Sinossi opera NUR

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Sinossi opera NUR
NÛR
opera in un atto
libretto di VINCENZO DE VIVO
musica di MARCO TARALLI
commissione del Festival della Valle d’Itria
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prima rappresentazione
Martina Franca,
Teatro Verdi, 21 luglio 2012
Sinossi
L’Aquila, qualche giorno dopo il terremoto.
La scena mostra un ospedale da campo colmo di letti, separé, comodini di metallo, sotto
tende che sottolineano la provvisorietà di quel ricovero improvvisato su un prato.
È sera inoltrata. Nel buio della notte il brusio di malati, accompagnatori, personale
sanitario, rivela lacerti di dialoghi, preghiere, lamenti, disposizioni, richieste. Il tappeto
quasi inerte delle voci è spezzato dall’urlo improvviso della donna ricoverata nel lettino
centrale in primo piano. Ella si alza di scatto: una fascia le benda occhi e cranio.
“Luce!” grida, e comincia a farneticare – con apparente lucidità – di un colpevole del
disastro, che ella solo conosce e che vuole denunciare. Proteste e commenti si alzano
dagli altri pazienti, che hanno soprannominato Luce la donna che, da quando è stata
portata nell’ospedale, grida e ripete di continuo questa parola.
Un giovane medico volontario – dai lineamenti magrebini - e l’infermiera di turno
accorrono e cercano di tranquillizzare la donna. A nulla valgono le rassicurazioni del
dottore, che le spiega come sia stato un terremoto a sconvolgere la regione e che il
crollo della casa nelle cui macerie è stata intrappolata è stato l’effetto di una calamità
naturale. La donna insiste nel volersi alzare e andare via. Solo la promessa che
l’indomani, all’alba, il medico tornerà per accompagnarla dove ella vuole, calma la
donna agitata.
Un vecchio frate si avvicina alla donna, che sembra lo stesse aspettando: anche da lui
riceve l’invito ad attendere il mattino. La donna è contrariata: il monaco ha bisogno di
attendere il giorno, come gli altri. Ma il religioso le ricorda che giorno e notte sono
soltanto apparenze. Solo la luce è verità.
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Sopraggiunge il primario, accompagnato dal giovane medico e dall’infermiera. Il
volontario gli mostra la donna bendata, e ne racconta i fatti singolari: estratta viva dalle
macerie del suo palazzo, con un taglio sulla testa, dalla notte della tragedia ha perso la
vista e ora sembra essere vittima di allucinazioni. Gli fa eco l’infermiera: nessuno
conosce il suo nome, lei stessa non lo ricorda, tutti qui la chiamano Luce, è una
smemorata che parla con un frate immaginario. Il giovane le lancia un’occhiata severa.
Il primario appare contrariato dall’eccessivo interesse per una donna che soffre solo di
evidenti problemi mentali: proibisce al giovane medico di usare riferimenti diversi dal
numero 144, quello del letto, per identificare la paziente e gli affida una serie di
incombenze: nel campo mancano plasma e medicinali.
Una dottoressa viene ad avvertire il primario che l’attesa unità mobile dei Cavalieri di
Malta è finalmente arrivata. Il medico sta per seguire la donna, ma un infermiere lo
chiama d’urgenza al capezzale di un vecchio morente. A nulla vale l’intervento solerte
del primario: l’anziano spira tra la costernazione e l’angoscia generale.
Mentre tutti ritornano ai loro letti e i sanitari si ritirano, rientra il frate: s’accosta al
letto del defunto, con la mano gli chiude gli occhi e si ferma a pregare. A lui s’avvicina
un uomo con un mantello bianco – a tutta prima uno dei Cavalieri di Malta – e lo saluta
con affetto: “Padre!”. Il monaco l’abbraccia: “Ancora una volta mi vieni incontro. Come
sulla via di Lione”. Hanno tutta la parvenza di conoscersi da antico tempo, e insieme
ricordano quello che fu il loro primo incontro - quando il militare salvò il religioso da un
agguato, uccidendo l’aggressore - e la profonda intesa spirituale che li portò ad aprirsi
reciprocamente e ad avviarsi vicendevolmente verso esperienze di profonda spiritualità.
