Le vie dell`acqua. I mulini ad acqua nel territorio del Golfo di
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Le vie dell`acqua. I mulini ad acqua nel territorio del Golfo di
Un volume a cura di Girolamo Culmone e Andrea Ferrarella Coordinamento Editoriale Girolamo Culmone Sebastiana Adamo Salvatore Marchese Grafica, Impaginazione e Stampa ArtiGrafiche Abbate Via Nazionale, 133 - Cinisi (Palermo) www. artigraficheabbate. com ISBN 9788894111309 © 2015 Tutti i diritti riservati al GAL “Golfo di Castellammare” Edizione fuori commercio. Vietata la vendita. Comune di Alcamo Comune di balestrate Comune di borgetto Comune di cinisi Comune di partinico Comune di terrasini Comune di trappeto le vie dell’acqua i mulini ad acqua nel territorio del golfo di castellammare a cura di Girolamo Culmone e Andrea Ferrarella GAL GOLFO DI CASTELLAMMARE PREFAZIONE di Pietro Puccio Presidente del GAL “Golfo di Castellammare” All’esatto confine tra le province di Trapani e Palermo, su uno spuntone roccioso irto che guarda al Tirreno, si eleva da secoli maestoso e carico di fascino, per certi versi anche adombrato di mistero, il castello di Calatubo. Calatubo è posto a guardia della spettacolare ampia marina, di facile accesso, tra l’antico fortilizio di Castellammare, rocca imprendibile, e la chiesa-torre di San Cataldo che chiude ad ovest il vasto e lunghissimo litorale sabbioso, ovvero lo splendido nastro d’oro di una spiaggia - davvero - tra le più belle ed estese del Mediterraneo. Calatubo “porta” della provincia di Trapani, dunque, ma punto di controllo anche dell’esportazione della moneta internazionale fino alla fine dell’Ottocento: il grano, che era la moneta universalmente riconosciuta ed accettata nel mondo delle coste ellenizzate, puniche, etrusche o celtiche in tutti e quattro gli angoli del Mediterraneo. Calatubo era la dogana, il grano arrivava dalle lontane plaghe della Sicilia interna e costiera. Il prezioso prodotto per cui la Sicilia era famosa nell’antichità, fin dai tempi di Omero e Virgilio, proveniva dalle ubertose campagne che si allungavano dolci ed infinite tra il Monte Bonifato e Rocca Busambra. Calatubo era una città - come testimonia Ibn Giubayr durante il regno di re Gugliemo il Buono, senza dubbio lo statista più grande che la Sicilia abbia mai avuto - con una fiorente popolazione totalmente musulmana, ricca, opulenta, tranquilla e felice anche dopo la reconquista normanna. Calatubo abbisognava di tanta acqua e la sorgente più vicina era a poche centinaia di metri ad est: la Cuba delle Rose che, grazie ad un “miracolo” della storia, è arrivata nelle sue forme arabe intatta fino ai nostri giorni con il suo qanat integro ed efficiente. La Cuba delle Rose è stata opportunamente oggetto di un attento restauro finanziato dal 5 Gal “Golfo di Castellammare” ed effettuato dal Comune di Alcamo. Come già accaduto alla chiesa (più “giovane” appena di qualche secolo) gotico-catalana di San Tommaso Apostolo, la Cuba delle Rose ci è perfettamente pervenuta addirittura ancora magnificamente funzionante, nella sua capacità di fornire chiare e fresche acque alla vicina Calatubo ed ai vigneti che la circondano, in un mare di ondulate colline verdi che producono vini bianchi di elevatissima qualità. Vigneti che portarono il vino bianco “Castel di Calattubo” (come ci testimonia la bella etichetta della fine dell’Ottocento) a vincere numerosi premi nazionali ed internazionali e ad essere il bianco preferito per le serate di Casa Savoia nelle sontuose cene di gala della “ Belle Époque” del periodo umbertino. Cuba delle Rose, espressione attiva della capacità e della feracità dell’agro alcamese, baciato dai freschi venti provenienti dalla vicina marina, testimonia ancora oggi della sapienza della scienza idraulica degli Arabi, i quali perfezionarono a loro volta la grande capacità ingegneristica dei Romani e dei Bizantini che, proprio nella valle dello Jato e nell’area del golfo di Castellammare, avevano dato vita ad una sorta di odierna California con “mansiones” (ovvero fattorie di grandi estensioni) e con floride popolazioni, come dimostra l’ampia monetazione ed il ricco vasellame rinvenuto, spesso casualmente, durante i lavori agricoli (i ritrovamenti, talvolta imponenti e numerosissimi, fatti nelle campagne di Alcamo e di Partinico, si possono osservare al Museo Nazionale Salinas di Palermo che conserva, dopo l’acquisizione dello Stato italiano del 1866, ciò che in sette secoli seppero trovare e conservare i padri benedettini di San Martino delle Scale). Una vasta e ridente piana dove ancora oggi sopravvivono antichi mulini ad acqua che vanno recuperati, come sta facendo concretamente il GAL “Golfo di Castellammare” con il Comune di Partinico. È questa - il recupero di Cuba delle Rose e dei mulini idraulici della piana di Partinico – un’operazione di pura nostalgia? No, è soprattutto un doveroso intervento di salvaguardia di una memoria che guarda al futuro delle giovani generazioni. È questa la scommessa del GAL e dei Comuni consorziati: una scommessa finora vincente e ricca di successi. Occorre salvare la sapienza del nostro passato per fare rimanere in Sicilia i nostri giovani: è una sfida a cui il GAL “Golfo di Castellammare”, con i suoi sette Comuni ed i partner pubblici e privati, crede. 6 PREFAZIONE di Andrea Ferrarella Responsabile di Piano del GAL “Golfo di Castellammare” Con questa pubblicazione, il GAL “Golfo di Castellammare” vuole dare un contributo al recupero della memoria di un territorio, che giorno dopo giorno va scoprendo elementi di identità in gran parte apparentemente persi, ma presenti nel vissuto dei luoghi. Questa volta l’attenzione è stata rivolta ai percorsi delle acque superficiali, che con i loro canali numerosi, solcano la piana che da Alcamo arriva a Partinico e Terrasini. Si tratta di acque utilizzate sin dai tempi più remoti, tanto che il geografo Al Idrīs, parlando del nostro territorio, così affermava: «[…] abbonda di acque da muover molte macine […]». Qui la laboriosità delle genti, congiuntamente alla ricerca di energie, ha fatto sì che lo scorrimento delle acque sia stato impiegato per alimentare mulini e macine, a loro volta utilizzati per la trasformazione dei prodotti e/o per l’accumulo delle acque e l’abbeveraggio degli animali. Alla stessa stregua la ricchezza di acqua è stata utilizzata per la lavorazione della cannamela. Mi auguro che questo irripetibile patrimonio intriso di storia, cultura e sofferenza con il bagaglio del trascorrere dei secoli, possa essere trasmesso intatto ai nostri figli. Un ringraziamento va al Consiglio di Amministrazione ed ai collaboratori tutti che con spirito di sacrificio e abnegazione hanno condiviso con il GAL la volontà di legare il nostro passato al futuro. Il presente studio portato avanti dall’ing. Enza Anna Parrino e dal dr. Gianluca Savarino, con il contributo storico del prof. Tommaso Aiello, permette di ricostruire parte della storia di un intero territorio. 7 introduzione di Girolamo Culmone Geologo L’area su cui insistono i Comuni del GAL si caratterizza fortemente rispetto al territorio circostante, delimitato a nord dal mar Tirreno, a sud dalle vallate argillose nel contesto agricolo del corleonese, ad est dalla Conca d’Oro e dalla città di Palermo ed a ovest dai primi rilievi dei monti del trapanese. Dal punto di vista geologico si possono riconoscere abbastanza agevolmente diversi contesti. Il primo è caratterizzato dai rilievi carbonatici dei monti di Palermo che a tratti superano di poco i mille metri di altezza e che testimoniano un lontano passato (circa 250 milioni di anni fa), quando quest’area del Mediterraneo era ancora sommersa e presentava un ambiente spesso simile alle scogliere coralline che oggi occupano parte del golfo del Messico. Si ritrovano, infatti, fossili e tracce tipiche di quelle aree. Un esempio per tutti la successione triassica che trova il suo apice al di sotto dell’omonima torre. Si tratta di una successione di rocce carbonatiche mesozoiche, che ben rappresentano l’ambiente in cui si formarono circa 150 milioni di anni fa. La valenza scientifica del sito, studiato fin dagli anni Settanta dall’Università di Palermo, è testimoniata dal riconoscimento da parte del Comune di Terrasini, già nel 1968, come “biotopo”; nel 2000 da parte della Regione Sicilia con l’istituzione della Riserva Naturale “Capo Rama; nel 2005 da parte del Ministero dell’Ambiente con l’inserimento nell’elenco dei geositi nazionali ed infine, sempre dalla Regione Sicilia, con l’istituzione di ben tre geositi (“Successione triassica di Capo Rama” di rilevanza nazionale per l’interesse stratigrafico, “Grotta di Cala Porro” e “Grotta dei Nassi” per le caratteristiche speleologiche) nell’area di Capo Rama - Cala Rossa con D. A. del 15/04/2015. Ma la lunga storia geomorfologica dell’area ha ancora molto da raccontare, infatti ospita numerosissime grotte naturali sia carsiche che marine, le quali sono state riparo di tante specie animali, uomo compreso. Tra le più importanti e studiate fin dal XIX secolo, nell’area 9 orientale occupata dal golfo di Carini, le grotte dei Puntali e dei Carburangeli, anch’esse riconosciute riserve naturali e geositi dalla Regione Sicilia e che hanno consentito di portare ai giorni nostri centinaia di reperti fossili di elefanti, leoni, ippopotami ed altri animali che popolavano la Sicilia circa 500.000 anni fa. Luoghi che anche l’uomo più recentemente - 10.000 anni fa - ha frequentato come rifugio, come testimoniano le decine di tracce ritrovate siano esse resti di utensili e/o di pasto sia luoghi di sepoltura. La presenza di questi grandi massicci carbonatici ha fatto sì che la piana del golfo di Carini si sia contraddistinta per la presenza di grandi quantità di acqua disponibile per l’agricoltura e ancor di più, negli anni passati, per le vaste aree con splendidi agrumeti che nulla avevano da invidiare ai cugini della “Conca d’Oro”. Diverso è l’aspetto, invece, della parte occidentale che presenta una vasta pianura: la “Piana di Partinico”. Il massiccio rappresentato qui da monte Palmeto degrada abbastanza rapidamente verso la pianura con alte pareti rocciose che alla base presentano, unico caso nella Sicilia occidentale, un deposito ricchissimo di una bianca sabbia eolica quarzosa, testimonianza fossile di quando la pianura ospitava territori più simili alla savana africana piuttosto che alle fertili aree agricole odierne. Ambiente testimoniato dai soliti ritrovamenti fossili tipici di questo ambiente “africano”. Queste sabbie differiscono da quelle odierne, che è possibile osservare sulle dorate spiagge del golfo di Castellammare, perché non hanno spigoli vivi: i granelli hanno infatti subito, a furia di rotolare sospinti dal vento, una sorta di limatura per cui si presentano arrotondati (caratteristica appunto delle sabbie eoliche); questa sorta di usura ha fatto sì che i granuli calcarei si siano quasi tutti consumati mentre i granuli silicei, molto più resistenti, sono arrivati fino a noi e sono stati utilizzati per alcuni decenni come ottimo materiale in edilizia. La pianura, a sua volta, è caratterizzata dalle calcareniti pleistoceniche, di quella roccia cioè che connota quasi tutta la costa della Sicilia occidentale, compreso il sottosuolo di Palermo. È un’antica spiaggia che arrivava a circa 150 metri sul livello del mare attuale. Queste rocce, così come i massicci carbonatici, sono delle ottime rocce che consentono la conservazione di ricche falde idriche. Proprio in quest’area, quella cioè relativa ai monti di Palermo, si concentra la maggior parte dei mulini alimentati dalle abbondanti portate di acqua del fiume Nocella e dei suoi affluenti che, provenienti dai rilievi montuosi, hanno modellato la pianura con profonde 10 e sinuose incisioni. Più a oriente sono presenti pochi altri mulini afferenti al bacino idrografico del Fiume Freddo, come ad esempio il mulino Marcione. 11 Capitolo 1 di Gianluca Savarino Archeologo i mulini ad acqua nel settore orientale del golfo di castellammare Introduzione Le caratteristiche geografiche segnano la storia e lo sviluppo di un paese. Infatti, fino alla rivoluzione industriale ed all’introduzione della macchina a vapore e poi del motore a scoppio, le attività produttive hanno potuto contare dapprima soltanto su forze muscolari (umane ed animali) e successivamente anche sullo sfruttamento di quelle naturali. Così, l’energia eolica e quella idrica hanno trovato largo uso in attività manifatturiere, legate alla produzione ed alla trasformazione dei beni di consumo. Tuttavia, lo sfruttamento della forza lavoro ricavabile dagli elementi naturali è condizionato dalla loro disponibilità sul territorio. Pertanto, le regioni ventose hanno visto la nascita e lo sviluppo di tecnologie legate all’energia eolica, come nel caso dell’area trapanese. Qui, infatti, la presenza di venti costanti è stata impiegata nelle saline attraverso i mulini a pale, per azionare le pompe di travaso dell’acqua salsa dal mare alle vasche di evaporazione (fig. 1). Fig. 1 13 Invece, in regioni segnate da un’abbondante idrografia, lo scorrimento delle acque di superficie è stato impiegato per muovere mulini e macine che, oltre al risparmio in termini di fatica per l’uomo, hanno partecipato all’arricchimento del territorio concentrandovi le attività di trasformazione dalle zone circostanti prive di pari risorse. Il territorio del distretto L’estremità orientale del golfo di Castellammare ricade all’interno dei territori dei comuni di Borgetto, Terrasini, Trappeto e, soprattutto, Partinico. Infatti, ad esso spetta la maggiore estensione della piana alluvionale che caratterizza questa parte della Sicilia e che è compresa fra il mar Tirreno e le prime colline dell’entroterra (figg. 2-3). Fig. 2 Fig. 3 Qui, l’esposizione ai venti che soffiano dai quadranti nordoccidentale, sud-occidentale (rispettivamente Maestrale e Libeccio) e sud-orientale (Scirocco), fa sì che le masse d’aria provenienti tanto dal basso Tirreno, quanto dal Mediterraneo meridionale collidano con i rilievi costieri Fig. 4 rilasciando parte della loro umidità sotto forma di neve o, più frequentemente, di pioggia. Questa, poi, a seconda delle caratteristiche geologiche del terreno, può venire assorbita riaffiorando a valle sotto forma di sorgente, come nel caso della Cuba che sgorga a sudest di Partinico alle falde del Colle Cesarò1. Oppure può ruscellare in superficie dando origine a numerosi corsi d’acqua che affluiscono nei più grandi torrenti Renda-Nocella, Cerasella, Margi e Giancaldaia-Iato (fig. 4). 1 14 Il nome Cuba deriva dall’arabo qūba col significato di cupola ed è stato imposto alla sorgente per via della copertura voltata. I mulini ad acqua del distretto La feracità della terra, garantita dalla qualità dei suoli e da una esposizione favorevole, unita all’abbondanza di acque ed ancora alla localizzazione in uno dei principali snodi viari di collegamento fra l’entroterra e la costa, hanno permesso nel corso dei secoli la proliferazione degli impianti di trasformazione delle materie prime prodotte tanto a livello locale quanto nel circondario. Infatti, accanto ai tradizionali stabilimenti enologici e oleicoli, hanno fatto la loro comparsa numerosi impianti per la produzione e la raffinazione dello zucchero, diversi opifici tessili ed alcune cartiere che smaltivano pezze e stracci vecchi2. Ma fra le molteplici attività praticate nel territorio, in passato ha rivestito un ruolo di spicco la macinazione del grano. Ora, sebbene l’area partinicese non fosse particolarmente vocata alle colture cerealicole, la presenza di vasti seminativi nell’hinterland ha garantito l’approvvigionamento di granaglie, che qui venivano ridotte facilmente in farina grazie ai numerosi mulini sorti lungo i corsi d’acqua. Infatti, per ottimizzare i processi produttivi, venivano disposti diversi macinatoi lungo uno stesso ruscello, permettendo così all’acqua che aveva già mosso un impianto a monte di alimentarne altri a valle. Quindi, non sorprende scoprire che lungo il torrente Renda-Nocella erano stati collocati i mulini di Borgetto, della Nocella e di Cuti; lungo Fig. 5 il ramo occidentale del torrente Sardo-Cerasella si trovavano le macine di Sardo, di Mirto e di Cerasella, mentre lungo la sua propaggine orientale, ingrossata dalla sorgente della Cuba, erano il Mulinello, il Secondo ed il Primo Mulino. E che infine sul fiume Giancaldaia-Iato giravano i macinatoi di Tauro e della Madonna del Ponte3 (fig. 5). 2 Per la coltivazione della canna da zucchero nel partinicese si veda: SOMMARIVA 2011, p. 80. Poi, per la produzione di filati, soprattutto di lana, vengono elencati tre stabilimenti: il primo presso il Mulino Nocella, il secondo in prossimità del Mulino Mirto e l’ultimo presso il Mulino di Cerasella. Al riguardo: GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, p. 159; DI BARTOLOMEO 1805, pp. 64, 97-98; AIELLO 2010, p. 184. Invece, si attribuivano alla produzione della carta due stabilimenti: uno affiancato al Mulino di S. Giuseppe lungo il torrente Giancaldaia, impiantato dalla sig. ra Palma Sirignano e Crapanzano e l’altro, forse di poco più recente, lungo il torrente Renda-Nocella, sotto il borgo di Giardinello. Al riguardo: GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, p. 158; Di Bartolomeo 1805, p. 97. 