universita` della terza eta` e del tempo disponibile laboratorio di

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UNIVERSITA’ DELLA TERZA ETA’ E DEL TEMPO
DISPONIBILE
San Martino Buon Albergo (Verona)
a.a. 2014-2015
LABORATORIO DI SCRITTURA
Docente: Cecilia Chiumenti
INTRODUZIONE
Il laboratorio di scrittura quest’anno si è dedicato all’esplorazione del
racconto, attraverso la lettura e l’analisi di alcuni testi italiani e stranieri. In
parallelo a questo lavoro si è svolta un’attività di scrittura a partire da stimoli
diversi.
I corsisti hanno lavorato sul punto di vista, sulla caratterizzazione dei
personaggi, sulle modalità di costruzione dei dialoghi.
La finalità era comunque la costruzione di un racconto breve; alla fine del
corso sono stati realizzati questi sei racconti brevi:
 SCHERZI DEL DESTINO di Daniela Triscornia
 ADELE di Patrizia Bologna
 L’ATTESA di Luigi Benini
 I RICEVIMENTO DI LADY INNES di Liliana Chesini
 LA LETTERA di Rosanna Avesani
 ANGELINA di Giancarlo Emmanueli
Nota: cliccando sui titoli, si va direttamente all’inizio del racconto. Al termine
del racconto clicca su ritorna per tornare all’introduzione.
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SCHERZI DEL DESTINO
di Daniela Triscornia
«Signorina, signorina mi sente? Le ho detto che il mio cane non fa nulla, a
nessuno, non deve avere paura. Si sente forse male? Ma dica qualche cosa, per
cortesia, mi fa preoccupare.»
Robin percepì che qualcuno le parlava, ma i suoni le giungevano ovattati, come
da lunga distanza. La infastidivano, non voleva essere distolta dalla sua
concentrazione. La faccenda era grave e doveva trovare il modo di risolverla. In
ogni modo, sia la voce pressante che il fresco umidore che sentiva sulla coscia
anche attraverso l’abito la riportarono piano piano alla realtà.
Si accorse così che un giovane, anzi un bel giovane, le stava parlando tenendo per
il collare un grosso cane scuro che però la spingeva dolcemente con il suo muso.
«Mi scusi, proprio non l’avevo sentita e non si preoccupi, sto bene e non ho paura
dei cani, anzi mi piacciono, e il suo è certamente sia bello che buono, ma mi
trovo in un grosso guaio e devo assolutamente trovare una soluzione, anche se
proprio non so come.» rispose Robin.
«Mi chiamo Tom Hart e se posso aiutarla lo farò molto volentieri.» si presentò
l’uomo.
Robin lo scrutò a lungo prima di rispondere guardandolo negli occhi, quasi a
cercare risposte a mute domande, e finalmente disse:
«La prego di non considerarmi male ma ho bisogno del denaro per acquistare il
biglietto del treno per ritornare a casa, le assicuro che sarà mia premura
renderglielo immediatamente al mio rientro.»
«Certamente, stia tranquilla, eccole cinquanta dollari, sono sufficienti? E su
questo cartoncino le scrivo il mio indirizzo. Mi ha fatto piacere aver potuto
esserle utile. Arrivederci signorina.» e con un piccolo richiamo al cane si avviò
per la sua strada.
Prima premura per Robin fu di prendere il treno per casa, e accomodatasi,
finalmente calma sul sedile, cercare di far ordine di quella strana e incredibile
giornata, nonché prepararsi ai rimbrotti di sua sorella in merito alla sua
goffaggine e distrazione che certamente non le sarebbero stati risparmiati.
Il giorno dopo scriveva al signor Hart.
Egregio Signor Hart
Innanzi tutto le accludo i cinquanta dollari che mi ha prestato.
Solo al rientro a casa mi sono resa conto di essermi comportata in maniera
assolutamente maleducata con lei. Ho preso i suoi soldi e non le ho dato, e lei
non me lo ha chiesto, nessuna spiegazione. Non le ho neanche detto il mio nome!
Voglia perdonarmi, la prego.
Per scusarmi le racconto brevemente quanto mi è accaduto. Mi sono recata a
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Stratford, come faccio ogni anno, per andare a teatro ad assistere ad un’opera di
Shakespeare. Terminata la rappresentazione, mi sono attardata per darmi una
rinfrescata prima di andare pranzo e, distrattamente, devo aver dimenticato da
qualche parte la mia borsetta, cosa della quale mi sono accorta solo arrivata al
ristorante. Inutili i miei tentativi per ritrovarla. Svanita chissà dove. Poi la
fortuna di aver incontrato lei, cavaliere senza cavallo ma con cane, che mi ha
veramente salvata. La ringrazio ancora di cuore e voglia considerarmi a sua
disposizione se mai dovesse avere bisogno di qualche cosa.
Robin Kline
Il mese successivo, dopo aver trascorso come al solito una giornata di lavoro
all’ospedale, ritornata a casa, trovava sua sorella Joanna ad accoglierla con un
sorrisino malizioso. In modo petulante Joanna le disse: «Ho scoperto, cara Robin,
che ci sono delle novità e tu ti guardi bene dall’informarmi. Certo io sono sempre
qui malata, spesso sola, che t’importa di confidarti con me.»
«Che stai dicendo Joanna, di quali novità vai blaterando?»
«Ma del fatto che ti sei fatta il fidanzato, ecco di cosa.» rispose mostrando
trionfante una lettera.
«Dammela subito, non c’è nessun fidanzato, non fare la bambina.» e presa la
busta si ritirò in camera per leggerla.
Gentilissima signorina Kline
Le rispondo per informarla che ho ricevuto la sua lettera con i soldi. Davvero
non c’era tutta questa fretta.
Sono rimasto impressionato dalle sfortunate circostanze accadutele ma altresì
contento per il caso che ci ha fatti incontrare e questo caso si chiama Penelope,
il mio cane, che forse presagendo lei avesse bisogno di aiuto mi ha trascinato
verso di lei.
Non
mi
giudichi impertinente - la scorsa volta come ha ricordato nulla le ho chiesto ma sono incuriosito di questo suo appuntamento annuale (ho capito bene?) con il
festival Shakespeariano che si tiene qui a Stratford. È così appassionata di
questo meraviglioso autore come lo sono io? Se è così, e se le fa piacere,
potremmo scambiarci le nostre impressioni, i nostri commenti su qualche opera
che particolarmente ci piace. Anch’io frequento il festival e probabilmente ci
siamo incontrati senza conoscerci. I casi strani della vita.
Ora la saluto e mi auguro di aver ancora contatti con lei.
Sinceramente
Tom Hart
Aveva provato uno strano miscuglio di sentimenti nel leggere quella lettera; un
po’ di apprensione per aver suscitato interesse in un perfetto sconosciuto, ma
anche compiacimento verso sé stessa sentendosi, un poco soltanto, una persona
interessante.
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Di getto gli aveva risposto augurandosi di poter proseguire la loro conoscenza.
Nulla aveva condiviso con la sorella, erano cose personali che non riguardavano
nessun altro oltre che lei.
Il tempo trascorreva solitamente monotono, casa, lavoro, sorella, casa, lavoro,
sorella, e in cuor suo desiderava quanto mai aveva pensato di desiderare:
condividere con altri – in realtà con Tom – il suo animo. Così sperava e attendeva
l’arrivo di un’altra lettera con l’ansia di un bambino che aspetta Babbo Natale.
Per non farsi trovare impreparata frequentò assiduamente la piccola biblioteca del
paese per rileggere alcune opere di Shakespeare e altresì approfondire e
documentarsi, affrontando anche testi critici che prima mai si sarebbe sognata di
aprire.
E dopo parecchio tempo arrivò finalmente un’altra lettera.
Gentilissima signorina Kline
molto presuntuosamente mi aspettavo un riscontro alla mia precedente lettera e
le confesso, sinceramente, di essere rimasto rattristato e un po’ colpito
nell’orgoglio da questa mancanza.
Non si preoccupi, non la contatterò più, se non lo desidera, non era e non è mia
intenzione essere importuno.
Ho raccolto tutto il mio coraggio per scriverle ancora sperando che un
inconveniente, lo smarrimento della sua lettera, l’indirizzo non ben indicato sulla
busta, lo scherzo di un ragazzetto terribile nel rubare la mia corrispondenza,
avesse impedito un contatto tra noi.
Come le dicevo ho dovuto chiamar a raccolta tutto il mio coraggio, solitamente
sono una persona schiva, mi faccio gli affari miei e pretendo altrettanto dagli
altri. Vivo tranquillamente, senza grilli per la testa, in compagnia dei miei libri –
sono rilegatore e antiquario – e del mio cane Penelope che tanto sa dare senza
alcunché chiedere se non il mio affetto.
Probabilmente la gente pensa che io sia una specie di misantropo, ma le assicuro
che non è così. Mi piacciono le persone, le trovo spesso interessanti, ma mi è
difficile aprirmi veramente con gli altri. Tutti hanno sempre troppa fretta sia nel
giudicare che nel trarre conclusioni, e questo mi irrita. Perché non si può andare
con calma, affrontare pochi argomenti per volta, lasciare il tempo al cervello e al
cuore di assorbire quanto ci viene detto, confidato, penso anche donato
attraverso una conversazione, durante un incontro a cena, nel corso di una
silenziosa passeggiata, nella condivisione di una cosa che dà piacere?
È strano, ma mi è venuto di pensare che il nostro incontro non sia stato casuale,
che il destino abbia voluto metterci lo zampino. Nulla conosco di lei ma lo
sguardo perso che ho visto quel giorno non l’ho dimenticato; (era forse
annunciatore di futuri incontri?) E che dire di Penelope? di solito non avvicina
nessuno ma con lei si è comportata come con una vecchia conoscenza; anche
questo per me significa qualcosa.
Le avevo già detto che anch’io, come lei, amo Shakespeare e così mi permetto di
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suggerirle, se crede, di progettare una scaletta di letture delle sue opere, da
leggere entrambi, per scambiarci successivamente opinioni e commenti. Tutto ciò
si può fare a distanza, tramite corrispondenza, ma mi piace pensare che nel
futuro ci si possa rivedere. Come prima lettura suggerirei: “Sogno di una notte
di mezza estate.” Lei che ne dice? Attenderò sicuramente un mese una sua
risposta, e se così non accadrà, le voglio assicurare che non la disturberò più.
Mi permetta di salutarla cordialmente.
Tom Hart
Provò una grande rabbia per il fatto che la sua lettera non fosse giunta a
destinazione. Era certa di aver scritto l’indirizzo correttamente. Davvero una
qualche sfortunata circostanza le aveva impedito di raggiungere Tom.
Beh, poco male si consolò, a tutto c’è rimedio. Avrebbe prontamente risposto per
scusarsi, però prima doveva rileggersi con calma la lettera, che così saggiamente
consigliava di attendere per apprezzare le confidenze degli altri, e voleva inoltre
rinfrescare anche la commedia del bardo per poter scriverne con cognizione.
