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Q 77 uesta settimana il menu è DA NON SALTARE Kerry Kennedy, paladina dei diritti “ Taxi!!!! Io ho utilizzato Uber a New York con un amico. L’ho trovato un servizio straordinario, dalla prossima settimana affronteremo anche questo Matteo Renzi poche ore dopo che il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi aveva detto che una ‘declinazione’ del servizio, ‘Uberpop’ “contrasta con la legge” Siliani e Morrocchi a pagina 2 PICCOLE ARCHITETTURE Un aeroporto piccolo piccolo Stammer a pagina 5 OCCHIO X OCCHIO L’espressionimo astratto di Siskind Cecchi a pagina 7 PECUNIA&CULTURA Cosa c’è nel nuovo decreto cultura RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 San Gimignano made in Cina Giani in 3D Siliani a pagina 9 C U .com O di Simone Siliani e Michele Morrocchi n 76 PAG. sabato 17 maggio 2014 DA NON SALTARE o 2 Foto di Harry Benson [email protected] twitter @michemorr M ary Kerry Kennedy è nata a Washington nel 1959, figlia di Robert Francis Kennedy e di Ethel Skakel Kennedy, settima degli 11 figli della coppia. Dal 1981 Kerry è un’agguerrita attivista per i diritti umani; nel 1988 ha fondato il Robert F. Kennedy Center for Human Rights e fino al 1995 è stata direttrice del Robert F. Kennedy Memorial. Concede questa intervista in esclusiva a Cultura Commestibile nei locali del Centro Robert F.Kennedy alle Murate a Firenze, dove la Fondazione ha trovato casa da qualche anno e svolge un’intensa attività di promozione della cultura dei diritti umani e della giustizia. Suppongo che essere qui a Firenze, nella sede della Fondazione Robert Kennedy, sia per lei un risultato e una emozione particolare. Vogliamo partire da qui per questa intervista? Sono felice di essere a Firenze. E’ una città in cui ci sono più di 40 Università, tantissimi giovani (a partire dal suo sindaco), molta energia; è la città della formazione in Italia, ma anche un punto di riferimento in Europa. Una città con una profonda e ricca storia, legata alla comunità internazionale. Quindi il posto perfetto per la nostra International RFK House. E poi le Murate sono un luogo straordinario: è stato un monastero per quasi mille anni, poi è diventato il carcere minorile. Ha una straordinaria energia e avverto qui un così intenso senso di pace. E’ un luogo che ha fatto una profonda esperienza di sofferenza e molta spiritualità. E’ il luogo perfetto per il lavoro che stiamo facendo con i difensori dei diritti umani nel mondo. Parlando di giovani, molti sono venuti a visitare la mostra fotografica “Freedom Fighters” sul movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, che avete organizzato alle Murate: cosa attrae ancora, dopo mezzo secolo, di quel movimento gli adolescenti di oggi? Penso che il movimento per i diritti civili ha sollevato alcuni valori universali; i temi dell’alienazione, delle persone che lottano per la giustizia, dell’importanza del coraggio,di impegnarsi per i diritti, per una causa che è più grande di te stesso, del sacrificio per la tua comunità. Queste sono tutte cose che erano importanti per il movimento dei diritti civili e di cui i giovani fanno esperienza nella loro vita di ogni giorno. Sono i giovani che si prendono cura degli altri, che usano il potere non per promuovere se stessi. I giovani capiscono queste cose e vogliono che la loro vita sia da questo caratterizzata, sia che si impegnino contro il bullismo nelle scuole, sia quando pensano alla loro visione su come vanno le cose nel mondo, in Siria come in Nigeria o in Crimea. Ciò che è avvenuto in Nigeria non è qualcosa del passato o di un paese lontano: avvengono qui, oggi, nella nostra comunità. I diritti civili per una Kennedy Foto di Harry Benson Il movimento per i diritti civili sembra essere una storia infinita: qual è la situazione oggi negli Stati Uniti sotto questo profilo? Ovviamente le cose sono cambiate drammaticamente negli ultimi 45 anni; ma detto questo, abbiamo ancora una lunga strada da percorrere per i diritti civili degli afro-americani, oppure se guardiamo al tema dell’educazione, oppure alle disuguaglianze sociali, lo squilibrio di rappresentanza nel governo (tanto a livello locale che nazionale, che nelle imprese). C’è ancora tanta strada da fare per la popolazione afro-americana negli Stati Uniti. Ci sono problemi di altre minoranze. Così come per i diritti delle donne: 72 centesimi su 1 dollaro sono prodotti dagli uomini. C’è ancora molto razzismo nei confronti dei latinos, degli asiatici. Quindi, sì, c’è ancora molto da fare. E dal suo punto di vista l’Amministrazione Obama è stata sufficientemente impegnata sulla causa dei diritti umani? Beh, sì e no. Sì, in generale è stata una questione molto importante e il fatto di avere un afro-americano come Presidente e Michele Obama come first lady e le loro due straordinarie e adorabili figlie alla Casa Bianca è simbolicamente molto importante. Alcune delle istanze che hanno abbracciato, ad esempio l’obesità, è un grande tema di sanità nella comunità afroamericana. Detto questo, il Presidente Obana non ha fatto di questi temi il punto focale della sua amministrazione; non ne fa oggetto dei suoi discorsi pubblici e non promuove continuamente il dibattito intorno a questi temi. Quindi c’è ancora molto C U .com O da fare. La vostra Fondazione in questo momento su quale specifico problema dei diritti umani si sta focalizzando? Stiamo facendo molto lavoro sui diritti delle minoranze LGBT, in particolare in Uganda dove hanno appena approvato una legge che punisce con il carcere queste “deviazioni” sessuali. Questo è un tema rilevante anche qui in Italia, dove c’è molta omofobia; così come nel mio paese. Non c’è bisogno del passaporto per trovare l’omofobia. Un altro tema, parlando di razzismo, su cui stiamo lavorando: abbiamo appena aperto una petizione contro il governo della Repubblica Dominicana per una sorta di “pulizia etnica” che ha perpetrato contro i Dominicani discendenti di Haiti attraverso una legge che nega e revoca loro la cittadinanza pur essendo nati nella Repubblica Dominicana. Inoltre in Messico stiamo lavorando sui diritti delle popolazioni indigene, in particolare sul diritto all’educazione. Questi sono temi che hanno tutti a che fare, in qualche modo, con l’alienazione di minoranze nella società. Quindi, anche se sono dislocati in diverse parti del mondo, le troviamo tutte anche nelle nostre comunità e ci sono molti insegnamenti da trarre da queste campagne anche per noi. Io sono particolarmente contenta del lavoro che stiamo facendo qui a Firenze: al Centro per la Giustizia e i Diritti Umani “Robert F.Kennedy” abbiamo organizzato 15 mostre fotografiche sul tema dei diritti umani; nell’ultimo anno abbiamo avuto migliaia di visitatori e tantissime scuole. Abbiamo anche formato oltre duecento Difensori dei Diritti Umani nel nostro programma di formazione: abbiamo, ad esempio, formato degli “attivisti digitali”; abbiamo utilizzato i social media per favorire il cambiamento nella società. Organizziamo i “Martedì dei Diritti Umani” in cui invitiamo esperti a parlare di questi temi con i cittadini. Ha fatto cenno agli “Attivisti digitali”. Sembra che le tecnologie digitali hanno ampliato le possibilità per i cittadini di avere consapevolezza delle violazioni dei diritti umani. In fondo la Primavera Araba è nata attraverso i twitt dei giovani arabi nelle piazze. Tuttavia, di fronte a questa accresciuta consapevolezza, la politica sembra non essere in grado comprendere e tradurre questa consapevolezza in azione politica e leggi a tutela dei diritti umani e della giustizia. Direi che è una lotta continua e noi dobbiamo affrontare questo scontro. Ci sono molte storie di successo del movimento per i diritti civili nel determinare cambiamenti politici. Quando ho iniziato a lavorare nel campo dei diritti umani agli inizi degli anni ‘80, gran parte dell’America Latina era dominata da dittature di destra ma oggi nessuna di quelle dittature è in piedi. Tutta l’Europa orientale era sotto il comunismo, mentre oggi non c’è più nessun leader comunista rimasto in quella parte del DA NON SALTARE Intervista alla figlia di Bobby, Kerry Robert F.Kennedy International La “Robert F.Kennedy International House” si è trasferita a Firenze alla fine del 2011, nella sede delle Murate restaurate dal Comune di Firenze e restituite alla città, trasformandole da luogo di sofferenza in luogo di pace. Prima di questo trasferimento, il Centro europeo si occupava soltanto del progetto educativo “Speak Truth to Power”, che nasce da un libro-intervista a 51 leader dei diritti umani che Kerry Kennedy pubblicò tra il 1998 e il 1999, girando il mondo e toccando il maggior numero di paesi possibili. Il progetto si compone di un manuale educativo, di una pièce teatrale scritta da Ariel Dorfman e da una mostra fotografica su questo lungo viaggio. Sono state distribuiti oltre 900.000 di questi manuali educativi, di cui circa 100.000 qui in Italia, con altrettante attività didattiche che si svolgono nelle scuole. In questa attività vengono, talvolta, coinvolti di difensori dei diritti umani e quelli che definiamo i “local hero”, cioè i testimoni italiani dei diritti umani che aiutano gli studenti a far capire che questi temi non sono lontani, riguardano ciascuno di loro. La pièce teatrale è stata interpretata negli Stati Uniti da grandi attori come Meryl Streep e Martin Sheen; in Italia è stato Lucio Dalla a curarne la regia e ad organizzare un grande spettacolo e un tour in tutta Italia fra il 2003 e il 2004. Ma lo spettacolo teatrale ha avuto versioni video realizzato da alcune scuole e una rappresentazione in un carcere in Romania portata in scena dai detenuti (uno dei quali scritturato poi in una compagnia teatrale). Qui a Firenze abbiamo creato un Centro di alta formazione sui diritti umani, non più solo per gli studenti delle scuole medie e superiori, ma anche per gli universitari e i professionisti. All'interno del Centro vengono anche ospitati i “digital activist”, coloro che si battono per i diritti umani attraverso le tecnologie digitali. Abbiamo costruito la International House: 12 camere in cui vengono ospitati questi attivisti a Firenze, dove lavorano insieme e seguono corsi di aggiornamento e formazione. Al Centro si svolgono attività culturali, fondate sul legame fra arte e diritti umani, con mostre (fra le quali “Freedom Fighters” sulla storia del movimento dei diritti civili negli Stati Uniti, “Ladies for Human Rights” dell'artista romano Marcello Reboani che ha omaggiato 18 donne che hanno dedicato la loro vita ai diritti umani) n 76 PAG. sabato 17 maggio 2014 o 3 mondo: tutti vivono sotto regimi democratici. In Sudafrica eravamo agli apici dell’apartheid, e oggi il Sudafrica può vantare una serie di governi eletti democraticamente da tutto il popolo. Marcos dominava le Filippine; avevamo i militari al potere in Corea del Sud; i diritti delle donne non erano nell’agenda politica. Tutti questi cambiamenti sono avvenuti non perché i governi li hanno voluti e guidati; né li volevano i militari o le multinazionali. Sono avvenute per merito delle persone comuni che hanno abbracciato la causa, il sogno dei diritti umani e li hanno resi reali. Penso che il movimento per i diritti umani ha una grande storia di successi. Infatti, se ci guardiamo intorno nel mondo di oggi – anche se ci sono ancora tante sfide e minacce – penso che Martin Luther King aveva ragione: la storia si piega verso la giustizia. O almeno dobbiamo piegarla in tal senso. C’è una discussione in corso sulla natura di regimi politici come quello di Putin in Russia e alcuni le definisco “democrature”, cioè regimi che hanno la forma della democrazia, ma la sostanza di una dittatura. Parliamo di Putin e la democrazia. La democrazia non è soltanto voto popolare, ma ha bisogno di molto di più: libere e giuste elezioni certo, ma anche istituzioni democratiche, libera stampa che garantisca libere elezioni; implica la possibilità che i cittadini abbiano reale accesso all’educazione per tutti, a un welfare decente, al lavoro, alla casa. Tutti questi diritti di base che consentono ad una democrazia di fondare solide radici. Così la presa del potere di Putin in Crimea è una sorta “putsch” da parte di un leader autocratico. Ma, abbiamo visto le recenti notizie dei cittadini che hanno respinto le truppe russe, quindi c’è ancora speranza grazie alla gente comune. Per concludere, ci piacerebbe un suo pensiero su suo padre, sulla traccia che ha lasciato nella vita sociale e politica negli Stati Uniti di oggi. Penso che la vita di mio padre è, alla fine, riassumibile nel detto “togli il tuo stivale dal suo collo!”