3 Per la disposizione dei mulini lungo i diversi torrenti si veda: DI BARTOLOMEO 1805, pp. 97-98. 15 Breve storia dei mulini ad acqua del distretto Dunque, se è facile stilare un elenco dei principali mulini presenti nel territorio, risulta più complesso stabilire la cronologia dei diversi impianti a causa della scarsezza dei dati disponibili. Ciò nonostante, è possibile desumere qualche informazione da documenti d’archivio di epoca medioevale e moderna, nonché dagli scritti dedicati alla storia locale dagli studiosi contemporanei, a cui va il merito di avere raccolto e documentato un patrimonio materiale ed immateriale in dissoluzione. Così, dall’atto di donazione firmato nell’anno 1112 dal conte Rinaldo Avenello, a favore del monastero di S. Bartolomeo di Lipari, si apprende che già all’inizio del XII sec. nel distretto esisteva un mulino4. Poi, alla metà dello stesso secolo, nuove informazioni vengono fornite dal berbero AlIdrīs, che nella sua opera geografica dedicata al re Ruggero II il Normanno motivava la numerosità di macine nel partinicese con l’abbondanza dei corsi d’acqua che lo solcavano: «Partinico è graziosa terra, piacevole, piana, di bell’aspetto [e proprio] ridente, [circondata di] fertili poderi, nei quali si lavora gran copia di cotone, di hīnnah e di altre specie di piante qatāni. [Il territorio] abbonda di acque [sì grosse] da muover molte macine»5. Più tardi, una nuova testimonianza è desumibile da un diploma di papa Lucio III datato 1182, nel quale si fa riferimento ad un mulino ed alla chiesa intitolata a S. Cataldo esistente lungo la costa, nell’odierna Baia dei Muletti (Terrasini). Qui, infatti, si conservano ancora i ruderi di un condotto sopraelevato per lo scorrimento delle acque di alimentazione di un macinatoio. Però, in assenza di conferme archeologiche, è prematuro identificare i resti presenti nell’insenatura con quelli citati dal documento medievale. Successivamente, bisognerà aspettare il XVII sec. per avere nuove informazioni sui macinatoi del territorio. Infatti, l’aumento demografico registratosi nella prima metà del secolo aveva comportato nel 1646 l’edificazione di un secondo impianto a Partinico nell’odierna via dei Mulini, da affiancare al primo già esistente nei paraggi ed ormai non più sufficiente a soddisfare i bisogni di un’accresciuta popolazione. Nella seconda metà del XVII sec. il numero delle macine venne ancora incrementato con la costruzione di un terzo impianto: il c. d. mulino di Cuti, sorto in prossimità del guado del torrente Renda-Nocella in località Passo dei Conti (Partinico). Un secolo dopo, nel 1769, un nuovo macinatoio fu eretto in via dei Mulini, completando così la terna di stabilimenti per la molitura che sfruttava l’emissario della sorgente della 4 Per la donazione del Casale di Partinico al monastero liparese di S. Bartolomeo da parte di Rinaldo Avenello si veda: DI BARTOLOMEO 1805, p. 22. 5 Come testimonia il geografo berbero, il territorio produceva una varietà di prodotti, fra i quali compaiono le piante qatāni cioè una varietà di leguminose e la hīnnah o hennè. Da quest’ultima si ottiene un potente colorante, ancora oggi usato dalle donne dell’Africa settentrionale per la tintura dei capelli, nonché per la realizzazione di tatuaggi in occasione di celebrazioni e feste. Per il passo si veda:Al’Idrīs, Kitāb nuzhāt al-muśtāq fî ihtirāq al-’āfaq, in AMARI 1857, vol. I, p. 82. 16 Cuba. Ancora dopo, ma prima dell’inizio del XIX sec., devono essere stati realizzati il mulino di Cerasella e quello di Nocella, sorti rispettivamente in prossimità della foce e lungo il corso degli omonimi torrenti, nonché i mulini di San Giuseppe e di Tauro, costruiti lungo il fiume Giancaldaia-Iato. Infine, entro la prima metà del XIX sec. va collocata l’erezione dei tre macinatoi di Mirto, di Sardo e della Madonna del Ponte, edificati i primi due lungo i torrenti Cerasella e Rio Sardo, mentre l’ultimo sul fiume Iato6. Funzionamento dei mulini ad acqua I mulini venivano collocati lungo i torrenti, in posizione elevata rispetto al fondovalle per evitare i danni causati dalle piene improvvise. A monte del macinatoio il corso d’acqua veniva parzialmente deviato in un punto (in dialetto siciliano detto prīsa) all’interno di un canale (detto sāia). Questo era costituito da un condotto con sezione ad U, realizzato in pietrame ed impermeabilizzato all’interno con malta idraulica, in modo da creare una superficie poco inclinata per mantenere costante la velocità del flusso e quindi evitare l’erosione delle superfici di scorrimento (fig. 6). Dalla sāia il liquido poteva essere riversato all’interno di una grande cisterna (gēbbia) per assicurare il funzionamento del mulino anche nelle stagioni secche, oppure indirizzato direttamente alle macine. Inoltre, lungo il suo corso, la conduttura era dotata di alcune aperture laterali a saracinesca per regolare la fuoriuscita dell’acqua in caso di piena, nonché di griglie di filtraggio a maglia larga per impedire il passaggio delle ramaglie portate dalla corrente (figg. 7- 8). Fig. 6 6 La cronologia degli impianti è stata proposta sulla base delle notizie ricavabili dalle opere degli storici locali. Infatti, anche quando essi non indicano esplicitamente una data per la costruzione dei mulini, la sola menzione nell’opera costituisce un “termine prima del quale” (terminus ante quem) per collocare storicamente il monumento. 17 Fig. 7 Fig. 8 In prossimità del macinatoio veniva realizzata una cascata artificiale attraverso un muraglione di sostegno di sezione trapezoidale alto fra i 15 ed i 23 m (vūtti), che convogliava le acque in un condotto tronco-conico con il vertice rivolto in basso (mmūtu) (figg. 9-10). Fig. 9 Fig. 10 Il restringimento, sommato al salto di quota, determinava l’aumento della velocità dell’acqua che, fuoriuscendo nell’ambiente più basso della struttura (garrāffu) attraverso un ugello (cannēdda), colpiva le pale di una ruota orizzontale, con un’intensità controllata da un regolatore di flusso (tiratūri) incaricato di deviare il getto della cannēdda (figg. 11-12). Così la ruota a pale, grazie ad un asse verticale che era incernierato in basso su una trave lignea con un’estremità libera e l’altra conficcata in una parete del garrāffu, azionava l’apparato molitorio collocato nel vano soprastante, dove infatti si trovavano due blocchi circolari in pietra sovrapposti con le facce interne parallele e solcate a raggiera per favorire la macinazione dei cereali e quindi produrre farine di qualità (fig. 13). Il blocco 18 Fig. 11 Fig. 12 Fig. 13 Fig. 14 superiore, mosso dalla ruota a pale, era detto rotore o mōla, mentre l’inferiore, fisso, era denominato statore o frāscinu. Il grano veniva immesso nella macina dal foro superiore del rotore attraverso un elemento ligneo di forma tronco-piramidale, detto tramoggia (fig. 14) Da qui i chicchi raggiungevano l’interfaccia fra le due pietre, dove potevano essere macinati con differenti granulometrie giocando sulla velocità di rotazione della mōla, nonché sulla distanza fra quest’ultima e il frāscinu. Infatti, negli impianti destinati alla molitura di cereali di tipo diverso, lo spazio fra statore e rotore poteva essere regolato attraverso un dispositivo a vite che sollevava l’estremità libera della trave sottostante la ruota a pale. Così, venivano prodotte farine più o meno fini che, a lavorazione ultimata, venivano raccolte in una cassa posta intorno alla mola. Alla fine del procedimento l’acqua, che aveva già mosso la ruota a pale, fuoriusciva dal garrāffu attraverso un’apertura arcuata posta alla base del mulino, dando così vita ad un rivolo (lavatūri) usato per l’irrigazione dei campi o per alimentare altri impianti produttivi posti più a valle7 (fig. 15). 7 Per il funzionamento dei mulini ad acqua si vedano: BRESC, DI SALVO 2001, pp. 51-73; PIZZUTO ANTINORO 2002, pp. 27-32. 19 Fig. 15 Catalogo ragionato dei mulini attestati nel territorio Il seguente catalogo passa in rassegna tanto i macinatoi citati nelle opere storiche sul distretto, quanto quelli ancora superstiti. Tuttavia non ha la pretesa di essere esaustivo, in quanto oltre ai mulini presi in considerazione, ne sono esistiti altri per i quali purtroppo è difficile recuperare le notizie, oltre che identificare i resti. Allo stato attuale delle ricerche sono stati censiti quindici impianti molitori, anche se in due casi ci si è limitati alla sola menzione non essendo possibile localizzarne gli avanzi. Le schede sono disposte in ordine diacronico, elencando i mulini dal più antico al più recente. In ciascuna scheda, oltre a due immagini aeree in cui vengono visualizzate la posizione nel distretto e lo stato di conservazione dei resti, sono indicate la datazione e la localizzazione dei macinatoi, che quindi possono essere facilmente raggiunti tanto seguendo le indicazioni stradali quanto utilizzando le coordinate GPS. Si passa poi alla descrizione delle strutture, che dopo essere state contestualizzate nel territorio, vengono esaminate segnalandone gli elementi notevoli. Infine, le schede si concludono con una bibliografia essenziale, nella quale vengono segnalate le pagine dei lavori in cui si fa riferimento al monumento in oggetto. Quindi, conformemente alle norme redazionali attualmente più seguite, si è scelto di indicare nelle caselle le opere attraverso il cognome dell’autore seguito dall’anno di pubblicazione del volume e di sciogliere tali abbreviazioni nell’apparato bibliografico in coda al saggio. 20 Mulino di San CataldO 88 Datazione Prima del 1182. Tuttavia, non è certo che a tale epoca vadano datati i resti oggi visibili. Localizzazione Baia dei Muletti, Terrasini (PA) Coordinate GPS 38°5’11. 87” N; 13°4’40. 81” E Altitudine sul livello del mare 14 m Alimentazione Torrente Renda-Nocella Come raggiungerlo Percorrere la Strada Statale 113 da Partinico con direzione Terrasini. Dopo 6,5 km circa sulla sinistra si incontra una stradina, che conduce alla sottostante Baia dei Muletti. Qui, alle falde della collina sulla sinistra, si trovano i resti dell’impianto di adduzione idrica. Descrizione La baia, chiusa su tre lati da bassi rilievi di calcarenite, si apre a nord verso il mare. Ad occidente il torrente Nocella scorre alle pendici di un colle, sulla cui sommità sono ancora visibili alcune rovine dell’insediamento medievale di Ar-Rūkn, citato del geografo berbero Al-Idrīs nel XII secolo8. Invece lungo la balza settentrionale dell’altura, accanto ai ruderi di una fornace per la produzione di oggetti in terracotta e di una chiesetta intitolata a S. Cataldo, si conservano scarsi resti del mulino ad acqua. Infatti, rimane soltanto un tratto di sāia per la lunghezza di 16 m ca. con la rispettiva vūtti e lo mmūtu. L’impianto produttivo, che è stato realizzato con grandi blocchi squadrati in calcarenite conchilifera di colore giallo, era alimentato dal suddetto torrente. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, p. 157; DI BARTOLOMEO 1805, pp. 94, 102, 103; AIELLO 2010, pp. 185-186. 8 Per l’insediamento di Ar-Rūkn si veda: AMARI 1857, p. 82 21 primo mulino o mulinello Datazione Prima del 1646. Tuttavia, i resti oggi visibili risalgono ad epoca posteriore. Localizzazione Via dei Mulini, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°03’22. 30” N; 13°06’58. 45” E Altitudine sul livello del mare 157 m Alimentazione Sorgente della Cuba Come raggiungerlo Percorrere la Strada Statale 113 da Partinico con direzione Terrasini. Dal piano della villa comunale “Regina Margherita” di Partinico, percorrere la via dei Mulini per 750 m circa fin quasi all’incrocio con la via Suriano, dove sulla sinistra si vedono i resti della sāia addossati al mulino. Descrizione Il mulino sorge all’estremità nord-orientale di Partinico, poco fuori l’abitato moderno, su un terreno in leggero declivio verso la costa. La struttura versa in discreto stato di conservazione, anche se le coperture sono in parte crollate. Rimane un edificio ad un piano, sul cui lato meridionale si addossa l’ultimo tratto della sāia proveniente dal paese. Il canale, ancora visibile per 100 m ca. di lunghezza, poggia su diverse arcate oggi in gran parte interrate. Tuttavia, verso mezzogiorno è possibile ammirarne alcune ancora in buono stato di conservazione, realizzate con blocchetti di pietra squadrati e rivestiti di intonaco (fig. 16). L’edificio ha subito numerose trasformazioni, venendo riutilizzato dapprima come fabbrica per la polvere da sparo e, successivamente, come stabilimento tessile per la produzione della seta. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, pp. 157-158; DI BARTOLOMEO 1805, p. 101; AIELLO 2010, p. 180. Fig. 16 22 secondo Mulino Datazione 1646. Tuttavia, la struttura originaria è stata sostituita in tempi recenti da un impianto moderno. Localizzazione Via dei Mulini, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°3’14. 44” N; 13°7’4. 57” E Altitudine sul livello del mare 169 m Alimentazione Sorgente della Cuba Come raggiungerlo Partendo dal piano della villa Comunale “Regina Margherita” di Partinico, percorrere la via dei Mulini per 450 m circa, fino al mulino moderno presente sul lato sinistro. Descrizione Il mulino sorgeva all’estremità nord-orientale di Partinico, poco fuori l’abitato moderno, su un terreno in leggero declivio verso la costa. L’edificio originario, come documenta una foto scattata negli anni ‘70 del secolo scorso, era impreziosito sulla fronte da un colonnato dorico, di cui purtroppo non rimane traccia (fig. 17). Infatti, la vecchia fabbrica è stata interamente sostituita da un anonimo impianto contemporaneo. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, pp. 157-158; DI BARTOLOMEO 1805, p. 102; AIELLO 2010, p. 180. Fig. 17 23 mulino di cuti Datazione Seconda metà del XVII sec. Localizzazione Via Suriano, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°04’55” N; 13°06’21” E Altitudine sul livello del mare 77 m Alimentazione Torrente Renda-Nocella Come raggiungerlo Partendo dal piano della villa comunale “Regina Margherita” di Partinico, percorrere interamente la via dei Mulini, poi via Suriano, fino alla Borgata Parrini. Qui, superato l’agglomerato rurale, si continua lungo la Via Suriano ancora per 1 km, fino ad incontrare nel fondovalle sulla destra i resti della torre e del complesso produttivo. Descrizione Il mulino sorge nella campagna a nord-est di Partinico, al fondo di una vallata verdeggiante ed in prossimità di uno dei guadi del torrente RendaNocella. Dell’impianto produttivo rimangono i muri perimetrali di tre ambienti quadrangolari, destinati alla macinazione ed allo stoccaggio di farine e granaglie, ma ormai privi di copertura. Inoltre, il complesso è dotato di una torre quadrata, con merlature e feritoie sull’attico (ingombro complessivo 20x17 m circa). La torre, forse preesistente all’impianto molitorio ed originariamente destinata al controllo del guado fluviale, successivamente è stata riutilizzata per la difesa del mulino posto in aperta campagna. A fianco degli edifici si conserva un tratto della sāia (lungo 15 m), che poco prima della vūtti assume pianta a ferro di cavallo. Notevole il gioco di colori dato dall’alternanza di ciottoli di fiume, pietrame e malta impiegati per messa in opera delle fabbriche. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, pp. 157-158; DI BARTOLOMEO 1805, p. 102; VITALE 1991, pp. 114-115. AIELLO 2010, p. 180. 24 terzo Mulino Datazione 1769. Tuttavia, nel 1902 l’edificio originario è stato sostituito da una struttura moderna. Localizzazione Via dei Mulini, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°03’11. 28” N; 13°07’7. 02” E Altitudine sul livello del mare 177 m Alimentazione Sorgente della Cuba Come raggiungerlo Partendo dal piano della villa Comunale “Regina Margherita” di Partinico, percorrere la via dei Mulini per 350 m circa , fino ad incontrare sul lato sinistro della strada i resti della sāia settecentesca, seguiti della fabbrica moderna. Descrizione Il mulino sorge all’estremità nord-orientale di Partinico, al limite dell’abitato moderno, sulla balza che separa l’altopiano partinicese dalla campagna circostante verso la costa. Dell’originario impianto settecentesco rimane il tratto terminale della sāia, sorretto da un muraglione a tre arcate. Di esse la prima da sud è ancora in buono stato di conservazione, mentre le rimanenti due sono state tampognate in tempi recenti. La testata settentrionale della sāia conduceva l’acqua nella vūtti, dotata di due mmūti destinati ad alimentare altrettante macine. Nel 1902, come ricorda la data scolpita sulla ghiera della finestra del primo piano prospiciente la via dei Mulini (fig. 18), l’edificio originario è stato sostituito da un impianto moderno, che ha riutilizzato i vecchi sistemi di adduzione idrica. La “nuova” fabbrica, che è impiantata sulla balza rocciosa, lungo il lato a valle consta di tre elevazioni: l’inferiore presenta due basse aperture arcuate destinate ai garrāffi. Invece, i piani soprastanti sono arricchiti da quattro finestre ciascuno per illuminare gli ambienti. Al loro interno è da segnalare la presenza di iscrizioni parietali, grazie alle quali è possibile stabilire tanto la destinazione d’uso dei vani come depositi per le farine, quanto i diversi tipi di prodotti confezionati (figg. 19a-b). Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, pp. 157-158; DI BARTOLOMEO 1805, p. 102; AIELLO 2010, p. 180. 25 Fig. 18 Fig. 19a 26 Fig. 19b mulino di nocella Datazione Prima del 1802. Localizzazione SP 1, Borgetto (PA) Coordinate GPS 38°04’07” N; 13°09’12” E Altitudine sul livello del mare 197 m Alimentazione Torrente Renda-Nocella Come raggiungerlo Il mulino si raggiunge da Partinico percorrendo la Strada Provinciale 1 in direzione di Montelepre. Dopo 3 km circa si incontra l’edificio sulla destra, in prossimità del ponte sul torrente Renda-Nocella. Descrizione Il mulino sorge nella campagna ad est di Partinico, lungo la strada per Montelepre, in prossimità di uno dei guadi del torrente Renda-Nocella. L’edificio ha subito numerose trasformazioni, tuttavia è ancora possibile identificare i tre ambienti della fabbrica originaria (ingombro totale 13x20 m ca. ), destinati alla produzione ed allo stoccaggio delle merci. Inoltre, si conserva un tratto della sāia (lungo 30 m circa) con la vūtti inglobata all’interno delle strutture. Queste, come il resto degli apprestamenti, sono state realizzate con grandi blocchi di pietra squadrati. Bibliografia Essenziale DI BARTOLOMEO 1805, p. 93; AIELLO 2010, p. 184. mulino di san giuseppe Datazione Prima del 1802. Localizzazione Sconosciuta Coordinate GPS - Altitudine sul livello del mare - Alimentazione Fiume Giancaldaia - Iato Come raggiungerlo - Descrizione Il mulino è citato da Francesco Maria Emanuele e Gaetani, Marchese di Villabianca. Tuttavia, non è stato possibile identificarne i resti sul terreno. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, p. 158. 27 mulino di tauro Datazione Prima del 1802. Localizzazione SP 81, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°0’47. 15” N; 13°4’41. 50” E Altitudine sul livello del mare 138 m Alimentazione Fiume Giancaldaia - Iato Come raggiungerlo Si raggiunge percorrendo la Strada Statale 113. Usciti da Partinico in direzione di Alcamo proseguire per 2 km fino al bivio per la c/da Valguarnera. Immettersi sulla Strada Provinciale 81 e seguitare per 3 km circa fino all’ultimo tornante prima del fondovalle del fiume GiancaldaiaIato. Da lì è possibile scorgere i ruderi del mulino sul versante opposto. Descrizione Il mulino si trova nella campagna ad ovest di Partinico, sulla sponda occidentale del fiume Giancaldaia – Iato. Era posto a mezza costa della vallata fluviale, in prossimità dell’antico ponte di Tauro ed oggi versa in pessimo stato. Infatti, fra i rovi si conservano i muri perimetrali di un grande edificio di 11x12 m, affiancato a nord-ovest da altri ambienti di dimensioni minori che, come il primo, erano stati realizzati in pietrame. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, pp. 158-159; DI BARTOLOMEO 1805, p. 102. 28 mulino di cerasella Datazione Prima del 1802. Localizzazione SS 187, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°4’24. 04” N; 13°4’22. 55” E Altitudine sul livello del mare 39 m Alimentazione Torrente Cerasella Come raggiungerlo Il mulino si raggiunge dalla Strada Statale 113, muovendo da Partinico in direzione di Terrasini. Giunti al bivio per Trappeto, si svolta a sinistra immettendosi sulla Strada Statale 187. Dopo 1 km circa sulla sinistra, appena oltre il ponte sul torrente Cerasella, si nota la struttura. Descrizione Il mulino sorge nella campagna a nord di Partinico, lungo la strada per Trappeto, in prossimità di uno degli ultimi guadi verso mare del torrente Cerasella. Il complesso ha subito numerose alterazioni, quindi non è facile individuare gli elementi appartenenti alla struttura originaria. Tuttavia, è possibile ricondurre a questa un tratto della sāia, conservato per 20 m circa di lunghezza. Bibliografia Essenziale GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802, p. 158; DI BARTOLOMEO 1805, p. 102; AIELLO 2010, p. 183. mulino della madonna del ponte Datazione Prima del 1805. Localizzazione Sconosciuta Coordinate GPS - Altitudine sul livello del mare - Alimentazione Fiume Iato Come raggiungerlo - Descrizione Il mulino è citato da Giuseppe Maria Di Bartolomeo. Tuttavia, non è stato possibile identificarne i resti sul terreno. Bibliografia Essenziale DI BARTOLOMEO 1805, p. 102. 29 mulino di mulineddu Datazione Nessun dato storico rinvenuto. Localizzazione C/da Mulineddu, Trappeto (PA) Coordinate GPS 38°5’0. 52” N; 13°4’43. 86” E Altitudine sul livello del mare 16 m Alimentazione Sorgente del Re Come raggiungerlo Si percorre la Strada Statale 113 da Partinico in direzione di Terrasini. Dopo 5,5 km circa sulla sinistra si incontra una stradina in discesa. Seguitare su di essa per 130 m ca. fino all’incrocio con un sentiero privato sulla destra, dal quale si raggiunge la base dell’impianto molitorio. Descrizione Il mulino si trova lungo il versante settentrionale dell’ampio sistema collinare che dalla c/da Piano del Re digrada verso la costa. Il macinatoio versa in precario stato di conservazione: infatti, le coperture sono crollate e la vegetazione spontanea ha invaso completamente i ruderi. Si conservano i muri perimetrali di quattro ambienti quadrangolari disposti a croce, per un ingombro complessivo di 15x9 m circa. Sull’ambiente orientale incombe la sāia, conservata per 14 m di lunghezza, con la sottostante vūtti e lo mmūtu. L’impianto, che è stato realizzato con grandi blocchi squadrati in calcarenite conchilifera di colore giallo, era alimentato dalle acque della Sorgente del Re, che è ancora oggi attiva a monte del macinatoio verso sud-ovest. Bibliografia Essenziale Inedito. 30 mulino di valguarnera Datazione Dopo il 1805. Localizzazione C/da Valguarnera, SP 81, Partinico (PA) Coordinate GPS 38°1’15. 83” N; 13°4’58. 86” E Altitudine sul livello del mare 199 m Alimentazione Sorgente di Ragali Come raggiungerlo Si raggiunge percorrendo la Strada Statale 113. Usciti da Partinico in direzione di Alcamo si prosegue per 2 km fino al bivio per la c/da Valguarnera, dove ci si immette sulla Strada Provinciale 81 e si avanza per poco più di 1 km. Qui si gira a destra in una stradina in discesa, delimitata ad est dalla sāia del mulino. Descrizione Il mulino sorgeva nella campagna ad ovest di Partinico, lungo il versante settentrionale di un colle occupato dall’abitato di Valguarnera. Questo era un borgo agricolo, sorto all’incrocio delle vecchie strade fra Partinico, San Giuseppe Iato ed Alcamo. Oggi ne restano poche rovine intorno all’imponente abbeveratoio edificato nel 1609 (figg. 20a-b). Del mulino non rimane traccia, mentre si conservano due tratti della sāia, posti ai lati della SP 81, nonché la vūtti con il rispettivo mmūtu. Le strutture sono state realizzate in blocchi di pietra di vario modulo, messi in opera a seconda delle necessità strutturali (fig. 21). Bibliografia Essenziale Inedito. 31 Fig. 20a Fig. 20b 32 Fig. 21 mulino di mirto - sardo Datazione Prima del 1871. Localizzazione SP 67, Borgetto (PA) Coordinate GPS 38°1’46. 65” N; 13°7’55. 67” E Altitudine sul livello del mare 322 m Alimentazione Torrente Sardo - Cerasella Come raggiungerlo Il mulino si raggiunge da Partinico procedendo lungo la Strada Statale 186 in direzione Borgetto. Usciti dal bivio di Mirto, immettersi nella Strada Provinciale 67 con direzione Mirto. Quindi, dopo 1 km circa , imboccare la stradina a destra, fiancheggiando l’impianto di trasformazione dei prodotti di cava. Si prosegue per 150 m, quindi girare a sinistra dove, al fondo della vallata e al di là di un caratteristico ponticello in pietra, si trovano i resti del macinatoio (fig. 22). Descrizione Il mulino sorge fra le colline a sud di Partinico, addossato alla balza orientale di un’altura precipite sul fondovalle del Rio Sardo, uno degli affluenti montani del torrente Cerasella. Si conservano i muri perimetrali di un grande impianto (25x28 m circa), composto da almeno quattro ampi ambienti. Di questi, il locale posto a sud è raggiungibile attraverso una rampa (fig. 23). Qui, originariamente, si trovava un palmento, di cui restano ancora in situ parte della vasca impermeabile per la raccolta del succo d’uva e la base di due presse a leva realizzate nella seconda metà del XIX sec., come assicura la data incisa sul bordo (fig. 24). Il portale di ingresso del vano principale, che prospetta sullo spiazzo centrale, reca sulla chiave di volta la data 1871, certamente relativa alla ristrutturazione dell’impianto originario (figg. 25a-b). Infatti, un tale intervento parrebbe indiziato anche dall’utilizzo di pietrame al posto dei grandi blocchi squadrati impiegati nelle parti più antiche della fabbrica. All’interno, l’ambiente custodisce la mōla di una macina, alimentata da una sāia (ancora conservata per 65 m ca. di lunghezza), che riversava le acque nella vūtti dotata di due mmūti. La presenza di due condotti tronco-conici indica l’originaria esistenza di due macine, poi ridotte ad una per diminuzione di attività o, forse, in seguito ad un periodo siccitoso, come infatti parrebbe suggerire l’ostruzione dell’imbocco dello mmūtu di sinistra. Al di sotto del vano di macina si conservano i due garrāffi. Qui, all’interno del sinistro, è ancora possibile ammirare la ruota a pale con il vicino tiratūri e l’asse di collegamento con la mōla soprastante. All’esterno, infine, si intravede il lavatūri con le pareti del condotto impermeabilizzate da malta idraulica. Bibliografia Essenziale AIELLO 2010, pp. 186-187. 33 Fig. 22 34 Fig. 23 Fig. 24 Fig. 25a Fig. 25b mulino di mirto Datazione Nessun dato storico rinvenuto. Localizzazione C/da Mirto, Borgetto (PA) Coordinate GPS 38°01’42. 17” N; 13°07’25. 17” E Altitudine sul livello del mare 266 m Alimentazione Torrente Cerasella Come raggiungerlo Il mulino si raggiunge dalla Strada Provinciale 2 Partinico - S. Giuseppe Iato. Lasciata Partinico, 400 m dopo girare a sinistra e proseguire sulla strada che conduce alla scuola “Mirto” per 1,3 km circa. Descrizione Il mulino sorge a mezzogiorno di Partinico, nella vallata a sud-est del Colle Cesarò, addossato al versante settentrionale dei rilievi di Mirto. All’ambiente destinato alla molitura si addossano altri tre vani, probabilmente destinati alla conservazione delle granaglie e dei prodotti di macina. L’insieme delle strutture, che occupa una superficie di 23x13 m circa, era stata realizzata con pietrame rinforzato con blocchi squadrati nei punti di maggior carico. Il mulino era alimentato da un affluente del torrente Cerasella, il Rio Sardo, che lambendo il fianco sud-orientale del Colle Cesarò veniva parzialmente deviato verso la sāia, conservata per 70 m circa di lunghezza. Oltre alla vūtti, sono ancora visibili il garrāffu con la cannēdda e la ruota a pale con l’asse di rotazione della mōla soprastante. Bibliografia Essenziale AIELLO 2010, p. 183. 35 mulino di borgetto Datazione Nessun dato storico rinvenuto. Localizzazione C/da Mazzarca - Mulini, Borgetto (PA) Coordinate GPS 38°03’58. 44” N; 13°09’24. 92” E Altitudine sul livello del mare 218 m Alimentazione Canale De Simone Come raggiungerlo Il mulino si raggiunge da Partinico percorrendo la Strada Provinciale 1 in direzione di Montelepre. Dopo 2,9 km circa girare a destra e proseguire sulla Strada Provinciale 135 per 400 m. Quindi, dopo la curva, girare a sinistra e seguitare per 50 m fino ad immettersi nella seconda traversa a sinistra. Dopo 250 m sul lato destro della strada compare il grande fabbricato del mulino. Descrizione Il mulino sorge nella campagna ad est di Partinico, alle falde settentrionali delle Rocche di Capreria ed era alimentato dal Canale De Simone, un affluente montano del torrente Renda-Nocella. L’edificio si presenta in ottimo stato, mantenendo l’ingombro originario di 13x22 m circa. Inoltre, a monte della fabbrica si conserva un lungo tratto della sāia (40 m ca. ) con la vūtti inglobata all’interno delle strutture. Bibliografia Essenziale Inedito. 36 Considerazioni conclusive Lo studio integrato del territorio permette di ricostruire le vicende locali e quindi di narrare una micro-storia, che oltre ad arricchire la macro-storia di un paese ne riceve nuova luce. Pertanto, le testimonianze del passato acquistano un significato pregnante se contestualizzate in un panorama antropizzato. Infatti l’uomo, per soddisfare le proprie necessità, si è adattato alle caratteristiche dei luoghi, trasformandone l’aspetto per metterne a frutto le svariate qualità. Così, regioni ventose e territori irrigui hanno fornito forze alternative a quella muscolare, non più sufficiente a soddisfare le esigenze di popolazioni in crescita. Nuove energie economiche e rinnovabili hanno permesso produzioni più abbondanti e, conseguentemente, una maggiore disponibilità di beni a costi inferiori. Tutto ciò ha comportato una migliore qualità della vita per un numero sempre crescente di persone, che da allora ha potuto contare su un’alimentazione più ricca e su un tenore di vita più confortevole, con intuibili ricadute positive sul benessere sociale. Alla luce di questo, lacerti di muri, corpi di fabbriche cadenti, arcate e condotti idrici interrati, disiecta membra di un passato che va scomparendo a ritmo sempre più incalzante, acquistano nuovo significato. Infatti, da muti sopravvissuti allo scorrere del tempo, diventano eloquenti testimoni di una millenaria trasformazione del paesaggio, in cui l’ingegno umano si è gradualmente materializzato, adattandosi alle circostanze ed esaltandone le peculiarità con soluzioni tecnologiche innovative. Questi ruderi, dunque, rappresentano la risposta alle necessità di gruppi umani in forte espansione demografica e residenti in aree temperate, in cui a brevi inverni piovosi seguono lunghe estati calde e secche. Regioni in cui l’acqua costituisce un bene prezioso da conservare e, al contempo, da sfruttare in tutte le sue potenzialità. Da qui nascono la cisterne di raccolta della pioggia, i canali di drenaggio delle acque meteoriche e sorgive ed i pozzi di captazione delle falde freatiche: sistemi di approvvigionamento idrico sperimentati nel Vicino Oriente già a partire dal IV millennio a.C., ma diffusi capillarmente in Sicilia solo a partire dal V sec. a.C., per opera dapprima di Elimi, Fenici, Greci e Romani e poi di Bizantini ed Arabi. A questi ultimi, però, va il merito di avere introdotto nell’isola alla fine del I millennio d.C. le più recenti conquiste dell’ingegneria idraulica levantina, fra le quali va annoverato il mulino ad acqua con ruota orizzontale. La circostanza, a cui già alludevano gli scrittori 37 del XII sec. d.C., trova oggi ulteriore conferma nello studio comparato delle lingue. Infatti, diverse parole del dialetto siciliano che indicano alcune delle parti dell’apparato molitorio, come sāia, gēbbia, garrāffu e frāscinu, derivano dalle omologhe arabe saqīa, ġābiya, ġarāfa e farāša9. Inoltre, l’introduzione di nuove tecnologie ha comportato una migliore conoscenza del territorio e delle sue risorse. Così, fontanili e sorgenti, fiumi e torrenti sono stati censiti e scelti in base alle loro portate. Su di essi, poi, sono stati impiantati i macinatoi posti per ragioni economiche in prossimità degli abitati, come dimostrano nel distretto di Partinico i casi di S. Cataldo, dei tre apprestamenti di via dei Mulini e di Valguarnera, o lungo i percorsi viari più trafficati ed in prossimità dei ponti, come i mulini di Cuti, di Cerasella, di Nocella, della Madonna del Ponte e di Tauro. Le innovazioni tecnologiche hanno favorito anche la nascita e la diffusione di mestieri specializzati. Così, a carpentieri, fabbri e muratori, coinvolti a vario titolo nella costruzione dei mulini si sono affiancati cavapietre e lapicidi, attivi nella ricerca e nella lavorazione delle materie prime più adatte. A tali maestranze, pertanto, parrebbe opportuno attribuire la scoperta di un affioramento di roccia buona per la produzione delle mōle non lontano da Partinico, in c/da Calatubo (Alcamo), noto già nel XII sec. d.C. al geografo berbero Al-Idrīs: «Giace in questo luogo [Calatubo] una cava di pietra molare da acqua a di [pietra molare] persiana»10. In conclusione, la funzionalità del mulino a ruota orizzontale, che con il suo sistema di raccolta e di caduta dell’acqua era in grado di muover macine e quindi produrre ricchezza anche in presenza di rigagnoli, ha fatto sì che il prototipo si imponesse e restasse in uso almeno fino alla Rivoluzione Industriale, che in Sicilia, con ritardo bicentenario, è iniziata solo dopo la fine del Secondo Conflitto Mondiale. Allora, infatti, l’introduzione delle nuove fonti energetiche ha portato all’abbandono di quelle abituali e trascinato di conseguenza nell’oblio i sistemi tradizionali di produzione e le attività artigianali legate a essi. 9 Per gli studi agrari e per le innovazioni tecnologiche introdotte dagli Arabi nell’agricoltura mediterranea si veda: DJEBBAR 2002, pp. 249-259. 10 Al riguardo si veda: Al-’Idrīs, Kitāb nuzhāt al-muśtāq fî ihtirāq al-’āfaq, in AMARI 1857, vol. I, p. 81. Invece, per le cave di pietra presenti nella zona a monte di Calatubo: FILIPPI 1996, p. 85. 