Herbert George Wells. I PRIMI UOMINI SULLA LUNA. Titolo
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Herbert George Wells. I PRIMI UOMINI SULLA LUNA. Titolo
Herbert George Wells. I PRIMI UOMINI SULLA LUNA. Titolo originale dell'opera: "THE FIRST MEN IN THE MOON". Traduzione integrale dall'inglese di GIUSEPPE MINA. Copyright 1976 per l'edizione italiana U. Mursia editore, Milano. NOTA BIOGRAFICA. HERBERT GEORGE WELLS nacque a Bromley, nel Kent, il 21 settembre 1866, e morì a Londra il 13 agosto 1946. Nato in una famiglia povera, già all'età di quattordici anni si impiegò come commesso in un negozio di stoffe. Vi restò poco tempo, e lavorò poi in un laboratorio farmaceutico, trasferendosi infine, come istitutore, in una scuola. Ottenuta una borsa di studio frequentò i corsi della Normal School of Science, a Londra, dove ebbe come professore di biologia il famoso Thomas H. Huxley, i cui insegnamenti troveranno vasta eco nella sua opera di scrittore. Dopo un periodo di insegnamento alla Henley House School, laureatosi in zoologia, Wells ottenne una cattedra all'University Correspondence College. Nel frattempo, aveva iniziato la sua attività letteraria, prima come giornalista, e intraprendendo in seguito la strada del romanzo; a trent'anni poteva già dirsi famoso. Autore prolifico, i cui meriti sono ormai indiscussi, ha lasciato circa un centinaio di opere. Ricordiamo qui "La Macchina del Tempo", "L'isola delle bestie", "L'uomo invisibile e altri casi straordinari", "La guerra dei mondi", "Racconti dello spazio e del tempo". INDICE. 1. Il signor Bedford incontra il signor Cavor a Lympne. 2. La fabbricazione della cavorite. 3. La costruzione della sfera. 4. Nella sfera. 5. Il viaggio verso la luna. 6. L'arrivo sulla luna. 7. Alba sulla luna. 8. Mattino lunare. 9. L'esplorazione inizia. 10. Perduti sulla luna. 11. I pascoli dei vitelli lunari. 12. Il volto dei seleniti. 13. Il signor Cavor fa alcune supposizioni. 14. Tentativi di entrare in relazione. 15. Il ponte sopra l'abisso. 16. Punti di vista. 17. Il combattimento nella caverna dei macellai lunari. 18. Alla luce del sole. 19. Il signor Bedford solo. 20. Il signor Bedford nello spazio infinito. 21. Il signor Bedford atterra a Littlestone. 22. La stupefacente comunicazione del signor Julius Wendigee. 23. Riassunto dei primi sei messaggi trasmessi da Cavor. 24. Storia naturale dei seleniti. 25. Il Gran Lunare. 26. L'ultimo messaggio di Cavor alla terra. 1. IL SIGNOR BEDFORD INCONTRA IL SIGNOR CAVOR A LYMPNE. Mentre sto per scrivere, all'ombra di una vite, sotto il cielo azzurro dell'Italia del Sud, mi convinco, non disgiunto da un sentimento di stupore, che la mia partecipazione alle sorprendenti avventure del signor Cavor va intesa come un frutto del caso. Quanto è successo a me sarebbe potuto succedere a chiunque altro. Venni a trovarmi al centro di queste cose quando mi ritenevo immune dalla più insignificante possibilità di compiere esperienze tumultuose. Mi ero difatti recato a Lympne, credendolo il luogo più tranquillo del mondo. «Qui, almeno», avevo detto fra me, «troverò la pace e la possibilità di lavorare!» Questo libro è la conseguenza di quella pace. A tal punto il destino si diverte a insidiare anche i più semplici piani degli uomini. Ritengo utile notare qui come recentemente avessi subito un notevole tracollo finanziario in seguito ad alcuni investimenti sbagliati. Ora, circondato da tutti gli agi, posso permettermi il lusso di confessare la mia passata miseria, ed ammettere anche che, in parte, le mie sventure erano dovute probabilmente alla mia inesperienza. Se esistono campi in cui io possiedo una certa abilità, la condotta delle operazioni commerciali non è certamente fra questi. Ma a quei tempi ero giovane e, tra gli altri difetti, avevo anche l'orgoglio di credermi abile nelle speculazioni. Giovane lo sono ancora quanto all'età, ma gli avvenimenti mi hanno tolto una parte della mia primitiva leggerezza; se poi essi mi abbiano fatto acquistare anche un po' di saggezza, è cosa più problematica. E' superfluo entrare nei particolari dei ragionamenti che causarono il mio arrivo a Lympne, nel Kent. Oggigiorno anche gli affari hanno un forte sapore d'avventura. Ne accettai i rischi. Ogni speculazione comporta, invariabilmente, il dare e l'avere; e a me, infine, purtroppo, toccò proprio il dare. Persino quando ritenevo di aver sistemato tutte le mie pendenze, un creditore intrattabile ritenne opportuno farmi oggetto delle sue persecuzioni. Forse avrete provato anche voi quella bruciante sensazione di virtù offesa, o forse l'avete soltanto avvertita. Mi perseguitò aspramente. L'unico rimedio per uscire dall'impiccio, se non volevo rassegnarmi a guadagnare stentatamente un pezzo di pane accettando un meschino posto d'impiegato, mi sembrò infine quello di scrivere un dramma. Ho una discreta dose di immaginazione, e gusti raffinati: intendevo perciò lottare vigorosamente contro l'avverso destino che mi voleva schiacciare. Aggiungerò che in quei tempi, oltre ad avere una gran fiducia nelle mie qualità di uomo d'affari, ero anche convinto di essere in grado di scrivere un buon lavoro teatrale. Non credo sia, del resto, un'opinione molto strana, dato che non vi è nulla che offra così ricche possibilità, a parte i legittimi affari, come un lavoro teatrale, e molto probabilmente tale convinzione fu quella che mi indusse a tentare. Mi ero infatti abituato a considerare questo dramma non ancora scritto come una comoda riserva accantonata per i giorni del bisogno. Questi giorni erano giunti, e io mi misi al lavoro. Dovetti però presto accorgermi che lo scrivere un dramma era un lavoro che richiedeva un tempo assai maggiore di quello da me supposto. Dapprima avevo creduto che sarebbero stati sufficienti dieci giorni; mi ero perciò recato a Lympne per procurarmi un "pied-à-terre". Avevo avuto la fortuna di trovare un piccolo bungalow e l'avevo preso in affitto per tre anni, arredandolo alla meglio con pochi mobili. Mentre lavoravo al dramma, dovevo dedicarmi anche alla cucina. I miei piatti avrebbero fatto arricciare il naso alla signora Bond, eppure, sapete, erano abbastanza appetitosi. Possedevo una caffettiera, un tegame per le uova, una casseruola per cuocere le patate e una padella per friggere salsicce e lardo: ecco in che cosa consisteva la mia agiatezza. Il lusso non è sempre possibile e la semplicità ne è la migliore alternativa. Per il resto, mi procurai a credito un bariletto di birra e un fornaio fiducioso mi riforniva ogni giorno. Non era, per la verità, una vita da sibarita; ma avevo visto momenti peggiori. Ero un po' dispiaciuto per il fornaio, uomo veramente degno di ogni considerazione; ma speravo bene anche per lui. Per chi ami la solitudine, Lympne è il posto ideale. Il paese è situato nella parte argillosa del Kent; il mio bungalow sorgeva proprio sull'estremo limite di un'antica scogliera marina, e di là la vista si estendeva oltre la pianura paludosa di Romney fino al mare. Quando piove, il luogo diventa quasi inaccessibile; e mi venne detto che spesso il portalettere era, a causa del fango, obbligato a percorrere la maggior parte del suo giro su delle specie di sci. Io non lo vidi mai così attrezzato, ma me lo posso immaginare con facilità. All'entrata delle poche villette e case che formano il villaggio vi sono appositi grandi fasci di sterpi per levarsi il grosso del fango dalle scarpe, il che può dare un'idea della conformazione della regione. Ai tempi dei romani, la località fu uno dei maggiori porti dell'Inghilterra, Portus Lemanus, mentre oggi dista dal mare ben sei chilometri. Tutt'intorno alla base della collina vi sono molti avanzi romani in mattoni, e da lì parte l'antica Watling Street, in parte ancora lastricata in pietra, che, dritta come una freccia, punta verso il nord. Spesso mi soffermavo sulla sommità della collina, ripensando a tutte le cose di quel tempo, alle galere e alle legioni, ai prigionieri e agli ufficiali, alle donne e ai mercanti, a coloro che come me si erano soffermati a vedere e a pensare, a tutta la folla e al tumulto che era risuonato all'interno e all'esterno del porto. Ed ora rimanevano soltanto pochi ruderi su un pendio erboso, una pecora o due... e io! E là, dove era stato l'antico porto, si stendeva la palude in forma di ampia mezzaluna fino alla lontana Dungeness, punteggiata qua e là dalle cime degli alberi e dalle cuspidi dei campanili di qualche vetusta città medioevale, destinata, come Lemanus, ad andare a poco a poco scomparendo. La vista della palude costituiva, per la verità, uno dei panorami più poetici che io avessi mai contemplati. Dungeness si trovava a circa venticinque chilometri e sembrava una zattera sul mare; lontano, a ovest, vi erano le colline di Hastings, dorate dal sole al tramonto. A volte parevano vicine e nitide, altre volte erano basse e sfumate, e spesso le condizioni del tempo le nascondevano completamente alla vista. La zona più vicina della palude era disseminata di fossi e di canali. La finestra presso la quale ero solito lavorare si apriva su quel panorama, e fu di là che scorsi per la prima volta Cavor. Ero appunto alle prese con la sceneggiatura, concentrando tutta la mia attenzione su quel lavoro complicatissimo, quando la sua vista mi colpì al punto da distogliermi dalle mie meditazioni. Il sole stava calando e il cielo risplendeva di giallo e di verde, allorché la sua piccola figura, nera e strana, vi si stagliò. Era un uomo di bassa statura, corpulento, con due gambe esilissime, che si muoveva a scatti. Aveva creduto bene di vestire la sua figura fuori del comune con un berretto da giocatore di cricket, un soprabito, pantaloni alla zuava e calze al ginocchio, da ciclista. Non riuscii mai a capire la ragione di questo suo modo di vestire perché non andò mai in bicicletta e non giocò mai al cricket. Si trattava di un'accozzaglia di indumenti, riuniti insieme non so come. Gesticolava, agitando braccia e mani e dondolando il capo; e ronzava, ossia emetteva dalle labbra un ronzio simile a quello d'una macchina elettrica. Non potete aver mai sentito niente di simile; per di più ogni tanto si schiariva la gola facendo un curiosissimo rumore. Era piovuto di recente e la sua andatura a scatti risultava aumentata dall'estrema scivolosità del sentiero. Nel momento preciso in cui si stagliò davanti al disco del sole, si fermò, estrasse un orologio, ebbe un attimo di esitazione. Poi, con una specie di movimento convulso, girò su se stesso e ritornò sui suoi passi, dimostrando grandissima fretta, senza più gesticolare, ma procedendo a lunghi passi veloci che misero in evidenza le notevoli dimensioni dei suoi piedi (ricordo che il fango che vi aderiva li faceva apparire di proporzioni grottescamente gigantesche). Ciò accadde il primo giorno che mi trovavo a Lympne, quando la mia attività di scrittore drammatico era attivissima; considerai perciò l'incidente come una noiosa distrazione, la perdita di cinque minuti di tempo. Tornai alla mia sceneggiatura; ma, quando la sera seguente l'apparizione ricomparve con un'esattezza sorprendente, ripetendosi regolarmente tutte le sere in cui non pioveva, la mia concentrazione sulla sceneggiatura iniziata cominciò a divenire uno sforzo notevole. «Che il diavolo se lo porti!» dissi tra me. «Si direbbe che voglia esercitarsi a fare il burattino!», e per parecchie sere lo mandai di cuore all'inferno. Poi la noia cedette il posto alla meraviglia e alla curiosità. Perché mai quell'uomo si comportava così? La quattordicesima sera non potei più resistere e, appena egli apparve, aprii la portafinestra, traversai la veranda e mi diressi verso il luogo dove invariabilmente egli si fermava. Lo raggiunsi appunto mentre stava estraendo di tasca l'orologio. Il suo viso era paffuto e rubicondo, con gli occhi di un marrone rossastro (fino ad allora lo avevo visto soltanto controluce). - Un momento, signore! - gli dissi, mentre si voltava. Egli mi guardò. - Un momento, - ripeté, - d'accordo. Ma se lei vuole parlarmi più a lungo, e se non è chiederle troppo il suo momento è già scaduto - le domanderò di accompagnarmi. Le dispiace? - Neanche per sogno; anzi... - risposi, ponendomi al suo fianco. - Le mie abitudini sono regolari, e il mio tempo per gli scambi di opinione è limitato. - Immagino che questa sia l'ora della sua passeggiata igienica. - Appunto. Vengo qui per godermi il tramonto. - Ma se non si gode niente. - Come? - Non lo guarda mai. - Non lo guardo mai? - No, l'ho osservata per tredici sere e non una sola volta l'ho veduta guardare il tramonto, non una. Aggrottò le sopracciglia, come se si trovasse di fronte a un problema. - Ma... mi piace vedere il colore del sole... dell'aria... seguo questo sentiero, attraverso quel cancello - volse bruscamente la testa accennando a dietro le spalle - e giro... - Macché, non c'è mai passato. E' tutta una frottola. Là non c'è sentiero. Questa sera, per esempio... - Ah, questa sera! Mi lasci pensare. Ah! Ho guardato l'orologio e mi sono accorto d'aver superato di tre minuti la mia solita mezz'ora: ho deciso che non avevo tempo di fare il mio solito giro e sono passato di qui... - Ma se ci passa sempre! Mi guardò pensieroso. - Forse è vero, ora che ci penso. Ma lei che cosa voleva dirmi? - Quello che le ho già detto. - Quello che mi ha detto? - Già; perché si comporta così? Ogni sera lei viene qui facendo quel rumore... - Facendo un rumore? - Ma sì, così - e imitai il suo ronzio. Mi guardò; evidentemente il ronzio aveva ridestato in lui una sensazione spiacevole. - Io faccio questo? - mi domandò. - Tutte le sante sere. - Non me n'ero mai accorto. Si fermò sui due piedi, e, guardandomi seriamente, disse: - Può essere che me ne sia fatta una specie di mania? - Sembra di sì. Non è forse vero? Si strinse il labbro inferiore fra l'indice e il pollice e si mise a fissare una pozzanghera ai suoi piedi. - La mia mente è assillata da gravi preoccupazioni, - disse, e lei vorrebbe saperne il perché! Ebbene, signore, le assicuro che non solo non so perché faccio quel che faccio, ma non mi sono nemmeno mai accorto di averlo fatto. Pensandoci bene è proprio come dice lei, io non sono mai stato oltre quel campo... Ma forse queste cose le danno fastidio? Non so perché, cominciavo a divenire meno severo nei suoi confronti. - Darmi fastidio no, - dissi. - Ma... si immagini un po' di dovere scrivere un dramma! - Io non riuscirei. - Be', qualche altra cosa che richieda concentrazione. - Ah! sì, certo, - rispose, e prese un'aria meditativa. La sua espressione mi rivelò così eloquentemente la sua pena, che io mi raddolcii ancora di più. Dopo tutto c'è qualcosa di aggressivo nel chiedere a uno che non si conosce perché si schiarisca la voce sulla pubblica via. - Vede, è un vizio, - disse debolmente. - Oh! Ne sono persuaso. - E' un vizio di cui mi debbo liberare. - Non è assolutamente necessario. Io, del resto, non ho alcun diritto... Forse, mi sono già preso troppa libertà. - Ma no, signore, - disse, - io le sono invece infinitamente grato. Dovrei evitare certe cose. D'ora in avanti lo farò. Posso disturbarla... ancora una volta? Com'era quel rumore? - Pressappoco così, - dissi, - Zuzz, zuzz. Ma per la verità, lei sa... - Le sono obbligatissimo...! In effetti mi rendo conto che sto diventando incredibilmente distratto. Lei ha tutte le ragioni, signore... tutte le ragioni. Per davvero, le devo moltissimo. Ma questa cosa finirà. Intanto, signore, l'ho trascinata più lontano di quanto non dovessi. - Spero che la libertà che mi sono preso... - Ma no, ma no, signore, nemmeno per sogno! Ci guardammo per un istante. Io mi tolsi il cappello e gli augurai la buona sera; egli mi rispose nel solito modo a scatti; dopo di che ciascuno proseguì per la propria strada. Alla scaletta mi volsi a guardare la sua figura che si allontanava. La sua andatura era cambiata notevolmente: pareva che zoppicasse, che si fosse rattrappito. Il contrasto con il suo gesticolare di prima, con il suo brontolio, mi toccò in un modo assurdo, quasi patetico. Lo seguii con l'occhio sino a che fu scomparso; poi, desiderando dal profondo del cuore di aver pensato ai fatti miei, ritornai al mio bungalow e al mio dramma. Né la sera seguente, né l'altra ancora, egli si fece vedere; ma mi era rimasto fortemente impresso nella mente e mi capitò di pensare che un tipo comico-sentimentale come lui avrebbe potuto servirmi a meraviglia nello sviluppo del mio dramma. Il terzo giorno venne da me. Per un poco rimasi a cercare di indovinare che cosa lo avesse condotto da me. Egli iniziò una conversazione qualunque nella maniera più formale, poi improvvisamente venne all'argomento che gli stava a cuore: voleva comperare il mio bungalow. - Vede, - disse, - non per biasimarla, assolutamente no, ma lei mi ha distrutto un'abitudine, e ciò mi sconvolge la giornata. Sono venuto a passeggiare qui per anni... anni. Certamente, devo aver sempre brontolato... Lei mi ha reso tutto ciò impossibile! Non mancai di suggerirgli che avrebbe potuto scegliere un'altra strada. - No, no, per me non ve ne sono altre; questa è la sola, me ne sono informato. E adesso... ogni pomeriggio, alle quattro, sono bloccato... - Ma, caro signore, se la cosa è tanto importante per lei... - E' questione di vita o di morte. Vede, io sono un ricercatore... Sono impegnato in un'indagine scientifica. Abito... - si arrestò e sembrò riflettere. - Abito proprio là,- riprese e indicò qualche cosa con il dito pericolosamente vicino al mio occhio, - in quella casa dai camini bianchi che vede là, proprio dietro gli alberi. E la situazione in cui mi trovo è fuori del comune... fuori del comune. Sto per portare a termine un esperimento importantissimo... Le assicuro che si tratta di uno dei più importanti esperimenti che siano mai stati fatti. Esso richiede una concentrazione, una tranquillità spirituale e attività continue: il pomeriggio era il mio miglior momento... Pieno di nuove idee, di nuovi punti di vista. - Ma perché non può continuare a venire qui? - La cosa sarebbe completamente diversa. Sarei impacciato; la penserei intento a lavorare al suo dramma... a guardare irritato verso di me... invece di occuparmi del mio lavoro. No! Devo comprare il bungalow. Mi misi a pensare; certamente dovevo riflettere attentamente sull'argomento prima di dire qualcosa di decisivo. In quel periodo ero abbastanza disposto a concludere affari e il vendere mi aveva sempre attirato; ma, in primo luogo, quel bungalow non era mio e, anche ammesso che fossi riuscito a venderglielo a un buon prezzo, avrei potuto incontrare dei guai nel trapasso di proprietà nel caso che il vero padrone avesse avuto sentore della transazione; in secondo luogo, ero... ebbene ero un fallito non ancora posto sotto liquidazione. L'affare richiedeva quindi chiaramente di essere trattato con molta prudenza. D'altra parte, mi interessava pure la possibilità che egli fosse alla ricerca di qualche invenzione che avrebbe potuto avere un valore. Pensavo che mi sarebbe piaciuto saperne di più sul suo esperimento, non con qualche fine disonesto, ma solo con l'idea che il sapere di che cosa si trattava avrebbe potuto essere un diversivo allo scrivere drammi. Presi a sondarlo. Egli si dimostrò dispostissimo ad informarmi; in realtà, una volta che ebbe preso l'aire, la conversazione divenne un monologo. Parlava come un uomo che ha una valanga di cose da dire, dopo averle tenute chiuse dentro di sé troppo a lungo. Parlò per quasi un'ora, e devo confessare che trovai il suo discorso ben difficile da seguire. Ma in tutto ciò vi era quel sottofondo di soddisfazione che si prova quando si sta trascurando il lavoro cui ci si è dedicati. Durante quella prima intervista compresi ben poco del significato del suo lavoro. La maggior parte dei vocaboli da lui usati erano di genere tecnico, interamente nuovi per me: illustrò poi due o tre punti con quella che si compiaceva di chiamare matematica elementare, facendo dei conti sopra una busta con una matita copiativa, in un modo che rendeva difficile addirittura il far finta di capire. - Già, - dicevo, - già. Prosegua! - Nondimeno potei comprendere abbastanza per acquistare la convinzione che egli non era un qualunque maniaco per le invenzioni. A dispetto della sua bizzarra apparenza, emanava da lui una forza che rendeva impossibile una supposizione del genere. Qualsiasi cosa fosse, la sua scoperta aveva delle possibilità di essere realizzata. Mi parlò di un suo laboratorio, e dei suoi tre assistenti, ex falegnami a cottimo, che egli aveva addestrati. Dal laboratorio all'ufficio brevetti il passo è breve. M'invitò a fare una visita al suo complesso, io accettai prontamente, preoccupandomi di far notare questo fatto accennandovi più volte. La proposta di acquisto del bungalow rimase molto opportunamente in sospeso. Alla fine Cavor si alzò per andarsene, scusandosi per la troppo lunga durata della sua visita. Parlare del suo lavoro, disse, era una gioia che gli accadeva troppo raramente; non gli capitava spesso di trovare degli ascoltatori intelligenti come me, e cercava poco volentieri la compagnia degli scienziati di professione. - Troppe meschinerie! - spiegava, - troppi intrighi! E poi quando uno ha un'idea... un'idea nuova, piena di possibili sviluppi... Non voglio infierire, ma... Sono un uomo che crede ai primi impulsi; gli feci, così, una proposta, forse troppo azzardata. Bisogna però considerare che per quattordici giorni ero rimasto solo a Lympne scrivendo il mio dramma e che mi incombeva ancora sul capo il rimorso di avergli rovinato la sua passeggiata consueta. - Perché, dissi,- non si crea un'abitudine nuova, al posto di quella che le ho rovinata? Per lo meno, fino a che possiamo accordarci a proposito del bungalow. Quello che lei desidera è di poter rimuginare il suo lavoro, cosa che ha sempre fatto durante la sua passeggiata pomeridiana. Sfortunatamente ciò è fuori discussione, e lei non può riportare le cose come erano. Ma perché non viene qui e parla con me del suo lavoro, servendosi di me come di una specie di muro contro cui lei potrà scagliare i suoi pensieri e da cui li riceverà di rimbalzo? Io sono troppo ignorante per approfittare delle sue idee, né conosco scienziati di sorta... Tacqui. Egli rimase assorto; evidentemente, la proposta non gli piaceva. - Ma mi spiacerebbe annoiarla, - mi disse. - Forse pensa che io sia troppo ottuso? - No; ma certi particolari tecnici... - Comunque sia, mi ha interessato grandemente, questo pomeriggio. - Certo, SAREBBE un grande aiuto per me. Nulla serve tanto a rischiarare le idee quanto l'esporle. E finora... - Non dica altro, caro amico. - Ma veramente lei ha del tempo disponibile? - Non vi è riposo migliore come il cambiare occupazione, risposi io con profonda convinzione. L'affare era concluso. Giunto sulla soglia della mia veranda, si voltò. - Le sono veramente obbligatissimo, - disse. Gli chiesi come mai. - Lei mi ha completamente guarito da quel ridicolo vizio di borbottare, - mi spiegò. Gli risposi, a quanto ricordo, che ero lietissimo di avergli potuto rendere un siffatto servigio, ed egli se ne andò. Istantaneamente il corso dei pensieri che la nostra conversazione aveva proposto dovette riprendere il sopravvento. Le sue braccia ripresero ad agitarsi come prima, e il solito «zuzz» mi giunse all'orecchio, portato dalla brezza... Be', dopo tutto, non erano affari miei... Ritornò il giorno seguente e l'altro ancora, tenendomi ogni volta una conferenza sulla fisica, con soddisfazione di entrambi. Parlò con una lucidità straordinaria di «etere», di «tubi di forza», di «potenziale di gravitazione» e di altre cose del genere, mentre io, standomene seduto sull'altra delle mie sedie pieghevoli, lo incoraggiavo a proseguire con dei «già... prosegua... la seguo benissimo». Il soggetto era per me terribilmente oscuro, ma non credo che egli abbia mai sospettato fino a che punto io non lo capissi. Vi erano dei momenti nei quali avevo il dubbio di essere preso in giro, ma ad ogni modo riuscivo a distanziarmi da quei maledetto dramma. Di tanto in tanto, per un attimo, alcune cose mi apparivano chiare, ma solo per scomparire non appena ritenevo di essermene impadronito. A volte, la mia attenzione se ne andava del tutto, e io, senza preoccuparmene, me ne stavo seduto a guardarlo, riflettendo se dopo tutto non sarebbe stato meglio che mi servissi di lui per farne il personaggio principale di una divertente commedia e lasciassi perdere quell'altra porcheria. E allora, forse, mi concentravo di nuovo per un poco. Non appena mi si presentò l'occasione favorevole, mi recai a visitare la sua casa. Questa era spaziosa, ma arredata con trascuratezza; non aveva altri servitori all'infuori dei suoi tre assistenti. Il suo regime dietetico e la sua vita privata si distinguevano per una semplicità da filosofo. Egli era astemio, vegetariano e seguiva tutte le regole relative ad un tale modo di vivere. Ma la vista della sua attrezzatura liquidò molti miei dubbi. Dalle cantine al solaio sembrava un'officina in funzione: uno stupefacente complesso, a trovarlo in un villaggio fuori mano. Le stanze del pianterreno contenevano banconi coperti di apparecchiature, il forno e la caldaia dell'acquaio erano stati ingranditi sino a diventare fucine di notevoli dimensioni, in cantina erano installate delle dinamo e nel giardino c'era un gasometro. Egli mi mostrò tutto con l'entusiasmo fiducioso di chi è vissuto per troppo tempo da solo. Il suo isolamento traboccava ora in un eccesso di fiducia che io ebbi la buona ventura di raccogliere. I tre aiutanti erano ottimi rappresentanti della classe degli «artigiani» dalla quale provenivano. Coscienziosi, ma non troppo intelligenti, robusti, cortesi e volonterosi. Uno, Spargus, addetto alla cucina ed ai lavori concernenti i metalli, era stato marinaio; il secondo, Gibbs, era stato falegname, ed il terzo, un ex giardiniere a ore, aveva adesso le mansioni di factotum. Essi non si occupavano che dei lavori materiali; la parte intellettuale era per intero disimpegnata da Cavor. La loro ignoranza era delle più grandi, anche se confrontata con le mie approssimative nozioni. Ed ora passiamo alla natura delle ricerche di Cavor. Qui, però, disgraziatamente, viene il difficile. Io non sono uno scienziato, e, se dovessi tentar di esprimere nel linguaggio rigorosamente scientifico usato dal signor Cavor lo scopo cui miravano i suoi tentativi, non solo porrei in grave imbarazzo il lettore ma anche me stesso, e quasi certamente commetterei qualche errore madornale che mi renderebbe ridicolo agli occhi di qualsiasi aggiornato studente di fisica o di matematica. Il meglio che mi resti da fare è perciò di rendere le mie impressioni nel linguaggio usuale, senza cercare nemmeno di ostentare una cultura scientifica cui non ho alcun diritto, essendone affatto privo. Lo scopo degli esperimenti del signor Cavor era di ottenere una sostanza la quale fosse «opaca» - egli, a dire il vero, usava qualche altra parola che ora non ricordo, ma il termine «opaco» rende abbastanza bene l'idea - a «qualsiasi forma di energia radiante». «Energia radiante», egli mi spiegava, era qualcosa come luce o calore, o quei raggi Rontgen, dei quali tanto si è parlato circa un anno fa o giù di lì, oppure le onde elettriche di Marconi, o, meglio ancora, la gravitazione. Tutto ciò diceva - irradia da centri ed agisce sui corpi a distanza; da qui il nome di «energia radiante». Quasi ogni sostanza è opaca a questa o a quella forma di energia radiante. Il vetro, per esempio, lascia passare la luce ma molto meno il calore ed è perciò che lo si usa di preferenza per i parafuoco; l'allume lascia passare la luce, ma intercetta completamente il calore. Una soluzione di iodio al bisolfito di carbonio è invece opaca alla luce, ma lascia passare liberamente il calore. Essa vi intercetterà la vista del fuoco, pur lasciando che il calore pervenga fino a voi. I metalli sono opachi non solo alla luce ed al calore, ma anche all'energia elettrica, la quale invece passa attraverso la soluzione di iodio ed il vetro, quasi come se questi non fossero interposti; e così via. Tutte le sostanze conosciute sono «trasparenti» alla gravitazione. Si possono usare vari mezzi per intercettare la luce, il calore, l'influenza elettrica del sole, il calore emanato dalla terra; si possono proteggere alcuni oggetti dai raggi Marconi con delle placche di metallo, ma non si potrà mai intercettare l'attrazione gravitazionale del sole o della terra. Riesce assai difficile spiegare perché nulla esista che possa opporsi a tali leggi. Cavor non poteva comprendere perché non dovesse esistere alcuna sostanza dotata di tale qualità. E non ero certamente io quello che gli avrebbe potuto risolvere il problema! Una siffatta possibilità non m'era mai neppur passata per la mente prima. Per mezzo di calcoli già da lui effettuati, che, certo, lord Kelvin, o il professor Lodge, o il professor Karl Pearson, o qualche altro grande scienziato, avrebbero potuto comprendere, ma che non riuscivano che a confondermi sempre di più, Cavor mi dimostrò che tale sostanza non solamente doveva esistere ma che doveva soddisfare a determinate condizioni. Era un ragionamento meraviglioso. Ma quanto mi meravigliasse e, al tempo stesso, mi preoccupasse, sarebbe impossibile a dirsi in questa sede. - Già, - rispondevo a tutto ciò, - già, prosegua! - Per la chiarezza di questo racconto basterà dire che egli era persuaso di poter produrre questa sostanza opaca alla gravitazione per mezzo di una lega complicata di metalli e di un nuovo elemento, che credo si chiamasse «elio» e che gli mandavano da Londra in recipienti di argilla sigillati. Su questo particolare sono stati espressi dei dubbi, ma io sono quasi sicuro che fosse proprio elio ciò che gli veniva inviato in quei recipienti sigillati. Si trattava comunque certamente di una sostanza molto gassosa e rarefatta. Se allora avessi preso qualche appunto... Ma come avrei potuto prevedere la necessità di prendere degli appunti? Chiunque possegga la più piccola dose d'immaginazione comprenderà quali straordinarie possibilità possa avere una simile sostanza. Si capirà così l'emozione da me provata via via che quest'idea usciva chiara dal caotico ammasso di astruse parole mediante le quali Cavor si esprimeva. Intermezzo comico della cosa! Mi ci volle un po' di tempo per convincermi di non avere frainteso Cavor. Mi guardai bene, comunque, dal fare una qualsiasi domanda che potesse dargli una pallida idea dell'abisso d'ignoranza in cui egli giornalmente versava le sue spiegazioni. Ma nessuno di quanti leggeranno questo libro potrà capirmi pienamente, perché dalla mia povera narrazione sarà impossibile comprendere quanto fossi convinto che la nuova meravigliosa sostanza sarebbe stata senza dubbio fabbricata. Non ricordo di aver dedicato più di un'ora di lavoro consecutivo al mio dramma dopo la mia visita a casa sua. La mia immaginazione era altrove. Quella maledetta sostanza sembrava avere possibilità illimitate; di deduzione in deduzione, giungevo a pensare miracoli e rivoluzioni! Per esempio, con un sottilissimo foglio della nuova sostanza, si sarebbe facilmente potuto sollevare come se si trattasse di una pagliuzza, anche un peso enorme. Il mio primo pensiero naturale e impulsivo fu quello di applicare il nuovo principio ai cannoni, alle corazzate e a tutto il materiale bellico; e da lì alla navigazione, alla locomozione, alle costruzioni, insomma ad ogni possibile forma dell'industria umana. Il caso che mi aveva condotto nel luogo di nascita di questo tempo nuovo - una nuova epoca, nientemeno! - era di quelli che accadono forse ogni millennio. La scoperta si svolgeva e si espandeva sempre più davanti a me. Fra gli altri risultati, vi scorgevo la mia redenzione come uomo d'affari. Sognai immediatamente una grande società con un grandissimo numero di filiali, applicazioni a destra e a sinistra, sindacati e trust, privilegi e concessioni che si sarebbero propagati e sviluppati fino a che questa vasta e prodigiosa società per lo sfruttamento della cavorite avesse conquistato e governato il mondo intero. E di questa società io avrei fatto parte! Andai diritto allo scopo. Sapevo che rischiavo di compromettere ogni cosa; volli tuttavia affrontare la situazione con arditezza. - Noi possediamo l'invenzione più strabiliante che l'uomo abbia mai conosciuto, - dissi, e sottolineai marcatamente il «noi». Se lei volesse escludermi dalla combinazione, dovrebbe usare il cannone, ormai! Da domani sarò qui ai suoi ordini come quarto collaboratore. Il mio entusiasmo lo sorprese un poco, ma non svegliò in lui alcuna ostilità o sospetto. Egli, piuttosto, tendeva a sottovalutarsi. Mi guardò dubbioso. - Crede proprio che...? - disse. - Ma il suo lavoro teatrale! A che punto si trova? - E' svanito! - esclamai. - Ma, caro signore, non vede a che cosa è giunto? Non vede che cosa sta per realizzare? La mia era retorica, ma egli non capiva veramente. A tutta prima, non vi volle credere: egli non ne aveva avuta la più lontana idea. Quello stupefacente ometto aveva seguitato a lavorare tanto tempo su un piano puramente teorico. Quando aveva detto che si trattava del «più importante» esperimento che il mondo avesse mai visto, aveva semplicemente inteso dire che esso avrebbe messo a posto tante teorie e risolto molti dubbi; non si era preoccupato delle applicazioni della sua sostanza, più che se fosse stato una macchina che fabbrica cannoni. Una tale sostanza era possibile ed egli l'avrebbe prodotta! "Voilà tout", come dicono i francesi. Al di là di quella, era come un bambino. Sperava tutt'al più, qualora l'avesse realizzata, che essa passasse ai posteri con il nome di cavorite o cavonna, e che nominassero lui membro della Royal Society e che il suo ritratto andasse in giro sulla rivista «Nature» come quello di una eminente personalità nel mondo scientifico, e cose del genere. Queste erano le sue aspirazioni. Ciò significa che avrebbe lanciato una simile bomba nel mondo come se si fosse trattato della scoperta di una nuova specie di moscerino, se non mi fosse successo di capitargli tra i piedi. E, forse, la scoperta sarebbe rimasta abbandonata o sarebbe fallita, come una delle tante inezie che gli scienziati lasciano sul loro cammino. Appena ebbi compreso di che cosa si trattava, la voglia di parlare venne finalmente a me, e a Cavor toccò di far da semplice ascoltatore, ripetendo la mia vecchia frase «prosegua». Balzai in piedi, e cominciai a camminare su e giù per la camera, con l'animazione e l'entusiasmo di un giovane di vent'anni. Tentai di fargli capire i suoi doveri e le sue responsabilità nella faccenda: i nostri doveri e le nostre responsabilità. Gli assicurai che avremmo potuto arricchire al punto da realizzare ogni genere di rivoluzione sociale che ci fosse passato per il capo, o al punto da governare e possedere il mondo intero. Gli parlai di compagnie, di brevetti e della necessità di mantenere il segreto sul processo di produzione. Ma tutte queste belle cose parvero provocare su di lui l'identica impressione che le formule matematiche avevano prodotto su di me. Il suo viso rubicondo manifestò una perplessità enorme. Balbettò qualcosa circa la sua indifferenza alla ricchezza; ma subito io l'interruppi, non lasciandogli il modo di proseguire. Era inutile balbettare! Egli doveva diventar ricco. E gli feci comprendere che uomo fossi e quale grande esperienza possedessi in materia di affari. Naturalmente, non credetti opportuno dirgli anche della mia posizione di fallito, perché questa, secondo me, non doveva essere che passeggera; ritengo, del resto, di essere riuscito a conciliare la mia evidente indigenza con le mie aspirazioni finanziarie. A poco a poco, quasi insensibilmente, come accade di solito per tali progetti quando vanno a mano a mano sviluppandosi, l'accordo di un monopolio sulla cavorite si stabilì tra noi. Egli avrebbe prodotto la materia prima; io avrei lanciato l'affare. Nella conversazione mi ostinai a non impiegar che il «noi»; l'«io» e il «lei» non esistevano più per me! Egli era dell'idea che i profitti della speculazione dovessero andare a beneficio della ricerca scientifica; ma ciò, naturalmente, si sarebbe deciso poi! - Va bene, va bene! esclamai. L'essenziale stava nell'ottenere l'elemento in questione. - Noi abbiamo una sostanza in mano - continuai, - della quale non potranno fare a meno né case, né fabbriche, né fortezze, né navi; utilizzabile in modo ancor più universale di un medicinale brevettato. Ma questo non è che uno dei suoi aspetti, uno dei suoi diecimila usi possibili, e sarà esso solo più che sufficiente ad arricchirci, Cavor; molto più ricchi del più ardito sogno di un avaro! - Perbacco, - disse. - Comincio a capire. E' straordinario come uno possa formarsi dei nuovi punti di vista, mettendosi a discutere sui problemi! - E ciò avviene in particolare quando ci si rivolge alla persona adatta. - Penso che nessuno, - dichiarò, - sia assolutamente contrario a possedere una grande fortuna. Naturalmente c'è una difficoltà... Tacque d'improvviso, ed io attesi in silenzio, senza muovermi. - E' anche possibilissimo, dopo tutto (è bene che lei lo sappia), che noi non si riesca a fabbricarla! Potrebbe essere una di quelle cose teoricamente possibili, che però in pratica falliscono. Potrebbe anche darsi che nella preparazione sorgesse qualche piccolo ostacolo... - Penseremo all'ostacolo quando si presenterà, - dissi io. 2. LA FABBRICAZIONE DELLA CAVORITE. Ma le apprensioni di Cavor risultavano senza ragione, almeno per quanto aveva attinenza con la fabbricazione della cavorite. Il 14 ottobre 1889, questa incredibile sostanza fu scoperta! Piuttosto stranamente, alla fine essa venne composta per caso, quando Cavor mostrava d'essere impreparato al fenomeno. Egli aveva fuso insieme diversi metalli e certe altre sostanze come desidererei ora di averne conosciuto i particolari! - ed era sua intenzione conservare il miscuglio per una settimana, e quindi lasciarlo raffreddare con lentezza. Salvo errore nei calcoli, l'ultima fase della combinazione si sarebbe dovuta ottenere allorché la miscela avesse raggiunto una temperatura di 15 gradi circa. Senonché, all'insaputa di Cavor, nacque una discussione circa chi dovesse sorvegliare il forno: Gibbs, che se ne era occupato fino allora, cercò di cedere l'incarico all'ex giardiniere, adducendo il pretesto che il carbone faceva parte del suolo, poiché da questo veniva estratto, e che, conseguentemente, non rientrava per nulla nelle mansioni di un falegname; l'ex giardiniere, a sua volta, osservava che il carbone è una sostanza metallica o un minerale, senza poi contare che egli doveva badare alla cucina. Ma Spargus insistette perché Gibbs continuasse nel suo incarico, dal momento che egli era falegname e che il carbone è notoriamente legno fossilizzato. Di conseguenza, Gibbs cessò d'alimentare il forno e nessuno più se ne prese cura; d'altra parte, Cavor era troppo assorto in alcuni interessanti problemi che avevano per oggetto una macchina volante mossa dalla cavorite (trascurando l'attrito dell'aria e uno o due altri particolari) per accorgersi che c'era qualcosa che non andava. La nascita prematura della sua invenzione avvenne così proprio nel momento in cui egli stava attraversando il campo per giungere al mio bungalow per il tè e per la nostra chiacchierata pomeridiana. Rammento quel giorno con una straordinaria lucidità. L'acqua stava bollendo, tutto era pronto e il suo solito borbottio mi aveva richiamato sulla veranda. La sua piccola figura sempre in movimento si delineava, nera, nel tramonto d'autunno; verso destra, i comignoli della sua casa si ergevano oltre le cime di un gruppo di alberi dalle tinte magnifiche. Più lontano, si stagliavano le colline di Wealden, indecise e azzurrognole, mentre, sulla sinistra, si stendeva grande e tranquilla la palude ricoperta di nebbia. Ed ecco... D'un tratto, i comignoli esplosero spezzettandosi in strisce di mattoni e il tetto e una gran quantità di mobili li seguirono. Poi, ecco sollevarsi una immensa fiammata bianca, che avvolse e celò ogni cosa allo sguardo. Gli alberi intorno alla costruzione vennero piegati, divelti e ridotti in pezzi che finirono anch'essi per essere lanciati tra le fiamme. Le mie orecchie vennero colpite da un violento colpo di tuono che mi rese sordo, da una parte, per sempre, mentre, tutt'intorno a me, le finestre si fracassavano, senza che nessuno le avesse toccate. Avevo appena sceso tre dei gradini della