Gentile signor Hart
Sono anch’io come lei stupita del fatto che non ha ricevuto la mia lettera che le
ho inviato qualche giorno dopo aver ricevuto la sua. Ha ragione, probabilmente
è accaduto qualche strano imprevisto.
Le confermo la mia passione per le opere di Shakespeare che amo sia leggere sia
vedere rappresentate, da li il mio appuntamento annuale con il festival di
Stratford.
Veramente quando sono a teatro mi sento completamente coinvolta dalla vicenda
che viene rappresentata, mi sento assolutamente libera di provare sentimenti,
sensazioni che nel buio della sala nessuno può percepire. In effetti mi sento sola
tra gli altri, e ciò non è negativo come si potrebbe pensare, anzi per me è
arricchente e io sono più vera.
Come può comprendere anch’io ritengo che questa nostra passione comune può
essere oggetto di scambio di opinioni, e accetto il suggerimento per “Sogno di
una notte di mezza estate”.
Se lo riterrà opportuno mi scriva le sue considerazioni che terrò nella più alta
considerazione.
Sinceramente
Robin Kline
Come era stata bene nello scrivere quella lettera, si era sentita timida ma anche
coraggiosa e aveva provato gioia nel cuore e nell’anima.
Ricordò come fra sé contava i giorni nell’attesa di una nuova lettera, si sentiva
spensierata come un’adolescente alla prima cotta importante. Solo che lei era
un’adulta, una preparata professionista di un delicato lavoro dove non c’era
spazio per il sentimentalismo ma solo per l’efficienza.
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Nei suoi momenti di introspezione si chiedeva che cosa poteva aver visto in lei
Tom - uomo che amava i cani e le persone, i libri e l’arte - in un fuggevole
incontro. Eppure si mostrava certo che loro due potessero coltivare una buona
amicizia, l’aveva scritto a chiare lettere, e si mostrava anche interessato ad un
futuro incontro.
Ogni tanto si imponeva di rimanere con i piedi per terra, sognare a senso unico è
deleterio. La sorella Joanna e i loro amici cominciarono a chiacchierare tra loro
dell’evidente mutamento di Robin. Era più allegra, più ciarliera, addirittura più
disponibile di quanto fosse stata in passato. Ventilavano che forse aveva una
relazione o, quantomeno, che fosse innamorata.
Ma Robin continuava a non raccontare nulla a nessuno. Periodo roseo, a momenti
entusiasmante. Sul finire della primavera, quando la corrispondenza aveva ormai
preso una cadenza regolare, ecco che tutto d’un tratto si interruppe.
Tom non scriveva più. Robin non sapeva che cosa pensare, tutto era parso filare
liscio, la conoscenza reciproca si era approfondita, dal formale lei si era passati
con disinvoltura ad un più famigliare tu, gli argomenti si erano moltiplicati, di
Shakespeare si parlava molto meno, in sostanza si poteva dire che era sorta una
bella amicizia.
Ma perché allora quell’improvviso silenzio, quello scomparire senza nessuna
apparente motivazione, senza nessuna spiegazione. Robin provò a scrivere due
volte senza nessun riscontro e giunse alla conclusione che Tom era in realtà
diverso da quello che si palesava nelle lettere, probabilmente era un incostante
anche se nulla lo aveva fatto presagire.
Oltre a essere ferita nell’animo lo era anche nell’orgoglio. Aveva sbagliato a
concedersi, seppur per iscritto, doveva dar retta al suo istinto che mai l’aveva
tradita nel passato, forse era meglio stare sola, al riparo da illusioni e delusioni.
Un giorno, era dal parrucchiere, e leggendo un vecchio giornale, nella cronaca
locale, venne a conoscenza che un negozio di antiquariato, in centro a Stratford,
era stato gravemente danneggiato da un incendio, la cui natura si supponeva
dolosa, e che anche l’abitazione del proprietario, sovrastante il negozio, aveva
subito notevoli danni. L’articolo non precisava il nome del proprietario ma Robin
era assolutamente certa che si trattava del negozio di Tom e questo spiegava,
almeno in parte, l’improvviso silenzio da parte sua.
Ragionò però sul fatto che se la loro fosse stata vera amicizia avrebbe dovuto
farsi vivo. Con chi, se non con un amico, cercare conforto quando si hanno dei
problemi? Ma che doveva fare, interessarsi per saper davvero come era andata, se
stava bene, se aveva bisogno di qualche cosa? In realtà aveva il suo indirizzo e
poteva raggiungerlo, visto che abitava sopra il negozio. Però la sua chiusura
faceva supporre che non volesse più avere contatti, che stava meglio solo, magari
a leccarsi le ferite. Però alle sue ferite non ci aveva certo pensato! Che
ingratitudine riesce a dimostrare il cuore umano. Che se ne stesse solo, veramente
solo, con il suo cane; per lei la faccenda era chiusa.
Dopo alcuni giorni ricevette, come di consueto, il programma per la stagione del
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festival Shakespeariano e fu inevitabile il riaprirsi della ferita.
Ci pensò parecchio di notte, girandosi e rigirandosi nel letto, se andare ancora a
Stratford con il rischio di rivedere Tom. Alla fine decise che era libera di fare
quello che voleva, lei si era sempre comportata bene, poteva andare a Stratford a
testa alta e se avesse incontrato Tom lo avrebbe salutato, educatamente ma
freddamente, che capisse bene quanto era stato meschino.
Decise freddamente che si sarebbe preparata con assoluta cura: capelli ben
pettinati dalla Charlie – la parrucchiera che non visitava spesso -, trucco leggero
ma sapiente e avrebbe indossato il bel vestito verde dell’anno prima, che le
sembrava un atto scaramantico a voler sfidare la sfortuna.
Ma, si sa, non tutte le ciambelle riescono con il buco. La maledetta tintoria del
paese non riusciva a prepararle per tempo l’abito a causa, diceva, della malattia
della stiratrice. E che diamine, stirasse una buona volta il titolare, lei aveva
assoluto bisogno di quel vestito! Se non l’avesse indossato, se lo sentiva, questa
volta veramente, la sfortuna l’avrebbe colpita e ne temeva con terrore le
conseguenze. Si comportava in modo isterico e irrazionale, lo sapeva, ma era più
forte di lei. Qualcuno dall’alto guardò in giù con un pizzico di simpatia, e …
miracolo, l’abito fu pronto.
Eccola al treno, fresca come una rosa, con il bell’abito che realmente le donava
molto e la faceva sembrare più giovane e leggiadra.
Eccola arrivata a Stratford, la stazione, il viale per il centro, la gente a passeggio
nel bel pomeriggio estivo. Non si guardava attorno, via diritta verso la meta, con
una camminata sicura, forse un po’ rigida.
Eccola a teatro, sola come al solito tra sconosciuti, forse un po’ più sola delle
altre volte, a godersi lo spettacolo.
Eccola all’uscita, la borsetta ben appesa alla sua spalla, e si guarda attorno
inconsciamente, a cercar qualcosa, forse qualcuno.
Eccola di nuovo sul grande viale per tornare a casa, senza neanche la sosta per
mangiare.
Davanti a lei, ad una certa distanza, un uomo cammina lentamente nella sua
stessa direzione, è un po’ ingobbito, la testa china verso terra, si appoggia a un
bastone bianco. Lo sta quasi per raggiungere e superare quando,
improvvisamente, sbuca accanto a lei un grosso cane nero che le avvicina il muso
alla gamba. Lo riconosce, è Penelope. Ma che cosa ci fa in giro sola? Tom non
si vede da nessuna parte. Che si sia persa? Non sa cosa fare, sembra che il cane
voglia stare con lei, non si allontana che di una passo dalla sua gamba, e lei sta
per arrivare in stazione. Senza pensarci si avvicina alla biglietteria e compra il
biglietto per il cane. Sale sul suo treno con Penelope, sta per ritornare a casa
finalmente non più sola, ma con un essere che sa dare sicuramente molto più di
quanto richiede.
Non vuole chiedersi perché ma sa che è un regalo di Tom, un regalo che giudica
un vero atto di amore verso di lei. Accarezza sul muso il cane nero e dice, in cuor
suo: grazie Tom.
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ADELE
di Patrizia Bologna
Nebbia, anche oggi nebbia, sempre nebbia nella Bassa Veronese. Adele aveva
sistemato casa e ora si dedicava con passione alla cucina. Aveva una famiglia
numerosa a cui badare: marito, figli, nuora e nipoti. Era una bella donna, invidiata
dalle vicine non solo per la sua bellezza ma soprattutto perché la ritenevano ricca
e fortunata.
Ricca? già, avere qualche campo di proprietà e dei lavoranti significava essere
ricchi negli anni sessanta.
Quando andava in paese per la spesa metteva il vestito bello, quello della festa;
calzava le scarpe lucide con le calze in seta.
Teneva ben pettinati i suoi capelli bianchi e metteva un filo di rossetto, mai uscita
di casa senza rossetto. Le donne che incontrava al negozio erano trascurate:
grembiule sporco sopra abiti informi e consunti, calze grossolane e ciabatte; non
si curavano ma trovavano tempo per criticare tutto e tutti. Io la ricordo bene
nonna Adele, era molto alta e aveva un portamento fiero.
Mi preparava sempre il biberon di latte che abbandonai a fatica all'età di sei anni.
Era sempre un porto sicuro per tutti, anzi forse non proprio per tutti, per mia
madre non lo fu. Mamma Adele la chiamavo, e lei non mi correggeva anzi era
compiaciuta. Io, troppo piccola, non mi rendevo conto della sofferenza di mia
madre che tornava a sera stanca dal lavoro dei campi e che chiamavo solamente
per nome.
Adele mi aveva insegnato a spazzolare bene i suoi capelli bianchi, leggeri, puliti,
tenuti corti e sempre in ordine. Dovevo spazzolare dal basso verso l'alto e poi
cotonare e sistemare ricciolo per ricciolo con la coda del pettine. "Oggi
giochiamo insieme" diceva, e preparava la mantella, pettine grande, spazzola e
pettine a coda. Lei teneva in mano uno specchio e cosi tutti i pomeriggi si
giocava a fare la parrucchiera.
Nonna Adele ha lasciato tanti ricordi a tutti noi, che nel 1966 l'abbiamo lasciata
per venire a Verona dove mio padre lavorava. È stata sicuramente una figura
importante, ma ha prevaricato su tutti; era decisamente autoritaria, lo era anche
quando lo mascherava dietro ad atteggiamenti affettuosi. Questa era mia nonna e
mi chiedo: io che nonna saprò essere? Come mi ricorderanno i miei nipoti?
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L'ATTESA
di Luigi Benini
Da qualche tempo la intriga una pagina di diario su facebook.
Fotografie particolarmente suggestive accompagnate da versi poliedrici
caratterizzano quei link. Curiosità che le suscitano fervide emozioni. L'immagine
di quel lui nella copertina appare evanescente contornato dallo sfondo di
un'abetaia riflessa in un laghetto. Come se quel Martino Cisala di Verona voglia
in qualche modo camuffarsi.