38 Illustrazioni Tutte le immagini, tranne quelle in cui è specificamente indicato, sono opera di G. Cassarà, al quale va il merito di aver saputo “fermare l’attimo” con un click. Fig. 1 Mulino a pale di tipo arabo per il sollevamento dell’acqua marina nelle saline di Trapani. del golfo di Castellammmare. Fig. 2 Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7 Fig. 8 Fig. 9 Fig 10 Fig. 11 Fig. 12 Fig. 13 Fig. 14 Fig. 15 Fig. 16 Fig. 17 Fig. 18 Carta con indicati i limiti amministrativi dei comuni ricadenti nella parte orientale Foto aerea della parte orientale del golfo di Castellammare. Foto aerea della piana di Partinico con indicati i principali corsi d’acqua e le sorgenti. Foto aerea del distretto con indicati i mulini mossi dai torrenti. Tratto di sāia del mulino di Mirto-Sardo con spallette laterali realizzate in pietrame e interno impermeabilizzato con malta idraulica. In basso a sinistra, apertura a saracinesca per regolare il flusso nella sāia in caso di piena, presso il Terzo Mulino di Partinico (foto fornita dal proprietario del mulino). Griglia di filtraggio dell’acqua presente all’interno della sāia del mulino di Mirto-Sardo. La vūtti del mulino di San Cataldo (foto dell’autore). Schema di funzionamento di un mulino ad acqua (da PIZZUTO ANTINORO 2002, p. 28, fig. 17) La cannēdda del mulino di Mirto. La ruota a pale del mulino di Mirto con in fondo a sinistra il turatūri e al centro l’asse di collegamento con la mōla soprastante. La mōla con i solchi a raggiera del mulino di Mirto-Sardo. La tramoggia del Terzo Mulino di Partinico. Fuoriuscita dei garrāffi con l’inizio del lavatūri oggi parzialmente interrato presso il mulino di Mirto-Sardo. Resti della sāia del Primo Mulino di Partinico, con ancora conservate le arcate di sostegno del condotto. Foto d’epoca in cui compare il colonnato dorico sulla fronte della vecchia fabbrica del Secondo Mulino (da AIELLO 2010, p. 181). Data di ricostruzione della fabbrica incisa sulla ghiera della finestra del Terzo Mulino di Partinico. Figg. 19a-b Iscrizioni parietali indicanti i settori di conservazione delle diverse qualità di farina negli ambienti del Terzo Mulino di Partinico. del mascherone centrale, è stato realizzato nel 1609 (foto dell’autore). Fig. 22 Il ponte in pietra, cavalcando il torrente Rio Sardo, conduce al mulino di Mirto-Sardo, Figg. 20a-b Il monumentale abbeveratoio di c/da Valguarnera, come ricorda la data incisa ai lati Fig. 21 Fig. 23 Fig. 24 Un tratto della sāia del mulino di Valguarnera. di cui si intravedono i resti oltre le fronde degli alberi. La rampa che conduceva al palmento del mulino di Mirto- Sardo. La base delle presse con incisa sul bordo la data di realizzazione dell’impianto (foto dell’autore). Figg. 25a-b Portone di ingresso principale con incisa sulla chiave della piattabanda la data di ristrutturazione del complesso architettonico (foto dell’autore). 39 Bibliografia AIELLO 2010 T. Aiello, I mulini ad acqua nel territorio di Partinico, in T. Aiello, M. Fiore, L’edilizia rurale nel partinicese in rapporto al modificarsi delle forme di produzione, Partinico 2010, pp. 173-187. AMARI 1857 M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, Lipsia 1857 (Catania 1982). BRESC, DI SALVO 2001 H. Bresc, P. Di Salvo, Mulini ad acqua in Sicilia, Palermo 2001. DI BARTOLOMEO 1805 G. M. Di Bartolomeo (G. Schirò, G. Nania trascrizione e commento), Storia di Partinico. Manoscritto inedito del 1805, (Partinico 2007). DJEBBAR 2002 A. Djebbar, Storia della scienza araba, Milano 2002. FILIPPI 1996 A. Filippi, Antichi insediamenti nel territorio di Alcamo, Alcamo 1996. GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA 1802 F. M. E. e Gaetani, Marchese di Villabianca (a cura di N. Cipolla), Storia della Sala di Partinico, (Palermo 1997). PIZZUTO ANTINORO 2002 M. Pizzuto Antinoro, Gli Arabi in Sicilia e il modello irriguo della Conca d’Oro, Palermo 2002. SOMMARIVA 2011 G. Sommariva, La via dello zucchero. Borghi feudali dalla valle dell’Eleuterio alla valle dell’Imera, Palermo 2011. VITALE 1991 S. Vitale, Le torri del distretto, Partinico 1991. 40 Capitolo 2 di Tommaso Aiello Storico del Territorio i mulini ad acqua nel territorio di partinico In Sicilia il territorio della provincia di Palermo, dove sono presenti numerosi sistemi di mulini ad acqua a ruota orizzontale, distribuiti lungo gli alvei dei corsi d’acqua, che di solito hanno un carattere torrentizio, è stato scelto in passato per un’indagine scientifica sotto il profilo storico, tecnologico e antropologico. Le ricerche archeologiche poi hanno evidenziato l’esistenza di macine per la molitura dei cereali a mano, a trazione animale, a ruota idraulica orizzontale, sistema quest’ultimo noto fin dal I secolo d.C., ma ampiamente utilizzato e diffuso dal IX-X secolo d.C. in poi, determinando una rivoluzione tecnologica e culturale di notevoli proporzioni e importanza, che è rimasta valida fino alla metà del XX secolo praticamente immutata. Nel territorio di Partinico abbiamo però potuto verificare l’esistenza di mulini ad acqua a partire dal XVI secolo in poi, anche se non è escluso che ci fossero presenze preesistenti, come forse quello di S. Cataldo, di cui parleremo più avanti. La loro funzione è stata attiva, come del resto anche negli altri posti, fino alla metà del XX secolo. Le ragioni della loro decadenza, sotto il profilo economico, sono state di vario ordine, ma due risultano essere le principali: la nascita dei mulini elettrificati, che permettono di lavorare una maggiore quantità di grano e la mancanza dell’acqua il cui corso è stato deviato per soddisfare le esigenze idriche dei siti abitati. Nell’antichità per molire i cereali si usava l’energia umana prodotta dal lavoro degli schiavi e delle donne. «[...] Figliola di Babilonia, non continuerai più a chiamarti Morbida e Delicata. Metti mano alle macine e macina la farina [...]» (Isaia 47,2), ma ben presto l’ingegno umano trovò il modo di utilizzare l’energia prodotta dall’acqua. La forza dell’acqua, appunto, imbrigliata in numerosi meccanismi (le ruote idrauliche sono tra questi), sostituì la forza delle braccia umane per soppiantare il lavoro manuale. Plinio, nei suoi scritti testimonia, durante il tempo di Augusto (63 a.C. - 14 d.C.), la co41 struzione in Italia di numerosi mulini ad acqua che sfruttavano ruscelli e corsi d’acqua, che si sarebbero poi diffusi in tutto l’Impero. Ma è in epoca medievale, come scrivono vari autori, a partire dal Bloch, che si svilupparono le condizioni per lo sfruttamento dell’energia idraulica per macinare i cereali. Osserva Jean Gimpel: «La forza idraulica poteva offrire soltanto un interesse limitato in paesi dove la schiavitù forniva mano d’opera a buon mercato, per cui, una politica di meccanizzazione avrebbe avuto un effetto disastroso sulla mano d’opera libera e servile». Al contrario, in un mutato clima sociale e politico come quello del Medioevo, il declino e poi la scomparsa della schiavitù si accompagnano all’impiego su larga scala dell’energia idraulica. L’impianto di numerosi mulini idraulici in periodo medievale vedrà protagonisti gli ordini monastici, la nobiltà feudale, la classe dei mercanti. Dal punto di vista tecnologico la “follia costruttiva” medievale costituisce, per gli ingegneri del tempo, un’autentica sfida. La necessità di installare gli impianti nelle più svariate condizioni idrauliche, di migliorare i rendimenti e di meccanizzare nuovi tipi di lavorazioni li spinge ad adottare soluzioni tecniche ardite e originali che, complessivamente considerate, fanno arretrare di parecchi secoli quel processo di sviluppo dell’industria europea solitamente e troppo affrettatamente collocato nel secolo XVIII. Del resto basti pensare che molti mulini funzionavano ancora nel XVIII secolo, in piena rivoluzione industriale e ammodernati esistevano ancora nel secolo XIX e alcuni sono ancora in piedi ai giorni nostri. Il passaggio dalle macine a pietra al mulino a rulli avvenne con l’invenzione della macchina a vapore, alimentata a carbone, e alla scoperta, soprattutto, dell’elettricità, tanto che oggi la stragrande maggioranza dei mulini è proprio a rulli. I mulini ad acqua, come dicevamo, erano posti a cascata lungo i corsi d’acqua; qui giungevano i contadini con i muli carichi di grano e dovevano attendere a volte lunghe ore per il loro turno di macina. Il mugnaio era colui che presiedeva al rito di trasformazione del prezioso cereale in farina, regolando sia la quantità di grano da molire sia la giusta pressione da dare alle macine per ottenere, in maniera empirica ma sapiente, la «giusta granulosità della farina che doveva essere né troppo fine, né troppo semulosa». L’acqua convogliata attraverso un canale in muratura, detto “saia”, accumulata e scaricata nella “botte di carico”, che poteva raggiungere anche dieci metri di altezza, raggiungeva il locale inferiore dell’apparato detto “guarraffo” dove veniva indirizzata a forte pressione da una canaletta detta “cannedda” sulle pale della ruota orizzontale a raggiera. 42 Canale in muratura detto "saia". Via dei Mulini. Foto Aiello, 1972 Ruote di macina del mulino di Mirto. Foto Aiello, 1972 43 L’acqua che usciva dalla cavità dove era collocato il “guarraffo” Foto Aiello, 1972 “Cannedda” da dove fuoriesce l’acqua indirizzata sulle palette. Archivio Aiello. Sotto la spinta dell’acqua, nel locale superiore dove alloggiava il vero e proprio apparato molitorio, attraverso un giuoco di ingranaggi, la macina soprana ruotante (rotore) su quella sottana fissa “statore”, triturava la granaglia che veniva dai sacchi riversata nella tramoggia (trimoia) e convogliata nel foro centrale della mola soprana. Il grano man mano che veniva molito dalle macine, opportunamente scalpellate con incavi disposti a spirale favorivano la fuoruscita della farina che veniva raccolta in un apposito accumulatore (cascia). Le macine di pietra pur avendo speciali requisiti di durezza, porosità ed omogeneità di struttura, richiedevano continui lavori di scalpellamento, da parte dei “pirriaturi”, con apposite martelline, dei solchi che il troppo uso levigava. Ma torniamo al nostro territorio: come scrive il Fazzello, che terminò la sua Storia di Sicilia nel 1554, «Il bosco di Partenico essendo al mio tempo tutto tagliato e svelto, vi si sono piantate assaissime vigne, e vi si è fatto un castelletto chiamato Sala, dove è assai abbondanza d’acqua, e gran copia di cannamele». Per cui secondo il Lo Grasso, nella sua Partenico, pag. 102, il nostro paese, per oltre un secolo, sotto la reggenza degli Abbati Commendatari progredì veramente nel benessere materiale. 44 Non è però dello stesso parere lo storico inglese Denis Mack Smith che in “Storia della Sicilia medievale e moderna” dà un giudizio nettamente negativo sul governo degli spagnoli e dà un giudizio negativo anche dei siciliani sia nobili che ricchi proprietari e poveri contadini che divennero tutti bugiardi, egoisti e molti si diedero al brigantaggio e alle ruberie. E questo perché l’esosità delle tasse richieste dagli spagnoli indusse tutti quanti a cercare di salvaguardare in tutti i modi quel molto o poco che possedevano. Data l’inclemenza del tempo, che alternava piogge torrenziali (che distruggevano spesso il raccolto) a periodi di siccità fortissima dovuta al soffiare del vento di scirocco africano che bruciava le terre della Sicilia, i rimedi usati furono peggiori, determinando un cambiamento dell’ecosistema. Addirittura, osserva sempre lo storico inglese, quando arrivava lo scirocco, nelle strade di Palermo e sicuramente anche di Partinico e degli altri paesi, nell’aria c’era tanta sabbia da non permettere la visibilità da un lato all’altro delle strade. Si dice che i più danarosi si facevano costruire dei sotterranei antiscirocco, dove la temperatura rimaneva un po’ più mite (l’attuale clima c’era quindi anche nel XVI e XVII secolo). La conseguenza di queste avversità atmosferiche portava i baroni e i ricchi proprietari a ricercare sempre nuove terre più fertili da sfruttare, facendo abbattere la ricca vegetazione arborea esistente, con la conseguenza di rendere sempre più aride le terre e contribuire a cambiare radicalmente il clima mite e temperato del Mediterraneo. Anche Rosario Villari - "La formazione del mondo moderno" - Laterza, pag. 300 - parla di profondi squilibri sociali nel mondo spagnolo dovuti al grande problema di una società che tendeva a spezzarsi in due, con tutta la ricchezza da una parte, nelle mani di pochi privilegiati, e dall’altra una sterminata miseria senza speranza, con la conseguenza che i nuclei di borghesia che non riuscivano ad inserirsi tra le file della nobiltà stentavano a sopravvivere in queste condizioni. Figuriamoci poi la grande massa di contadini, di artigiani e di nullafacenti e nullatenenti. La grande esosità delle tasse richieste alle province sottomesse, dovuta all’esaurirsi del flusso del fiume di argento americano, spinse questi territori verso una crisi economica, sociale e politica irreversibile. Nonostante questo sfacelo è comunque probabile, che tra una guerra e l’altra, una pestilenza e l’altra, la Sicilia potè godere di rari momenti di prosperità, soprattutto all’inizio del disboscamento con l’acquisizione all’agricoltura di nuove terre vergini. Così anche Partinico, impiantando nuove colture in maniera estensiva quale quella del frumento, si trovò nella condizione di dovere costruire una serie di mulini che dovevano servire non solo alle necessità del paese, ma anche a quelle dei paesi vicini. Nacquero 45 così diversi mulini azionati dalla forza dell’acqua dei torrenti che ancora abbondavano nel territorio. Ne sorsero ben quattro nell’asse viario che porta al Borgo Parrini e scende poi verso lo Zucco. Scrive il Di Bartolomeo in “Storia di Partinico” alla pag. 101: «Gli effettivi mulini poi, che sorgono nel nostro contado badiale e che ad esso in parte appartengono sono i seguenti, quali tutti vengono girati dall’acque degli anzidetti fiumi: il mulino che anticamente e sino al 1646 si serviva questa nostra popolazione [...] nominato Molinello [...] Esistea questo in fine dell’abitato [...] nel luogo di Gambacurta [...] Resa più grossa la popolazione nel principio del 1646, si penzò dall’abbate di fabbricare altro più grande corrispondente molino, egli fu quello appunto ch’oggi esiste nel menzo, cioè del primo e del terzo de’ nostri odierni tre mulini». Mulino Cassarà, l’odierno Terzo Mulino. Foto Aiello, 2009 46 Il Di Bartolomeo continua così: «Nel 1767 poi [...] ingrandita di molto la popolazione e la gente, d’ordine della Maestà sua Ferdinando, si eresse il terzo ossia l’odierno primo mulino» (attuale proprietario il Consorzio Cepsa). «L’imperizia di quei ingegnieri partorì lo stravisamento di quella parte di città, in menzo a cui bisognarono alzarsi delli muri, detti volgarmente saitte per portare in alto l’acque, e tante delle volte si generavano delle laterali paludi, causa forse di render l’aria poco sana della città [...] Non è da omettersi la providenza legale data dall’illustre commendatore Troisi, con disposizione del 20 luglio 1800; si ordina in esso e si stabilisce che i molinari [...] debban dar l’acqua ai giardinari ed ortolani del territorio nel tempo estivo». L’odierno Primo Mulino. Foto Aiello, 2009 Visitando questi vecchi manufatti (il Secondo Mulino, oggi della famiglia Salvia, che aveva un bellissimo porticato con colonne, è stato abbattuto e traformato in mulino moderno), si è potuto notare che presentano la stessa morfologia e cioè: un muro alto 4-5 metri all’origine che va gradualmente degradando fino ad arrivare alla struttura considerata, che presenta un dislivello da dove scende l’acqua che aziona la ruota posta alla base della struttura. 47 La “saitta” per portare in alto le acque del torrente. Foto Aiello, 2009 Il Secondo Mulino com’era nel 1974. Foto Aiello. 48 Il mulino di Cuti e la omonima torre. Foto Aiello, 2009 La ruota idraulica essendo collegata direttamente, tramite un asse, agli ingranaggi della macina fa girare gli stessi. Altri elementi che servivano per la trasformazione del prodotto erano: il “lavagrano” e il “cernitore”. Tutti gli elementi per la trasformazione all’origine erano in legno. Solo più tardi abbiamo qualche innovazione inerente ad alcuni elementi delle strutture per la trasformazione, quale per esempio la sostituzione dell’asse in legno della ruota idraulica con un asse in ferro. Il quarto mulino dell’asse viario Partinico-Parrini-Zucco è quello di Cuti che riceve le acque del fiume Finaita (dal nome volgato del Nocella) ed apparteneva ai primi dell’Ottocento agli eredi del dr. don Domenico Barone Parisi e ordinariamente serviva le vicine terre di Favarotta (Terrasini) e Cinisi. Oggi appartiene alla famiglia Cataldo. Il mulino, secondo uno studio del Naselli, è composto da quattro ambienti ormai tutti sventrati e che servivano come magazzini del grano, della farina e della macina. A custodia del mulino fu costruita una torre le cui mura perimetrali sono ancora in buone condizioni. Poiché non ci sono documenti certi circa il periodo della sua costruzione, è presumibile che il complesso fu costruito nella seconda metà del ‘600, quando appunto si incrementò la coltivazione del grano. 