veranda, diretto verso la casa di Cavor, quando sopraggiunse lo spostamento d'aria. Immediatamente, le falde del mio vestito mi vennero sollevate sopra il capo, e, indipendentemente dalla mia volontà, mi trovai ad avanzare a salti e a balzi incontro a Cavor. In quello stesso istante anch'egli venne investito, preso come in un vortice e lanciato nell'aria piena di rumore. Vidi uno dei miei camini precipitare al suolo, a meno di sei metri da me, e fui costretto a fare una ventina di salti che mi portarono, a gran velocità. verso l'origine di quel fenomeno. Cavor, scalciando e dibattendosi, precipitò di nuovo, per un attimo venne fatto girare più volte su se stesso, si rimise in piedi penosamente, fu risollevato, trasportato avanti con enorme rapidità: disparve infine tra gli alberi contorti e straziati, che si piegavano intorno alla sua casa. Una massa di fumo e di cenere e un blocco di sostanza bluastra e luccicante vennero scagliati verso lo zenit. Un gran frammento del recinto volò sopra di me, cadde di sbieco e si schiacciò al suolo; e l'attimo più terribile poté dirsi superato. La perturbazione atmosferica diminuì rapidamente fino a divenire semplicemente una forte burrasca e ancora una volta potei costatare che respiravo e mi trovavo ancora in piedi. Volgendo il dorso al vento, riuscii a fermarmi ed a raccogliere le poche idee che mi restavano. In quei pochi secondi, l'aspetto intero della zona era cambiato. Il tramonto tranquillo del sole era scomparso, il cielo era offuscato da nubi minacciose: tutto era stato sconvolto, turbato dalla tempesta. Gettai uno sguardo alle mie spalle per vedere se il mio bungalow fosse ancora in piedi, poi avanzai, traballando, verso gli alberi tra i quali Cavor era scomparso; attraverso i loro rami, ora spogli, splendevano le fiamme della casa incendiata. Entrai nel bosco, scavalcando i tronchi e aggrappandomi ad essi, ma le mie ricerche per un po' furono vane. Finalmente, in mezzo a un viluppo di rami e di frammenti del recinto, che era stato scaraventato vicino al muro del giardino, intravidi qualcosa che si muoveva; corsi verso quel punto, ma, prima ancora che vi fossi giunto, ne venne fuori una massa brunastra, che si rizzò su due gambe infangate, protese le mani supplichevoli e sanguinanti. Alcuni lembi del vestito svolazzavano ancora intorno alla parte centrale di quella massa, agitati dal vento. In un primo momento, non riuscii a riconoscere quell'essere argilloso; poi vidi che si trattava di Cavor, tutto ricoperto del fango nel quale era andato a rotolare. Egli si chinò per resistere al vento, strofinandosi gli occhi e la bocca per sbarazzarli della terra che li ricopriva. Mi tese una mano informe e fangosa, e mosse un passo, barcollando verso di me. Il suo viso, dal quale si andavano staccando piccole scaglie di fango, era sconvolto per l'emozione. Sembrava l'essere più malconcio e degno di compassione che avessi mai visto, e la prima frase che mi rivolse mi lasciò francamente stupefatto. - Si congratuli con me, - balbettò, - si congratuli con me! - Congratularmi con lei! - dissi. - Santo cielo, e perché mai? - Ce l'ho fatta! - Ce l'ha fatta! Ma che cosa diavolo ha provocato quest'esplosione? Un colpo di vento mi impedì di udire chiaramente le sue parole. Compresi però che egli aveva detto che non si era trattato affatto di un'esplosione. Una raffica di vento mi lanciò contro di lui; rimanemmo, così, aggrappati l'uno all'altro. - Tentiamo di rientrare in casa mia, - gli gridai all'orecchio. Non mi comprese e mi gridò a sua volta qualche cosa come queste parole: «Tre martiri... scienza» e qualcosa come: «Non erano delle gran teste». In quel momento egli credeva che i suoi tre aiutanti fossero morti nel turbine. Fortunatamente si sbagliava. Non appena egli era uscito per venire a casa mia, di comune accordo si erano recati nell'unica osteria di Lympne per discutere la questione del forno davanti a qualcosa di fresco da bere. Ripetei l'invito di andare a casa mia e questa volta egli comprese. Ci aggrappammo l'uno all'altro, tenendoci a braccetto, e ci movemmo riuscendo alla fine a rifugiarci sotto quel po' di tetto che mi restava. Rimanemmo per un po' ansimanti, sprofondati nelle poltrone. Tutti i vetri erano rotti, e i mobili più piccoli sottosopra; tuttavia non vi erano danni irreparabili. Fortunatamente, la porta della cucina aveva resistito e il mio vasellame ed i miei utensili erano rimasti intatti. La macchinetta a spirito ardeva ancora e vi posi sopra dell'acqua a bollire per il tè. Ciò fatto, potei ascoltare le spiegazioni di Cavor. - Tutto bene, tutto bene, - seguitava a ripetere. - Ce l'ho fatta, e tutto va bene. - Come, - protestai, - tutto bene! Ma se non c'è né un mucchio di fieno, né un recinto, né un tetto di paglia che non siano rimasti danneggiati in un raggio di trenta chilometri... - Ma sì, davvero, va tutto bene. Naturalmente non avevo previsto questo piccolo sconvolgimento. La mia mente era occupata in un altro problema, ed io trascuro di solito queste conseguenze pratiche marginali. Ma tutto va bene... - Non vede dunque, caro signore, - gli gridai, - che ha prodotto qualche migliaio di sterline di danni? - Quanto a ciò, mi rimetto alla sua discrezione. Io non sono un uomo pratico, certamente; ma non le pare che tutti riterranno che si sia scatenato un ciclone? - Ma l'esplosione... - Non c'è stata esplosione. E' semplicissimo; solo, come già le ho detto, io sono portato a trascurare queste piccolezze. E' un po' come il mio borbottio su scala più vasta. Inavvertitamente, ho fabbricato questa sostanza, la cavorite, sotto forma di un foglio largo e sottile... Si fermò. - Capisce dunque che questa nuova sostanza è opaca alla gravitazione, che impedisce alle cose di esercitare la forza di gravità le une verso le altre? - Sì, sì, - risposi. - Ebbene! Non appena essa ha raggiunto la temperatura di 15 gradi circa, e il processo della sua fabbricazione si è completato, l'aria, che le stava sopra, così come parte del soffitto, del pavimento e di tutto ciò che le si trovava al di sopra, hanno cessato di essere pesanti. Suppongo che lei sappiapoiché nessuno ormai, più lo ignora - che l'aria è pesante e che esercita una pressione su tutto ciò che si trova sulla superficie della terra, una pressione in ogni direzione di un chilogrammo e mezzo su ogni centimetro quadrato. - Sì, lo so. Continui. - Anch'io lo so, - egli precisò. - Ma intanto ciò le può dimostrare come sia inutile il sapere una cosa, se essa non viene applicata in pratica. Ora, lei comprende, con la nostra cavorite è avvenuto proprio questo. L'aria, sopra di essa, cessò di esercitare una pressione, ma tutto all'ingiro continuò a pesare nelle medesime proporzioni di prima sull'altra aria rimasta d'un tratto priva di peso. Ah! Comincia a comprendere... L'aria che circondava la cavorite schiacciò con una forza irresistibile quella, improvvisamente priva di peso, che si trovava sopra il foglio; quest'ultima fu spinta in alto con violenza e quella che si precipitava ad occupare il suo posto, perduto immediatamente il suo peso, cessò d'esercitare ogni pressione, seguì l'altra, sfondò il soffitto e fece saltare per aria il tetto... «Capisce, - continuò, - ciò ha formato una specie di getto atmosferico, qualcosa come un camino nell'atmosfera. Se la cavorite non fosse rimasta libera e quindi aspirata su per tale camino, si immagina che cosa sarebbe avvenuto?» Mi misi a pensare. - Suppongo, - risposi, - che l'aria starebbe ancora continuando a salire a tutta velocità sopra quella materia infernale. - Precisamente, - egli confermò. - Come un enorme getto d'acqua... - Che attraversa lo spazio! Dio mio! Ma ciò avrebbe aspirato e lanciato via tutta l'atmosfera della terra! Avrebbe rubato tutta l'aria del mondo! Sarebbe stata la morte dell'intero genere umano! E tutto per quel pezzetto di sostanza! - Non avrebbe esattamente attraversato lo spazio, - disse Cavor, - ma, in pratica, non sarebbe stato meglio davvero. Avrebbe tolto via l'aria che circonda la terra così come si sbuccia una banana, e l'avrebbe lanciata a migliaia di chilometri. Sarebbe ricaduta, naturalmente, ma sopra un mondo asfissiato! Dal nostro punto di vista, sarebbe stato perciò come se non fosse ritornata mai più. Lo guardai stupefatto; ero ancora troppo stordito per comprendere fino a qual punto tutte le mie speranze fossero sconvolte. - Che cosa conta di fare adesso? - domandai. - In primo luogo, se lei mi presta una paletta da giardiniere, mi leverò un po' di questo fango che mi ricopre; poi, se mi permetterà di servirmi del suo bagno, mi laverò. Dopo ciò, potremo discorrere finché vorremo. Io penso che sarebbe bene, disse, posando sul mio braccio una mano fangosa, - non parlare con nessuno di questa faccenda. So bene di aver causato gravi danni... Probabilmente diverse abitazioni saranno state devastate qua e là nella zona. D'altra parte, non è pensabile che io possa risarcire i danni che ho provocato, e, se si giungesse a saperne la vera causa, ciò potrebbe provocare soltanto animosità ed ostacoli per il mio lavoro. Tutto non si può prevedere, capisce, ed io non posso, nemmeno per un istante, aggiungere alle mie teorie l'imbarazzante peso di considerazioni materiali. Più tardi, quando interverrà lei con il suo spirito pratico, quando la cavorite sarà lanciata - "lanciata" è la parola giusta, vero? - e si saranno così realizzate tutte le cose che lei prevede, allora potremo sistemare ogni cosa con questa gente. Ma non ora... non ora. Se non viene data alcun'altra spiegazione, date le poco soddisfacenti risposte presentate oggi dalla meteorologia, tutto questo verrà messo in conto a qualche uragano. Si giungerà, forse, sino ad aprire una sottoscrizione pubblica, e, dato che anche la mia casa è stata rovesciata e bruciata, io stesso riceverò, spero, una forte indennità che sarà utilissima per proseguire le nostre ricerche. Se invece si viene a sapere che sono stato io ad aver causato tutto questo disastro, non solo non vi sarà più la sottoscrizione pubblica, ma tutti mi si scateneranno contro furibondi. E questo sarebbe gravissimo. Praticamente, non potrei più trovare il modo di lavorare in pace. I miei tre aiutanti possono essere morti e possono essere vivi; questo è un particolare secondario. Se sono morti, la perdita non è grande; avevano più zelo che capacità, e questo prematuro avvenimento è senza dubbio in gran parte dovuto alla loro negligenza per quanto riguarda la fornace. Se non sono morti, dubito assai che essi abbiano abbastanza intelligenza per spiegare la cosa. Accetteranno l'ipotesi del ciclone. E se, fino a quando la mia casa sarà inabitabile, lei mi permetterà di occupare una delle stanze vuote del suo bungalow... Tacque e mi guardò. Un uomo dotato di tali capacità, pensavo, non poteva davvero essere un ospite di tutto riposo. - Forse, - dissi, alzandomi in piedi, - faremmo meglio, se ci mettessimo subito in cerca di una paletta da giardiniere. - E gli feci strada fino alle rovine della serra. Mentre faceva il bagno, esaminai fra me e me la questione. Era chiaro che la compagnia del signor Cavor faceva prevedere inconvenienti che io non avevo immaginato. L'imperdonabile distrazione che aveva fatto correre il rischio di sterminare il globo terrestre avrebbe potuto ad ogni minuto causare guai anche peggiori. D'altra parte, ero giovane: i miei affari erano un pasticcio; mi sentivo dunque proprio disposto a tentare turbolente avventure che, forse, avrebbero potuto andare bene. Avevo subito pensato che avrei avuto per lo meno la metà di ciò che l'affare avrebbe potuto rendere. Per fortuna, occupavo il mio bungalow, come ho già spiegato, con un contratto di tre anni, senza obbligo di riparazioni; e quel po' di mobilio che c'era l'avevo preso a credito, e non l'avevo ancora pagato. L'avevo però assicurato; quindi ero fuori di ogni pericolo. Finalmente, decisi di rimanere con Cavor e di andare fino in fondo. Certo, l'aspetto delle cose era molto cambiato; non dubitavo più delle enormi possibilità che offriva la sostanza, ma cominciavo a nutrire qualche dubbio per quanto riguardava la realizzazione del trasporto di cannoni e delle scarpe brevettate. Ci mettemmo subito all'opera per ricostruire il suo laboratorio e per proseguire i nostri esperimenti. Cavor prese a parlare in modo assai più comprensibile per me di quanto non avesse fatto prima; soprattutto quando si trattò di tornare a fabbricare la nuova sostanza. - Naturalmente, bisogna rifabbricarla, - disse con una certa allegria che non mi sarei aspettata in lui. - Questo è certo, bisogna rifabbricarla...! Abbiamo provocato un inferno, forse, ma abbiamo superato una volta per sempre la parte teorica. Eviteremo così, se possibile, la distruzione del nostro piccolo pianeta. Ma pericoli bisogna pur che ve ne siano! Bisogna! Nei lavori sperimentali ve ne sono sempre. E a questo punto, tocca a lei entrare in azione, nella sua qualità di uomo pratico. Per parte mia, mi sembra che si potrebbe forse ottenerla in fogli sottilissimi nel senso della lunghezza. Tuttavia, non so ancora; ho la vaga idea di un altro metodo che mi è difficile spiegare per ora. Cosa abbastanza strana, mi si è affacciato alla mente quando il vento mi stava facendo rotolare nel fango (ed ero assai incerto sulla riuscita dell'avventura) e sono assolutamente convinto che sia il metodo giusto, che avrei già dovuto adottare. Nonostante tutta la mia buona volontà, ci trovammo davanti a molti ostacoli; ci ostinammo tuttavia a riedificare il laboratorio. Dovevamo fare molte cose prima di poter decidere sul metodo e sulla forma precisa della nostra seconda prova. L'unica seccatura proprio seria fu lo sciopero dei tre aiutanti, i quali non volevano che io prendessi il posto di ispettore. Ma, dopo due giorni di colloqui, si venne ad un accordo. 3. LA COSTRUZIONE DELLA SFERA. Ricordo molto chiaramente la circostanza in cui Cavor mi espose la sua idea circa la sfera. Egli ne aveva già avuto in precedenza qualche intenzione, ma quella volta l'idea sembrò accendersi in lui improvvisamente. Stavamo tornando al bungalow per il tè, quando, per la strada, egli interruppe il suo solito brontolio. A un tratto gridò: - Ecco! E' fatta! Una specie di tenda avvolgibile! - Fatta che cosa? - domandai. - Lo spazio... dovunque! La luna. - Ma che cosa dice? - Che cosa dico? Perbacco... deve essere una sfera! Questo voglio dire! Mi resi conto che non comprendevo quanto diceva, e, per un po', lasciai che parlasse a suo modo. Non avevo la più pallida idea di dove volesse arrivare. Dopo che avemmo preso il tè, egli mi chiarì quanto andava dicendo. - La cosa sta così, - egli disse. - L'ultima volta, ho fuso questa sostanza che sottrae gli oggetti alla gravitazione in un recipiente piatto, munito di coperchio. Appena si fu raffreddata, avvenne tutto quel po' po' di fracasso. Nulla di quanto le stava sopra aveva più alcun peso. L'aria schizzò in alto, la casa la seguì e, se anche la sostanza non fosse schizzata via, non so che cosa sarebbe successo! Ma supponiamo che la sostanza sia fluttuante e completamente libera di elevarsi. - Si alzerà subito! - Precisamente! Senza produrre un rumore più forte di un colpo di cannone. - Ma a che cosa potrà servire? - A farmi alzare con lei. Posai la mia tazza, e lo fissai. - Immagini una sfera grande a sufficienza da poter contenere due persone con i loro bagagli. Dovrebbe essere fatta d'acciaio e rivestita internamente di vetro spesso; dovrebbe contenere una sufficiente riserva d'aria solidificata, alimenti concentrati, acqua, un apparecchio per distillazione e così via; il rivestimento esterno di acciaio dovrebbe essere smaltato... - Di cavorite? - Appunto! - Ma in che modo penetrerà poi nell'interno? - E' un problema di una semplicità infantile. - Ne sono convinto. Ma come? - In modo facilissimo. Basterà per questo un'apertura pneumatica. Naturalmente, dovrà essere un po' più perfezionata, dovrà essere munita di una valvola per permettere, in caso di bisogno, di gettar fuori qualcosa senza eccessiva perdita d'aria. - Come il proiettile di Jules Verne, in "Dalla terra alla luna"? Ma Cavor non aveva mai letto un tal genere di romanzi. - Comincio a comprendere, - dissi lentamente. - Lei entrerà e si chiuderà dentro, mentre la cavorite è ancora calda: appena si sarà raffreddata, essa diventerà impenetrabile alla gravitazione, ed ecco che lei potrà partire... - Per la tangente. - Partirà in linea retta... - Mi fermai bruscamente. - Ma che cosa impedisce alla sfera di viaggiare per sempre in linea retta attraverso lo spazio? - domandai. - Lei non può essere sicuro di arrivare in qualche luogo; e, anche ammesso che ciò possa accadere, come potrebbe tornare indietro? - Ci ho già pensato, - rispose Cavor. - Ecco ciò che volevo dire quando ho esclamato che la cosa era fatta. La sfera interna di vetro sarà a prova d'aria e, tranne l'apertura, in un solo pezzo; la sfera d'acciaio, invece, sarà divisa in sezioni, ciascuna delle quali sarà avvolgibile, come una tenda avvolgibile, appunto. Si potrebbe farle funzionare facilmente mediante delle molle, aprirle e chiuderle per mezzo dell'elettricità trasmessa da fili di platino fusi nel vetro. Tutto ciò non è che una questione di particolari. Vede dunque che, a parte lo spessore di queste tende avvolgibili, l'esterno in cavorite della sfera consisterà tutto di finestre o di tende, come preferisce chiamarle. Quando tutte queste finestre saranno ermeticamente chiuse, né luce, né calore, né gravitazione, né energia radiante di alcun genere potranno penetrare nell'interno della sfera; essa volerà attraverso lo spazio in linea retta, come ha detto lei. Ma apra una finestra... Immagini una delle finestre aperta! Immediatamente, allora, qualunque corpo pesante che si trovi nei nostri paraggi ci attirerà... Sedetti, cercando di comprendere meglio. - Capisce? - egli chiese. - Oh! Sì, capisco. - In pratica, ci sarà facile girare e arrivare nello spazio a nostro piacimento, essere attratti da questo o da quello. - Oh! Sì. E' abbastanza chiaro; soltanto... - Che cosa? - Non vedo lo scopo di tutto ciò. Non servirebbe ad altro, mi pare, che a fare un salto fuori del mondo, per poi ripiombarvi. - Certamente! Per esempio, si potrebbe andare sulla luna. - E, quando si fosse andati fin là, che cosa vorrebbe trovarci? - Vedremo! Pensi un po' a tutte le nuove cognizioni! - Ma c'è aria sulla luna? - E' possibile. - E' una bell'idea, - dissi. - Sarà però un'impresa assai difficile. La luna! Veramente, preferirei dedicarmi a qualcosa di un po' più modesto, prima. - E' impossibile, a causa del problema dell'aria. - Perché non applicare quest'idea di tende a molla - tende di cavorite in solide armature di acciaio - per sollevare pesi? - Non funzionerebbe, - insisté. - Dopo tutto, viaggiare nello spazio non è certamente impresa peggiore di una spedizione polare. Eppure, molti si dedicano a tali spedizioni. - Non degli uomini d'affari; d'altra parte, essi sono pagati per questo e, se incontrano qualche difficoltà, altre spedizioni sono inviate in loro soccorso... Ma questo... questo è semplicemente uno slanciarsi fuori del mondo per nulla. - Per fare delle scoperte! - Lo chiami così... Forse si potrebbe farne poi un libro, dissi. - Sono sicuro che vi saranno minerali, - disse Cavor. - Per esempio? - Oh! Zolfo, oro forse, e magari dei nuovi elementi. - E le spese di trasporto, - dissi. - Lei non è proprio un uomo pratico, sa! La luna si trova ad oltre trecentomila chilometri da noi. - Mi sembra che non dovrebbe costare molto il trasportare ovunque un qualsiasi peso, basta che lo si racchiuda in un imballaggio di cavorite. Non avevo pensato a ciò. - Consegnato gratis sulla testa del destinatario, vero? - E poi, non saremo certo limitati alla luna. - Cioè? - Vi è Marte... atmosfera limpida, nuovi paesaggi, una sensazione piacevolissima di leggerezza. Sarebbe divertente andarci. - C'è aria su Marte? - Certamente. - Ne parla come se dovesse aprirvi un sanatorio. Ma, a proposito, quanto dista Marte? - Trecento milioni di chilometri, nella posizione attuale, rispose Cavor in tono allegro. - Molto vicino al sole! La mia immaginazione cercava di riprendersi ancora una volta. Dopo tutto, - osservai, - c'è qualcosa in queste proposte. Fare un viaggio simile... Improvvisamente una straordinaria possibilità mi balenò innanzi. Ed ecco che vidi, come in un sogno, l'intero sistema solare percorso da astronavi e da sfere "de luxe" di cavorite. «Diritti di prelazione», fu il ritornello che cominciò a fluttuarmi nella mente... «diritti di prelazione interplanetaria.» E ripensavo all'antico monopolio spagnolo sull'oro delle Americhe. Adesso, non si trattava più soltanto di questo o di quel pianeta, ma di tutti! Fissai la faccia rubiconda di Cavor; la mia fantasia incominciò a correre sfrenatamente. Mi alzai e presi a camminare in lungo e in largo; la mia lingua si sciolse come per incanto. - Comincio a vederci chiaro, - esclamai; - comincio proprio a vederci chiaro! - Il passaggio dal dubbio all'entusiasmo era avvenuto in un attimo. - Ma è straordinario! - andavo gridando. - E' enorme! Non avrei potuto immaginare una cosa simile! Appena scomparsa la freddezza della mia prima opposizione, la sovreccitazione di Cavor, già contenuta per un poco, non ebbe più freni. Anch'egli si alzò e si mise a misurare la stanza a grandi passi, gesticolando e parlando ad alta voce. Sembravamo uomini ispirati: eravamo uomini ispirati. - Rimedieremo a tutto ciò, - egli affermò in risposta ad alcune difficoltà secondarie che mi avevano colpito. - Vi rimedieremo al più presto. Cominceremo i disegni per i modelli subito, questa sera stessa. - Li cominceremo immediatamente, - risposi; e ci precipitammo verso il laboratorio per metterci subito all'opera. Fui per tutta la notte come un bimbo nel Paese delle Meraviglie. L'alba ci sorprese ancora occupati al lavoro; nonostante fosse già giorno fatto, tenevamo ancora accesa la luce elettrica. Ricordo esattamente l'aspetto di quei disegni. Io ombreggiavo e davo i colori, mentre Cavor disegnava: erano fatti in fretta e quasi scarabocchiati, ma risultarono miracolosamente precisi. Dopo quella notte di lavoro, potemmo ordinare le intelaiature e le tende d'acciaio che ci sarebbero occorse; la sfera di vetro fu disegnata in meno di una settimana. Lasciammo da parte le nostre conversazioni del pomeriggio e il sistema di vita dei tempi precedenti; lavoravamo senza tregua; dormivamo e mangiavamo soltanto quando la stanchezza e la fame ci impedivano di continuare. Il nostro entusiasmo finì per comunicarsi anche ai nostri tre aiutanti, quantunque essi non avessero la minima idea dell'uso cui la sfera era destinata. In quei giorni Gibbs non camminava nemmeno più, ma si recava dovunque sempre correndo, persino quando doveva soltanto attraversare la stanza. La sfera procedeva rapidamente. Trascorsero come in un soffio dicembre, gennaio - dovetti impiegare una giornata intera, armato di scopa, per aprire in mezzo alla neve un piccolo sentiero che portasse dal bungalow al laboratorio - febbraio e marzo. Verso la fine di marzo, i lavori stavano per essere conclusi. In gennaio, un'enorme cassa era stata portata da un carro tirato da più cavalli; ora la nostra sfera di spesso vetro era pronta, già in posizione sotto la gru predisposta per collocarla nella sua custodia d'acciaio. Tutte le sbarre e le tende dell'ossatura d'acciaio (in realtà non si trattava di un involucro sferico, bensì poliedrico, munito di tende avvolgibili su ognuna delle facce) erano giunte in febbraio; la parte inferiore era già montata. La cavorite in marzo era quasi finita. La pasta metallica era già passata per due stadi diversi; le sbarre e le tende d'acciaio ne erano già in parte rivestite. Era sorprendente vedere come ci attenevamo strettamente alle indicazioni della prima ispirazione di Cavor nella realizzazione dell'opera. Quando il montaggio della sfera fu finito del tutto, egli propose di demolire il tetto rustico del laboratorio provvisorio, in cui il lavoro veniva eseguito e di costruire un forno all'ingiro. Così, l'ultima fase della fabbricazione della cavorite, in cui la pasta viene riscaldata fino a divenire di un colore rosso cupo in una corrente di elio, si sarebbe compiuta quando la sostanza era già stesa sulla sfera. Si dovette allora discutere e decidere quali provviste avremmo dovuto recare con noi: alimenti pressati, essenze concentrate, cilindri d'acciaio contenenti una riserva d'ossigeno, un apparecchio per eliminare l'acido carbonico e i gas di scarico dell'aria e rifornirla di ossigeno per mezzo del perossido di sodio, condensatori d'acqua ed altri strumenti. Ricordo il mucchio che quegli oggetti formavano in un angolo: casse, rotoli, scatole, un insieme di cose veramente molto prosaiche. Fu, quello, un periodo di fatiche enormi, durante il quale restava ben poco tempo per riflettere. Ma un giorno, mentre già si approssimava la fine dei nostri preparativi, mi sentii improvvisamente in uno stato d'animo strano. Dopo avere per tutta la mattinata murato mattoni per il forno, ero stato costretto a sedermi, affranto dalla fatica, vicino al mio lavoro. Tutto mi sembrava triste e incredibile. - Ma mi dica un po', Cavor, - dissi, - in fin dei conti, a che cosa potrà mai servire questo nostro lavoro? Egli sorrise. - Importante, ora, è partire. - La luna! - esclamai pensoso. - Ma che cosa mai si può aspettare? Io credevo che la luna fosse un mondo morto. Egli alzò le spalle. - Stiamo per andare a vederlo. - Lo stiamo proprio, eh? - dissi guardando fisso dinanzi a me. - Lei è stanco, - egli osservò; - farebbe meglio a fare una passeggiata, questo pomeriggio. - No, - risposi con ostinazione; - voglio finire questo muro. E così feci, procurandomi in tal modo una notte insonne. Non ritengo di aver mai passata una notte simile. Ne avevo trascorse di brutte prima del mio tracollo finanziario, ma la peggiore di quelle era stata un dolce dormire paragonata a quella serie infinita di risvegli dolorosi. Di colpo ero stato preso dal terrore di ciò che stavamo per intraprendere. Non ricordo di aver mai pensato, prima di quella notte, ai rischi che stavamo per correre. Mi si affacciavano alla mente, adesso, come quelle torme di spettri che un tempo assediarono Praga. La stranezza di quanto stavamo per fare e la sua assurdità mi opprimevano. Ero come uno che, svegliato da sogni dorati, si ritrovi piombato nella più orribile realtà. Giacevo disteso a occhi spalancati; la sfera pareva divenire a poco a poco più confusa ed evanescente, Cavor sempre più irreale e fantastico, e l'intera impresa più pazza ad ogni minuto. Saltai giù dal letto e incominciai a camminare per la stanza; poi sedetti vicino alla finestra, contemplando l'immensità dello spazio. Gli astri brillavano nel vuoto; intorno ad essi le tenebre inscrutabili! Tentai di ricordare qualche nozione acquisita nelle mie irregolari letture, ma esse erano troppo vaghe per darmi un'idea di quello che potevamo aspettarci. Finalmente, mi ricoricai, ed ebbi alcuni momenti di sonno, o, piuttosto, di incubo, durante il quale mi parve di cadere, cadere, cadere per sempre negli abissi del cielo. A colazione feci restare stupefatto Cavor, dicendogli brevemente: - Non parto più con lei nella sfera. Accolsi tutte le sue proteste con aspra ostinazione. - E' troppo una pazzia, e non voglio prendervi parte, - dissi. - E' troppo una pazzia! Non volli accompagnarlo al laboratorio. Passeggiai per un po' senza scopo intorno al mio bungalow; poi, preso il cappello e il bastone, me ne uscii da solo a zonzo. Il mattino, per caso, era splendido; c'era un tiepido venticello, il cielo era di un azzurro profondo; il primo verde della primavera incominciava a mostrarsi, una quantità di uccelli cantava. Feci colazione con del manzo e della birra in una piccola trattoria vicino a Elham, dove allarmai il proprietario, esclamando, a proposito del tempo: - Un uomo che lasci il mondo quando si hanno delle giornate simili non può che essere pazzo! - E' proprio quello che ho risposto quando me ne hanno parlato!- osservò il proprietario; venni così a sapere che per un povero diavolo, almeno, questo mondo si era dimostrato troppo crudele, e che quello si era tagliato la gola proprio lì. Ripresi il mio cammino con un nuovo argomento da meditare. Nel pomeriggio potei gustare qualche ora di riposo sull'erba, al sole, continuando poi la mia strada rinvigorito. Arrivai ad una locanda, presso Canterbury, che sembrava abbastanza confortevole; la facciata era tutta rivestita di piante rampicanti; la proprietaria era una vecchietta di piacevole aspetto. Avevo con me giusto il denaro sufficiente per pagarmi il pernottamento e decisi di fermarmi lì per quella notte. La vecchia era molto loquace; tra gli altri particolari, seppi che ella non era mai stata a Londra. - Il posto più distante dove io sia stata è Canterbury, - disse. - Oh! Io non sono davvero una vagabonda come tanti al giorno d'oggi! - Che cosa ne direbbe di una gita sulla lunale ? chiesi. - Non ho mai avuto fiducia nei palloni, - rispose, credendo che alludessi evidentemente a una delle solite ascensioni. Non ci salirei per nulla al mondo! Questo suo modo di vedere la faccenda mi sembrò abbastanza divertente. Dopo cena, seduto su una panca vicino alla porta della locanda, m'intrattenni a chiacchierare con due operai, di mattoni, di automobili e del campionato di cricket dell'anno precedente. Nel cielo, un debole chiarore, vago ed azzurro come un monte lontano, andava intensificandosi verso ovest, sulla traccia del sole. Il giorno seguente ritornai da Cavor. - La accompagno, dissi. - Sono stato un po' sfasato, ma ormai è passata. Fu quella la sola volta che provai dei seri dubbi circa la nostra impresa. Questione di nervi, semplicemente! In seguito, lavorai con un po' più di regola, facendo ogni giorno un'ora di moto. E finalmente, a parte il riscaldamento nel forno, i lavori poterono dirsi compiuti. 4. NELLA SFERA. - Partiamo, - disse Cavor, mentre sedevo a cavalcioni sul bordo del portello d'ingresso della sfera, guardandone l'interno buio. Eravamo soli. Era sera, il sole era tramontato, e la tranquillità del crepuscolo era sopra ogni cosa. Infilai l'altra gamba nell'interno e mi lasciai scivolare giù, lungo la superficie liscia del vetro, fin sul fondo della sfera, poi mi voltai per prendere le scatole dei cibi e gli altri colli che Cavor mi passava. L'interno era caldissimo, il termometro segnava 60 gradi circa, e dato che dovevamo perdere poco o nulla del calore per radiazione, avevamo calzato pantofole e indossato abiti di flanella sottile. Tuttavia, per precauzione, ci eravamo muniti di pesanti vestiti di lana e di parecchie coperte; in base agli ordini di Cavor, disposi i pacchi, i cilindri d'ossigeno e gli altri bagagli in vari posti, ai miei piedi, e ben presto tutto fu in ordine; Cavor girò qua e là per l'ultima volta nel capannone senza tetto per verificare se per caso nulla fosse stato dimenticato. Poi venne a raggiungermi; vidi che teneva in mano qualcosa. - Che cos'ha lì? - domandai. - Lei non ha preso nulla da leggere? - chiese a sua volta. - Oh Dio, no! - Ho dimenticato di dirglielo. Non siamo sicuri... Il viaggio può essere lungo... Potremmo stare delle settimane... - Ma... - Fluttueremo nella sfera senza assolutamente niente da fare. - Se l'avessi saputo... Egli mise fuori la testa dall'apertura. - Guardi! - disse. Ecco là qualche cosa ! - Ma c'è tempo? - Ne abbiamo ancora per un'ora. Guardai fuori a mia volta. Si trattava di un vecchio numero del «Tit-Bits», dimenticato forse da uno dei nostri uomini; più lontano, in un angolo, vidi un fascicolo del «Lloyd's News». Presi il giornale e il fascicolo e riscivolai dentro la sfera. E lei, che cos'ha portato? - domandai. Presi il volume dalle sue mani e lessi: "Opere complete" di William Shakespeare. Arrossì leggermente. - La mia educazione fu così puramente scientifica... - disse, come per scusarsi. - Non l'ha mai letto? - Mai. - Era uno scrittore un po' singolare, sa... - E' proprio quanto mi hanno detto, - assentì Cavor. Lo aiutai a stringere le viti del coperchio di vetro; dopo di che, non appena egli, premendo un bottone, ebbe calata la tenda nella parte esterna, il piccolo rettangolo di tenue luce disparve. Rimanemmo al buio. Per un po' di tempo nessuno osò parlare. Sebbene la nostra prigione non fosse impenetrabile ai suoni esterni, tutto era immerso nel più profondo silenzio. Costatai che non avremmo potuto afferrarci a nulla per restare in piedi al momento della scossa della partenza e mi resi conto nello stesso tempo che mi sarei trovato a disagio senza sedie. - Perché non abbiamo portato con noi delle sedie? - domandai. - Vi avevo pensato, - rispose Cavor. - Non ne avremo bisogno. - E perché? - Vedrà! - disse in tono che non ammetteva replica. Tacqui. Ad un tratto pensai fra me che ero stato proprio pazzo a farmi rinchiudere in quella sfera. «E' forse troppo tardi adesso per ritirarmi?», chiesi a me stesso. Il mondo, fuori della sfera, mi sarebbe apparso, lo sapevo, freddo e inospitale - per settimane ero vissuto grazie all'aiuto di Cavor - ma, dopo tutto, sarebbe proprio stato per me freddo come lo zero infinito e inospitale come lo spazio vuoto? Se non fosse stato il timore di apparire pusillanime, credo fermamente che, a quei pensieri, mi sarei fatto rendere la libertà. Rimasi invece esitante, in attesa di non so che cosa, inquieto, irritato, e così il tempo passò. A un tratto, una piccola scossa, un rumore simile a quello di un tappo di champagne che salti in aria in una stanza vicina, poi un leggero sibilo. Per un breve istante, ebbi la sensazione di essere schiacciato da un peso enorme, la convinzione passeggera che i miei piedi premessero il pavimento con una forza di parecchie tonnellate. Fu cosa di un attimo. Bastò tuttavia per farmi agire. - Cavor! - chiamai nell'oscurità, - ho i nervi che stanno per cedere... Non credo... Mi fermai. Egli non rispose. - Al diavolo! - gridai. - Sono un imbecille! Perché dovrei restar qui? Io non parto, Cavor! La cosa è troppo rischiosa. Voglio andarmene fuori ! - Impossibile! - disse. - Impossibile? Lo vedremo subito! Per dieci secondi non rispose. - E' troppo tardi ormai per litigare, Bedford, - disse poi. - La piccola scossa di poco fa era la partenza. Adesso stiamo volando con la velocità di un proiettile nella voragine dello spazio. - Io... io... - balbettai. Dopo di che, mi sembrò che quanto poteva ancora succedere non mi avrebbe più interessato. Per un certo tempo rimasi stordito, senza saper che cosa dire: come se non avessi ancora sentito parlare del progetto di abbandonare la terra. Poi cominciai ad avvertire uno strano quanto inesplicabile mutamento nelle mie sensazioni corporee: un senso di leggerezza, qualcosa di irreale. A ciò si aggiungeva una strana sensazione nella testa, simile a quella prodotta da un colpo apoplettico, con pulsazioni violente dei vasi sanguigni nelle orecchie. Il tempo passava, frattanto, ma nessuna di queste perturbazioni fisiche andava diminuendo; alla fine, però, mi ci abituai tanto da non provarne più fastidio. Sentii uno scatto, ed una lampadina ad incandescenza venne accesa. Vidi che Cavor era pallidissimo in volto, così come io stesso sentivo di essere. Ci guardammo in silenzio. L'oscurità trasparente del vetro che era dietro di lui lo faceva sembrare sospeso nel vuoto. - Ci siamo, dunque, - dissi. - Sì, - confermò, - ci siamo. - Non si muova! - comandò subito dopo, vedendo che io stavo per fare dei gesti. - Tenga i muscoli completamente rilassati, come se fosse a letto. Ci troviamo in un piccolo universo tutto nostro. Guardi quegli oggetti! E mi indicò con il dito le scatole e le casse che avevamo deposto sulle coperte, nella parte inferiore della sfera. Con grande stupore costatai che esse fluttuavano a una trentina di centimetri dal soffitto della sfera. Vidi allora, dall'ombra proiettata, che anche Cavor non stava più appoggiato contro il vetro. Mi passai un braccio dietro la schiena, e mi accorsi che anche io ero sospeso nello spazio, senza toccare in alcun punto la parete di vetro. Non ebbi né un grido né un gesto, ma fui scosso da un brivido di paura. Era come se fossi tenuto sollevato da qualcosa d'ignoto. Il semplice contatto della mia mano contro la parete provocava un mio rapido movimento. Compresi di che cosa si trattava, ma non per questo la mia paura diminuì. Noi non eravamo più soggetti alla legge della gravitazione esterna; solo l'attrazione degli oggetti contenuti nella nostra sfera aveva effetto. Di conseguenza, tutto ciò che non era fissato al vetro cadeva, lentamente a causa dell'esiguità delle nostre masse, verso il centro di gravità del nostro piccolo mondo, che sembrava essere in qualche punto verso il centro della sfera, ma piuttosto nella mia direzione che non in quella di Cavor, a causa del mio maggior peso. - Dobbiamo voltarci, - disse Cavor, - e fluttuare, schiena contro schiena, con questi oggetti tra noi. Quel fluttuare liberamente nello spazio fu per me la più strana sensazione che mi fosse mai capitato di provare. Dapprima fui preso da uno strano orrore, che scomparve però quasi subito, lasciando subentrare una sensazione per nulla sgradevole ed estremamente riposante. L'unico paragone che io possa fare con le cose terrene conosciute è il riposare sopra un alto e morbido letto di piume; ma che senso di totale distacco e di indipendenza! Non mi ero aspettato una sensazione simile; mi ero preparato a una violenta scossa alla partenza e alla vertigine sbalorditiva della velocità. E, invece, mi sembrava... come se non avessi addirittura più corpo. Quello non sembrava l'inizio d'un viaggio: pareva piuttosto l'inizio d'un sogno. 