Il frate rammenta la mistica visione del sacro lino custodito tra le mura del Tempio,
mentre il cavaliere riconosce di aver imparato dal frate a riconoscere il volto del Padre
in ognuna delle sue creature.
Il Cavaliere svanisce, la donna si è risvegliata e domanda al frate chi sia quella figura.
“Un uomo che ha imparato a perdonare” è la risposta del religioso, che s’allontana.
Un grido agita ulteriormente la notte. Concetta, la ferita del letto 83, riconosce il figlio
nel bambino che hanno appena portato in ospedale, estratto dalle macerie dopo più di
due giorni dal sisma. Grande fermento tra i letti: i feriti meno gravi si alzano e corrono a
vedere il nuovo arrivato. Sua madre vorrebbe tenerselo accanto, ma il giovane
volontario, che segue il ricovero del bimbo ferito la tranquillizza: all’indomani farà in
modo che madre e figlio siano ricoverati nello stesso ospedale.
“E a mio figlio chi pensa?” esclama improvvisamente Luce. Il volontario la sente, si
avvicina premuroso al suo letto e le chiede di quel figlio, se è ancora sotto le macerie,
se deve dare l’allarme per cercare di salvarlo, se era con lei nella casa al momento del
sisma.
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“Non è mai stato con me” è la risposta dolente della donna, che confessa al dottore di
non vedere suo figlio da tanti anni, dal suo solo momento felice. Inizia a narrare la sua
storia, quella di una ragazza obbligata dal padre ad abbandonare il figlio neonato, frutto
di una relazione inconfessabile e scandalosa. Il volontario, turbato dal racconto della
donna, domanda quale sia il nome del bambino. La donna dice di non averlo mai saputo.
Allora le chiede quale fosse il nome del padre del fanciullo: Lucia, dopo un attimo di
esitazione commossa, portandosi la mano alla nuca, risponde di averlo dovuto
dimenticare. Poi dice al dottore di essere stanca e, mentre il medico s’allontana, ripete
a se stessa: “Era una vecchia storia ormai senza importanza, la storia di una donna senza
alcuna speranza”.
Sopraggiunge il cavaliere che fa eco al mormorio della donna: una speranza esiste
ancora, ed è sul Colle di Maggio e chiede alla donna se conosce il luogo. Luce sembra
conoscere la storia: “Collemaggio, dove venne Celestino”.
Collemaggio fu il più grande miracolo del Santo – soggiunge il cavaliere – una "biblioteca
di pietra" voluta da chi stava tra le viscere dei monti come nell’utero materno, turbato e
poi angosciato dalle voci che lo volevano strappare all’eremo per incoronarlo Papa. Al
racconto del cavaliere, la donna fa eco col ricordo della propria esperienza, quella
tomba di terra nella quale ha atteso interminabili ore, nella speranza che qualcuno
potesse sentire le sue grida.
Riappare il frate, che esprime l'angoscia di chi, votato per tutta la vita all’ascetismo e
alla solitudine, è improvvisamente attanagliato dal dubbio: il rischio di peccare di
superbia, nel credersi degno del trono di Pietro, di essere quel papa angelico
profetizzato da Gioachino da Fiore.
Il cavaliere - e con lui la donna, quasi richiamata nella dimensione trasfigurata della
visione - lo invita a non opporsi alla volontà di Dio e di salvare il popolo cristiano: accetti
quest’ora come il suo Getsemani, a cui seguirà un non meno doloroso Calvario.