. Lui ha speso tanta parte del suo tempo a cercare di fermare i bulli del mondo e lui veramente credeva nella dignità umana e nella necessità e urgenza di proteggerla e promuoverla. Quando Martin Luther King morì, lui citò il filosofo greco che disse “Noi dobbiamo sforzarci di domare il selvaggio che è in ogni uomo e rendere gentile la vita del mondo”. Ecco per cosa ha speso la sua vita. Ed è, in fondo, quello che stiamo facendo qui al Centro “Robert Kennedy: addomesticare il selvaggio nell’uomo, indagare sugli abusi dei diritti umani, spingere i governi al cambiamento, portare i tribunale quelli che violano i diritti umani, difendere le vittime, creare il cambiamento. Allo stesso tempo, rendere gentile la vita del mondo, liberare le persone con l’amore, la dignità, l’allegria, la gioia. E’ tutto quello che stiamo cercando di fare. C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com LO ZIO DI TROTSKY LE SORELLE MARX o 4 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 LA STILISTA DI LENIN Vinceti ai Caraibi matrimonio S.Gimignano made in Cina Un da favola E via, verso nuove avventure! Il nostro mito, Silvano Vinceti, l’Indiana Jones de’ noantri, dopo aver dato una spolveratina alle ossa della Gioconda, sta veleggiando verso le coste caraibiche di Haiti alla ricerca di nuove ossa di morto, quelle del capitano della caracca (o come si dice volgarmente, la caravella) ammiraglia di Cristoforo Colombo, la “Santa Maria”, incagliata e affondata la notte di Natale del 1492 su un reef dell’isola. L’amichetto del Nostro, l’esploratore subacqueo Barry Clifford, è sicuro di aver trovato il relitto e, quindi, si è affrettato a chiamare il più famoso necrofilo del mondo. “Hello Silvano, how are you? I have a great occasion for you: come in Haiti to find the bones of Cristoforo Colombo! I found the Santa Maria! Take your bathing suit and solar cream!”. E’ noto – e anche il Vinceti lo sa – che Cristofono abbandonò la nave insieme alla ciurma, ma vuoi che qualche scheletro di marinaio non sia affogato da quelle parti? E che ci vuole? Qualche bel video per la Fox e il gioco è fatto! Poi mettiamo tutto in mostra nel bel complesso di S.Orsolas, vicino a capo Guacanagari. Dopo essere stata liquidata dalla Regione Toscana, all’agenzia di comunicazione Ls&Blu di Roma non sapevano che cosa farsene delle immagini ritoccate con Phtotoshop della Toscana della campagna di comunicazione “Divina Toscana”. Ci hanno pensato su qualche giorno, hanno fatto un po' di telefonate e hanno trovato la quadra: “la vendiamo ai cinesi: quelli ormai si comprano tutto il Tuscan sound”. Ed ecco che quelli hanno fatto una cineseria: hanno deciso una San Gimignano formato Disneyworld: una copia perfetta della cittadella medievale in stile outlet, in cui sfogare i milioni di turisti cinesi. E hanno scelto la campagna di comunicazione della Ls&Blu riveduta, corretta e ri-taroccata, per una manciata di yen. Nella comunicazione è come nella legge di conservazione della massa postulato da Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si ricicla. Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni ŧɳɫ *ODXFR )HUUHWWL I CUGINI ENGELS Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti Come tutte le giornaliste che si occupano di moda ed eventi aspetto con ansia questa sera il matrimonio dell’anno, a Firenze al Forte di Belvedere, tra Kim Kardashian e Kanye West. La messe di ospiti prevista (da Jay Z a Beyoncé, da Janet Jackson a Alicia Keys) e il loro look assicurano materiale per critiche per i prossimi lustri. Per non parlare della sposa spesso più famosa per la sua assenza di capi di abbigliamento che per la presenza. Ma un'altra curiosità mi attanaglia oggi: sapere se qualcuno dei nostri vip riuscirà a imbucarsi all’evento. Magari il vicesindacoreggentecandidatoquasisindaco Nardella a rappresentare la città. E soprattutto come si vestirà per andare all’evento? Al povero Nardella infatti chi cura la campagna elettorale han detto che doveva dare un’immagine giovane di sé per che lui ha interpretato semplicemente togliendosi la giacca e la cravatta ma rimanendo impettito in camicie bianche da abito a cui mai ha tirato su le maniche o slacciato un bottone oltre a quello del colletto. Sconsigliamo anche, nel caso volesse presenziare alle nozze rap, quei golfini dai colori smorti che hanno caratterizzato le serate del candidato o la polo Fred Perry (ma non era di destra negli anni ’70?) blu con logo evidenziatore portata alle cascine. Oddio nemmeno presentarsi con pantaloni vita bassa tre taglie superiori canottiera bianca, gioielleria bene in vista e cappellino da baseball per avere un look rap potrebbe essere una buona idea. Qualunque cosa voglia però indossare una cortesia, capisco che deve dare di sé un immagine positiva e rassicurante ma quel sorriso stampato e forzato, per una volta lo lasci a casa. Giani in 3D VRQJVRQJ Parlando di un libro sulla storia della musica forse è sconveniente parlare di una voce fuori dal coro. Ma è la prima sensazione che sgorga leggendo il libro di Glauco Ferretti che, finalmente ci viene da dire, smonta i mitologici anni ‘60. Non si parla qui delle ragazzine urlanti per i Beatles al Vigorelli, oppure del cantautorato impegnato che tra eskimi e chitarre lanciava appelli per fare l’amore e non la guerra. Si racconta il lato oscuro di quei ‘60, dei gruppi rimasti confinati alle Case del Popolo del fiorentino o alle Comuni del basso bresciano, oppure di quelli partiti per Amsterdam con un vecchio furgone e poi rimasti nei Paesi Bassi a servire patatine ai chioschi fuori lo stadio. Un elenco di fallimenti che toglie quella patina di straordinarietà alla decade, assolutamente da leggere per ricordare che spesso si parte da “Contessa” e si arriva ad “C’è posta per te”. “Ma come ho fatto a non pensarci prima!” ha esclamato sulla sedia mentre guardava Grillo intervistato da Vespa a “Porta a Porta”. Il comico genovese aveva appena dichiarato che, negli USA, la gente si disegnava le cose sul pc e poi andava a stamparsele con una stampante 3d in Comune. Fu lì che ebbe l’intuizione e pensò che sarebbe bastato scannerizzarsi in tre dimensioni, far acquistare all’amministrazione una stampante 3d (piuttosto grande in effetti), e far stampare almeno una decina di copie di se stesso. Con 10 Giani in contemporanea nessun rinfresco, inaugurazione, banchetto, comunione, vernissage sarebbe perso. Ogni evento della città lo avrebbe visto, ancor di più, presente; ogni vassoio di crostini avrebbe avuto il suo assaggio. Era la realizzazione di un sogno. Un unico rimpianto lo colse: la stampante avrebbe dovuto metterla in Regione e non più in Comune. C U O .com PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ o 5 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 di John Stammer “A very small airport” disse Susan al suo primo atterraggio a Firenze. In effetti per gli standard dei medi aeroporti inglesi quello di Firenze Peretola, intitolato ad Amerigo Vespucci che lì vicino, nel borgo di Peretola aveva la casa di famiglia, si presentava come “molto piccolo”. Ancora oggi l’aeroporto di Firenze, che nel frattempo, dai primi anni ‘90 del secolo scorso, si è dotato di importanti miglioramenti strumentali e logistici, primo fra tutti l’ILS (Instrumental Landing System), non è molto grande. La pista è sempre di 1.650 metri nominali, orientata per 050’-230’, che si riducono notevolmente se si atterra, o si decolla, da e verso Monte Morello, e l’aerostazione denuncia visivamente le diverse fasi della sua costruzione. Ancora oggi si presenta come un insieme eterogeneo di edifici collegati fra di loro, che si distinguono per età e funzioni. Parallelo all’Autostrada per il mare si può vedere il primo ampliamento, realizzato a fianco della vecchia aerostazione, progettato da Rino Vernuccio nei primi anni ‘80 del secolo scorso con una tipologia che ricorda gli hangar dei vecchi aeroporti. In adiacenza a questo c’è l’ampliamento degli anni ‘90, che fino a poco tempo fa ospitava la sala del “check in”, e che ora attende una sua nuova destinazione. Ed infine ancora più a nord si erge il nuovo ampliamento, iniziato alla fine dello scorso decennio. Una varietà tipologica e funzionale che sembra voler ricordare ai passeggeri la vocazione “vernacolare” delle nostre città del sud, a conferma che Firenze è una città del sud d’Europa. A dire il vero nel 2007 l’AdF (Aeroporto di Firenze spa), società che gestisce l’aeroporto, oggi a prevalente capitale privato, dopo che il Comune di Firenze e altri soci pubblici avevano venduto nel 2003 le proprie quote azionarie) guidata da Michele Legnaioli aveva tentato di “riordinare” il sistema aeroportuale fiorentino. Aveva in primo luogo indetto un concorso di architettura per il completo rifacimento della aerostazione, ma aveva anche cominciato a pensare ad una soluzione per la pista che eliminasse le limitazioni dell’orientamento e il rumore indotto sull’abitato di Peretola. Un intervento che era stato pensato come radicale e risolutivo delle difficoltà che la continua crescita di passeggeri provocava nel funzionamento del sistema aeroportuale e nella vita di migliaia di cittadini di Peretola e Quaracchi. Un intervento che faceva seguito alle nuove procedure di decollo, rese obbligatorie dai primi anni 2000, che avevano cercato di evitare il sorvolo degli abitati, tentando di limitare il rumore degli aerei in decollo sugli abitati. Il concorso si fece e fu vinto dal progetto dello studio di architettura inglese Pascall-Watson e dalla società di ingegneria Ausglobe Formula Spa. “Un edificio dal segno sobrio, con l’obiettivo dichiarato di unire la tradizione artistica e architettonica di Firenze con la funzionalità di un moderno terminal. Un aeroporto piccolo piccolo Non forme avveniristiche, piuttosto una architettura lineare che ricalca in buona parte l’esistente: gli elementi nuovi saranno un colonnato all’ingresso, cellule fotovoltaiche sulla facciata e il tetto dell’aerostazione in parte coperto a verde.” Questa la descrizione del progetto vincitore dalla cronaca di un quotidiano della