5. IL VIAGGIO VERSO LA LUNA. Subito Cavor spense la luce. Disse che non avevamo una grande riserva di energia elettrica e che dovevamo economizzare se si voleva leggere. Per un po' di tempo, non so se lungo o breve, non ci fu nulla, tranne una totale oscurità. Una domanda venne a galleggiare nel vuoto. - Come ci possiamo orientare? - dissi. - Qual è la nostra direzione? - Stiamo allontanandoci dalla terra per la tangente, e poiché la luna è quasi al terzo quarto, ci stiamo avvicinando ad essa. Aprirò una tenda... Si udì uno scatto, e una finestra si aprì sull'involucro esterno. Fuori, il cielo era nero come l'oscurità all'interno della sfera, ma la finestra aperta era resa evidente da un numero infinito di stelle. Coloro che hanno ammirato soltanto dalla terra la volta stellata non possono farsi un'idea del suo aspetto, quando sia stato tolto di mezzo l'impalpabile e quasi luminoso velo della nostra atmosfera. Gli astri che scorgiamo dalla terra non sono che pochi e sparsi superstiti, i quali riescono ad attraversare lo strato nebbioso dell'aria che ci circonda. Ora invece ero in grado di comprendere che cosa significassero le schiere celesti! Ci saremmo trovati, in breve, dinanzi a cose ben più strane; ma quel cielo senza aria e cosparso di stelle...! Tra tutte le cose da me viste, penso che sarà una delle ultime che dimenticherò. La piccola finestra si richiuse con uno scatto; un'altra si aprì bruscamente per tornare subito a richiudersi; poi una terza, ed io dovetti serrar le palpebre un attimo per sfuggire all'accecante splendore della luna nella sua fase calante. Per un attimo dovetti fissare Cavor e gli oggetti che mi circondavano, tutti illuminati da un bianco chiarore, prima di poter assuefare gli occhi a quel pallido riflesso. Quattro finestre furono aperte per far sì che la forza di attrazione della luna potesse agire su quanto era contenuto nella nostra sfera. Mi accorsi allora che non ondeggiavamo più liberamente nello spazio e che i miei piedi si poggiavano sul vetro in direzione della luna. Le casse di provviste e le coperte scivolarono anch'esse lentamente lungo il vetro e si fermarono ad un tratto, togliendoci una parte della visuale. Naturalmente, guardando la luna, mi sembrava di guardare «in basso». Sulla terra, «in basso» significa verso il suolo, la direzione nella quale cadono gli oggetti, come «in alto» significa la direzione opposta. In quel momento la forza di gravità ci attirava verso la luna ed io ero del tutto persuaso che il nostro pianeta fosse sopra la mia testa. Così, quando tutte le tende di cavorite erano chiuse, «in basso» significava verso il centro della nostra sfera e «in alto» verso la sua parte esterna. Era proprio una curiosa esperienza, in nulla simile alle cose terrestri, quella di ricevere la luce dal basso. Sulla terra la luce viene dall'alto, o ci arriva di traverso; là, invece, ci arrivava tra i piedi, obbligandoci a guardare in su per vedere le nostre ombre. Sulle prime provai una specie di vertigine a star ritto soltanto su quella parete di vetro grosso e a vedere la luna sotto di me, attraverso centinaia di migliaia di chilometri di spazio vuoto. Ma il mio malessere a poco a poco scomparve. E allora... che spettacolo stupendo! Il lettore potrà averne un'idea mettendosi a osservare la luna in una calda notte d'estate, disteso sull'erba e guardando tra le punte dei piedi; ma per qualche ragione, forse a causa della mancanza d'aria che la rendeva assai più luminosa, la luna sembrava molto più grande che vista dalla terra. I più minuti particolari della sua superficie erano straordinariamente chiari, e, potendo noi osservare il suo disco senza l'impedimento dell'atmosfera, ne distinguevamo nettamente i contorni brillanti e decisi; non aveva intorno né riflessi né alone, e le stelle che riempivano il cielo giungevano sino alla sua circonferenza, disegnando il contorno della parte che rimaneva in ombra. Mentre restavo così a contemplare la luna attraverso i miei piedi, quella percezione dell'impossibile, che fin dalla partenza mi aveva lasciato e ripreso più volte, tornò ad assalirmi con una forza dieci volte maggiore. - Cavor, - dissi, - tutto questo mi fa uno strano effetto. La società che dovevamo formare e tutti i nostri progetti a proposito dei minerali? - Ebbene? Da qui non li vedo più. - No, - rispose Cavor, - ma vedrà che riuscirà a sistemare tutto. - Credo di poter far fronte anche alle cose peggiori. Ma questa... Per un momento potrei quasi credere che il mondo non sia mai esistito. - Quella copia del «Lloyd's News» la può forse aiutare. Guardai un momento il fascicolo; poi, avvicinatolo meglio agli occhi, mi accorsi di poter leggere senza alcuna difficoltà. Lo sguardo si arrestò sopra una colonna di annunci economici. «Signore, dotato di proprie sostanze, è disposto a effettuare prestiti in denaro». lessi. Conoscevo quella specie di «signori». Più sotto, un tipo eccentrico offriva in vendita una bicicletta Cutaway «assolutamente nuova e del valore di quindici sterline» per sole cinque sterline; e una signora in difficoltà dichiarava di essere disposta a cedere, nonostante il fatto che per lei costituisse un grande sacrificio, un servizio di posate da pesce, «dono di nozze». Senza dubbio, qualche anima semplice avrebbe esaminato prudentemente quelle posate, e qualche altra si sarebbe allontanata trionfalmente su quella bicicletta, e una terza sarebbe ricorsa con fiducia al benefico signore. Scoppiai in una sonora risata, lasciando cadere il giornale. - Siamo visibili dalla terra? - chiesi. - Perché? - Conosco un tale che s'interessa di astronomia. E pensavo che sarebbe divertente se egli - il mio amico - fosse per caso occupato ora a guardare nel suo telescopio verso questo punto! - Per poterci scorgere adesso, sarebbe necessario il più potente telescopio terrestre, e non saremmo che un punto impercettibile nello spazio. Rimasi un istante in silenzio, assorto nella contemplazione della luna. - E' un mondo, - dissi. - E lo si sente con molto maggior forza che non sulla terra. Ci saranno forse degli abitanti... - Abitanti! - gridò Cavor. - Macché! Non lo pensi neppure! Si consideri come una specie di viaggiatore dell'estremo artico, che vada ad esplorare i posti più desolati dello spazio. Guardi! Agitò la mano indicandomi, sotto di noi, l'abbagliante biancheggiare del pianeta. - La luna è morta... morta! Enormi vulcani spenti, deserti di lava, monti di neve, acido carbonico congelato e aria solidificata; dovunque, frane, crepacci, fessure, precipizi. Nessuna vita. Da più di duecento anni gli astronomi hanno osservato sistematicamente la luna con i telescopi. Ebbene, quali cambiamenti crede vi abbiano scorto? - Nessuno. - Hanno scoperto due indiscutibili scoscendimenti, forse un crepaccio nuovo ed un leggero cambiamento di colore. Ecco tutto. - Io, veramente, non sapevo nemmeno che avessero scoperto ciò. - Sì, sì. Ma quanto ad abitanti! - A proposito, - domandai, - qual è la cosa più piccola visibile sulla luna con un potente telescopio? - Vi si potrebbe scorgere una chiesa di ordinarie dimensioni, e, certamente, vi si vedrebbero le città, gli edifici ed ogni altra costruzione, opera di eventuali abitanti. Ci possono essere, forse, degli insetti, qualcosa del genere delle formiche, per esempio, che possono nascondersi in tane profonde durante la notte lunare, o, addirittura una nuova specie di esseri privi di ogni equivalente terrestre. Ed è l'unica probabilità, ammesso che la vita sulla luna sia possibile. Pensi a quanto sono differenti le condizioni! La vita deve adattarsi, qui, a giornate che equivalgono a quattordici giorni terrestri. Un sole fiammeggiante, senza nubi, per quattordici giorni; poi, una notte ugualmente lunga, che si fa sempre più fredda, sotto queste gelide, nitide stelle. Durante queste notti, il freddo è di un rigore estremo, inaudito; il massimo freddo, lo zero assoluto, 273 gradi sotto il punto di congelamento dell'acqua sulla terra! Qualsiasi forma di vita che vi si trovi è obbligata a svernare in queste condizioni e a risvegliarsi ogni mattina. Rimase un momento pensoso. - Si possono immaginare degli esseri vermiformi, - riprese, - che assorbano aria solida, come i lombrichi si nutrono di terra, ovvero dei mostri dalla pelle spessa... - Ma, allora, - dissi io, - perché non abbiamo portato un fucile? Egli non rispose alla mia domandaNo, . - concluse, dobbiamo andarci così. Vedremo il da farsi quando ci saremo. Mi ricordai di una cosa. - Ad ogni modo, - dissi, - ci troverò dei minerali, naturalmente, qualunque possano essere le condizioni atmosferiche. Poco dopo egli mi disse di voler modificare un po' la nostra direzione, lasciandosi attrarre un istante dalla terra. Avrebbe aperto una delle tende verso la terra per una trentina di secondi. Mi avvertì che mi sarei sentito preso da un capogiro e mi consigliò di stendere le mani contro la parete per evitare di cadere. Secondo le sue indicazioni, puntai i piedi contro le scatole delle provviste e i cilindri d'aria, per impedire che mi venissero addosso. Ed ecco, la finestra si aprì di colpo con uno scatto, mentre io cadevo in avanti sulle mani e sulla faccia, scorgendo per un momento, attraverso le mie dita nere e allargate, la nostra madre terra, pianeta basso, nel cielo. Eravamo ancora molto vicini; Cavor mi disse che la distanza doveva essere all'incirca di milleduecento chilometri. L'immenso disco terrestre riempiva tutto il cielo. Ma già ci voleva poco a vedere che il nostro mondo era di forma sferica. Sotto di noi, la terra appariva indistinta e in' una luce crepuscolare, ma, verso ovest, la grigia vastità dell'Atlantico brillava come argento liquido sotto i bagliori del tramonto. Credetti di riconoscere, attraverso le nubi, il profilo delle coste della Francia, della Spagna e dell'Inghilterra meridionale; poi, d'un tratto, con un nuovo scatto, la finestra si richiuse, ed io scivolai adagio lungo la liscia parete di vetro, in uno stato di straordinaria confusione. Quando, alla fine, le mie idee si riordinarono, mi sembrò del tutto fuor di dubbio che la luna fosse in basso e la terra da qualche parte sulla linea dell'orizzonte: quella terra che, dalla creazione in poi, si era sempre trovata in basso, almeno per me e per la mia razza. La nostra attività era così ridotta, e così facile diveniva tutto ciò che si doveva fare grazie alla pratica eliminazione del peso, che non provammo alcun bisogno né di mangiare né di dormire durante le sei ore trascorse dalla nostra partenza (stando al cronometro di Cavor). Rimasi assai sorpreso che il tempo fosse trascorso così rapidamente. Esaminato l'apparecchio che assorbiva l'acido carbonico e il vapore acqueo, Cavor dichiarò che funzionava in modo veramente soddisfacente e che l'ossigeno da noi consumato era pochissimo. La nostra conversazione languiva; non avendo più nulla da fare, cedemmo ad uno strano torpore che ci aveva ormai invasi. Stese le nostre coperte lungo la parete della sfera in modo da intercettare quanto più fosse possibile il gran chiarore lunare, ci augurammo la buona notte e, quasi subito, ci addormentammo Così, un po' dormendo, un po' parlando e un po' leggendo, mangiando talvolta, sia pure senza appetito, ma rimanendo per lo più immersi in una specie di tranquillità che non era né veglia né sonno, precipitammo per un periodo di tempo senza giorni né notti, silenziosamente, mollemente, velocemente verso la luna. 6. L'ARRIVO SULLA LUNA. Rammento come, un giorno, Cavor aprì improvvisamente sei delle nostre tendine ed io rimasi tanto abbagliato da dare in un grido. L'intero spazio scoperto era dominato dalla luna, stupenda scimitarra di bianca aurora con il contorno frastagliato da dentellature di tenebre; spiaggia crescente per una marea di tenebre in deflusso, da cui picchi e pinnacoli venivano sorgendo nella fiamma del sole. Penso che il lettore abbia visto dipinti o fotografie della luna, cosicché non ritengo opportuno descrivere la vastità di questo paesaggio, le gigantesche catene circolari, più solenni di qualsiasi montagna che abbiamo sulla terra, le loro sommità splendenti durante il giorno, le loro ombre aspre e profonde, le pianure grigie e sconvolte, il susseguirsi di gioghi montani, colline e crateri, tutto destinato a passare da una luce sfavillante ad un comune mistero di oscurità. Stavamo volando obliquamente sopra questo mondo, centocinquanta chilometri appena sopra le vette delle montagne. Potemmo vedere, allora, cose che nessun occhio umano vedrà mai; al di sotto del vivo splendore del giorno, gli aspri contorni delle rocce, i crepacci delle pianure e gli orli dei crateri apparivano grigi e indistinti, attraverso una nebbia sempre più fitta, e il biancore delle loro luminose superfici si spezzettava, si frammentava ancora, diminuiva, svaniva, e qua e là comparivano e si ingrandivano strane zone color marrone e oliva. Ma allora avevamo poco tempo per ammirare il panorama. Per il momento eravamo giunti alla fase più pericolosa del nostro viaggio. Bisognava che ci avvicinassimo sempre più alla luna, mentre le passavamo accanto, che rallentassimo la nostra corsa e spiassimo il momento favorevole per poter lasciarci cadere alla fine sulla sua superficie. Per Cavor fu questo un periodo di grande attività; per me, di ozio ansioso. Non dovevo far altro che cedergli continuamente il posto. Egli saltava da un punto all'altro della sfera con un'agilità che gli sarebbe stata impossibile sulla terra. Durante queste ultime memorabili ore, non cessò un momento di aprire e chiudere le tendine di cavorite, facendo calcoli, e di consultare il suo cronometro alla luce della lampada a incandescenza. Per un certo tempo, poi, tenemmo tutte le finestre chiuse e restammo silenziosi, sospesi nelle tenebre, roteando nello spazio. Infine, a tastoni, cercò i bottoni di manovra, e subito quattro finestre si aprirono. Traballai, coprendomi gli occhi istintivamente, penetrato, bruciato, accecato dall'inatteso splendore del sole sotto i miei piedi. Poi, di nuovo le tendine si richiusero bruscamente, lasciando che il mio cervello vorticasse nel buio che quasi mi schiacciava gli occhi; dopo di che, fluttuammo ancora in un vasto e nero silenzio. Allora Cavor riaccese la luce elettrica, dicendomi che intendeva legare assieme tutti i nostri bagagli e avvolgerli nelle coperte per proteggerli dall'urto inevitabile della discesa. Ci mettemmo all'opera, mentre le finestre rimanevano chiuse, per far sì che gli oggetti si sistemassero naturalmente al centro della sfera. Questo fu, in verità, un bizzarro modo di lavorare; noi due che fluttuavamo liberamente in quello spazio sferico, impacchettando e legando. Immaginatelo, se ci riuscite! Né alto, né basso; e, ad ogni sforzo, dei movimenti impensati. Talvolta una spinta di Cavor mi mandava ad urtare violentemente contro la parete di vetro; talaltra mi dibattevo disperatamente nel vuoto. Ora la luce elettrica si trovava sopra le nostre teste, ora sotto i piedi. Ora i piedi di Cavor ondeggiavano davanti ai miei occhi; ora eravamo abbracciati l'uno all'altro. Ma alla fine tutti i nostri oggetti furono riuniti in un grosso e morbido pacco, all'infuori di due coperte con un buco per infilarci la testa, che avremmo dovuto indossare noialtri. Allora, per una frazione di secondo, Cavor aperse una finestra che guardava sulla luna; costatammo che si andava a cadere nel centro di un immenso cratere, intorno al quale si raggruppavano, in forma di croce, dei crateri più piccoli. Allora Cavor rialzò nuovamente le tendine della sfera dalla parte del sole. Suppongo che egli si servisse dell'attrazione solare come freno. - Si avvolga nella coperta, - mi gridò, indietreggiando vivamente; e, per un momento, non compresi. Poi presi la coperta che avevo ai piedi, e mi ci avvolsi coprendomi bene testa e occhi. Di colpo egli richiuse di nuovo le tendine, ne aprì un'altra ancora e la richiuse; quindi le aprì tutte, in modo che ciascuna fosse al sicuro, riavvolta nella sua custodia di acciaio. Seguì un rumore stridulo, e cominciammo a rotolare, urtando contro la parete di vetro e contro l'involto dei nostri bagagli, e aggrappandoci l'uno all'altro: di fuori, una sostanza bianca inzaccherava da ogni parte la sfera, come se scivolassimo sopra un pendio ricoperto di neve... Rotolio, avvinghiati, sbattuti, avvinghiati, sbattuti, rotolio... Poi un tonfo sordo e mi trovai mezzo schiacciato sotto il peso dei nostri bagagli. Per un po' di tempo, tutto rimase tranquillo. Poi sentii Cavor che borbottava, ansimando, e, infine, il rumore di una tendina in movimento. Feci uno sforzo, spinsi in là l'involto e mi rialzai. Le nostre finestre aperte sembravano dei quadrati di nero profondo, tempestati di stelle. Eravamo vivi, e giacevamo nella zona d'ombra prodotta dalla cinta del grande cratere nel quale eravamo caduti. Sedemmo, ripigliando fiato, e tastandoci i lividi sulle membra. Penso che nessuno di noi due si aspettasse con chiara visione il rude atterraggio che avevamo subito. A fatica e dolorante mi alzai. - Ed ora, - dissi, - diamo un'occhiata al paesaggio della luna! Ma qui è terribilmente buio, Cavor. Il vetro era tutto bagnato; parlando, l'asciugavo con la mia coperta. - Manca mezz'ora a far giorno, - disse. Aspetteremo. Era impossibile distinguere qualche cosa; potevamo essere in una sfera d'acciaio, per quello che si vedeva. Avevo sfregato con la coperta il vetro che si era imbrattato e, per quanto io lo sfregassi, esso si riappannava subito per il nuovo strato di umidità condensata unito a una sempre maggiore quantità di peli della coperta. Evidentemente non avrei dovuto usare quella. Mentre mi sforzavo di pulire il vetro, scivolai sopra la superficie umida e finii per battere il mento contro uno dei cilindri d'ossigeno che usciva dall'involto. Tutto ciò era esasperante e ridicolo al tempo stesso. Eravamo arrivati sulla luna, tra non so quali meraviglie, e tutto quello che potevamo vedere si limitava alla parete grigia e bagnata della sfera di vetro in cui avevamo viaggiato! - Al diavolo! - dissi. - Per trovarci ridotti in queste condizioni avremmo fatto meglio a rimanere a casa! - Sedetti sul pacco, rabbrividendo dal freddo, e mi avvolsi meglio nella coperta. A un tratto l'umidità della parete si cambiò in ricamate incrostazioni di ghiaccio. - Riesce ad arrivare al riscaldatore elettrico? - domandò Cavor. - Sì... quel bottone nero... altrimenti tra breve saremo gelati. Non me lo feci dire due volte. - Ed ora, - chiesi, - cosa facciamo? - Aspettiamo, - rispose. - Aspettiamo? - Naturalmente. Bisogna attendere finché l'aria della sfera si sia nuovamente riscaldata e allora le nostre finestre ridiventeranno trasparenti; non possiamo far nulla fino a quel momento. Qui è notte ancora... Bisognerà attendere il nascere del giorno. Ma intanto, non ha fame? Rimasi un momento senza rispondergli, sempre seduto, irritatissimo. Svogliatamente levai gli occhi dall'enigma intricato del vetro e lo guardai in faccia. - Sì, - dissi, ho fame. Sono però molto deluso. Avevo sperato non so che cosa, ma, certamente, non questo. Facendo appello a tutta la mia filosofia, mi aggiustai la coperta per proteggermi dal freddo, mi sedetti di nuovo sull'involucro e incominciai il mio primo pasto sulla luna. Non ricordo affatto d'averlo finito. D'improvviso, in vari punti, che rapidamente si riunirono in maggiori spazi, la parete di vetro si rischiarò e il velo nebbioso che ci nascondeva il mondo lunare dileguò. Potemmo, così, contemplare, finalmente, il paesaggio lunare. 7. ALBA SULLA LUNA. Al primo sguardo, lo scenario era dei più selvaggi e desolati. Ci trovavamo in un enorme anfiteatro - pianura vasta e circolare - il fondo del gigantesco cratere. Le sue pareti, simili ad alte scogliere a picco, ci circondavano da ogni parte. Da ovest la luce del sole che era fuori di vista vi batteva contro, giungendo sino ai loro piedi, e rivelava una disordinata scarpata di monotone rocce grigiastre, segnate qua e là da bianchi crepacci pieni di neve. Questo complesso si trovava a una ventina di chilometri di distanza, ma non vi era atmosfera che intervenisse a ridurre anche in minima parte lo splendore persino dei particolari nei quali esso ci appariva. Esso si stagliava netto e abbagliante su uno sfondo di oscurità stellare che sembrava ai nostri occhi terrestri piuttosto una stella di velluto stupendamente trapunta di scintillanti pietre preziose che non gli spazi celesti. La parete rocciosa a est apparve a tutta prima come un semplice bordo senza stelle della immensa cupola tempestata di astri. Nessuna tinta rosea, nessun pallore nascente annunciava la venuta del giorno. Solo la luce della corona zodiacale, enorme cono di foschia luminescente puntato verso lo splendore della stella del mattino, ci avvertì dell'imminente avvicinarsi del sole. Tutta la luce che ci circondava era riflessa dalle pareti occidentali. Essa permetteva di vedere un'immensa pianura ondulata, fredda e grigia, di un grigio che procedendo verso est assumeva una tonalità sempre più scura, sino a divenire la tenebra più assoluta dell'ombra delle pareti a est. Innumerevoli punte grigie e arrotondate, enormi e fantastiche protuberanze, onde fatte di una sostanza nevosa, che si stendevano di cresta in cresta sino alla lontana oscurità, ci diedero il primo indizio della distanza che ci separava dalla parete del cratere. Tali protuberanze sembravano di neve: per lo meno, allora credetti che lo fossero. Ma no... Erano, forse, cumuli e masse d'aria congelata? Questo, lo spettacolo che ci si presentò ad un primo momento; poi, d'un tratto, rapido e prodigioso, sorse il giorno lunare! La luce del sole, scesa lungo la parete rocciosa, toccò i massi confusi della base, e subito avanzò verso di noi con stupefacente rapidità. La lontana muraglia sembrò muoversi e tremare, e al contatto con la luce dell'aurora, una nube di vapore grigio si alzò dal fondo del cratere: turbini, sbuffi, volute di grigio, sempre più densi, sempre più estesi, sempre più fitti, fino a che l'intero pianoro occidentale prese a fumare, come un fazzoletto bagnato steso sopra il fuoco; e attraverso tale vapore, le pareti rocciose splendevano di luce rifratta. - E' aria, - disse Cavor. - Dev'essere aria... altrimenti non evaporerebbe così rapidamente... al semplice contatto di un raggio di sole. E se andiamo avanti così... Levò gli occhi in alto. - Guardi! - disse. - Che cosa? - domandai. - Nel cielo. Già. Sul nero... un piccolo tocco di azzurro. Guardi! Le stelle sembrano più grandi. E le piccole... e tutte le vaghe nebulosità che scorgevamo nello spazio vuoto... sono scomparse! Rapidamente, regolarmente, il giorno avanzava. Le grigie sommità erano raggiunte una dopo l'altra dal chiarore sfavillante e si mutavano in un bianco e denso vapore. Ad ovest, non rimaneva più che una nube di nebbia ascendente, l'avanzare tumultuoso di una densa fittissima bruma. La parete lontana si era ancor più arretrata fino a perdere ogni preciso contorno nel turbinio dell'atmosfera per poi smarrirsi confusamente e dileguare del tutto. Il fumo si faceva vicino, più vicino, sempre più vicino, estendendosi come l'ombra di una nube davanti al vento di sudovest. Intorno a noi cominciava pure ad alzarsi una leggera foschia. Cavor mi afferrò per un braccio. - Che cosa c'è? - domandai. - Guardi! L'alba! Il sole! Mi fece voltare e m'indicò la cima della parete orientale, indecisa attraverso la foschia che ci circondava, appena più rischiarata delle tenebre del cielo. Ma il suo contorno appariva ora illuminato da strane forme rossastre, da lingue di fiamma vermiglie che si torcevano e danzavano. Pensai dovessero essere spirali di vapore che, passando attraverso la luce, formavano sullo sfondo del cielo quella serie di lingue furiose; ma, in realtà, erano i pennacchi solari che vedevo, cioè la corona di fuoco che circonda il sole e che rimane sempre celata dal velo atmosferico agli occhi degli abitanti della terra. E poi.. il sole! Regolare e inesorabile, apparve una linea brillante, un bordo sottile d'insostenibile splendore che assunse forma circolare, divenne un arco, un globo fiammeggiante e lanciò verso di noi, come un dardo, il suo calore ardente. Credetti di aver proprio perduta la vista! Gettai un grido e mi volsi, accecato, cercando a tastoni la mia coperta dietro l'involto. E con quell'incandescenza ci giunse un suono, il primo che udissimo dall'esterno da quando avevamo lasciato la terra, un fischio e un rumore, lo strisciare tempestoso dell'aereo mantello del nuovo giorno. Nel momento in cui ci pervennero il suono e la luce, la sfera traballò, e noi, storditi e abbagliati, fummo spinti violentemente l'uno contro l'altro. Poi la sfera tornò a traballare ed il sibilo divenne più forte. Avevo dovuto per forza chiudere gli occhi, e stavo compiendo sforzi inauditi per coprirmi il capo con la coperta, quando questa seconda scossa mi fece totalmente perdere l'equilibrio e cadere. Urtai contro l'involto e riaprendo gli occhi ebbi per un attimo la visione dell'aria appena al di fuori della nostra sfera. Correva... ribolliva... come neve al contatto con un ferro rovente. Ciò che prima era stata aria solida diveniva ad un tratto, al tocco del sole, una poltiglia sempre più molle e liquida che fischiava e ribolliva, trasformandosi in gas. La sfera girò con violenza ancora maggiore su se stessa, ma noi ci eravamo aggrappati l'uno all'altro. Un attimo dopo, però, fummo nuovamente travolti e obbligati a separarci; fu così che io mi trovai carponi. L'alba lunare si era impadronita di noi e sembrava avere intenzione di mostrarci che cosa fosse capace di fare di due miserabili abitanti della terra. Gettai un'altra occhiata alle cose fuori: sbuffi di vapore, fango quasi liquido, salivano, scivolavano, ricadevano. E noi rotolammo nelle tenebre; finii disteso con le ginocchia di Cavor che mi premevano sul petto. D'un tratto egli sembrò volarmi via di dosso e per un attimo giacqui, mezzo soffocato, gli occhi fissi verso l'alto. Un'immensa frana di quella poltiglia semiliquida ci era caduta addosso seppellendoci, e ora ribolliva e si andava riducendo intorno alla nostra sfera. Distinguevo le bolle danzare sulla parete superiore e sentivo Cavor gemere debolmente. Allora, una seconda valanga di aria liquefatta ci colpì e, mentre ci lamentavamo, cominciammo a rotolare veloci, sempre più veloci per una discesa sempre più ripida, superando vari crepacci e rimbalzando contro pendii, sempre più veloci, sempre più veloci, verso ovest, nel tumultuoso e ardente ribollimento del giorno lunare. Aggrappati l'uno all'altro, non cessavamo di girare, lanciati ora da una parte ora dall'altra, con i nostri bagagli che ci urtavano e ci colpivano. Ci urtavamo, ci stringevamo per un istante; un attimo dopo eravamo nuovamente allontanati; le nostre teste si scontravano, l'universo intero ci danzava innanzi agli occhi con stelle e lingue di fuoco. Sulla terra ci saremmo massacrati per lo meno una dozzina di volte: ma sulla luna, fortunatamente per noi, il nostro peso era solo un sesto di quello terrestre, e le cadute e gli urti erano privi di grandi conseguenze. Ricordo di aver provato una sensazione d'intollerabile malessere, di aver avuto l'impressione che il mio cervello fosse andato sossopra nel cranio, poi... Qualcosa si dava da fare sulla mia faccia: leggere pressioni mi tormentavano le orecchie. Allora costatai che lo sfolgorante splendore del paesaggio circostante era mitigato da un paio di occhiali azzurrati. Cavor si chinò su di me, e io vidi il suo volto a rovescio, anch'egli con gli occhi protetti da lenti colorate. Ansimava e le sue labbra sanguinavano per un taglio. Va meglio? - disse, asciugandosi il sangue con il dorso della mano. Tutto, lì intorno, pareva agitarsi per trovar posto, ma era soltanto effetto del mio capogiro. Mi accorsi che egli, per proteggermi dal chiarore troppo diretto del sole, aveva abbassato alcune tende della sfera esterna; ma tutti gli oggetti circostanti continuavano ugualmente a brillare in modo straordinario. - Gran Dio! - sussurrai convulsamente. - Ma questo... Allungai il collo per osservare meglio. Vidi all'esterno uno splendore accecante, una completa trasformazione dalle tenebre impenetrabili delle nostre prime impressioni. - E' un pezzo che sono privo di sensi? - domandai. - Non lo so... il cronometro si è rotto. Certo un bel po'... Mio caro amico! Ho avuto una paura... Rimasi disteso per un po' cercando di riprendermi; vidi che il suo volto conservava ancora le tracce di una profonda emozione. Per un certo tempo rimasi in silenzio. Poi mi passai una mano sul viso ad esplorarvi le contusioni, ed esaminai quello di lui per rintracciarvi identici lividi. Il dorso della mia mano destra era quello più contuso e offeso; la pelle era stata strappata via a sangue, scoprendo i tessuti. La fronte era contusa e insanguinata anch'essa. Cavor mi offerse un bicchierino con del cordiale che aveva portato con sé e di cui non ricordo più il nome. Dopo un po', cominciai a sentirmi meglio e presi a muovere le membra con molta precauzione. In breve, fui in grado di parlare. - Questa non ci voleva, - dissi, come se non vi fosse stato intervallo. - Ah! Proprio no! Egli si mise a riflettere con le mani appoggiate sulle ginocchia. Poi gettò uno sguardo all'esterno attraverso il vetro e subito mi guardò sbigottito. - Buon Dio! - disse. - No! - Che cosa è successo? - domandai, dopo una breve pausa. Siamo finiti ai tropici? - E' avvenuto quel che mi aspettavo. Quell'aria è evaporata... sempre che si tratti di aria. Quel che è certo è che è evaporata, lasciando scoperta la superficie della luna. Adesso ci troviamo su un banco di rocce. Qua e là si vede il nudo suolo: strana specie di suolo... Ma, evidentemente, ritenne che non fosse necessario spiegare ulteriormente; mi aiutò a pormi a sedere, ed io potei vedere con i miei stessi occhi. 8. MATTINO LUNARE. Il violento rilievo, lo spietato bianco e nero dello scenario, tutto era svanito completamente. La luce abbagliante del sole aveva assunto un vago color ambra; le ombre sopra la parete del cratere erano color porpora cupo. Ad est, un oscuro banco di nebbia ancora si rannicchiava e si proteggeva dal sorgere del sole, ma ad ovest il cielo era azzurro e limpido. Cominciai a capire per quanto tempo io fossi rimasto privo di sensi. Non eravamo più nel vuoto. Un'atmosfera era sorta intorno a noi. I profili delle cose avevano guadagnato in caratteristica, avevano acquistato in nitidezza e varietà. Tranne che per alcuni spazi in ombra qua e là, ancora biancheggianti di quella sostanza che non era aria, ma neve, l'aspetto artico del paesaggio era assolutamente scomparso. Ovunque, grandi spiazzi rossastri di terreno nudo e ineguale si stendevano sotto lo splendore del sole. In certi punti, vicino ad ammassi di neve, scintillavano alcune pozze d'acqua e piccoli ruscelli, uniche cose mobili nella immensità della sterile distesa. Il sole batteva sulle due tende superiori della nostra sfera, facendo alzare la temperatura interna a livello estivo; tuttavia, la parte inferiore era ancora in ombra, e la sfera giaceva su un cumulo di neve. E sparse qua e là sul pendio e rese più visibili da un leggero velo di neve non ancora disciolta sopra i loro lati in ombra, giacevano alcune forme simili a pezzetti di legno morto, dall'aspetto rigido e secco, della medesima tinta ferrigna della roccia su cui stavano. Ciò attrasse vivamente la nostra attenzione. Pezzi di legno! Su un mondo senza vita! Dopo un poco, avendo esaminato meglio la struttura della materia che li componeva, mi accorsi che quasi tutta la loro superficie era di un tessuto fibroso che ricordava il tappeto di piccoli aghi brunastri che si trova alla base delle conifere. - Cavor! - dissi. - Sì? - Può essere che questo sia adesso un mondo morto... ma in altri tempi... Qualcosa attirò la mia attenzione. In mezzo a tutti quegli aghi, avevo scoperto un certo numero di minuscoli oggetti rotondi, e mi era parso che uno di essi si fosse mosso. - Cavor! - mormorai. - Ebbene? Non potei risponder subito: osservavo incredulo. Per un momento non credetti ai miei occhi. Poi, con una rauca esclamazione, afferrai Cavor per un braccio e gli indicai l'oggetto della mia sorpresa. - Guardi! - gridai, ritrovando la voce. - Là! Sì! E' là! I suoi occhi seguivano la direzione segnata dal mio dito. -Oh!fece. Come descrivere ciò che vidi? Sembra cosa di poca importanza a narrare.... eppure a me parve straordinariamente meravigliosa ed emozionante. Ho già detto che in mezzo a quegli aghi c'erano dei piccoli corpi arrotondati, dei piccoli corpi ovali che si sarebbero potuti scambiare per ciottoli. Ed ecco che, prima uno poi un altro, si erano mossi, ed erano scoppiati; e il taglio prodottosi aveva lasciato scorgere una linea sottile di un verde giallastro che era scattata fuori, a incontrare il caldo incoraggiamento del sole mattutino. Un solo istante, e fu tutto. Poi un terzo si mosse e scoppiò anch'esso! - E' un seme, - chiarì Cavor. E l'intesi mormorare sommessamente: - La vita! La vita! E immediatamente ciò ci fece sentire che il nostro lungo viaggio non era stato vano, che noi non eravamo giunti in un arido deserto di minerali, ma in un mondo che viveva e si muoveva! Rimanemmo in osservazione. Ricordo che non cessavo un istante di asciugare con la manica il vetro davanti a me, timoroso del minimo accenno di nebbia. Il quadro era nitido e chiaro soltanto al centro del campo visivo. Tutt'intorno, le fibre morte e i semi erano ingranditi e deformati dalla curvatura del vetro. Potevamo tuttavia vedere a sufficienza! Uno dopo l'altro, sotto la luce del sole, quei piccoli corpi bruni miracolosi scoppiavano e si aprivano come baccelli di semi, come gusci di frutti, schiudendo bocche avide, pronte ad assorbire il calore e la luce che il sole mattutino lasciava ampiamente cadere su di loro. Ad ogni istante, un numero sempre maggiore di tali semi si apriva, mentre gli altri in fase più avanzata traboccavano dal guscio infranto, passando al secondo stadio del loro sviluppo. Con salda sicurezza e rapida determinazione, i meravigliosi semi lanciavano una piccola radice verso il terreno ed una strana gemma nell'aria. In breve tempo, l'intero pendio apparve disseminato di minuscole piante, erette nell'ardore del sole. Non vi restarono molto; le gemme in forma oblunga si gonfiarono, si stesero e si aprirono con un leggero scatto, lanciando fuori una corona di sottilissime punte acute, spiegando un verticillo di minute foglie aghiformi e brune, che si allungavano con grande rapidità, quasi a vista d'occhio. Il movimento era più lento di quello di un animale, più rapido invece di quello di qualsiasi pianta da me vista in precedenza. Come dare un'idea del modo in cui avveniva un simile sviluppo? Le estremità delle foglie si ingrandivano in tale maniera che con i nostri occhi potevamo vederle protendersi verso l'alto. Il guscio bruno si raggrinziva ed era assorbito con uguale rapidità. Avete mai provato in una giornata fredda a tenere un termometro nella mano tiepida, osservando la colonnina del mercurio salire rapidamente nel tubo di vetro? Ebbene, a quel modo crescevano le piante lunari. Nel giro di alcuni minuti, a quanto appariva, le gemme sorte per prime si erano allungate a formare uno stelo ed avevano spiegato un nuovo verticillo di foglie, così che tutto il declivio poco prima semplice distesa di strame morto - appariva ora ricoperto di questa erba germogliata improvvisamente, di colore verde oliva e con le punte erette, scosse e animate dal vigore stesso del loro sviluppo. Mi volsi - ed ecco - lungo la cresta di una roccia, verso est, una frangia analoga, in uno stadio un po' meno avanzato, traballare e curvarsi oscura contro lo splendore accecante del sole. E, oltre la frangia, si vedeva il contorno di una pianta molto più solida, che si ramificava goffamente come un cactus e si gonfiava a vista d'occhio, come una vescica nella quale si immetta aria. Poi notai anche ad ovest una nuova forma, essa pure di grandi proporzioni, che si ergeva in mezzo all'altra vegetazione. Ma qui la luce cadeva sulle parti lucide; cosicché potei distinguere come fosse colorata d'una viva luce arancione. Anch'essa cresceva a vista d'occhio: se abbandonata con lo sguardo anche per un solo istante, i suoi contorni apparivano, subito dopo, notevolmente cambiati; emetteva una quantità enorme di rami tozzi e in breve assunse l'aspetto di un albero di corallo alto alcuni metri. Confrontati con quella vegetazione, i funghi vescia di lupo terrestri, che raggiungono a volte in una sola notte trenta centimetri di diametro, sarebbero di una lentezza esasperante. Bisogna però aggiungere che le vesce di lupo crescono opponendosi a una forza di gravità sei volte maggiore di quella lunare. Più lontano, da burroni e pianure che rimanevano nascosti a noi, ma non al sole vivificatore, sopra cumuli e scoscendimenti di rocce scintillanti, un alto e denso sviluppo di vegetazione a punte acute e carnose cresceva fino a mostrarsi a noi, come se si affrettasse tumultuosamente per approfittare delle brevi giornate in cui doveva fiorire, fruttificare, riseminarsi e morire. Tutto ciò si compiva quasi per miracolo: possiamo figurarci, secondo la leggenda biblica, che in questo modo alberi e piante spuntassero dal suolo e ingrandissero, al momento della creazione, per ricoprire la desolazione della terra appena nata. Immaginate tutto ciò! Immaginate quest'alba! La resurrezione dell'aria congelata, l'agitazione e l'animazione del suolo, poi questo silenzioso germogliare di vegetazione, questo soprannaturale sviluppo di piante carnose e sottili! Immaginatevelo rischiarato da una tale abbagliante luce da fare apparire, al confronto, debole e fosco il più intenso chiarore terrestre. E sempre, in mezzo a questa giungla vivente, ovunque rimanesse un po' d'ombra, grandi zone di neve bluastra. Per completare poi l'impressione che noi ne riportammo, bisogna ricordare che tutto questo si offriva al nostro sguardo attraverso un grosso vetro curvato, che deformava il paesaggio come una lente deforma gli oggetti, dando cioè immagini che, vive e nitide nel centro del quadro, risultavano ai lati ingrandite e irreali. 