. Adagiate i carciofi in piedi, versate acqua fino a
coprirli quasi del tutto, aggiungete i
gambi spellati e mettete a cuocere a
fuoco forte per i primi 10 minuti,
poi abbassate la fiamma fino a cottura ultimata. Con il brodo, se volete, potete farci anche una minestra
con spaghetti spezzati.
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KINO&VIDEO
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di Cristina Pucci
[email protected]
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n austero film in bianco e nero,
lento e silenzioso, racconta una
storia ed in essa si trovano informazioni e stimoli per possibili
pensieri. Il male: le sue conseguenze non
hanno mai fine. La guerra, gli ebrei e la
loro persecuzione, altri modi e altri orrori
che almeno io per ora avevo ignorato.
Siamo nella Polonia comunista e cattolica e povera degli anni sessanta.Una giovane donna, Anna, è cresciuta nel
convento di suore in cui, piccola ed orfana, è stata portata nel corso della seconda guerra mondiale. Sta per prendere
i voti, la Superiora vince la sua ritrosia e
la spinge con decisione a conoscere la sorella di sua madre, unica e fino a lì ignorata, parente. L’incontro è freddo si
direbbe, la zia, una bella donna sulla cinquantina appare ricca, dedita all’alcool e
agli uomini e dice che vuole continuare
a non conoscerla. All’ultimo momento si
ricrede, Anna assomiglia moltissimo alla
madre, la sua amata sorella morta da
tempo. Anna si chiama in realtà Ida ed è
ebrea. Wanda, la zia, è una donna ostile,
disincantata, comunista e atea prova fastidio per il velo monacale e soprattutto
per ciò che esso sottende, Ida tace e sta
nel suo essere, in silenzio, nel credo di
Cristo, prega ogni sera. Però i ricordi agitano la inquieta donna, fatuamente dedita all’ingannarli. Cerca delle foto, parla
della madre di Ida e della sua colorata
cretività, poi dice che potrebbero andare
insieme a cercare dove sono sepolti i loro
familiari, fra essi la madre e il padre di Ida
e il suo bambino, lasciato con la sorella
nella casa di campagna, per "andare a
combattere....chissà poi per che cosa..."
Wanda è un giudice, inserita e rispettata
nel regime per la sua passata lotta partigiana. La morte di tutti i suoi però le ha
alienato l’anima. Si scopre che sono stati
tutti uccisi da qualcuno dei contadini che
per un po’, apparentemente, li avevano
protetti e nascosti. Wanda riesce a far
confessare il colpevole e a farsi accompagnare dove ne ha sepolto i corpi, in
mezzo a un bosco di betulle fitte e altissime. Sono stati uccisi per prenderne la
casa e il podere, pare che siano stati molti
questi casi in Polonia: cattolici polacchi
uccisero ebrei in fuga per prenderne i
beni. Le due donne raccolgono ciò che
resta delle ossa dei loro cari e li vanno a
seppellire in un cimitero ebraico. Ecco la
struttura portante della storia, le conseguenze del male, altre vite lesionate o almeno da esse fortemente improntate. Ida
sta distante dagli stimoli della musica, del
ballo, dei giovanotti, della vita secolare
insomma. La zia la riaccompagna al convento, nido conosciuto e rassicurante, ma
la soluzione di segreti e il fluire del dolore
fino ad allora represso travolgono la zia,
non c’è più senso nè spazio per lei. Si suicida. Ida torna in città, si mette nei panni
della zia, nelle sue scarpe con il tacco, nei
suoi abiti provocanti, esce e si concede
anche il giovanotto che le era piaciuto,
ma poi? Poi? si chiede più volte e poi?
rientra al convento, sotto il velo per sempre. Regia di Pawel Pawlikowski, le due
protagoniste perfette, bianco e nero es-
Il silenzio di Ida
o
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
senziale, non tagliente, quasi un pò
sporco, in tema con i luoghi e gli anni e
la povertà. Non potevo non raccontarvi
questa storia, amo i film che sanno raccontare belle e significative storie, con
immagini e poche parole.