città. Ma le difficoltà economiche, l’incertezza sulla “governance” della società e anche le continue polemiche sull’orientamento della pista, e conseguentemente sulla “capacità” del sistema aeroportuale di ampliare significativamente il numero dei passeggeri in transito (difficoltà tutte ancora perduranti), consigliarono una realizzazione parziale del progetto. La maggiore urgenza era quella di ampliare la zona del “check in” e di dotare l’aerostazione di un adeguato spazio per il ritiro bagagli. E così fu deciso di realizzare, a partire dalla fine del 2008, solo una parte del grande progetto di Pascall e Watson. Quello che vede oggi contribuisce comunque a comprendere come la scelta del progetto vincente fu giusta. Un nuovo edificio elegante, con la facciata ricoperta di acciaio “corten” e un interno quasi “sfavillante” con i pilastri rivestiti in lamiere a specchio che ampliano lo spazio e dilatano le distanze. L’ampliamento ha consentito di avere a disposizione dei passeggeri oltre 6.000 mq nuovi di cui 2.500 mq per la nuova sala check-in con 40 banchi accettazione e 2.000 mq per il nuovo impianto di smistamento bagagli, in grado di gestire oltre 1.500 bagagli l’ora con triplo livello di controllo ai raggi X. Con questi interventi la capacità complessiva del terminal è di 2,4 milioni di passeggeri annui. L’intervento è stato inaugurato nell’ottobre del 2011. C ISTANTANEE AD ARTE U O .com o 6 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 di Laura Monaldi [email protected] Renato Ranaldi I l percorso estetico di un artista nasce da una forte e decisa presa di coscienza sulle possibilità inedite che l’opera d’arte deve e può offrire, non solo al fruitore ma anche all’intero Sistema delle Arti: una vera e propria riflessione intellettuale tessuta fra prassi e teoria, fra poetica personale e immaginario collettivo, fra ciò che l’artista destina alla Storia e ciò che la cifra storica rappresenta. In quest’ottica Renato Ranaldi coglie e concretizza, nella plasticità delle forme, il silenzio onnisciente che l’opera d’arte porta in sé, nella sua assolutezza e nella sua totalità di essere prodotto-limite dello spirito umano. Fin dai primissimi anni Sessanta le complessità teoriche e pragmatiche, proprie dell’artista, si articolano in continue divagazioni che fuggono la tradizione canonica in modo ironico e valutativo, in un divenire incessante di ambiguità e considerazioni autocritiche, fra simbologie visive e illusioni, fra fenomenologie e realtà. Paradigmatica, in tal senso, è l’attenzione al disegno, alla prospettiva, alle angolature, alle infinite morfologie plastiche e rappresentative, all’essenzialità, alla formalizzazione delle linee e alle complessità ideologiche e culturalmente eclettiche che stanno alla base di un’opera, plasmata secondo un’elaborazione personale, fuori dagli schemi e dalla koinè contemporanea, nell’intento concreto di stravolgere i principi, le modalità e le finalità estetiche della tradizione, con una radicale operatività trasgressiva a tutto campo – dalla pittura alla scultura, dalla musica al cinema, dal disegno alle carte saggistiche. Una complessità estetica prettamente originale e sofferta, in quanto effettiva e simultanea messa in discussione dell’assolutismo artistico: una sorta di filologia estetica che ribadisce la relatività e la necessità di superare e rendere vane le fenomenologie e le oggettualità di un’Arte, ormai intesa come un circuito chiuso, dal quale è inevitabile tentare un’uscita attraverso l’improbabile, l’imprevedibile e un citazionismo formale ricercato e rovesciato di senso, quasi parodico e tragicomico. In Renato Ranaldi la poetica, libera e immaginativa, si unisce al concettuale e alla dissacrazione, facendo dell’opera d’arte una spazialità complessa, che invita a porre lo sguardo sull’invisibile, in quanto enigma della «vita simbolica della visione» e organismo vitale in cui sovvertire l’ordine in nome del rinnovamento e mettere in evidenza le tautologie della materia e l’immediatezza del gesto: una retorica plastica e visiva, attraverso la quale l’opera si caratterizza per la presenza di motti di spirito dal sapore evocativo, come sonorità poetiche armoniche ma, allo stesso tempo, dissonanti con l’attualità e la cifra storica messa in discussione. Di fatto l’attenzione all’archetipo si qua- La forma del silenzio In alto Il delicato equilibrio di un artista, 1973, Grafite e oggetto di cartone telato sporgente, applicato su tavola A destra Bracciarchetipo, 1980, Cartapesta e rame. Sotto Autoritratto, 1990 Smalto su legno, lamiera d’ottone e luce elettrica. Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato lifica non solo come opposizione al conformismo pittorico post-informale, ma anche come volontà di operare riscoprendo il grado zero, in quanto essenza sostanziale delle cose sensibili e immagine primordiale dell’inconscio collettivo, sintesi dell’esperienza simbolica della Storia umana, che l’artista riscrive e lascia contemplare in un’inedita e personale interpretazione. C OCCHIO X OCCHIO U O .com o 7 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 di Danilo Cecchi [email protected] S e l’incauto accostamento fra Jackson Pollock e Michelangelo ha suscitato (giustamente) prevedibili dubbi e perplessità, vale forse la pena di ricordare come alla figura del creatore dell’Action Painting sia stata accostata, in più di un’occasione, quella del fotografo americano di origine ebrea-russa Aaron Siskind (1903-1991). Dopo un periodo dedicato alla pratica della fotografia “sociale” insieme alla “New York Photo League” di ispirazione comunista, ma più attento alla composizione ed al ritmo che non ai contenuti figurativi delle sue immagini, sul finire degli anni Quaranta Siskind rimane folgorato dalle opere di pittori come Willem De Kooning, Franz Kline, Mark Rothko, e naturalmente Jackson Pollock, e viene coinvolto nel clima culturale che si respira fra New York e Chicago. Il suo stile cambia in maniera radicale, l’attenzione al dettaglio diventa fondamentale ed ossessiva, avvicinandolo a fotografi come Minor White, Gita Lenz ed Harry Callahan, che incontra personalmente nel 1950. Nel 1951 Elaine de Kooning definisce Siskind come un “pittore fotografo”, e le sue opere gli meritano l’appellativo di fotografo “espressionista astratto”. Se non l’unico, certamente il più grande. Come Pollock egli punta sull’immediatezza dell’espressione, come Kline insegue il movimento del gesto poetico, come Kandinsky cerca le analogie fra le forme visive e le cadenze e le sonorità musicali. Le sue immagini trascendono la materia raffigurata, sublimando le forme ed esaltando i ritmi, trasformando le superfici piane o tridimensionali in ritagli significativi ed altamente simbolici, venati di ironia e di un sottile nonsense. Le sue immagini sono aperte, spesso incomplete, rappresentano delle domande ma difficilmente suggeriscono delle soluzioni, la cornice taglia la forma rendendola dinamica, aperta, non conclusa. Siskind non cerca l’equilibrio, stimola la ricerca, spinge verso soluzioni non convenzionali, sprigiona le forze verso rapporti dinamici. In molte delle sue immagini si ritrova qualcosa della furia creativa del pittore, lui stesso confessa di essere cosciente che quello che lui sente è il “quadro” che sta facendo. Che fra fotografia e pittura vi sia sempre stato un rapporto biunivoco, anche prima di Siskind, è cosa ormai assodata. Questo rapporto si è manifestato storicamente ad ogni passaggio, dal realismo all’impressionismo, dal cubismo al surrealismo, dal dadaismo al costruttivismo. In tutti i casi vi è stato uno scambio di esperienze, fino alle fasi artistiche più recenti. Ma nel caso dell’espressionismo astratto accade qualcosa di diverso, ed il rapporto fra l’operatore artistico e la realtà viene completamente ribaltato. Perché nell’action painting l’atto del dipingere è inscindibile dall’opera, in un certo senso è l’opera stessa, mentre in fotografia questo non accade, neppure L’ Espressionismo astratto di Aaron Siskind nelle fotografie di Siskind. Le sue immagini sono sempre frutto di osservazione, le sue inquadrature sono misurate, i suoi soggetti sono frutto di scelte ponderate, l’energia delle immagini è calcolata. Al di là di certe analogie formali con l’espressionismo astratto, il suo metodo è assolutamente opposto. Il tema dell’immagine viene “trovato” perché viene “cercato”, non viene mai “creato” dal nulla, dall’immaginazione o dall’azione. La fotografia coglie tutto insieme ed in un solo istante, non è mai uno “work in progress”. L’occhio viene educato a percepire le forme della realtà, a distinguerle nel caos, a distillarle nel marasma visivo, a “ricreare” la realtà secondo degli schemi mentali, spesso unici ed originali. Siskind lo ammette, almeno in parte, quando dice “Noi vediamo secondo l’educazione che abbiamo ricevuto, nel mondo vediamo solo ciò che abbiamo imparato a vedere, quello che siamo stati condizionati ad aspettarci di vedere. Come fotografi però dobbiamo imparare a vedere senza tutti questi preconcetti.” C PECUNIA&CULTURA U O .com di Simone Siliani [email protected] C’ è materia di riflessione anche per noi nell'assegnazione dei prestigiosi European Museum of the Year Awards avvenuta lo scorso 17 maggio in Estonia da parte dell'European Museum Forum. Non tanto per una sorta di orgoglio patrio frustrato giacché nessun museo italiano risultava fra le 36 candidature, quanto per l'indirizzo che, giustamente, l'organizzazione indipendente ha mostrato nelle sue decisioni che evidentemente segnalano un grande deficit di innovazione nel campo museale nel nostro paese. La EMF nasce per promuovere l'innovazione museale e incoraggiare la diffusione di buone pratiche e progetti in Europa. Quest'anno il premio (consistito nella consegna per un anno dell'opera di Henry Moore, “The Egg”) è andato al Museo dell'Innocenza di Istanbul, museo voluto da Orhan Pamuk per raccontare la storia della sua città negli ultimi 70 anni. Altre menzioni sono andate a musei che hanno saputo innervarsi nella storia e anche nelle contraddizioni delle comunità di cui contribuiscono a costruire e manifestare l'identità attraverso la emersione della memoria (pensiamo allo Žanis Lipke Memorial di Riga in Lettonia che racconta l'opera umanitaria del contrabbandiere lettone Italia La grande assente agli Oscar dei Musei ANIMALI IN POESIA L’ultima passeggiata di Pascoli di Franco Manescalchi [email protected] Nell’Ultima passeggiata (in Myricae) Giovanni Pascoli partendo dall’alba fa un percorso in cui si immerge nella natura e coglie, nel contesto agricolo, la presenza viva del mondo animale domestico o selvatico. Così, già nella nebbia mattinal, egli annota che un villano le lente vacche spinge all’aratura; uno semina, mentre un altro ribatte le porche con sua marra pazïente. E il passero saputo in cor già gode per i semi da beccare, insieme al pettirosso. Continuando il cammino, nell’alba, il poeta sente il canto della lodola, alta. I solchi mira quella sua pupilla lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi, mentre che il villano il canto del cuculo ha nell’orecchi. Passando poi vicino a una cascina il poeta scorge una massaia indaffarata e vispa che d’arguti galletti ha piena l’aia; e spessi nella pace del mattino/delle utili galline ode i richiami. Più avanti, Tra gli argini su cui mucche tranquilla-/mente