E poi Verona le è nel cuore in modo ambivalente: affascinata dall'Arena. Il
melodramma dell'Aida goduto da giovinetta, l'ha applaudito in compagnia dei
genitori. A questo è legato l'ultimo ricordo di suo padre. Il ritorno in quella notte.
Lei dorme quando l'auto sbanda sul guardrail e si capovolge. Suo padre esce di
vita all'istante. Lei, in ospedale, torna in sé dopo giorni. Da allora la sofferenza
per quella disgrazia è insinuata nel suo animo e sottilmente la accarezza e
custodisce. Percezioni stranamente insistenti la inducono a chiedergli l'amicizia.
“Ciao Martino, grazie per avermi fatto dono della tua amicizia. Perché non
dici niente di te? Par quasi che facebook non ti prenda più di tanto. Vado sempre
sul tuo diario: splendide le tue foto, mi piace leggerti. Paola.”
“Ciao Paola, grazie per la tua attenzione. Facebook è un mezzo che mi fa
volare nell'infinito. Che dirti di me: mi piace la buona lettura, il teatro, il cinema,
i concerti di musica classica; vivere nella natura, passeggiare in bici, in moto e
sognare un mondo più buono, più giusto, meno volgare di quanto non sia,
amicizie che diano serenità.
Considero ogni incontro arricchente purché non vengano meno la
buonafede e il rispetto. Sto vivendo il piacere di conoscerti e, se permetti, la gioia
mi dice di abbracciarti. Martino”.
“Ciao Martino, posso farti una domanda molto diretta? Ti va di
incontrarci? Leggendo ciò che scrivi mi immagino tu sia una persona sensibile e
discreta. Questo mal si concilia – inizialmente – con un approccio informatico.
La tua dolce presenza emerge in tutta la sua eleganza in questo mondo,
computerizzato o infinito che sia.
Stamattina, l'emozione che mi hai regalato è di sollievo: in mezzo a tante
banalità, a tanti consigli non richiesti, a tante frasi fatte per darsi gloria, la tua
sincerità, la capacità di non minimizzare ed interpretare, mi accarezza una
cicatrice come un balsamo che da troppo non utilizzo per prendermi cura di corpo
e cuore. Grazie. Paola.”
“Ciao Paola, sono carico d'anni: non mi muovo da Verona.
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Guardo le tue foto. In genere le foto non sono mai rivelatrici di identità
spirituali, se non per la femminilità e la trasparenza di un sorriso che possono
coinvolgere: le tue hanno un che di magico. Ho intuito comunque quanto di bello
manifesti con i tuoi link.
Certe volte l'età sofferma il mio pensiero: il limite entro il quale può
sussistere un'amicizia. Credo che lo spirito di un'amicizia non possa avere
riferimenti anagrafici, è una contingenza senza tempo. Bella cosa sono i valori
che custodiamo nel nostro secretaire: in quei cassettini dai quali attingiamo per
farne dono a chi riteniamo li meriti, li sappia apprezzare e ricambiare con
emozioni che colorino, come un arcobaleno, la nostra esistenza.
Quando credi, sarò felice di averti ospite. Martino.”
“Ciao Martino, ma da dove sbuchi fuori? Possibile che le tue parole non
smettano di muovermi dentro? Possibile che non ci sia mai una nota stonata, un
diesis che non ci voleva, una minima, piccolissima stecca in questo delicato e
discreto avvicinarsi? E' l'Arena che ti rende così? O sarà la nebbia di qua che
rende certe persone ottuse, chiuse, incolori?
Non è importante la risposta. Non che non abbia fiducia nel genere umano,
anzi: so che è molto più ricco e immenso di quanto io, piccola, sia capace di
intuire. Ma quanti strati polverosi di egoismo, direttività, ottusità, anche nella mia
realtà, con studenti ivoriani e ucraini ai quali devo far conoscere le nostre
tradizioni, la nostra sistematica cultura; una capacità di allargarmi al mondo, non
di tutelarmi, di proteggermi... ti sembro arrogante o sciocca? Sai, sono contenta di
non essere perfetta, di non voler questo ma di cercare di essere enormemente
umana. Paola.”
“Ciao Paola, l'Arena? L'aria dei Lessini? Tutto incide sui tratti umani ma
penso, in particolare, sia lo stile di vita che da alcuni anni mi sono dato: vivo un
po' come un eremita, sia quando sono in campagna che quando dimoro in città.
Adesso sto in una vallata del veronese tra un bosco e gli ulivi con lepri, fagiani,
tassi, volpi, falchi e una varietà di uccelli che cantano e mi fanno compagnia.
Verona è bella nei mesi invernali, ma può aspettare. Martino”
“Ciao Martino, sabato sarò da te... ho deciso. Questo desiderio mi fa
battere forte il cuore. Lo ascolto come musica dolce, una strana eccitazione come
se dovessi raggiungerti adesso, dove sei, e in questo stato mi dondolo, mi coccolo
nella tua lontananza. Credo che siamo capaci di sentire le emozioni nel momento
in cui le raccontiamo, prendono forza, forma, vita... le sento scorrere così piene e
luminose nella mia vita. Credo che possa essere ancora più bello quando sarò
vicina a te che mi ascolti e mi senti, come sento che tu sei capace di fare...
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E' una emozione così intensa che ho paura finisca da quel momento... come
ci incontriamo potremo tornare soli, e va bene così, ci sta, e anche se l'idea non
mi fa sorridere, avverto che rimarresti solo con me, solo per me.
Passeggeremo sui tuoi sentieri anche se piove, anche con il vento che porta
suoni e musica per la nostra danza... la pioggia che bagna e dà vita: il tempo per
respirare profondamente e qualche goccia d'acqua che nutre, poi torneremo
davanti al fuoco. Vuoi? Paola.”
“Ciao Paola, si può fare. Inseguire un sogno, così, con leggerezza e
profondità. Vivere un giorno passeggiando in un bosco della valle che ancora non
conosci ma che sai che da oggi ti aspetta e semplicemente avventurarsi... che ne
sappiamo del domani? A guardar bene, pur nell'illusione, anche quella è vita.
Sono spine, forti, con cui ci si deve inevitabilmente pungere se vogliamo cogliere
quella rosa che tanto si desidera.
Ho un concetto della vita, nonostante gli anni, per certi versi infantile; per
questo forse ne ho ancora alta considerazione e sento un legame con la mia
fanciullezza. E' bello il bosco anche in questa stagione. Ti fa capire la caducità
dell'esistenza. Idealmente oggi andrò a passeggio con te. Raccoglierò una
primula: te ne farò dono che, come la vita, fiorisce anche nel più freddo degli
inverni. Non bisogna mai perdere questa convinzione, questo calore umano.
Martino.”
“Ciao Martino, ho riletto le tue parole stamattina prima di iniziare le
lezioni. Gli occhi hanno cominciato a inumidirsi. Ho chiuso, non potevo
assaporarti in pieno come ho fatto ieri notte. Ora eccomi qua, nel silenzio di
questa sera per stare con te. Simbolicamente ho messo la tua primula in un
vasetto e sono qui a guardarla. Prima di addormentarmi la rimetterò nel cuore,
ché non sfiorisca mai. Le tue parole mi marchiano. Sono lava incandescente che
non fa male. Domani abbraccerò i tuoi alberi e tu, mentre mi parli, mi guarderai
con la dolcezza che tingi dalle tue parole.
Adesso mi incuriosisce la tua voce: che suono ha? Quali toni usi? E' ruvida
o dolce? La immagino ruvida come la corteccia dei tuoi alberi e dolce come il
sentiero che percorreremo. Ho una strana curiosità di vederti e l'emozione
ingioia le mie lacrime, sono un dono tuo, sono per te, sono tue e allora va bene
che tu ancora non abbia un volto e non conosca le tue mani. La tua virtuale
presenza la stringo a me, perché mi dia quel calore che mi fa star bene. Paola.”
“Ciao Paola, per le ore 16, salvo contrattempi, sarai a Verona. Alla stazione
prendi un taxi e fatti accompagnare al Gran Bar di piazza delle Erbe. Chiedi di
Antonino. Sa già tutto. Ti immagino in splendida forma. Oggi mi sento come da
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bambino quando andavo in gelateria con mia madre e mi trovavo con un cono
gigante in mano e dicevo che era troppo, senza ben saper cosa fosse quel troppo.
Ecco, mi sento così. Guardo la tua foto e non saprei definire il tuo volto, il colore
dei tuoi capelli, dei tuoi occhi. A domani. Martino.”
“Ciao Martino, i miei capelli sono biondi. Indosserò un paltò verde oliva.
Paola.”
Da sempre si ritrova al Gran Bar con i reduci amici di una vita.
Ha preordinato l'incontro nella saletta riservata con quel puntiglio
maniacale testato nella pratica professionale. All'amico barista ha detto: “Domani
a mio nome si presenterà Paola, capelli biondi, paltò verde oliva. Dopo averla
accompagnata di sopra, telefonami.”
Lei è di una bellezza apparentemente comune. Gli occhi verdi, uno sguardo
ridente con un timido indizio indagante; le palpebre evidenziate da un leggero
trucco; le labbra carnose, rosate; i capelli biondi scendono lisci a incorniciarle il
volto; il paltò verde oliva sobrio, gli stivali a ravvolgerle i polpacci, a corroborare
un portamento elegante: attira lo sguardo degli uomini.
Lui è alto e di una magrezza con la quale pare voler dimostrare
l'essenzialità del suo vivere e del suo pensiero. Le mani grandi, affusolate, non
proprio quelle di un contadino come suole definirsi; tamburellano in
continuazione, come ad accompagnare una musica che solo lui percepisce.
Quando si incontravano era nel fine settimana.
Paola saliva in treno a Piacenza. Un viaggio che le regalava tempi di lettura
o piacevole conversazione a seconda di chi incontrava o il desiderio che le
veniva. A Verona un taxi la accompagnava in Piazza delle Erbe, entrava al Gran
Bar, saliva una rampa di scale per accedere nella saletta privata, si accomodava al
tavolo di spalle alla splendida piazza. Antonino il cameriere poco dopo le serviva
un decaffeinato schiumato latte. Si congedava con un sorriso. Rimaneva sola.
Schiudeva la finestra. Le faceva piacere sentire il confuso vocio che saliva
dalla piazza: ascoltare senza guardare. Invariabilmente, dopo quattro cinque
minuti, entrava lui: le porgeva un mazzetto di fiori, si stringevano l'una all'altro,
un tremito nell'anima ogni volta, osservavano dalla finestra per godere insieme
l'incanto della piazza, di palazzo Maffei, che quell'atmosfera di incorporeità
dilatava all'inverosimile la bellezza.
A lei piaceva quel modo che aveva di guardarla, quel vezzo di porgerle i
fiori.