9. L'ESPLORAZIONE INIZIA. Cessammo di guardare fissamente. Ci volgemmo l'uno verso l'altro, con il medesimo interrogativo nello sguardo. Per permettere a quelle piante di crescere era necessario che ci fosse dell'aria, sia pur rarefatta, dell'aria che anche noi avremmo potuto respirare. - Il portello d'uscita? - chiesi. - Sì! - rispose Cavor; - se c'è aria lo verremo a sapere! - Fra poco, - dissi, - queste piante raggiungeranno la nostra altezza. Supponga che... alla fin fine è una supposizione... E' certo? Come può sapere che questa sostanza è aria? Potrebbe essere azoto... potrebbe anche essere acido carbonico! - Possiamo saperlo facilmente, - egli disse, e incominciò subito a verificare. Estrasse un grosso pezzo di carta accartocciata dall'involto dei bagagli, lo accese, e lo gettò in fretta attraverso la valvola del portello di uscita. Mi chinai, cercando di seguire attraverso lo spesso vetro quella piccola fiamma, la cui testimonianza aveva per noi un così grande valore. Vidi la carta cadere e arrestarsi con leggerezza sulla neve. La fiamma rosea scomparve. Per un attimo sembrò spenta; poi vidi sull'orlo della carta una piccola lingua bluastra che tremò, si estese e divampò. A poco a poco, tutto il foglio, tranne la parte a diretto contatto con la neve, si carbonizzò e si contrasse, lasciando sfuggire un tenue filo tremolante di fumo. Non v'erano più dubbi: l'atmosfera della luna era composta di ossigeno puro, o di aria; capace quindi, qualora non fosse eccessivamente rarefatta, di assicurare la nostra sopravvivenza all'esterno. Potevamo uscire... e vivere! Mi sedetti tenendo il portello d'uscita tra le gambe e mi preparavo a svitarlo, allorché Cavor mi fermò. - Prima bisogna prendere una piccola precauzione, - avvertì. Mi spiegò che, sebbene all'esterno esistesse certamente un'atmosfera contenente ossigeno, poteva pur darsi che essa fosse tanto rarefatta da causarci gravi inconvenienti. E mi ricordò il mal di montagna, nonché le emorragie che affliggono spesso gli aeronauti che hanno compiuto troppo rapidamente le loro ascensioni. Lasciò così passare un po' di tempo, preparando una bevanda di sapore nauseante che volle farmi prendere a forza. Questo liquido si limitò a stordirmi, senza produrre su di me altro effetto sgradevole. Mi permise di accingermi all'opera di svitamento. In breve, il coperchio di vetro del portello fu svitato abbastanza perché l'aria più densa che riempiva la sfera potesse sfuggire dalla filettatura della vite, producendo un sibilo simile a quello di una pentola in ebollizione. Ma egli subito si fermò. Era evidente che la pressione esterna era molto minore di quella interna; ma di quanto, non sapevamo dire. Restai seduto, trattenendo il coperchio con entrambe le mani, pronto a richiuderlo, se, nonostante il nostro vivo desiderio, l'atmosfera lunare fosse stata troppo rarefatta per noi, mentre Cavor teneva a portata di mano un cilindro d'ossigeno compresso per ristabilire la pressione. Ci guardammo l'un l'altro in silenzio; quindi il nostro sguardo corse ancora alla fantastica vegetazione che di fuori si agitava e ingrandiva a vista d'occhio, senza rumore alcuno. Il sibilo acuto dell'aria sfuggente continuava ininterrotto. Il sangue cominciò a pulsarmi con violenza alle tempie e il rumore prodotto dai movimenti di Cavor diminuì. Osservai come tutto divenisse tranquillo a misura che l'aria si faceva meno densa. Mentre la nostra atmosfera sfuggiva sibilando dalla vite, la sua parte acquosa si condensava in piccoli sbuffi di vapore. La mia respirazione divenne d'un tratto singolarmente rapida; cosa questa, che, a dire il vero, durò tutto il tempo in cui rimasi esposto all'atmosfera esterna lunare; una sensazione piuttosto sgradevole nelle orecchie, alle estremità delle dita e in gola mi allarmò un istante, ma poco dopo scomparve. Ciò che valse tuttavia a mutar bruscamente la natura del mio coraggio fu l'esser colto da vertigini e da nausea. Diedi un mezzo giro al coperchio del portello e chiesi a Cavor qualche frettolosa spiegazione; ma era lui ora il più irrequieto; mi rispose con una voce che sembrava straordinariamente debole e lontana, a causa della rarefazione dell'aria che trasmetteva il suono. Mi consigliò di bere un sorso di brandy dandomene egli stesso l'esempio; e mi sentii subito meglio. Ripresi allora a svitare il coperchio. Il pulsare del sangue alle tempie aumentò; osservai che il sibilo era cessato. Ma, in un primo momento, non fui proprio sicuro di non sentirlo più. - Ebbene? - chiese Cavor con un filo di voce. - Ebbene? - risposi. - Continuiamo? Riflettei un momento. - E' tutto qui? - Se può sopportarlo... Per tutta risposta, continuai a svitare, tolsi il coperchio circolare e l'appoggiai con precauzione sui bagagli. Due o tre fiocchi di neve volteggiarono e si sciolsero, non appena la nuova aria sottile, e a noi poco familiare, ebbe preso possesso della nostra sfera. M'inginocchiai, poi mi misi a sedere sull'orlo del portello, guardando fuori. Alla distanza di un metro, sotto di me, si stendeva la neve lunare, mai, prima d'allora, calpestata da piedi umani. Seguì una breve pausa, durante la quale i nostri occhi s'incontrarono. - Non le irrita troppo i polmoni? - domandò Cavor. - No, posso sopportarlo, - risposi. Egli stese la mano per prendere la sua coperta e, passata la testa nel foro centrale, vi si avvolse. Sedette poi sul bordo del portello e sporse fuori le gambe, fino a che si trovarono a una quindicina di centimetri dal suolo lunare. Dopo un momento di esitazione, si slanciò fuori, restando in piedi sul mai prima calpestato suolo della luna. Fatti alcuni passi innanzi, mi apparve grottescamente riflesso dall'orlo del vetro. Si fermò un istante, guardandosi attorno d'ambo le parti; poi, preso lo slancio, spiccò un salto. Il vetro deformava tutto; mi sembrò così che egli facesse un salto straordinario. Con un solo balzo egli aveva superato un tratto di una decina di metri. Lo vidi ritto sopra una massa rocciosa, gesticolando verso di me. Forse gridava anche, ma il suono della sua voce non mi arrivò. Ma come diavolo era riuscito a far ciò? Mi sentivo come chi ha appena assistito a un incomprensibile gioco di prestigio. In uno stato d'animo dei più turbati, mi lasciai anch'io scivolar giù dal portello e mi trovai in piedi vicino a un piccolo ruscello formato dalle nevi disciolte. Feci un passo e saltai. Mi sentii lanciato a volo nell'aria, mentre la roccia sulla quale rimaneva Cavor veniva verso di me. Stupefatto oltre ogni dire, cercai di aggrapparmi ad una sua sporgenza. Sorrisi pietosamente; mi sentivo terribilmente confuso. Cavor si chinò verso di me, gridando con voce sottile di fare attenzione. Mi ero dimenticato che sulla luna, data la sua massa otto volte minore di quella terrestre e il suo diametro quattro volte più piccolo, il mio peso era appena un sesto di quel che era sulla terra. Ma la realtà bastò da sola a ricordarmi il principio dimenticato. - Siamo fuori dei confini della terra, adesso! - disse. Con uno sforzo controllato, riuscii a trascinarmi sulla cima della roccia, dove, muovendomi con la precauzione di chi soffre di reumatismi, mi rizzai in piedi accanto a lui, in pieno sole. La sfera si trovava alle nostre spalle, a circa dieci metri di distanza, sull'ammasso di neve che l'aveva accolta e che a poco a poco andava diminuendo. Fin dove l'occhio poteva giungere, in mezzo all'enorme caos di rocce che costituivano il fondo del cratere, la stessa vegetazione che ci circondava stava destandosi alla vita, interrotta qua e là da masse di piante sporgenti a forma di cactus: licheni scarlatti e porporini crescevano così in fretta da sembrare che si arrampicassero sui dirupi. La superficie del cratere mi parve una landa che si prolungava fino al piede delle muraglie circostanti. Queste, tranne che alla base, erano apparentemente prive di vegetazione, ma avevano contrafforti, terrazze e spianate che, al momento, non attrassero molto la nostra attenzione. Si trovavano lontane parecchi chilometri, in ogni direzione, e noi, quasi al centro del cratere, non potevamo scorgerle che attraverso una leggera foschia portata avanti dal vento. Perché c'era anche il vento, ora, in quell'atmosfera sottile, un vento rapido e pur debole, che ci faceva rabbrividire ma che esercitava solo una leggera pressione. Soffiava, a quanto pareva, intorno al cratere e spirava verso la parete calda e illuminata, provenendo dalla nebbiosa oscurità della parete controsole. Era assai difficile fissar lo sguardo in quella nebbia a oriente; dovevamo guardare con gli occhi semichiusi e facendoci solecchio, a causa dell'eccessiva intensità del sole immobile. - Si direbbe deserto, del tutto deserto, - osservò Cavor. Mi guardai di nuovo intorno. Fino allora avevo conservato una tenue speranza di trovare qualche traccia più o meno umana, qualche guglia di edificio, delle case o delle macchine; invece, ovunque volgessimo lo sguardo, non incontravamo altro che una confusione di rocce, picchi e creste, in mezzo a una vegetazione istantanea e a cactus in fase di dilatazione, negazione evidente di ogni speranza del genere. - E' probabile che queste piante siano qui le sole proprietarie, dissi. - Non vedo tracce di eventuali altre creature. - Già, né insetti, né uccelli... No! nemmeno una traccia, una particella o un frammento qualsiasi di vita animale. Se ve ne fossero... che cosa sarebbe di loro durante la notte...? No, ci sono proprio soltanto queste piante. - E' un vero paese di sogno, - osservai facendo schermo agli occhi con le mani. - Queste cose assomigliano alle piante terrestri ancor meno delle cose che si immaginano situate in mezzo alle rocce negli abissi del mare. Guardi quella là! La si direbbe una lucertola tramutata in pianta... E questo riverbero! - Ed è solo mattino! - esclamò Cavor. Poi, sospirando, si guardò intorno e riprese: - Questo non è un mondo fatto per gli uomini; eppure, in un certo modo... risulta attraente. Dopo esser rimasto in silenzio per qualche tempo, egli iniziò il suo solito brontolio di meditazione. D'un tratto sobbalzai, sentendomi toccare leggermente; era una piccola foglia di lichene, d'un color livido, che cominciava a coprirmi un piede. Scossi vivamente la gamba; la pianta cadde in mille pezzi, ciascuno dei quali ricominciò a crescere. Nello stesso tempo Cavor lanciava una rapida esclamazione; una di quelle dure baionette vegetali l'aveva punto. Esitando, il suo sguardo vagò in cerca di qualcosa fra le rocce circostanti. Un subitaneo riflesso roseo andava strisciando e salendo su un cumulo roccioso. Era un rosa veramente straordinario, quasi di un livido color magenta. - Guardi! - dissi, volgendomi. Ma Cavor era scomparso! Per un istante rimasi come paralizzato; volli muovere un passo innanzi per guardar giù dalla roccia; ma, sbalordito com'ero per la sua improvvisa scomparsa, ancora una volta dimenticai di trovarmi sulla luna. Quel passo, sulla terra, mi avrebbe fatto avanzare di un metro; sulla luna mi portò avanti di sei, vale a dire cinque metri almeno più lontano dell'orlo della roccia. Sul momento, mi parve di essere in preda ad uno di quegli incubi, durante i quali sembra di seguitare a precipitare all'infinito, poiché mentre sulla terra si percorrono circa cinque metri nel primo secondo di una caduta, sulla luna se ne fanno due, e con un sesto soltanto del proprio peso. Rotolai così o, per meglio dire, saltai da un'altezza di circa dieci metri; ma ciò parve richiedere un tempo abbastanza lungo, da cinque a sei secondi. Dopo aver ondeggiato nell'aria, caddi come una piuma, sprofondando però fino al ginocchio in un mucchio di neve, ai piedi di una slavina di rocce bluastre, venate di bianco. Mi guardai intorno. - Cavor! - gridai. Ma Cavor era invisibile. - Cavor! - gridai ancora, più forte. Mi rispose solo l'eco delle rocce. Presi a girare furiosamente fra i massi, mi arrampicai sulle loro cime. - Cavor! - gridai. Ma la mia voce risuonò come il belato di un agnello smarrito. Anche la sfera era scomparsa, e per un istante mi sentii il cuore stretto dall'angoscia di una orribile desolazione. Lo vidi, finalmente: rideva e gesticolava per attrarre la mia attenzione. Se ne stava su una roccia nuda, venti o trenta metri più in là. Non potevo sentire la sua voce, ma capii dai gesti che mi diceva di saltare. Esitai, perché la distanza mi sembrava enorme. Poi però riflettei che avrei certamente potuto superare una distanza molto maggiore di quella che mi separava da Cavor. Fatto un passo indietro, presi lo slancio e, con tutte le mie forze, saltai. Ebbi l'impressione di essere lanciato diritto nell'aria, come se mai più dovessi ridiscendere. Volare in quel modo dava una sensazione deliziosa ed orribile al tempo stesso, strana come il più strano dei sogni. Compresi però che il mio slancio era stato troppo violento. Passai sopra la testa di Cavor, intravedendo su una pietraia una quantità di piante spinose pronte a ricevermi. Con un grido di spavento, protesi le mani, irrigidendo le gambe. Colpii un'enorme massa fungosa che scoppiò intorno a me, lanciando in tutte le direzioni una quantità di spore arancioni e ricoprendomi di polvere dello stesso colore. Rotolai per un po' in mezzo a quella massa e poi mi fermai, scosso da un riso irresistibile e convulso. La faccetta rotonda di Cavor si protese al di sopra di una cresta irta di punte. Mi gridò qualche parola che non riuscii ad afferrare. - Eh? - tentai di rispondere; ma non mi fu possibile, tanto mi mancava il respiro. Egli si fece allora strada verso di me, avanzando con precauzione in mezzo ai cespugli. - Bisogna avere prudenza - disse. - Questa luna non è affatto disciplinata e finirà per farci rompere il collo! Mi aiutò a rialzarmi. - Lei fa sempre movimenti esagerati, continuò poi, scuotendo con la mano la polvere arancione che avevo sul vestito. Rimasi fermo, in atteggiamento passivo, ansimando, mentre egli mi spolverava i gomiti e le ginocchia, rimproverandomi per l'incidente occorso. - Bisogna tener presente che ci troviamo in contrasto con la gravità. I nostri muscoli non sono ancora educati come occorrerebbe. Dobbiamo fare un po' di pratica, quando avrà ripreso fiato. Mi estrassi dalle mani due o tre piccole spine e mi sedetti un attimo sopra una sporgenza rocciosa. I muscoli mi tremavano; mi sentivo afflitto da quel senso di delusione che, sulla terra, prova alla prima caduta colui che sta imparando ad andare in bicicletta. Cavor pensò subito che l'aria fredda del burrone, dopo l'ardore del sole, avrebbe potuto farmi venire la febbre; e fu perciò che ci arrampicammo di nuovo sulla roccia. Trovammo che, tranne qualche graffiatura, non avevo riportato alcuna pericolosa ferita nella mia caduta; su consiglio di Cavor, cercammo con gli occhi un rialzo facilmente accessibile per il mio prossimo salto. E la scelta cadde sopra una spianata di roccia, a dieci metri di distanza, divisa da noi da un boschetto spinoso color verde oliva. - Immaginate che sia qui, - disse Cavor, che si cominciava a dare arie di istruttore, indicandomi un punto non più lontano di un metro dai miei piedi. Feci il salto senza difficoltà; e debbo confessare che provai una certa soddisfazione nel vedere che Cavor aveva sbagliato di circa trenta centimetri a prendere la misura e che quindi capitombolò a sua volta fra le spine. Come vede, bisogna avere molta prudenza, - dichiarò, togliendosi tranquillamente le spine che gli si erano conficcate addosso; dopo di che, cessò di far la parte del mentore e prese ad esercitarsi con me nella difficile arte della locomozione lunare. Scegliemmo in seguito un salto più facile e riuscimmo a compierlo senza incidenti. Ritornammo poi indietro parecchie volte, andando e venendo, per abituare i nostri muscoli a sempre nuovi sforzi proporzionati. Se io stesso non l'avessi esperimentato, non avrei potuto credere che tale abitudine si potesse acquisire così rapidamente. In breve, dopo una trentina di salti, potevamo a colpo sicuro calcolare lo sforzo necessario per superare una determinata distanza, e con non minore esattezza che se ci si fosse trovati sulla terra. Frattanto, la vegetazione lunare continuava a crescere intorno a noi, di minuto in minuto più alta, più folta e più aggrovigliata, assumendo una tinta più scura. Erano forti piante spinose, cactus compatti e verdi, una vegetazione fungosa o carnosa, licheni dalle forme più strane e contorte. Ma noi eravamo tanto occupati nei nostri esercizi di salto, che per un po' non ci preoccupammo affatto del loro crescente e ininterrotto sviluppo. Una specie di ebbrezza si era impadronita di noi; forse, in parte, prodotta dalla gioia di non essere più confinati nella sfera, ma, soprattutto, determinata dalla dolcezza dell'aria che certamente doveva contenere una quantità di ossigeno molto maggiore di quella presente nell'atmosfera terrestre. Nonostante la stranezza del luogo, mi sentivo pronto ad affrontare qualsiasi rischio avventuroso, come avviene talvolta a chi, vissuto costantemente in città, si trovi per la prima volta trasportato in montagna; né questa sensazione era mia soltanto; a nessuno di noi passò mai per la mente il pensiero della paura, pur non dissimulandoci quali e quante incognite ci stessero dinanzi. Come dominati da una follia intraprendente, scegliemmo quale meta di un nuovo salto un cono rivestito di licheni, distante forse una quindicina di metri, e ne conquistammo entrambi la sommità senza fatica. - Benissimo...! Benissimo...! - ci gridammo a vicenda. Con tre passi di slancio, Cavor mosse verso un pendio di neve tentatrice, biancheggiante, una ventina di metri lontano. Restai un momento colpito dall'aspetto grottesco della sua figura librata in volo, con il sudicio berretto da cricket, i capelli irti, il corpo piccolo e tondeggiante, le braccia ripiegate, e così le gambe, ricoperte dai pantaloni alla zuava, e tutto ciò sullo sfondo della fantastica distesa del paesaggio lunare. Un accesso di riso mi scosse. Presi lo slancio per raggiungerlo. E... caddi al suo fianco. Fatti alcuni passi giganteschi, e altri tre o quattro salti, finimmo per trovarci seduti in una cavità tappezzata di licheni. I polmoni ci dolevano; rimanemmo seduti, e, mentre riprendevamo fiato, ci congratulammo a vicenda. Cavor balbettò qualcosa come «sensazione stupefacente»; allora un pensiero mi colpì, che, dapprima, non mi sembrò affatto particolarmente spaventoso, nulla più di una curiosità che nasceva spontanea dalla situazione. - A proposito, - domandai, - dov'è esattamente la nostra sfera? Cavor guardò verso di me. - Come? Il terribile significato di quel che avevo chiesto mi apparve allora lucidamente, d'un tratto. - Cavor! - gridai, afferrandolo per il braccio, - dov'è la sfera? 10. PERDUTI SULLA LUNA. Il suo viso assunse un po' della mia paura. Si alzò in piedi, fissò lo sguardo tra la boscaglia che ci circondava e che continuava a crescere intorno a noi, protendendosi verso l'alto in una crescita quasi appassionata. Dubbiosamente portò una mano alla bocca e parlò con una improvvisa mancanza di sicurezza. Credo, - disse lentamente, - che l'abbiamo lasciata... in qualche posto... là, da quella parte. Puntò un dito esitante che tracciò un vago arco. - Non sono sicuro. - La sua espressione di costernazione si approfondì. - Tuttavia, - disse, volgendo lo sguardo verso di me, - non può essere lontana. Eravamo entrambi in piedi. Pronunciavamo esclamazioni senza significato, i nostri occhi investigavano nella tortuosa e spessa giungla che ci circondava. Intorno a noi, sui pendii soleggiati, si agitavano le piante irte di punte, i cactus ricurvi, i licheni rampicanti; negli angoli all'ombra biancheggiavano mucchi di neve. A nord, a sud, a est, a ovest si stendeva una identica monotonia di forme strane. E da qualche parte, già sepolta in quella confusione inestricabile, si trovava la nostra sfera, la nostra dimora, il nostro solo rifugio, la nostra unica speranza per sfuggire a quella solitudine fantastica di effimera vegetazione, in mezzo alla quale eravamo caduti! - Credo, dopo tutto, che dovrebbe essere là in fondo, - disse Cavor, indicando improvvisamente una direzione. - No, - osservai, - abbiamo fatto una curva. Guardi, ecco le orme dei miei talloni. E' evidente che la sfera dev'essere più a est, molto di più. Certamente dev'essere laggiù. - Io credo di aver sempre avuto il sole a destra, - ribatté Cavor. - E a me sembra che la mia ombra mi preceda ad ogni salto, risposi. Ci guardammo. Il fondo del cratere assumeva dimensioni enormi nella nostra immaginazione, mentre il folto della boscaglia in crescita diventava impenetrabile. - buon Dio! Che imbecilli siamo stati! - Eppure bisogna ritrovarla, - affermò Cavor, - e al più presto. Il sole incomincia a scottare. Il calore ci avrebbe già fatto perdere i sensi, se l'aria non fosse così secca... E poi io ho fame. Lo guardai meravigliato. Questo pensiero non mi era ancora balenato alla mente; ma, d'un tratto, mi colpì, e in modo positivo. - Sì, - risposi con aria convinta, - anch'io ho fame! Cavor si alzò, con aria risoluta. - Bisogna assolutamente ritrovare la sfera. Con la maggior calma possibile, esaminammo gli scogli innumerevoli e i boschi che formavano il fondo del cratere. studiando in silenzio le probabilità di ritrovare la sfera, prima di essere annientati dal calore e sfiniti dalla fame. - Non può trovarsi a più di cinquanta metri da qui, - disse Cavor con gesti indecisi. - L'unica cosa da fare è di perlustrare la zona qui intorno, finché non l'abbiamo trovata. - Non c'è alternativa, - risposi, senza mostrare molta fretta di incominciare la ricerca. - Bisognerebbe che questi maledetti cespugli mettessero un po' di buona volontà nel crescere meno velocemente. - Sì, davvero, - disse Cavor. - La sfera comunque si trovava sopra un banco di neve. Scrutai i dintorni, nella vana speranza di scorgere un monticello o un intrico di piante che erano state vicino alla sfera. Ma dovunque c'era la medesima confusione; sempre e dovunque, cespugli che crescevano, fungosità che si estendevano, banchi di neve che si liquefacevano, e tutti incessantemente e inevitabilmente cambiati. Il sole bruciava la pelle e fiaccava; la debolezza causata da una fame inesplicabile rendeva ancora più penosa la nostra situazione, lasciandoci perplessi. Mentre eravamo là, sperduti e confusi in mezzo a tante cose insolite, udimmo un suono, il primo sulla luna che non fosse il fruscio delle piante, il debole sospiro del vento o il rumore da noi stessi prodotto. Bum... bum... bum... Usciva da sotto i nostri piedi, dall'interno del suolo. E ci sembrava di sentirlo sia con i piedi sia con le orecchie. La sua sorda risonanza era attenuata dalla distanza e resa più cupa dalla natura del materiale interposto. Non avrei mai potuto immaginare un rumore più sorprendente, o che potesse trasformare l'apparenza delle cose che ci attorniavano; perché questo suono forte, lento e regolare, ci sembrò non poter essere altro che il battito di una pendola gigantesca sepolta sotto terra. Bum... bum... bum... Tale rumore faceva rifiorire nel pensiero l'immagine di chiostri tranquilli, di notti insonni nelle città popolose, di veglie e di attese impazienti, di tutto ciò, insomma, che si svolge con ordine e metodo nella vita. e risuonava pungente e misterioso in quel fantastico deserto. Agli occhi nostri non c'era nulla di cambiato; la desolazione dei cespugli e dei cactus, ondeggianti silenziosamente al vento, si stendeva ininterrotta fino alle pareti di roccia lontane; il cielo tranquillo e scuro era vuoto sopra il nostro capo; il sole ci flagellava e sfiniva con i suoi raggi ardenti. E, in mezzo a tutto ciò, come un avvertimento o una minaccia, vibrava quel suono enigmatico. Bum... bum... bum... Ci domandammo con voce debole e timida: - Un orologio? - Si direbbe! - Che cosa sarà? - Che cosa può essere? - Contiamo - suggerì un po' in ritardo Cavor, poiché i battiti erano cessati. Il silenzio, la ritmica delusione del silenzio, ci sorprese come un nuovo urto. Per un momento, dubitammo perfino di aver mai udito un rumore e ci chiedemmo perché non continuasse ancora. Avevamo veramente udito un tal suono? Sentii sul mio braccio la pressione della mano di Cavor. Egli parlava sottovoce, quasi temesse di svegliare qualche essere addormentato. - Restiamo insieme a cercare la sfera, balbettò. - E ritorniamoci al più presto, perché quanto accade sorpassa ogni nostra possibilità di comprensione. - Da che parte dobbiamo andare? Egli esitò. La ferma convinzione della presenza di cose invisibili intorno e vicino a noi dominava la nostra mente. Che cosa potevano essere? E dove potevano trovarsi? Quell'orrida desolazione, alternativamente gelida e torrida, non era forse altro che la buccia o la maschera di qualche mondo sotterraneo? E, se era così, di che tipo di mondo? Che genere di abitanti sarebbero tra poco sbucati fuori? Ed ecco che, rompendo il silenzio profondo, violento, imprevisto e inatteso come un colpo di fulmine, si scatenò un rumore infernale, come se fossero state dischiuse violentemente immense porte di metallo. Ci fermammo di colpo, trattenendo il respiro; Cavor, in punta di piedi, si avvicinò a me. - Non comprendo nulla, - mi sussurrò all'orecchio. Agitò la mano vagamente verso il cielo, suggerendo pensieri ancora più vaghi. - Ci vuole un nascondiglio! Se accadesse qualcosa... Gettai un'occhiata intorno, facendo un cenno affermativo. Ci rimettemmo in cammino, avanzando con le più esagerate precauzioni per non far rumore e dirigendoci verso una macchia di cespugli. Un clangore, come di colpi di martello sopra una caldaia, ci fece affrettare il passo. - Camminiamo carponi, suggerì Cavor. Le foglie basse delle piante appuntite, già ricoperte dalle più nuove, cominciavano ad appassire, di modo che potemmo aprirci un passaggio attraverso i tronchi senza serio pericolo. Del resto, non ci saremmo lasciati turbare nemmeno da una pugnalata sul volto o su un braccio. Nel mezzo del bosco mi fermai sussultando, gli occhi fissi su Cavor. - E' sotto terra, è là sotto! - egli mormorò. - Forse stanno per uscire! - Bisogna ritrovare la sfera! - Sì, - dissi; - ma come? - Bisogna arrampicarci fino a che ci arriveremo. - Ma, se non ci riuscissimo? - Resteremo nascosti, e vedremo di che cosa si tratta. - Dobbiamo stare insieme, - aggiunsi. Egli rifletté un istante. - Da che parte ci dirigiamo? - Dovremo affidarci al caso. Guardammo da ogni parte con occhi scrutatori; poi, con la massima circospezione, incominciammo ad attraversare la foresta, facendo per quanto ci era possibile un giro, arrestandoci ad ogni fungosità che si muoveva, ad ogni fruscio, ansiosi solo di scorgere la sfera, dalla quale così scioccamente ci eravamo allontanati. Ogni tanto dal suolo che calpestavamo provenivano scosse, battiti, bizzarri e inesplicabili rumori meccanici; un paio di volte ci parve udire qualcosa come un rumore e uno strepito attenuati attraverso l'aria. Ma, pieni di spavento come eravamo, non avemmo ii coraggio di cercare un'altura da dove esaminare l'estensione del cratere. Per lungo tempo non vedemmo nessuno degli esseri che producevano questi rumori diabolici e persistenti. Tolta la debolezza che ci causavano la fame e la sete, questa ricerca carponi avrebbe potuto sembrarci un sogno dei più strani. Era così irreale tutto ciò! L'unico elemento che potesse sembrare reale era dato da quei suoni. Immaginate la nostra situazione! Intorno a noi, le piante fantastiche le cui silenziose foglie appuntite si ergevano sopra le nostre teste, e, sotto le nostre mani e ginocchia, quei silenziosi licheni dai colori violenti, illuminati dal sole, che ondeggiavano nel vigore del loro sviluppo, come un tappeto che si solleva sotto la pressione del vento. Ogni tanto una vescica fungosa, tesa e gonfia sotto il sole, spuntava sopra di noi e qualche forma nuova dai vividi colori ci era di ostacolo. Le cellule che formavano queste piante erano grandi quanto un pollice e simili a capocchie di vetro colorato. Tutto ciò era saturo dell'implacabile splendore del sole; tutto si stagliava contro un cielo nero bluastro, ancora tempestato, nonostante fosse giorno, da qualche stella inestinguibile. Ogni cosa era strana! Persino le forme e le strutture delle pietre erano strane. Era tutto strano: le sensazioni del corpo a nulla si potevano paragonare, ogni movimento ci procurava una sorpresa. Il respiro fischiava in gola, il sangue ci pulsava alle tempie come un flusso palpitante... tum, tum, tum... E sempre ritornava, ad intervalli, quel tumulto, con i suoi colpi sordi e i suoi battiti meccanici, e, improvvisamente... il muggito di grandi animali. 11. I PASCOLI DEI VITELLI LUNARI. Così, noi due, poveri naufraghi terrestri, perduti in quella selvaggia giungla lunare, andavamo strisciando nel terrore cercando di sfuggire ai rumori che ci inseguivano. Strisciammo, ci parve, a lungo prima che vedessimo un selenita o un vitello lunare, anche se udivamo il muggito e il grugnito di questi ultimi sempre più vicini. Strisciammo per burroni petrosi, sopra pendenze nevose, in mezzo a funghi che si laceravano come sottili vesciche sotto i nostri colpi, espellendo un umore acquoso, sopra una perfetta pavimentazione di cose simili a vesce di lupo, e attraverso interminabili boschetti. E, sempre più disperatamente, i nostri occhi cercavano la sfera abbandonata. La voce degli animali pareva talvolta un lungo muggito simile a quello dei vitelli; talaltra diveniva un suono pieno di spavento o di corruccio; poi, di nuovo, un verso bestiale e sordo, come se quelle creature invisibili stessero mangiando e muggendo nello stesso tempo. Quando le intravedemmo, non fu che per un attimo. Cavor, che mi precedeva, fu il primo ad avvertire la loro presenza. Si fermò di colpo, facendomi segno di non muovermi. Un rumore come d'ossa che scricchiolino e si schiaccino sembrava avanzare alla nostra volta; e mentre noi, sbalorditi, ci rannicchiavamo cercando di valutare la distanza e di capire bene la direzione da cui esso proveniva, alle nostre spalle si levò un muggito terrorizzante, così vicino e violento che i fusti delle piante si curvarono contemporaneamente, un soffio, umido e caldo, passò sopra il nostro capo. Voltandoci, potemmo appena intravedere, attraverso un'infinità di tronchi violentemente scossi, il fianco lucente di un vitello lunare e la linea lunga del suo dorso stagliarsi contro il cielo. E' naturalmente assai difficile per me descrivere adesso con esattezza ciò che vidi allora, poiché le mie impressioni andarono modificandosi a mano a mano, a causa delle successive osservazioni. Anzitutto, rimasi colpito dalle sue enormi dimensioni: la circonferenza del corpo doveva misurare circa ventisei metri e la lunghezza era, forse, superiore ai sessanta. Una faticosa respirazione sollevava i suoi fianchi. Costatai che il corpo gigantesco e flaccido stava sdraiato al suolo e che la pelle era rugosa, di un bianco macchiato di scuro lungo il dorso. Nulla vidi dei suoi piedi. Probabilmente, scorgemmo allora il solo profilo della testa, quasi senza calotta cranica, con il collo gonfio di grasso, la bocca bavosa e vorace, le narici piccole, gli occhi chiusi (perché il vitello lunare di giorno li tiene costantemente chiusi). Come aprì di nuovo la bocca per muggire, avemmo la rapida visione di un'immensa cavità rossa e, nello stesso tempo, ci giunse il soffio scaturito da quella voragine; dopo di che, il mostro scivolò via come una nave, trascinando e facendo risuonare sul suolo la sua pelle rugosa; poi si eresse, scivolò ancora, ci passò vicino, inzaccherandoci di fango e scavando al suo passaggio una pista in mezzo alla foresta, e disparve rapidamente al nostro sguardo, celato nel folto della vegetazione. Più lontano ne intravedemmo un altro, poi un terzo e, infine, come se guidasse al pascolo quei blocchi semoventi di carne, apparve per un attimo un selenita. Con moto convulso, allo scorgere questo nuovo essere, afferrai un piede di Cavor; e restammo entrambi immobili, lo sguardo lungamente fisso sulla inattesa visione, anche molto dopo la sua scomparsa. Per contrasto con i vitelli lunari, quella pareva una creatura insignificante, una forma alta sì e no un metro e settanta. Poiché appariva tutta coperta di vesti fatte di una sostanza simile al cuoio, nessuna parte del suo corpo era visibile, ma questo, allora, non lo sapevamo. Appariva perciò come un essere compatto ed irto, simile a un insetto complicato, munito di lunghi tentacoli a mo' di frusta e di un braccio tintinnante che si proiettava all'esterno del suo corpo cilindrico e lucente. La forma della testa era dissimulata da una specie di enorme casco, fornito di lunghe innumerevoli punte. Scoprimmo poi che di queste egli si serviva per punzecchiare gli animali recalcitranti; due lenti di vetro scuro, disposte lateralmente, davano l'aspetto di una grossa testa di volatile all'apparecchio metallico che gli copriva la testa; le braccia non superavano quella specie di astuccio o fodera che racchiudeva il corpo, sostenuto da due gambe corte, le quali, sebbene avviluppate in una gualdrappa, sembravano, ai nostri occhi terrestri, straordinariamente deboli e sottili. Aveva le cosce cortissime, le gambe molto lunghe, i piedi piccoli. Nonostante il vestito, d'aspetto molto pesante, il selenita avanzava a passi enormi, da un punto di vista terrestre; agitatissimo rimaneva il suo braccio tintinnante. La natura dei suoi movimenti, nel breve tempo che lo vedemmo passare, suggeriva l'idea di grande fretta e di una certa inquietudine; appena lo avemmo perso di vista, udimmo il muggito di uno degli animali mutarsi bruscamente in un grido breve e acuto, seguito da più rapidi rumori dovuti all'accelerarsi della sua andatura. Via via, i muggiti si allontanarono e si spensero, come se i pascoli cercati fossero stati raggiunti. Rimanemmo in ascolto. Il mondo lunare sembrò per un poco aver riacquistato tutta la sua tranquillità; ma non osammo riprendere subito l'escursione carponi alla ricerca della sfera perduta. Quando per la seconda volta incontrammo i vitelli lunari, questi si trovavano alquanto lontani da noi, in un angolo ingombro di detriti di rocce. Le superfici piatte o inclinate di queste erano rivestite da un folto tappeto di piccole piante verdi e macchiate, che crescevano a folti mazzi muscosi, e di queste si cibavano i vitelli. Scorgendoli, ci fermammo vicino a un boschetto di canne, in mezzo al quale stavamo strisciando, e allungammo il collo dando un'occhiata in giro per vedere ancora una volta il selenita. Quegli strani animali stavano sdraiati sul loro cibo come enormi lumaconi, mollicci e viscidi, mangiando voracemente e rumorosamente, con una specie di avidità singhiozzante. Sembravano mostri formati solo di grasso, tanto goffi e schiacciati che un bue terrestre, in confronto, sarebbe parso un modello di agilità. Le loro mandibole affaccendate nel ruminare, gli occhi chiusi, nonché il rumore prodotto dal loro masticare, davano una tale impressione di godimento animale che il nostro stomaco vuoto provò uno stimolo insostenibile. - Porci! Porci schifosi! - esclamò Cavor, con insolito slancio. E, dopo aver gettato loro uno sguardo irritato e invidioso, riprese il suo cammino in mezzo ai cespugli, verso destra. Io indugiai un momento per assicurarmi che la pianta macchiata fosse assolutamente inadatta come cibo per gli uomini; poi scivolai dietro di lui, mordendo una foglia che avevo portata alle labbra. Poco dopo, dovemmo ancora fermarci, data la vicinanza di un selenita, e, questa volta, riuscimmo a esaminarlo molto più attentamente. Allora potemmo vedere che la sua copertura esterna era proprio un vestito e non una specie di tegumento crostaceo. Egli era in tutto simile, quanto all'abito, al selenita già visto, né altro aveva di diverso se non una specie d'imbottitura che gli usciva dal collo. In piedi, su un promontorio roccioso, volgeva il capo a destra e a sinistra, come se sorvegliasse il cratere. Restammo immobili: temevamo, muovendoci, di attrarre la sua attenzione, ma, poco dopo, egli si volse e disparve. C'imbattemmo poi in un'altra mandria di vitelli lunari, che muggivano su una pietraia; quindi passammo sopra una zona dove risuonavano rumori e battiti meccanici, come se là, subito sotto la superficie, ci fosse un'enorme officina. Tra questi suoni, raggiungemmo un grande spiazzo aperto, di forse duecento metri di diametro, e perfettamente piatto. Tranne qualche lichene, che spuntava sull'orlo, lo spiazzo era nudo e mostrava una superficie polverosa e giallognola. Esitammo alquanto ad avventurarci, ma, infine, poiché esso frapponeva minori ostacoli al nostro cammino, iniziammo a percorrerne il bordo con molta circospezione. Per un istante, i rumori interni cessarono e, tolto il debole fruscio delle piante che crescevano, il silenzio regnò intorno a noi. Poi, d'un tratto, ecco scoppiare un frastuono più violento, più impetuoso, e più vicino di quanti fino allora avessero colpito le nostre orecchie. Era evidente che esso scaturiva dal suolo. Ci raggomitolammo quanto più possibile raso terra, pronti a tuffarci rapidamente nella vicina boscaglia. Ogni colpo e ogni battito sembravano ripercuotersi nei nostri corpi. Frattanto, i rumori divenivano sempre più forti; e in breve, quella vibrazione regolare aumentò al punto che tutto il mondo lunare sembrò esserne scosso e agitato. - Al coperto! - mormorò Cavor, ed io mi volsi verso la boscaglia. In quello stesso momento si udì una detonazione, simile a quella prodotta da un cannone, e quindi accadde un fatto che ancor oggi mi perseguita nei sogni. Volsi il capo per guardare Cavor e stesi avanti la mano, ma non incontrai che il vuoto! La mano era piombata in una cavità senza fondo! Il mio petto urtò contro qualcosa di duro; ero caduto in avanti, le braccia tese, rigide, nel vuoto, il mento sull'orlo dello smisurato abisso che così improvvisamente si era aperto davanti a me. Tutta quella vasta superficie circolare e piatta non era altro che un gigantesco coperchio, il quale stava ora scivolando da un lato, in una fessura preparata per riceverlo. Se Cavor non si fosse trovato là, credo che sarei rimasto rigido, la testa china sull'apertura, cercando di scrutare nell'enorme precipizio sottostante, fino ad essere respinto dagli stretti bordi della fessura e a venire precipitato nell'abisso. Ma Cavor non aveva ricevuto il colpo dal quale io ero stato paralizzato. Egli si trovava un po' scostato quando il coperchio aveva incominciato ad aprirsi, e, comprendendo il pericolo da cui ero minacciato, mi aveva afferrato per le gambe e mi aveva trascinato indietro. Mi trovai in tal modo seduto, e riuscii ad allontanarmi carponi da quell'apertura pericolosa; rialzatomi, attraversai di corsa, seguendo Cavor, la placca di metallo fremente e sonora. Pareva che essa scivolasse con una velocità sempre maggiore, mentre i cespugli si piegavano e si aprivano al mio passaggio, nell'impeto della fuga. Era tempo! La schiena di Cavor era appena scomparsa nella foresta, e io dietro di lui, allorché la valva mostruosa rientrò nella sua custodia con un rumore assordante. Rimanemmo per un po' ansanti, senza osare avvicinarci al precipizio. Poi, con gran precauzione, a passo a passo, finimmo per collocarci in modo da potervi guardare dentro. I cespugli intorno a noi scricchiolavano e si agitavano sotto la forza della corrente d'aria che usciva da quel pozzo. Dapprima, non potemmo scorgere altro che delle pareti verticali e lisce che scendevano a picco in un'impenetrabile oscurità. Poi, lentamente, scorgemmo a mano a mano alcune luci debolissime che andavano e venivano in ogni senso. Per un certo tempo, il prodigioso precipizio assorbì tanto la nostra attenzione da farci dimenticare perfino la sfera. Via via che i nostri occhi si abituavano all'oscurità, cominciammo a distinguere piccole forme confuse e indistinte, che si muovevano fra quelle minuscole luci. Ci sforzammo di veder meglio, stupiti e increduli; ma non riuscimmo ad afferrare nulla di quanto si svolgeva sotto di noi. Ci era impossibile distinguere la più piccola cosa che potesse aiutarci a spiegare quelle forme indecise. - Che cosa può essere? - domandai. - Che cosa può essere? - L'officina...! Essi devono vivere in queste caverne durante la notte per uscirne soltanto quando sorge il sole. - Cavor! - esclamai. - Possono essere... quello... era qualcosa di simile... uomini? - Quello non era un uomo. - Non dobbiamo osare arrischiarci in nulla! - Non oseremo nulla, finché non avremo ritrovato la sfera! - Non potremo fare nulla, finché non avremo ritrovato la sfera. Egli assentì con un brontolio e si accinse a riprendere il cammino. Volto lo sguardo attorno, emise un gran sospiro, indicandomi una direzione. Ci slanciammo nella giungla, dapprima avanzando vigorosamente, poi con decrescente ardore. Poco dopo, in mezzo a grandi forme rosse e flosce udimmo un rumore di passi e delle grida. Rimanemmo rannicchiati dov'eravamo; per alcuni minuti, i rumori, provenienti da ogni direzione, si avvicinarono sempre più a noi. Ma questa volta non vedemmo nulla; cercai di dire a Cavor che non potevo più camminare senza prendere un po' di cibo, ma avevo la gola tanto arsa che non mi fu possibile articolar parola. - Cavor, - dissi, - ho bisogno di mangiare. Egli volse verso di me una faccia costernata. - Bisogna farne a meno, - rispose. - Ma io DEVO mangiare, - insistetti. - Guardi le mie labbra. - Io pure ho molta sete da un po' di tempo. - Se almeno fosse rimasta un po' di quella neve! - E' tutta sciolta. Passiamo dal clima polare a quello tropicale con la rapidità di un grado al minuto... Mi morsi le mani. - La sfera! - mormorò. - Non vi è altra salvezza, se non nella sfera. Non senza sforzo ci rimettemmo in cammino. La mia mente era attraversata ogni momento da visioni di cibi, di frizzanti bicchieri colmi di bibite estive e in particolare morivo dalla voglia di una birra. Ero ossessionato dal ricordo del barile che era rimasto nella mia cantina di Lympne. Pensavo pure alla vicina dispensa, fornita di bistecche e di pasticci di rognone, tenere bistecche e pasticci ben guarniti con salse dense, ricche e piccanti. Ad ogni istante, sbadigliavo per la fame. Giungemmo, infine, in un posto coperto di piante rosse e carnose, piante simili a mostruosi coralli, che si rompevano al solo toccarle. Osservai come erano composte. Quelle piante maledette avevano l'aspetto commestibile; e mi parve altresì che avessero un buon odore. Ne raccolsi un pezzetto e lo annusai. - Cavor! - chiamai con voce rauca. Egli si volse verso di me con una smorfia. - Non lo faccia! mi avvertì. Lasciai cadere il pezzetto, e continuammo ad arrampicarci in mezzo a quelle piante carnose e tentatrici. - Perché no, Cavor? - domandai nuovamente. - Veleno! - l'intesi rispondere, senza che volgesse la testa. Continuai ancora un po' a camminare prima di decidermi. - Tenterò ugualmente, - dissi. Egli fece un debole gesto per impedirmelo, ma io avevo già la bocca piena. Si fermò per esaminare il mio viso, mentre il suo si contraeva, assumendo le più buffe espressioni. - E' buono! - dissi. - Oh! Santo Cielo! - gridò. Mi guardava masticare. E la sua faccia esprimeva a un tempo desiderio e disapprovazione: poi, cedendo d'un tratto alla fame, cominciò a strapparne delle manate, e a riempirsi la bocca. Per alcuni minuti non facemmo che mangiare. Quella pianta era simile a un fungo terrestre, ma era formata da un tessuto meno compatto che, nell'inghiottirlo, scaldava la gola. Dapprima non provammo che una semplice soddisfazione meccanica nel mangiarne; poi il sangue cominciò a scorrere più caldo nelle vene, dandoci una sensazione di prurito alle labbra e alla punta delle dita; idee nuove e leggermente incongrue cominciarono ad agitarsi nella nostra mente. - E' buono! Diabolicamente buono! Che paradiso per il nostro eccesso di popolazione! Il miserabile eccesso di popolazione! e presi a divorarne un'altra abbondante porzione. Provavo una gran soddisfazione nel costatare che sulla luna c'erano cibi così saporiti. L'abbattimento causatomi dalla fame si cambiava in un'irragionevole allegria; la paura e il malessere, che mi avevano angustiato, disparvero completamente. Non vedevo più la luna, ormai, sotto l'aspetto di un pianeta da cui desideravo fuggire ad ogni costo, ma come un possibile rifugio per l'umanità più miserabile. Credo perfino, appena mangiato quella specie di fungo, di aver dimenticato del tutto i seleniti, i vitelli lunari, il coperchio e i rumori che poco prima mi avevano riempito di spavento. Come ebbi ripetuto per tre volte la mia osservazione sull'eccesso di popolazione, Cavor replicò con analoghe parole di approvazione. Sentivo che la testa mi girava, ma l'attribuivo all'effetto stimolante del cibo dopo il lungo digiuno. - Eh...! Eccellente scoperta... scoperta, lo sa, Cavor? balbettai. - Rassomiglia... un po' alla patata... sì, sì! - Che cosa dice...? - borbottò Cavor. - Scoperta della luna che rassomiglia un po' a una patata? Lo guardai, colpito dalla sua voce divenuta improvvisamente rauca e dalla sua stentata pronuncia. Ebbi, in un lampo di lucidità, l'impressione che si fosse ubriacato, forse per aver mangiato troppi funghi. Mi sembrava anche che s'ingannasse, immaginando di avere scoperto la luna; egli non l'aveva scoperta, c'era soltanto arrivato. Cercai di posargli una mano su un braccio, e di spiegarglielo, ma la questione era troppo difficile per il suo cervello; d'altra parte, la cosa cominciava anche per me a farsi inaspettatamente difficile da spiegare. Dopo uno sforzo momentaneo per comprendermi - mi ricordo d'essermi domandato se il fungo avesse reso a volte anche i miei occhi vitrei come i suoi - egli si lasciò andare a tutta una serie di ragionamenti per conto suo. - Noi siamo gli schiavi di ciò che mangiamo e beviamo, sentenziò con un solenne singhiozzo. Ripeté di nuovo la sua frase e, dato che io mi trovavo in uno dei miei momenti cavillosi, decisi di discutere. Probabilmente, mi sarò allontanato un pochino dall'argomento, ma è pur certo che Cavor non mi prestò l'attenzione dovuta. Si alzò in piedi alla meglio, appoggiando la mano sulla mia testa per conservare l'equilibrio, atto tutt'altro che conveniente, e cominciò a guardarsi intorno senza più temere, ormai, gli abitanti lunari. Tentai di fargli comprendere che ciò era pericoloso per varie ragioni che non erano del tutto chiare neppure a me, ma non vi riuscii, e la parola «pericoloso », essendosi non so come e perché confusa con la parola «indiscreto», finii per dire qualcosa come «ingiurioso». Dopo un immenso sforzo per coordinare le idee, ripresi la discussione, rivolgendo l'attenzione alle sconosciute piante che mi crescevano vicine. Comprendevo che bisognava immediatamente eliminare la confusione tra la luna e una patata, e mi perdetti in una lunga digressione sull'importanza di precise definizioni nelle discussioni. Facevo intanto ogni sforzo per ignorare il fatto che le sensazioni del mio corpo non erano più tanto piacevoli. Da qualche particolare, che ora non ricordo, la mia mente fu ricondotta a concentrarsi sui progetti di colonizzazione. Bisogna annettere la luna! - esclamai. - Non c'è più da tergiversare. Fa parte delle responsabilità dell'uomo bianco. Cavor...! Noi siamo... "hic"... dei satapi... dei satrapi, voglio dire... Un impero che Cesare non ha mai sognato... Verrà annunciato su tutti i giornali... La Cavoria...! la Bedfordia... "hic"... "limited". Vale a dire illimitata... in pratica. Ero, evidentemente, ubriaco. Mi slanciai in una argomentazione sconnessa per provare i benefici infiniti che il nostro arrivo avrebbe portato alla luna! Mi confusi in una dimostrazione oscura che voleva provare come l'arrivo di Cristoforo Colombo fosse stato, dopo tutto, vantaggioso per l'America. Mi accorsi che avevo dimenticato la serie di prove che mi ero proposto di enunciare, e mi limitai a ripetere, tanto per passare il tempo: - Noi siamo come Colombo...! Da quel momento, si confonde ogni mio ricordo sugli effetti prodotti dall'abominevole fungo. Vagamente ricordo che proclamammo a gran voce la nostra intenzione di non sopportare alcuna insolenza da parte di stupidi insetti come i seleniti; che riconoscemmo non essere conveniente per degli uomini nascondersi vergognosamente sulla superficie di un semplice nostro satellite, e che ci munimmo di una grande quantità di funghi, ma non so se per servircene come proiettili o per altro uso. Senza badare affatto alle profonde graffiature che ci infliggevano le piante acuminate, ci rimettemmo in cammino in pieno sole. Quasi subito, dovemmo capitare fra i seleniti. Erano sei e seguivano in fila un sentiero in mezzo alle rocce; camminando, producevano straordinari rumori, come guaiti e fischi. Parvero scorgerci a un tratto. Istantaneamente divennero muti e sostarono immobili, la faccia rivolta verso di noi. Mi sentii, per un momento, sconcertato. - Insetti, - mormorò Cavor, - insetti! Se costoro pensano che io mi adatti ancora a strisciare sul ventre... sul mio ventre di vertebrato! Ventre, - ripeté con lentezza, come se fosse giunto al colmo dell'indignazione. E, d'un tratto, gettando un grido furioso, con tre grandi slanci balzò contro di loro. Saltò male, descrisse nell'aria una serie di capriole, girando proprio sopra di loro, e disparve con grandi schizzi in mezzo a un groviglio di cactus. Non ho modo di indovinare ciò che poterono pensare i seleniti di una tale irruzione da un altro pianeta, stupefacente e, a mio avviso, assolutamente priva di dignità. Mi sembra di ricordare d'aver visto le loro schiene che fuggivano in ogni direzione, ma non ne sono sicuro. Tutti gli ultimi incidenti, capitati prima che io cadessi nell'assoluta incoscienza, sono rimasti assai vaghi e confusi nel mio spirito. So che feci un passo per seguire Cavor e che inciampai a capofitto in mezzo alle rocce. Mi sentii di colpo - di questo sono certo - seriamente male. Mi sembra ancora di ricordare una lotta accanita e degli artigli metallici che mi stringevano... Quando la mia memoria ritornò chiara, noi eravamo prigionieri, a non so quale profondità sotto la superficie della luna, immersi nelle tenebre, in mezzo a rumori strani e spaventosi, i corpi ricoperti di graffiature e di contusioni, la testa dolorante. 