pascono, bruna si difila la via ferrata che lontano brilla. I buoi, il passero e il pettirosso, la lodola, il cuculo, i galletti, le mucche, un mondo operoso e canoro e poi una memoria di un volo di rondini. Dopo rissosi cinguettìi nell’aria, le rondini lasciato hanno i veroni della Cura fra gli olmi solitaria. Quanti quel roseo campanil bisbigli udì, quel giorno, o strilli di rondoni impazïenti a gl’inquïeti figli! Quindi, da un’aia, appare un cane colto nella sua vivezza, al passaggio di un carro: sbuca il can dalla fratta, come il vento; lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia. Il carro è dilungato lento lento. Il cane torna sternutando all’aia. L’ultima passeggiata si conclude a sera in un sogno accanto al fuoco, con un madrigale a un tu immaginario dai toni oraziani per la parca mensa e virgiliani per i dolci ruminanti. In realtà tutta la passeggiata muove verso e dentro la poesia della vita con i suoi linguaggi molteplici che si intessono fra sogno e realtà nella voce chiare del creato. Al camino, ove scoppia la mortella tra la stipa, o ch’io sogno, o veglio teco: mangio teco radicchio e pimpinella. Al soffiar delle raffiche sonanti, l’aulente fieno sul forcon m’arreco, e visito i miei dolci ruminanti: poi salgo, e teco - O vano sogno! Quando nella macchia fiorisce il pan porcino, lo scolaro i suoi divi ozi lasciando spolvera il badïale calepino: chioccola il merlo, fischia il beccaccino; anch’io torno a cantare in mio latino. Cioè, come il merlo e il beccaccino salutano il giorno chioccolando e fischiando, pure il poeta “torna a cantare in suo latino”, in quanto anche la voce della poesia fa parte della natura. o 8 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Lipke che salvò la vita a oltre 50 ebrei del ghetto durante la Seconda Guerra Mondiale che ha vinto il “Kenneth Hudson Award”, o al Flossenbürg Concentration Camp Memorial in Germania o al Kazerne Dossin Memorial a Mechelen in Belgio). Sono operazioni culturali importanti, che non si fondano sull'evento spot, oppure su mastodontiche strutture o scioccanti installazioni artistiche o, ancora, su imponenti collezioni. Forse è quello che oggi vogliamo da un museo per la vita delle comunità; qualcosa che mette meglio a fuoco il senso, la funzione di un museo moderno che la EMF ha voluto premiare. Noi pensiamo opportunamente: è tempo, anche e soprattutto in Italia, di iniziare a domandarsi perché facciamo un museo e a cosa serve. E' evidente che l'idea di realizzare un museo per scopi di sviluppo economico si è dimostrata sbagliata (noi a Cultura Commestibile lo diciamo da tempo), così come non ha senso realizzare un museo per stupire o meravigliare un pubblico che ha a disposizione mille altre occasioni e strumenti per indursi simili emozioni. Il Museo dell'Innocenza di Istanbul è stato premiato perché rappresenta un “nuovo modello locale e sostenibile di sviluppo museale” e per i suoi elevati standard di “qualità pubblica” non solo per il patrimonio esposto, ma anche per l'accoglienza riservata ai visitatori. Pensiamo sotto questi due profili (sostenibilità dello sviluppo museale e accoglienza) a quanto lontano sia un museo come gli Uffizi e tutti i suoi emuli in miniatura in Italia. Ma molte altre menzioni sono andate a musei che hanno saputo ricreare una atmosfera integrata con il design dell'edificio (l'Estonian Maritime Museum a Tallin), o per il dinamismo espositivo unito all'attualità socio-culturale del tema (il Bildmuseet a Umeå in Svezia, che promuove la cultura europea del dialogo interculturale), o a musei che hanno affrontato problematiche immateriali di ordine generale (come il Museo Occidens/Catedral de Pamploma in Spagna per aver affrontato il tema dei valori della civilizzazione dell'Occidente nell'affrontare le sfide della democrazia, solidarietà, giustizia, pace e libertà), o ancora per aver saputo coinvolgere i volontari della comunità locale (il Saurer Museum di Arbon in Svizzera). Tutte problematiche che i musei italiani non sembrano voler affrontare, forse paghi di esporre il proprio splendido passato, ritenendo erroneamente che questo di per sé costituisca attrattività e rilevanza museale. In una parola nessuna propensione alla innovazione perché scarsa è la riflessione sulla funzione del museo nella società contemporanea. Entro il prossimo 20 giugno si potranno presentare candidatura per gli EMYA 2015, ma al di là di questa scadenza, urge una riflessione culturale in Italia su questi temi. C POLIS&CULTURA U O .com di Simone Siliani [email protected] A nnunciato già lo scorso 15 maggio, sta per prendere vita un importante Decreto legge del Governo per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e per il rilancio delle attività culturali e del turismo. Il provvedimento, come ormai da tradizione, è assai articolato e non in tutte le sue parti presenta le caratteristiche dell’urgenza che un decreto richiederebbe. Tuttavia, pur in una versione ancora non definitiva, reca molte importanti novità. Qui ci limiteremo a quelle relative alla cultura, lasciando per il momento sullo sfondo quelle per il turismo (pure importanti come la riforma dell’ENIT). In primo luogo le parti che vanno sotto la dizione di “mecenatismo culturale”. Come già la normativa della Regione Toscana (che, però, presenta un limite assoluto di 1 milione di euro), il DL prevede la possibilità di una detrazione d’imposta (non oltre il 20% del reddito complessivo) per quanti vorranno disporre erogazioni liberali (non sponsorizzazioni, è bene precisare) a favore di restauri e manutenzione di beni culturali, a sostegno di musei e istituti culturali pubblici, per fondazioni lirico-sinfoniche o enti senza scopo di lucro operanti solo nello spettacolo. I soggetti beneficiari dovranno dare pubblica comunicazione delle erogazioni liberali ricevute e della loro destinazione. Il governo sceglie la strada, tante volte evocata ma finora mai davvero praticata, delle facilitazioni fiscali per chi destina risorse alla cultura: ci sembra un indirizzo giusto che dovrà essere sostenuto da un’adeguata promozione affinché dia i frutti sperati, se non altro per la istituzioni e i beni culturali del governo stesso. Altre disposizioni minori, ma interessanti, attengono sempre allo sviluppo della cultura, come l’istituzione della Capitale italiana della cultura. Per la verità, per le modalità di individuazione, sembra piuttosto un premio di consolazione per le città candidate a Capitale europea della cultura 2019 che non risulteranno vincitrici. Il governo stanzia 5 milioni di euro annui, ma più interessante appare la disposizione che prevede che gli investimenti connessi alla realizzazione dei progetti presentati dalla città che sarà designata Capitale italiana della cultura saranno esclusi dal tetto del patto di stabilità interno degli enti locali. Vengono poi stanziati 3 milioni di auro annui per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016 per progetti culturali elaborati dagli enti locali nelle periferie urbane: la somma è così risibile da risultare quasi ridicola. Tuttavia è interessante che si sia deciso valorizzare i progetti culturali come elementi di riqualificazione delle periferie delle città. Inoltre si prevede che il 20% del Fondo unico di giustizia, costituito dalla vendita di beni sottratti al potere mafioso, sia destinato alla tutela del patrimonio culturale. Vi è poi il capitolo dedicato al Grande Progetto Pompei che prevede una serie Cosa c’è nel nuovo decreto cultura di norme che tendono ad accentuare il carattere di straordinarietà e di deroga alle norme amministrative in termini di appalti di lavori pubblici nelle mani del Direttore generale del progetto. Ora, non potendo qui entrare nei dettagli, viene da riflettere: se le procedure ordinarie della materia sono troppo complesse e lente, forse sarebbe opportuno semplificare quelle per tutti i lavori pubblici (almeno riferiti ai beni culturali); ICON di Michele Morrocchi twitter @michemorr Diabolik rimane uno dei miti del fumetto italiano il cui fascino si mantiene costante nel tempo. Un antieroe così poco italiano da stupirsi che proprio da noi, le sorelle Giussani, idearono e riuscirono a pubblicare un siffatto fumetto. Merito del successo naturalmente, oltre alle storie e al personaggio, disegni che ne esaltano la spigolosità e il mistero con un uso delle chine sempre perfetto e magistrale. E’ dunque per celebrare questo personaggio e due dei suoi giovani e talentuosi autori che l’associazione “una mela per Eva” organizza a partire dal 24 maggio una personale di Giuseppe di Bernardo e Jacopo Brandi presso la propria sede de Le Sieci (via Boito 4, Le Sieci Pontassieve) a cui intervverranno per l’inaugurazione gli stessi autori. Entrambi fiorentini con una larga esperienza nel mondo del fumetto italiano, Di Bernardo e Brandi, disegnatore e sceneggiatore il primo, inchistrista il secondo, porteranno alle Sieci le loro tavole dedicate al ladro gentiluomo. Durante l’inaugurazione di sabato 24 a partire dalle ore 17 i due autori realizzeranno e personalizzeranno dei disegni per gli intervenuti. Diabolika Valdisieve: Giueseppe di oppure, come è parere di chi scrive, nella situazione ambientale di Pompei la deroga a norme, procedure e controlli potrebbe non tanto velocizzare i lavori, ma aprire ulteriori spazi alle infiltrazioni della criminalità organizzata o, quanto meno, a fenomeni opachi di mala-amministrazione se non di corruzione. Per quanto riguarda la valorizzazione del complesso della Reggia di Caserta, Diabolik in Valdisieve Bernando e Jacopo Brandi fumettisti di Diabolik. Inaugurazione sabato 24 ore 17 – Una mela per Eva via Arrigo Boito 4, Le Sieci, Pontassieve. o 9 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 il DL istituisce la figura del responsabile unico del Progetto, o segretario generale della Reggia di Caserta. Dunque, una figura che si preannuncia quasi commissariale. Peccato che a questa denominazione, però, non corrispondano effettivi poteri di un commissario. Infatti il segretario generale ha il compito di convocare riunioni fra tutti i soggetti pubblici e privati che operano nella Reggia, per verificare le compatibilità delle attività svolte con la destinazione culturale, educativa e museale del sito. E se si verifica l’incompatibilità, cosa succede? Non sembra che il segretario abbai poteri sostitutivi o autoritativi, bensì quelli di coordinamento di questi diversi soggetti. Infine il segretario predispone, d’intesa con la Soprintendenza speciale (cui il segretario si affianca), il progetto di riassegnazione degli spazi del complesso della Reggia con l’obiettivo di restituirla alla sua destinazione culturale. Quindi tutto dipenderà dall’autorevolezza del segretario e dall’appoggio che troverà nel Ministro di turno. Il DL prevede anche una interessante norma per la tutela del decoro dei siti culturali che, se applicata, potrebbe avere effetti interessanti. Ministero e Comuni, con specifiche procedure, possono verificare che delle concessioni di suolo pubblico non siano più compatibili con le esigenze di tutela del decoro di certi siti culturali e quindi possono procedere alla revoca di tali concessioni. Così posteggi che deturpano una piazza storica, mercati rionali che invadono sagrati di chiese monumentali, orrendi ed enormi cartelloni pubblicitari su palazzi storici potrebbero essere rimossi o