49 Mulino di Mirto. Foto Aiello, 2009 Anche per il mulino di Mirto, oggi di proprietà di Vincenzo Grimaldi, abbiamo poche notizie. Ci viene in aiuto sempre il Di Bartolomeo che parlando dei fiumi del territorio partinicese ricorda il fiume Cirasella e dice che nasce in larga vena dal feudo di Mirto e Valle d’Olmo, poderi dell’illustre duca di Castel di Mirto, don Antonino Stella e Valguarnera. «Quest’acqua sì abbondante - continua il Di Bartolomeo - lavorando il paratore e volgendo il mulino di detto Mirto, si bipartisce in due corsi. Il primo corso piglia la direzione della contrada Girgentana, s’inoltra in quella di Carrozza fino ad arrivare al mulino di Cerasella». La testimonianza del Di Bartolomeo ci conferma la funzionalità, nell’Ottocento, di questi mulini azionati dalle acque dei vari torrentelli del nostro territorio. Comunque ascoltando alcune persone abbastanza anziane ci confermano che ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso questi mulini erano tutti funzionanti, ma già erano sorti dentro il paese nuovi mulini, tecnologicamente più avanzati come quelli di Santoro e di Soresi. Degli altri mulini citati all’inizio abbiamo la certezza della loro esistenza e della loro funzionalità anche fino ai primi del Novecento, ma di questi non restano ormai che solo pochi ruderi. Vediamo alcune immagini del mulino Nocella, ricordato ancora una volta dal Di Barto50 Mulino Nucilla. Foto Aiello, 2009 Mulino Nucilla. Foto Aiello, 2009 51 lomeo, alla pag. 93, nella descrizione dei luoghi nella piana ossia campagna di Partinico: «Nocilla con case dirute e mulino del ven. Monastero di San Martino». Qualche ambiente è ancora comunque in piedi e fino a qualche anno fa era utilizzato dal proprietario per custodirci le mucche, oggi però il tutto ci sembra completamente abbandonato. è sempre il Di Bartolomeo a dirci che il fiume Renda precipitandosi attraverso il vallone di Simone, sbocca ai mulini della Nucilla, «che fa girare e lavorare insiememente il paratore, fabbrica così detta, di cui fan degli albraggi, vale a dire rozzi panni e grossolani di lane nere e bianche per uso di gente villica». Importante testimonianza perché ci fa capire che oltre al mulino c’era anche una piccola fabbrichetta per la produzione del panno. Ma vediamo le foto che sono più eloquenti di ogni discorso. Del mulino di San Cataldo abbiamo notizie della sua esistenza già nel 1182, in un diploma, dato a Velletri, dal pontefice Lucio III (1181-1185): «Confirmamus omnes possessiones [...] Ecclesiam S. Cataldi Partinici cum molendinis» (vedi Rocco Pirro, opera citata, pag 495). Questi possedimenti furono confermati al monastero di San Giorgio di Gratteri. I resti del mulino di San Cataldo. Foto Aiello, 2009 52 Riteniamo che questo mulino fosse alimentato dal torrente Renda che proviene dalle montagne di Sagana, e che dopo aver alimentato il mulino Nocella e quello di Cuti al Passo di Conti, azionasse anche quello di San Cataldo (appartenente al barone Di Stefano nell’ottocento) prima di sboccare a mare (vedi Di Barolomeo, opera citata, pag. 102). Purtroppo anche di questo mulino oggi non restano che dei ruderi, in particolare un possente bastione che portava l’acqua. Di ben altra dimensione sono i ruderi del mulino Sardo. Vederlo dall’alto della stradella, ci fa comprendere quanto importante e imponente fosse questo mulino. Diciamo subito che sorge nel Piano Sardo e vi si arriva dalla circonvallazione, che congiunge la S.S. 113 alla S.S. 186, per mezzo di una stradella che fiancheggia monte Cesarò. Nella carta dell’IGM porta il nome di mulino Mirto-Sardo ed è alimentato da un torrentello che porta il nome di Rio Sardo e proviene, probabilmente, dalle sorgenti di Mirto. Attuale proprietaria è la famiglia Filingeri di Palermo. Anche questo mulino è composto da diversi ambienti ormai tutti sventrati, ma che lasciano intravedere chiaramente la possanza di questo fabbricato. Tali ambienti sicuramente servivano per immagazzinarvi il grano e la farina. Il mulino Mirto - Sardo. Foto Aiello, 2009 53 Ci permettiamo di proporre il riuso di alcune di tali strutture produttive preindustriali con la creazione di un itinerario culturale che ripercorra le “trazzere” o strade su un carretto siciliano e che comprenda anche alcune delle torri, dei bagli, delle masserie, della Real Cantina Borbonica e del castello di Ramo. Il mulino Mirto - Sardo. Foto Aiello, 2009 Ruota orizzontale a raggiera. Foto Aiello, 2009 54 Capitolo 3 di Rosanna Fasulo Architetto i mulini ad acqua DEL KAGGERA nel territorio di ALCAMO I mulini che si trovano lungo il fiume Kaggera sono dei mulini ad acqua, con ruota orizzontale, chiamati “greci”. Questi mulini sono stati attivi fino a qualche decennio fa ed erano delle grandi macchine industriali per la produzione di farina; oggi con l’avvento della tecnologia moderna sono stati sostituiti da mulini elettrici e quindi abbandonati. Nei tempi passati la concentrazione di più mulini lungo il corso di un fiume era frequente e prendeva il nome di flomaria molendinorum; di queste se ne conoscono diverse in Sicilia come quella di Admiragli, sul fiume Oreto a Palermo, quella di Leonforte, di Polizzi Generosa e quella di Calatafimi: flomaria Calataphmi. Sui mulini di quest’ultima flomaria si hanno notizie fin dal 1130-40, da una relazione scritta dal geografo arabo Ibn Idris (Idrisi), che è raccolta nel libro “Il libro di Ruggero” di Idrisi, Palermo 1994. Egli dice «[...] la rocca è stata chiamata “Ponte Bagni” per una sorgente termale che scaturisce da una rupe vicina; la gente vi si bagna volentieri perché l’acqua, di temperatura mite, è dolce e ricreatrice. Nei dintorni scorrono fiumi e ruscelli lungo i quali si trovano i mulini». Naturalmente i mulini esistenti non sono quelli visti da Idrisi, ma sono comunque abbastanza vecchi, ne è prova il documento del 1936 in cui si fa nota di tre mulini importanti chiamati Marchione, Bagni, Gorga. La scelta del mulino di tipo greco, che troviamo nel Kaggera, nel passato denominato “Crimiso”, è stata condizionata dalla limitata quantità d’acqua del fiume e dalla conformazione del territorio, prevalentemente collinare; il mulino greco riesce a funzionare sfruttando anche piccoli corsi d’acqua, grazie alla presenza della botte posta in alto all’edificio che permette un aumento della pressione. L’acqua infatti generalmente giunge al mulino attraverso la zachia, un canale di derivazione fatto lungo il corso del fiume, che devia parte dell’acqua e la porta alla botte posta nella parte più alta dell’edificio; detta botte ha una forma di cono rovesciato dove spesso all’interno si trovano delle 55 Mappa del 1936 Particolari della mappa travi in legno poste ad X, che hanno lo scopo di aumentare il moto vorticoso dell’acqua. Nell’ultima parte della botte vi è inserita la cannedda, una struttura in legno di forma piramidale tronca, che serve a stringere ancora la sezione e ad aumentare la forza dell’acqua; inoltre soprattutto devia l’acqua verso il locale guarraffo dove è ubicata la ruota. La ruota è il congegno attraverso il quale si ha la trasformazione dell’energia idrica in energia meccanica. È costituita da due elementi circolari di diametro diverso entro cui si trovano i pineddi cioè le pale e da due braccia poste a croce che sostengono l’insieme. La ruota è posta orizzontalmente e la forza dell’acqua la fa girare grazie alla presenza delle pale. Nell’incrocio delle braccia vi è collegato un fuso che attraversa il solaio del locale guarraffo e si collega alla mola inferiore e superiore, che sono l’anima del mulino. Questi tipi di mulini infatti sono nati per macinare frumento e realizzare farina. Le due mole sono poste una sopra l’altra, sono in pietra e hanno delle scanalature radiali. La forza dell’acqua fa muovere la pala, questa fa girare il fuso che, collegato alla mola 56 superiore, la fa ruotare. Sopra le due mole vi è un elemento in legno chiamato tramoggia o trimoia, ha una forma piramidale capovolta, con il vertice posto vicino alla mola superiore: qui viene posto il grano. Spaccato assonometrico di un mulino greco Sezione del mulino Marcione Il percorso comincia quindi dalla tramoggia dove il cereale scende lentamente nelle mole. Qui viene macinato e trasformato in farina che poi, grazie alla forza centrifuga e alle scanalature che vi sono nelle mole, viene gettato nelle parti periferiche dove per non farla disperdere vi sono collegate delle tavole in maniera circolare o ottagonale, che prendono il nome di arbula; qui la farina si deposita e poi viene raccolta dal mugnaio e messa dentro i sacchi. Il mulino Marcione si trova nel territorio di Alcamo, nella contrada che prende il nome dal mulino stesso. Il nome probabilmente deriva dallo spagnolo macho, ovvero “forte” perché aveva più mole, e da qui macciuni (siciliano), Marcione. 57 mulino MARCIONE Datazione 1393. Nel “Diploma di grazie e privilegi” concessi nel 1393 dai Magnifici Conti di Peralta alla Città di Calatafimi “Lu Mulinu di machuni frumentu salmi quactru”. Precedentemente, intorno al 1140, furono donati al monastero benedettino Santa Maria di Valle Goisafat di Gerusalemme, in seguito pervennero al monastero di San Martino delle Scale e quindi in data imprecisata ai privati. Localizzazione C/da Marcione Alcamo, all’incrocio tra il Fiume Freddo e il Fiume Caldo Coordinate GPS 37°59’00.1”N 12°55’16.5”E Altitudine sul livello del mare 32 m Alimentazione Fiume Kaggera Come raggiungerlo Si raggiunge percorrendo la Strada Statale 113. Usciti da Partinico in direzione di Alcamo proseguire per 2 km fino al bivio per la c/da Valguarnera. Immettersi sulla Strada Provinciale 81 e seguitare per 3 km ca. fino all’ultimo tornante prima del fondovalle del fiume Giancaldaia – Iato. Da lì è possibile scorgere i ruderi del mulino sul versante opposto. Descrizione Il Mulino Marcione o in siciliano Macciuni prende il nome dalla spagnolo “macho” ovvero “forte” in quanto possedeva tre mole di cui una di riserva, e ciò in relazione alla quantità d’acqua, data dall’essere collocato alla confluenza dei due fiumi, ed alla lunghezza delle prese. Mulino idraulico a ruota orizzontale per la macinazione del grano, la tipologia del mulino è greca, ovvero con la botte posta in alto all’edificio in modo da sfruttare la forza della caduta dell’acqua. L’edificio è realizzato in muratura portante con pietra locale informe; il suo stato di conservazione è discreto. Bibliografia Essenziale CALATAFIMI SCOVERTO A’ MODERNI - Ristampa a cura di D. Taranto e L. Vanella - Paceco – 1993. I MULINI DI CALATAFIMI – Studio sui mulini idraulici lungo il corso del fiume Crimiso - Leonardo Accardo, Pietro Bonì, Salvatore Palmeri Tipolitografia Olbia - Alcamo - 1996. 58 Capitolo 4 di Enza Anna Parrino Dirigente Ufficio Servizi Tecnici, Manutentivi e Ambientali Comune di Alcamo la cuba delle rose: l’abitato scomparso di calatubo e il modello arabo di gestione delle acque A poca distanza da Serra Conzarri, la rocca di Calatubo, in un paesaggio agrario dalle forme collinari dolci e a tratti subpianeggiante, si trova la Cuba delle Rose. Fino a poco tempo fa la Cuba si ergeva dimenticata, raccontando silente le proprie antichissime origini, trasformata in rudere da quella stessa natura che per millenni ne aveva mantenuto la funzione di cisterna per l’accumulo di acqua. La Cuba oltre a rappresentare un importante artefatto storico e culturale, nasconde in sè un indizio fondamentale per l’individuazione dello scomparso abitato collegato al Castello di Calatubo. Essa era ed è espressione dell’ingegno musulmano che si sviluppò in campo idraulico e per secoli l’insediamento umano di Calatubo prima e la società contadina dopo, hanno avuto nella Cuba una fonte di sopravvivenza. L’esistenza di un vasto abitato a Calatubo è confermato da diverse fonti documentali, dall’esame delle quali si può muovere un’ipotesi di localizzazione. La difficoltà nasce poi nella verifica delle fonti, per la quasi totale mancanza di elementi di continuità del passato con il paesaggio attuale, reso ormai tabula rasa dagli interventi di livellamento dei terreni. Un apporto sostanziale per la ricerca del villaggio scomparso è dato dallo studio del sistema idraulico arabo di cui la Cuba è parte. Il sistema arabo di gestione delle acque per l’agricoltura e per alimentare gli abitati si ispira a un preciso modello, generatosi in contesti geografici del Medio Oriente, della Penisola Arabica e dei deserti africani, luoghi in cui l’acqua ha sempre rappresentato una risorsa limitata. Questo sistema trasporta l’acqua da punti lontani attraverso dei canali sotterranei fino al punto di utilizzo sia esso un abitato o campi coltivati. Nel caso di Calatubo il cunicolo sotterraneo, partendo ragionevolmente da un punto vicino a Serra Conzarri, trasporta l’acqua fino alla Cuba delle Rose, che rappresenta il punto di accumulo del sistema arabo. è quindi ipotizzabile che nelle vicinanze della Cuba sia da ricercare l’insediamento scomparso, i cui abitanti utilizzavano la Cuba per rifornirsi di acqua. 59 Il restauro ha restituito vita alla Cuba, trasformando dei ruderi in simbolo dal fascino straordinario di una storia ultramillenaria; ciò è stato possibile con un finanziamento del GAL Golfo di Castellammare, che ne ha consentito il restauro, la valorizzazione e il recupero. La Cuba delle Rose prima dell’intervento di restauro 60 La Cuba delle Rose prima dell’intervento di restauro 61 La Cuba delle Rose durante le operazioni di restauro La Cuba delle Rose durante le operazioni di restauro 62 La Cuba delle Rose dopo il restauro 63 La Cuba delle Rose dopo il restauro 64 La Cuba delle Rose dopo il restauro Non è facile ricostruire con esattezza la storia e l’origine della Cuba per l’esiguità dei documenti pervenuti. Si può però tracciarne la storia collegandola a quella di Calatubo. Non si ha certezza sull’origine del nome Cuba. La parola potrebbe provenire dall’arabo Qubba ossia “Cupola”. è però più accreditata l’ipotesi che la parola Cuba significhi “Casa quadrata”. Abitualmente erano così chiamati gli edifici realizzati quali grandi recipienti d’acqua e circondati da rigogliosi giardini. Gli anziani contadini del luogo, come riferisce Stefano Catalano, raccontano che la Cuba fu chiamata delle Rose perchè nei primi anni del 1700 la baronessa di Calatubo, donna Gaetana De Ballis, vi coltivava di nascosto un rosaio. Raccontano che andasse di notte a curare le sue amate rose, per evitare di farsi vedere e pare che le rose fiorissero solo nel buio della notte. Alla Cuba sono legate alcune leggende che ancora oggi rimangono nella memoria dei vecchi, altre probabilmente sono andate perdute nel tempo. Si narra che la Cuba fosse famosa tra i viandanti e la gente del posto per le sue riconosciute proprietà di profetizzare l’incombente futuro. Un’altra leggenda rievoca la storia dell’eterno amore tra due giovani nobili legati a baronie di fazioni opposte. Affrontare la Cuba è quindi affrontare una leggenda, occorre procedere con prudenza 65 ricordando nel contempo le glorie di un passato splendore. Anche se il nome è indubbiamente di origine araba, cosi come arabo è il toponimo di Calatubo (Qal’at ‘Awbi o Kalata et tub, terra di tufo), ciò non comporta di conseguenza che l’uso della fonte e l’insediamento umano che l’utilizzava, non sia precedente al periodo della dominazione araba in Sicilia. È anzi verosimile che questo manufatto sia stato presente in epoca remota così come, secondo dei ritrovamenti archeologici, è antecedente al periodo arabo l’abitato di Calatubo. Alcuni luoghi, infatti, sono stati abitati fin dall’antichità, per le loro caratteristiche peculiari morfologiche ed orografiche. Le terre fertili, l’acqua, il porto, le cave di pietra, fanno di Calatubo un luogo naturalmente vocato all’insediamento umano, con periodi di popolamento e di abbandono dell’insediamento secondo le vicende storiche dei vari millenni. La storia della Cuba segue la storia dell’insediamento umano di Calatubo che fonda le sue basi nella preistoria. Sull’intero sito di Calatubo vi è una presenza di tracce antropiche a partire dal V millennio a.C. Nel corso di ricerche, diversi studiosi (Filippi, Messana) hanno individuato frammenti ceramici di contesto neolitico, dell’antica età del bronzo, strumenti litici, ossidiana, conchiglie forate. Il sito presenta successive occupazioni nel periodo della colonizzazione greca (VIII – IV sec. a.C.) con sporadiche tracce di età romana (III sec. a.C. - VI sec. d.C.). Leonardo D’Asaro, in un recente studio, ipotizza che nell’area del golfo di Castellammare si svolse la saga di Minosse e Cocalo, localizzando le due antiche città sicane di Inico e Camico, rispettivamente a Calatubo e a Bonifato. Nell’area antistante l’ingresso del castello, vi è una vasta necropoli che testimonia la presenza di un abitato oggi scomparso. La necropoli, sulla base dei ritrovamenti archeologici è riferibile almeno all’età greca e poi all’età musulmana, anche se non è escluso che sia riferibile, almeno in parte, a periodi preistorici. L’area alquanto ristretta in cima alla rocca, circa 5.000 mq, difesa tutt’intorno da pareti a strapiombo, doveva servire da rifugio, in caso di necessità, al nucleo di abitanti verosimilmente ubicato nelle zone a valle. A partire dal V sec. a.C., dai ritrovamente archeologici, l’insediamento umano di Calatubo vive un periodo di prosperità fino alla tarda età ellenistica (metà del III secolo a.C.). Dalla prima metà del III sec. a.C. e fino al V sec. d.C., l’abitato di Calatubo sembra spegnersi, in quanto si registra un vuoto nella documentazione archeologica. Lo spopolamento del sito è da collegare, anche temporalmente, alle alterne vicende collegate alla prima guerra punica (264 a.C.) e al clima di instabilità politica e sociale della prima fase di dominazione romana con lo spopolamento delle campagne. 