12. IL VOLTO DEI SELENITI. Mi ritrovai seduto e rannicchiato in una tumultuosa oscurità. Per parecchio tempo non compresi dove mi trovassi né come vi fossi arrivato. Pensai all'armadio dove a volte venivo cacciato quand'ero ragazzo, e poi a una camera da letto molto buia e rumorosa in cui rimasi durante il corso di una malattia. Ma i rumori intorno a me non erano i rumori che avevo conosciuto e v'era un leggero odore nell'aria simile a quello d'una stalla. Poi immaginai che stessimo ancora lavorando alla sfera, e che io mi trovassi in qualche modo nella cantina di Cavor. Ricordai che avevamo finito la sfera, e pensai di trovarmi ancora nel suo interno e di viaggiare attraverso lo spazio. - Cavor, - dissi, - possiamo accendere un po' di luce? Non ebbi risposta. - Cavor! - insistetti. Un gemito mi rispose. - La mia testa! - lo intesi dire. - La mia testa! Tentai di portarmi le mani alla fronte che mi doleva e mi accorsi che erano legate. Ciò mi stupì moltissimo. Nell'alzarle fino alla bocca, sentii il freddo, liscio contatto d'un metallo. Le mie mani erano incatenate. Cercai di stendere le gambe, e dovetti invece accorgermi non solo che anch'esse erano legate, ma, inoltre, che ero fissato al suolo con una catena molto più forte, passata intorno alla vita. Fui più spaventato ancora di quanto sia mai stato per le nostre strane esperienze. Tirai un momento, in silenzio, i miei legami.- Cavor! - gridai. - Perché sono legato? Perché mi ha legato mani e piedi? - Non sono stato io a legarla, - rispose, - sono stati i seleniti. I seleniti! Il mio pensiero si fissò un istante su quanto una tale parola evocava. Allora mi tornò la memoria: la desolazione nevosa, il disgelo dell'aria, il crescere della vegetazione, i nostri salti e il nostro duro strisciare in mezzo alle rocce e alle piante del cratere. Tutto l'affanno della nostra febbrile ricerca della sfera, tutto mi tornò d'un tratto alla mente... e, l'apertura della grande placca che ricopriva il precipizio! Quando poi tentai di ricostruire i nostri ultimi movimenti fino all'attuale condizione, il dolore alla testa divenne intollerabile. Urtavo contro un'insormontabile barriera, un'insuperabile lacuna. - Cavor? - Che cosa? - Dove siamo? - Come faccio a saperlo? - Siamo morti? - Che sciocchezza! - Siamo in loro potere, dunque! Egli rispose soltanto con un grugnito. Pareva che le ultime tracce del veleno lo avessero reso singolarmente irritabile. - Che cosa pensa di fare? - Come vuole che lo sappia? - Ah! Benissimo! - dissi io, e rimasi silenzioso; ma poco dopo fui scosso di soprassalto da una specie di rumore che mi aveva colpito. - Oh! Signore! - gridai; - vorrei che la finisse con questo ronzio Ricademmo nel silenzio, ascoltando la triste confusione di quei rumori che ci riempivano le orecchie come il frastuono sordo di una strada o di un'officina. Non potevo distinguere nulla. Seguivo un ritmo, poi un altro, ma li studiavo invano. Finalmente avvertii un suono nuovo e più acuto che anziché fondersi con gli altri, si staccava, per così dire, dal confuso sottofondo delle risonanze. Era una serie di suoni pochissimo definiti, come degli urti e degli stropicciamenti simili a quelli che potrebbe produrre un tralcio d'edera contro una finestra, oppure un uccello che svolazzasse in una scatola. Ascoltammo, cercando di distinguere qualcosa intorno a noi, ma le tenebre impenetrabili come una tenda di velluto nero ce lo impedivano. Seguì un rumore che si sarebbe detto un leggero movimento simultaneo di meccanismi in una serratura ben oliata; apparve allora innanzi a me, quasi sospesa - così sembrava nella nera immensità, una tenue striscia di luce. - Guardi! - balbettò Cavor come in un soffio. - Che cos'è? - Non lo so. Fissammo attentamente. La sottile linea brillante si andava ingrandendo in una fascia più larga e più pallida. Parve, poi, una luce bluastra riflessa su un muro imbiancato a calce. Il chiarore cessò di essere uniformemente parallelo; un intaglio vi si disegnò da una parte. Voltandomi per farlo notare a Cavor, rimasi stupefatto nel vedere il suo orecchio vivamente rischiarato, mentre tutto il resto della sua persona rimaneva nell'ombra. Girai il capo fino a che le mie catene me lo permisero. - Cavor! - dissi, - è dietro di noi! Il suo orecchio disparve... per cedere il posto a un occhio! Ed ecco, più forte, ripetersi quello scricchiolio che aveva preceduto la luce, mostrando alle nostre spalle il vano di una porta aperta. Dietro, si vedeva una prospettiva color zaffiro e sulla soglia si stagliava, nitido contro il bagliore, il contorno di una figura grottesca. Facemmo entrambi sforzi convulsi per voltarci, ma, non riuscendovi, rimanemmo a contemplare l'apparizione al di sopra delle nostre spalle. Io ebbi, a tutta prima, l'impressione di un deforme quadrupede che avesse la testa abbassata. Mi accorsi poi che si trattava del corpo smilzo e stretto, delle gambe sbilenche, corte e straordinariamente sottili, di un selenita, con la testa incassata fra le spalle. Non aveva però quella specie d'elmo e di vestito che essi portano sulla superficie del satellite. Ci appariva come una semplice sagoma nera e tetra, ma, istintivamente, la nostra immaginazione dava una fisionomia a quelle forme molto umane, cosicché io conclusi senza indugio che doveva trattarsi di un essere un po' gobbo, con una fronte alta e lineamenti allungati. Fatti tre passi avanti, esso si fermò. I suoi movimenti sembravano compiersi in assoluto silenzio; avanzò ancora. Camminava come un uccello, posando i piedi l'uno avanti all'altro. Si scansò dalla striscia luminosa che entrava per la porta aperta e parve scomparire completamente nell'ombra. Per un istante, i miei occhi lo cercarono dove non era; poi lo vidi eretto, proprio innanzi a noi, in piena luce. Ma la fisionomia umana che gli avevo attribuito non esisteva affatto! Avrei naturalmente dovuto aspettarmelo, ma non ci avevo pensato. E, così, fu per me un'assoluta, terribile sorpresa; quella non sembrava una faccia; la si sarebbe detta una maschera, un orrore, una deformità che poco dopo sarebbe stata rinnegata o spiegata. Quell'"affare" non aveva naso, e aveva due occhi sporgenti ai lati - quando avevo visto il suo contorno li avevo presi per orecchie - non aveva orecchie... Ho cercato poi di disegnare una di quelle teste, ma non vi sono riuscito. C'era una bocca incurvata verso il basso, come una bocca umana in un viso che esamini ferocemente... Il collo che sorreggeva quella testa era articolato in tre punti, che ricordavano le corte articolazioni della zampa d'un granchio. Non potevo distinguere le articolazioni delle membra a causa delle corregge simili a fasce che le avvolgevano e che formavano l'unico indumento di quella strana figura. La mia mente, a questo punto, fu assorbita dal pensiero dell'assoluta imperturbabilità di un tale essere. Suppongo che esso pure fosse molto meravigliato e, forse, con maggior ragione di noi. Senonché - il diavolo se lo porti! - non lo dimostrava. Noi, almeno, sapevamo bene per quale seguito di circostanze ci si trovava alla presenza di tali incompatibili creature. Ma immaginate ciò che dovrebbe pensare un rispettabile londinese, ad esempio, il quale capitasse d'un tratto alla presenza di una coppia di esseri viventi, grandi come uomini, ma assolutamente diversi da ogni altro animale terrestre, intenti a scorrazzare in mezzo ai montoni di Hyde Park! Tale dovette essere la sorpresa del selenita. Figuratevi ora la nostra! Ci trovavamo con mani e piedi legati, sporchi ed ammaccati, la barba incolta, la faccia graffiata e sanguinante. Figuratevi Cavor, con i suoi pantaloni alla zuava (strappati in vari punti dalle piante aguzze), la camicia di flanella, il vecchio berrettino da cricket, i capelli in disordine, sfuggenti a ciocche in ogni direzione. Illuminata dalla luce bluastra, la sua faccia non sembrava più rossa, ma scura; le sue labbra e le tracce di sangue secco sulle mani sembravano nere. Se possibile, io ero in condizioni ancora peggiori delle sue, a causa di quelle fungosità gialle in mezzo alle quali ero caduto. Le nostre giacche erano sbottonate; le scarpe che ci erano state tolte, si trovavano poco lontane dai nostri piedi. Eravamo seduti, con le spalle rivolte a quella luce strana e bluastra, esaminando un mostro quale solo Dürer avrebbe potuto inventare. Cavor ruppe il silenzio; cercò di parlare, emise alcuni suoni rauchi e tossì per schiarirsi la voce. Fuori, ricominciarono i muggiti terrorizzanti, come se qualche vitello lunare soffrisse. Seguì un grido acuto, e tutto ripiombò nel silenzio. Poco dopo, il selenita si volse, vacillò nell'ombra, indugiò un secondo sulla porta per gettarci un'ultima occhiata, poi se ne andò richiudendola, mentre noi venivamo a trovarci ancora una volta perduti in quel rumoroso mistero di tenebre, nel quale ci eravamo trovati svegliandoci. 13. IL SIGNOR CAVOR FA ALCUNE SUPPOSIZIONI. Per un po' di tempo nessuno di noi parlò. Mettere a fuoco tutte le cose che ci erano capitate era superiore alla mia capacità di pensare. - Ci hanno preso, - dissi alla fine. - E' stata colpa del fungo. - Già... ma se non l'avessi preso avremmo ceduto, saremmo stati spacciati. - Avremmo potuto ritrovare la sfera. Di fronte alla sua ostinazione, persi la calma e presi a imprecare fra me e me. Per un po' ci odiammo l'un l'altro in silenzio. Tamburellavo, con le dita in terra, tra le ginocchia e facevo stridere fra loro gli anelli delle mie catene. Ma subito fui forzato a parlare di nuovo. - Infine, che cosa ci capisce, in tutto ciò? - domandai umilmente. - Sono esseri ragionevoli... Fabbricano oggetti e se ne servono... Quelle luci che abbiamo visto... Si fermò: era evidente che anch'egli non ci poteva capir nulla. Quando riprese la parola, fu per ammettere. - Dopo tutto, sono più umani di quanto avevamo diritto di aspettarci. Presumo... Seguì una pausa irritante. - Che cosa presume? - Suppongo che in ogni pianeta, su cui si trovi un animale intelligente, questi avrà la sua scatola cranica nella parte superiore del corpo; avrà delle mani e camminerà eretto... Poi mutò argomento, d'un tratto. - Ci troviamo ad una certa profondità - disse. - Vale a dire... seicento metri circa o anche più... - Perché? - Fa più fresco... e le nostre voci sono molto più forti. Quel senso attenuato di tutte le cose è completamente scomparso... e così pure quella sensazione in gola e nelle orecchie... Io non l'avevo ancora costatato; ma improvvisamente me ne accorsi. - L'aria è più densa. Siamo ad una grande profondità, forse un paio di chilometri sotto la superficie della luna. - Non avevamo mai pensato a un mondo sotto la superficie lunare. - No. - Come avremmo potuto immaginarlo? - Si sarebbe potuto. Solamente... Si hanno certe abitudini mentali. Egli si mise a riflettere. - ORA, invece, - disse, - sembra così evidente! - Perbacco! E' naturale! La luna dev'essere una serie di enormi caverne con un'atmosfera interna e un mare nel centro - Si sapeva che la luna ha un peso specifico minore della terra: si sapeva pure che ha all'esterno poca aria e poca acqua; si sapeva infine che è un pianeta uguale alla terra e che, come tale, non lo si sarebbe potuto concepire composto diversamente. La deduzione ch'essa fosse cava s'imponeva chiara come la luce del sole. Eppure, mai la si è accettata come un fatto. Senza dubbio Keplero... In quell'istante, il tono della sua voce esprimeva la soddisfazione di chi ha scoperto un ordine di idee che lo soddisfa. - Sì! - continuò, - Keplero con i suoi «subvolvani » aveva ragione, dopo tutto! - Avrei preferito però che lei si accorgesse della cosa prima di metterci in cammino, - dissi. Non rispose e continuò ad esporre i suoi pensieri borbottando sottovoce, mentre io cominciavo a perdere la pazienza. - Che cosa pensa sia successo della sfera? - domandai. - Perduta! - disse con il tono di chi risponda ad una domanda senza importanza. - In mezzo a quelle piante? - A meno che non l'abbiano trovata. - E allora? - Che cosa potrei dirle di più? - Cavor! - notai con impaziente amarezza, - ho delle belle prospettive adesso per la mia società... Non mi diede risposta. - Buon Dio! - esclamai. - Se si pensa a tutti i fastidi che ci siamo presi per metterci in queste belle condizioni...! Perché siamo venuti? Che cosa cerchiamo? Che cos'è la luna per noi, o noi per essa? Abbiamo desiderato troppo e troppo arrischiato. Avremmo dovuto cominciar da cose più piccole. E' stato lei a proporre la luna. Quelle tendine a molla coperte di cavorite! Sono certo che avremmo potuto servircene per applicazioni sulla terra... Sicuro! Aveva compreso bene ciò che volevo fare? Un cilindro d'acciaio... - Sciocchezze! - interruppe Cavor. La conversazione rimase sospesa. Dopo un po', Cavor iniziò un monologo sconnesso, entusiasmandosi sempre più a mano a mano che procedeva, pur non essendo da me incoraggiato in alcun modo. - Se la trovano, - cominciò, - se la trovano, che cosa ne faranno? E' un bel problema! Può darsi anzi che sia il problema. Probabilmente, non ci capiranno nulla. Se potessero comprendere quella specie di strumenti, già da gran tempo sarebbero venuti sulla terra. Ci sarebbero venuti...? E perché no? In ogni modo, avrebbero inviato qualcosa... Non si sarebbero sempre lasciati sfuggire una simile occasione. No! Ma esamineranno la sfera. E' certo che sono intelligenti e curiosi. L'esamineranno, vi entreranno, faranno scattare i bottoni. Tac...! In tal modo noi saremmo imprigionati per sempre nella luna. Strane creature, nozioni strane... - Quanto a nozioni strane... - feci io; ma le parole mi mancarono. - Intendiamoci, Bedford! - esclamò Cavor; - lei ha partecipato a questa spedizione di sua volontà! - Lei mi aveva detto: «Lo chiami andare alla scoperta ». - Vi sono sempre dei rischi nell'andare alla scoperta. - Specialmente quando si parte sprovvisti d'armi e senza prevedere tutte le possibili eventualità! - Ero così assorbito dalla sfera! Siamo stati presi e trascinati. - Già; IO sono stato preso, vorrà dire. - Oh! Sia io sia lei. Come potevo sapere, io, quando mi sono messo a studiare la fisica molecolare, che mi avrebbe condotto qui, proprio qui, in posti così diversi da quelli immaginati? - E' sempre quella maledetta scienza! - esclamai. - E' il diavolo in persona; e i preti e gli inquisitori del Medioevo avevano ragione, e i moderni hanno torto. Arrischiate piccole esperienze e vi si offrono dei miracoli. Poi, appena ne siete accalappiato, rimanete abbandonato e demolito nel modo più inatteso. Vecchie passioni ed armi nuove... Talvolta ciò sconvolge la vostra religione, talaltra rovescia le vostre idee sociali e vi precipita nella desolazione e nella miseria! - In ogni caso, non vedo perché lei debba rimproverarmi adesso... Queste creature... questi seleniti... comunque si vogliano chiamare, ci tengono mani e piedi legati. Qualunque sia l'umore con cui lei prenda la cosa, per forza dovrà arrivare fino in fondo... e abbiamo la bella prospettiva di esperienze che richiederanno tutto il nostro sangue freddo. Si fermò, come attendesse da me una parola di assenso; ma io persistetti nel rimanermene imbronciato. - Al diavolo la sua scienza! - dissi. - La questione è di sapere come si possa comunicare con loro. I gesti, credo, saranno diversi dai nostri. Indicare gli oggetti, per esempio... Non vi sono che gli uomini e le scimmie che lo facciano. Quest'asserzione, per quanto io fossi ignorante in materia, mi sembrò evidentemente errata. - Ma quasi tutti gli animali, esclamai, - indicano gli oggetti con gli occhi o con il naso! Cavor meditò un momento sulla mia osservazione. - Già, - finì per dire, - mentre noi uomini non lo facciamo. Vi sono tali differenze! Si potrebbe... Ma come dire...? C'è la parola. I rumori che fanno sono di flauto o di piffero... ed io non vedo come potremmo imitarli...! E' questa specie di rumore il loro linguaggio? Possono avere sensi diversi, modi di espressione e di comunicazione diversi. Certo, sono esseri intelligenti; e noi pure lo siamo. Dobbiamo avere, dunque, qualche cosa di comune. Chi sa fino a che punto potremo arrivare? - Tutto ciò è fuori questione, - dichiarai. - Sono più lontani da noi dei più strani animali della terra. Sono di una specie assolutamente diversa. Perché dunque parlarne? Cavor rifletté un momento. - Non sono di questo parere. Ovunque esistano esseri intelligenti, avranno sempre qualcosa di simile, anche se si sono sviluppati su differenti pianeti... Naturalmente, se fosse questione d'istinto... se loro o noi non fossimo che semplici animali... - Sono forse esseri superiori? Assomigliano molto più a formiche erette sulle zampe posteriori che ad esseri umani... E chi ha mai potuto farsi comprendere dalle formiche? - Ma quelle macchine e quegli indumenti? No! Non sono del suo parere, Bedford. La differenza fra noi è, sì, enorme... - E' insuperabile! - La rassomiglianza dovrà servire come mezzo per superarla, in tal caso. Ricordo di aver letto, una volta, uno studio del compianto professor Galton sulla possibilità di comunicazione tra i pianeti. Allora, disgraziatamente, non mi sembrava possibile che tale lettura potesse divenire per me materialmente utile; temo pertanto di non averle prestato l'attenzione che avrei dovuto... in vista di quanto oggi ci è capitato... Eppure...! Aspetti...! «La sua idea era di cominciare con quelle grandi verità che devono costituire la base di ogni esistenza mentale e di stabilire su di esse un sistema. Si comincerebbe con i grandi principi della geometria... Consigliava di prendere alcune delle proposizioni fondamentali di Euclide e di dimostrare, con la loro costruzione, che la loro verità ci è nota; di dimostrare, per esempio, che gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali e che, se si prolungano i due lati uguali oltre la base, gli angoli così formati sono uguali anch'essi; oppure che il quadrato costruito sull'ipotenusa d'un triangolo rettangolo è uguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati. Nel dimostrare la nostra conoscenza di questi principi, proveremo che siamo possessori di un'intelligenza ragionevole... Ora, supponga che io possa disegnare una figura geometrica con un dito bagnato, oppure tracciarla nell'aria...» Tacque, ed io rimasi a meditare sulle sue parole. Per un certo tempo, partecipai quasi alla sua insensata speranza di comunicare e di interpretare quegli esseri spaventevoli. Poi l'irritazione e la disperazione dovute allo sfinimento e alla debolezza fisica ripresero il sopravvento. Mi resi conto, con nuova e subitanea chiarezza, della straordinaria follia di quanto fino allora avevo fatto. - Imbecille! - dissi. - Oh, imbecille! Straordinario imbecille...! Si direbbe che io non sia al mondo se non per compiere continuamente le peggiori stupidate...! Perché, poi, esserci allontanati dalla sfera...? Per saltellare alla ricerca di brevetti e concessioni nei crateri della luna...! Se avessimo almeno avuto il buon senso di fissare un fazzoletto ad un bastone per indicare il posto dove avevamo lasciata la sfera! Tacqui, arrabbiatissimo. - E' chiaro che sono intelligenti, - ruminava Cavor. - Si possono fare delle ipotesi. Se non ci hanno uccisi subito, ciò vuol dire che debbono avere intenzioni clementi... clementi...! Controllate, per lo meno, e chissà? Forse hanno il desiderio di entrare in relazione! Potrebbero trovarsi ancora con noi! Questa segregazione, e le occhiate rivolteci dal guardiano. Queste catene! Un elevato quoziente di intelligenza...! - Fosse piaciuto al cielo, - esclamai, - che io avessi riflettuto due volte! Tonfo su tonfo! Prima un capitombolo, poi un altro! E tutto ciò a causa della mia fiducia in lei! Perché mai non sono rimasto sulla terra a scrivere il mio dramma? Quello sì che ero capace di farlo! Quello era il mio mondo e la vita per la quale ero nato. Avrei potuto finire quel dramma; ne sono certo, era un buon lavoro. La sceneggiatura si poteva dire finita! Poi... Immaginate! Saltare sulla luna! Praticamente, questo vuol dire la mia vita rovinata! La vecchia proprietaria di quell'albergo nei dintorni di Canterbury aveva più buon senso... Alzati gli occhi, mi arrestai di colpo. Alle tenebre, era nuovamente subentrata la luce bluastra. La porta si aprì e parecchi seleniti entrarono senza rumore. Non mi mossi più, fissando le loro facce grottesche. D'un tratto, l'impressione di stranezza sgradevole si cambiò in un senso di interessamento. M'accorsi che il primo e il secondo di quegli esseri portavano delle scodelle. La nostra e la loro mente avevano dunque in comune almeno il pensiero d'un bisogno elementare. Le scodelle erano d'un metallo che, come quello delle catene, sembrava nero in quel chiarore bluastro; e ognuna conteneva un certo numero di frammenti biancastri. Tutti i pensieri tetri e la debolezza che mi opprimevano si fusero in un unico desiderio: mangiare. Seguii con occhio famelico l'avvicinarsi delle scodelle e, sebbene io abbia poi rivisto con orrore la scena in sogno, mi sembrò allora cosa del tutto insignificante che il braccio che ce le porgeva, invece di terminare con una mano, avesse soltanto una specie di pollice e di moncherino molto simile all'estremità d'una proboscide d'elefante. La sostanza contenuta nella scodella era piuttosto molle e di color marrone biancastro, molto rassomigliante a dei pezzi di "soufflé" freddo con un leggero odore di funghi. Dalla carcassa squartata di un vitello lunare, che avemmo occasione di vedere più tardi, propendo a credere che il cibo offertoci dovesse essere composto di carne di quegli animali. Avevo le mani così strettamente legate, che potevo appena sorreggere la scodella; ma, come videro i miei sforzi, due di loro con destrezza allentarono d'un giro la catena che avvinceva i miei polsi. Le loro mani-tentacolo, sfiorandomi la pelle, mi diedero la sensazione di una cosa molle e fredda. Presi subito una boccata di cibo. Aveva la stessa mancanza di consistenza che sembrava essere la caratteristica di tutte le strutture organiche sulla luna, e aveva un sapore di cialdoni o di meringhe, per nulla sgradevole. Ne presi, una dopo l'altra, due nuove boccate. - Ne avevo proprio bisogno, - dissi, mordendone un pezzo più grande ancora. Per un po' mangiammo così, senza aver più coscienza di noi stessi. Mangiammo, poi bevemmo, come dei mendicanti a una cucina gratuita. Mai più, né prima né dopo, provai una fame altrettanto prepotente, e, se io stesso non avessi fatto una tale esperienza, non avrei mai potuto credere che a oltre trecentocinquantamila chilometri dal nostro mondo, nell'angoscia più profonda, circondato, spiato dagli esseri più grotteschi e più inumani che possano popolare le peggiori visioni di un incubo, mi sarebbe stato possibile mangiare, nell'oblio più completo di quanto m'era d'intorno. I seleniti rimasero in piedi dinanzi a noi, esaminandoci ed emettendo di quando in quando una specie di pigolio tremolante che doveva, immagino, servire loro di linguaggio. Non rabbrividii nemmeno al loro contatto; e, come fu passata la prima voracità della fame, potei osservare che anche Cavor aveva mangiato con la stessa spensierata tranquillità. 14. TENTATIVI DI ENTRARE IN RELAZIONE. Quando finalmente finimmo dì mangiare, i seleniti tornarono a legarci strettamente le mani, e poi allentarono le catene che ci serravano i piedi, dandoci così la possibilità di una limitata libertà di movimento. Poi sciolsero le catene che avevamo intorno al corpo. Per fare tutto questo dovettero toccarci con le mani liberamente, e spesso una delle loro strane teste mi sfiorò il volto, o una molle mano-tentacolo mi raggiunse il capo o il collo. Non ricordo di aver provato in quella circostanza timore o repulsione per la loro vicinanza. Credo che il nostro invincibile antropomorfismo ce li facesse immaginare con fattezze umane dentro le loro maschere. Come tutto il resto, la pelle sembrava bluastra, certo per effetto della luce, ed aveva un aspetto duro e luccicante, molto simile alle elitre di un insetto, e non 1iscio, umido o peloso come quella d'un animale vertebrato. Alla sommità del capo, avevano una striscia di spine biancastre che andavano dalla base cranica alla fronte, e un'altra, molto più 1arga, s'incurvava perpendicolarmente alla prima, sopra gli occhi. Il selenita che mi sciolse dalle catene si servì della bocca per aiutare le mani. - Si direbbe che vogliano liberarci, - disse Cavor. Attenzione! ricordi che siamo sulla luna. Non faccia alcun movimento improvviso! - Vorrebbe forse provare la sua geometria? - Se appena mi si presenta l'occasione propizia! Ma potrebbe anche darsi che siano loro i primi a fare dei tentativi. Rimanemmo passivi; e, come ebbero terminato il loro lavoro, i seleniti si ritrassero di qualche passo e parvero esaminarci. Dico parvero, perché, essendo i loro occhi collocati non davanti ma lateralmente, per determinare la direzione del loro sguardo si provava la stessa difficoltà che si prova quando si tratta di un pollo o di un pesce. Conversavano fra loro, facendo quel rumore che mi era impossibile imitare o definire. La porta dietro di noi si schiuse maggiormente; con una rapida occhiata sopra la spalla, intravidi, oltre quella, un largo spazio occupato da un gruppo assai numeroso di seleniti. Sembravano una bizzarra folla molto varia. - Vogliono che noi imitiamo questi rumori? - domandai a Cavor. - Non credo, - rispose. - Pare che tentino di farci capire qualcosa. - Non riesco a comprendere i loro gesti. Ha osservato quello che gira il capo come uno che abbia un collo inamidato troppo stretto? - Facciamogli noi pure dei segni con la testa. E gesticolammo nello stesso modo; ma, vedendo che ciò non produceva alcun effetto, tentammo di imitare i movimenti dei seleniti. Questa prova parve interessarli, tanto è vero che tutti rifecero lo stesso movimento; ma, visto che anche tale tentativo a nulla serviva, vi rinunciammo. Anch'essi allora cessarono, dandosi ad animate discussioni. Uno fra loro, un po' più basso e più grosso degli altri e fornito d'una bocca particolarmente larga, si accovacciò d'un tratto accanto a Cavor, si mise con le mani e con i piedi nella stessa posizione di lui, poi, con abile mossa, si rialzò - Cavor! - gridai, - vogliono che ci alziamo. - E' proprio così! - egli assentì, guardandomi stupito, a bocca aperta. Con ripetuti sforzi, gemendo, impacciati dalle mani legate, riuscimmo a rizzarci in piedi. I seleniti indietreggiarono per lasciarci più liberi nei nostri pesanti sforzi, e sembrarono discorrere fra loro con maggior vivacità. Come fummo in piedi, il corpulento selenita si avvicinò, toccò uno alla volta i nostri volti con le sue mani-tentacolo, poi mosse verso la porta aperta. Anche questo gesto era abbastanza chiaro, e noi lo seguimmo. Notammo che quattro dei seleniti che si trovavano sulla soglia erano di assai maggiore statura degli altri e vestiti nello stesso modo di quelli che avevamo visto nel cratere, vale a dire con copricapi rotondi, guarniti di punte, e con una specie di armatura cilindrica; ognuno di loro portava un pungolo con punta e custodia di metallo scuro come quello delle scodelle. Questi quattro esseri si collocarono ai nostri lati nel momento stesso in cui uscimmo dalla stanza per penetrare nella caverna dalla quale usciva la luce. Non potemmo farci subito un'idea di questa caverna. Eravamo completamente assorti nell'esame dei movimenti e degli atteggiamenti dei seleniti che ci circondavano, consapevoli della necessità di controllare e frenare i nostri movimenti, per il timore legittimo di allarmare loro e noi stessi con qualche passo eccessivamente lungo. Davanti a noi camminava il selenita basso e corpulento che aveva risolto il problema di farci alzare; egli procedeva gesticolando in modo per noi inintelligibile e ci invitava a seguirlo. La sua faccia, a forma di imbuto, si volgeva ogni tanto dall'uno all'altro di noi in modo evidentemente interrogativo. Per un certo tempo, ripeto, rimanemmo del tutto assorbiti da queste cose. Alla fine, il vasto locale che serviva di sfondo alla scena si precisò ai nostri sguardi. Era ormai evidente che la sorgente di una gran parte di quel tumulto di suoni, che ci riempiva le orecchie da quando era cessata la stupefacente ebbrezza procurataci dai funghi, era costituita da un enorme complesso meccanico in piena attività, di cui indistintamente si scorgevano - sopra le teste e tra i corpi dei seleniti che ci circondavano - le parti che giravano e si spostavano. Da quel congegno provenivano non soltanto i rumori, ma anche quella bizzarra luce bluastra che si diffondeva dappertutto. Avevamo ritenuto naturale che una caverna sotterranea fosse illuminata artificialmente; e, in quello stesso momento, pur dinanzi all'evidenza della costatazione, io non riuscii a comprenderne tutta la reale importanza, se non quando fummo giunti in una zona di tenebre. Non saprei spiegare la struttura e l'uso di quell'immenso apparecchio, perché nessuno di noi seppe a che cosa servisse e come funzionasse. Una dopo l'altra, grandi sbarre di metallo si alzavano di scatto dal centro verso l'alto, facendo percorrere alle loro estremità quello che mi parve un tragitto parabolico; e ognuna di esse, giunta al punto più alto della corsa, lasciava cadere una specie di braccio mobile che s'incastrava in un cilindro verticale, spingendolo con forza. Intorno ad esso si muovevano degli esseri piccoli e fragili che sembravano leggermente diversi da quelli che ci circondavano. Nel momento in cui ciascuno dei bracci mobili scompariva, si udiva un tonfo e quindi un rombo; la sostanza incandescente che rischiarava la caverna cominciava a traboccare dal cilindro verticale, riversandosi, come latte bollente, fuori di una pentola e cadendo a ondate luminose in un serbatoio sottostante. Era una luce fredda e bluastra, come una fosforescenza, ma assai più brillante; dai serbatoi che l'accoglievano colava giù per mezzo di condotti attraverso la caverna. Tum, tum, tum, facevano le braccia di questo inesplicabile apparecchio, e la sostanza luminosa traboccava sibilando. Dapprima, la macchina mi parve di dimensioni ragionevoli e molto vicina a noi; ma dovetti poi notare come, in confronto, i seleniti apparissero piccoli, rendendomi conto dell'immensità reale del congegno e della caverna. Volsi gli occhi da quell'enorme pompa nuovamente ai seleniti, per i quali sentii un nuovo rispetto. Mi fermai, e Cavor fece altrettanto, rimanendo così a contemplare quella formidabile macchina. - E' prodigioso! - esclamai. - A che cosa può servire tutto ciò? La faccia, illuminata d'azzurro, di Cavor esprimeva la più rispettosa considerazione. - Non è possibile che sogni; certamente questi esseri sono... Gli uomini non avrebbero potuto fare nulla di simile! Guardi un po' come sono montate quelle manovelle su quei giunti! Il selenita corpulento aveva fatto alcuni passi senza che noi ce ne fossimo accorti. Ritornando, si mise tra noi e la grande macchina. Evitai di guardarlo, indovinando che egli aveva in mente di farci proseguire il cammino. Si mosse infatti nella direzione che voleva farci seguire, si volse, ritornò da noi, ci toccò la guancia per richiamare la nostra attenzione. Il mio sguardo s'incrociò con quello di Cavor. - Non potremmo fargli comprendere che siamo curiosi di osservare questa macchina? - domandai. - Ma sì, - rispose Cavor. - Tentiamolo. - E, voltosi verso la nostra guida, sorrise, indicò la macchina, ricominciò i gesti, appoggiò un dito sulla fronte, poi mostrò la macchina ancora. Scioccamente sembrò pensare che quella sua mimica potesse essere tradotta in una specie di gergo: «Io guardare ciò; io pensare a ciò moltissimo; sì!». Il suo comportamento parve per un momento far desistere i seleniti dal proposito di farci proseguire. Si guardarono, le loro teste bizzarre si agitarono, le voci fischianti garrirono, rapide e scorrevoli. Poi uno di loro, grande e magro, coperto non solo delle fasce comuni agli altri, ma anche di una specie di mantello, cinse con la sua mano-proboscide la vita di Cavor e lo trascinò delicatamente dietro la nostra guida che si rimise in marcia. Cavor resistette. - Possiamo bene cominciar a spiegarci, ora. Forse ci prendono per una nuova specie di animali, una nuova specie di vitelli lunari, forse! Eppure, è di grande importanza il provar loro che siamo dotati d'intelligenza. Cominciò a scuotere violentemente il capo. - No! No! - Gridò.Io non seguire subito; io guardare ciò. - Non c'è dunque nessun teorema geometrico che lei possa spiegare a questo proposito? - suggerii, mentre i seleniti si consultavano tra loro. - Potrebbe darsi che una parabola... - cominciò. Ma, d'un tratto, gettò un grido e fece un salto di più di due metri. Uno dei quattro seleniti armati l'aveva punto con il suo pungolo! Mi volsi, facendo un rapido cenno di minaccia all'uomo del pungolo, che si ritrasse bruscamente. Questo gesto, come il grido ed il salto di Cavor, spaventarono i seleniti, che s'allontanarono in fretta, mostrandoci la loro faccia dall'espressione stupita e immobile. Durante uno di quei momenti che non sembravano finir mai, restammo in atteggiamento di irritata protesta, affrontando un semicerchio di quegli esseri inumani. - Mi ha punto! - disse Cavor, con un singhiozzo nella voce. - Ho visto! - risposi. - Al diavolo! - cominciai indirizzandomi al selenita, - noi non vogliamo saperne! Per chi mai ci prendete? Lanciai rapidamente un'occhiata a destra e a sinistra. Di la dalla linea azzurra segnata dalla luce nella caverna, vidi molti altri seleniti venire di corsa alla nostra volta; erano grandi e snelli, e uno di loro aveva la testa più grossa degli altri. La vasta e bassa caverna si perdeva in ogni direzione nelle tenebre più dense. Il tetto, me lo ricordo bene, presentava un rigonfiamento verso il basso, come se avesse ceduto sotto il peso dell'enorme quantità di rocce che ci imprigionavano. Nessun mezzo di scampo, nessuno! Sotto, sopra, c'era l'ignoto; e noi, uomini senza difesa, eravamo circondati da quelle creature inumane, armate di pungoli minacciosamente branditi contro di noi. 15. IL PONTE SOPRA L'ABISSO. La pausa ostile durò soltanto per un momento. Suppongo che tanto noi quanto i seleniti ci mettessimo a pensare rapidissimamente. La mia più chiara impressione fu che non v'era nulla alle spalle che ci potesse sostenere, e che eravamo destinati ad essere accerchiati e uccisi. L'assurda follia della nostra presenza in quel luogo calò sopra di me come immenso biasimo. Perché mai avevo intrapreso questa folle e disumana impresa? Cavor venne al mio fianco e mi posò la mano sul braccio. Il suo pallido e atterrito viso era spettrale nella luce azzurra. - Non possiamo far nulla! - disse. - E' un errore. Essi non comprendono. Bisogna seguirli dove vogliono condurci. Lo guardai un momento; poi mi volsi verso i seleniti che tornavano ad agitarsi. - Se avessi le mani libere... - Inutile! - diss'egli, anelante. - Inutile...! - Seguiamoli. E si mise a camminare per primo, nella direzione che ci era stata indicata. Lo seguii, a mia volta, cercando, per quanto era possibile, d'assumere un atteggiamento sottomesso; ma la stretta delle catene che mi avvincevano i polsi mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Non ricordo più nulla della caverna, pur essendo dovuto rimanerci a lungo; guardavo le cose che vi si trovavano, ma, nell'atto stesso in cui le osservavo, uscivano dalla mia mente per sempre. Credo che tutti i miei pensieri si concentrassero sulle catene che mi stringevano i polsi e sui seleniti, specialmente su quelli che portavano elmi e pungoli. Dapprima ci camminavano al fianco, a rispettosa distanza; poi altri tre si unirono, e i primi ci si avvicinarono a portata di mano. Vedendoli accostarsi così, ebbi un momento di inquietudine. Il selenita piccolo e corpulento, che prima camminava alla nostra destra, riprese il suo posto davanti a noi. Con quale lucidità l'immagine di questo gruppo è rimasta impressa nel mio cervello! Davanti a me Cavor, a testa bassa, le spalle curve, e il viso ignobile della nostra guida che s'agitava in ogni senso; al nostro fianco i seleniti armati di pungoli, vigili, a bocca aperta; e tutto ciò in una luce azzurrastra, uniforme. Ma un altro ricordo mi è rimasto lucido nella mente, oltre alle mie impressioni personali; una specie di canaletto, attraversando il suolo della caverna, scorreva lungo il sentiero roccioso da noi seguito. Era gonfio di quella stessa sostanza luminosa, d'un azzurro lucente, che sgorgava dalla grande macchina. Poiché io seguivo il margine di questo ruscello, posso ben assicurare che quel liquido non irradiava calore. Aveva una lucentezza brillante, ma non era né più caldo né più freddo di quant'altro si trovava nella caverna. Dopo essere passati proprio sotto alcune leve in movimento di un'altra grande macchina, giungemmo a un'enorme galleria, nella quale il rumore dei nostri passi, pur essendo a piedi nudi, si ripercuoteva con forza. Ad eccezione del chiarore emanato dal ruscello alla nostra destra, nessun'altra luce rischiarava la volta. Le ombre nostre e quelle dei seleniti si disegnavano gigantesche sul soffitto e sulle pareti irregolari della galleria. Qua e là, sulle muraglie, dei cristalli scintillavano come gemme; talvolta la galleria s'allargava formando una grotta con stalattiti, e diramandosi in altri tronchi di gallerie che si perdevano nelle tenebre. Mi sembrò che si camminasse da molto tempo. Il ruscello luminoso scorreva lentamente; il rumore dei nostri passi, e la loro eco, davano la sensazione di un brontolio irregolare. La mia mente continuava a fermarsi sul problema delle catene. - Se potessi fare scorrere un giro in questo senso e poi torcerlo così... Se gradatamente lo tentassi, si accorgerebbero che io cerco di liberarmi il polso dalla stretta minore? E, ammesso che se ne accorgessero, che cosa farebbero? - Bedford! - esclamò Cavor, - la strada scende: non cessa di scendere. Questa osservazione mi strappò alle mie nere preoccupazioni. - Se avessero voluto ucciderci, - continuò, rallentando il passo per portarsi al mio fianco, - l'avrebbero già potuto fare. - E vero! - dovetti ammettere anch'io. - Non ci capiscono, - riprese; - ci credono null'altro che strani animali... qualche specie sconosciuta di vitelli lunari, forse. Soltanto quando ci avranno osservati meglio, comprenderanno che siamo dotati d'intelligenza... - Già...! Quando lei traccerà i suoi problemi geometrici, dissi. - Forse. Continuammo a trascinarci ancora per un po'. - D'altronde, - aggiunse Cavor, - questi che ci accompagnano possono essere seleniti d'una classe inferiore. - Satanici idioti! - risposi, gettando uno sguardo d'odio alle loro facce esasperanti. - Se sopportiamo quel che ci fanno... - Per forza! - interruppi. - Ce ne potranno essere altri meno stupidi. Questa non è che la parte esteriore del loro mondo. L'altra dev'essere situata nelle profondità della luna; avrà caverne, passaggi, gallerie; poi il mare, il mare, finalmente...! Centinaia di chilometri più sotto! Queste parole mi fecero pensare a tutti i chilometri di rocce e gallerie che senza dubbio ci sovrastavano; ebbi l'impressione che gravassero d'un tratto sulle mie spalle, schiacciandomi. - Lontano dal sole e dall'aria, - osservai, - una miniera profonda solo mezzo chilometro è soffocante. - Qui no, in ogni caso... E probabile che... La ventilazione! L'aria andrebbe dalla parte scura della luna verso la parte rischiarata, e tutto l'acido carbonico esalerebbe là per nutrire le piante. In cima a questa galleria, per esempio, si sente una vera brezza. Che mondo dev'essere! Questi pozzi e queste macchine ce ne danno un primo saggio...! - Ma... e il pungolo! - osservai, - non dimentichi il pungolo! Per un momento Cavor camminò in silenzio. - Eppure, anche questo pungolo...