RI-FLESSIONI
di Paolo Marini
[email protected]
Che cosa non si fa, in una campagna
elettorale, per chiedere/raccattare
un po' di voti? Molte cose – rispondo - 'non' si fanno. Volete un
esempio? L'altro giorno, inavvertitamente, mi sfila davanti una di quelle
pubblicità elettorali su autocarro
dove leggo, oltre al nome del candidato e della lista (che non cito, perché in questa mia nota non c'è
alcunché di personale e perché è
solo una tra le innumerevoli chicche), soprattutto questo slogan sentite che ganzo: “Le persone perbene non hanno colore”.... Ho letto
bene? Significano, queste parole, ciò
che è logico? Perché dovrei votare
qualcuno che non ha - o sceglie di
non avere - “colore”? Non è già ricca,
la politica, di uomini allevati in batteria, a non disturbare i manovratori? Non è già essa il trionfo,
l'emblema dell'accidia in sottovuoto
spinto, dell'invariabile genericismo,
dell'uniforme incompetenza? E'
dunque da bandire definitivamente
ogni sussulto di individualità, la distinzione tra un chiunque e un
chiunque altro? Qualcuno, che non
se la beve, mi replicherà: non hai capito, il candidato intende dirci un'altra cosa, cioè che gli uomini perbene
hanno un valore in sé, a prescindere
dal partito o dalla cultura politica
che abbracciano. Io a mia volta protesterò: ciò è dannatamente banale e
quando mi trovo di fronte ad un
contenuto banale – la propaganda
politica è una fontana a getto continuo, di simili perle – mi sento già, almeno con due piedi su due, dentro
Votatemi,
perché
ho niente
da dire
e lo so dire
benissimo
l'insignificante, l'indistinto, il nulla!
Se non è da esigere il minimo sforzo
intellettuale da chi pretende di amministrare la res publica (che essa sia
un comune ovvero lo stato, non ha
importanza), tanto meglio è essere
incalzati da un semplice 'votatemi,
votatemi perché ho niente da dire e
lo so dire benissimo'. Non stupiscano lor signori se più di taluno,
per così dire, si butta (non a sinistra,
non a destra, bensì) nell'astensione!
Non è forse una vita che l'elettore (e
cittadino) viene trattato da suddito?
Che si pretenda, niente niente, che
questo suddito sia anche un po' rimbambito?
C
LO STATO DELLA POESIA
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.com
di Matteo Rimi
S
[email protected]
iamo seduti uno di fronte all’altro, separati solo da un tavolo di questo affollato e
rumoroso bar, circondati da
una varia umanità indaffarata per i
propri casi ed indifferente allo scambio che, come una profezia che si avvera, sta avvenendo tra noi due.
Sì, perché a Paolo Fabrizio Iacuzzi è
bastato leggere le poche note su di me
che circolano su internet per capire di
trovarsi al cospetto di una persona a
cui rivelare la scoperta avvenuta attraverso le ultime, pesanti vicissitudini
della propria vita e cioè che la vera natura della poesia è quella di un virus
che attecchisce subdolo nella propria
vittima, scatenando rigetti e sofferenze nel poeta che cerca di liberarsene condividendo e così diluendo la
malattia e insofferenza ed incomprensioni nel lettore che ne intuisce la natura infettiva ed attiva le proprie
difese.
Me ne parla, lucido e vivo, perché un
refuso su quella nota telematica mi ha
trasformato da “sanitario” in “santiario” e lui un po’ si diverte ed un po’ è
serio passando dal concetto di sanità
e di ciò che, ancora non detto, smuove
in tutti noi il contatto con la sofferenza, alla santità alla quale il servizio
che l’operatore ospedaliero presta si
[email protected]
Yin e yang
S.Michele in Foro a Lucca
di Stefano Vannucchi
LUCE CATTURATA
Paolo
Fabrizio
Iacuzzi
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sabato 24 maggio 2014
avvicina e di quanto quello prestato
dal poeta a questo assomigli. Il poeta,
mi rivela, risponde alla richiesta di significati che il lettore gli richiede offrendogli una visione in fondo
testimonianza di un vissuto che diventa esempio in vista del bene, in uno
scambio etico che non è passaggio di
informazioni come in altre forme di
comunicazione, ma trasmissione di
una passione ormai fissata, estrapolata
ed esorcizzata in questa trasmigrazione.
E’ questo che Paolo fa: mi regala, con
estrema generosità, il collegamento
che mi mancava, quello tra il mio essere sanitario ed il mio essere santiario
e mi mostra la carenza di poesia in
queste fredde corsie. Questo mio rincorrere poeti o i tanti me stesso che ho
perso per la via sembra aver trovato
qui, al tavolo di un chiassoso bar all’ora
dell’aperitivo, una sua possibile risoluzione, aiutandomi a capire che essere
infermiere ed essere
poeta è per me la stessa
cosa: in tutte e due le
attività cerchi di combattere una malattia
con iniezioni di vaccino
che ti immunizzino di
fronte a cotanta minaccia, un antidoto ad un
veleno che penetra in te
poco a poco. Nella poe-
Malato
di poesia
sia come negli ospedali curi il fruitore
dei tuoi servigi ammalandoti tu un po’
per volta, nel mistero che è la sofferenza, che è la poesia.
Il malato, il poeta-portatore infetto, ha
per Paolo Fabrizio Iacuzzi un solo
modo per curarsi: identificare il proprio male ed imprigionarlo pagina per
pagina, quadro dopo quadro, maneggiandolo come fosse grezza creta fino
a che non trovi quasi da sé una forma
propria, finché anche dal male non ne
esce il bene. Solo così il caso, ogni casualità che il giorno ti offre, diventano
la grazia con cui i vari aspetti della vita
ti vengono mostrati.