“Fiat mihi secundum verbum tuum” è la risposta del frate, che accetta di diventare
Papa col nome di Celestino, mentre voci sempre più vicine e incalzanti intonano un
Magnificat.
L’inno si spegne nel mormorio indistinto della corsia d’ospedale, dove le litanie
lauretane si mescolano ai lamenti dei feriti e alle voci dei medici.
Mentre il cavaliere s’allontana, Luce si solleva dal letto come folgorata da una
rivelazione: “Sei tu...tu?... Celestino?". Il frate l'accarezza e si allontana mentre Luce
rimane inginocchiata a terra chiedendo: "E l'altro...chi è?" nel momento in cui
l'infermiera rientra; credendola vittima della solita allucinazione, l'aiuta a sollevarsi e
l'invita a dormire.
Sopraggiunge il medico volontario, e pensando che l'ultima domanda di Luce fosse rivolta
a lui risponde: “Sono il medico”. Rassicura la donna: non c’è nessun frate; dormono
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tutti. S’accosta al letto e, a bassa voce, le racconta una storia: di quando era bambino
ed aveva difficoltà a prendere sonno. Si addormentava soltanto al suono di una ninna
nanna che gli cantava il suo papà. Ma spesso il padre non era con lui e gli era difficile
prendere sonno quando si trovava solo: aveva allora preso l’abitudine di cantarsela per
sé, quella ninna nanna. Ed accenna una nenia in arabo. Nella mente della donna
s’accendono ricordi lontani: l’incanto con cui ascoltava da bambina suo padre che
cantava canzoni con una bella voce; l’incomunicabilità tra loro quando era adolescente;
il suono di una lingua che le fu familiare nei momenti di intimità, e che non riascoltava
da anni; l’incapacità di perdonare a suo padre; la morte di lui. Sopraffatta dai ricordi,
scoppia in un pianto convulso.
Il volontario chiama l’infermiera e prescrive per lei una nuova dose di calmante.
Sopraggiunge il primario con la notizia che l’ospedale da campo verrà smantellato
all’alba e che i feriti verranno trasportati in altre strutture: alla paziente penseranno
altri medici altrove. Invita quindi il giovane medico – che sembra inquieto - a riposare
per qualche ora.
Allontanatosi il primario, l’infermiera riferisce al volontario un singolare dettaglio: la
collega del turno precedente le ha confidato che alla base del cranio rasato della donna
è apparso un tatuaggio: una parola, scritta forse in lingua araba. A questa sorprendente
notizia, il volontario vorrebbe sbendare subito la donna, ma l’infermiera lo dissuade dal
compiere questa imprudenza.
Mentre i feriti meno gravi commentano l'imminente trasferimento, Luce si alza dal letto
in cerca del frate, che improvvisamente le appare. “Padre, tu che hai pietà delle paure
degli uomini, salva il mio cuore da pena e rimorso”. La risposta del monaco non è
consolatoria: “Solo il perdono recide ogni legame”. Ognuno è il giudice per se stesso.
Ella stessa dovrà perdonarsi.
“Come posso se ho paura?” – replica la donna – “Ho paura dell’alba.”
“Anche Giacomo, il cavaliere che hai visto con me, aveva paura”, continua il monaco; e
prende a raccontare la storia di Jacques de Molay, Gran Maestro del Tempio. La donna
sembra conoscere la storia dell’ultimo dei Templari, arso vivo per volontà del re di
Francia e con l’assenso del Papa, entrambi da lui maledetti. Il frate, però, la prepara a
una rivelazione: le cose non andarono così, ma nessuno può sapere la verità.
“La paura l’invase l’ultima notte, nella cella in cui attendeva la morte – racconta il
monaco - Temeva la luce del giorno. Chiamò me, che non ero più in vita, sicuro che fossi
accanto a lui, come ora sono accanto a te”.