- riprese. - Ebbene? - Lì per lì, ero furibondo. Ma... forse è necessario che noi continuiamo. Essi hanno una pelle diversa e, probabilmente, anche nervi differenti dai nostri. Può darsi che non comprendano la nostra indignazione per essere trattati in quel modo... Proprio come a un abitante di Marte potrebbe non piacere la nostra abitudine di toccarci il gomito. - Faranno bene a star molto attenti al modo in cui mi toccheranno il gomito! - A regola, dopo tutto, procedono in modo intelligente, cominciando dagli elementi della vita e non del pensiero: la nutrizione, la forza, il dolore: ossia dai principi fondamentali. - Non c'è dubbio, - approvai. Egli continuò a parlare del mondo grandioso e fantastico nel quale ci sprofondavamo. Un po' alla volta, dal suo modo di parlare, compresi che Cavor non disperava di poter penetrare più profondamente nei misteriosi abissi del pianeta. La sua mente, occupata da macchine e da scoperte, era del tutto libera dalle apprensioni che assillavano l'animo mio. Non già che egli avesse l'idea di utilizzare tali cose; desiderava soltanto conoscerle. - Dopo tutto, - osservò, - la nostra situazione è fantastica...! L'incontro di due mondi! Che cosa vedremo...? Pensi a tutto quello che può trovarsi sotto di noi...! - Se non c'è più luce, non vedremo molto, - osservai. - Questa è solamente la crosta esterna. Sotto, in basso, vi sarà di tutto... Quali meraviglie potremo raccontare! - Un animale di specie rara potrebbe consolarsi in questo modo mentre lo conducono al giardino zoologico...! Non è detto che ci mostreranno tutto. - Quando si accorgeranno che siamo esseri ragionevoli, rispose Cavor, - vorranno sapere che cosa succede sulla terra. Anche ammesso che non siano suscettibili di generose emozioni, cercheranno di imparare... e quante cose devono conoscere! Quante cose inimmaginabili! Egli continuava a pensare alla possibilità di imparare cose che sulla terra non avrebbe mai sperato di venire a sapere; costruiva, così, castelli in aria, dimenticando perfino la ferita a sangue, causatagli dai pungoli del selenita. Non ricordo bene tutto ciò che disse, perché la mia attenzione era assorbita dal fatto che la galleria che seguivamo andava allungandosi sempre più. Dalla sensazione causata dall'aria, sembrava che si arrivasse in uno spazio più grande; ma chi poteva rendersi conto delle dimensioni, immersi com'eravamo nelle tenebre? Il piccolo ruscello luminoso si prolungava in un nastro sempre più sottile, fino a scomparire lontano lontano, davanti a noi. Poco dopo i nostri sguardi non distinsero più le pareti rocciose. Non scorgevamo altro che il sentiero che si svolgeva sotto i nostri passi e la fosforescenza azzurrognola del piccolo ruscello. Le forme di Cavor e della guida selenita si disegnavano davanti a me; la parte verso il ruscello luminoso appariva di un azzurro chiaro e lucente; l'altra, non più rischiarata dal riflesso della parete, si perdeva indistintamente nell'oscurità. Mi accorsi presto che ci avvicinavamo a un declivio, poiché la fosforescenza del rigagnolo scomparve d'un tratto. Ci parve, nello stesso momento, d'aver toccato l'orlo. Il ruscello luminoso descriveva una curva, esitava, poi precipitava in una voragine che doveva essere molto profonda, perché il rumore della caduta non giungeva fino a noi. L'oscurità rendeva impenetrabile il burrone; scorgemmo solo una forma indecisa, simile a un ponticello, che sporgeva dall'orlo della parete e scompariva, perdendosi nelle tenebre. Ci arrestammo un istante sul margine del precipizio, cercando di distinguere qualcosa in quell'insondabile profondità. La guida, vedendo che ci eravamo fermati, ci spinse per il braccio. Poi, precedendoci, avanzò fino al ponticello e vi salì, volgendosi per vedere se noi la seguivamo. Quando vide che prestavamo attenzione alle sue mosse, continuò ad avanzare, camminando con passo sicuro, come se si fosse trovata sulla terraferma. La sua figura fu nitidamente visibile per un istante, poi divenne una macchia azzurra e scomparve. Segui una pausa. - Sì, certamente... - disse Cavor. Un altro selenita mosse alcuni passi sul ponte gettato sopra l'abisso, poi si volse verso di noi con aria indifferente. Gli altri seleniti si disposero alle nostre spalle. La guida ricomparve, guardandoci con un'espressione interrogativa: sembrava volesse domandarci perché non l'avevamo seguita. - Non possiamo assolutamente attraversare il ponte, dichiarai. - Io sento che non potrei fare tre passi su quella tavola dondolante, nemmeno se avessi le mani libere, - affermò a sua volta Cavor. Ci guardammo in viso costernati. - Essi non sanno che cos'è la vertigine - riprese Cavor. - E assolutamente impossibile per noi mantenerci in equilibrio su quest'asse. - Io credo che vedano le cose diversamente da noi. Li ho osservati e mi domando se immaginano che questa è per noi una completa oscurità. Come potremmo farlo capir loro? - In ogni caso, bisogna pur tentare! Credo che queste considerazioni siano state scambiate fra noi a voce alta, nella vaga speranza che i seleniti potessero in qualche modo comprendere ciò che andavamo dicendo. Era per noi una cosa d'importanza capitale poter avere una spiegazione con loro. Ma quando vidi che sulle loro facce non appariva nessun'espressione, compresi perfettamente che ogni spiegazione sarebbe stata impossibile. Non importa! Sul ponticello non mi sarei arrischiato ugualmente. Tentai di sciogliere le mani dalle strette delle catene. Due seleniti mi si avvicinarono e mi spinsero con delicatezza verso l'abisso. Scossi la testa con forza. - Questo, poi, no! - gridai. - E' inutile! Voi non capite nulla. Un altro selenita venne ad aggiungere i suoi sforzi a quelli degli altri; fui così obbligato ad andare avanti. - Attenti! - gridai. - Fate piano, o guai a voi! Per voi è facile, ma... Mi volsi repentinamente, prorompendo in maledizioni, poiché uno dei seleniti armati mi aveva punto nella schiena con il suo pungolo. Strappati i polsi dalla stretta dei piccoli tentacoli e voltomi al selenita che mi aveva punto, gridai: - Vilissima bestia! Ti avevo avvertito! Di che cosa credi sia fatto, per infilzarmi il pungolo nella pelle? Se mi tocchi ancora... Per tutta risposta, quello mi punse nuovamente. Udii la voce tremante di Cavor che implorava. Credo che anche allora cercasse di accomodare le cose. Ma la seconda puntura inflittami, dando sfogo alla mia indignazione, aveva centuplicato la mia energia. Con un violento strappo, spezzai un anello della catena; tutte le considerazioni che ci avevano lasciato senza resistenza nelle mani di quegli esseri lunari disparvero. Tremante di collera e non pensando affatto alle conseguenze, con il pugno circondato dalla catena, sferrai un colpo diritto davanti a me, colpendo in piena faccia il mostro dal pungolo. Si verificò allora una di quelle orribili sorprese di cui il mondo lunare abbonda... La mia mano, così corazzata, sembrò passare attraverso la faccia del selenita, che si ruppe come un uovo. Si sarebbe detto che io avessi picchiato su uno di quei dolci dalla crosta dura che contengono sostanze liquide. Cedendo alla violenza del pugno, il corpo senza consistenza del selenita girò su se stesso, mosse due o tre passi, poi incespicò e cadde a terra, come una massa floscia. Mi ritrassi stupito; non potevo credere che il corpo d'un essere vivente potesse presentare così poca consistenza. Ero forse vittima d'un sogno? Purtroppo era realtà. Né Cavor né gli altri seleniti sembravano essersi mossi nel tempo trascorso fra il momento in cui io avevo fatto il voltafaccia e quello in cui il selenita, colpito dal mio pugno, era caduto a terra. Tutte le nostre guardie si scostarono da noi; questo momento di tregua durò qualche secondo, dopo la caduta del selenita. E tutti sembravano sforzarsi di comprendere. Ricordo di essere rimasto in piedi, le braccia a metà piegate, cercando io pure di rendermi ragione dello strano fatto accaduto. «E poi? E poi?» Ecco la domanda che mi torturava il cervello. Poi, d'un tratto, ci rimettemmo in movimento. Compresi che era necessario mi liberassi dalle catene; prima, però, bisognava mettere in fuga i seleniti. Mi volsi verso il gruppo dei tre armati di pungolo. Senza attendere, uno di loro mi lanciò contro la sua arma, che mi sfiorò la testa, cadendo alle mie spalle nell'abisso tenebroso. Ma, nel momento stesso in cui l'arma mi sfiorava, io saltai con tutta la mia forza sul selenita. Come vide ch'io prendevo lo slancio, fece un mezzo giro per sottrarsi; ma non fece a tempo. Piombai diritto su di lui, rovesciandolo al suolo, scivolai sul suo corpo fracassato e capitombolai a mia volta. Rialzatomi, vidi da ogni parte le schiene bluastre dei seleniti sparire nell'ombra. Aperto un anello della catena e liberate le gambe da ogni vincolo, mi alzai subito, scuotendo in mano le catene. Un altro pungolo, lanciato come una freccia, fischiò alle mie orecchie: feci per precipitarmi verso le tenebre da cui era partito, ma non scorgendo più seleniti, ritornai da Cavor che era rimasto vicino al burrone e, alla luce del ruscello luminoso, faceva sforzi convulsi per liberarsi i polsi. - Avanti! Di qua! - esclamai. - Le mie mani! - disse, in tono supplichevole. Poi, comprendendo che non osavo corrergli vicino nel timore che i miei passi mal calcolati potessero portarmi di là dal margine, mosse egli stesso verso di me, trascinando i piedi, e con le braccia tese. Presi subito le sue catene per staccarle. - Dove sono? - mi domandò il pover'uomo con voce anelante. - Scappati...! Ma ritorneranno...! Lanciano certe cose...! Da che parte ci dirigiamo? - Dalla parte della luce, verso la galleria, vero? - Sì! - risposi, mentre riuscivo a liberargli le mani. Mi inginocchiai per liberargli anche le gambe dalle catene. Qualcosa, non so che cosa, venne a cadere nel ruscello, facendo schizzare intorno a noi la sostanza luminosa. Lontano, alla nostra destra, si fecero udire suoni fiochi. Tolte a Cavor le catene che gli serravano le caviglie, gliele misi in mano, dicendogli: - Picchi con queste. E, senza attendere risposta, mi slanciai a grandi salti lungo il sentiero dal quale eravamo venuti. Sentivo dietro di me il rumore sordo dei suoi passi sul suolo. Avanzammo così, a passi da gigante. Ma un tal modo di correre, come si può facilmente comprendere, era assolutamente diverso da quello in uso sulla terra, dove si prende lo slancio e, quasi istantaneamente, si tocca il suolo; sulla luna, a causa del minor peso, si volava invece attraverso l'aria per qualche secondo prima di ritoccare nuovamente il suolo. Data la nostra immensa fretta, ciò era disperante, poiché faceva l'effetto di grandi pause, durante le quali si sarebbe potuto contare, volendo, fino a sette o a otto! Un colpo di piede e si prendeva lo slancio. Nell'intervallo che passava prima di toccare di nuovo il suolo ogni genere di domande mi attraversava la mente: «Dove sono i seleniti? Che cosa faranno? Arriveremo mai alla galleria? Cavor è ancora molto indietro? Non c'è pericolo che gli taglino la strada?». Toccavo il suolo, mi slanciavo e partivo per un nuovo salto. Vidi un selenita fuggire davanti a me; ma le sue gambe si muovevano come quelle di un uomo sulla terra! Lo vidi, almeno mi sembrò, gettare uno sguardo dietro le sue spalle, e l'intesi emettere un grido acuto nel momento stesso in cui spariva alla mia vista, sprofondandosi da un lato, nelle tenebre. Era, credo, la nostra guida; ma non ne sono sicuro. Dopo un altro salto grandissimo, le pareti rocciose ricomparvero ai nostri lati; due passi ancora, e mi trovai nella galleria, dove moderai l'andatura, data la scarsa altezza della volta. Giunto ad una curva, mi fermai e mi volsi. Apparve subito Cavor; sguazzava ad ogni passo nel ruscello di luce azzurra, e, avvicinandosi a poco a poco, finì per cozzare contro di me. Ci aggrappammo l'uno all'altro. Per un momento, almeno, eravamo sfuggiti ai nostri guardiani e ci trovavamo soli. Trafelati e ansanti, parlavamo a frasi interrotte, concitate. - Che cosa facciamo? - Nascondiamoci! - Dove? - In una di queste caverne laterali. - E poi? - Ci penseremo. - Benissimo! Avanti, dunque! Ripreso il cammino, arrivammo presto in una caverna debolmente rischiarata, da cui si diramavano gallerie in ogni direzione. Cavor era davanti. Dopo aver un po' esitato, scelse un'apertura nera che sembrava adatta come nascondiglio. Si fece innanzi in quella direzione, poi si volse. - E' completamente scura, - disse. - Le sue gambe e i suoi piedi ci rischiareranno. E' tutto inzuppato di quel liquido luminoso. - Ma... Un tumulto di suoni, dominato da uno maggiore che sembrava il colpo di un gong, si fece udire nella galleria principale. Avemmo per un momento l'orribile visione di un tumultuoso inseguimento. E scappammo immediatamente per rifugiarci nella caverna scura; la nostra corsa era rischiarata dalla fosforescenza delle gambe di Cavor. - Fortuna che ci hanno levato le scarpe! - dissi; - altrimenti chissà che baccano avremmo fatto! - Continuammo a correre facendo i passi più piccoli che potevamo, nella paura di urtare contro la volta della caverna. In breve, ci sembrò d'esserci allontanati assai dal tumulto che era andato a poco a poco diminuendo per poi cessare completamente. Fermatomi per gettare uno sguardo dietro di me, udii il rumore dei passi di Cavor che si allontanavano. D'un tratto, lo sentii fermarsi. - Bedford, - balbettò, - c'è una specie di luce davanti a noi. Guardai, ma, a tutta prima, non potei distinguere nulla. Vidi poi la sua testa e le spalle spiccare debolmente contro un'oscurità meno profonda. Vidi anche che quelle tenebre non più fitte non erano bluastre come tutte le luci all'interno della luna, ma d'un grigio tenue, d'un pallore incerto e debole che non poteva essere dato se non dalla luce del giorno. Cavor aveva notato subito la differenza, prima ancora di me, aprendo il cuore alla speranza. - Bedford! - mormorò con voce tremante, - Bedford...! Questa luce... E' possibile...? Non osava manifestare completamente il suo pensiero, la sua speranza; e tacemmo entrambi. D'un tratto, dal rumore dei suoi passi, compresi che si rimetteva in cammino verso quella pallida luce. E lo seguii, mentre il cuore mi batteva forte nel petto per la commozione. 16. PUNTI DI VISTA. La luce diveniva più forte a mano a mano che avanzavamo. In breve essa fu forte quasi quanto la fosforescenza delle gambe di Cavor. La nostra galleria si stava allargando in una caverna, e la nuova luce brillava all'estremità di questa opposta a noi. Notai qualcosa che aumentò le mie speranze. - Cavor, - dissi, - viene dall'alto! Sono certo che viene dall'alto! Egli non dette risposta, ma accelerò il passo. Indiscutibilmente era una luce grigia, d'argento. Dopo poco, ci trovammo al di sotto di essa. Filtrava giù, attraverso un interstizio della parete della caverna, e, come fissavo in alto, sul mio volto cadde una goccia d'acqua. Trasalii e mi tenni da parte... e un'altra goccia cadde abbastanza distintamente sul suolo roccioso. - Cavor! Se uno di noi sollevasse l'altro, si potrebbe arrivare al crepaccio; - La solleverò, - mi rispose; e, immediatamente mi alzò come se non fossi pesato più di un bambino. Passato un braccio nella fessura, potei aggrapparmi con la punta delle dita ad un piccolo bordo. La luce bianca era molto più viva. Con due dita mi sollevai quasi senza sforzo, nonostante sulla terra il mio peso fosse di settantasette chili circa; raggiunta una delle sporgenze più alte, riuscii a mettere i piedi sull'orlo. Tesi le braccia ed esplorata tastoni la roccia, potei costatare che la fessura si allargava gradatamente. - Ci si può arrampicare, - dissi a Cavor; - lei monterà aggrappandosi al braccio che io le tenderò. Mi incuneai tra le pareti, misi un piede e un ginocchio sull'orlo ed allungai la mano quanto più mi fu possibile. Non vedevo Cavor, ma intesi il leggero rumore che fece accingendosi a saltare. D'un solo slancio, egli giunse, con la leggerezza d'un gatto, ad aggrapparsi al mio braccio. Lo tirai a me fino a che ebbe appoggiato una mano sull'orlo. - Strano! - osservai. - Chiunque potrebbe essere alpinista sulla luna. - Senza attendere oltre, incominciai alacremente la scalata, salendo il pendio con slancio. Alzai di nuovo la testa; la fessura s'ingrandiva continuamente e il chiarore diveniva più intenso. Eppure non era la luce del giorno! In un istante potei rendermene conto; a tal vista, la mia costernazione fu così grande che avrei picchiato la testa contro la roccia; scorgevo solo uno spazio aperto, degradante in un pendio irregolare, tappezzato da una miriade di piccoli funghi a forma di bastone, ognuno dei quali irradiava quella luce grigio argentea. Sostai un attimo, gli occhi fissi ad osservare il loro splendore; poi, slanciatomi sul ripiano, ne strappai una mezza dozzina, lanciandoli contro la parete. Desolato, infine mi sedetti, scoppiando in un riso amaro, mentre dal crepaccio faceva capolino la rossa testa di Cavor. - Ancora questa maledetta fosforescenza! - esclamai. - Non c'è bisogno di affrettarsi. Si sieda e faccia come se fosse a casa sua. - Mentre egli borbottava, imprecando contro l'avverso destino, io mi divertivo a lanciare nella fessura manate di piccoli funghi. - Credevo fosse il chiarore del giorno! - disse Cavor a mezza voce. - Il chiarore del giorno! - esclamai. - L'aurora, il tramonto, le nuvole, il cielo tempestoso! Li rivedremo mai, noi? Mentre parlavo, tutta una visione del nostro mondo si presentò ai miei occhi, brillante, minuscola e chiara, come lo sfondo di certe pitture italiane. - Il cielo che cambia, il mare che si muove, le colline e gli alberi verdi, paesi e città risplendenti sotto il sole... Pensi, Cavor, pensi ai tetti umidi, fumanti sotto i raggi del sole al tramonto... Pensi alle finestre che scintillano, rifrangendo l'incendio del cielo. - Non rispose. - Ed eccoci rinchiusi e nascosti in quest'orribile pianeta, che non è un mondo, con il suo oceano di tenebre all'interno, il giorno torrido e il silenzio mortale delle notti alla superficie. E tutti quei mostri, che ora indubbiamente ci cercano, esseri orribili di cuoio, uomini simili a insetti, certamente creature diaboliche! Ma, dopo tutto, hanno ragione! Che cosa siamo venuti a fare? A romperli in mille pezzi, a portare il disordine fra loro. Può darsi che l'intero pianeta sia in cerca di noi. Di minuto in minuto, potremmo sentire i loro piagnucolii e il suono dei loro richiami. Che cosa fare? Dove andare? Siamo come serpi in una villa solitaria... - E' colpa sua, - disse Cavor. - Colpa mia! - urlai. - Ah! Signore! - Avevo un'idea. - Al diavolo le sue idee! - Se ci fossimo ostinati a non muoverci... - Con quei pungoli? - Sì... Ebbene, ci avrebbero portati... - Su quel ponte? - Sì, avrebbero dovuto portarci. - Preferirei essere portato dal diavolo! Ricominciai a distruggere i funghi, ma, d'un tratto, vidi una cosa che mi colmò di stupore. - Cavor! - dissi, - queste catene sono d'oro! La testa fra le mani, egli era assorto in profonde riflessioni. Si volse lentamente e mi fissò; poi, com'ebbi ripetuto la frase, abbassò gli occhi sulla catena che gli avvolgeva il polso destro. - Ma sì... Ma sì! Infatti! - Il suo viso abbandonò quasi subito l'espressione d'interesse passeggero che aveva assunta. Esitò un attimo e si sprofondò nuovamente nella sua meditazione. Frattanto, io andavo meravigliandomi di non aver osservato prima quel fatto; ma dovetti poi riconoscere che la colpa era tutta di quella luce bluastra che fino allora ci aveva rischiarati, alterando ai nostri occhi il colore del metallo. Fatta questa scoperta, i miei pensieri seguirono un corso che mi condusse lontano. Dimenticavo che pochi minuti prima mi ero domandato che cosa facevamo sulla luna. - Oro...! Fu Cavor il primo a parlare. - Mi sembra che due vie restino da seguire... - Quali? - Bisognerà tentare di aprirci ad ogni costo un passaggio che ci riconduca all'aperto, per cercare la sfera e ritrovarla prima che il freddo della notte lunare ci uccida, oppure... Tacque. - Oppure? - chiesi, quasi certo del seguito. - Oppure tentare, una volta ancora, di stabilire un rapporto con questa gente della luna. - Per conto mio, la prima proposta è la migliore. - Io esito... - Ed io no. - Io non penso, capisce, - proseguì Cavor, - di poter giudicare i seleniti da quanto abbiamo visto finora. Il loro mondo centrale, il loro mondo civilizzato, deve trovarsi molto più lontano, nelle profondità vicine al mare. La regione della crosta nella quale ci troviamo non è che di confine, una regione pastorale. Questo, almeno, è il mio pensiero. I seleniti che abbiamo visto potrebbero non essere altro che l'equivalente dei nostri pastori o dei nostri operai. L'uso che hanno fatto di quei pungoli, i quali probabilmente servono loro per i vitelli lunari, la mancanza di immaginazione di cui hanno dato prova, credendo che noi potessimo fare ciò che facevano loro, la loro indiscutibile brutalità, tutto ciò sembra dimostrare qualcosa del genere. Ma se noi avessimo sopportato... - Nessuno di noi avrebbe potuto sopportare a lungo la traversata di un burrone senza fondo sopra un legno largo venti centimetri... - No, - disse Cavor, - ma allora... - Allora non ne voglio sapere. Egli analizzò un'altra serie di possibilità. - Supponga che noi avessimo potuto rifugiarci in qualche angolo e difenderci da quei villanzoni... Se si fosse potuto, ad esempio, resistere per una settimana, è probabile che la notizia del nostro arrivo sarebbe giunta sino alla popolazione più intelligente. - Ammesso che esista! - Deve esistere. In caso diverso, da dove verrebbero quelle macchine straordinarie...? - E' probabile, ma è la peggiore delle possibilità che ci si prospettano! - Potremmo tracciare delle iscrizioni sui muri... - Sappiamo noi se i loro occhi vedranno i segni che noi tracceremo? - Potremmo inciderli! - Sì... forse... E un altro ordine di pensieri mi assorbì. - Dopo tutto, - dissi, - spero che non riterrà questi seleniti più saggi degli uomini! - Devono sapere molto più di noi... Molte cose differenti dalle nostre, ad ogni modo. - Sì... sì... - esitai. - Ma penso che ammetterà, caro Cavor, di essere un uomo eccezionale. - E perché? - Ma via! Lei è un uomo piuttosto solo; lo è stato fino ad ora... voglio dire che non ha preso moglie. - Non ne ho avuto bisogno. - Non è mai diventato più ricco di quanto sia oggi. - Neanche di questo ho mai avuto bisogno. - Si è lanciato nelle ricerche scientifiche... - Una certa curiosità, è naturale... - Lei la pensa così, e sta bene: crede che ogni mente debba provare il bisogno di sapere. Ricordo di averle domandato una volta perché mai proseguiva tante ricerche, e lei mi ha risposto che desiderava essere nominato membro di un istituto, che avrebbe fatto battezzare la sua sostanza con il nome di cavorite e altre piccinerie di questo genere. Sapeva benissimo che non era la verità; ma la mia domanda le giunse allora all'improvviso e fu obbligato a rispondere qualcosa che potesse passare per un motivo plausibile. In realtà, lei continuava a fare ricerche, solo perché ne aveva bisogno. E' una necessità per lei. - Può darsi... - Troverà un uomo su un milione che senta un tale bisogno. La massima parte degli uomini desidera... be', cose diverse! Ve ne sono pochissimi che amano la scienza per la scienza, e io non sono tra quelli, gliel'assicuro... Questi seleniti sembrano appartenere ad una specie di esseri abili e industriosi; ma sa, forse, se il più intelligente di loro si interessi di noi e del nostro mondo? Credo non sappiano nemmeno che esiste un altro mondo. Non escono mai di notte... gelerebbero fuori! Non hanno mai visto altri corpi celesti all'infuori del sole accecante. Come potrebbero sapere che c'è un altro mondo? E, se lo sanno, che cosa importa loro? Per quali ragioni gente che vive nell'interno di un pianeta dovrebbe prendersi la briga di osservare un tal genere di cose? Nemmeno gli uomini l'avrebbero fatto, se non ne avessero avuto bisogno per determinare le stagioni e per orientare la navigazione. Perché mai i popoli lunari dovrebbero tormentarsi a tale proposito...? Ebbene! Supponiamo pure che vi sia fra i seleniti qualche filosofo o scienziato come lei. Sarebbe proprio lui l'ultimo ad avere notizia di noi. Immagini che un selenita fosse caduto sulla terra mentre lei era a Lympne; lei sarebbe stato l'ultimo ad apprendere la sua venuta, perché non legge mai i giornali... Vede, dunque, che le probabilità sono contro di lei. E il peggio è che per simili probabilità noi siamo tranquillamente seduti qui, senza far nulla, mentre passa del tempo prezioso. Siamo nei guai; siamo venuti senz'armi, abbiamo perduto la sfera, non abbiamo provviste, ci siamo mostrati ai seleniti, abbiamo fatto loro l'impressione di animali strani, forti e pericolosi; ma, a meno che i seleniti siano dei grandi imbecilli, si sentiranno in dovere di cercarci finché ci abbiano ritrovati e, quando ci avranno scoperti, tenteranno di prenderci, se lo potranno, o ci uccideranno, non riuscendovi... Ed ecco la fine! Ammesso che ci prendano, ci uccideranno poi ugualmente, con molta probabilità, a causa di qualche malinteso. E così, sbarazzati di noi, potranno forse parlare di noi senza che ciò possa riuscirci di gran profitto... - Continui... - D'altra parte, ecco dell'oro che qui abbonda; se ne potessimo portar via un po', ritrovare prima di loro la sfera e ripartire, allora... - Allora... - Potremmo ristabilire le cose su una base più giusta. Si potrebbe ritornare con una sfera più grande, con dei cannoni... - Gran Dio! - esclamò Cavor, come se avesse sentito profferire un'eresia. Ed io mi rimisi a gettare nella fessura grandi manciate di funghi luminosi. - Ascolti, Cavor, - ripresi; - posso dire anch'io la mia in un affare in cui l'opinione d'un uomo pratico può servire a qualcosa. Lo, ricordi, sono un uomo pratico, e lei certamente non lo è. Ho la ferma intenzione di non fidarmi più dei seleniti, né dei suoi diagrammi geometrici, se posso farne a meno... Ecco tutto...! Ripartire, rivelare il nostro segreto, o almeno una parte, e ritornare. Cavor continuò a riflettere per qualche istante. - Avrei dovuto imbarcarmi solo, - disse d'un tratto. - Il problema da risolvere, - osservai, - è quello di ritrovare la sfera. Silenziosi, le mani sulle ginocchia, riflettevamo. Infine, Cavor parve disposto ad accettare le mie ragioni. - Credo che ci potremo orizzontare, - disse. - E' chiaro che, mentre il sole si trova da questa parte della luna, l'aria deve muoversi attraverso questo pianeta-spugna dalla parte scura verso la parte rischiarata. Così arriverà e sfuggirà dalle caverne lunari, procedendo verso il cratere... Ora, noi ci troviamo in mezzo a una corrente... Dopo breve silenzio riprese: - E ciò vuol dire che la nostra situazione non è disperata; da qualche parte, dietro di noi, questa fessura continuerà a salire. La corrente d'aria muove verso l'alto; e questa è la strada che noi dobbiamo seguire. Se tenteremo di arrampicarci su per questa specie di camino o di fessura, ci allontaneremo non solo da queste gallerie nelle quali ci cercano... - Ma, e se la fessura è troppo stretta? - Ridiscenderemo. - Zitto! - dissi ad un tratto. - Che cosa c'è? Ci mettemmo in ascolto. A tutta prima, fu un mormorio indistinto, a cui in breve fece seguito un suono acuto di richiami. - Devono proprio credere che siamo una specie di vitelli lunari, se vogliono spaventarci con questo baccano ! - Avanzano per questa galleria, - disse Cavor; - è certo. - Non penseranno alla fessura, continueranno per la loro strada. Rimanemmo in ascolto per alcuni minuti. - Questa volta, - mormorai, - è probabile che siano armati. D'un tratto, con un salto, balzai in piedi. - Buon Dio! - esclamai. - Ecco che ci scoprono! Vedranno la manciata di funghi che ho gettato giù. Ecco che... Non terminai la frase. Facendo un mezzo giro e saltando sopra i funghi, raggiunsi l'estremità superiore della cavità. Vidi, allora, che lo spazio libero si alzava di nuovo in una fessura che seguiva la corrente d'aria e si perdeva in tenebre impenetrabili. Ero sul punto di ricominciare la scalata, quando una felice ispirazione mi fece ritornare sui miei passi. - Che cosa fa? - domandò Cavor. - Avanti! Avanti! - risposi. Presi due funghi fosforescenti e, messone uno nella tasca della mia giacca di flanella, in modo da rischiarare la nostra fuga, diedi l'altro a Cavor. Il tumulto dei seleniti si udiva ora così distintamente, da dover ritenere che essi si trovassero vicini all'orificio della fessura. Ma può darsi che incontrassero delle difficoltà ad arrampicarsi, o che esitassero ad impegnarsi in una lotta con noi, temendo una eventuale resistenza da parte nostra. Ad ogni modo, ora eravamo incoraggiati dall'idea della nostra enorme superiorità muscolare, dovuta alla nostra provenienza da un altro pianeta. Un istante dopo, io superavo il pendio con gigantesco vigore, dietro le tracce luminose di Cavor. 17. IL COMBATTIMENTO NELLA CAVERNA DEI MACELLAI LUNARI. Non so per quanto tempo ci arrampicammo prima di giungere all'inferriata. Forse eravamo saliti solo per alcune centinaia di metri, ma allora mi sembrò che ci fossimo inerpicati per molto più di un paio di chilometri. Ogniqualvolta ritorno con il pensiero a quei momenti, mi pare di sentire il pesante clangore delle nostre catene d'oro che seguivano ogni nostro movimento. Ben presto, le ginocchia e le nocche delle mie dita cominciarono a scorticarsi, mentre mi ritrovavo una contusione su una guancia. Calmato il primo impeto istintivo, i nostri sforzi divennero più cauti e meno penosi. Il tumulto dei seleniti lanciati alla nostra ricerca era cessato. Si sarebbe detto che non avessero potuto scoprire le nostre tracce, nonostante il cumulo di funghi rivelatori che doveva trovarsi sotto l'orificio del crepaccio. In alcuni punti, le pareti si avvicinavano talmente che ci riusciva difficile proseguire: in altri, si allontanavano sino a formare delle grandi cavità, dalle pareti tempestate di cristalli sporgenti o adorne di voluminosissimi funghi rotondi. Talvolta il passaggio si torceva a spirale o s'inclinava fin quasi a raggiungere la direzione orizzontale. Ogni tanto udivamo un rumore di gocce d'acqua. Un paio di volte, ci sembrò che delle piccole forme viventi fuggissero rapidamente davanti a noi, senza lasciarci il tempo di distinguere che cosa fossero. Suppongo si sia trattato di bestie velenose; ma sta di fatto che non ci fecero alcun male. Del resto, eravamo allora in uno stato di tale sovreccitazione, che un orrore o una stranezza in più o in meno poco ci sarebbero importati. Finalmente, molto in alto, sopra le nostre teste, scorgemmo di nuovo il noto chiarore biancastro; costatammo poi come esso filtrasse attraverso un'inferriata che ci sbarrava la strada. Commentata la cosa a voce bassa, proseguimmo la scalata con maggiore circospezione e arrivammo in breve all'inferriata. Messa la faccia contro le sbarre, potei vedere una piccola parte della caverna che stava al di là. Evidentemente, era uno spazio vastissimo, rischiarato da qualche ruscello dello stesso liquido azzurro e fosforescente che avevamo già visto uscire dall'enorme meccanismo in moto. Un filo d'acqua colava di quando in quando tra le sbarre, bagnandomi il viso. Il mio primo sforzo fu subito di vedere ciò che poteva trovarsi sul suolo della caverna, ma l'inferriata era infissa in un masso, il cui orlo nascondeva la vista. Cercammo allora di renderci conto dei diversi rumori che ci pervenivano e finimmo con lo scoprire alcune deboli ombre che si muovevano sul soffitto scuro e altissimo. Era fuori di dubbio che dovevano trovarsi in quel luogo parecchi seleniti, forse in numero assai considerevole, poiché noi percepivamo un rumore confuso di movimenti, che mi ricordava il loro modo speciale di camminare. Ogni tanto si udiva, ad intervalli regolari, un succedersi di urti strani, come d'una lama che penetri in una sostanza molle. Seguì poi uno strepito di catene, un sibilo e un rimbombo, come se si fosse fatto correre un carro sopra una volta; e, senza tregua, lo stesso rumore continuava con uguali intermittenze. Le ombre disegnate sulla roccia rivelavano figure che si muovevano rapidamente e ritmicamente con quello stesso rumore, fermandosi quando esso cessava. Ci avvicinammo per scambiarci a bassa voce le nostre impressioni. - Sembra che abbiano fretta, - dissi. - Sono certamente assai occupati in qualche lavoro. - Già. - Non ci cercano, non pensano a noi. - Può darsi che non abbiano nemmeno sentito parlare del nostro arrivo... - Gli altri ci corrono dietro... laggiù... Se si potesse irrompere qui, d'un tratto... Ci guardammo silenziosi. - Potremmo aver l'occasione di conferire con loro, - disse Cavor. - No! - risposi. - Non nello stato in cui ci troviamo! Rimanemmo un istante assorti ciascuno nei propri pensieri. Lo stesso rumore continuava e le stesse ombre si muovevano. Esaminai l'inferriata. - E' poco solida, - osservai. - Potremmo svellere due sbarre e lasciarci scivolare nella caverna. Perdemmo tempo in un'inutile discussione. Poi, afferrata con due mani una delle sbarre, appoggiai i piedi contro la parete rocciosa fin quasi al livello della mia testa; in tale posizione tirai con forza l'inferriata verso di me. Cedette così bruscamente, che fui lì lì per perdere l'equilibrio. Afferrata la sbarra vicina, la piegai in senso contrario alla prima; poi, tolto di tasca il fungo luminoso, lo lasciai cadere nel vuoto. - Non faccia nulla senza aver prima ben riflettuto, - mormorò Cavor, mentre io andavo introducendomi fra le due sbarre già allargate. Come fui passato, vidi delle figure muoversi in ogni direzione; mi stesi bocconi sulla roccia. in modo che l'orlo del crepaccio mi nascondesse ai loro sguardi e feci segno a Cavor di fare altrettanto. In breve, ci trovammo vicini a spiare la caverna e i suoi abitanti. Era uno spazio molto più grande di quello che avevamo supposto al nostro primo colpo d'occhio, e noi ci trovavamo nella parte più bassa del suolo in pendio. La caverna si allargava e il soffitto si abbassava tanto, che non potevamo vederne la parte più lontana. Allineate in una lunga fila che andava perdendosi lontano, nello sfondo di quella spaventosa prospettiva, emergevano forme gigantesche, enormi masse biancastre, intorno alle quali si affaccendavano i seleniti. Dapprima ci sembrarono grandi cilindri bianchi, di cui non comprendevamo l'uso. Vidi poi delle teste, rivolte verso di noi, ma senza occhi e senza pelle, come teste di montone esposte nel negozio di un macellaio. Compresi che si trattava di carcasse di vitelli lunari che si tagliavano nello stesso modo nel quale i balenieri tagliavano una balena incagliata. I seleniti strappavano le carni a pezzi; si vedevano le costole bianche dei torsi più lontani. Il rumore da noi inteso proveniva dai colpi di accetta dei macellai. Più lungi, un veicolo simile a un vagoncino, tirato da una fune e carico di carne, risaliva il pendio della caverna. L'antro immenso, con la sua enorme quantità di carne macellata, ci diede un'idea di ciò che doveva essere la popolazione del mondo lunare. A tutta prima, mi parve che i seleniti si trovassero sopra delle assi sostenute da cavalletti. Vidi poi che le tavole, i cavalletti e le accette avevano la medesima tinta pallida delle mie catene, prima che la luce bianca le avesse rischiarate. Sbarre o leve massicce apparivano sparse per terra in gran numero. Erano lunghe circa due metri, e ciascuna aveva l'impugnatura lavorata; avevano un aspetto molto invitante come armi. La caverna era rischiarata da tre ruscelletti di fluido azzurro che la attraversavano. Restammo a lungo ad osservare tutto ciò in silenzio. - Ebbene?chiese Cavor alla fine. Mi rannicchiai più in basso ancora, voltandomi verso di lui. M'era venuta un'idea luminosa. - A meno che non calino queste masse per mezzo d'una gru, - dissi, - qui dovremmo trovarci più vicini di quanto pensassi alla superficie della Luna. - Perché? - Il vitello lunare non salta e non ha ali... Cavor si sporse per guardare dall'orlo del nostro buco. - Mi domando ora... - cominciò. - Dopo tutto, noi non ci siamo allontanati molto dalla superficie, e... L'interruppi, afferrandolo per un braccio: avevo sentito un rumore nella fessura sotto di noi! Ci rannicchiammo vicino all'inferriata, in una immobilità assoluta, con tutti i sensi all'erta. In breve, non potei più dubitare che qualcuno salisse adagio adagio per il crepaccio; lentamente, senza fare il benché minimo rumore, strinsi forte la catena ed attesi che costui