66 Recentemente Messana ha rinvenuto nel sito di Calatubo delle anse bollate di anfore vinarie Rodie da trasporto del III-I secolo a.C. Le anfore costituiscono prova dell’esistenza del commercio di vini con l’isola di Rodi e conducono all’ipotesi che il sito non sia stato del tutto abbandonato dopo le vicende della guerra punica. Sono soprattutto le vie di comunicazione favorevoli che chiariscono le ragioni della sopravvivenza di un insediamento umano a Calatubo: il porto fluviale, sbocco di un esteso entroterra, la strada segnalata dall’Itinerarium Antonini che passava proprio sotto la rocca, poi diventata la regia trazzera che proprio in quel tratto coincide con l’odierna strada provinciale 132. Le testimonianze sull’insediamento di Calatubo durante l’età bizantina nel corso del VI secolo sono di carattere archeologico (Filippi, Messana, Regina), essendo totalmente assenti le fonti documentarie. Altra testimonianza archeologica di quel periodo proviene dalla contrada Manostalla, dove nel 1962 fu ritrovata una necropoli ed alcuni vasetti di età bizantina (Giustolisi). La conquista araba, iniziata nell’827 e terminata nel 902, e la successiva dominazione portarono una significativa rinascita urbana in Sicilia con un’eccezionale fase di sviluppo economico, politico e urbanistico. Nel trapanese soprattutto, la dominazione musulmana costituisce una tappa importante, cruciale, nell’organizzazione del territorio, dell’abitato e del popolamento. Numerosi sono i toponimi arabi in Qal’a o in Qasr o in Burg in Val di Mazara, terra islamica per oltre 250 anni che anche dopo, sotto i Normanni, sarà in larga maggioranza di popolazione islamica La conquista normanna della Sicilia segna un cambiamento epocale nella storia dell’isola. Dopo l’investitura nel 1059 da parte di papa Niccolò II, i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero, della famiglia degli Altavilla, nel 1060 sbarcarono a Messina e dopo una guerra trentennale, nel 1091 strapparono la Sicilia agli Arabi. L’insediamento umano a Calatubo è certamente presente nel periodo arabo come sostiene Maurici basandosi sulle prime fonti documentarie normanne: la narrazione della conquista di Goffredo Malaterra, autore del “De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius”, ed il privilegio della chiesa mazarese che inserisce Calatubo nell’elenco di città già esistenti in epoca araba. Il Diploma di fondazione della Diocesi di Mazara del 1093 è il primo documento che testimonia l’esistenza di Calatubo. In esso fra gli altri possedimenti si annovera «Calatub cum omnibus suis pertinentiis», Calatubo con tutte le sue dipendenze. Nell’elenco furono comprese le civitates et castra, cioè gli abitati principali, i capoluoghi: Trapani, Marsala, Mazara, Calatubo, Calaczaruth, Cinisi, Belice, Partinico, Jato, Calathamet. 67 Una descrizione straordinaria del sito di Calatubo è quella del celebre geografo e viaggiatore arabo di epoca normanna Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs, detto anche Idrīsī. L’opera idrisiana rappresenta il massimo delle conoscenze geografiche possedute dagli Arabi ed è considerata come uno dei monumenti della geografia medievale, basata sull’esperienza diretta. Dopo quindici anni di lavoro, nel 1154, Idrisi compendiò tutto il materiale nel cosiddetto “Libro di Ruggero (Kitāb Ruğārī)”, ovvero “Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo (Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq)”. La descrizione di Idrisi oltre a costituire la prima memoria descrittiva del sito, testimonia l’importanza di Qal‘at‘Awbi (Calatubo) in età normanna. Le notizie date da Idrisi sono molto dettagliate: «Calatubo è valida fortezza e paese grande, [provveduto] di territorio vasto, buono da seminare e molto produttivo. è situato a quattro miglia a un di presso dal mare; ha un porto dove si viene a caricar di molto frumento al par che delle altre granaglie. Giace in questo luogo una cava di pietra molare da acqua e di [pietra molare] persiana. Calatubo scostasi da Al Hammah (le acque termali, Bagni Segestani) per dieci miglia; e per dodici da B.rt.nìq (comune di Partinico)[...] da Calatubo ad Alqamah (Alcamo) un miglio arabico e mezzo [...] Da Castellammare a Calatubo [corron] tre miglia franche; da Calatubo a Partinico [...] tre miglia franche [...] Di qui (la spiaggia sotto Partinico) al fiume di Calatubo cinque miglia» (dalla traduzione di Amari). Il “paese grande” come lo descrive Idrisi, non poteva essere ubicato sulla cima della rocca. Questa, con un’estensione di circa 5.000 mq, non era certamente in grado di ospitare un grosso abitato. è verosimile che l’abitato fosse ubicato a valle della rocca, nelle vicinanze del fiume, ed ipotizzare quindi un centro abitato non difeso da particolari caratteristiche topografiche, con un sito in alto ben protetto e fortificato quale rifugio nei momenti di pericolo. Dell’abitato medievale cui si riferisce Idrisi, oggi rimangono pochissime tracce, di cui una è la Cuba delle Rose. Testimoniano la presenza dell’abitato scomparso anche altri manufatti (segnalati da Di Liberto) in un’area non distante dalla Cuba. Si tratta di muri costruiti in pietrame grossolanamente sbozzato ed allettati con malta di calce, presumibilmente pertinenti ad ambienti appoggiati alla parete di roccia e pertanto delimitati solo per tre lati da muri. Per quanto indatabili, essi costituiscono indizio di un insediamento in quest’area e a tali strutture potrebbero probabilmente collegarsi i numerosi fittili che si rinvengono in superficie sulla sponda sinistra del fiume Calatubo; fittili, di incerta datazione, molto probabilmente scorie di fusione riconducibili all’esistenza di una fornace (Filippi). Una raccolta di fonti consente di meglio chiarire l’esistenza e le vicende dell’abitato 68 scomparso di Calatubo. Il Fazello in “Le due deche dell’historia di Sicilia” narra che «[...] Sotto Alcamo un miglio verso il mare, si trovano le rovine, e la Rocca solamente del picciol Castel Calatubo, che fu gia fatto da’ Saracini». Ed ancora nel seguito dello stesso libro «[...] Evvi anchora Alcamo, nobilissimo castello, a cui e presso un miglio il castel Calatubo, che fu habitato gia da’ Saracini, di cui non resta in piedi hoggi altro, che la fortezza». Il gesuita Giovanni Andrea Massa in “La Sicilia in prospettiva Volume Secondo” scrive: «Calatubo, già Terra, hoggi resta solamente il Castello di nome Saracino» Nel Dizionario topografico della Sicilia di Vito Amico alla voce Calatubo si legge: «Castello, e da gran tempo casale, non lungi da Alcamo, verso Settentrione, appellato Calato compreso nella diocesi di Mazzara, e mentovato nei diplomi del Conte Ruggiero e di Papa Pasquale II, in cui se ne descrivono i confini». Pur essendo nel territorio di Alcamo, afferma lo storico De Blasi, in “Della opulenta citta di Alcamo”, il «Feudo nobile detto di Calattubo col suo mero e misto Impero, colla sua antica Saracena Fortezza che oggi esiste, da esso è segregato. Vi fu anticamente l’abitazione d’una Terra; ma oggi in luogo di essa non si vede altro che l’anzidetto antico Castello». La descrizione di Idrisi e le superiori fonti documentali convergono. Da essi si desume che in epoca arabo-normanna, vi erano a Calatubo sia il castello sia un paese grande abitato da musulmani, con uno scalo marittimo su un fiume navigabile, oggi torrente in secca nei mesi estivi. L’arabista Jeremy Johns dell’Università di Oxford, ha sottolineato che nel regno normanno di Sicilia avvenne una vera e propria fusione culturale tra cultura occidentale e cultura orientale. Il regno di Ruggero II è stato caratterizzato dalla natura multietnica e dalla tolleranza religiosa. Normanni, Ebrei, Arabi musulmani, Greci bizantini, Francesi settentrionali, popolazioni longobarde e Siciliani nativi vissero in discreta armonia sotto il potere normanno. In realtà pare che i sovrani normanni tollerassero i musulmani siciliani essenzialmente per motivi pratici, dato che questi costituivano la maggioranza della popolazione e pagavano la maggior parte delle tasse. Negli anni 1160 iniziarono le prime persecuzioni contro i musulmani che furono sempre più separati dai cristiani, anche dal punto di vista geografico. La maggior parte delle comunità musulmane dell’isola fu confinata oltre una frontiera interna che divideva la metà sud-occidentale dell’isola dal cristiano nord-est. Quando re Guglielmo il Buono morì però nel 1189, la protezione reale venne meno e iniziarono le aggressioni contro i musulmani dell’isola. Dopo la morte di Enrico VI, avvenuta nel 1197, e quella di sua moglie Costanza l’anno successivo, la Sicilia fu scossa da una serie di tumulti politici. La secessione saracena, 69 in qualche modo tenuta sotto controllo da Enrico VI, esplose in tutta la sua violenza nel periodo della minore età di Federico II, erede di Enrico VI, e la Sicilia divenne un campo di battaglia tra le forze rivali papaline e tedesche, al cui fianco si schierarono i ribelli musulmani. Nel 1221 Federico II, non più bambino, intraprese una serie di campagne militari e sconfisse i ribelli musulmani. Piuttosto che sterminarli, nel 1223, li fece deportare in Puglia, a Lucera. La ribellione islamica si riaccese vent’anni dopo, dal 1243 al 1246 quando gli ultimi saraceni si arresero per essere anch’essi deportati a Lucera. Le deportazioni di massa delle popolazioni islamiche dal Val di Mazara verso la Puglia, crearono un vuoto demografico incalcolabile, con l’abbandono di decine e decine di insediamenti. Scomparvero molti siti, come al-Khazan, Calathali, Calathamet, Entella, Hasu, Iato, Mirga, Platano, Qal’at al-Jalsu, Qal’at al-Tarīq. La gran parte di essi non verrà mai più riabitata. Questo il destino dell’abitato di Calatubo. La metà del XIII secolo segna la fine dell’abitato come centro stabile e permanente. Scompare quell’abitato d’età musulmana e normanna, descritto da Idrisi come grande e ricco paese. Nel 1278 il castello ed il feudo di Calatubo vengono concessi da Carlo d’Angiò a Ponç de Blancfort (Poncio di Biancoforte). Alla fine del XIII secolo il castello viene assegnato dal re Federico III d’Aragona al potente feudatario Federico d’Antiochia. Nel 1337 alla morte di re Federico III, gli succedeva il figlio Pietro che a seguito di rivolte nobiliari, di cui facevano parte anche gli Antiochia, confiscò i beni di quest’ultimi. I beni della Sicilia occidentale degli Antiochia, compreso il castello e il feudo di Calatubo passarono ai Peralta, che lo manterranno fino al XV secolo. Nel 1403, Calatubo, per estinzione del ramo diretto dei Peralta, passa ad Artale De Luna, conte di Caltabellotta, portato in dote dalla moglie Margherita Peralta; la famiglia De Luna, ne manterrà il possesso sino alla fine del XVI secolo. Nel 1408 Calatubo viene descritta come Castrum et Locum. Il termine Locum, nei documenti del XV secolo (come nota Maurici), corrisponde non a un vero e proprio abitato ma ad un piccolo nucleo di case, in genere retaggio di un antico abitato. Il Trasselli studiando gli atti del notaio Jampissi della fine del XIV secolo, ha avanzato l’ipotesi che vi sia stata a Calatubo una piccola comunità, legata all’attività portuale. Anche quel «frater Marcus de Calatubo» che nel 1386 si trovava nel monastero di San Martino delle Scale, sembra testimoniare la presenza di un piccolo abitato a Calatubo dalla fine del XIV agli inizi del XV secolo. Nella prima metà del XV secolo il feudo di Calatubo è certamente disabitato, come risulta 70 dalle fonti documentali, e nel 1558 il castello viene già descritto in rovina (Fazello). Nel 1583, il feudo di Calatubo e la baronia furono venduti dal conte di Caltabellotta a Graziano De Ballis, la cui famiglia ne manterrà il possesso fino al XVIII secolo. Nell’atto di compravendita si legge che il duca di Bivona vendette a «Graciano de Ballis la baronia et fegho di Calattubo cum sua fortezza delli membri et pertinentii del suo stato [...] ad effetto che collo prezzo di quello possa satisfare et disgravare alcuni redditi che paga sopra detto suo stato et alcuni censi decursi et compliri ad altri soi occurentij». Calatubo, nel momento in cui Graziano De Ballis ne entrò in possesso, era già spopolato. L’ultimo tentativo di ripopolamento del sito risale al 1609 con la concessione della Licentia populandi richiesta dal barone Giovanni De Ballis (terzo barone di Calatubo di casa De Ballis), cui non seguì però alcun insediamento. Il sito non sarà mai più ripopolato. Alla morte di donna Gaetana De Ballis, avvenuta a Palermo nel 1769, la baronia, il feudo e il castello di Calatubo andarono a Ignazio Papè e Ballo, suo figlio primogenito ed erede universale. Pietro Papè di Valdina alla fine dell’Ottocento, cambiò la faccia del paesaggio della sua baronia; da esperto imprenditore coltivò a vigna larghe estensioni di terreno e produsse il vino “Castel Calattubo”. Il vino fu premiato dal 1885 al 1902 con oltre trenta medaglie d’oro e d’argento e con grandi Diplomi nelle più importanti esposizioni d’Europa, tra cui quelle universali di Parigi del 1889 e 1900, ottenendo lo stabilimento enologico anche il brevetto di fornitore della Real Casa con facoltà di potersi fregiare dello stemma reale. Ed in effetti il vino è citato in almeno due menu, il primo ad una cena per un ricevimento di corte con gran ballo, a Palazzo del Quirinale il 31 gennaio 1898, e nella didascalia predisposta dalla Biblioteca Gastronomica Accademia Barilla (Collezione di menu storici - Stato Italiano – Regno d’Italia - Casa Savoia) venendo descritto come «il mitico Castel Calatubo di Sicilia, della zona da Alcamo, ormai estinto». Il secondo menu si riferisce ad un pranzo ufficiale del marzo 1905 di Vittorio Emanuele III ai giardini del Quirinale a Roma. La fortuna del castello durò poco. Calatubo fu ancora abbandonato, il suo aspetto di massiccio palazzo turrito venne a spegnersi, fino al totale abbandono nel XIX secolo. Perduta la propria funzione, il castello oggi è in completa rovina, costretto a meditare sul triste scorrer del tempo, come un vecchio saggio che avrebbe ancora molte cose da raccontare. L’abbandono e il degrado nel tempo lo hanno reso senza identità, ma tutt’ora in silenzio vive, in attesa di una resurrezione, così come più volte accaduto in passato. 71 Menu del 31 gennaio 1898 72 Menu del marzo 1905 73 Le rovine del castello Questa in estrema sintesi la storia millenaria di Calatubo, che è anche la storia della Cuba. Lo spopolamento nel Trecento segna la scomparsa dell’abitato dalla scena della storia. Nei secoli successivi, Calatubo esiste in quanto esiste il castello. Il desiderio di approfondire la conoscenza di Calatubo e della Cuba delle Rose, la possibilità di poter localizzare lo scomparso abitato, mi ha spinto alla ricerca delle fonti storiche ed allo studio del sistema arabo di gestione delle acque. Ho avuto l’opportunità di progettare il restauro del castello di Calatubo e quello della Cuba delle Rose, facendo parte di una équipe di tecnici comunali e della Soprintendenza di Trapani, consapevole che intervenire oggi con un progetto di restauro dei due monumenti significava farsi carico di tutta la loro storia millenaria. La spinta ad andare avanti, nonostante le difficoltà, è stata il senso di abbandono e degrado che permeava dalle due strutture, che era e per Calatubo ancora lo è, insopportabile. Le mura, sconnesse e pericolanti, l’immagine di crolli futuri mi hanno spinta a continuare a lavorare. La Cuba è stata restaurata, ma il castello è ancora lì, suggestivo, solitario, diruto, unica pecca alla sua grandezza, il ricovero delle pecore ai suoi piedi, un po’ disadorno e triste, ma si può tollerare, la pastorizia evoca scene bucoliche. 74 Le rovine del castello Quello che non si deve accettare è l’oblio. Studiare la Cuba, progettarne il restauro, è stato come una proiezione fuori dal tempo su una terra abbandonata ma ricca di storia se solo la si osserva con passione, con la consapevolezza, nonostante gli approfondimenti, di non sapere ancora nulla rispetto a ciò che la Cuba può ancora insegnare. Al momento degli inizi dei lavori, la Cuba versava in condizioni di grave degrado, emblema della condizione di degrado fisico cui è sottoposto ogni resto antico, su cui è segnata l’azione inesorabile del tempo. L’obiettivo del restauro è stato quello del recupero di un monumento facente parte a tutti gli effetti del patrimonio storico-artistico non solo locale, anche in modo da garantire, attraverso l’uso permanente del bene, la sua conservazione materica. Con il restauro si è dato il giusto senso ad una testimonianza materiale del passato e si è colmata una lacuna della nostra storia. Conformemente alla Carta del restauro 1987, l’intervento di restauro è stato eseguito «[...]nel rispetto dei principi della conservazione e sulla base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso». 