La stessa grazia che Paolo deve aver
avvertito sentendo del mio progetto
che ha come ambientazione un luogo
storico a lui molto caro, fatto di cerchi
concentrici come i livelli in cui l’introspezione scende e grazie al quale egli
stesso ne chiuderà uno, esaurendo
un’aspettativa, ed, insieme, un altro
ancora fino al livello più basso, dove
tutto si compirà.
La vostra mente
le vostre parole in prosa. In versi
questo
racconto a voi dedicato. Lacera sempre
quanto s’inoltra e più in carne vostra
e mia
fa recinto.Forse nessuno.
La tua migliore poesia.
BIZZARRIA DEGLI OGGETTI
a cura di Cristina Pucci
[email protected]
Mortaio
Dalla collezione
di Rossano
Grande mortaio di marmo, presumo da farmacia, misura 40 cm circa di diametro per 20 cm in altezza, XVII secolo e pestello in bronzo, stessa epoca.
Un detto, con nuances ironiche dice “ogni mortaio trova il suo pestello”, ad
esempio riguardo all’essersi maritata di “una donna brutta” (così il vocabolario, io di un uomo brutto..). Il mortaio è oggetto molto molto antico, Egizi e
Greci ne usavano di bellissimi in alabastro e diaspro per macinare il grano, ne
esistono di pietra, di vetro, di legno... Schliemann, nel corso dei suoi geniali e
fortunati scavi per cercare le mura di Troia, trovò alcuni mortai di basalto e
vari pestelli di granito e calcare. Questo oggetto è stato ed è usato in cucina,
in farmacia, in chimica, vi si pestano sostanze varie per ridurle in polvere o in
poltiglia. Il pestello dovrebbe essere ruotato schiacciando le sostanze e, se
mai, si volesse proprio “pestare” i colpetti dovrebbero essere piccoli. Ecologico ovviamente, non consuma energia se non muscolare. Affaccendarsi inutilmente in qualche attività o convincimento imposssibile può essere
assimilato a “pestar l’acqua nel mortaio”.
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VIS POLEMICA
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di Laura Mazzanti
B
[email protected]
asta un # e il gioco è fatto. Viviamo in una realtà sempre più
social, strettamente interconnessi l’uno con l’altro, anche se
a dividerci ci sono migliaia di chilometri, un paio di mari, qualche oceano o
catena montuosa, e perché no, un continente. E poco importa se oggi sono
maggiormente gli hashtag a smuovere
energie creative e positive più che le
forze politiche stesse. Se in principio era
la parola a regnare sovrana, oggi si sta
affermando in modo perentorio l’immagine: lo testimonia il boom di Instagram, che ha ingaggiato un testa a testa
con Twitter per il primato su chi ha più
utenti. Alla fine del 2013 gli utenti di Instagram, in gergo “Igers” abbreviazione
di instagramers, si sono attestati sui 3,3
milioni di utenti contro i 3,6 di Twitter.
Ma perché l’immagine ha preso così
tanto il sopravvento?
Il primo grande fotoreporter fu Robert
Capa. Tutte le immagini più note, più
conosciute sulla Seconda guerra mondiale, sulle truppe americane in Italia,
sulla guerra civile in Spagna, sulle città
bombardate, riposte in qualche cassetto
della memoria, esistono in noi perché è
esistito Robert Capa. Senza ombra di
dubbio la foto più celebre, e anche probabilmente quella più discussa, fu
quella del miliziano anarchico colpito a
morte durante la guerra civile spagnola.
Ma nonostante la costante e indefessa
esposizione in prima linea di Robert
Capa per documentare quello che i suoi
occhi vedevano e che quindi anche il
mondo avrebbe dovuto conoscere,
14
indelebili segni nelle coscienze collettive.
Oggi siamo all’apice di quel processo di
affermazione del valore della immagine.
Tra fotografi fai-da-te, fotoreporter freelance, selfie (chissà poi perché non chiamarli semplicemente autoscatti, i quali,
tra l’altro, non sono certo una novità),
tutto è diventato social, o scendendo
ancora più nel gergo giovanile, “virale”.