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Sapeva che l'andare dalla fioraia, e soffermarsi sugli esotici fiori che in
ogni stagione adornavano il negozio, e seguire il guizzo dei suoi occhi e l'estro di
lei nella composizione, e la carezzevole movenza delle mani nell'intreccio e
l'annodo di nastri e nastrini, una bellezza di donna armonizzata in quei colori, era
per lui un rito propiziatorio: l'aveva accompagnata, aveva voluto che si
conoscessero.
Per tacito accordo, lei lo anticipava sempre: sapeva quanto lui si
infastidisse ad aspettare. Tra il serio e il faceto gli aveva detto che neanche si era
sposato per non aver mai saputo sopportare l'attesa. Lo faceva con disinvolta
quiescenza, non solo per l'inusitata differenza d'anni: a lui era fedelmente
affezionata, sì, per affinità elettive, ma anche per quel fervore paterno che
percepiva, un qual genere di padre che l'infausto destino le aveva fatto mancare.
Di lì a poco il cameriere si annunciava con un delicato colpetto alla porta.
Posava sul tavolo i salatini e l'Aperol allungato con acqua frizzante. Si
accomiatava con un leggero inchino.
Dopo il brindisi di bentornata, ed essersi fuggevolmente indagati,
scendevano le scale. Sostava sulla porta: “Buongiorno cari – salutava con l'estro
convenevole che gli saliva dall'animo – buongiorno... compatibilmente con il
malgoverno.” Aggiungeva o variava la secca battuta sintetizzando una
deprecabile attualità.
In particolare le piaceva d'inverno: il Borsalino blu notte che si calava in
testa, il paltò blu mare e quella civettuola sciarpa azzurra o bianca annodata al
collo, le mani affondate nelle tasche. Lei gli porgeva il braccio e tastava il
sussulto delle sue nervature nell'accompagnare ogni espressione. Attraversavano
la piazza dei Signori. Commentava e raccontava. Lui parlava con un tono di voce
tondo, che calamitava attenzione, scandendo le parole come provasse piacere
dell'impegno che profondeva nel colloquio.
Talvolta dava segno di spazientirsi se qualche conoscente,
importunamente, lo fermava per strada, quando si accompagnavano, ma glissava
subito l'inconvenienza.
Era felice per la serenità che le infondeva. Si sentiva lusingata da ogni sua
dimostrazione. Lo custodiva in cuore per come immaginava sarebbe potuto essere
stato con suo padre. Un accostamento intimo che, venendolo a conoscere sempre
meglio, levitava.
Il portone d'entrata aveva un che di solennemente antico. In legno
massiccio laccato verde bottiglia, le maniglie in ottone luccicanti; quando lo
chiudeva dava un tonfo di severa sicurezza. Il giardinetto interno s'allargava alla
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fine dell'atrio di fronte alla porta a vetri dell'entrata.
Tre rampe di scale conducevano nell'appartamento. Nell'ultimo tempo si
fermava ad ogni pianerottolo, a prender fiato, ed ogni volta ripeteva: “Non so per
quanto ancora saprò resistere in questo palazzo.” Cinque stanze con le finestre a
spaziare tutte sulla città. Lì ospitava Paola.
Le tele di Dall'oca Bianca occupavano una parete d'entrata; la cartella con
tutte le litografie del pittore su un tavolino: lei le sfogliava, rapita; l'estasi si
intensificava curiosando nei manoscritti che testimoniavano l'amicizia tra lui e
Berto Barbarani, per antonomasia, il poeta veronese. Ogni stanza emanava,
nell'atmosfera claustrale che regnava, il respiro quieto di una cultura ordinata in
scaffali di libri.
La campana del duomo dava segno del tempo ogni mezz'ora. Un suono
vibrante con un eco prolungato. Il centro storico preservato dal traffico aveva un
che d'irreale nel cuore della città.
Antonino è custode di una lettera.
L'intestazione: Ing. Cisala Martino Via Pigna, 19 - 37121 Verona - Quando
gliela aveva consegnata, con tono ironico misto a sarcasmo gli aveva detto:
“Dopo due o tre giorni che non mi vedi o non mi senti, preoccupati dei becchini
non del prete. Aprila, sono scritte le mie ultime volontà: eseguile
pedissequamente. Ti renderai conto del beneficio.” Era di una generosità
imprevedibile, la elargiva per istinto del cuore.
Alla fine della lettera c'è anche un nome e un indirizzo: è di un barcaiolo
ma non lo conosce. Desenzano fa tristezza nella stagione invernale e la
circostanza ne aggrava lo stato d'animo. Il lago è placido, sembra emani la nebbia
che lo sovrasta. Via De Amicis è in un reticolo di vicoli poco lontana dal
porticciolo. Suona al civico 28 dove abita questo Giordano Fraglia: uno degli
ultimi pescatori rimasti sul lago come per nostalgico gioco.
S'affaccia a una finestra, si guardano: “Buongiorno, cosa desidera?”
“Sono Antonino, l'amico dell'ingegner Cisala.”
“Un attimo e sono da te.”
Una stretta di mano, i nomi biascicati. Non si dicono nient'altro. S'avviano
verso il faro. Salgono sulla barca. Sapevano cosa fare: andare al largo e
disperdere le ceneri.
Paola da giorni non sentiva Martino. Abbastanza consueto il fatto. Guai
andar a cercare l'orso quando è nella tana; ma un presentimento invadeva oltre
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misura la fantasia, come un sogno, che tale si rivela al risveglio, ma fin quando si
è coinvolti subiamo plausibilmente la trama.
Quel fine settimana prima di partire per Verona telefonò: invano.
Comunque partì. Le sorprese lo avevano sempre allietato: una reazione a parer
suo infantile: mutare in straordinario quello che era il trantran dei suoi giorni.
Quando Antonino la vide entrare restò per un attimo come folgorato. Lei
s'accorse del turbamento ma salutò con la solita giovialità.
“Ma signora Paola - esordì da sprovveduto - lei non sa dell'ingegner
Cisala?”
Rimase come stordita presaga di quanto all'istante le era balenato. Ma il
pensiero si ostinava a rifiutare ciò che un secondo dopo l'altro sentiva
confermarsi. Restò in silenzio e s'avviò verso la scala che saliva alla saletta. Non
voleva piangere, lui se l'era fatto promettere: la morte non merita una lacrima.
Voleva mettersi seduta per appoggiare la testa tra le mani, si stava rendendo
conto di quanto s'andava appesantendo.
Le si ripropose in sequenza l'ultima volta che era stata con lui: le luminarie
coloravano l'Avvento; lui si rifiutava di legittimarne il senso. Manifestare in quel
modo il Natale in un tempo sempre più travagliato da bande politico-sociali che
delittuosamente continuavano a rubare a man salva, riducendo la popolazione in
uno stato di crescente povertà, lo faceva incollerire.
Le aveva donato una litografia di Dall'Oca Bianca: Piazza delle Erbe vista
dalla finestra del Gran Bar e una sua ultima composizione, dedicata a sua madre,
vergata di sua mano, una grafia elegante dalla quale traspariva la compiutezza del
suo essere. Donava con affabile distacco senza far pesare l'importanza del dono: a
nessuno aveva mai donato una sua poesia.
La poesia la custodiva nell'agenda in borsa. La dispiegò sul tavolo, prese
come ad accarezzarla, come lui fosse lì e gli accarezzava le mani. La lesse a
mezza voce inseguendolo con l'immaginazione.
IL GIORNO DEI MORTI
E' il crisantemo a concedersi
all'autunno, il sole lo avvolge e la terra
infracidisce; naturale convivenza l'ancipite
che s'agita e induce all'oblio; palpiti
alimentano l'ardore per ciò che vorremo
sapere: indubbiano l'aldilà.
Sarà il pianto del coccodrillo, il canto
delle cicale e le inutili sequele a infrangere
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quel silenzio, a confermare il tradimento.
Ci siamo rincorsi
per tutto un giorno tra gli ulivi
come folate di vento che incetta le foglie
di questo totale autunno. Sentire
come nell'intimo scuota il tocco mite
dell'elisio distacco: siamo tra noi
ancora confidenzialmente e nella trama
di un'Essenza che ci fa sognare.
E tu madre eternata
intonerai quel canto di quando
ero bambino: “bimbo bello fa la nanna
qui sul petto della mamma”; inseguirò
quella nenia di accordato richiamo, un'altra volta
mi concepirai per garantirmi l'improba
serenità. Nel darmi la vita mi hai invischiato
la morte e la paura, taccagne come l'ombra
che vive di luce immanente e tortura
affardellando d'incognita il viaggio
o a sorpresa un etereo capolinea.
Una traccia inesplicabile
che neanche Dio può violare: inventata,
ché nel creato la belva più feroce è l'umano,
nell'estremo tentativo di intimorire
di attenuare l'innata violenza, inutilmente.
Adesso, in quella saletta, sola, in mano la tazzina del caffè, ne aveva
trangugiato un sorso, non riusciva a berne altro e, fissando quel fondo scuro,
vedeva stagnare il senso di quell'appuntamento.
Sì, si stava convincendo che già allora aveva deciso: era arrivato il tempo
di staccarsi da ogni cosa avendo ancora la consapevolezza di poterlo fare con
dignità.
“Morire sì, non essere aggrediti dalla morte. Morire persuasi che un siffatto
viaggio sia il migliore.” Una poesia di Cardarelli, che declamava con enfasi
ridente: un poeta che amava.
Paola non la sentiva più con quel desiderio che l'aveva spinto a
manifestarsi in quell'estrema sua briosa e disinibita autenticità. Si rifiutava di
pensarla anche come un bisogno, perché temeva, prima o poi, d'essere da lei
compatito.
Credeva in quella forma di libertà divina o satanica che c'è in ogni persona:
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ormai, null'altro lo interessava.
Ogni anno sul bagnasciuga ghiaioso di Desenzano, Paola depone un mazzo
di fiori.
Rimane estatica ad osservare sino a quando, un'onda più sostenuta di altre
lo solleva e nel gioco del riflusso scivola al largo. Poi prende il treno e a Verona
il taxi: al Gran Bar. Si concede un decaffeinato schiumato latte, nella solita
saletta. Antonino glielo serve e fra loro, mai è accaduto che abbiano parlato della
morte di Martino.
Le par sempre che da un momento all'altro debba entrare, serenamente
convinta che l'attesa non è vana: ogni volta con imprevedibile ritardo lo rivede.
Ritorna
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IL RICEVIMENTO DI LADY INNES
di Liliana Chesini
Passare un week end di Maggio a sistemare carte, decidendo cosa portare con me
a Nairn, non è certo quello che desidero; d'altra parte mi sono lasciato convincere
da mio figlio a trasferirmi quasi definitivamente al nord. Ho scelto questa
cittadina soprattutto per i suoi splendidi campi da golf, oltre al fatto che si trova a
metà strada tra la nostra proprietà di Elgin, dove lui e la sua famiglia vivono, e la
città di Inverness, dove potrei avere ancora un barlume di vita sociale e culturale.