75 La Cuba è un’antica cisterna, ancora attiva, ubicata verosimilmente vicino all’insedimento umano di Calatubo, al grande paese descritto da Idrisi. L’edificio, a pianta pressoché quadrata, è coperto a botte estradossata. Le dimensioni esterne sono di 4,35x4,50 metri con un’altezza massima nella parte orientale dell’edificio di 2,60 metri; la parte interna misura dal fondo del serbatoio al vertice massimo della copertura circa 3,70 metri; la capacità di acqua contenuta è di circa 10 metri cubi. La struttura presenta nel lato settentrionale un’apertura con tracce d’intelaiatura mentre sul lato orientale, nella parte sommitale, si evidenzia una seconda apertura murata in passato; l’accesso sul lato nord si spiegherebbe con la necessità di porre le aperture in direzione dei venti provenienti dal mare per mantenere la frescura delle acque, ed in effetti anche nelle giornate più calde, l’acqua della cisterna è sempre fresca. Sempre nello stesso lato orientale della struttura si trova il foro di sfogo delle acque interne che, mediante una condotta litica, immette le acque superflue in un lungo abbeveratoio esterno realizzato in epoca più recente (10,10x1,70 metri con una profondità di circa 0,70 metri). L’antica via di accesso alla Cuba proveniente dalla Rocca di Calatubo originariamente costeggiava il lato sud della cisterna, come si desume dai dati catastali del foglio numero 11 del Comune di Alcamo. L’esame delle fonti documentarie restituisce un quadro preciso relativo ad un territorio ricco e laborioso, con la presenza di un vasto abitato, di una zona fortificata e di un porto. La frammentarietà delle informazioni ricavabili dalle fonti non consente comunque di dare una esatta localizzazione all’abitato scomparso: ci si limita pertanto a porre una serie di indizi documentali accanto agli altri elementi e spunti di riflessione derivati dallo studio del sistema arabo di gestione delle acque, come tessere di un mosaico, che non si pretende qui di ricostruire nel suo insieme, ma del quale si spera almeno di aver portato in luce qualche particolare, anche solo un frammento d’immagine o un profilo nascosto. L’ipotesi che nei pressi della Cuba sia da ricercare il grande paese descritto da Idrisi, ripreso da Fazello ed altri, è supportata anche dall’esame e dal posizionamento di manufatti simili alla Cuba ed aventi la stessa funzione idrica: la Cuba araba di Vicari, la Piccola Cuba di Palermo, la Fontana araba di Alcamo. La Cuba araba di Vicari è costituita da una copertura a cupola e da quattro aperture a forma di archi, i quali sono precisamente rivolti ai quattro punti cardinali. La Cuba araba di Vicari ha in sé degli elementi tipici similari alle costruzioni arabe disseminate in Sicilia, come per esempio la Cubula di Palermo detta anche piccola Cuba; entrambe le costruzioni sono formate da quattro archi ogivali con bugne a cuscino rivolte verso i quattro punti cardinali. La Piccola Cuba di Palermo è un piccolo padiglione cupolato, realizzato nel 1184 e si trova dove un tempo scorrevano le acque che alimentavano il lago 76 La Cuba Araba di Vicari Alberira, all’interno dell’immenso giardino del Parco del Genoardo (dall’arabo Gennai al ard, ovvero: Paradiso della Terra) voluto dal re Guglielmo II di Sicilia. Altra architettura cui accostare la Cuba delle Rose è la Fontana araba di Alcamo, costruita nel casale Alqamah. La Fontana araba di Alcamo come la Cuba delle Rose è dotata di abbeveratoio, necessario per le attività di pastorizia. Le costruzioni sopra esaminate hanno in comune il loro uso di cisterna idrica ed il loro essere parte di un impianto più complesso, il sistema arabo di gestione delle acque, che tramite tali manufatti è arrivato ai nostri giorni. Tale sistema nasce in tempi remoti in zone aride e desertiche, le cui popolazioni svilupparono una vera e propria cultura dell’acqua che si diffuse in altre parti del mondo nel corso della dominazione araba. E così che in Sicilia, oltre che nel campo artistico e architettonico, la civiltà araba ha lasciato tracce evidenti della propria presenza nelle meno studiate e conosciute opere idrauliche. Lungo i principali corsi d’acqua furono impiantati numerosi mulini con tipologia costruttiva e tecnologia di funzionamento di marcate origini arabe. Dai fiumi e dai pozzi poco 77 Piccola Cuba a Palermo 78 La Fontana araba di Alcamo profondi l’acqua veniva sollevata con le norie a tazze per essere accumulata in cisterne di adeguata capacità e distribuita ai campi attraverso piccoli canali in muratura o in terra. L’acqua della falda freatica più profonda veniva intercettata e convogliata, spesso a distanze notevoli dal punto di rinvenimento, tramite lunghi cunicoli sotterranei in leggera pendenza e con pozzetti di aerazione seriali, i qanat. Il territorio siciliano è stato interessato nel corso dei secoli da profondi cambiamenti che hanno avuto una più profonda incidenza negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. I corsi d’acqua naturali sono stati incanalati, imbrigliati, cementifìcati. Pari sorte è toccata alle sorgenti, mentre gli antichi mulini, privati della forza motrice costituita dal flusso dell’acqua negli alvei, sono stati abbandonati e destinati al crollo. Ciò nonostante si conservano ancora manufatti come la Cuba delle Rose, parte di un patrimonio architettonico, archeologico e paesaggistico sia naturale che antropico in massima parte ancora da scoprire e interpretare, comprendente un arco temporale così vasto che si estende dalla protostoria sino all’attuale epoca moderna. Il viaggiatore e geografo iracheno Ibn Hawqal, che visita Palermo nel 973, scrive: «[...] L’irrigazione de’ giardini si fa più comunemente per mezzo di canali; chè molti giardini va, oltre 79 i campi non irrigui, si come in Siria e in altri paesi ». Questa fonte risulta di grande interesse poiché rivela i parallelismi esistenti tra il sistema di canali idrici siciliani e quelli siriani. Circa 3.000 anni fa i Persiani hanno imparato a scavare acquedotti sotterranei per portare l’acqua dalla montagna alla pianura. Il sistema è denominato qanat (da una parola semitica che significa “scavare”). Il qanat è un sistema di convogliamento per garantire un rifornimento affidabile di acqua agli insediamenti umani o ai terreni coltivati. Questa tecnica attinge acqua sotterranea, trasportandola senza necessità di pompaggio. Si tratta di un sistema di emungimento degli strati permeabili, intrisi cioè di “acque libere” sotterranee (falda freatica), provenienti dalle normali precipitazioni o dalle condensazioni di superficie (precipitazioni occulte), aspetto questo di primaria importanza nelle regioni semi-aride e desertiche. Non si tratta semplicemente di un acquedotto, ma di un sistema dinamico in grado di drenare in modo sostenibile la falda freatica, concepito in relazione ad insediamenti stabili impegnati anche in attività agricole. I lunghi cunicoli sotterranei sono realizzati con pendenze minime e vengono arieggiati da pozzetti seriali. Queste semplici condizioni garantiscono il costante moto del liquido senza turbolenze, il trasporto anche di minime portate a notevoli distanze dal punto di rinvenimento, senza perdite per evaporazione e il mantenimento della purezza e della temperatura dell’acqua possedute alla fonte. Altro elemento del sistema è la necessità di dovere accumulare l’acqua in cisterne di adeguata capacità (come la Cuba delle Rose). Infatti, nel caso dei qanat, è indispensabile accumulare in cisterne una quantità di liquido adeguato alla superficie e alle esigenze idriche della coltura o dell’abitato. Le prime iscrizioni documentarie sui qanat risalgono al re assiro Sargon II che nel VII secolo a.C., durante una campagna in Persia, descrive il rinvenimento di canali sotterranei per l’acqua nei pressi del lago di Urmia. Suo figlio, il re Sennacherib, utilizzò dei condotti sotterranei per la costruzione di un sistema di irrigazione intorno a Ninive e costruì un qanat per la fornitura di acqua per la città di Arbela. Iscrizioni egiziane rivelano che i Persiani costruirono un qanat per portare all’oasi di Karg l’acqua da una falda sotterranea del fiume Nilo distante circa 100 miglia. Resti del qanat sono ancora in funzione. I riferimenti ai qanat persiani, conosciuti con vari nomi, sono comuni nella letteratura di epoca antica e medievale. Nel deserto del Sahara, nel contesto geografico del wadi Saoura le gallerie sotterranee vengono chiamate foggara, in Marocco khottara e in Andalusia 80 madjirat; nella penisola arabica canali di adduzione con tratti superficiali che si alternano a tratti interrati prendono il nome di falaj. Lo storico greco Polibio, nel II secolo a.C., racconta di pozzi e canali sotterranei scavati nel deserto dell’Asia Minore in tali quantità che «al giorno d’oggi chi usa tali acque non sa donde sgorghino e siano state condotte». Qanat sono stati trovati in tutte le regioni collegate alla sfera culturale dell’antica Persia: Pakistan, Turkestan, aree meridionali dell’Urss, Iraq, Siria, Arabia e Yemen. Durante la dominazione araba il sistema si diffuse verso il Nord Africa, la Spagna e la Sicilia. Nella regione del Sahara le oasi sono irrigate con il metodo qanat, e alcuni dei popoli ancora chiamano le condotte sotterranee “opere persiane”. L’Africa settentrionale conserva oggi un gran numero di foggaras, principalmente nelle aree sahariane algerine di Gourara, Touat, Tidikelt e Ahaggar; è stato calcolato che in queste regioni le gallerie drenanti raggiungono uno sviluppo complessivo tra i 3.000 e i 6.000 km. I qanat presenti in Iran sono stati costruiti su una scala che rivaleggia con i grandi acquedotti dell’impero romano. Mentre gli acquedotti romani oggi sono solo monumenti storici, il sistema iraniano è ancora in uso dopo 3.000 anni. Circa 170.000 km di qanat sono ancora presenti in Iran ed il sistema fornisce il 75 per cento di tutta l’acqua utilizzata in quel paese sia per l’irrigazione sia per il consumo domestico. Fino a poco tempo fa (prima della costruzione della diga di Karaj) il milione di abitanti della città di Teheran dipendeva da un sistema di qanat per l’approvvigionamento idrico. Grazie a descrizioni dettagliate di diversi autori si ha una buona idea delle tecniche utilizzate dai costruttori originali di qanat. Vitruvio, il primo storico sistematico della tecnologia, riporta un resoconto del sistema di qanat nel dettaglio tecnico nella sua opera storica "De Architectura" (circa 80 a.C.). Nel IX secolo d.C, su richiesta di un governatore provinciale persiano, Abdullah ibn-Tahir, un gruppo di scrittori compilò un trattato sull’argomento intitolato "Kitab-e Quniy". Intorno all’anno 1000 Hasan al-Hasib, un’autorità araba nel campo ingegneristico, in un suo lavoro ha fornito dettagli della costruzione e della manutenzione degli antichi qanat. Nel 1979 H. Goblot ha dedicato una monografia allo studio delle gallerie drenanti dal titolo “Les qanats: une technique d’acquisition de l’eau”. Da allora le conoscenze sui qanats/foggaras sono di gran lunga progredite. I qanat di tipo persiano, dal pozzo principale di rinvenimento della falda, trasportano l’acqua fino al punto di utilizzazione, coprendo distanze talvolta lunghissime. A seconda della profondità della falda e la pendenza del terreno, i qanat variano notevolmente in lunghezza, comunemente compresa tra sei e dieci miglia. 81 Il modello arabo di gestione delle acque sia per uso agricolo sia per uso domestico si basa su un insieme di manufatti dal nome caratteristico: i qanat per la captazione delle falde acquifere e il trasporto sotterraneo delle acque, le prise e i cunnuttì dei mulini per la captazione delle acque superficiali fluviali e il trasporto in superficie, le senie o norie per il sollevamento delle acque sotterranee, le ggebbie per l’accumulo, i ggibbiuna e i risittaculi per la suddivisione in quote, le saie e i catusi per il trasporto superficiale, i cunnutti, le casedde e i vattali per la distribuzione alle colture. Operando un parallelismo con i sistemi persiani ed arabi, è verosimile ipotizzare che le acque giungano alla Cuba delle Rose tramite qanat da Serra Conzarri, in quanto durante i lavori di restauro sono state rinvenute tracce di tali canali. Nel Piano di tutela delle acque in Sicilia è riportato che il corpo idrico sotterraneo Monte Bonifato ha con tutta probabilità una prosecuzione nel sottosuolo verso nord est, in località Serra Conzarri-Calatubo, dove affiora una scaglia tettonica costituita da piccole placche di calcilutiti e calciruditi eoceniche cui fanno seguito le coperture terrigene mioceniche. A Calatubo il sistema dei cunicoli sotterranei da monte giungeva a valle e lungo il percorso vi erano verosimilmente dei pozzetti verticali equidistanti per permettere il prelevamento dell’acqua. 82 In prossimità del punto di utilizzo, il cunicolo affiorava dal sottosuolo con pendenza raccordata, fornendo un deflusso costante e andando ad alimentare la Cuba delle Rose. Ancora oggi la Cuba è il punto di accumulo dell’acqua ed è perfettamente funzionante. In essa è convogliato un flusso idrico continuo e regolare, se pur molto limitato. è sorprendente che questa splendida opera, di elevato livello ingegneristico e realizzata da maestranze altamente specializzate, nonostante il manufatto in rovina, fosse ancora funzionante dal punto di vista idraulico. La conservazione e la funzionalità di questo tipo di opere, concepite e realizzate durante la dominazione araba in Sicilia, ne testimoniano l’ottima qualità sia sotto l’aspetto progettuale che sotto quello costruttivo. Risulta inoltre evidente e di grandissima portata come questi sistemi di approvvigionamento idrico si inserivano nei contesti paesaggistici ed ambientali con armonia e senza causare pesanti turbamenti o danni all’equilibrio delle falde acquifere naturali. L’idea finale del restauro è quella che Cuba sia un ricordo del modello arabo di gestione delle acque, di un sistema concepito in quelle zone geografiche dove l’acqua è preziosa. Il riferimento è alle oasi, a quelle porzioni di sterile deserto che l’uomo, grazie a ingegnose e straordinarie opere per la raccolta e l’utilizzo delle rare e limitate risorse idriche disponibili, rende fertili e abitabili. Il restauro della Cuba, l’individuazione, la ricostruzione e l’interpretazione dei sistemi arabi di gestione delle acque, permettono a questo modello di essere correttamente inserito tra gli elementi che costituiscono il patrimonio storico, etnoantropologico, architettonico e paesaggistico del nostro territorio. La Cuba delle Rose così come i qanat, le ggebbie, le saie, gli ggibbiuna, i cunnutti, i vattali non sono gli elementi ingombranti di obsoleti e disarticolati sistemi idrici, costituiscono al contrario un patrimonio unico che deve essere attentamente censito e salvaguardato, ricollegando tra loro tutti gli elementi del sistema sia questa una fonte di approvvigionamento, un qanat o una cisterna di accumulo. Si tratta di un complesso di architetture idrauliche e di un patrimonio storico e culturale di immenso valore che deve essere assolutamente recuperato. L’avere restaurato la Cuba è anche aver recuperato un sapere antico stratificato ed accumulato e spesso dimenticato, se pur tramandato negli interstizi della società. 83 Bibliografia 1. Lombardo V., Il Castello di Calatubo, Tesi di Laurea Relatore Prof. Ing. Giovanni Palazzo Correlatore Dott. Arch. Rosa Di Liberto, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Ingegneria, Corso di Laurea in Ingegneria Edile. 2. http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/bibliotecacentrale/ 3. Di Liberto R., Il castello di Calatubo. Genesi e caratteri di un inedito impianto fortificato siciliano fra l'XI ed il XII secolo, In: Mélanges de l'Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes T. 110, N°2. 1998. pp. 607-663; www.persee.fr/web/revues/.../mefr_1123-9883_1998_num_110_2_3650 4. Filippi A., Antichi insediamenti nel territorio di Alcamo, Alcamo, 1996. 5. http://www.castellammareonline.com/aramis/siti/calatubo.html 6. Maurici F., La terminologia delle fortificazioni nella Sicilia normanna e sveva, a stampa con il titolo "Il vocabolario delle fortificazioni e dell’insediamento nella Sicilia ‘aperta’ dei normanni: diversità e ambiguità", in “Castra ipsa possunt et debent reparari”. Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve (Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997), I, Roma, De Luca, 1998, pp. 25-39 – Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”, il cui sito è http://retimedievali.it 7. Itinerari culturali del medioevo siciliano, I Castelli Feudali, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Istituto Centrale per il catalogo e la documentazione, 2005. 