C’è qualcosa però che sta lentamente
sfuggendo al controllo e su cui sarebbe
opportuno riflettere. Mi riferisco, in
particolare, alla campagna #bringbackourgirls, la quale si pone come obiettivo di tenere i riflettori puntati sul
rapimento di circa duecento studentesse da parte del gruppo terroristico
islamico Boko Haram in Nigeria. Un rapimento avvenuto il 14 aprile scorso,
inizialmente quasi taciuto dalle autorità
locali, con la complicità della stampa internazionale poco attenta. Ma a puntare
prepotentemente l’attenzione sulla vicenda ci ha pensato Michelle Obama, la
quale lo scorso 7 maggio ha postato una
sua foto su twitter con un cartello scarabocchiato in nero su sfondo bianco e
la frase, divenuta ormai celebre, #bringbackourgirls. Segno inequivocabile
della sua completa adesione alla campagna internazionale lanciata per liberare le studentesse rapite. E molti altri
personaggi, più o meno noti, hanno immediatamente seguito il suo esempio. Il
Festival di Cannes in questi giorni è assediato da star che, accanto a paillettes
e lustrini vari, mostrano a favore dei fotografi cartelli con la scritta #bringbackourgirls. In Italia non siamo certo da
meno. Il sito di Repubblica invita costantemente i lettori a mandare foto inerenti alla campagna internazionale, con
tanto di pubblicazione online.
Intendiamoci, non c’è nulla di negativo
in tutto questo. Per un paese come la Nigeria che sta cercando con tutti i mezzi
a disposizione di oscurare la vicenda,
riuscire a mantenere un livello alto di attenzione non può che giovare al futuro,
assai incerto, delle studentesse rapite. Il
punto però è un altro. Pochi mesi fa lo
stesso gruppo integralista islamico massacrò oltre 50 studenti in un collegio nel
nord-est della Nigeria. Il collegio di
Buni Yadi accoglieva ragazzi tra gli 11 e
i 18 anni di età nello stato nord-orientale di Yobe, a 60 chilometri dalla capitale Damaturu. Ma lì non c’erano twitter
o instagram a occuparsi delle sorti di
quei poveri studenti. Sono ormai anni
che il gruppo Boko Haram miete vittime, cercando di instaurare un clima di
terrore in tutto il paese. E allora perché
soltanto in questa vicenda si è ritenuto
opportuno intervenire? Non sarà forse
perché la campagna internazionale per
liberare le studentesse rapite è divenuta
così social, al punto tale che mostrare la
propria vicinanza sembra quasi un obbligo? A mio parere, sono già troppi coloro che hanno in mano le sorti di intere
nazioni, gruppi etnici o religiosi, che
scelgono quando intervenire o quando
lasciar perdere, che decidono chi è giusto salvare o chi è invece può essere abbandonato a sé stesso, non conferiamo,
quindi, tale “potere” anche ai social network.
rombo di una moto che sfreccia a tutta
velocità. E’ ferma nello squarcio assolato
di Via Roma, come un puntino eternamente orbitante nella fissità del buco
nero. Lì, alla fine della strada. Penso al
povero motociclista, col suo casco da
astronauta. Mi verrebbe pure da piangere, non fossi un giocatore d’azzardo
alle prese con la depravata numerazione
delle vie in numeri rossi e numeri blu.
Punto ovviamente sul rosso ma perdo
ad ogni mano. La logica che governa
questa progressione è opera oscura.
Ogni uscio è un’apertura verso la spirale
di un portale. Esce il mio numero rosso
ed eccomi dentro ad un negozio di
scarpe. Mi sorride il Brunelleschi. Dovrei indossare dunque quelle pantofole
papali? Va bene, obbedisco. Assaporo la
potenza dei Borgia ed i miei occhi si
fanno crudeli, a fessura. Sibilo che è un
furto, ma pago. Cinquantasette euro per
un paio di pantofole. Berrò il sangue di
questa città nel furore della fiorentina
cotta alla brace. Ne spolperò la carcassa
fino all’osso. Sarò il cannibale al servizio
dei Medici. Nella mia testa, come un
mantra, ossessivo, senza fine: “Firenze la
città dell'arte, va in culo a chi arriva e a
chi parte”.
#wearesocial
l’immagine restava qualcosa di fragile,
se paragonata al grande strumento di
comunicazione rappresentato dalla parola.
Poi arrivò il Vietnam e quel giugno del
1972, quando nel sud del paese Nick Ut
scattò una foto di straordinaria forza
espressiva che gli valse il Premio Pulitzer. L’immagine di quel gruppo di bambini in fuga dopo un bombardamento
al napalm a ovest di Saigon, la corsa disperata della ragazzina completamente
nuda, ustionata dall’acido, e sullo
sfondo il villaggio in fiamme, riuscì a
raccontare l’orrore della guerra più di
mille parole. E fu proprio in quel momento che il valore della immagine acquistò sempre più forza, lasciando
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
CATTIVISSIMO
di Francesco Cusa
[email protected]
Eccomi a Firenze. Per un non fiorentino
è come essere impotenti di fronte a Nicole Kidman. I miei amici fiorentini
sono pazzi. Si ubriacano e vanno in giro
parlando una sorta di italiano-esperanto,
in un bisticcio fonetico costante che
trova pace solo nella morte della lettera
scritta. Paradossalmente Venezia è più
“aperta”(nella stagnazione saltano quantomeno le raganelle). Qui vi è una finta
dinamica. Il concetto di velocità è insipido, come il pane toscano. Tutto si
muove nei binari ternari della cantica.