Certo, ben lontana dalla possibilità di scelta che esiste ad Edimburgo, dove vivo
ormai da decenni, più o meno stabilmente, ma mi darebbe comunque la
possibilità di non sentirmi ancora un vecchio seduto su una poltrona in pelle,
davanti al camino, con un libro in mano, il bicchiere di whiskey sul tavolino
accanto e magari un paio di cani sdraiati sul tappeto ai miei piedi. Malcom, mio
figlio, mi ha già trovato una sistemazione: una confortevole casa su due piani
dove è previsto l'alloggio per la governante. Lui ha puntato molto sul mio amore
per il golf: per mesi ha insistito su quanto potrei essere felice a Nairn; a parte la
bellezza e la difficoltà dei campi, il fatto di essere così a Nord, d'estate mi
permetterebbe, sempreché soffrissi d'insonnia o volessi sfidare la resistenza dei
compagni di gioco, di prolungare la sfida fino a mezzanotte e riprenderla meno di
due ore dopo. In questo breve intervallo ci sta bene una sosta al circolo per un
breve riposo o per qualche chiacchiera. Noi scozzesi teniamo sempre le clubs nel
bagagliaio dell'auto, proprio come in altre parti d'Europa tengono il pallone per
giocare a calcio.
In fondo siamo negli anni '80 ed un sessantenne non viene considerato vecchio,
specialmente se, come me, si occupa ancora degli affari di famiglia, coltiva le
amicizie, fa sport e viaggia. Ad ogni modo, Malcom non perde occasione per
lamentarsi di quanto poco i bambini vedano il nonno e di quanto potrei gioire
della loro compagnia (dimenticando che i piccoli Fiona, Andrew e James hanno
dai 6 ai 2 anni). Mi dice che potrei andare a cavallo con loro, portarli a pesca, in
escursioni, e molte altre amenità del genere. Sinceramente non sono entusiasta
della prospettiva, ma d'altra parte potrei anche ritrovare i vecchi amici che ancora
vivono nelle Highlands, e, dopotutto, l'idea di veder crescere i miei tre nipoti
m'intenerisce. Pensare alla splendida Fiona mi commuove alle lacrime. E' proprio
il ritratto della nonna, di mia moglie Virginia; due occhi di smeraldo sotto una
massa ricciuta di capelli color peperoncino di Cayenna. Mia moglie se l'è
portata via il cancro quasi quindici anni fa, lasciando Malcom e me attoniti.
Prima della fine le avevo giurato che avrei tentato in tutti i modi di essere un
padre attento e che avrei fatto in modo da riempire il più possibile la sua
mancanza . A parte qualche foto sparsa per casa, tutte le immagini di Virginia
sono in cassaforte nella nostra casa di Elgin. Non potrei tollerare l'idea che un
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qualsiasi incidente possa privarcene. Ero sicuro che sarei invecchiato con lei.
Così sicuro che le parlavo in continuazione dei progetti che avevo per quando
avrei potuto delegare a Malcom tutti gli impegni che la proprietà ci imponeva,
cosicché avremmo potuto finalmente viaggiare senza limiti di tempo, dedicarci
solo a quello che avremmo avuto voglia di fare ed occuparci dei futuri figli di
Malcom. Ecco, Virginia non ha fatto in tempo ad impazzire d'amore per i nipoti.
Anne, la moglie di Malcom, collabora con uno studio di architettura di Inverness
e oltre ad essere apprezzata nel lavoro, si cura molto bene del marito e dei figli.
In definitiva una gran brava ragazza e, sebbene sia inglese, le voglio molto bene.
Con Malcom abbiamo discusso molto su cosa fare dell'appartamento di
Edimburgo, vicinissimo ad Holyrood Park. Lui vorrebbe affittarlo, ma io non
sono d'accordo. La posizione permette una completa vista del palazzo e
dell'Arthur's seat, ed è come essere in aperta campagna. La mia passeggiata
quotidiana mi porta fino in cima alla collina, e da lì posso spaziare su tutta la
città. A volte, se ricordo di portare il pane con me, mi diverto anche a dar da
mangiare alle anatre, ma questo non lo dico, non voglio che credano che sono un
vecchio pensionato rimbambito. Per quanto sia vicino di casa dei Reali, non sono
ancora annoverato tra i loro frequentatori, ma forse dipende dal fatto che loro
soggiornano ad Holyrood Palace molto raramente, o forse il mio livello sociale
non è adeguato. In ogni caso sopravvivrò a questa loro mancanza. Non ho voglia
di decidere quali mobili lasciare nell' appartamento e cosa portare con me a Nairn
o trasferire ad Elgin. Per intanto tutto resta al suo posto; io devo solamente
mettere ordine nelle carte e nel guardaroba e dare indicazioni alla signora Kerr su
cosa inscatolare. La signora Kerr ha anche l'incarico di venire nell'appartamento
una volta la settimana per arieggiarlo, spolverare e controllare che tutto funzioni.
Ho le migliori intenzioni di venire qui almeno qualche giorno tutti i mesi. In
fondo si tratta solamente di qualche ora d'auto.
Continuo a riordinare carte e foto; divido le carte per argomento e le archivio in
tante cartelle di cartoncino colorato scrivendo sulla copertina di cosa si tratta.
Tanta carta finisce in un sacco di plastica; poi deciderò se farla finire nella
spazzatura o bruciarla nel camino. Per intanto accantono le foto, più tardi
cercherò un qualche modo di suddivisione, probabilmente per ordine di data,
sempre che riesca a ricordare a quando risalgono tutte. Non ho mai sentito la
necessità di incollare le foto in album datati. Ho sempre pensato che il tuo
passato è quello che ti rimane nella mente, e, se lo ricordi, ricordi tutto di quel
momento: colori, odori, pensieri e sentimenti, il resto (molto spesso
fortunatamente), non ha più importanza.
Vado avanti a smistare carte e foto. Poi, una, mi colpisce e mi ipnotizza la
mente... Improvvisamente mi trovo dislocato a quasi quarant'anni fa.
L'invito di Lady Innes era per sabato 2 Luglio alle ore 8.30. Era il 1946, la
guerra era finita da poco più di un anno e tutti noi cercavamo di dimenticare o
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quantomeno ricostruire una parvenza di normalità. I miei genitori e mia sorella
erano in Provenza ormai da quasi un mese, ospiti di Lord e Lady MacLeod. A
papà non era sembrato vero potersene stare al volante della sua nuova Daimler
per qualche migliaio di miglia; addirittura aveva programmato il tragitto di
ritorno passando per l'Italia e la Svizzera e rientrare poi in Francia per imbarcarsi
a Calais, pertanto, io ero l'unico membro della famiglia ad essere invitato;
comunque, non mi sarei sentito solo, i ragazzi Innes erano miei amici da sempre e
le nostre proprietà distano poche miglia; nonostante la nostra tenuta sia in una
posizione di tutto rispetto, ho sempre ammirato la loro a Findhorn. Se l'invito era
per le 8.30 immaginai che la cena non sarebbe stata servita prima di un'ora più
tardi: insolito per gli Innes, ma presto ne avrei scoperto il motivo.
Qualche giorno prima del ricevimento, durante una partita a tennis con il mio
amico Geoffrey Innes, avevo cercato di sapere quali e quanti fossero gli invitati;
Geoffrey mi disse che per quanto ne sapeva dovevano essere da cinquanta a
sessanta, e, a parte i soliti vicini con i quali usualmente scambiavamo inviti, ci
sarebbero stati alcuni ufficiali americani ed anche ufficiali francesi che erano stati
di collegamento con la resistenza. Lord Innes era un generale che durante la
guerra coordinava le operazioni con gli omologhi americani, ed aveva
approfittato di una riunione degli stati maggiori a Londra per invitare gli amici a
passare qualche giorno nella sua residenza scozzese. A Lady Innes non sembrava
vero di poter organizzare una vera festa come quelle d'anteguerra. Già da mesi
l'argenteria, i quadri e tutti gli oggetti preziosi della famiglia erano stati recuperati
dai rifugi sotterranei e risistemati in casa. La proprietà aveva necessitato di
qualche intervento di ripristino; durante il conflitto la maggior parte dello spazio
era stato messo a disposizione dell'esercito ed aveva risentito della trascuratezza.
Il buon gusto e le capacità organizzative di Lady Innes erano indiscussi e,
malgrado l'austerità imposta dai tempi, era riuscita a fare miracoli.
La nostra proprietà aveva subito meno i problemi della guerra, la grande fattoria
era stata preziosa per i rifornimenti delle basi vicine. Mio padre Fergus,
giovanissimo ufficiale durante la prima guerra mondiale, era stato ferito nel 1917
e rimpatriato. A causa delle conseguenze delle ferite non era stato richiamato e si
era impegnato nel far fruttare al massimo la proprietà. La visione che usualmente
si ha delle Highlands è di una sconfinata distesa di brughiere e pascoli, ma mio
padre, con una serie di ripari, era riuscito a ricavarne coltivazioni diversificate,
queste coltivazioni comprendevano anche un certo numero di tipi di ortaggi.
Aveva inoltre riservato un grande appezzamento alla coltivazione di mirtilli, che
alla maturazione venivano immediatamente destinati ai piloti della RAF. Mia
madre Elaenor, aveva coinvolto tutte le sue conoscenti in opere di solidarietà per
le vittime inglesi dei bombardamenti tedeschi. Raccoglievano i tessuti che
potevano, si facevano mandare la poca lana disponibile dalle isole Ebridi e
Shetland e confezionavano abiti, maglioni e coperte, che erano poi consegnati a
volontari che li trasferivano in Inghilterra. Da parte mia cercavo di aiutare mio
padre il più possibile, tutto il tempo che avanzavo dallo studio lo dedicavo alla
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fattoria; gli uomini erano in guerra ed il lavoro nei campi e nelle fabbriche veniva
svolto dalle loro mogli. Nessuno si lamentava, tutti contribuivano vivendo giorno
per giorno con la paura dei bombardamenti nazisti. Lungo le nostre coste erano
stati velocemente installati sbarramenti di cemento nell'eventualità di uno sbarco
nemico. Fortunatamente non erano serviti e rimanevano lungo le battigie, orridi
monumenti alla memoria dell'orrida stupidità della guerra. Non riuscivo a
considerare la guerra crudele, ma solo stupida. Mi era piaciuto come l'aveva
definitiva Prevert nella sua poesia Barbara: " ... quelle connerie la guerre". Da
parte mia ritenevo che le uniche guerre giuste fossero le guerre di resistenza.
Come la nostra. Avevamo resistito ed avevamo vinto e speravo che i barbari
pagassero fino all'ultimo penny i danni provocati. Anni dopo avrei dovuto
prendere atto che non sarebbe stato così. I vincitori si sarebbero spartiti il
controllo della Germania e questo sarebbe bastato.