spostati (se non fosse possibile trovare spazi alternativi ed equivalenti in termine di potenziale remuneratività, si procede ad indennizzo). A tutti a Firenze viene in mente il mercatino davanti a S.Lorenzo o il parcheggio in piazza del Carmine. Vi sono infine disposizioni per le Fondazioni lirico-sinfoniche relative al personale in esubero (che passa alla società in house del Mibact Ales S.p.A.), la proroga dei termini per le fondazioni che non si sono adeguate in tempo con il rinnovo degli organi di amministrazione (cosa che non depone a favore dell’autorevolezza delle norme precedenti e che premia gli inadempienti). Un intero articolo dedicato alla Italy Tourist Card interessante anche per gli aspetti legati alla cultura. Si obbliga le Regioni ad introdurre negli atti di affidamento in concessione del servizio di trasporto pubblico locale clausole che obblighino il concessionario ad istituire e fornire all’utenza un servizio di biglietteria telematica, integrabile in piattaforme digitali per la promozione turistica e culturale di ogni livello territoriale. La sanzione per l’omissione di questo impegno è la decadenza della concessione. Si tratta di uno strumento intelligente di integrazione di politiche di mobilità pubblica con quelle del turismo e di valorizzazione culturale che potrebbe dare risultati di crescita culturale importante. C LUCE CATTURATA U O di Sandro Bini www.deaphoto.it o 10 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Firenze 2008-2013 Itinerari notturni Sandro Bini - Florence Night Movida (2008) Florence Night Movida .com MUSICA MAESTRO [email protected] Musica da camera per il XXI secolo La diffusione della world music ha determinato un profondo rivolgimento degli ambienti musicali più diversi. Non solo di quelli predisposti ad accogliere queste nuove influenze, ma anche di quelli dove la formazione classica avrebbe potuto determinare una certa impermeabilità al fenomeno. Anche la stampa specializzata ha preso atto di questo cambiamento: testate come Amadeus e BBC Music Magazine, tanto per fare un esempio, dedicano uno spazio fisso alla world music. Questo cambiamento viene testimoniato soprattutto da molte registrazioni degli ultimi vent’anni, come certi dischi dell’etichetta ECM o quelli di gruppi come Kronos Quartet (Night Prayers, Nonesuch, 1994) e Harmonia Ensemble (Ulixes, Materiali Sonori, 2002). Se queste sono piante ormai rigogliose, ce ne sono altre che stanno crescendo negli ultimi anni, come il Kosmos Ensemble, che suona musica da camera con la carica di un gruppo rock. Nato pochi anni fa in Gran Bretagna, questo trio è composto da due musiciste inglesi, Harriet Mackenzie (vio- celebre “The Lark Ascending” di Vaughan Williams; la trascinante “Kosanini” rielabora in chiave jazzistica il Capriccio n. 24 di Paganini. In tutto il disco la musica scorre robusta ma al tempo stesso distesa, caratterizzata da una fusione strumentale particolarmente felice. Ciascun musicista si dimostra capace di coniugare tecnica e passione. La perizia tecnica e la versatilità dei tre musicisti trova ulteriore conferma nell’attività che ciascuno svolge in altri contesti. Harriet Mackenzie è attiva nel duo Retorica insieme a un’altra violinista inglese, Philippa Mo. Il loro primo CD, English Violin Duos (NMC, 2012) propone composizioni di Jim Aichison, John McCabe e altri autori inglesi contemporanei. La giovane violinista suona inoltre con Milos Milivojevic nel duo In Accord. Il musicista serbo fa parte anche del London Tango Quintet, un quintetto molto apprezzato. Meg Hamilton ha collaborato con artisti arabi, yiddish e compare in Mortissa, il primo CD della cantante turca Cigdem Aslan. Quest’ultima è un’artista molto interessante della quale parleremo presto. di Alessandro Michelucci lino) e Meg Hamilton (viola), e dal serbo Miloš Milivojević (fisarmonica). La formazione insolita mette in evidenza la volontà di coniugare tradizioni colte e popolari eterogenee: balcaniche, mediorientali, nordafricane, sudamericane. Il trio ha esordito nel 2009 con il CD Mazi Mazi, dove si contraddistingue per un approccio basato sulla massima versatilità, spaziando da Brahms a Piazzolla, dal klezmer alla tradizione greca. Il risultato è una musica succosa, come annuncia la melagrana evocata nel titolo del secondo CD, Pomegranate. Nel nuovo lavoro il trio viene integrato da due ospiti, il percussionista Vasilis Sarikis e la violoncellista Shirley Smart. Per gustare il sincretismo non è necessario ascoltare tutto il disco, perchè lo si coglie anche all’interno di ciascun brano. “Liberklezango” è una rilettura in chiave klezmer del “Libertango” piazzolliano; “The Lark” fonde spunti della tradizione mitteleuropea con il C PECUNIA&CULTURA U O .com di Michele Morrocchi twitter @michemorr G iancarlo Passarella è sempre stato un vulcano di idee, ma soprattutto è stato un uomo che ha seguito testardamente la sua passione. Tanto da farla diventare il suo lavoro e la sua vita. Ha fondato una fanzine da Guinnes dei primati sui Dire Straits, ha creato il sindacato dei fan club italiani, ha fatto radio, dirige una testata online (musicalnews.com), ha scritto una ventina di libri sui Dire Straits ed un libro recentemente uscito su Ligabue (Con questa faccia qui, Arcana, 2013) il tutto all’insegna della buona musica e della voglia di seguirla e collezionarla. Non pago di tutto questo ha fondato anche una una casa discografica la U.d.U Records (dove UdU sta per Ululati dall’underground altra fanzine storica e gloriosa) che senza scopo di lucro produce e lancia giovani talenti musicali. Una casa discografica che usa un metodo di promuoversi piuttosto singolare. Intanto i cd li regala e non li vende. O meglio li scambia con francobolli. Infatti per ricevere i cd, gratuitamente, degli artisti pubblicati da UdU Records basta inviare una busta con un po’ di francobolli commemorativi o particolari alla casa discografica. I francobolli faranno poi la gioia dei collezionisti mentre i gruppi prodotti avranno modo di farsi conoscere ad un pubblico più vasto, il tutto mettendo insieme due oggetti, franco- Un francobollo per un cd o 11 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 VINTAGE Il Franco Miratore Gli epigrammi di Franco Manescalchi nelle pagine di Ca Balà a cura di Paolo della Bella NOVEMBRE 1972 Verrà il Natale e avrà i tuoi pacchi questi pacchi che ci accompagnano dal mattino alla sera grossi assurdi come un vecchio debito o un vizio a rate i tuoi pacchi saranno una vana parola un grido taciuto un silenzio così li apri ogni sera quando sotto il peso ti pieghi per tutti Natale ha un suo pacco. Verrà il Natale e avrà i tuoi pacchi: sarà come ammettere un vizio come vedere nello specchio riemergere conti e cambiali come ascoltare una condanna per mora. Faremo la cessione dello stipendio muti. Il baratto che salva gli oggetti in via di estinzione bollo e cd, che stanno andando ormai a scomparire. Insomma un modo innovativo ma efficace per diffondere passione. Per ulteriori informazioni su questo baratto http:// www.musicalnews.com/articolo.php? codice=25597&sz=1 Il harciof ripieno 150 gr di pecorino grattugiato 5 uova 500 gr di pancarrè ¼ di latte 5 spicchi d’aglio 1 limone Prezzemolo Olio extra vergine d’oliva Preparazione: Sbriciolate le fette di pancarrè in una zuppiera, versataci sopra il latte e lasciate che assorba tutto il latte. Su- Ho udito il fischio delle “gazzelle” ho visto schiere di celerini con le visiere coi manganelli col mitra in pugno neri corvini. Sono venuti quando fu scuro i celerini senza dir niente hanno picchiato con rabbia duri gli scioperanti: la buona gente. Ognuno è entrato dentro un portone ed è fuggito fin sopra i tetti per non finire nella prigione spinto da lunghi freddi moschetti mentre gli “abeti” brillano accesi là nella casa qui sulla via perché è la ricca festa borghese: sangue e champagne morte e allegria. MENÙ di Michele Rescio [email protected] Il Carciofo è una pianta di origine mediterranea, molto nota fin dall'antichità per i pregi organolettici del capolino (le prime descrizioni risalgono allo storico greco Teofrasto). L'attuale nome volgare in molte lingue del mondo deriva dal neo-latino "articactus" (in alcuni dialetti settentrionali è chiamato articiocco); il nome italiano "carciofo" e lo spagnolo "alcachofa" derivano dall'arabo "harsciof ". La coltura del carciofo è diffusa in alcuni Paesi del Mediterraneo, in particolare soprattutto Italia, poi Francia e Spagna, mentre è poco conosciuto in molti altri Stati. La maggior parte della produzione commerciale è destinata al consumo fresco, il resto all'industria conserviera e dei surgelati. La coltura del carciofo è diffusa soprattutto nell'Italia meridionale, dove con il risveglio anticipato della carciofaia in estate è possibile anticipare l'epoca delle raccolte all'inizio dell'autunno. Carciofi ripieni Chi ama questi magnifici vegetali l’avrà mangiato in tantissimi modi: fritto, arrostito, crudo in insalata, con la carne, eccetera. Io li preferi- sco ripieni, senza carne, e vi riporto la ricetta così come li preparava mia madre. Ingredienti per 4 persone: 8 carciofi 500 gr di cipollotti freschi bito dopo strizzatelo in modo che il pane sia quasi asciutto e posatelo in un altro recipiente. Tritate finemente l’aglio, il prezzemolo, e unitelo al pane; aggiungete uova e pecorino e amalgamate il tutto servendovi di un cucchiaio. Assaggiate, e se necessario aggiustate di sale. Bene! Adesso prepariamo i carciofi: tenete a portata di mano il limone tagliato a metà. Togliete le foglie dure dai carciofi. Togliate le punte spinose, tagliate i gambi completamente e teneteli da parte. Detergete i carciofi con il limone, così eviterete che anneriscono. Spellate i gambi e fate la stessa operazione con il limone. Adesso allargate delicatamente le foglie dei carciofi e fate in modo che si formino dei piccoli crateri e spruzzate all’interno il succo del limone rimasto, poi, con un cucchiaio, riempiteli con la farcia. In una pentola che li possa contenere tutti, mettete sul fondo i cipollotti tritati e un filo d’olio. Adagiate i carciofi in piedi, versate acqua fino a coprirli quasi del tutto, aggiungete i gambi spellati e mettete a cuocere a fuoco forte per i primi 10 minuti, poi abbassate la fiamma fino a cottura ultimata. Con il brodo, se volete, potete farci anche una minestra con spaghetti spezzati. C KINO&VIDEO U O .com di Cristina Pucci [email protected] U n austero film in bianco e nero, lento e silenzioso, racconta una storia ed in essa si trovano informazioni e stimoli per possibili pensieri. Il male: le sue conseguenze non hanno mai fine. La guerra, gli ebrei e la loro persecuzione, altri modi e altri orrori che almeno io per ora avevo ignorato. Siamo nella Polonia comunista e cattolica e povera degli anni sessanta.Una giovane donna, Anna, è cresciuta nel convento di suore in cui, piccola ed orfana, è stata portata nel corso della seconda guerra mondiale. Sta per prendere i voti, la Superiora vince la sua ritrosia e la spinge con decisione a conoscere la sorella di sua madre, unica e fino a lì ignorata, parente. L’incontro è freddo si direbbe, la zia, una bella donna sulla cinquantina appare ricca, dedita all’alcool e agli uomini e dice che vuole continuare a non conoscerla. All’ultimo momento si ricrede, Anna assomiglia moltissimo alla madre, la sua amata sorella morta da