Perfino il turista pare cedere ad una qualche inflessione. In questa città sono accadute troppe cose. Enormi cose. Arcane.
Misteriose. Un tale concentramento di
bellezza, secoli orsono…non è fatto razionale. Il mio collo si torce, ora a destra,
ora a manca. Squarci di luce, ombre sulle
case, sulle strade. Poi improvvisamente
piove. Temo Renzo Auditore. Lo sento
calare dai tetti, incappucciato, mentre sibila il suo drappo e sul mio collo cala lo
stiletto. La città ha un’atmosfera irreale,
quasi sospesa. Perfino il traffico ha un
che di asettico. Caldo. Ora splende il
sole. Spifferi di vento dalle vie ombrose.
L’orologio d’un qualche campanile segna
un’ora qualsiasi nella giornata senza calendario. Mi aspetto un cerusico da un
momento all’altro. Invece ecco un par-
Firenze
cheggiatore abusivo. E’ un fatto importante; pensavo fossero solo in Sicilia e
nel napoletano. Miraggi. Passa una ragazza bellissima. I suoi capelli biondi,
per un istante sospeso, fanno da controcanto alla bandiera gigliata che sventola,
impertinente, fuori dal bar. Falso prospettico. Un giglio viola e dorato. Colori
nobili che rimandano agli antichi traffici
di sete, stoffe e spezie. Silenzio. Poi il
REPLICA
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
La nostra giovane e brava collaboratrice, Laura Mazzanti, la scorsa settimana ha dedicato un articolo
all’anniversario del referendum per il
divorzio. Ottimo pezzo e ottimo argomento a cui però saltava all’occhio
una vistosa assenza. Quella dei Radicali e di Marco Pannella, grandi animatori e protagonisti di quel
referendum sia con il comitato referendario che con la Lega Italiana per il
Divorzio. Va infatti ricordato che quel
referendum ebbe una vita politica
C’era anche Pannella
piuttosto travagliata. Non voluto dall’intera DC, fu infatti Fanfani che lo
volle fortemente per riconquistare
un’egemonia che vedeva ormai perduta; visto con timore da una buona
parte delle gerarchie ecclesiastiche
(evidentemente capaci di sentire
l’umore dei loro fedeli), fu anche osteggiato dal PCI che temeva una sconfitta da parte delle masse cattoliche.
Ci sono pagine affascinanti nei verbali
dei comitati centrali del partito, con-
servati all’Istituto Gramsci, su come il
gruppo dirigente comunista vedesse
come inevitabile la sconfitta e maledisse Pannella (e in minor misura i socialisti) per quella avventura
referendaria, seppure poi il partito si
mobilitò in forza per far vincere il NO.
Non andò come temeva il PCI e Pannella, con la sua visionaria lucidità,
dichiarò nella notte, quando ancora i
risultati erano incerti, che il NO aveva
vinto. Aveva ragione lui.
C
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ABISSI
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
Il tempo peggiore della notte per avere incubi è il
primo sonno: troppo profondo al risveglio,
non rimane che una grande sofferenza senza sapere la
causa onirica che l'ha prodotta.
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
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RI-FLESSIONI
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di Giacomo Aloigi
[email protected]
C
onservatore ma a modo suo
innovatore, cattolico ma non
bacchettone, Reagan aveva la
dote di essere uno straordinario comunicatore. Parlava in modo
semplice, diretto. Usava un linguaggio chiaro che arrivava con facilità e
altrettanta efficacia alla nazione. Per
molti il suo periodare era quasi banale, se non insulso, ma quando pronunziava un discorso in pubblico,
anche le frasi e le locuzioni più scontate acquisivano capacità penetrativa
nell’uditorio, la sua perfetta intonazione di oratore riusciva a caricare di
forza quelle parole che, magari lette
su una cartella, potevano lasciare indifferenti. L’offensiva lanciata da Reagan nei confronti dell’Unione
Sovietica è duplice: militare ed ideologica. Anzi, filosofica. Da questo
punto di vista l’attacco è frontale, ad
alzo zero.
E’ il marzo 1983. Ronald Reagan
tiene un discorso ad Orlando, Florida, avanti all’Associazione nazionale
degli Evangelici. Passerà alla storia
come il discorso su “l’impero del
male”.