La mattina del sabato Bessie, la nostra governante, mi aveva preparato lo
smoking, mentre Walter, nostro autista e tuttofare, nonché marito di Bessie, stava
lavando e lucidando la Bentley. La Bentley era una delle poche stramberie di mia
madre. Tendenzialmente queste automobili non sono strambe, ma quella di mia
madre, giardinetta in legno, lo era sicuramente. Mamma ne aveva vista una ad
Edimburgo, se n'era innamorata e, ritenendo che fosse il mezzo giusto per una
signora di campagna, aveva chiesto a mio padre di ordinargliene una uguale. Ne
andava orgogliosa e, per la verità, durante la guerra lo spazio interno si era
dimostrato prezioso per il trasporto dei prodotti della nostra fattoria, il solo
problema era il contingentamento della benzina, ma il fatto che noi la si usasse
principalmente ad uso di pubblica utilità ci privilegiava.
Bessie aveva solo pochi anni più di me ed era con noi fin da ragazzina. Veniva
da un orfanatrofio cattolico di Edimburgo. Mia nonna Catriona, l'aveva
conosciuta durante un soggiorno nella capitale. Con alcune signore sue amiche
aveva raccolto abiti da destinare alle ospiti della struttura. Era rimasta sconvolta
dalle condizioni in cui vivevano quelle creature. Delle suore che governavano
l'orfanatrofio si poteva dire tutto, meno che fossero cristiane ed umane. Nonna
era rimasta particolarmente colpita da Bessie, neppure lei sapeva dirne
esattamente il motivo, diceva semplicemente che era come sentisse una silenziosa
e disperata richiesta d'aiuto. Tornata ad Elgin la nonna non aveva perso tempo,
tramite il suo avvocato aveva fatto contattare l'orfanatrofio, pagato il relativo
obolo e trasferito la ragazzina da noi. Bessie letteralmente adorava la sua
salvatrice e la curava come fosse una dea. Era stata preziosa per la nostra
famiglia, soprattutto durante gli ultimi tempi di vita della nonna. Voleva
occuparsene esclusivamente lei e, quando la nonna era mancata, solamente il
fatto di doversi occupare di mia sorella e di me l'aveva sollevata dal dolore.
Walter era venuto a lavorare da noi in fattoria e dopo qualche anno mio padre
ritenne opportuno trasferirlo a casa. Dal momento che si era dimostrato un bravo
meccanico con le macchine agricole, papà pensò che avrebbe potuto dimostrarsi
abbastanza capace anche con le automobili. In effetti non aveva avuto torto, ed
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inoltre aveva mostrato una grande abilità nei lavori di manutenzione della casa.
La proprietà necessitava di continui interventi ed avere una persona dedita al
garage ed alla casa non sembrava un lusso eccessivo. Tempo dopo Walter e
Bessie decisero di sposarsi e noi in famiglia ne fummo ovviamente felici. I miei
genitori assegnarono loro un piccolo cottage nella proprietà, in quanto non
sembrava proprio il caso farli continuare a vivere nelle stanze originariamente
destinate alla servitù; loro amavano la nostra famiglia e noi apprezzavamo la loro
dedizione senza riserve. Il fatto poi che Bessie non avesse ancora figli suoi, la
portava a viziare mia sorella e me, per quanto fossimo ormai entrambi adulti,
decisamente troppo, almeno secondo il punto di vista di nostro padre. Penso che,
seppure non lo facesse trasparire, la mamma trovasse molto comodo delegare a
Bessie la parte tollerante, cosicché lei potesse riservarsi la parte più severa senza
troppi complessi di colpa.
L'invito per la festa mi aveva eccitato parecchio, per quanto ricordo era la mia
prima vera festa da adulto. Avevo ormai 23 anni e la guerra mi aveva reso
creditore nei confronti della vita di almeno sei anni di giovinezza, ma ora
finalmente potevamo, anche se certamente nessuno poteva ripagarci quegli anni,
riprendere a vivere pienamente.
Erano quasi le sette e Bessie iniziò a tormentarmi per il fatto che era ormai tempo
d'iniziare a prepararmi, il bagno era pronto, lo smoking ed la biancheria
accuratamente distesi sul mio letto: non mi restava che procedere con i
preparativi. Da ragazzino avevo letto alcuni racconti sulla vestizione dei toreri in
Spagna. Questa cerimonia mi aveva decisamente colpito ed ora mi sentivo come
un torero in attesa di affrontare il toro. Mancava poco alle otto e soltanto i
continui solleciti di Bessie erano riusciti a farmi portare a termine il rito della mia
di vestizione. Walter mi stava aspettando con il motore acceso nell'intento di
farmi fretta. Ad ogni modo, alle 8 e 25 eravamo riusciti ad arrivare alla residenza
degli Innes: i padroni di casa, affiancati dai figli, Geoffrey, Gordan e Siubhan
erano già all'ingresso a ricevere gli ospiti.
Non ritenevo d'essere un giovane uomo facilmente impressionabile e l'educazione
ricevuta mi permetteva certamente di affrontare un'occasione speciale come
quella, ma la sfilata sul piazzale di molte auto nere con le bandierine
d'ordinanza, mi fece lo stesso un grande effetto. Nel caso specifico le bandierine
erano a stelle e striscie, bianche rosse blu, oltre naturalmente l'Old Jack, e non
lasciavano molto all'immaginazione sulla levatura dei passeggeri. Da parte sua
Lord Callum aveva provocatoriamente issato la Croce di Sant'Andrea,
sicuramente con qualche perplessità da parte dei non Scozzesi.
La cuoca, coadiuvata da un considerevole numero di donne reclutate tra le mogli
dei pescatori, dirigeva le aiutanti come un direttore d'orchestra, con un pizzico di
snobismo per essere costretta a cuocere quelle casse di aragoste del New
England, fatte arrivare con un aereo militare da alcuni degli ospiti americani. Se
ne stava brontolando che, a detta di tutti, i crostacei dei nostri mari non avevano
alcunché da invidiare a quelli del resto del mondo. Non era ben chiaro se per " i
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nostri mari" intendesse comprendere tutte le coste britanniche, nonché quelle del
Commonwealth, o solamente quelle del Mare del Nord.
Da parte loro, gli ospiti francesi - per non essere da meno - avevano omaggiato
gli Innes con casse di Champagne scampato alle razzie tedesche, fois gras e
formaggi. Altri borbottii della cuoca "... Come se i nostri formaggi non fossero
all'altezza...". Walter mi riportava tutto questo commentando: "Per fortuna non ha
parlato dello Champagne". Il nostro autista, come gli altri di entrambe le
categorie, avrebbero atteso nelle stanze adiacenti la cucina, dove la cuoca, molto
democraticamente, aveva riservato loro lo stesso menu degli ospiti.
La sera, ovviamente, era come si sarebbe aspettato dovesse essere una serata dei
primi di luglio: sufficientemente tiepida da permetterci d'attendere la cena
vagando tra i tavolini apparecchiati in giardino, approfittando largamente degli
antipasti e dello champagne che ci venivano serviti, con generosità, dai
camerieri.
Il prato dove ci trovavamo confinava con le dune che degradavano verso la baia.
Era ormai chiaro a tutti che la regia di Lady Innes non avrebbe sofferto di alcuna
sbavatura. L'invito era stato fissato per un'ora ed un giorno ben precisi. Quel
sabato era uno dei giorni più lunghi dell'anno, il tramonto avrebbe avuto luogo,
come da copione, verso mezzanotte e la fine della cena avrebbe coinciso con il
punto massimo della bassa marea. Per noi residenti era normale, ma per gli ospiti
stranieri avrebbe significato ammirare la baia di Findhorn completamente
svuotata dall'acqua. La visione di quell'anfiteatro di sabbia luccicante sotto la luce
del tramonto, le barche adagiate sul fianco in attesa che l'alta marea le rimettesse
in asse, i pesci ed i granchi che si dibattevano nelle piccole pozze tra le
ondulazioni del fondale, le urla dei gabbiani, i cani ed i bambini che correvano
giocando su quello che fino ad un paio d'ore prima era il mare, regalava,
innegabilmente, una grandiosa, spontanea rappresentazione.
Da parte mia mi auguravo di non dare troppo l'impressione del ragazzo di
campagna. Come gli altri invitati indigeni giovani non avevamo indossato il kilt
da cerimonia, ma optato per lo smoking. Pensavamo che ciò ci rendesse più
internazionali, ma i nostri padri non avevano ceduto, e vestivano orgogliosamente
il tartan del proprio clan, completato, quando non con le giacche militari ricoperte
da decorazioni, con quelle classiche di velluto nero, calzettoni e camicia bianchi e
scarpe di vernice nera. Le nostre madri invece sembravano partecipare al
concorso della più elegante, ma non avevano rinunciato ad indossare la stola con
i colori del clan. Nel complesso la panoramica del prato era degna del miglior
film hollywoodiano. Gli ospiti militari stranieri nelle loro divise di gala,
ovviamente completate dai nastrini delle campagne e dalle medaglie più o meno
meritatamente guadagnate, e le signore in lungo che illuminavano la serata con i
bagliori dei loro gioielli e degli abiti di raso; le ragazze poi erano uno spettacolo a
parte. Noi maschi giravamo tra i tavoli, la sigaretta perennemente accesa in una
mano ed un bicchiere nell'altra, gli occhi spalancati, increduli di tanta varietà non
usuale dalle nostre parti. Forse le nostre ragazze non avevano nulla da invidiare
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alle altre ospiti, ma eravamo troppo abituati ad averle sott'occhio. Alcune di loro
provenivano dagli Stati Uniti e dalla Francia e questo ci faceva immediatamente
sognare di New York e di Parigi, anche se ritengo che molte di loro vivessero
come noi in province alquanto banali. Ad ogni modo avevano sicuramente
passato tutto il loro soggiorno a Londra alla ricerca di un abito degno
dell'occasione. Lady Doireann volteggiava tra i tavoli distribuendo sorrisi e
complimenti, equamente, era gli ospiti che incrociava, ringraziando
graziosamente per gli apprezzamenti entusiastici che a sua volta riceveva.
Esaurito il rito dell'aperitivo fummo invitati ad accomodarci per la cena. Tutto era
perfetto e ci sentivamo come se quell' abbondanza ci fosse dovuta in una sorta di
piccolo risarcimento per quei lunghissimi anni di brutture, povertà e disperazione.
I posti a tavola erano stati studiati con la massima attenzione in modo da evitare
qualsiasi piccolo incidente diplomatico. Saggiamente ai giovani erano stati
riservati dei tavoli un po' appartati; in questo modo avrebbero potuto simpatizzare
spontaneamente allentando un po' il rigido protocollo in cui gli adulti erano
costretti. Al mio tavolo, oltre ad Geoffrey, Gordan e Siubhan ed un paio di
giovani dei dintorni, vi erano tre ragazze francesi ed un'americana. Era una gara
tra noi indigeni a chi risultasse più simpatico e disinvolto. La povera Siubhan in
giardino era sembrata leggermente a disagio; per un volta aveva lasciato in
camera l'amata tenuta da cavallo e devo ammettere che vestita a festa non
sfigurava affatto, anzi. Non so se la madre avesse fatto fatica a convincerla, ma di
certo, in quell'abito giallo chiaro con la gonna che danzava ad ogni soffio d'aria,
facevo fatica a riconoscere la ragazzina con la quale gareggiavo a cavallo fino a
poco tempo prima. I capelli biondi e folti, forse retaggio di qualche antenato
vikingo, erano morbidamente legati dietro la nuca dove aveva appuntato un fiore
viola. Doveva aver ben percepito il mio sguardo stupito ed ammirato, perché
quando i nostri occhi si incontravano, non mancava di rivolgermi uno dei suoi
larghi e bellissimi sorrisi. Ad ogni modo mi sembrava molto presa da uno dei
ragazzi seduti al tavolo accanto. Ovviamente anche con lui si conosceva sin da
piccola, ma sembrava proprio che si fossero visti quella sera per la prima volta.