comparisse. - Sorvegli quelli in basso, - ordinai a Cavor. - Camminano, - egli rispose. Provai la portata del colpo, lanciando il mio pugno nell'apertura dell'inferriata. Si sentiva distintamente il tremulo garrito dei seleniti che salivano, lo strisciare delle loro appendici contro la parete, la caduta dei frammenti di roccia che essi staccavano. Poco dopo, potei scorgere vagamente qualche cosa che si agitava nell'oscurità; ma non riuscivo a distinguerla. La forma parve prendermi di mira un momento; poi, crac...! Di colpo fui in piedi e afferrai selvaggiamente ciò che mi veniva lanciato. Era la punta acuta di una lancia. Capii dopo che la sua esagerata lunghezza le aveva impedito di inclinarsi nella stretta fessura, altrimenti sarei stato senz'altro colpito. Passò come la lingua di un rettile attraverso l'inferriata; fallito il colpo, volò indietro e venne nuovamente lanciata. Ma, la seconda volta, potei afferrarla e strapparla fuori del buco, mentre un'altra veniva diretta contro di me, anch'essa senza effetto. Gettai un grido di trionfo quando sentii la stretta del selenita resistere un solo istante alla mia presa e cedere; poi, senza indugio, mi misi con tutte le forze a picchiare nel buco. Grida acute salirono dalle tenebre; Cavor, che si era impadronito dell'altra lancia, saltava e gesticolava al mio fianco, sforzandosi invano di imitarmi. Un tumulto indiavolato ci giunse attraverso l'inferriata; nello stesso momento, un'accetta volò sopra la nostra testa e cadde sulle rocce, ricordandoci in tempo che nella caverna c'erano i macellai di carcasse. Voltandomi, li vidi avanzare in ordine sparso contro di noi, brandendo le loro accette. Può darsi che prima non avessero sentito parlare di noi, ma sta di fatto che essi compresero la situazione con prontezza meravigliosa. La lancia in mano, li guardai un istante avanzarsi. - Rimanga all'inferriata, Cavor!gridai, e gettando un urlo per intimorirli, mi lanciai contro di loro. Due seleniti mi scagliarono la loro accetta, ma fallirono il colpo; gli altri fuggirono immediatamente. Anche i miei due aggressori si ritirarono, i pugni chiusi e la testa bassa. Mai vidi correre degli uomini così velocemente come quegli esseri. Sapevo bene che la lancia tolta ai seleniti non poteva essermi di alcun valido aiuto, perché sottile, poco solida, buona, al massimo, per vibrare un sol colpo, troppo lunga per delle rapide parate. Mi accontentai perciò di inseguire i nemici fino alla prima carcassa; là mi fermai per raccogliere una delle sbarre sparse all'ingiro. Era così pesante che avrebbe potuto schiacciare un buon numero di seleniti. Gettata da parte la lancia, mi armai di due sbarre. Mi sentivo dieci volte più sicuro che con la lancia. Con gesto di minaccia, brandii le armi contro i seleniti, fermi in gruppo nella parte più lontana della caverna. e tornai da Cavor. Egli saltava intorno all'inferriata, cacciando a gran colpi fra le sbarre il manico rotto della sua lancia. Tutto andava bene da questa parte. Un siffatto esercizio avrebbe trattenuto i seleniti nella loro tana, almeno per un po'. Mi volsi all'altra estremità della caverna. «Che cosa diavolo faremo adesso?» chiesi a me stesso. Eravamo, fino a un certo punto, già accerchiati. Ma quei macellai erano rimasti sorpresi, molto probabilmente anche spaventati; non avevano armi speciali, muniti delle loro accette soltanto. La nostra salvezza stava in questo. Le loro figure erano più piccole e tozze di quelle dei pastori di greggi che avevamo visto all'aperto; si andavano raggruppando in alto, sul pendio, in un modo che rivelava la loro indecisione. Approfittammo del vantaggio che ci offrivano la loro confusione e la loro paura. Avevamo tuttavia una certa apprensione: essi sembravano molto numerosi e quelli che si arrampicavano per il crepaccio, muniti di lance lunghissime, potevano avere in serbo per noi molte sorprese... Che il diavolo se li porti...! Se li respingevamo risalendo la caverna, avremmo dovuto lasciarli dietro di noi; restando là, quei maledetti piccoli bruti avrebbero ricevuto sicuramente dei rinforzi. Solo Iddio poteva sapere quali terribili strumenti di morte, cannoni, bombe, torpedini, racchiudesse per distruggerci quel mondo immenso, sconosciuto, nascosto sotto i nostri piedi, e di cui noi avevamo sfiorato solo la superficie! Era evidente che non ci rimaneva nulla di meglio che muovere all'assalto e tanto più ne fummo convinti quando vedemmo comparire altri seleniti che correvano verso di noi. - Bedford! - gridò Cavor. Mi volsi; ed eccolo già a metà strada fra me e l'inferriata. - Ritorni subito là, - gli gridai. - A che cosa pensa, dunque? - Hanno una specie di... cannone! Infilandosi con uno sforzo fra le sbarre, in mezzo a punte di lance difensive, apparvero la testa e le spalle di un selenita singolarmente sottile ed angoloso, munito d'una specie di apparecchio complicato. Compresi l'assoluta incapacità di Cavor contro gli avversari che si presentavano. Dopo un attimo di esitazione, mi precipitai innanzi, facendo roteare le sbarre, gettando delle grida e muovendomi in ogni senso, per evitare che il selenita potesse prendermi di mira. Egli puntava in un modo molto strano, tenendo l'apparecchio appoggiato contro lo stomaco. Si udì un fischio leggero; l'ordigno non era un cannone; si scaricò come una balestra. Il proiettile mi colpì mentre spiccavo un salto. Non caddi, ma toccai terra un po' più presto di quello che avrei fatto se non fossi stato colpito. Alzando la mano sinistra verso la parte lesa, mi accorsi che una specie di freccia mi si era conficcata nelle carni, presso la scapola. Un istante dopo, con la sbarra che tenevo nella destra, colpivo a mia volta il selenita. Egli piombò giù, fracassato, ridotto in frantumi; la sua testa si ruppe come un uovo. Posata per terra una delle sbarre, mi strappai la freccia dalla spalla e, impavido, tornai a menar colpi tremendi nell'oscurità, attraverso le sbarre dell'inferriata. Ogni colpo era seguito da grida e da gemiti. Gettata infine l'arma sui nemici con tutta la mia forza, mi rialzai, raccolsi la sbarra di metallo e corsi contro l'altra massa di seleniti in fondo alla caverna. - Bedford! Bedford! - chiamò Cavor, mentre io gli passavo vicino. Mi sembra ancora di sentire il rumore dei suoi passi dietro di me... Uno slancio... un volo... poi, a terra; uno slancio ancora... un altro volo... e ogni salto pareva durasse dei secoli. A mano a mano che avanzavamo, la caverna si allargava e il numero dei seleniti aumentava visibilmente. Dapprima si sarebbe detto che corressero in ogni senso, come formiche in fuga nelle loro gallerie messe a soqquadro; due o tre, brandendo le accette, si arrischiarono contro di me, ma la maggior parte scappava, cercando ai lati un rifugio tra le carcasse. Vedemmo, poco dopo, giungere una truppa armata di lance, seguita da una folla di altri seleniti. In uno dei miei salti scorsi un animale straordinario, simile in tutto a un ammasso di mani e di piedi; spaventato, cercava rifugio. La caverna diveniva intanto sempre più scura; qualcosa mi passò sopra la testa. Nel prendere un altro slancio, vidi un giavellotto conficcarsi in una delle carcasse alla mia sinistra; mentre toccavo terra, un altro colpì il suolo innanzi a me, lasciandomi nell'orecchio il suo sibilo acuto. Per un istante, fu una vera tempesta. Tiravano a tutt'andare. Mi fermai di colpo. I miei pensieri, in quel momento, non dovevano essere molto chiari. Ricordo che una specie di frase stereotipata riecheggiava nella mia mente: zona pericolosa, cercare un riparo. So che mi gettai tra due carcasse e rimasi là, immobile, ansante, in preda a un vero accesso di furore impotente. Quando mi volsi per vedere dove fosse Cavor, mi parve per un istante che egli fosse scomparso. Emerse subito dopo dalle tenebre, tra la fila delle carcasse e la parete rocciosa della caverna. Vidi la sua piccola faccia, bluastra e scura, tutta sconvolta per l'emozione e imperlata di sudore. Egli andava borbottando qualcosa, ma io non mi preoccupai affatto di sapere che cosa dicesse. Stavo proprio allora pensando che, passando da una carcassa all'altra, avremmo potuto risalire la caverna e avvicinarci abbastanza ai seleniti in modo da assalirli definitivamente; così bisognava fare. - Avanti! - gridai, indicando la strada. - Bedford! - implorò inutilmente Cavor. Mentre seguivamo la stretta via, tra i corpi dei vitelli uccisi e la parete della caverna, la mia mente non cessava di lavorare. Le rocce si protendevano in ogni senso, cosicché i nostri avversari non potevano prenderci di mira. Sebbene in uno spazio così angusto non ci fosse possibile saltare, eravamo capaci ancora, grazie alla nostra forza terrestre, di avanzare molto più in fretta dei seleniti. Calcolai che ben presto saremmo giunti in mezzo a loro. Una volta là, essi sarebbero stati per noi poco più terribili di un gruppo di scarabei, pur dovendo attenderci una pioggia dei loro proiettili. Immaginai uno stratagemma: sempre continuando a correre, mi tolsi la giubba di flanella. - Bedford! - gemette Cavor dietro di me. - Che cosa c'è? - chiesi. Egli indicò un punto sopra le carcasse. - La luce bianca! - disse. - Ancora della luce bianca! Guardai anch'io, costatando che era vero: un debolissimo e indeciso crepuscolo biancastro si intravedeva all'estremità della volta. Tale vista centuplicò le mie forze. - Mi stia vicino! - ordinai. Un selenita piatto e lungo, uscito d'un tratto dalle tenebre, scappò lanciando acute grida. Fermatomi, arrestai anche Cavor con un cenno della mano. Arrotolai la giubba su una delle mie sbarre e, carponi, feci il giro della carcassa successiva; posate quindi a terra la giubba e la sbarra, feci un passo innanzi per farmi scorgere, indietreggiando poi rapidamente. Un fischio... Una freccia passò. Eravamo vicinissimi ai seleniti, tutti raccolti là, grandi e piccoli, dietro una batteria dei loro ordigni puntati verso il fondo della caverna. Due o tre altre frecce seguirono la prima; poi i lanci parvero cessare, ma, messa fuori d'un tratto la testa, sfuggii al tiro per puro miracolo. Una dozzina di strali si susseguirono; i seleniti gridavano, quasi il combattimento li eccitasse. Raccolsi la giubba e la sbarra. - E ora andiamo! - dissi, protendendo il fantoccio. In un attimo la mia giubba fu coperta di frecce; altre si conficcarono nella carcassa che era dietro di noi. D'un tratto, lasciata cadere la giubba e afferrate le due sbarre, mi precipitai innanzi. Per un minuto circa, fu un vero massacro. Ero stato preso da una tale furia che avevo perduto ogni discernimento; e i seleniti si erano probabilmente troppo spaventati per poter combattere ancora. Sta di fatto che non opposero più alcuna resistenza. Io vedevo rosso. Ricordo l'impressione provata in mezzo a quelle piccole creature coperte dei loro involucri di cuoio. Procedevo come in mezzo a grandi erbe, calpestando, abbattendo a destra e a sinistra. Frammenti di sostanze molli volavano per aria in ogni senso, mentre andavo pestando cose che si schiacciavano, gridavano e scivolavano sotto i miei piedi. La folla di questi esseri sembrava aprirsi e scorrere come acqua, dimostrando l'inesistenza di un piano prestabilito di battaglia. Dei dardi mi volavano intorno: uno di essi mi ferì un orecchio. Un'altra volta fui colpito ad un braccio, un'altra ancora ad una guancia; ma non m'accorsi di queste ferite che molto tempo dopo, quando il sangue che ne era uscito si fu coagulato... Quanto a Cavor, non so che cosa avesse fatto. Mi sembrò che quella lotta fosse durata un secolo e dovesse continuare in eterno. D'un tratto. tutto finì; non vidi più che delle teste e delle spalle che si alzavano e si abbassavano, fuggendo in ogni direzione... Infine ero sano e salvo! Feci qualche passo, correndo e gridando; poi, completamente stordito, mi volsi. Con i miei grandi salti, avevo oltrepassato tutta la larghezza delle file nemiche. I seleniti erano ormai dietro di me e andavano cercando in fretta un luogo dove nascondersi. Chi potrebbe dire la mia straordinaria meraviglia e la mia subitanea gioia nel veder finito un così arduo combattimento nel quale m'ero lanciato a corpo morto? Non mi balenò affatto l'idea che l'esito tanto inatteso fosse dovuto alla poca forza dei seleniti e al loro improvviso sbandarsi; mi figuravo, invece, dotato di capacità prodigiose. Scoppiai allora in una risata sciocca. Come era fantastica quella luna! Per un istante rimasi a contemplare i corpi schiacciati o scossi da spasimi, che giacevano sparsi sul suolo della caverna; poi, con una vaga idea di ulteriori violenze, raggiunsi Cavor in fretta. 18. ALLA LUCE DEL SOLE. Presto vedemmo la caverna aprirsi davanti a noi su uno spazio vuoto pieno di foschia. Poi ci trovammo in una specie di galleria in discesa, che dava in un vasto spazio circolare, uno smisurato abisso cilindrico che dall'alto si sprofondava verso il basso in verticale. La galleria correva intorno a questo abisso senza alcun parapetto o protezione per un giro e mezzo, e quindi si rituffava, molto in alto, nella roccia. In certo qual modo questo mi fece ricordare i numerosi tornanti della ferrovia del Gottardo. Era tutto tremendamente smisurato. A fatica posso sperare di rendervi le dimensioni titaniche di tutto quel luogo e l'effetto che se ne aveva. I nostri occhi seguivano il gran declivio della parete del pozzo: lontano, sopra le nostre teste, scorgemmo un'apertura rotonda, luminosa di stelle; metà del suo contorno rifletteva, abbagliando, la bianca luce del sole. A quella vista, un alto grido di gioia uscì dai nostri petti. - In marcia! - gridai, avanzando. - Ma... là! - disse Cavor, facendosi avanti prudentemente fino all'orlo della galleria. Seguii il suo esempio; allungando il collo, guardai nel pozzo, ma, ancora abbagliati dal riflesso della luce in alto, i miei occhi non poterono discernere fra le tenebre che macchie spettrali e scarlatte. M'era però dato di udire. E da quelle tenebre saliva un rumore, simile al ronzio delle api negli alveari. Salendo nel pozzo enorme, quel rumore probabilmente arrivava a noi da una distanza di sei chilometri sotto ai nostri piedi... Rimasi con l'orecchio teso un istante; poi, brandendo le sbarre, mi cacciai nella galleria. - Questo, se non erro, dev'essere il pozzo dentro il quale abbiamo guardato quando il coperchio si è aperto, - osservò Cavor. - E le luci che abbiamo viste sono là sotto... - Le luci! - diss'egli. - Sì... le luci d'un mondo che non vedremo mai più... - Ci torneremo! - dichiarai. Ormai, non avevo altro desiderio che di ritrovare la sfera. Non potei afferrare la sua risposta. - Eh? - domandai. - Oh! Nulla, nulla, - rispose; e continuammo a camminare in silenzio. Suppongo che quella via laterale fosse lunga circa sette chilometri, tenendo conto delle sinuosità; saliva con una pendenza che sulla terra sarebbe stato impossibile superare, ma che là si superava facilmente, date le diverse condizioni della gravità lunare. In tutta la nuova fase della nostra fuga, non scorgemmo che due seleniti, i quali, appena si accorsero della nostra presenza, se la diedero a gambe rapidamente. Era chiaro che avevano sentito parlare della nostra forza e delle violenze da noi compiute. La strada così seguita fino all'esterno non presentò alcun ostacolo. La galleria a spirale finì per restringersi in un pozzo, salendo con una pendenza ancora più accentuata. Il suolo presentava numerose tracce del passaggio di vitelli lunari. A mano a mano che procedevamo, la luce andava sempre aumentando; lontano, sopra di noi, appariva ormai l'apertura esterna, circondata da grandi arbusti acuminati, calpestati qua e là, secchi e morti, figure spinose erette contro il sole. Parrà strano; ma sta di fatto che rivedemmo allora quella vegetazione, apparsaci poco tempo prima così selvaggia e orribile, con la stessa emozione che proverebbe un esiliato rivedendo infine il suo paese natale. Accogliemmo pure con gioia quell'aria rarefatta che ci faceva ansare correndo e che rendeva penosa la nostra conversazione, sino allora così facile; per intenderci bisognava parlare a voce assai alta. L'apertura illuminata dal sole s'ingrandiva sempre più, mentre, dietro di noi, il tunnel sprofondava nelle tenebre più dense. Gli arbusti avevano perduto ogni verde e si presentavano di un color bruno, secchi, induriti. I rami superiori salivano in alto, proiettando un intrico di forme sulle rocce sconvolte. All'uscita del pozzo, in uno spazio aperto, la terra appariva ancora calpestata dai vitelli lunari. Giungemmo finalmente a quel passaggio, tra un chiarore e un calore insostenibili. Traversato penosamente un tratto senz'ombra, oltrepassato un pendio denso di vegetazione, ci sedemmo ansanti, in un punto rialzato, riparati dal sole da un macigno perpendicolare di lava. Anche all'ombra, la roccia bruciava. Il caldo tropicale ci dava un gran malessere fisico; tuttavia ci sentivamo sollevati dal non trovarci più sepolti in quello spaventevole sotterraneo. Ci sembrava d'essere ritornati nel nostro mondo. Lo spavento, l'affanno, le ansie della fuga attraverso crepacci e tenebrose gallerie non esistevano più che nel ricordo. L'ultimo combattimento ci aveva ridato una grande fiducia in noi stessi, per quanto concerneva i nostri rapporti con i seleniti. Consideravamo ormai con una certa incredulità l'apertura nera dalla quale eravamo usciti. Là sotto, in un chiarore bluastro, che ci faceva adesso l'effetto delle tenebre più assolute, avevamo incontrato i seleniti, insensate caricature umane, esseri senza faccia; là sotto avevamo camminato paurosi davanti a loro, tollerando i loro capricci, fino a che, stanchi e feriti, ci eravamo ribellati. E, sotto l'impeto dei nostri colpi, li avevamo spezzati come se fossero stati di cera, li avevamo dispersi come fuscelli di paglia al vento, obbligando i superstiti a fuggire e a dileguarsi come i fantasmi di un brutto sogno angoscioso. Mi stropicciai gli occhi, domandandomi se a volte, dopo aver mangiato i rossi funghi, non mi fossi addormentato e non avessi sognato tutto ciò; ma, d'un tratto, sentii del sangue rappreso sulla faccia, la camicia attaccata alla pelle del braccio, la spalla indolenzita. - Che il diavolo se li porti! - esclamai, toccandomi le ferite con mano tremante. Volto lo sguardo verso l'apertura del pozzo, mi sembrò di vedervi un occhio enorme che mi spiasse. - Cavor, che cosa faranno, ora? - chiesi. - E noi, che cosa faremo? Egli scosse la testa, lo sguardo fisso alla nera apertura. - Come immaginare quel che possono fare adesso? - Dipende da quel che penseranno di noi, non so come potremmo indovinare i loro pensieri... Dipende anche dalle forze che possono avere in riserva. E, proprio come lei ha già detto, Cavor, noi siamo penetrati solo nella parte esterna di questo mondo. Chi sa mai che cosa posseggono nelle loro tane! Solo con quegli ordigni che lanciavano frecce, avrebbero potuto farci passare un brutto quarto d'ora... Dopo tutto, - continuai, anche non ritrovando subito la sfera, avremo sempre una speranza. Potremo tener loro testa e resistere... Durante la notte che sta per venire... potremo nuovamente scendere nel pozzo, e batterci... batterci ancora... Gettai intorno delle occhiate scrutatrici. Il paesaggio era stato trasformato completamente, a causa della crescita fantastica della vegetazione subito disseccata. La cresta sulla quale eravamo seduti era altissima; la vista spaziava di là, assai lontano. Vedevamo, adesso, il fondo del cratere arso e cupo in quel pomeriggio lunare. Emergendo l'un dopo l'altro, si vedevano campi e pendii ondulati, ricoperti di bruna vegetazione, schiacciata dal passaggio dei vitelli lunari; in lontananza, nella gloria del sole, una mandria di quegli animali si muoveva pesantemente, proiettando macchie d'ombra sul fianco d'una discesa. Ma non c'era nessuna traccia di seleniti, sia che si fossero rifugiati nelle grotte interne, sia che fosse loro costume ritirarsi dopo aver condotto le mandrie al pascolo. Per il momento, mi fermai alla prima ipotesi. - Se potessimo appiccare il fuoco a tutta questa boscaglia, dissi, - saremmo sicuri di ritrovare la sfera tra le ceneri. Cavor parve non avermi inteso. La mano al riparo degli occhi, andava osservando le stelle che, nonostante l'intenso chiarore del sole, erano ancora in gran parte visibili nel cielo. - Da quanto tempo, secondo lei, siamo qui? - domandò infine. - Dove qui? - Sulla luna. - Forse da due giorni terrestri. - Una dozzina, invece, probabilmente... Guardi...! Il sole ha passato lo zenit e cala verso ovest! Fra quattro giorni, saremo in piena notte. - Eh! Via... Se non abbiamo mangiato che una volta! - Lo so bene, ma... vi sono le stelle! - Ma perché mai il tempo ci sembrerebbe diverso a causa delle minime dimensioni della luna? - Non lo so; mi limito a costatare il fatto. - In che modo ci si può render conto del tempo, allora? - Dalla fame, dalla stanchezza... Ma tutto ciò, qui, si avverte in modo diverso... Mi sembra perfino che dalla nostra uscita dalla sfera siano passate solo poche ore... delle lunghe ore. - Dieci giorni...! E ce ne restano ancora quattro! - dissi, guardando un istante il sole che si trovava già a metà del suo cammino, tra lo zenit e la cima occidentale dei monti. - Cavor! continuai, - siamo pazzi a rimanere qui a chiacchierare e a sognare... Da dove cominciamo? E, pronunciando queste parole, mi alzai. - Dobbiamo stabilire un punto fisso che potremo riconoscere, - ripresi; - per esempio, attaccare un fazzoletto, qualcosa, per farne una specie di segnale, dividendo poi l'estensione del cratere in varie zone da esplorare a poco a poco. - Sì! - approvò Cavor, alzandosi a sua volta. - Non ci resta altro da fare... nient'altro... Sì, sì, bisogna cercare la sfera... Possiamo ritrovarla... Altrimenti... Non dobbiamo perdere di vista il nostro segnale. Guardò a destra e a sinistra, levò gli occhi al cielo, li abbassò verso il pozzo e fece un improvviso gesto d'impazienza che mi meravigliò. - Ci siamo comportati da imbecilli...! Metterci in un simile imbroglio! Mentre potevamo immaginare facilmente che avrebbe potuto capitarci qualcosa di ben diverso da quello che avevamo previsto! - Possiamo fare ancora molte cose. - Lo so, ma non quelle che sarebbe stato possibile fare...! Là, sotto i nostri piedi, c'è un mondo! Pensi a ciò che dev'essere questo mondo! Ricordi le macchine che abbiamo viste...! E il pozzo...! E il coperchio...! Tutto ciò non era che il limite estremo, un'infima parte della crosta! Le creature con le quali ci siamo battuti non erano che contadini ignoranti, abitanti del lembo esterno; tangheri, ancora assai vicini a esseri bruti... Là sotto...! Caverne, gallerie, strade, costruzioni accumulate le une sulle altre! E ciò deve ingrandirsi, allargarsi, estendersi e divenire sempre più popolato, a mano a mano che si scende... Sicuramente...! Fino al mare Centrale che si agita nel cuore della luna... Pensi a quei flutti nerastri sotto un grigio chiarore, sotto una luce incerta... se pure i loro occhi hanno bisogno di luce...! Pensi ai corsi d'acqua tributari che, scendendo in cascate, l'alimentano...! Pensi all'ondulazione della sua superficie, ai vortici e al movimento del flusso e riflusso...! Chissà...? Forse, hanno dei bastimenti per la navigazione... Forse, nel centro, esistono possenti città, dense di abitanti, governate da istituzioni d'una saggezza di gran lunga superiore ad ogni umana immaginazione...! E noi forse moriremo qui, senza mai vedere quali grandi menti esistano per governare e dirigere tutto ciò. Noi moriremo di freddo, l'aria si congelerà e si scioglierà poi su di noi... E allora...? Allora ci scopriranno, troveranno i nostri corpi stecchiti, troveranno la sfera, adesso introvabile per noi, e comprenderanno finalmente, ma troppo tardi, tutti i pensieri e gli sforzi che sono venuti ad infrangersi qui, invano! Durante tutto questo discorso la sua voce risuonava debole e lontana, come quella di chi parla al telefono. - E le tenebre? - domandai. - Si potrebbero vincere. - Come? - Non lo so... Come potrei saperlo...? Si potrebbe portare una torcia o procurare una lampada... E poi potrebbero comprendere... Rimase un istante con le braccia penzoloni e la faccia triste, gli occhi fissi, innanzi a sé, a quello spazio che lo preoccupava. Poi, con un gesto di rinuncia, si volse a me, esponendomi le sue idee circa i mezzi possibili per ritrovare la sfera. - Ritorneremo! - dissi per consolarlo. Egli girò lo sguardo intorno, smarrito. - Prima di tutto, bisogna ritornare sulla terra. - Porteremo lampade, utensili, tutto quel che può occorrere per arrampicarsi, e cento altre cose necessarie. - Già, - disse, - e porteremo via con noi queste sbarre d'oro come pegno di riuscita. Così dicendo, considerò un istante in silenzio le due sbarre. In piedi, le mani unite dietro la schiena, andava scorrendo con lo sguardo la distesa del cratere. Trasse infine un sospiro e parlò. - Sono io che ho trovato il mezzo di venire qui; ma trovare un mezzo non significa sempre esserne il padrone. Se porto il segreto sulla terra, che cosa succederà? Non vedo proprio come potrei tenere celato il mio segreto per un anno intero... nemmeno per pochi mesi...! Presto o tardi, sarebbe scoperto. Altri uomini possono fare la medesima invenzione. E allora...? I governi faranno ogni sforzo per venire qui. Le nazioni combatteranno fra loro per la conquista della luna e stermineranno queste creature lunari. Ciò non farà che estendere e sviluppare le industrie guerresche, moltiplicando i conflitti. Se rivelerò il mio segreto, in breve tempo questo pianeta, fin nelle sue gallerie più profonde, sarà disseminato di cadaveri umani... Si può dubitare di quel che avverrà poi, ma questo è certo! Come se gli uomini avessero bisogno della luna! A che cosa servirebbe loro? Che cosa hanno fatto della terra? Un campo di battaglia, il teatro di delitti e di pazzie innumerevoli. Per quanto piccolo sia il suo mondo e per quanto breve la sua esistenza, I'uomo ha ancora da fare nella sua breve vita molto più di quanto possa. No...! La scienza ha lavorato troppo a lungo per fabbricare armi di cui si servono dei pazzi. E' tempo ormai che essa si fermi. Che l'uomo ritrovi il mio segreto da solo...! Sia pure tra mille anni! - Vi sono molti mezzi per mantenere un segreto, - osservai. Egli mi guardò sorridendo. - Ma, - disse, - a che cosa serve tormentarsi? Abbiamo poche probabilità di ritrovare la sfera, mentre là sotto molte cose si vanno preparando. E' la solita abitudine umana di sperare fino alla morte che ci fa parlare di ritorno. I nostri guai sono appena cominciati! Ci siamo mostrati violenti verso questa gente, abbiamo dato loro un saggio delle nostre qualità; e le nostre sorti sono press'a poco quelle d'una tigre che, scappata, abbia ucciso un uomo in Hyde Park. La notizia delle distruzioni da noi compiute deve passare di galleria in galleria, fino alle parti centrali... Nessun essere sano di mente, dopo quanto hanno visto di noi, ci lascerebbe ricondurre la sfera sulla terra. - Non miglioreremo certo la situazione rimanendo qui. - Su, dunque, - disse - bisogna separarci. Attaccheremo un fazzoletto sopra uno di questi alti tronchi, fissandolo solidamente; con questo segnale come centro, esploreremo il cratere. Lei andrà verso ovest, avanzando a mezzi cerchi, da sinistra a destra e viceversa. Procederà dapprima con la sua ombra a destra fino a che essa si trovi ad angolo retto con la direzione del punto in cui si trova il fazzoletto; poi farà lo stesso avendo la sua ombra a sinistra. Io farò altrettanto a est. Guarderemo in ogni frana, esamineremo ogni cavità della roccia, faremo ogni sforzo per ritrovare la sfera. Se scorgeremo i seleniti, ci nasconderemo alla meglio. Per dissetarci, useremo la neve e, se sentiremo il bisogno di cibo, bisognerà fare tutto il possibile per uccidere un vitello lunare, mangiando cruda la sua carne...! Ed ora in cammino...! Ognuno dalla sua parte! - E se uno di noi ritrovasse la sfera? - Dovrà ritornarsene al fazzoletto e fare di là dei segnali all'altro. - E se né l'uno né l'altro... Cavor si mise ad osservare il sole. - Continueremo le nostre ricerche, finché la notte e il freddo non ci arresteranno... - Supponga che i seleniti abbiano trovata la sfera e l'abbiano nascosta. Egli alzò le spalle. - E se uscissero, - continuai, - per perseguitarci e riprenderci? Non rispose nulla. - Farà bene a portare con sé una sbarra, - consigliai. Egli scosse la testa e guardò nuovamente la distesa deserta. - In cammino! - ripeté. Tuttavia, rimase un istante immobile; poi, rivolgendosi a me con aria timida, parve esitare. - "Au revoir"! - disse subito. Sentii inaspettatamente una strana emozione. Mi vennero in mente tutte le vessazioni che avevamo potuto farci reciprocamente, e, in particolar modo, pensai che l'avevo potuto spesso irritare ed offendere. «Al diavolo tutto!» pensai. «Avremmo potuto far di peggio! » Ero sul punto di chiedergli di scambiarci una stretta di mano per esprimere in qualche modo il mio stato d'animo, allorché, preso lo slancio, egli si allontanò senz'altro con un salto verso nord. Parve volare attraverso lo spazio come una foglia morta portata dal vento... Toccata terra con leggerezza, ripartì. Rimasi un istante a guardarlo mentre si allontanava; poi, volgendomi con rammarico verso ovest, mi raccolsi in me stesso con l'apprensione d'un uomo che stia per saltare nell'acqua ghiacciata. Scelto un punto in cui giungere, cominciai anch'io ad esplorare la mia parte di deserto lunare. Caddi molto male su un masso roccioso; rialzatomi e cercato un altro punto di partenza, salii sopra una specie di lastra e mi rimisi in cammino. Poco dopo cercai di rivedere Cavor, ma egli era scomparso; soltanto il fazzoletto s'agitava lietamente, bianchissimo, sul suo promontorio, sotto il sole ardente. Risolsi, qualunque cosa potesse accadere, di non perdere di vista il nostro segnale. 19. IL SIGNOR BEDFORD SOLO. In breve tempo ebbi l'impressione di essere sempre stato solo sulla luna. Cercai, dapprima con una certa intensità, ma il caldo era ancora molto forte, e la rarefazione dell'aria mi dava la sensazione che un cerchio mi stringesse il petto. In breve arrivai ad un bacino infossato, irto tutt'intorno al bordo, di alte, brune, asciutte fronde, e mi sedetti alla loro ombra per riposarmi e rinfrescarmi. Intendevo sostare solo per poco. Deposi presso di me le sbarre e appoggiai il mento sulle mani. Con una specie d'indifferente curiosità, osservai che nei punti dove i licheni disseccati crescevano meno fitti le rocce erano venate d'oro e che, in certi luoghi, delle bozze gialle, rotonde e increspate, s'ergevano in mezzo alla vegetazione più bassa. Quale interesse ciò poteva destare in me, in quel momento? Una specie di languore si era impadronito del mio corpo e della mia mente. Disperai un istante di poter ritrovare la sfera in quell'immenso campo sconvolto. Mi pareva che, tranne il caso di un eventuale arrivo dei seleniti, non avrei più potuto avere alcuna ragione di agire; ma mi persuasi che, nonostante la mia volontà negativa, mi sarei mosso ed avrei agito ancora, obbedendo così a quell'imperativo irragionevole che spinge innanzi tutto l'uomo a preservare e difendere la sua vita, per riservarla spesso ad una morte peggiore in seguito. Perché mai eravamo venuti sulla luna? Tale domanda mi si presentò alla mente come un problema imbarazzante. Qual è dunque la forza ignota che spinge sempre l'uomo ad abbandonare la felicità e la sicurezza per correre dietro al mistero, affrontando pericoli e sofferenze e mettendo in gioco la propria esistenza? Solo lassù, sulla luna, comprendevo certe cose, che avrei già dovuto sapere: che l'uomo, cioè, non è soltanto fatto per condurre un'esistenza comoda e sicura, divertendosi e mangiando bene. Se lo si domanda a qualcuno, non a semplici parole ma all'atto pratico, ognuno dimostrerà di saperlo. Eppure, contro il proprio interesse, contro la propria felicità, ognuno è costantemente trascinato a fare cose irragionevoli. E' una forza estranea che trascina, a cui bisogna ubbidire. Ma perché? Perché? Là, seduto, in mezzo a tutto quell'oro inutile, innanzi a tutte quelle cose nuove per me, ripensai alla mia vita passata. Presumendo di dover morire, irrimediabilmente perduto sulla luna, non m'era dato in nessun modo di vedere quale beneficio avessi tratto dalla mia esistenza. Mi fu impossibile chiarire questo punto; in ogni modo mi apparve evidente, più che mai evidente, che io non tendevo affatto al mio scopo, che in tutta la mia vita non avevo mai, a dire il vero, ottenuto una finalità che mi fosse propria. Quale fine, quale disegno stavo perseguendo? Cessando di tormentarmi e di indagare perché mai eravamo venuti sulla luna, i miei pensieri si smarrirono in più terribili e oscure ricerche. Per quale ragione ero venuto al mondo? Perché mai mi era stata concessa un'esistenza...? E mi persi in riflessioni senza fine... I miei pensieri divennero vaghi e nebulosi, non seguirono più una direzione definita. Eppure non mi sentivo afflitto né spossato; penso, anzi, che sulla luna non si provi né sonno né fatica. Suppongo però di esser stato fisicamente sfinito e, d'un tratto, mi addormentai. Ebbi, così sonnecchiando, un indicibile ristoro. Intanto il sole discendeva all'orizzonte e l'immenso calore andava diminuendo. Quando, finalmente, fui ridestato dal mio assopimento da un clamore lontano, mi sentii di nuovo pronto ad agire. Mi stirai e mi stropicciai gli occhi. Poi, alzatomi, le membra ancora un po' irrigidite, mi accinsi subito a riprendere le ricerche. Caricai sulle spalle le mie sbarre d'oro e m'allontanai dal burrone delle rocce aurifere. Il sole, senza dubbio, era più basso e l'aria si era molto rinfrescata. Secondo i miei calcoli, avevo dormito a lungo. Una debole nebbia bluastra ondeggiava davanti alla muraglia occidentale. Saltai su un piccolo rialzo roccioso per osservare la distesa del cratere. Non vedevo più alcuna traccia di vitelli lunari né di seleniti; tanto meno di Cavor. Potei però scorgere in lontananza il mio fazzoletto agitato dalla brezza sopra la foresta spinosa. Data un'occhiata all'ingiro, saltai su una specie di belvedere che faceva al caso mio. Continuai ancora ad inoltrarmi, descrivendo prima un arco di cerchio, ritornando poi al punto di partenza e formando una serie di mezzelune sempre più vaste. Era noioso e disperante insieme! L'aria s'era veramente molto rinfrescata; mi parve che l'ombra della muraglia occidentale si allargasse. Ogni tanto, mi fermavo esplorando con lo sguardo la distesa, ma non riuscivo a scoprir traccia né di Cavor né dei seleniti; i vitelli lunari dovevano essere stati ricondotti nell'interno, poiché non se ne vedeva più nessuno. Sempre più vivo sentivo frattanto il desiderio di rivedere Cavor. Il disco solare si era abbassato, ora, fino a distare dall'orizzonte non più di un tratto uguale al suo diametro. Mi sentivo oppresso dall'idea che in breve i seleniti avrebbero richiuso il loro coperchio e la loro valvola, lasciandoci fuori, esposti all'inesorabile notte lunare. Non vedevo l'ora di abbandonare le ricerche, di ritrovare Cavor e di accordarmi con lui. Capivo bene quanto fosse urgente prendere una pronta decisione. Non avendo ritrovato la sfera, non ci restava ormai più tempo di cercarla ancora; una volta richiuse le valvole e rimasti fuori, saremmo stati perduti. La gran notte dello spazio, quelle tenebre del vuoto, equivalenti ad una morte assoluta, sarebbero discese su di noi. E tutto il mio essere tremava al solo pensiero di una simile prospettiva. Bisognava nuovamente discendere nelle viscere della luna, fosse pure per essere uccisi. Ero già assorto nella visione dei nostri corpi irrigiditi sotto l'azione del freddo, mentre, con un supremo sforzo, facevamo risuonare di colpi disperati il grande coperchio del pozzo. Non pensavo più alla sfera; di null'altro ormai mi preoccupavo se non di ritrovare Cavor. Ero quasi deciso a rientrare solo nella luna, piuttosto che cercare il compagno, correndo il pericolo di far troppo tardi. Avevo già percorso metà della distanza che mi separava dal fazzoletto, allorché, inaspettatamente, vidi la sfera! Potrei quasi dire che essa incontrò me! Giaceva in un anfratto del suolo, molto più ad ovest della parte nella quale io m'ero avventurato; i raggi obliqui del sole morente, rifrangendosi sulla parete di vetro, mi avevano ad un tratto fatto accorgere della sua presenza con abbaglianti scintillii. Pensai dapprima a un tranello tesoci dai seleniti; invece era proprio la nostra sfera ! Alzando le braccia al cielo, gettai un grido che risuonò appena nella rarefatta atmosfera, e mi diressi a passi da gigante verso la preziosa salvezza. Calcolato male uno dei miei salti, andai a finire in un burrone profondo, lussandomi una caviglia; dopo questo disgraziato incidente, ad ogni salto perdevo l'equilibrio e ruzzolavo per terra. Ero in uno stato di sovreccitazione straordinaria, scosso da tremiti violenti, e respiravo a fatica; tre volte almeno dovetti fermarmi, comprimendomi il petto con le mani; nonostante l'aria asciutta e rigida, la mia faccia gocciolava di sudore. Raggiungere la sfera: questo era il mio pensiero dominante. Più non esisteva, ormai, la mia inquietudine per Cavor. Un ultimo salto, e caddi in piedi, le mani aperte e protese verso la palla di vetro, vanamente tentando di gridare: - Cavor! Eccola! Ripreso fiato, guardai all'interno attraverso il grosso vetro, e mi parve che gli oggetti fossero stati sconvolti. Mi abbassai per vedere più da vicino e tentai di entrare nella sfera; ma dovetti sollevarla un po' per far passare la testa nell'apertura. La chiusura era intatta nell'interno; potei costatare allora che nulla era stato toccato né danneggiato. La sfera era là, proprio come l'avevamo lasciata, allorché ci eravamo arrischiati tra la neve. Sul momento, una rapida ricognizione mi assorbì completamente; mi accorsi poi d'essere scosso da un tremito violento. Chi potrebbe dire il conforto provato nel rivedere quel rifugio oscuro, a me tanto familiare? Mi lasciai realmente scivolare nell'interno e mi sedetti, alfine, vicino ai nostri bagagli, tremando e guardando attraverso la parete di vetro la strana landa lunare. Deposte le sbarre d'oro con cautela, presi un po' di cibo, non perché avessi realmente fame, ma solo per il fatto d'averlo trovato sottomano. Pensai quindi che era tempo di uscire per fare a Cavor i segnali convenuti. Ma non lo feci subito; qualcosa, mio malgrado, mi tratteneva nella sfera. Dopo tutto, la nostra scappata finiva assai meglio di quanto avessi pensato. Avremmo avuto ancora il tempo di procurarci un po' di quel magico metallo che costituisce la maggior forza degli uomini. Eh, sì! Era là sotto, a portata di mano; non rimaneva che abbassarsi per prenderne; la sfera avrebbe viaggiato bene ugualmente, tanto piena d'oro quanto vuota; avremmo potuto ripartire, adesso, padroni di noi stessi e del nostro mondo. Suvvia, dunque...! Alzatomi, con uno sforzo uscii dalla sfera. Ma, appena fuori, rabbrividii; l'aria della sera era divenuta freddissima. Mi trovavo in un crepaccio; prima di saltare su una roccia vicina, scrutai con molta cura fra le piante che mi attorniavano. Stavo ripetendo un'altra volta il mio primo passo sulla luna, ma senza il minimo sforzo, adesso. La vegetazione era cresciuta rapidamente e altrettanto rapidamente era morta; anche l'aspetto delle rocce era mutato. Si potevano tuttavia riconoscere ancora bene il pendio sul quale avevamo visto germogliare le sementi e la piattaforma da cui avevamo gettato il nostro primo sguardo sul cratere. La vegetazione spinosa del pendio, divenuta secca e bruna, era giunta ad un'altezza di nove metri, proiettando, a perdita d'occhio, lunghe ombre strane; i piccoli frutti, che pendevano in grappoli dai rami superiori, erano adesso neri e maturi. Quelle piante, giunte al loro massimo sviluppo, avevano finito il loro compito, stavano ormai per dissolversi in frantumi al sopraggiungere della notte imminente. Quei cactus morenti, che si erano gonfiati sotto i nostri occhi, erano già da tempo scoppiati, lanciando le loro spore in ogni angolo. Piccolo ma prodigioso angolo dell'universo! Punto d'arrivo per gli uomini! «Un giorno», pensai, «farò mettere una lapide commemorativa in mezzo a questo burrone.» E pensai anche che quel piccolo mondo formicolante sotto la crosta lunare sarebbe certamente scattato in un tumulto furioso, se avesse potuto comprendere tutto il significato di quel