“Dunque vi esorto a parlar chiaro
contro quelli che vorrebbero mettere
gli Stati Uniti in una posizione di inferiorità militare e morale. Così nelle
vostre discussioni sulla proposta di
sospensione della corsa al nucleare vi
esorto a stare in guardia dalla tentazione dell’orgoglio, la tentazione superficiale di dichiararvi superiori a
tutto ed etichettare entrambe le parti
come egualmente colpevoli, di ignorare i fatti della storia e gli impulsi aggressivi di un impero del male, di
chiamare la corsa alle armi semplicemente un gigantesco fraintendimento
e dunque sottrarre voi stessi alla lotta
tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il
SCAVEZZACOLLO
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n 77 PAG.
sabato 24 maggio 2014
Il mondo sull’orlo
dell’abisso nucleare
male”. Così Reagan sul finire del suo
intervento, che chiude con una citazione di Wittaker Chambers (membro
del
partito
comunista
americano): “La crisi del mondo occidentale esiste in proporzione all’indifferenza dell’Occidente verso Dio,
in proporzione alla collaborazione al
tentativo comunista di far sì che
l’uomo prosegua da solo senza Dio.
[…] Il mondo occidentale può rispondere a questa sfida ma solo a
patto che la sua fede in Dio e la libertà
di cui gode sia grande almeno quanto
la fede del comunismo nell’uomo”.
Spaventato dallo sviluppo delle armi
atomiche e dalla leggerezza con cui
l'amministrazione Reagan parlava di
guerra nucleare, il governo sovietico
incrementò a sua volta la propria potenza militare. Il nuovo segretario del
partito, Yuri Andropov, concluse che
"la pace non può essere ottenuta elemosinandola dagli imperialisti. Può
essere mantenuta solo facendo affidamento sulla invincibile potenza delle
forze armate sovietiche". In risposta
al dispiegamento di missili americani
in Europa occidentale nel dicembre
1983, il Cremlino interruppe i negoziati sul controllo degli armamenti, riprese lo spiegamento di missili
nucleari SS-20 che aveva in precedenza fermato, collocò i missili nucleari SS-23 in Germania Orientale e
in Cecoslovacchia e fece avvicinare i
sottomarini nucleari sovietici alle
coste degli Stati Uniti. Alla fine del
1984, il Cremlino incluse un aumento del 45% delle spese militari
nel suo piano quinquennale. Il discorso di Reagan del marzo 1983 sul-
l'impero del male, ebbe vasta eco in
Unione Sovietica, come ricorda Vladimir Slipchenko, allora membro
dello Stato Maggiore sovietico. "I militari, le forze armate, lo utilizzarono
come pretesto per iniziare una preparazione molto intensa ad un nuovo
stato di guerra. Iniziammo a fare importanti esercitazioni di carattere
strategico... Quindi, "per i militari, il
periodo in cui eravamo chiamati "impero del male" fu, in effetti, molto positivo e utile, perché raggiungemmo
un altissimo grado di efficienza militare... Potemmo anche sperimentare
la situazione in cui una guerra convenzionale può trasformarsi in una
guerra nucleare".
I leader sovietici, terrorizzati dall'idea
che l'amministrazione Reagan stesse
preparando un primo attacco nucleare contro il loro paese, furono vicini a scatenare una guerra nucleare.
Nel novembre 1983, durante l'esercitazione militare della NATO denominata "Able Archer", il nervoso
governo sovietico si convinse che,
sotto le apparenze di un'esercitazione,
si stesse preparando un attacco nucleare americano contro l'U.R.S.S.. Di
conseguenza, furono allertate le forze
nucleari sovietiche, i comandanti passarono in rassegna le loro missioni
d'attacco, le armi nucleari furono preparate all'azione. "Il mondo non fu
esattamente sull'orlo dell'abisso nucleare - ricorda Oleg Gordievsky, un
agente americano infiltrato nel KGB
- ma durante Able Archer nel 1983 vi
fu paurosamente vicino"
(Parte 2 di 2 - fine)
Il vero decadente
di Massimo Cavezzali
[email protected]
1)Se pensi che lo spirito sia fatto di carne e la carne sia
fatta di malinconia, saturnina e dionisiaca, sei un vero decadente …2)Se ti piace l’umanità, però non questa, sei
un vero decadente…3)Se hai la malattia dell’infinito ma
in farmacia, senza ricetta, ti danno un digestivo della vita
da banco, sei un vero decadente….4)Se chatti con Sardanapalo, Eliogabalo, Teodora e Semiramide, sei un vero
decadente. …5)Se come animale di compagnia, al cane o
al gatto preferisci te stesso, sei un vero decadente….6)Se
la tua vita assomiglia a un mosaico bizantino, sei un vero
decadente…7)Se tutto è niente, tutto è fumo, e quindi 5
euro al pacchetto non è un prezzo caro, sei un vero decadente …8) se pensi che tutto sia un aprire e chiudersi,
entrare ed uscire, allungarsi ed accorciarsi, sei un vero decadente…9) se pensi che a parte il giramento di coglioni,
tutto il resto sia una trascurabile inezia, sei un vero decadente …10) se pensi che non valga la pena fare una lista
per definire cos’è un vero decadente, sei un vero decadente.