tempo. Anna si chiama in realtà Ida ed è ebrea. Wanda, la zia, è una donna ostile, disincantata, comunista e atea prova fastidio per il velo monacale e soprattutto per ciò che esso sottende, Ida tace e sta nel suo essere, in silenzio, nel credo di Cristo, prega ogni sera. Però i ricordi agitano la inquieta donna, fatuamente dedita all’ingannarli. Cerca delle foto, parla della madre di Ida e della sua colorata cretività, poi dice che potrebbero andare insieme a cercare dove sono sepolti i loro familiari, fra essi la madre e il padre di Ida e il suo bambino, lasciato con la sorella nella casa di campagna, per "andare a combattere....chissà poi per che cosa..." Wanda è un giudice, inserita e rispettata nel regime per la sua passata lotta partigiana. La morte di tutti i suoi però le ha alienato l’anima. Si scopre che sono stati tutti uccisi da qualcuno dei contadini che per un po’, apparentemente, li avevano protetti e nascosti. Wanda riesce a far confessare il colpevole e a farsi accompagnare dove ne ha sepolto i corpi, in mezzo a un bosco di betulle fitte e altissime. Sono stati uccisi per prenderne la casa e il podere, pare che siano stati molti questi casi in Polonia: cattolici polacchi uccisero ebrei in fuga per prenderne i beni. Le due donne raccolgono ciò che resta delle ossa dei loro cari e li vanno a seppellire in un cimitero ebraico. Ecco la struttura portante della storia, le conseguenze del male, altre vite lesionate o almeno da esse fortemente improntate. Ida sta distante dagli stimoli della musica, del ballo, dei giovanotti, della vita secolare insomma. La zia la riaccompagna al convento, nido conosciuto e rassicurante, ma la soluzione di segreti e il fluire del dolore fino ad allora represso travolgono la zia, non c’è più senso nè spazio per lei. Si suicida. Ida torna in città, si mette nei panni della zia, nelle sue scarpe con il tacco, nei suoi abiti provocanti, esce e si concede anche il giovanotto che le era piaciuto, ma poi? Poi? si chiede più volte e poi? rientra al convento, sotto il velo per sempre. Regia di Pawel Pawlikowski, le due protagoniste perfette, bianco e nero es- Il silenzio di Ida o 12 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 senziale, non tagliente, quasi un pò sporco, in tema con i luoghi e gli anni e la povertà. Non potevo non raccontarvi questa storia, amo i film che sanno raccontare belle e significative storie, con immagini e poche parole. RI-FLESSIONI di Paolo Marini [email protected] Che cosa non si fa, in una campagna elettorale, per chiedere/raccattare un po' di voti? Molte cose – rispondo - 'non' si fanno. Volete un esempio? L'altro giorno, inavvertitamente, mi sfila davanti una di quelle pubblicità elettorali su autocarro dove leggo, oltre al nome del candidato e della lista (che non cito, perché in questa mia nota non c'è alcunché di personale e perché è solo una tra le innumerevoli chicche), soprattutto questo slogan sentite che ganzo: “Le persone perbene non hanno colore”.... Ho letto bene? Significano, queste parole, ciò che è logico? Perché dovrei votare qualcuno che non ha - o sceglie di non avere - “colore”? Non è già ricca, la politica, di uomini allevati in batteria, a non disturbare i manovratori? Non è già essa il trionfo, l'emblema dell'accidia in sottovuoto spinto, dell'invariabile genericismo, dell'uniforme incompetenza? E' dunque da bandire definitivamente ogni sussulto di individualità, la distinzione tra un chiunque e un chiunque altro? Qualcuno, che non se la beve, mi replicherà: non hai capito, il candidato intende dirci un'altra cosa, cioè che gli uomini perbene hanno un valore in sé, a prescindere dal partito o dalla cultura politica che abbracciano. Io a mia volta protesterò: ciò è dannatamente banale e quando mi trovo di fronte ad un contenuto banale – la propaganda politica è una fontana a getto continuo, di simili perle – mi sento già, almeno con due piedi su due, dentro Votatemi, perché ho niente da dire e lo so dire benissimo l'insignificante, l'indistinto, il nulla! Se non è da esigere il minimo sforzo intellettuale da chi pretende di amministrare la res publica (che essa sia un comune ovvero lo stato, non ha importanza), tanto meglio è essere incalzati da un semplice 'votatemi, votatemi perché ho niente da dire e lo so dire benissimo'. Non stupiscano lor signori se più di taluno, per così dire, si butta (non a sinistra, non a destra, bensì) nell'astensione! Non è forse una vita che l'elettore (e cittadino) viene trattato da suddito? Che si pretenda, niente niente, che questo suddito sia anche un po' rimbambito? C LO STATO DELLA POESIA U O .com di Matteo Rimi S [email protected] iamo seduti uno di fronte all’altro, separati solo da un tavolo di questo affollato e rumoroso bar, circondati da una varia umanità indaffarata per i propri casi ed indifferente allo scambio che, come una profezia che si avvera, sta avvenendo tra noi due. Sì, perché a Paolo Fabrizio Iacuzzi è bastato leggere le poche note su di me che circolano su internet per capire di trovarsi al cospetto di una persona a cui rivelare la scoperta avvenuta attraverso le ultime, pesanti vicissitudini della propria vita e cioè che la vera natura della poesia è quella di un virus che attecchisce subdolo nella propria vittima, scatenando rigetti e sofferenze nel poeta che cerca di liberarsene condividendo e così diluendo la malattia e insofferenza ed incomprensioni nel lettore che ne intuisce la natura infettiva ed attiva le proprie difese. Me ne parla, lucido e vivo, perché un refuso su quella nota telematica mi ha trasformato da “sanitario” in “santiario” e lui un po’ si diverte ed un po’ è serio passando dal concetto di sanità e di ciò che, ancora non detto, smuove in tutti noi il contatto con la sofferenza, alla santità alla quale il servizio che l’operatore ospedaliero presta si [email protected] Yin e yang S.Michele in Foro a Lucca di Stefano Vannucchi LUCE CATTURATA Paolo Fabrizio Iacuzzi o 13 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 avvicina e di quanto quello prestato dal poeta a questo assomigli. Il poeta, mi rivela, risponde alla richiesta di significati che il lettore gli richiede offrendogli una visione in fondo testimonianza di un vissuto che diventa esempio in vista del bene, in uno scambio etico che non è passaggio di informazioni come in altre forme di comunicazione, ma trasmissione di una passione ormai fissata, estrapolata ed esorcizzata in questa trasmigrazione. E’ questo che Paolo fa: mi regala, con estrema generosità, il collegamento che mi mancava, quello tra il mio essere sanitario ed il mio essere santiario e mi mostra la carenza di poesia in queste fredde corsie. Questo mio rincorrere poeti o i tanti me stesso che ho perso per la via sembra aver trovato qui, al tavolo di un chiassoso bar all’ora dell’aperitivo, una sua possibile risoluzione, aiutandomi a capire che essere infermiere ed essere poeta è per me la stessa cosa: in tutte e due le attività cerchi di combattere una malattia con iniezioni di vaccino che ti immunizzino di fronte a cotanta minaccia, un antidoto ad un veleno che penetra in te poco a poco. Nella poe- Malato di poesia sia come negli ospedali curi il fruitore dei tuoi servigi ammalandoti tu un po’ per volta, nel mistero che è la sofferenza, che è la poesia. Il malato, il poeta-portatore infetto, ha per Paolo Fabrizio Iacuzzi un solo modo per curarsi: identificare il proprio male ed imprigionarlo pagina per pagina, quadro dopo quadro, maneggiandolo come fosse grezza creta fino a che non trovi quasi da sé una forma propria, finché anche dal male non ne esce il bene. Solo così il caso, ogni casualità che il giorno ti offre, diventano la grazia con cui i vari aspetti della vita ti vengono mostrati. La stessa grazia che Paolo deve aver avvertito sentendo del mio progetto che ha come ambientazione un luogo storico a lui molto caro, fatto di cerchi concentrici come i livelli in cui l’introspezione scende e grazie al quale egli stesso ne chiuderà uno, esaurendo un’aspettativa, ed, insieme, un altro ancora fino al livello più basso, dove tutto si compirà. La vostra mente le vostre parole in prosa. In versi questo racconto a voi dedicato. Lacera sempre quanto s’inoltra e più in carne vostra e mia fa recinto.Forse nessuno. La tua migliore poesia. BIZZARRIA DEGLI OGGETTI a cura di Cristina Pucci [email protected] Mortaio Dalla collezione di Rossano Grande mortaio di marmo, presumo da farmacia, misura 40 cm circa di diametro per 20 cm in altezza, XVII secolo e pestello in bronzo, stessa epoca. Un detto, con nuances ironiche dice “ogni mortaio trova il suo pestello”, ad esempio riguardo all’essersi maritata di “una donna brutta” (così il vocabolario, io di un uomo brutto..). Il mortaio è oggetto molto molto antico, Egizi e Greci ne usavano di bellissimi in alabastro e diaspro per macinare il grano, ne esistono di pietra, di vetro, di legno... Schliemann, nel corso dei suoi geniali e fortunati scavi per cercare le mura di Troia, trovò alcuni mortai di basalto e vari pestelli di granito e calcare. Questo oggetto è stato ed è usato in cucina, in farmacia, in chimica, vi si pestano sostanze varie per ridurle in polvere o in poltiglia. Il pestello dovrebbe essere ruotato schiacciando le sostanze e, se mai, si volesse proprio “pestare” i colpetti dovrebbero essere piccoli. Ecologico ovviamente, non consuma energia se non muscolare. Affaccendarsi inutilmente in qualche attività o convincimento imposssibile può essere assimilato a “pestar l’acqua nel mortaio”. C VIS POLEMICA U O .com di Laura Mazzanti B [email protected] asta un # e il gioco è fatto. Viviamo in una realtà sempre più social, strettamente interconnessi l’uno con l’altro, anche se a dividerci ci sono migliaia di chilometri, un paio di mari, qualche oceano o catena montuosa, e perché no, un continente. E poco importa se oggi sono maggiormente gli hashtag a smuovere energie creative e positive più che le forze politiche stesse. Se in principio era la parola a regnare sovrana, oggi si sta affermando in modo perentorio l’immagine: lo testimonia il boom di Instagram, che ha ingaggiato un testa a testa con Twitter per il primato su chi ha più utenti. Alla fine del 2013 gli utenti di Instagram, in gergo “Igers” abbreviazione di instagramers, si sono attestati sui 3,3 milioni di utenti contro i 3,6 di Twitter. Ma perché l’immagine ha preso così tanto il sopravvento? Il primo grande fotoreporter fu Robert Capa. Tutte le immagini più note, più conosciute sulla Seconda guerra mondiale, sulle truppe americane in Italia, sulla guerra civile in Spagna, sulle città bombardate, riposte in qualche cassetto della memoria, esistono in noi perché è esistito Robert Capa. Senza ombra di dubbio la foto più celebre, e anche probabilmente quella più discussa, fu quella del miliziano anarchico colpito a morte durante la guerra civile spagnola. Ma nonostante la costante e indefessa esposizione in prima linea di Robert Capa per documentare quello che i suoi occhi vedevano e che quindi anche il mondo avrebbe dovuto conoscere, 14 indelebili segni nelle coscienze collettive. Oggi siamo all’apice di quel processo di affermazione del valore della immagine. Tra fotografi fai-da-te, fotoreporter freelance, selfie (chissà poi perché non chiamarli semplicemente autoscatti, i quali, tra l’altro, non sono certo una novità), tutto è diventato social, o scendendo