Ai due si unisce il cavaliere, che rivive le angosce di quella notte: l'improvvisa paura che
fa crollare le granitiche certezze di una vita, il terrore di non essere all’altezza del
perdono, nel giorno della prova suprema. Alla sua voce si uniscono quelle del frate e
della donna: il primo lo invita a superare il sentire umano e ad avere coscienza della
natura divina che è in tutti, mentre la seconda medita sulla propria esperienza
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personale di colpa e rimorso. Il monaco incalza: a Jacques non bastò la prova del
perdono; come Giuda accettò per amore di Cristo di compiere l’atto più ignobile perché
si compissero le scritture, a lui stesso – Celestino – toccò sopportare il marchiò di viltà
del "gran rifiuto"; così Jacques ha dovuto accettare che il mondo tramandasse in eterno
la menzogna della maledizione. Il cavaliere, rincuorato e spronato dalle parole e
dall'esempio del suo Maestro, trova il coraggio di un martirio coscientemente accettato,
e annunzia il suo perdono per il Papa e per il re.
Luce, profondamente commossa alle vicende di Jacques, dà prova di una profonda
maturazione interiore: “Il perdono che desidero per me non potrò chiederlo a nessuno” –
dice tra sé – “Per me l’alba è arrivata troppo presto.”
Frate e Cavaliere scompaiono. La donna, rimasta sola, s’allontana.
Le prime luci dell’alba. Durante l’interludio strumentale l’ospedale si va smantellando.
Con la scomparsa degli elementi che componevano la struttura dell’ospedale, si scopre il
prato di Collemaggio: Luce, sempre bendata, è seduta nell’erba.
Dalla Basilica salgono le voci che intonano un salmo penitenziale.
Con l’odore dell’alba e il richiamo delle rondini, Luce ritrova un senso di armonia e di
pace interiore, consapevole della propria dignità di parte integrante del Tutto.
Le si avvicina il Volontario, che la chiama col solo nome possibile: “Luce!”. “Sei venuto
per me?” chiede la donna. Il giovane medico annuisce. Luce gli chiede se sa dove si
trovano. “Le rondini le senti? Siamo a Collemaggio” risponde il Volontario. La donna è
emozionata: “Collemaggio, la porta di Celestino…”. Il giovane medico conosce la storia:
“Sì, il frate che fecero papa, ma che non volle mai andare a Roma”; Luce è sorpresa del
fatto che il giovane musulmano conosca la storia abruzzese di Celestino; il giovane
spiega allora che gliela raccontava il padre quando era bambino: la storia del papa che
aprì una porta sul fianco della chiesa perché chi vi passava potesse essere perdonato:
per la prima volta un papa parlava di perdono.
“Di cos’altro ti parlava tuo padre?” chiede la donna. “Di mia madre…” – le risponde il
giovane – “la madre che non ho mai conosciuto.”
Ella morì, gli raccontava il padre; la chiamava Nûr, in arabo luce, e sembrava non averle
perdonato il fatto di averlo lasciato solo a crescere un figlio; all’approssimarsi della
morte aveva raccomandato al giovane di fare tutto il possibile per trovare il significato
della sua esistenza, e di perdonare la madre, anche per lui, che non ne era stato
capace.
“Dammi la mano” – dice la donna, visibilmente commossa dal racconto del giovane - “e
passiamo insieme la porta del perdono”. Si solleva, aiutata dal medico, ma si ferma
all’improvviso per chiedergli di toglierle le bende.
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Dapprima esitante, il giovane inizia a sbendare Luce teneramente; sulla nuca rasata
appare la scritta tatuata, e la donna lo invita a decifrarla. Un nome in arabo: “Karim.”
“E tu come ti chiami?” domanda dolcissima.
“Samih - risponde il giovane - colui che dà il perdono.”
“Samih? Così ti trovo?... Samih, così l’imparo…?”
E, di slancio, senza smettere di guardarlo negli occhi, come in una confessione
liberatoria, gli dice: “Io sono Nûr!”.
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