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VISIONARIA
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di Simonetta Zanuccoli
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da opere lì trasferite da altri musei e da
pregiate donazioni come quella di Krishna Riboud che nel 1990 ha donato la
sua immensa collezione di tessuti asiatici
dal XVII secolo al XIX, e quella di Ernest
Grandidier con 6000 pezzi di antiche ceramiche cinesi. Alla fine degli anni 90 il
museo è stato magnificamente ristrutturato dagli architetti Henri e Bruno Gaudin. Degli ambienti originali è rimasta
solo la biblioteca che sorprende il visitatore con la sua cupola retta da colonne a
forma di misteriose dee stilizzate. I nuovi
spazi che si sviluppano su quattro piani,
sobri ed eleganti senza concessioni a uno
scontato esotismo, invitano a perdersi nell'incanto delle opere esposte e diventano
essi stessi un viaggio estetico nell'architettura contemporanea. Un incontro tra antico e moderno, tra oriente e occidente
che merita senz'altro una visita appassionata.
[email protected]
l bellissimo museo Guimet in place
d'Iéna a Parigi con una delle collezioni di arte asiatica più complete al
mondo fu ideato da Emile Guimet,
geniale personaggio vissuto nella seconda
parte dell'800 e morto nel 1918. Figlio di
un industriale di Lione che produceva colori fantasiosi tra i quali un famoso blu oltremare chiamato appunto Blu Guimet e
di una pittrice, Emile da giovane seguì le
orme materne cimentandosi nella pittura
e nella scultura per poi entrare nell'attività
di famiglia alla quale si dedicò per tutta la
vita con grande successo e impegno civile
tanto che, da industriale speciale per i suoi
tempi, e forse anche per i nostri, ideò un
fondo per finanziare le pensioni e gli incidenti sul lavoro per i suoi 150 dipendenti.
Intellettuale, grande studioso di storia
delle religioni, amava l'arte , il teatro e la
musica (scrisse un balletto e un' opera)
anche se la sua grande passione fu il viaggio e il collezionismo di opere d'arte. Il
suo sogno era quello di aprire un museo
dedicato all'arte antica greca, egiziana e
asiatica ma poi si focalizzò su quest'ultima
a seguito dell'incarico datogli dal Ministero della Pubblica istruzione di uno studio sulle religioni orientali, che lo portò
nel 1876 nelle regioni dell'Asia Centrale
fino all'Estremo Oriente. Nei suoi frequenti viaggi aveva raccolto una quantità
enorme di sculture, dipinti, oggetti spesso
trovati in circostanze eccezionali. Al suo
sogno di aprire un museo per raccogliere
e mostrare questa incredibile collezione
dedicò molto tempo e denaro. Lo realizzò
a Lione nel 1879 poi, con la decisione di
donare allo Stato l'intera collezione, il
museo fu trasferito a Parigi e inaugurato
nel 1889 in occasione della Fiera Mondiale. Il patrimonio artistico del museo
Guimet che ripercorre 5.000 anni di storia
di arte asiatica è stato integrato e arricchito
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sabato 24 maggio 2014
L’arte asiatica di Emile Guimet
GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI
di Fabrizio Pettinelli
[email protected]
San Rocco è particolarmente venerato
come protettore dal flagello della
peste. Non risulta però che, durante il
suo pellegrinaggio in Italia, sia passato
da Firenze, che invece avrebbe avuto
un disperato bisogno del suo aiuto.
Firenze ha infatti avuto più volte a che
fare con la peste, a cominciare dalla famosa “peste nera” del 1348, che sterminò 25 milioni di persone, 1/3 della
popolazione europea, e che, nel giro di
due anni, ridusse gli abitanti di Firenze
da 125.000 a 30.000. Quella del 1348
è l’epidemia per sfuggire alla quale
dieci giovani si rifugiano a Villa Palmieri, lungo l’attuale Via Boccaccio, e
passano il tempo raccontandosi storie.
E’ durante quell’epidemia che i monaci di Santa Maria Novella iniziano a
produrre l’aceto dei sette ladri, che si
diceva rendesse immuni dalla malattia. E’ nota la storia di questo medicamento miracoloso: sette depredatori
di cadaveri avevano scoperto la ricetta
del farmaco; ciascuno di loro cono-
Via San Rocco
Dagli
all’untore
sceva un ingrediente e non lo rivelava
agli altri. I monaci della farmacia,
però, riuscirono a entrare in possesso
della ricetta completa grazie all’intervento di una monaca che persuase i
sette ladri, non si sa come, a svelarle
ciascuno la sua parte di segreto: tanto
per restare a Boccaccio...