ancora più nel gergo giovanile, “virale”. C’è qualcosa però che sta lentamente sfuggendo al controllo e su cui sarebbe opportuno riflettere. Mi riferisco, in particolare, alla campagna #bringbackourgirls, la quale si pone come obiettivo di tenere i riflettori puntati sul rapimento di circa duecento studentesse da parte del gruppo terroristico islamico Boko Haram in Nigeria. Un rapimento avvenuto il 14 aprile scorso, inizialmente quasi taciuto dalle autorità locali, con la complicità della stampa internazionale poco attenta. Ma a puntare prepotentemente l’attenzione sulla vicenda ci ha pensato Michelle Obama, la quale lo scorso 7 maggio ha postato una sua foto su twitter con un cartello scarabocchiato in nero su sfondo bianco e la frase, divenuta ormai celebre, #bringbackourgirls. Segno inequivocabile della sua completa adesione alla campagna internazionale lanciata per liberare le studentesse rapite. E molti altri personaggi, più o meno noti, hanno immediatamente seguito il suo esempio. Il Festival di Cannes in questi giorni è assediato da star che, accanto a paillettes e lustrini vari, mostrano a favore dei fotografi cartelli con la scritta #bringbackourgirls. In Italia non siamo certo da meno. Il sito di Repubblica invita costantemente i lettori a mandare foto inerenti alla campagna internazionale, con tanto di pubblicazione online. Intendiamoci, non c’è nulla di negativo in tutto questo. Per un paese come la Nigeria che sta cercando con tutti i mezzi a disposizione di oscurare la vicenda, riuscire a mantenere un livello alto di attenzione non può che giovare al futuro, assai incerto, delle studentesse rapite. Il punto però è un altro. Pochi mesi fa lo stesso gruppo integralista islamico massacrò oltre 50 studenti in un collegio nel nord-est della Nigeria. Il collegio di Buni Yadi accoglieva ragazzi tra gli 11 e i 18 anni di età nello stato nord-orientale di Yobe, a 60 chilometri dalla capitale Damaturu. Ma lì non c’erano twitter o instagram a occuparsi delle sorti di quei poveri studenti. Sono ormai anni che il gruppo Boko Haram miete vittime, cercando di instaurare un clima di terrore in tutto il paese. E allora perché soltanto in questa vicenda si è ritenuto opportuno intervenire? Non sarà forse perché la campagna internazionale per liberare le studentesse rapite è divenuta così social, al punto tale che mostrare la propria vicinanza sembra quasi un obbligo? A mio parere, sono già troppi coloro che hanno in mano le sorti di intere nazioni, gruppi etnici o religiosi, che scelgono quando intervenire o quando lasciar perdere, che decidono chi è giusto salvare o chi è invece può essere abbandonato a sé stesso, non conferiamo, quindi, tale “potere” anche ai social network. rombo di una moto che sfreccia a tutta velocità. E’ ferma nello squarcio assolato di Via Roma, come un puntino eternamente orbitante nella fissità del buco nero. Lì, alla fine della strada. Penso al povero motociclista, col suo casco da astronauta. Mi verrebbe pure da piangere, non fossi un giocatore d’azzardo alle prese con la depravata numerazione delle vie in numeri rossi e numeri blu. Punto ovviamente sul rosso ma perdo ad ogni mano. La logica che governa questa progressione è opera oscura. Ogni uscio è un’apertura verso la spirale di un portale. Esce il mio numero rosso ed eccomi dentro ad un negozio di scarpe. Mi sorride il Brunelleschi. Dovrei indossare dunque quelle pantofole papali? Va bene, obbedisco. Assaporo la potenza dei Borgia ed i miei occhi si fanno crudeli, a fessura. Sibilo che è un furto, ma pago. Cinquantasette euro per un paio di pantofole. Berrò il sangue di questa città nel furore della fiorentina cotta alla brace. Ne spolperò la carcassa fino all’osso. Sarò il cannibale al servizio dei Medici. Nella mia testa, come un mantra, ossessivo, senza fine: “Firenze la città dell'arte, va in culo a chi arriva e a chi parte”. #wearesocial l’immagine restava qualcosa di fragile, se paragonata al grande strumento di comunicazione rappresentato dalla parola. Poi arrivò il Vietnam e quel giugno del 1972, quando nel sud del paese Nick Ut scattò una foto di straordinaria forza espressiva che gli valse il Premio Pulitzer. L’immagine di quel gruppo di bambini in fuga dopo un bombardamento al napalm a ovest di Saigon, la corsa disperata della ragazzina completamente nuda, ustionata dall’acido, e sullo sfondo il villaggio in fiamme, riuscì a raccontare l’orrore della guerra più di mille parole. E fu proprio in quel momento che il valore della immagine acquistò sempre più forza, lasciando o n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 CATTIVISSIMO di Francesco Cusa [email protected] Eccomi a Firenze. Per un non fiorentino è come essere impotenti di fronte a Nicole Kidman. I miei amici fiorentini sono pazzi. Si ubriacano e vanno in giro parlando una sorta di italiano-esperanto, in un bisticcio fonetico costante che trova pace solo nella morte della lettera scritta. Paradossalmente Venezia è più “aperta”(nella stagnazione saltano quantomeno le raganelle). Qui vi è una finta dinamica. Il concetto di velocità è insipido, come il pane toscano. Tutto si muove nei binari ternari della cantica. Perfino il turista pare cedere ad una qualche inflessione. In questa città sono accadute troppe cose. Enormi cose. Arcane. Misteriose. Un tale concentramento di bellezza, secoli orsono…non è fatto razionale. Il mio collo si torce, ora a destra, ora a manca. Squarci di luce, ombre sulle case, sulle strade. Poi improvvisamente piove. Temo Renzo Auditore. Lo sento calare dai tetti, incappucciato, mentre sibila il suo drappo e sul mio collo cala lo stiletto. La città ha un’atmosfera irreale, quasi sospesa. Perfino il traffico ha un che di asettico. Caldo. Ora splende il sole. Spifferi di vento dalle vie ombrose. L’orologio d’un qualche campanile segna un’ora qualsiasi nella giornata senza calendario. Mi aspetto un cerusico da un momento all’altro. Invece ecco un par- Firenze cheggiatore abusivo. E’ un fatto importante; pensavo fossero solo in Sicilia e nel napoletano. Miraggi. Passa una ragazza bellissima. I suoi capelli biondi, per un istante sospeso, fanno da controcanto alla bandiera gigliata che sventola, impertinente, fuori dal bar. Falso prospettico. Un giglio viola e dorato. Colori nobili che rimandano agli antichi traffici di sete, stoffe e spezie. Silenzio. Poi il REPLICA di Michele Morrocchi twitter @michemorr La nostra giovane e brava collaboratrice, Laura Mazzanti, la scorsa settimana ha dedicato un articolo all’anniversario del referendum per il divorzio. Ottimo pezzo e ottimo argomento a cui però saltava all’occhio una vistosa assenza. Quella dei Radicali e di Marco Pannella, grandi animatori e protagonisti di quel referendum sia con il comitato referendario che con la Lega Italiana per il Divorzio. Va infatti ricordato che quel referendum ebbe una vita politica C’era anche Pannella piuttosto travagliata. Non voluto dall’intera DC, fu infatti Fanfani che lo volle fortemente per riconquistare un’egemonia che vedeva ormai perduta; visto con timore da una buona parte delle gerarchie ecclesiastiche (evidentemente capaci di sentire l’umore dei loro fedeli), fu anche osteggiato dal PCI che temeva una sconfitta da parte delle masse cattoliche. Ci sono pagine affascinanti nei verbali dei comitati centrali del partito, con- servati all’Istituto Gramsci, su come il gruppo dirigente comunista vedesse come inevitabile la sconfitta e maledisse Pannella (e in minor misura i socialisti) per quella avventura referendaria, seppure poi il partito si mobilitò in forza per far vincere il NO. Non andò come temeva il PCI e Pannella, con la sua visionaria lucidità, dichiarò nella notte, quando ancora i risultati erano incerti, che il NO aveva vinto. Aveva ragione lui. C U O .com ABISSI o 15 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Il tempo peggiore della notte per avere incubi è il primo sonno: troppo profondo al risveglio, non rimane che una grande sofferenza senza sapere la causa onirica che l'ha prodotta. Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni C RI-FLESSIONI U O .com di Giacomo Aloigi [email protected] C onservatore ma a modo suo innovatore, cattolico ma non bacchettone, Reagan aveva la dote di essere uno straordinario comunicatore. Parlava in modo semplice, diretto. Usava un linguaggio chiaro che arrivava con facilità e altrettanta efficacia alla nazione. Per molti il suo periodare era quasi banale, se non insulso, ma quando pronunziava un discorso in pubblico, anche le frasi e le locuzioni più scontate acquisivano capacità penetrativa nell’uditorio, la sua perfetta intonazione di oratore riusciva a caricare di forza quelle parole che, magari lette su una cartella, potevano lasciare indifferenti. L’offensiva lanciata da Reagan nei confronti dell’Unione Sovietica è duplice: militare ed ideologica. Anzi, filosofica. Da questo punto di vista l’attacco è frontale, ad alzo zero. E’ il marzo 1983. Ronald Reagan tiene un discorso ad Orlando, Florida, avanti all’Associazione nazionale degli Evangelici. Passerà alla storia come il discorso su “l’impero del male”. “Dunque vi esorto a parlar chiaro contro quelli che vorrebbero mettere gli Stati Uniti in una posizione di inferiorità militare e morale. Così nelle vostre discussioni sulla proposta di sospensione della corsa al nucleare vi esorto a stare in guardia dalla tentazione dell’orgoglio, la tentazione superficiale di dichiararvi superiori a tutto ed etichettare entrambe le parti come egualmente colpevoli, di ignorare i fatti della storia e gli impulsi aggressivi di un impero del male, di chiamare la corsa alle armi semplicemente un gigantesco fraintendimento e dunque sottrarre voi stessi alla lotta tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il SCAVEZZACOLLO o 16 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Il mondo sull’orlo dell’abisso nucleare male”. Così Reagan sul finire del suo intervento, che chiude con una citazione di Wittaker Chambers (membro del partito comunista americano): “La crisi del mondo occidentale esiste in proporzione all’indifferenza dell’Occidente verso Dio, in proporzione alla collaborazione al tentativo comunista di far sì che l’uomo prosegua da solo senza Dio. […] Il mondo occidentale può rispondere a questa sfida ma solo a patto che la sua fede in Dio e la libertà di cui gode sia grande almeno quanto la fede del comunismo nell’uomo”. Spaventato dallo sviluppo delle armi atomiche e dalla leggerezza con cui l'amministrazione Reagan parlava di guerra nucleare, il governo sovietico incrementò a sua volta la propria potenza militare. Il nuovo segretario del partito, Yuri Andropov, concluse che "la pace non può essere ottenuta elemosinandola dagli imperialisti. Può essere mantenuta solo facendo affidamento sulla invincibile potenza delle forze armate sovietiche". In risposta al dispiegamento di missili americani in Europa occidentale nel dicembre 1983, il Cremlino interruppe i negoziati sul controllo degli armamenti, riprese lo spiegamento di missili nucleari SS-20 che aveva in precedenza fermato, collocò i missili nucleari SS-23 in Germania Orientale e in Cecoslovacchia e fece avvicinare i sottomarini nucleari sovietici alle coste degli Stati Uniti. Alla fine del 1984, il Cremlino incluse un aumento del 45% delle spese militari nel suo piano quinquennale. Il discorso di Reagan del marzo 1983 