Da parte mia ero completamente perso ad ammirare la ragazza americana al
nostro tavolo. Considerai che avesse qualche anno più di me, era alta e sottile, gli
occhi grandi e scuri, come i capelli che teneva strettamente raccolti in uno
chignon, il lungo abito rosso fuoco molto scollato e trattenuto solamente da esili
spalline, cucito in un tessuto che non aveva ancora deciso se aderire al corpo o
scivolare ma in ogni caso non molto era stato lasciato all'immaginazione, i guanti
rossi come l'abito erano appoggiati sul bracciolo della poltroncina ed
evidentemente aveva deciso di esagerare, poiché anche le scarpe erano dello
stesso colore. Le ragazze francesi, per quanto più che apprezzabili, nulla
potevano contro quella provocazione ed avevano iniziato a parlare tra di loro
ostentatamente. Mary-Ann era perfettamente conscia dei sentimenti che
suscitava, ma il suo comportamento era così disinvolto e spontaneo che
difficilmente avrebbe potuto essere definito sfacciato. La naturalezza con la quale
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si rapportava al resto del mondo, suscitava semplicemente una grande simpatia.
Avremmo tutti scommesso che venisse direttamente dal New England, od ancor
meglio da Boston, per l'impronta europea della sua personalità, e fu
estremamente divertente quando ci raccontò che era invece originaria del West
Virginia. In ogni caso aggiunse che il nostro equivoco era perfettamente
spiegabile con il fatto che aveva vissuto gli anni del College da una zia a New
York. I suoi genitori osservavano discretamente la figlia ed era evidente che non
approvavano l'abbigliamento della ragazza, cosa che invece tutti gli uomini della
sala facevano senza riserve. Mary-Ann sembrava non accorgersene e questo, ai
nostri occhi, la rendeva ancora più attraente.
Durante la cena c'era stato un repentino annuvolamento con un breve temporale
che fortunatamente si esaurì in meno di mezz'ora, lasciando però delle grandi e
scure nuvole vaganti che non promettevano bene, comunque, quando la pioggia
cessò, Lady Innes si rasserenò in modo evidente. Credo che alla fine del
temporale avessero contribuito anche le sue silenziose preghiere. Finita la cena,
gli ospiti adulti si ritirarono nei salotti a raccontarsi eroismi di guerra: gli uomini
nelle varie battaglie e le donne nel condurre famiglie, fattorie e fabbriche. Per noi
giovani era prevista una piccola orchestra con un vasto repertorio di balli
americani, canzoni francesi e ballate scozzesi. Ovviamente le ballate vennero
subito accantonate a favore degli ultimi balli da oltreoceano. Sul prato si dimostrò
provvidenziale la pedana che era stata predisposta come pista da ballo: perlomeno
ci saremmo salvati le scarpe. Il sole cominciava ad abbassarsi ed i raggi che
filtravano dalla nuvole davano al cielo dei colori irreali. Non ricordo chi diede il
via all'esodo, ma quando l'orchestra accantonò gli scatenati balli americani, per
darci il tempo di riprendere il fiato, ed iniziò a suonare delle struggenti canzoni
francesi, noi giovani avevamo iniziato a ballare scendendo le dune. Le ragazze
avevano abbandonato le scarpe sotto i tavolini del giardino, e la preoccupazione
di noi ragazzi era quella di evitare di pestare loro i piedi.
Continuando a ballare eravamo scesi fino alla spiaggia. I rossi, i viola ed i gialli si
riflettevano a macchie nella baia, mentre la marea, spumeggiando delicatamente,
iniziava ad avanzare verso di noi. Qualche ospite si era fatto recuperare la
macchina fotografica dall'auto, ed alla fine tutti gli adulti si erano radunati ai
bordi del prato ad osservare quello che, per noi, sarebbe stato uno dei più
fantastici balli della nostra vita. Anche l'orchestra si era spostata verso le dune e
penso che il suono arrivasse fino all'altra parte della baia. In poco più di mezz'ora
la marea avrebbe raggiunto la spiaggia ed anche il sole sarebbe calato. Noi
sognavamo solo di prolungare quella meraviglia il più possibile e, da parte mia.
lo facevo tenendomi stretta Mary-Ann, scansando chi volesse togliermela dalle
braccia. Eravamo completamente persi e ci accorgemmo in ritardo che, da
qualche cumulolembo vagante, avevano iniziato a cadere grosse gocce di pioggia.
Gli spettatori si erano ritirati rapidamente all'interno, mentre l'orchestra resisteva
stoicamente sulle dune. Alcuni servitori si erano precipitati sulla spiaggia con
degli ombrelli nel tentativo di ripararci, ma noi non ci curavamo né della pioggia,
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né della marea che adesso avanzava velocemente. Solo quando l'acqua arrivò a
lambirci le caviglie ci risvegliammo dall' incantesimo e senza fretta risalimmo
verso casa.
Avrei voluto vivere quel ballo con Mary-Ann tutta la vita. Il pensiero che il
giorno successivo sarebbe ripartita per Londra mi era insostenibile. Era bastata
una sera a farmi innamorare perdutamente di lei. Nel poco tempo che saremmo
stati ancora vicini, mi esercitai mentalmente a come chiederle di rimanere in
contatto senza sembrare opprimente. Alla fine della serata, quando tutti gli ospiti
erano impegnati a scambiarsi gli ultimi convenevoli, ringraziamenti e saluti e
Mary-Ann aveva già raccolto i guanti e la borsetta, le passai un biglietto dove
avevo indicato il mio indirizzo con la preghiera di scrivermi. Salutandola le dissi
che da parte mia avrei sicuramente avuto il suo recapito americano dagli Innes.
A fatica Walter riuscì a riportarmi a casa. Bessie ci aveva aspettati alzata e passai
quel poco che restava della notte a tormentarla con i miei racconti. Povera Bessie,
non ebbe il coraggio di farmi smettere e il giorno dopo mi sentii vagamente in
colpa a vederla lavorare per casa visibilmente stanca.
Nei giorni successivi mi sentivo completamente svagato, cercavo di seguire
l'andamento della fattoria con attenzione, ma credo che i nostri dipendenti
attendessero con un po' d'ansia l' arrivo di mio padre. Eravamo prossimi al
raccolto e non credo avessero troppa fiducia nelle mie capacità organizzative.
Comunque, decisi che non sarei rimasto in attesa a lungo di una lettera da MaryAnn, ero veramente convinto di essermi innamorato di lei e volevo che lei
conoscesse i miei sentimenti. Un pomeriggio presto salii a cavallo e mi recai a
casa Innes per invitare Siubhan a fare un giro con me. Non ci misi molto a
confessare il vero motivo della mia visita: volevo che la mia amica mi procurasse
l'indirizzo di Mary-Ann in America.
Malgrado quello che sentivo, cercai di far apparire la mia prima lettera la più
amichevole e disinvolta possibile. Semplicemente le scrissi di quanto fossi felice
di quella splendida serata, di quanto gli invitati fossero stati gradevoli e simpatici
e di quanto mi sarebbe piaciuto poterla incontrare ancora in futuro. Tutto questo
mentre l'unica cosa che avrei voluto fare era attraversare l'oceano ed abbracciarla.
Quel periodo lo vissi a metà: c'era la parte di me che viveva quei lunghi giorni
occupandosi normalmente della quotidianità, e, l'altra parte, in attesa di una
lettera che confermasse, in qualche modo, che anche lei pensava a me e non solo
come una semplice conoscente.
Più di un mese dopo finalmente la lettera arrivò. Guardai la busta per un tempo
interminabile prima di decidermi ad aprirla. Fantasticavo sul contenuto e già mi
vedevo coinvolto in una splendida relazione. Certamente avrei dovuto trovare gli
argomenti giusti per quando avrei comunicato ai miei genitori la decisione di
trasferirmi negli Stati Uniti e di quale occupazione avrei potuto trovare con la mia
laurea. Ovviamente non c'era alcun dubbio che avremmo avuto una lunga,
splendida vita in comune.
Alla fine mi decisi ed aprii la busta. Oltre alla lettera c'era un'altra busta che
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appoggiai sul tavolo. Come iniziai la lettura la mia euforia iniziò a svanire. Era
una lettera molto simpatica, Mary-Ann era spiritosa anche quando scriveva.
Ricordava degli aneddoti divertenti della serata, di come la nostra ospite avesse
fatto in modo che tutti si sentissero a loro agio e di quanto fosse stato splendido il
ballo sulla spiaggia. Non una parola su di un eventuale interessamento particolare
nei miei confronti, né sul desiderio di rivedermi. Mi sentii svuotato e deluso.
Mentre meditavo sullo scritto, presi l'altra busta: conteneva quattro fotografie che
suo padre aveva scattate durante la festa. Una in particolare era bellissima: MaryAnn ed io ballavamo sulla spiaggia, sprazzi del sole al tramonto filtravano tra le
nubi illuminando l'acqua ai nostri piedi. Mi soffermai sull'abito che le aderiva
esaltandone le forme e sentii ancora la mia mano appoggiata alla sua schiena.
Sfortunatamente la perfezione della foto era guastata da due intrusi: una
cameriera ed un servitore della casa che cercavano di ripararci con gli ombrelli.
Li maledissi a posteriori per l'indelicatezza ed inoltre pensai che era un vero
peccato che la foto non potesse mostrare i colori.
Decisi di attendere un ragionevole periodo di tempo (ritenni che una settimana lo
fosse) prima di rispondere ringraziandola per il pensiero. Questa volta pensai che
dovevo espormi almeno un po' perché capisse quanto m'importasse di lei, ma
cercai di essere leggero, non volevo che si sentisse oppressa e metterla in
condizione di chiudere qualsiasi possibilità di sviluppi. Fortunatamente ero
giovane e questa volta attesi la sua risposta con molta meno ansia. Pensavo
ancora molto a lei, ma il ricordarla mi era decisamente meno penoso.