La successiva epidemia, nel 1497,
contribuì non poco alla caduta di Savonarola, che da anni predicava contro il malcostume di Firenze e
invocava Dio che mandasse “spada,
spada; carestia, carestia; pestilenzia,
pestilenzia!”. Il frate fu esaudito appunto nel 1497, e anche la sua fama
(comprovata!) di profeta di sventura
portò Savonarola sul rogo l’anno successivo. Alla peste del 1497 è legata
anche la storia di Ginevra degli
Amieri: la diciottenne Ginevra, innamorata di Antonio Rondinelli, è costretta a sposare Francesco Agolanti.
Creduta morta durante l’epidemia,
viene sepolta viva in Duomo, ma riesce a evadere dal sepolcro: respinta dal
marito, raggiunge la casa di Antonio
percorrendo l’attuale Via del Campanile, che per questo fatto fu chiamata
in antico “Via della Morte”.
Ultima epidemia, di manzoniana memoria, nel 1630, quando Porta San
Gallo, in Piazza della Libertà, fu detta
“porta della peste” perché si diceva
che la malattia fosse entrata in città da
lì, portata da un contadino bolognese.
E, sulla scia della “colonna infame”, le
Autorità fiorentine ordinarono di
svuotare tutte le acquasantiere delle
chiese, per evitare che i perfidi untori
ci versassero dentro i loro malefici unguenti. La peste del 1630 fu anche
causa indiretta di un fatto clamoroso:
Galileo, ottenuto il nulla-osta da papa
Urbano VIII per la pubblicazione del
“Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo”, stampò il libro a Firenze,
inviando al papa una copia preventiva
che però, a causa della peste e del rigido embargo imposto dai Medici,
raggiunse Roma solo quando circolavano ormai moltissimi esemplari del
libro. Il papa si ritenne raggirato e attivò il Sant’Uffizio che, il 22 giugno
1633, condannò Galileo per eresia.
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LUCE CATTURATA
U
O
.com
di Ilaria Sabbatini
[email protected]
SCENA&RETROSCENA
di Simone Siliani
[email protected]
Da anni Angela Torriani e la sua Versiliadanza lavorano sulla cultura, la spiritualità e la luce armena: è
un’operazione culturale profonda,
seria, rigorosa, di quelle che scavano
nella roccia con la tenacia e la forza
della goccia continua. Così la riproposizione della coreografia “7th Sense”
che abbiamo visto al teatro Cantiere
Florida lo scorso 21 maggio nell’ambito del Festival di Fabbrica Europa, mi
è apparso come un nuovo spettacolo,
sedimentato su anni di lavoro e secoli
di spiritualità e cultura. Un millennio
per la precisione, tanto è passato dal
Libro delle Lamentazioni di G.Nareghatsi o Gregorio di Narek, poeta, musicista e filosofo armeno del X secolo,
figura centrale nella cristianità armena,
a cui è ispirata la coreografia. La regia è
di Vahan Badalyan, giovane regista che
abbiamo intervistato tempo fa noi di
“Cultura Commestibile”. La coreografia è una meditazione corporea, una ricerca della luce nella tenebra del
mondo, oppresso dalla colpa, dalla violenza, dall’alienazione, una ricerca di
equilibrio interiore e della riconciliazione con Dio. Un piccolo, prezioso,
libro di Andrea Ulivi, “Luce armena”
(Edizioni Meridiana, 2008), rende pla-
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sabato 24 maggio 2014
Città d’acqua Lucca Anfiteatro
stica questa consustanzialità fra la luce
dell’Armenia, le sue architetture religiose e questo spettacolo, che continua
oggi volta a commuoverci, ad avvolgerci in una cultura millenaria che risale dalle profondità del Caucaso, da
quella lontana provincia dove i due
continenti si incontrano e si confondono. Là, dove ci sono anche, forse, le
nostre radici.
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Il
senso
°
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L’ULTIMA IMMAGINE
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Big Boy, Santa Clara, California, 1972
[email protected]
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni
In questo caso il “Brand
name” di questa catena
di Fast food prende il
nome da un bambino
di 6 anni di Glendale,
California, che ebbe la
ventura di entrare nel
negozio di Bob Wian
proprio mentre lui stava
cercando di dare un
nome al suo “business”.
Wian si rivolse a lui
chiamandolo “Hey Big
Boy!” Questa esclamazione suonò bene al suo
orecchio e così decise
immediatamente che
questo sarebbe stato il
nome da dare al suo business. Fu chiamato un
artista animatore della
Warner Bros. che fece la
caricatura del giovane
cliente che teneva nel
palmo della mano questo “double decker
Cheese Burger”, il tipico
cheeseburger a due
piani! Per onor di cronaca il nome del ragazzino di 6 anni era
Richard Woodruff e il
proprietario della catena fece poi disegnare
anche una serie di fumetti chiamati “The adventures of Big Boy”
usati poi come omaggi
promozionali per tutti i
clienti della catena.
Questo fumetto è stato
pubblicato per 40 anni!