sul- l'impero del male, ebbe vasta eco in Unione Sovietica, come ricorda Vladimir Slipchenko, allora membro dello Stato Maggiore sovietico. "I militari, le forze armate, lo utilizzarono come pretesto per iniziare una preparazione molto intensa ad un nuovo stato di guerra. Iniziammo a fare importanti esercitazioni di carattere strategico... Quindi, "per i militari, il periodo in cui eravamo chiamati "impero del male" fu, in effetti, molto positivo e utile, perché raggiungemmo un altissimo grado di efficienza militare... Potemmo anche sperimentare la situazione in cui una guerra convenzionale può trasformarsi in una guerra nucleare". I leader sovietici, terrorizzati dall'idea che l'amministrazione Reagan stesse preparando un primo attacco nucleare contro il loro paese, furono vicini a scatenare una guerra nucleare. Nel novembre 1983, durante l'esercitazione militare della NATO denominata "Able Archer", il nervoso governo sovietico si convinse che, sotto le apparenze di un'esercitazione, si stesse preparando un attacco nucleare americano contro l'U.R.S.S.. Di conseguenza, furono allertate le forze nucleari sovietiche, i comandanti passarono in rassegna le loro missioni d'attacco, le armi nucleari furono preparate all'azione. "Il mondo non fu esattamente sull'orlo dell'abisso nucleare - ricorda Oleg Gordievsky, un agente americano infiltrato nel KGB - ma durante Able Archer nel 1983 vi fu paurosamente vicino" (Parte 2 di 2 - fine) Il vero decadente di Massimo Cavezzali [email protected] 1)Se pensi che lo spirito sia fatto di carne e la carne sia fatta di malinconia, saturnina e dionisiaca, sei un vero decadente …2)Se ti piace l’umanità, però non questa, sei un vero decadente…3)Se hai la malattia dell’infinito ma in farmacia, senza ricetta, ti danno un digestivo della vita da banco, sei un vero decadente….4)Se chatti con Sardanapalo, Eliogabalo, Teodora e Semiramide, sei un vero decadente. …5)Se come animale di compagnia, al cane o al gatto preferisci te stesso, sei un vero decadente….6)Se la tua vita assomiglia a un mosaico bizantino, sei un vero decadente…7)Se tutto è niente, tutto è fumo, e quindi 5 euro al pacchetto non è un prezzo caro, sei un vero decadente …8) se pensi che tutto sia un aprire e chiudersi, entrare ed uscire, allungarsi ed accorciarsi, sei un vero decadente…9) se pensi che a parte il giramento di coglioni, tutto il resto sia una trascurabile inezia, sei un vero decadente …10) se pensi che non valga la pena fare una lista per definire cos’è un vero decadente, sei un vero decadente. C VISIONARIA U O .com di Simonetta Zanuccoli I 17 da opere lì trasferite da altri musei e da pregiate donazioni come quella di Krishna Riboud che nel 1990 ha donato la sua immensa collezione di tessuti asiatici dal XVII secolo al XIX, e quella di Ernest Grandidier con 6000 pezzi di antiche ceramiche cinesi. Alla fine degli anni 90 il museo è stato magnificamente ristrutturato dagli architetti Henri e Bruno Gaudin. Degli ambienti originali è rimasta solo la biblioteca che sorprende il visitatore con la sua cupola retta da colonne a forma di misteriose dee stilizzate. I nuovi spazi che si sviluppano su quattro piani, sobri ed eleganti senza concessioni a uno scontato esotismo, invitano a perdersi nell'incanto delle opere esposte e diventano essi stessi un viaggio estetico nell'architettura contemporanea. Un incontro tra antico e moderno, tra oriente e occidente che merita senz'altro una visita appassionata. [email protected] l bellissimo museo Guimet in place d'Iéna a Parigi con una delle collezioni di arte asiatica più complete al mondo fu ideato da Emile Guimet, geniale personaggio vissuto nella seconda parte dell'800 e morto nel 1918. Figlio di un industriale di Lione che produceva colori fantasiosi tra i quali un famoso blu oltremare chiamato appunto Blu Guimet e di una pittrice, Emile da giovane seguì le orme materne cimentandosi nella pittura e nella scultura per poi entrare nell'attività di famiglia alla quale si dedicò per tutta la vita con grande successo e impegno civile tanto che, da industriale speciale per i suoi tempi, e forse anche per i nostri, ideò un fondo per finanziare le pensioni e gli incidenti sul lavoro per i suoi 150 dipendenti. Intellettuale, grande studioso di storia delle religioni, amava l'arte , il teatro e la musica (scrisse un balletto e un' opera) anche se la sua grande passione fu il viaggio e il collezionismo di opere d'arte. Il suo sogno era quello di aprire un museo dedicato all'arte antica greca, egiziana e asiatica ma poi si focalizzò su quest'ultima a seguito dell'incarico datogli dal Ministero della Pubblica istruzione di uno studio sulle religioni orientali, che lo portò nel 1876 nelle regioni dell'Asia Centrale fino all'Estremo Oriente. Nei suoi frequenti viaggi aveva raccolto una quantità enorme di sculture, dipinti, oggetti spesso trovati in circostanze eccezionali. Al suo sogno di aprire un museo per raccogliere e mostrare questa incredibile collezione dedicò molto tempo e denaro. Lo realizzò a Lione nel 1879 poi, con la decisione di donare allo Stato l'intera collezione, il museo fu trasferito a Parigi e inaugurato nel 1889 in occasione della Fiera Mondiale. Il patrimonio artistico del museo Guimet che ripercorre 5.000 anni di storia di arte asiatica è stato integrato e arricchito o n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 L’arte asiatica di Emile Guimet GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio Pettinelli [email protected] San Rocco è particolarmente venerato come protettore dal flagello della peste. Non risulta però che, durante il suo pellegrinaggio in Italia, sia passato da Firenze, che invece avrebbe avuto un disperato bisogno del suo aiuto. Firenze ha infatti avuto più volte a che fare con la peste, a cominciare dalla famosa “peste nera” del 1348, che sterminò 25 milioni di persone, 1/3 della popolazione europea, e che, nel giro di due anni, ridusse gli abitanti di Firenze da 125.000 a 30.000. Quella del 1348 è l’epidemia per sfuggire alla quale dieci giovani si rifugiano a Villa Palmieri, lungo l’attuale Via Boccaccio, e passano il tempo raccontandosi storie. E’ durante quell’epidemia che i monaci di Santa Maria Novella iniziano a produrre l’aceto dei sette ladri, che si diceva rendesse immuni dalla malattia. E’ nota la storia di questo medicamento miracoloso: sette depredatori di cadaveri avevano scoperto la ricetta del farmaco; ciascuno di loro cono- Via San Rocco Dagli all’untore sceva un ingrediente e non lo rivelava agli altri. I monaci della farmacia, però, riuscirono a entrare in possesso della ricetta completa grazie all’intervento di una monaca che persuase i sette ladri, non si sa come, a svelarle ciascuno la sua parte di segreto: tanto per restare a Boccaccio... La successiva epidemia, nel 1497, contribuì non poco alla caduta di Savonarola, che da anni predicava contro il malcostume di Firenze e invocava Dio che mandasse “spada, spada; carestia, carestia; pestilenzia, pestilenzia!”. Il frate fu esaudito appunto nel 1497, e anche la sua fama (comprovata!) di profeta di sventura portò Savonarola sul rogo l’anno successivo. Alla peste del 1497 è legata anche la storia di Ginevra degli Amieri: la diciottenne Ginevra, innamorata di Antonio Rondinelli, è costretta a sposare Francesco Agolanti. Creduta morta durante l’epidemia, viene sepolta viva in Duomo, ma riesce a evadere dal sepolcro: respinta dal marito, raggiunge la casa di Antonio percorrendo l’attuale Via del Campanile, che per questo fatto fu chiamata in antico “Via della Morte”. Ultima epidemia, di manzoniana memoria, nel 1630, quando Porta San Gallo, in Piazza della Libertà, fu detta “porta della peste” perché si diceva che la malattia fosse entrata in città da lì, portata da un contadino bolognese. E, sulla scia della “colonna infame”, le Autorità fiorentine ordinarono di svuotare tutte le acquasantiere delle chiese, per evitare che i perfidi untori ci versassero dentro i loro malefici unguenti. La peste del 1630 fu anche causa indiretta di un fatto clamoroso: Galileo, ottenuto il nulla-osta da papa Urbano VIII per la pubblicazione del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, stampò il libro a Firenze, inviando al papa una copia preventiva che però, a causa della peste e del rigido embargo imposto dai Medici, raggiunse Roma solo quando circolavano ormai moltissimi esemplari del libro. Il papa si ritenne raggirato e attivò il Sant’Uffizio che, il 22 giugno 1633, condannò Galileo per eresia. C LUCE CATTURATA U O .com di Ilaria Sabbatini [email protected] SCENA&RETROSCENA di Simone Siliani [email protected] Da anni Angela Torriani e la sua Versiliadanza lavorano sulla cultura, la spiritualità e la luce armena: è un’operazione culturale profonda, seria, rigorosa, di quelle che scavano nella roccia con la tenacia e la forza della goccia continua. Così la riproposizione della coreografia “7th Sense” che abbiamo visto al teatro Cantiere Florida lo scorso 21 maggio nell’ambito del Festival di Fabbrica Europa, mi è apparso come un nuovo spettacolo, sedimentato su anni di lavoro e secoli di spiritualità e cultura. Un millennio per la precisione, tanto è passato dal Libro delle Lamentazioni di G.Nareghatsi o Gregorio di Narek, poeta, musicista e filosofo armeno del X secolo, figura centrale nella cristianità armena, a cui è ispirata la coreografia. La regia è di Vahan Badalyan, giovane regista che abbiamo intervistato tempo fa noi di “Cultura Commestibile”. La coreografia è una meditazione corporea, una ricerca della luce nella tenebra del mondo, oppresso dalla colpa, dalla violenza, dall’alienazione, una ricerca di equilibrio interiore e della riconciliazione con Dio. Un piccolo, prezioso, libro di Andrea Ulivi, “Luce armena” (Edizioni Meridiana, 2008), rende pla- 18 o n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Città d’acqua Lucca Anfiteatro stica questa consustanzialità fra la luce dell’Armenia, le sue architetture religiose e questo spettacolo, che continua oggi volta a commuoverci, ad avvolgerci in una cultura millenaria che risale dalle profondità del Caucaso, da quella lontana provincia dove i due continenti si incontrano e si confondono. Là, dove ci sono anche, forse, le nostre radici. 7 Il senso ° C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE o 19 n 77 PAG. sabato 24 maggio 2014 Big Boy, Santa Clara, California, 1972 [email protected] Dall’archivio di Maurizio Berlincioni In questo caso il “Brand name” di questa catena di Fast food prende il nome da un bambino di 6 anni di Glendale, California, che ebbe la ventura di entrare nel negozio di Bob Wian proprio mentre lui stava cercando di dare un nome al suo “business”. Wian si rivolse a lui chiamandolo “Hey Big Boy!” Questa esclamazione suonò bene al suo orecchio e così decise immediatamente che questo sarebbe stato il nome da dare al suo business. Fu chiamato un artista animatore della Warner Bros. che fece la caricatura del giovane cliente che teneva nel palmo della mano questo “double decker Cheese Burger”, il tipico cheeseburger a due piani! Per onor di cronaca il nome del ragazzino di 6 anni era Richard Woodruff e il proprietario della catena fece poi disegnare anche una serie di fumetti chiamati “The adventures of Big Boy” usati poi come omaggi promozionali per tutti i clienti della catena. Questo fumetto è stato pubblicato per 40 anni!