Il fatto che la sua immagine iniziasse a svanire si rivelò una vera fortuna. Un paio
di mesi più tardi mi arrivò un'altra lettera. Fu molto carina, mi ricordava con
simpatia e ne approfittava per inviarmi la sua partecipazione di nozze;
spiritosamente aggiungeva che, se per caso in quel periodo mi fossi trovato negli
States, sarebbe stata veramente felice di avermi al matrimonio. L'unica
sensazione che riuscivo a provare era sconcerto. Mi chiedevo come fosse
possibile che. mentre io pensavo a lei con quell'intensità e quella passione, lei
stesse preparando il matrimonio con un altro. Contemporaneamente, ero
perfettamente conscio di quanto fosse puerile il mio atteggiamento: non mi aveva
mai dato motivo di pensare che fosse qualcosa di diverso.
Comunque, mi consolai velocemente, stava arrivando l'inverno e mi sarei
trasferito ad Edimburgo per il dottorato. Mio padre aveva ritenuto opportuno
acquistare un appartamento in città. Sarebbe ritornato utile anche per mia sorella
ed inoltre, sia lui che mia madre, avevano intenzione di soggiornare spesso nella
capitale.
La mia vita nella grande città era entusiasmante. Studiavo e vivevo. C'erano gli
amici, le bevute, lo sport, le ragazze, i ritorni a casa nelle Highlands. E poi ci fu
lei: Virginia. Mi scontrai letteralmente con lei mentre, in senso contrario,
percorrevamo i marciapiedi dei Meadows. Immagino che stessi camminando a
testa bassa e che lei facesse altrettanto. Quando risollevai il capo, dopo aver
constatato il disastro di libri e dispense sparsi sul cemento e sull' erba, mi accorsi
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che stavo annegando in un lago verde durante un tramonto di fuoco. Impiegai un
po' a rendermi conto che il lago erano i suoi occhi ed il tramonto i suoi capelli.
Tutto ciò che avvenne in seguito fu semplice come un copione già scritto per noi.
E fu così fino a quando mi fu concesso di stare con lei.
Mi accorgo di essere rimasto ore con la foto in mano a ricordare. Poso la foto
vicino alle altre. Era stata veramente una notte magica. Uno di quei momenti che,
qualsiasi cosa accada poi, non va dimenticato mai.
Ringrazio gli dei per avermi concesso una vita fortunata, la morte di Virginia mi
ha dimezzato, è vero, ma l'ho avuta. E poi, ogni volta che guardo Fiona, la vedo
davanti a me.
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LA LETTERA
di Rosanna Avesani
Il volto tondeggiante di Giulia senza un filo di trucco era fermo, impassibile nella
consueta ipocrita allegria. I capelli, da poco tinti del loro originario colore rosso,
le arrivavano al collo. Da giovane li portava raccolti a coda di cavallo e quel
punto di rosso-arancio bastava da solo ad attirare l’attenzione dei ragazzi. Il resto
della sua figura non era gran che, però gradevole ed era soda e di cellulite
neanche l’ ombra, peculiarità che le era rimasta anche ora che aveva superato di
poco la cinquantina. Quello che aveva perduto era la battuta ironica e la sua
innata simpatia. Si era sposata giovane, appena ventenne e ancora fidanzata alle
sue amiche aveva detto: - Se questa storia si conclude bene, cioè con il
matrimonio, festeggiamo-.
Il primo e unico fidanzato. Il primo e unico marito. Lui da giovane non era male;
capelli biondi, leggermente lunghi, moto sportiva, giacca in pelle, parola facile,
intellettualoide, lavoro interessante, otto anni più grande. Qualità che le fecero
credere di esserne innamorata. Ma bastarono pochi mesi per far emergere un
temperamento autoritario, possessivo, egoista, una volontà di esercitare il proprio
potere sulle persone, animali, cose e decisioni. A parole un democratico che si
contraddiceva nei fatti. Dialogare con lui: un’ impresa; farsi rispettare: arduo
come scalare l’Everest. Giulia si sentiva gradini più in basso e non riusciva a far
emergere la propria consapevolezza e stima di sé, e non era certo aiutata.
Ebbe due figli, un maschio Alberto e qualche anno più tardi una figlia, Anna. Ma
neanche questo servì a renderla felice. – Sono una moglie e una madre - ripeteva
a chi le diceva che prima di tutto era una donna, una persona, un essere umano.
Più di una volta aveva pensato di lasciarlo, senza riuscirci mai. C’era stato un
tempo che aveva trovato il coraggio e anche un alleato, che la faceva sentire viva
e importante. Aveva finalmente colorato le sue labbra con il rossetto rosa pastello
e indossato quelle graziose scarpette con il tacco. L’alleato era suo figlio Alberto.
Ma il tempo magico fu breve. Ora non si poneva più domande e nel torpore
quotidiano aveva trovato sollievo. Comunicare con lui, suo marito, non le
interessava più, le era sufficiente trovare del tempo per sé e assecondarlo quel
tanto che bastava per stare in pace. Ma non comunicare con sua figlia Anna,
proprio non le andava giù. La casa, dove abitava Giulia, si trovava in un vecchio
borgo collinare dietro la chiesa. Faceva parte di un gruppo di case a più piani, alte
e strette che si accostavano l’una all’ altra da sembrare dei rettangoli di altezze e
colori diversi, come nei paesi di mare e che limitavano a forma di mezza elisse,
un cortiletto.
Quella mattina nella cucina della sua casa, come le altre mattine era impegnata in
piccole azioni abituali; apriva le finestre, preparava la colazione, sistemava
tazzine e bicchieri, apparecchiava, riponeva i piatti nella lavastoviglie, faceva
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bollire il latte, in un continuo affaccendarsi che le dava consolazione. Quella
mattina era libera dal lavoro e aveva deciso di uscire con Larry, il pastore
bretone, per una passeggiata sulla collina veronese, lungo un sentiero che portava
alla Pieve di San Rocchetto. Un sentiero silenzioso dove avrebbe incontrato
poche persone in quel piccolo borgo tra gli olivi. Aveva indossato la solita tuta,
senza badare all’ estetica e via, in movimento per non pensare.
Strada facendo, suo malgrado i pensieri le vennero incontro; specialmente quelle
lettere che sua figlia, quasi per caso, lasciava sempre nel solito posto. Anna, le
indirizzava a suo fratello Alberto; ma Giulia sapeva che erano per lei. Le aveva
lette infatti, e ogni volta era un dolore entrare da clandestina nel mondo di sua
figlia, e scoprire che si sentiva incompresa, abulica, svogliata, con tanti problemi.
Ogni volta per Giulia il dolore si risvegliava ed era forte, e sentiva di non
meritare quelle parole, confidate al fratello ma che erano per lei. Per lei, che
l’amava con tutto il cuore, che accettava la sua diversità, il suo carattere così
uguale a quello di suo padre. Lo stesso modo irrispettoso, la stessa mancanza di
stima e di apprezzamento nei suoi confronti. Quella mattina aveva deciso di usare
la sua stessa modalità per comunicare con lei e di scriverle una lettera,
lasciandola, per caso nello stesso posto. Nello zainetto si era portata un foglio e
una penna e raggiunta la panchina accanto alla Pieve, sotto l’ olivo, iniziò a
scrivere. Scrisse le sue illusioni, le sue aspettative, quello che avrebbe voluto
dalla vita e aveva rinunciato per amore loro. E che era giunto il tempo di non
rinunciare più a nulla.
Chiuse la busta, ripercorse il sentiero a ritroso e andò verso il posto dove Anna
lasciava casualmente le sue lettere. Dove anche lei appoggiò delicatamente, la
sua. Sulla tomba di suo figlio.
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ANGELINA
di Giancarlo Emanuelli
La chiamavano “Fischietto”, non so il perché ma in tutto il paese era conosciuta
così. Pochi sapevano il suo vero nome: Angelina. Preferisco e preferivo
chiamarla con il suo vero nome, anche perché non condividevo il vezzo degli
abitanti di attribuire ad ognuno un nomignolo, quasi sempre spregiativo,
abitudine perseguita da quasi tutti e della quale tutti erano vittime.
Abitava in una casupola ai margini del paese, costituita da un solo piccolo locale
con un caminetto minuscolo dove cuoceva il suo scarso cibo, quando ne aveva,
senza elettricità né acqua corrente, un lettuccio piccolo, come piccola era la sua
persona.
Angelina era vecchia, io l’ho sempre vista vecchia , ma nessuno sapeva la sua
vera età; vestita di stracci, quasi sempre sdraiata nel suo lettino. Talvolta la si
poteva incontrare nei pressi della sua povera abitazione, intenta a raccogliere
qualche legnetto da bruciare o qualche erba commestibile. Era schiva e non dava
fastidio a nessuno. Viveva unicamente di carità, ma non ha mai chiesto nulla a
nessuno.
Nella sua miseria totale manteneva una dignità incredibile!
Parlava pochissimo ma da quello che potevo capire era dotata di cultura e di
molta saggezza. Non era triste, né allegra. Serena la si poteva definire!
Quando non era afflitta da dolori potevo persino discorrere con lei ed allora
intuivo una personalità in grado di dare ogni risposta alle mie numerose domande
di ragazzino curioso e avido di conoscenza. Di tutto era in grado di rispondere,
con competenza ma senza ostentazione. Pareva che il suo linguaggio avesse
origini misteriose, ogni argomento le era noto.
Ritengo che il periodo più critico sia stato per Angelina quello della guerra; il
cibo era scarso per tutti, figuriamoci per lei!
I miei familiari, i quali potevano avere delle donazioni dai tedeschi in quanto la
nostra grande casa l’avevano requisita per farne un deposito di viveri per le loro
truppe, di tanto in tanto mi mandavano a portarle qualche cosa da mangiare. Per
questa ragione la vedevo. Temevo sempre di trovarla morta nel suo tugurio ma
non fu così. Quando morì ero molto distante e lo seppi con molto ritardo.
Seppi della sua morte allo stesso modo in cui si viene a conoscere una notizia
casuale e di poco conto. Però ci rimasi molto male; il suo ricordo mi ha
accompagnato e mi accompagna sempre, accanto alle persone più importanti
della mia vita, lei, la più umile in assoluto!
La sua esistenza, in particolar modo per come è stata, mi ha insegnato molto nel
campo della vita sociale; tale esperienza, nonostante la mia giovine età, mi fece
molto ragionare sulla giustizia sociale, sulla vita delle persone. In particolare mi
chiedevo se questa umanità fosse davvero umana e se il comportamento degli
adulti, che dovevano rappresentare per me un mito, era da imitare, come sarebbe
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stato giusto che fosse. Triste esempio che mi si parava dinanzi. Ero circondato
dalle infamie che solo la guerra è in grado di mostrare. A qualche centinaio di
metri da noi c’era la contraerea che tentava di abbattere quegli aerei che venivano
a sganciare bombe terribili che procuravano morte e distruzione, urla di dolore e
di paura!
Coloro che procuravano questo dolore erano fatti della stessa sostanza di
Angelina?
A moltissimi anni di distanza mi domando ancora dove raccoglieva la forza di
proseguire a vivere Angelina; la sua vita che apparentemente era di una inutilità
spaventosa in realtà ha insegnato a me ma anche tutti noi che la vita, in quanto
tale, va vissuta per quello che è.
Addio Angelina, ci rivedremo un giorno?
Ritorna
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