8. Fazello T., Le due deche dell'historia di Sicilia, del R.P.M. Tomaso Fazello, siciliano, dell'Ordine de' Predi catori, diuise in venti libri. Tradotte dal latino in lingua toscana dal P.M. Remigio fiorentino, del medesmo Ordine. ... Con tre tauole. La prima de gli autori citati nell'Historia: la seconda de' capitoli: e la terza, delle cose piu notabili contenute in quella. Venetia, 1574. http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/fazello/le_due_deche_dell_historia_di_sicilia/pdf/fazello_le_ due_deche_dell_historia_di_sicilia.pdf 9. Amico V. Dizionario topografico della Sicilia 1859. http://books.google.it/books?id=4dYJ2bylaZgC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r &cad=0#v=onepage&q=calatubo&f=false 10. Massimo Pizzuto Antinoro, Gli Arabi in Sicilia e il modello irriguo della Conca d'Oro, Regione Siciliana - Assessorato Agricoltura e Foreste - IX Servizio Regionale, Assistenza Tecnica, Sperimentazione, Ricerca Applicata e Divulgazione, Palermo 2002. 11. De Angeli S., Finocchi S., Sviluppi romani in Algeria e Tunisia del sistema idrico delle foggaras, Università della Tuscia, Viterbo, (pubblicato in L’Africa romana. Le ricchezze dell’Africa. Risorse, produzioni, scambi. Atti del XVII convegno di studio. Sevilla, 14-17 dicembre 2006, a cura di J. González, P. Ruggeri, C. Vismara, R. Zucca, Roma, Carocci editore, 2008, III, pp. 2179-2196). http://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/Africa_Romana/De-Angeli-Finocchi-Foggaras-sviluppi-romani- Algeria-Tunisia.htm 12. De Angeli S., Finocchi S., Origine e diffusione dei canali idrici drenanti (qanat/foggara) in Africa settentrionale in età antica. http://www.academia.edu/1635351/Origine_e_diffusione_dei_canali_idrici_drenanti_qanat_foggara_in_ Africa_settentrionale_in_et%C3%A0_antica 84 Capitolo 5 di Luigi Salvatore Culmone Ingegnere Civile Idraulico ASPETTI IDROLOGICI ED IDROGRAFICI DELL'AREA PARTINICESE 1. Inquadramento idraulico Una delle grandi e geniali invenzioni dell’uomo è stata quella di sfruttare l’energia idraulica, e in particolare di utilizzare l’energia della corrente idrica che scorre nell’alveo di un corso d’acqua per mettere in movimento un rotore palettato ad asse orizzontale o verticale. Un sistema di trasmissione con ruote dentate permetteva di regolare il numero di giri dell’utilizzatore (macina), in sostanza di gestire la potenza meccanica ottenuta dalla potenza idraulica. Ma occorreva derivare l’acqua dal torrente o dal fiume per indirizzarla verso la macchina idraulica; allora si costruirono le prime opere di derivazione, modeste opere trasversali che derivavano l’acqua verso la saia la cui sezione trasversale è rettangolare e a pendenza longitudinale costante fino allo garraffu e uscendo da un ugello detto cannedda colpiva le pale con un flusso controllato da un regolatore detto tiraturi incaricato di deviare il getto della cannedda. Quello che stupisce è che i sistemi moderni delle centrali idroelettriche sono fisicamente analoghi ai vecchi sistemi di utilizzo dell’energia idraulica dei mulini ad acqua; naturalmente cambia il rendimento meccanico ed idraulico per ovvi motivi tecnologici. Le macchine idrauliche sono installate sempre nei luoghi in prossimità di un corso d’acqua dove è facile non solo derivare l’acqua, ma averla a disposizione per un certo numero di mesi nell’anno. I mulini dell’area di Partinico ricadono all’interno del bacino idrografico del torrente Nocella e del bacino idrografico del fiume Jato, con caratteristiche climatiche, idrografiche e geomorfologiche ideali per sfruttare le risorse idriche superficiali, anche se il regime climatico è di tipo mediterraneo e quello pluviale è di tipo torrentizio con periodi di siccità tra maggio e settembre. 85 Grafico 1 Grafico 2 86 Dalla carta (grafico 1) delle isoiete (curve inviluppo dei punti di uguale piovosità) delle precipitazioni medie dal 1921 al 2003, si osserva che l’area è interessata da una piovosità di circa 750 mm di pioggia media annua, valori fra i più alti della Sicilia occidentale; è da desumere che questa piovosità interessasse il territorio anche nei periodi passati relativi al funzionamento dei mulini. Il grafico 2 mette a confronto le piogge medie del periodo 1921-2005 con le piogge del 2009. Il 2009 è stato un periodo da considerarsi più piovoso rispetto al periodo 19212005. Inquadramento idrografico dei mulini I mulini dell’area di Partinico ricadono all’interno del bacino idrografico del Nocella e del bacino idrografico dello Jato, con caratteristiche climatiche, idrografiche e geomorfologiche ideali per sfruttare le risorse idriche superficiali, anche se il regime climatico è di tipo mediterraneo e quello pluviometrico di tipo torrentizio con periodi di siccità tra maggio e settembre. All’interno del bacino del Nocella si trovano la maggior parte dei mulini distribuiti sulla la rete idrografica del fiume, come si evidenzia dalla carta IGM 1:25.000 allegata. Si riporta di seguito una descrizione sintetica dell’idrografia del bacino. Il bacino del fiume Nocella si estende dal mar Tirreno (foce Cala dei Muletti) fino a monte Gradara (quota 1194 m s.l.m.) con una rete idrografica molto ramificata che lambisce l’abitato di Borgetto; l’estensione del bacino è di circa 98 km2. Il fiume Nocella nasce alle pendici orientali di Punta della Vecchia ad una quota di circa 1.000 m s.l.m. in territorio comunale di Monreale e nel suo tratto iniziale prende il nome di Lavinaio Calosello; la lunghezza dell’asta principale è di circa 18 km. Nei pressi del ponte di Sagana, continua il suo percorso, cambiando leggermente direzione, con il nome di Canale De Simone, scorrendo inizialmente entro una valle stretta e incassata tra la dorsale Pizzo d’Aci – Montagna Lunga di Sagana, che ne costituisce il versante destro, e Cozzo Cicero – Cozzo del Tauro, che ne rappresentano il versante sinistro. Gli affluenti principali del fiume Nocella in destra idraulica (destra dell’alveo procedendo 87 da monte verso valle) sono Vallone dei Cippi – Vallone Malpasso – Vallone Margi, Vallone Margiu e Vallone Donnasture – Vallone Paterna, proseguendo da est verso ovest, dallo spartiacque alla foce. In sinistra idraulica, l’unico affluente di rilievo è il Fosso Sardo – Fosso Raccuglia, che attraversa un territorio caratterizzato da una morfologia prevalentemente pianeggiante. Procedendo da monte verso valle si incontrano il mulino Nocella, a quota 200 m s.l.m., e il mulino di Borgetto, a quota 232 m s.l.m., distanti circa 600 m, e alimentati, con opere di derivazione, dalle acque del Canale De Simone, affluente sinistro del Nocella. Il mulino Nocella si individua proprio sul ponte della strada provinciale che collega Partinico con Montelepre. Più a valle, dopo la confluenza con il Vallone Margi, il corso d’acqua prende il nome di fiume Nocella, siamo a quota circa 170 m s.l.m.; a circa 1 km si individua il Mulino Vecchio in contrada Terranova (probabilmente un mulino di cartiera) a quota circa 150 m s.l.m. Seguendo il corso d’acqua, a quota circa 115 m s.l.m. si incontra il mulino Cuti, mentre in prossimità della SS 113, alla sinistra del corso d’acqua è ubicato il Mulineddu a quota 25 m s.l.m. Il mulino S. Cataldo è proprio alla foce del Nocella a quota circa 10 m s.l.m. in prossimità della torre S. Cataldo. L’area territoriale tra il bacino del fiume Nocella e il bacino del fiume Jato è solcata da tre corsi d’acqua: Fosso Carrozza, Vallone Corso e Vallone Giambruno in sinistra rispetto al fiume Nocella. A monte in prossimità del Fosso S. Caterina si incontra il mulino Mirto Sardo a quota 300 m s.l.m. circa, e a valle, a distanza di circa 750 m è ubicato il mulino Mirto a quota circa 230 m s.l.m. Il Fosso S. Caterina, dopo la confluenza con il Fosso Girgentano, a valle prende il nome di torrente Carrozza, e in prossimità del ponte della SS 187 in sinistra idraulica si trova il mulino Cerasella, a quota 50 m circa s.l.m. Ma quanta acqua avevano a disposizione i mulini? 88 Prendiamo come esempio il mulino Mirto Sardo. Le condizioni termo-pluviometriche dell’area possono essere dedotte dagli annali del Servizio Idrografico della Regione Sicilia. Possiamo fare riferimento ai dati medi dal 1965 al 1994 come riportato nella tabella 1 e nella tabella 2, dati registrati nelle due stazioni termo-pluviometriche ricadenti all’interno del bacino del fiume Jato. Tabella 1 - Piovosità media mensile in mm, per il periodo di osservazione 1965-1994 Tabella 2 - Temperatura media mensile in gradi Celsius, per il periodo di osservazione 1965-1994 La sezione dell’alveo in prossimità del mulino Mirto Sardo sottende un bacino idrografico di circa 16 km2; la piovosità media annua nel periodo 1963-1994 è di 674 mm. La portata media annua di pioggia si stima in circa 0,270 mc/s, mentre al netto delle perdite per evapotraspirazione e per infiltrazione nel suolo, quindi con un coefficiente di deflusso di 0,15 (valore medio annuo), la portata utilizzabile si stima in circa 0,04 mc/s cioè 40 l/s, con un contributo unitario di deflusso superficiale per km2 di circa 0,0025 mc/s x km2 , valore medio annuo stimato per un periodo di 29 anni; è un valore indicativo che comunque dà un ordine di grandezza della portata utilizzabile da ciascun mulino. Estrapolando il valore della portata al secolo scorso e ai secoli passati è possibile comprendere la scelta della posizione dei mulini nella rete idrografica dell’area. Il mulino S. Cataldo e il mulino Cuti avevano a disposizione portate importanti dell’ordine di 0,25 mc/s (250 l/s), derivando una portata sufficiente a mettere in movimento la macchina. 89 I tre mulini della via dei Mulini a Partinico In riferimento ai tre mulini sulla via dei Mulini di Partinico che utilizzavano l’acqua della Sorgente della Cuba, certamente copiosa e sufficiente a fornire energia idraulica alle macchine, è opportuno dare un cenno sull’idrologia dell’area. L’idrogeologia della zona è definita da litotipi caratterizzati da una diversa permeabilità, quindi la dinamica idrica sotterranea risulta strettamente influenzata dalla sovrapposizione di strati a diversa permeabilità: si possono distinguere un acquifero carbonatico, uno calcarenitico-sabbioso ed uno argilloso-marnoso. Nella parte di monte dell’area l’acquifero carbonatico, impostato su terreni ad elevata permeabilità per fessurazione e/o carsismo, è caratterizzato da circolazione idrica elevata per la fitta rete di fratture e faglie; verso valle invece si trova un acquifero calcarenitico-sabbioso su terreni a permeabilità medio-alta per porosità, a luoghi associati a permeabilità per fessurazione in corrispondenza dei livelli più cementati. Il grado di permeabilità è variabile in funzione del grado di cementazione e della presenza o meno di livelli argilloso-sabbiosi. La circolazione idrica sotterranea che si svolge nell’acquifero calcarenitico dipende dalla configurazione morfologica irregolare del complesso argilloso di base, dalla presenza di incisioni fluviali e antichi alvei abbandonati, dalla presenza del mare a breve distanza, e dalla presenza di differenti litofacies all’interno dell’acquifero calcarenitico che creano differenti permeabilità. Verso valle, l’acquifero argilloso-marnoso è impostato su terreni a permeabilità molto bassa o nulla che costituiscono la soglia di permeabilità per l’acquifero carbonatico e il substrato impermeabile della falda impostata nell’acquifero calcarenitico-sabbioso. Si deve proprio alle caratteristiche del sottosuolo la presenza della sorgente della Cuba e quindi dei tre mulini. Nell’area del bacino dello Jato ricadono il mulino San Giuseppe (posizione non individuata) e il mulino di Tauro (Fosso affluente dello Jato), come è possibile vedere dalla cartografia IGM 1:25.000 di Partinico e Balestrate. L’importanza del fiume Jato è nota per la presenza della diga Poma utilizzata per scopi irrigui e potabili della città di Palermo. 90 Il bacino del fiume Jato, rispetto alla foce, ha una superficie di circa 192 km2; l’asta principale del corso d’acqua si sviluppa complessivamente per circa 44 km nella direzione sud-nord e ha origine a quota 900 m s.l.m.; la pendenza media dell’asta principale è del 2%. Esso si estende dalla periferia dell’abitato di Camporeale (quota 400 m) a ovest, verso sud passando dal monte La Pizzuta (quota 1333 m), e monte Signora a sud – est (quota 1121 m). La rete idrografica è molto ramificata e ha origine nel territorio di Camporeale, San Giuseppe Jato e San Cipirello. A quota 200 m s.l.m. in prossimità del ponte della S.S. 113 troviamo il mulino di Valguarnera, proprio su un’ansa del fiume, e a valle le ricerche storiche inducono ad asserire che in prossimità del santuario della Madonna del Ponte fosse presente un mulino. Nella carta IGM 1:25.000 di Balestrate è indicata la probabile area di sedime. Area territoriale compresa tra il bacino del fiume Jato ed il bacino del fiume San Bartolomeo Ad ovest del bacino del fiume Jato sono presenti dei corsi d’acqua come il torrente Canalotto, il Vallone del Lupo, il torrente Finocchio o Calatubo, il Vallone Sicciarotta, il Vallone Foggitella e il Vallone Settepani. Riveste particolare importanza il bacino del fiume Finocchio; all’interno del bacino si inerpica il castello di Calatubo a quota 151 m s.l.m. da dove è possibile scrutare tutto il golfo di Castellammare. A circa 700 m verso valle, sotto Serra Conza, si trova la sorgente della Cuba con una superba opera di captazione e un abbeveratoio di origine araba. Bibliografia Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrologico (PAI) dell’Area Territoriale tra Punta Raisi e il Bacino Nocella – Regione Sicilia – ARTA – Anno 2006. Consulenza idrologica finalizzata allo studio delle aree a rischio idraulico del Fiume Jato e del Torrente Lupo per i rispettivi tratti ricadenti nel territorio di Balestrate (PA) – G.U.R.S. n. 49 del 25.10.2002. Autori vari. 91 Capitolo 6 di Benedetto Zenone Storico fiumi, torrenti e cannamela a trappeto L’acqua è vita, senza acqua si muore. Da sempre gli uomini sono stati consapevoli di questa grande verità e tante civiltà devono la loro fortuna e il loro sviluppo all’acqua. Anche Trappeto deve la sua nascita e il suo sviluppo a questo elemento. I corsi d'acqua che attraversano il territorio di Trappeto sono tre: il Nocella, il Pinto e il Corso. Il Nocella è quello più importante e conosciuto; nasce dalla cima di Cuti, vicina al monte Platti, ed attraverso il passo di Scifo, si getta nella vallata soprannominata della Valanga, dopo la strada che collega Partinico a Montelepre, ove riceve le acque di Sagana; dopo il ponte di ferro della ferrovia Palermo – Trapani riceve dalla sua sinistra, oltre alle acque del torrente Sardo – Platti, anche le acque reflue di Partinico, prima di andarsi a congiungere con il Nocella con il nome di Pollastra. Il Nocella dopo circa 2 km va a sboccare nel mare di San Cataldo, accanto al fondaco, al vecchio stazzone, alla torre omonima ed alla chiesetta di San Cataldo appena restaurata. Altro torrente è il Pinto o Carrozza che dopo essere nato dai monti Cesarò, Abbadessa, Marzuco e Fiera, attraversa i fondi di Mirto e Valledolmo, passando vicino l'antico borgo medioevale di Santa Caterina. Lo stesso torrente, dopo aver attraversato la via della Madonna del Ponte, è conosciuto come Fosso della Gallinella, mentre nei pressi delle contrade Sirignano e San Giuseppe prende il nome di Rio Carrozza o Pinto. L'ultimo torrente è il Corso, che raccoglie prima le acque delle contrade Margi Soprani e Sottani e poi, attraversando la contrada Corso, le acque di altre piccole sorgenti. Il Corso divide le contrade Piano Inferno e Giambruno e va a sboccare nella contrada Ciammarita, a circa 1 km da Trappeto. Piace ricordare che Trappeto aveva la più grande macina per la lavorazione della cannamela del territorio. La famiglia Bologna – proprietaria della macina – per poter fare funzionare il “trappeto”, aveva bisogno di molta acqua ed una delle sorgenti che poteva dare acqua a sufficienza fu individuata in quella di contrada Rakali di Partinico. Per il suo sfruttamento fu realizzato un terrapieno e grazie ad una condotta d'acqua (in funzione sino agli anni '70) che attraversava i feudi di Valguarnera, Margi, Corso, Giambruno, si riuscì non solo a portare l’acqua sino alla macina, ma anche ad irrigare anche alcuni terreni attorno a Trappeto. Attualmente alcuni tratti del percorso della condotta sono ancora visibili e se ne può seguire il corso sino alla c/da Puma, vicino al vecchio cimitero di Trappeto. A sinistra: Noria di c/da Bagliuso-Pizzotti (Terrasini) 93 indice Prefazione di Pietro Puccio5 Prefazione di Andrea Ferrarella introduzione di Girolamo Culmone 7 9 i mulini ad acqua nel settore orientale del golfo di castellammare di Gianluca Savarino13 i mulini ad acqua nel territorio di partinico di Tommaso Aiello41 I MULINI AD ACQUA DEL KAGGERA NEL TERRITORIO DI ALCAMO di Rosanna Fasulo 55 la cuba delle rose: l’abitato scomparso di calatubo e il modello arabo di gestione delle acque di Enza Anna Parrino59 ASPETTI IDROLOGICI ED IDROGRAFICI DELL'AREA PARTINICESE di Luigi Salvatore Culmone 85 FIUMI, TORRENTI E CANNAMELA A TRAPPETO di Benedetto Zenone 93 Stampato nel mese di aprile 2015 presso ArtiGrafiche Abbate Cinisi (Palermo)