fatale minuto! Ma, fino allora, non potevano nemmeno sognare l'importanza della nostra venuta. Altrimenti il cratere sarebbe senza dubbio risuonato per il rumore dell'inseguimento, anziché essere tranquillo e silenzioso come la morte! Cercai con gli occhi un punto dal quale fare dei segnali a Cavor e scorsi, ancora nuda e sterile, quella punta rocciosa sulla quale, dal luogo in cui allora io mi trovavo, egli per la prima volta aveva spiccato il salto. Temetti un momento di allontanarmi troppo dalla sfera, ma, vergognandomi di tale esitazione, mi slanciai... Dalla nuova posizione vedevo bene il cratere. Lontano, alla sommità dell'ombra enorme, il fazzoletto bianco ondeggiava sopra le piante. Appariva piccolissimo, lontano com'era. Scrutai qua e là attentamente; Cavor non si vedeva in nessun luogo; eppure mi sembrava che a quell'ora avrebbe dovuto essere là ad aspettarmi, ferma restando la nostra intesa. Ma no; nessuna traccia di lui era visibile. Restai là, ansioso e attento, facendo con le mani schermo agli occhi, aspettandomi ad ogni istante di vederlo spuntar fuori; e ci rimasi a lungo. Volevo chiamare, ma mi ricordai della rarefazione dell'aria. Mossi un passo indeciso verso la sfera. Il timore dei seleniti mi rendeva esitante a inalberare una delle nostre coperte in cima a una pianta vicina. Ispezionando nuovamente il cratere, ebbi una tale impressione di vuoto assoluto che ne rimasi agghiacciato. Tutto restava immobile. I rumori del mondo lunare interno erano svaniti; ovunque incombeva un silenzio di morte. All'infuori del debolissimo alitare di una brezza nascente che accarezzava le piante, nulla si udiva... E quella brezza era glaciale. Al diavolo Cavor! Aspirata l'aria a pieni polmoni, misi le mani a imbuto davanti alla bocca, e con tutta forza chiamai: - Cavor! - Si sarebbe detta la voce d'un pigmeo che da lontano avesse lanciato un grido. Bisognava agire senz'altro indugio, se si voleva salvare Cavor. Guardai il fazzoletto; guardai dietro di me; l'ombra ingigantiva sul dirupo. Facendo schermo agli occhi con la mano, fissai il sole; sembrava che si abbassasse nel cielo d'attimo in attimo. Levatomi il panciotto, lo gettai come segnale sulla cima di una pianta; poi mi incamminai in linea retta verso il fazzoletto. Questo rimaneva a una distanza di circa tre chilometri che si sarebbero potuti superare con qualche centinaio di salti. Ho già detto che, saltando, sembrava di rimaner sospesi sopra il suolo. Ad ogni salto, cercavo Cavor, chiedendomi per quale ragione si fosse nascosto. Ad ogni slancio, sentivo che il sole scendeva dietro di me e che l'oscurità stava per raggiungermi. Ogni volta che toccavo terra ero tentato di tornare indietro. Un ultimo salto, e mi trovai in un incavo del terreno, sotto la roccia sulla quale si ergeva il nostro segnale; ancora uno slancio, e lo raggiunsi. Alzandomi sulla punta dei piedi quanto più potei, scrutai il vasto deserto fino alla linea delle ombre che rapidamente avanzavano. Lontano lontano, al termine di un gran declivio, si apriva la galleria dalla quale eravamo fuggiti; la mia ombra si allungava, adesso, fantasticamente, fin quasi a toccarne l'ingresso. In mezzo a quel silenzio, non un rumore, non una traccia di Cavor; solo il fremito della vegetazione e l'oscurità che avanzava sempre più. D'un tratto, fui scosso da un brivido violento. - Ca...! - cominciai; ma dovetti ancora una volta costatare l'inutilità della voce umana in quell'aria rarefatta. Il silenzio...! Il silenzio della morte! Fu allora che il mio sguardo scoprì qualcosa... un piccolo oggetto che giaceva a terra a cinquanta metri circa da me, più in basso, in mezzo a rami contorti e spezzati. Che cos'era, dunque? Lo sapevo bene; ma, per qualche ragione non confessata, volevo ignorarlo. Mi avvicinai. Era il berretto, dal quale Cavor non si separava mai. Restai in piedi a guardarlo, senza osare raccoglierlo. Mi accorsi, allora, che le piante vicine erano state calpestate e schiacciate con forza. Ancora esitante, feci un passo e raccolsi il berretto. Poi esaminai i rami spezzati e calpestati. C'erano, qua e là, piccole macchie di una sostanza nerastra che non osavo toccare. Pochi passi lontano, spinto forse dalla brezza, si sollevò qualcosa di bianco. Era un pezzo di carta, gualcito come fosse stato stretto in mano. Lo raccolsi; aveva delle macchie rossastre; quasi subito, vi scoprii deboli segni a matita. Lo aprii, convulso, distendendolo: era coperto di una scrittura ineguale e interrotta, finendo con un segno brusco che aveva rigato tutta la carta. Mi accinsi con ansia a decifrare il documento. Cominciava in modo abbastanza chiaro: «Sono stato ferito al ginocchio - credo che la mia rotula sia rimasta offesa - non posso correre né arrampicarmi». Poi continuava in modo meno leggibile. «Essi mi perseguitano da un bel po' ed è soltanto questione di...» La parola «tempo» sembrava fosse stata scritta e poi cancellata per sostituirla con un'altra completamente indecifrabile. «... prima che mi prendano. Vanno esplorando i dintorni.» A questo punto la scrittura diveniva convulsa. «Li sento da qui...» Fu tutto quello che potei indovinare. Seguivano due o tre frasi del tutto illeggibili; infine, un certo numero di parole ben distinte. «... Una specie di seleniti completamente diversi che sembrano digerire i...» Di nuovo la scrittura diveniva confusa per la fretta. «Hanno la calotta cranica più grande - un corpo più alto e slanciato - gambe cortissime. Camminando, producono rumori tenuissimi; vanno e vengono come se seguissero un piano... «Sebbene io sia qui ferito ed impotente, il loro aspetto mi dà bene a sperare.» Erano parole tipicamente sue. «Non hanno lanciato nessun proiettile, né hanno tentato di ferirmi. Ho intenzione...» Seguiva quel segno brusco che rigava la carta; dietro e sui lati c'erano macchie brune... sangue! Mentre rimanevo là, stupefatto e perplesso, con tale sbalorditiva reliquia in mano, qualcosa di molto dolce, leggerissimo e gelido, mi toccò un istante la mano e si sciolse; poi un altro piccolo punto bianco mi passò dinanzi agli occhi. Erano minuscoli fiocchi di neve, i primi fiocchi che annunciavano la notte. Sobbalzando, alzai il capo: il cielo, divenuto scuro quasi fino a sembrare nero, s'andava coprendo di una moltitudine crescente di stelle vigili e fredde. Volsi lo sguardo ad est, dove il chiarore aveva preso una tinta bronzea; ad ovest, il sole perdeva, adesso, il suo ardore e il suo splendore sotto folte cortine bianche e sembrava celarsi sulla cima della muraglia del cratere, lasciando tutto nell'oscurità, mentre i tronchi delle piante e le rocce sconvolte si ergevano contro il suo disco in un disordine fantastico di forme nere. In quel gran lago di tenebre, verso ovest, un'immensa ghirlanda di nebbia si abbassava; soffiava un vento gelido. D'un tratto, una raffica di neve mi investì; quanto mi era intorno non fu più che un'unica confusione grigia. Sentii allora, non più rimbombante e penetrante come la prima volta, ma debole e vago come una voce morente, quel rumore, quello stesso rumore che aveva salutato la venuta del giorno. Bum... bum... bum... E, propagandosi attraverso il cratere, sembrò palpitare all'unisono con le grandi stelle, mentre il rosso sanguigno del disco solare continuava a scomparire dietro l'alta muraglia. Bum... bum... bum... Che cos'era successo a Cavor? In mezzo a quel frastuono, rimanevo esitante, perplesso. Improvvisamente ogni rumore cessò. Infine, l'orificio aperto del pozzo, in fondo al pendio, si chiuse come un occhio. Ero definitivamente solo. Intorno a me, serrandomi e stringendomi, nulla più esisteva se non l'eternità, ciò che fu prima del principio e che trionferà sulla fine, quel vuoto enorme in cui la luce, la vita e l'essere non sono più che il sottile e fuggevole splendore d'una stella cadente; il freddo, la pace, il silenzio, la notte dello spazio, la notte senza fine ed ultima! Il senso di solitudine e di desolazione che mi aveva invaso fu sostituito da quello della presenza oppressiva di esseri misteriosi che si chinavano su di me, fin quasi a toccarmi. - No! - gridai. - No! Non ancora! Aspettate! Aspettate! Oh! Aspettate! La mia voce salì in un grido acuto... Gettato a terra il foglio spiegazzato, mi arrampicai sulla cresta per ritrovare, di là, la mia direzione; poi, con tutta l'energia di cui ero ancora capace, cominciai a saltare verso il segnale da me lasciato, incerto e lontano, sul margine estremo dell'ombra. I miei salti si susseguivano rapidamente, ma ognuno di essi durava un secolo... Innanzi a me, il pallido segmento del sole diminuiva continuamente, l'ombra avanzava sempre di più, minacciando di conquistare la sfera prima che avessi potuto raggiungerla. Mi separava ancora una distanza di tre chilometri, che con un centinaio di grandi salti avrei potuto superare; l'aria si rarefaceva come sotto l'aspirazione di una pompa pneumatica e il freddo mi paralizzava le membra. Ma continuavo i miei salti. Se era scritto che dovessi morire, sarei almeno morto saltando. A più riprese, il piede mi scivolò sullo strato di neve che andava aumentando: il mio slancio restò così diminuito e il salto accorciato. Andai, una volta, a cadere in mezzo a dei cespugli che si spezzarono, volando via in frammenti polverosi; un'altra capitombolai in un crepaccio, da cui mi rialzai contuso e sanguinante, senza più sapermi orizzontare. Ma incidenti siffatti erano inezie a paragone di quegli intervalli, di quelle orribili pause angosciose durante le quali volavo verso l'incubo crescente della notte tetra... La mia respirazione diveniva pesante; si sarebbe detto che delle lame di coltello mi trapassassero ad ogni volo i polmoni. I battiti del cuore mi risuonavano dolorosamente nel cervello. «Potrò raggiungerla? Oh Dio! Potrò raggiungerla?» Tutto il mio essere era invaso dalla più profonda angoscia. «Fermati...! Fermati!», urlavano le mie sofferenze e la mia disperazione... Quanto più i miei sforzi erano grandi, tanto più sentivo che per me era impossibile raggiungere la meta. Ero intorpidito, ormai, e traballavo; mi ferivo, eppure non sanguinavo. Finalmente la vidi. Caddi in ginocchio. I polmoni mi strappavano dei lamenti... M'arrampicai; la brina mi si accumulava sulle labbra, dei ghiaccioli mi pendevano dai baffi. Gelavo in quell'atmosfera glaciale. Non ero più che a una dozzina di metri dalla sfera. Gli occhi mi si offuscarono... «Fermati!», gridava la disperazione. «Fermati!» Avevo toccato la sfera. Mi fermai. «Troppo tardi!», urlò la disperazione. «Fermati!» Con un ultimo sforzo mi protesi. Quando giunsi al portello ero stupefatto e mezzo morto. Intorno a me, non c'era che neve. Mi lasciai cadere nell'interno, dove, per fortuna, rimaneva ancora un po' d'aria tiepida. I fiocchi di neve, i fiocchi d'aria congelata, turbinavano intorno a me. Con le mani ghiacciate mi accinsi a riavvitare il portello. Singhiozzavo... - Voglio! - balbettai, mentre i denti mi battevano. Poi, con le dita tanto rigide che parevano rompersi, premetti i bottoni che chiudevano le tende di cavorite. Mentre tastavo qua e là cercando di manovrarle, poiché era la prima volta che toccavo i bottoni, vidi vagamente, attraverso il ghiaccio che diveniva già spesso, le ultime fiamme purpuree del sole, guizzare, palpitare tra le raffiche gelide, mentre le forme nere delle piante mutavano aspetto, piegandosi e rompendosi sotto il peso della neve accumulata. I fiocchi turbinavano più fitti, neri contro la luce. Che cosa sarebbe successo se le tende non avessero più obbedito alle molle? Ma, per fortuna, sentii sotto la pressione della mano uno scricchiolio e, in meno di un istante, quell'ultima visione del mondo lunare disparve ai miei occhi. Ero chiuso nel silenzio e nelle tenebre della sfera interplanetaria. 20. IL SIGNOR BEDFORD NELLO SPAZIO INFINITO. Mi sentivo come se fossi stato ucciso. In verità, potrei immaginare che cosa prova un uomo bruscamente e violentemente ucciso giacché ho provato tale esperienza. Per un momento, fui all'agonia e ne rimasi terrorizzato: il nuovo buio e il silenzio, né luce, né vita, né sole o luna o stelle, il vuoto infinito. Benché la cosa fosse avvenuta per un mio atto volontario, benché avessi già provato la stessa cosa in compagnia di Cavor, mi sentivo sorpreso, stupito e schiacciato. Mi sembrava di trovarmi in un'enorme oscurità. Cessai di appoggiare le dita sui bottoni, ondeggiai come annichilito; finalmente, adagio adagio, senza urti, giunsi vicino al bagaglio, alla catena e alle sbarre d'oro, verso il nostro comune centro di gravità Non so davvero quanto tempo impiegai per arrivar fin là. Nella sfera, naturalmente, più ancora che sulla luna, il senso terrestre del tempo era svanito. A contatto con il bagaglio, fu come se mi fossi svegliato da un sogno. Compresi subito che, volendo rimanere desto e vivo, avrei avuto bisogno di luce, avrei dovuto aprire una finestra in modo da permettere ai miei occhi di posarsi su qualche cosa. Inoltre ero intirizzito; data al bagaglio una spinta che mi ricacciò contro il vetro e afferrata una delle sottili corde interne, mi trascinai fino all'orlo dell'apertura. Potei, di là, vedere tanto da ritrovare gl'interruttori della luce e le leve delle tende; preso un nuovo slancio, passai vicino al bagaglio, urtai contro un oggetto inconsistente, agitato anch'esso qua e là, appoggiai la mano sulla corda vicino alle leve e le raggiunsi. Accesa anzitutto la piccola lampada elettrica per veder contro quale oggetto avevo urtato, costatai che il vecchio numero del «Lloyd's News» era scivolato fuori del pacco e ondeggiava nel vuoto. Tale costatazione valse a ricondurmi dall'infinito alle mie dimensioni! Sul momento, non potei fare a meno di ridere; ma il riso mi provocò tali dolori ai polmoni, che pensai di ricorrere alla riserva d'aria contenuta nel cilindro dell'ossigeno. Ciò fatto, accesi il fornello e mangiai qualcosa. M'accinsi poi a manovrare con ogni possibile delicatezza le tendine di cavorite, per vedere se potevo in qualche modo indovinare come viaggiava la sfera; ma dovetti subito richiudere la prima tendina che s'era aperta, tanto abbagliante era lo splendore del sole dal quale ero rimasto improvvisamente colpito. Dopo un momento di riflessione, capii che dovevano essere alzate le tendine che si trovavano ad angolo retto con quella da me già sollevata. Vidi allora il globo immenso della luna e, dietro a quello, il minuscolo disco della terra. Rimasi stupefatto nel costatare che mi trovavo già molto lontano dalla luna; avevo, è vero, calcolato non solo che questa volta avrei sentito poco o nulla la violenta spinta che l'atmosfera ci aveva dato al momento di partire, ma anche lo sforzo tangenziale della rotazione della luna sarebbe stato ventotto volte minore di quello della terra. Pensavo quindi di rimanere sopra il cratere, nei confini della notte lunare; tutto ciò, invece, non era più che una parte del contorno di quel pallido spicchio di luna che splendeva nel cielo. E Cavor...? Era già divenuto una quantità infinitesimale. Tentai d'immaginare quel che gli poteva essere capitato, ma non mi fu possibile, allora, pensare ad altro che alla sua morte, certo già avvenuta. Me lo figuravo pesto e contuso, giacere in fondo a un'interminabile cascata di fluido azzurro, mentre, intorno a lui, quegli stupidi insetti di seleniti chinavano la loro testa senza faccia... Al contatto ispiratore di quel numero di giornale, ridivenni per un po' un uomo pratico. Capivo chiaramente che era indispensabile ritornare sulla terra; eppure, per quel che potevo intuire, me ne allontanavo. Qualunque cosa fosse capitata a Cavor, ammesso che vivesse ancora - e ciò mi sembrava impossibile dopo aver trovato il suo biglietto macchiato di sangue - era chiaro che io mi trovavo nell'impossibilità di corrergli in aiuto. Egli era là, vivo o morto, celato in un cumulo di tenebre impenetrabili e doveva rimanerci per lo meno fino a quando io non avessi fatto ritorno sulla luna munito d'armi e di uomini. Ma l'avrei fatto veramente? Avevo in mente di ritornare sulla terra e, a seconda delle più mature riflessioni che mi avrebbero risolto in un senso o nell'altro, mostrare e spiegare la sfera a poche persone discrete, per poter poi agire con loro di comune accordo, oppure tenere per me il segreto, vendere l'oro, procurarmi delle armi, delle provviste, un aiuto e, così equipaggiato, ripartire per andare a trattare da pari a pari con quei fragili abitanti lunari, liberare Cavor (se viveva ancora) e, comunque, procurarmi se non altro una quantità d'oro sufficiente per stabilire su una base più solida la mia futura esistenza. Ma questo significava guardar le cose un po' troppo da lontano; prima di tutto, avrei dovuto raggiungere la terra! Mi occupai, pertanto, del modo in cui avrei dovuto manovrare per far ritorno sul mio pianeta. Dopo lunghe riflessioni, vidi che sarebbe stato meglio scendere verso la luna quanto più possibile per poi riprendere lo slancio, chiudere le finestre e passare dall'altra parte del globo lunare. Una volta là, avrei potuto aprire le tendine dalla parte della terra e muover così in direzione del nostro pianeta. Mi sarebbe stato tuttavia impossibile affermare e dimostrare che, in tal modo, avrei potuto toccar terra, senza essere invece trascinato in una rotazione iperbolica o parabolica. Ebbi, più tardi, una felice ispirazione e, aperte alcune finestre dalla parte della luna, che era apparsa nel cielo davanti alla terra, modificai il mio cammino in modo da dirigermi in linea retta verso quest'ultima; senza una tale manovra, le sarei invece passato dietro. Sulla base di questi problemi, mi abbandonai ad una quantità di calcoli molto complicati; ma io non sono un matematico e son persuaso di dovere soltanto alla mia buona stella, e non alle mie scarse cognizioni, d'esser potuto ritornare sulla terra. Se avessi saputo prima, come appresi poi, tutte le probabilità matematiche che avevo contro di me, dubito assai che avrei toccato i bottoni per tentare di orientarmi. Ponendo in esecuzione il piano di manovra ideato, aprii tutte le finestre che davano sulla luna; lo sforzo mi sollevò per un istante di circa un metro per aria, facendomi rimaner sospeso nel modo più strano. Tornai allora a rannicchiarmi contro la parete di vetro, aspettando che il disco avesse raggiunto dimensioni sufficienti e che mi fossi avvicinato abbastanza ad esso. «Chiuderò allora le finestre», avevo pensato, «passerò dietro la luna con la velocità così acquistata - a meno che vada a schiacciarmi sulla sua superficie - e mi porrò finalmente in cammino verso la terra.» E così feci. Quando fui persuaso che la velocità fosse sufficiente, d'un sol colpo feci scomparire ai miei occhi il disco lunare. In quello stato d'animo - adesso lo ricordo bene - stranamente libero da ogni ansietà e da ogni paura, mi misi a posto per incominciare, nella piccola sfera librata attraverso lo spazio infinito, una veglia che avrebbe dovuto durare fino al mio arrivo sulla terra. Il fornello aveva dato alla sfera un calore tollerabile; l'aria era stata rinfrescata dall'ossigeno, e, tolta la leggera congestione che non mi abbandonò mai finché durò la mia assenza dalla terra, le mie condizioni fisiche erano eccellenti. Avevo spento la luce, nella paura che poi mi venisse a mancare, e, nell'oscurità in cui mi trovavo, vedevo sopra il mio capo il chiarore della terra e lo scintillio delle stelle. Tutto era così calmo e silenzioso, che avrei potuto illudermi d'essere la sola creatura vivente nell'universo intero. Cosa invece abbastanza strana, non provavo alcun senso di solitudine o di paura; proprio nulla di diverso da ciò che avrei potuto provare stando sdraiato sul mio letto, in casa mia. E ciò mi sembra ancora più strano, quando penso che, durante le ultime ore passate nel cratere, la sensazione del mio assoluto isolamento era stata per me una vera agonia. Per quanto possa sembrare incredibile, il tempo che rimasi nello spazio non è assolutamente paragonabile ad altri periodi della mia esistenza. Mi sembrava, talvolta, che durasse incommensurabili eternità, come se io fossi una divinità indiana seduta sopra una foglia di loto; talaltra, invece, mi pareva che si verificasse un arresto momentaneo nel mio viaggio dalla luna alla terra. In realtà, trascorsero parecchie settimane del nostro tempo terrestre. Ma in questo periodo, almeno, l'avevo finita una buona volta con l'inquietudine e l'ansietà, con la fame e lo spavento. Ondeggiavo nella sfera, ripensando con uno strano senso di distacco a tutto quanto avevamo passato, io e Cavor, a tutta la mia vita, ai moventi delle mie azioni e ai segreti risultati della mia esistenza. Mi sembrava, fluttuando così in mezzo alle stelle, di diventar sempre più grande, di perdere ogni senso del moto, e l'impressione della piccolezza della terra e della piccolezza ancora maggiore della mia vita su di essa era implicita nei miei pensieri. Non pretendo davvero di spiegare tutte le idee che mi passarono per il capo; senza dubbio, esse derivavano, più o meno direttamente, dalle strane condizioni fisiche nelle quali vivevo. Le riporto qui semplicemente, per quel che valgono, senza commenti. Ero continuamente portato a dubitare della mia identità. Mi dissociavo da Bedford, se così posso esprimermi; consideravo Bedford come una cosa banale e accidentale cui mi ero trovato unito. Vedevo Bedford sotto molti aspetti, come un asino o una povera bestia qualsiasi, mentre fino allora ero stato portato a considerarlo, con tranquillo orgoglio, come un individuo energico e coraggioso. Lo vedevo non solo come un asino, ma anche come il discendente di parecchie generazioni di asini. Passavo in rivista la sua fanciullezza, la sua adolescenza, il suo primo palpito d'amore, press'a poco come si esaminerebbe l'andare e venire d'una formica sulla sabbia... Con mio gran rammarico, ben poca cosa ricordo di quel periodo di lucidità e dubito molto di poter ritrovar mai la completa soddisfazione dei giorni passati. Ma, allora, la cosa non era affatto penosa, poiché io avevo la straordinaria persuasione di non essere né Bedford né nessun altro, ma solamente uno spirito librato nella perfetta serenità dello spazio. Perché mai crucciarmi delle insufficienze di quel Bedford? Io non ero responsabile né di esse né di lui. Per un po' lottai contro quell'illusione realmente grottesca. Cercavo di chiamare in mio soccorso il ricordo di fatti importanti, di dolci ed intense emozioni, sentivo che, se avessi potuto riprovare la scossa autentica di una vera sensazione, quella crescente separazione dal mio io avrebbe avuto fine. Ma non ci riuscii. Vedevo ancora Bedford percorrere, a passo affrettato, lo stretto marciapiede di Chancery Lane, il cappello indietro, le falde del soprabito al vento, pensando agli esami che l'attendevano. Lo vedevo far giri, ora urtando ora salutando altre piccole creature simili a lui in quella via formicolante. Ero io quello? Vedevo Bedford, la stessa sera, nel salotto d'una certa signora; sulla tavola, vicino a lui, il suo cappello che aveva proprio un gran bisogno d'un colpo di spazzola e il povero giovane tutto in lacrime. Ero io quello? Lo vedevo in compagnia di quella signora, in atteggiamenti diversi e sopraffatto da diverse emozioni... Non m'ero mai sentito così diviso da me stesso. Lo vedevo, sempre affaccendato, correre verso Lympne per scrivere un dramma e imbattersi in Cavor; poi, in maniche di camicia, lavorare alla costruzione della sfera e scappare a Canterbury per lo spavento di imbarcarsi... Ero io quello? Non potevo crederci! Volevo provare a me stesso che ero vittima d'una allucinazione dovuta alla solitudine e al fatto che avevo perduto il mio peso ed ogni senso di resistenza. Mi sforzai di ricuperare questi sensi, lanciandomi contro la parete della sfera, pizzicandomi, percuotendomi forte. Tra l'altro, accesi la luce, presi la copia del «Lloyd's News» e rilessi quelle inserzioni così convincenti e reali a proposito d'una bicicletta che era ancora quasi nuova, di un signore che aveva dei capitali e di una rispettabile signora in miseria che vendeva i suoi regali di nozze. Senza dubbio, quella gente esisteva in qualche luogo. «Ecco il tuo mondo!», pensavo, «e tu sei Bedford; tu ritorni a vivere in mezzo a cose di questo genere per tutto il resto della tua vita!» Ma dentro di me i dubbi continuavano ad agitarsi. «Non sei tu che leggi, è Bedford; ma tu non sei Bedford, sei tu! E' qui che incomincia il tuo errore.» - Al diavolo! - finii per gridare. - Se non sono Bedford, chi sono, dunque? Ma, così facendo, non sorgeva alcuna luce, nonostante le strane fantasie che mi attraversavano la mente e i dubbi bizzarri e lontani, come ombre che si scorgano in distanza... Immaginate! Pensavo d'essere realmente qualcosa che si trovi, non solo del tutto fuori del nostro mondo, ma di tutti i mondi, fuori dello spazio e del tempo, e che quel povero Bedford non fosse null'altro che un buco di serratura dal quale io guardavo la vita! Bedford! Nonostante tutte quelle negazioni, rimanevo certamente, in modo indissolubile, legato a lui, e sapevo bene che, qualunque cosa io fossi e dovunque andassi, ero condannato a subire i suoi desideri, a condividere le sue gioie e i suoi dolori, sino alla fine della sua vita. E dopo la morte di Bedford... che cosa sarei divenuto? Ma basta con questa fase tanto singolare delle mie esperienze! Le ho narrate soltanto per dimostrare come l'isolamento e la separazione dal nostro pianeta possano influire non solo sulle funzioni organiche del nostro corpo, ma anche sul sistema cerebrale, provocando disturbi strani ed inattesi. Durante la maggior parte di quel viaggio nello spazio io pensavo a cose immateriali, del genere di quelle espresse; restavo diviso da me stesso ed insensibile, megalomane rannuvolato dell'immensità. Il mondo verso il quale ritornavo, come le caverne illuminate dal chiarore bluastro della luna, le teste munite d'elmo dei seleniti, le loro macchine gigantesche e prodigiose, il destino di Cavor prigioniero e impotente lassù, tutto ciò mi sembrava infinitamente piccolo e quanto mai insignificante. Avvertii infine l'attrazione della terra sul mio corpo e questa sensazione mi ricondusse alla vita reale degli uomini. In seguito, sempre più mi persuasi che io ero proprio Bedford, di ritorno, dopo sorprendenti avventure, verso il mondo terrestre con una vita che molto probabilmente avrei perduta durante il ritorno medesimo. E fu per ciò che mi sentii in dovere di studiar bene in quali condizioni sarebbe stato più opportuno cadere sulla terra. 21. Il SIGNOR BEDFORD ATTERRA A LITTLESTONE. Volavo pressappoco parallelamente alla superficie della terra quando entrai nello strato più alto dell'atmosfera. La temperatura della sfera cominciò immediatamente ad aumentare. Mi resi conto che mi conveniva affrettare la discesa. Al di sotto di me, in lontananza, in un crepuscolo oscuro, si estendeva un largo tratto di mare. Aprii tutte le finestre che potei e caddi dalla luce del sole alla sera, e dalla sera alla notte. La terra si faceva più grande, sempre più grande, nascondendo le stelle; l'argenteo e traslucido velo di nubi che la avvolgeva, illuminato dagli astri, si protendeva per catturarmi. Finalmente, il nostro mondo mi apparve non più sferico ma piatto e, poco dopo, concavo. Non fu più un pianeta nel cielo, ma il mondo... il mondo dell'uomo. Chiusi tutte le finestre che davano sulla terra, meno una, che lasciai aperta a metà per poter vedere, e subito mi sentii trascinare con crescente rapidità. Il mare si allargava; era così vicino, ormai, che potevo vedere il nero scintillio delle onde precipitarmisi incontro. Chiusa l'ultima tendina, mi sedetti agitando, mordendomi le mani, nell'attesa del colpo... La sfera piombò sulla superficie delle onde, lanciando dei getti enormi. L'acqua dovette schizzare certamente a centinaia di metri d'altezza. Nell'istante stesso dell'urto, aprii tutte le tende di cavorite. Sprofondavo, sì... ma sempre più lentamente; avvertii sotto i piedi la pressione dell'acqua contro la parete e risalii alla superficie come una palla di gomma. Mi trovai, alla fine, che ondeggiavo e galleggiavo sulla superficie delle acque... Il mio viaggio nello spazio era finito. La notte era scura e il cielo coperto di nubi. Due punti gialli, in lontananza, indicavano una nave in rotta e, più vicino, un raggio rosso andava e veniva. Se la corrente elettrica che alimentava la mia lampada non si fosse esaurita, avrei potuto esser raccolto quella notte stessa. Una stanchezza indicibile cominciava a vincermi, eppure mi sentivo straordinariamente eccitato; provai per un istante un desiderio furioso e impaziente che il mio viaggio avesse termine. Ma, calmata in breve ogni agitazione, restai, le mani sulle ginocchia, ad osservare in distanza quella luce rossa. Il raggio oscillava, su e giù, senza mai fermarsi. Compresi che avrei dovuto passare ancora almeno tutta quella notte nella sfera; mi sentivo infinitamente stanco e invaso da un senso di pesantezza insostenibile; in breve, il sonno mi vinse. Qualcosa di diverso nel ritmo dei miei movimenti mi svegliò. Guardando attraverso la parete di vetro, costatai che ero giunto a toccar terra su un gran banco di sabbia. Mi sembrò di vedere in lontananza alberi e case e al largo, in mare, la sagoma deformata d'una nave, quasi sospesa tra cielo e acqua. Con uno sforzo, mi alzai. Unico mio desiderio era quello di uscire dalla mia prigione. Il portello d'uscita si trovava nella parte superiore della sfera; a poco a poco, tenendomi saldo a un sostegno, riuscii ad aprirlo. L'aria ancora una volta penetrò sibilando nell'interno, con lo stesso sibilo con il quale n'era sfuggita. Ma, questa volta, non attesi davvero che la pressione interna e l'esterna si fossero equilibrate. Un istante dopo, lasciavo cadere il portello e potevo finalmente rivedere sopra la mia testa, grande e libero, il vecchio cielo familiare della terra. L'aria mi entrò così violentemente nei polmoni che mi tolse il respiro. Abbandonando il sostegno, gettai un grido, portai le mani al petto e mi sedetti. Per alcuni minuti sentii dei dolori terribili. Potei poi respirare più ampiamente, rialzarmi infine e muovermi. Volli far passare il corpo dall'apertura, ma in quell'istante la sfera traballò. Si sarebbe detto che qualcuno mi avesse tirato giù per la testa e subito mi ritrassi per non cadere nell'acqua. Dopo varie oscillazioni e vari sforzi, riuscii a scivolare sulla sabbia ancora lambita dalle onde della bassa marea. Non tentai nemmeno di alzarmi, perché mi sembrò che il corpo si fosse improvvisamente trasformato in piombo. La nostra madre terra aveva messo nuovamente la sua mano pesante su di me, senza cavorite come intermediaria! E mi distesi dove mi trovavo, senza preoccuparmi affatto delle onde che mi bagnavano i piedi. Era l'alba; un'alba grigia, piuttosto nuvolosa, tale, tuttavia, da lasciar trasparire qua e là lunghe strisce di grigio verdastro. Innanzi a me, una nave ancorata appariva come una pallida macchia leggermente giallastra. Le onde venivano a incresparsi sulla sabbia. In lontananza, verso destra, la costa si curvava, popolata di piccole case; spiccava, alto sull'orizzonte, un faro, sopra una punta di terra. Una distesa di sabbia uniforme avanzava verso l'interno, interrotta qua e là da qualche stagno, e finiva, a un chilometro e mezzo circa, in una striscia sottile, densa di cespugli. A nordest, una plaga isolata emergeva con alcuni gruppi di case e di villini; erano quelle le cose più alte ch'io vedessi, folte macchie nere contro il cielo rischiarato dall'aurora. Quali strane creature avevano potuto erigere delle costruzioni verticali siffatte in uno spazio così grande? Sembravano frammenti di città sperduti in un deserto. Rimasi là a lungo, sbadigliando e stropicciandomi gli occhi. Tentai infine di rialzarmi. Mi pareva di sollevare un peso enorme; riuscii tuttavia a riprendere il mio equilibrio. Fissai le cose lontane. Per la prima volta, dal nostro digiuno nel cratere, mi venne fatto di pensare a cibi terrestri. - Prosciutto! - mormorai, - uova... buon pane abbrustolito... buon caffè...! Ma come diavolo farò a trasportare tutto il mio bagaglio a Lympne? Mi chiesi dove fossi; senza dubbio, mi trovavo su una costa orientale; prima di cader giù, avevo riconosciuto l'Europa. D'un tratto, sentii dei passi sulla sabbia; un uomo piccolo, dalla faccia rotonda e dall'aria benevola, vestito di flanella, con un asciugamano attorno al collo e un costume da bagno sotto il braccio, apparve poco lontano sulla spiaggia. Compresi subito che dovevo trovarmi in Inghilterra. L'uomo guardava ora la sfera ora me con intensa meraviglia. Si fece avanti. Certo, io dovevo aver l'aspetto di un feroce selvaggio, sudicio, scarmigliato, lacero in modo indescrivibile... Ma come avrei potuto pensare a ciò in quel momento? Egli si fermò alla distanza d'una ventina di metri. - Ehi! laggiù...! - fece in tono incerto. - Ehi! - feci eco io. Rassicurato dalla mia voce, si avvicinò di qualche passo. - Che cosa può essere quell'affare lì? - domandò, indicandomi la sfera. - Può dirmi dove sono? - chiesi a mia volta. - A Littlestone, - rispose, mostrando con l'indice le case; laggiù c'è Dungeness. E' appena arrivato? Che cos'è quell'affare che ha lì? Un nuovo genere di macchina? - Già. - E si è arenato? E' naufragato, oppure...? E che cos'è questa faccenda? Riflettei rapidamente, tentando di farmi un'idea dell'uomo che si avvicinava ancora. - Perbacco! - egli esclamò - ha dovuto passare un brutto momento! - Credevo... In fede mia... Ma in quale punto è naufragato? E questa macchina è un apparecchio di salvataggio? Risolsi lì per lì di confermare quella spiegazione e gli risposi con alcune frasi vaghe. - Ho bisogno di aiuto, - continuai con voce rauca. - Vorrei trasportare diverse cose che non posso abbandonare qui. - In quel momento scorsi altri tre giovani dall'aspetto simpatico, muniti anch'essi di asciugamani; portavano in testa dei cappelli di paglia e scendevano dalla nostra parte, evidentemente il luogo prescelto al mattino dai bagnanti di Littlestone. - Di aiuto? - chiese il mio interlocutore. - E' presto fatto! - E, così dicendo, fece dei gesti affrettati per indicare la sua buona volontà di venirmi in aiuto. - Che cosa desidera che faccia? - Si volse, agitò le braccia. I tre giovani affrettarono il passo; in breve, tutti e quattro mi attorniarono, tempestandomi di domande, alle quali non ero affatto disposto a rispondere. - Vi racconterò tutto più tardi, - interruppi. - Muoio dalla fame e mi sento debolissimo. - Venga in albergo, - disse l'omino dalla faccia rotonda. Uno di noi resterà qui a custodire la sua macchina. Esitavo. - Non è possibile... In questa sfera vi sono due grandi sbarre d'oro. Si scambiarono alcuni sguardi increduli e mi osservarono con maggior attenzione. Tornato alla sfera e introdottomi nell'interno, misi subito loro dinanzi la catena spezzata e le sbarre dei seleniti. Se non fossi stato così stanco e preoccupato, sarei scoppiato in una risata alla loro sorpresa. Si sarebbero detti dei gattini intorno a una lumaca! Non sapevano che cosa fare del mio bagaglio. L'uomo più piccolo si abbassò, sollevò una delle sbarre e la lasciò ricadere con una specie di grugnito. Tutti l'imitarono. - E' ottone o oro? - chiese uno. - Oh! E' oro, - disse l'altro. - Certamente è oro, - confermò il terzo. E tutti e tre tornarono a esaminarmi bene, sempre più meravigliati, guardando anche la nave all'ancora. - Ma, infine! - esclamò l'omino, - dove l'ha preso? Ero troppo stanco per inventare una frottola. - L'ho preso sulla luna. Si guardarono fra loro sbalorditi. - Sentite, - dissi, - non ho voglia di mettermi a discutere o a dare spiegazioni. Aiutatemi piuttosto a portare questi pezzi d'oro fino all'albergo. Ritengo che, con qualche breve sosta, fra voi quattro potrete portare le due sbarre; io trascinerò la catena. Il resto ve lo racconterò quando mi sarò ristorato. - E che cosa farà di questo affare rotondo? - Oh, non si guasterà di certo, - risposi. - E, quand'anche, che il diavolo se lo porti! Bisogna che per ora rimanga qui. Con l'alta marea, galleggerà senza ostacolo. Sempre più stupiti, i quattro giovani, obbedienti, sollevarono i miei tesori sulle loro spalle; quanto a me, trascinando a gran fatica le mie povere membra più pesanti del piombo, mi posi alla testa del gruppo, muovendo in direzione delle case lontane. A metà strada, due bambine, curve sotto il peso di badili, si unirono a noi intimorite; fu la volta, poco dopo, di un ragazzino magro. Ricordo che portava a mano una bicicletta; ci accompagnò, rimanendo alla nostra destra, per un centinaio di metri; poi, suppongo, non trovandoci più abbastanza interessanti, rimontato sulla bicicletta, si allontanò in direzione della sfera. Non potei fare a meno di voltarmi, per vedere dove andava a finire. - Non la toccherà! - affermò l'omino in tono rassicurante. Non desideravo di meglio che sentirmi assai tranquillizzato al riguardo. Dapprima, un riflesso delle tinte grigie del mattino parve pesare sull'animo mio; ma in breve, uscito dalle nubi compatte, sorse il sole, illuminando la terra. La tinta plumbea del mare disparve, le onde scintillarono e anche la mia mente si destò. Chiara mi si manifestava tutta l'immensa importanza delle cose che avevo compiute e di quelle che ancora mi restavano da compiere. Uno del gruppo inciampò, traballando, sotto il peso dell'oro; e ciò mi fece ridere. «Quando avrò ripreso il mio posto sulla terra», pensai, «come sarà sorpreso il mondo!». Se non fossi stato così sfinito, il proprietario dell'albergo sarebbe stato per me una fonte inesauribile di divertimento; egli esitava, tra il mio rispettabile corteo carico d'oro e il mio poco decente aspetto. Infine, mi trovai ancora una volta in una stanza da bagno, con dell'acqua calda e dei vestiti di ricambio, un po' troppo corti e stretti per me, per la verità, ma puliti; mi erano stati prestati dall'omino con amabile generosità. Mi aveva mandato anche un rasoio, ma non ebbi la forza di affrontare in quel momento il pelo ispido che mi ricopriva la faccia. Preferii accomodarmi a tavola, davanti a una colazione perfettamente inglese, che attaccai con un particolare appetito! Mi sentii in obbligo, poi, di rispondere ai quattro giovanotti, raccontando loro la pura verità. - Ebbene! Giacché insistete, l'ho proprio trovato sulla luna, l'oro! - Sulla luna! - Sì! Sulla luna nel cielo. - Ma che cosa intende dire? - Nient'altro che quel che ho detto, in fede mia! - Dunque, lei arriva dalla luna? - Precisamente! Attraverso lo spazio...! Dentro quella sfera... Così dicendo, inghiottivo un delizioso tuorlo d'uovo e andavo pensando tra me che, tornando alla ricerca di Cavor, avrei portato con me senza dubbio una grande scatola di uova. Vedevo chiaramente che nessuno credeva una sola parola di quanto avevo detto: tutti mi consideravano, certamente, come il più grande mentitore che mai avessero conosciuto. Si guardavano l'un l'altro e tornavano a concentrare la loro attenzione su di me. Credo si aspettassero di trovare la chiave del mistero nel modo con il quale mi servivo del sale. Parve anche che attribuissero un certo valore al fatto che io misi del pepe nell'uovo. Quelle masse d'oro dalle forme strane, sotto cui avevano camminato ricurvi, occupavano ogni loro pensiero. Giacevano lì, proprio innanzi a me, sia le sbarre sia la catena; ognuna di esse valeva migliaia di sterline, e sarebbe stato altrettanto difficile rubarle quanto portar via una casa o un campo! Mentre sorbivo la mia tazza di caffè, osservando la loro faccia curiosa, mi feci un'idea del cumulo di spiegazioni che avrei dovuto fornire per rendere comprensibili le mie parole. - Non pretenderà davvero... - incominciò il più piccolo dei miei compagni, con il tono di chi parla ad un ragazzo ostinato. - Vorrebbe avere la cortesia di passarmi il porta-tartine? chiesi io, troncandogli la parola sulle labbra. - Infine, vediamo un po', - attaccò un altro, - noi non crediamo nulla di tutto ciò, sa? - Ah, sì? - dissi, alzando le spalle. - Non vuol dirci nulla, - notò il più piccolo, volgendosi agli altri; poi, fingendo una grande indifferenza, aggiunse: Permette che accenda una sigaretta? Gli risposi con un gesto di cordiale assenso, senza cessar di mangiare. Due dei miei compagni si alzarono e, andati alla finestra più lontana, si misero a discorrere fra loro a bassa voce. D'un tratto un pensiero mi atterrì. - Sta forse salendo la marea? - domandai. La mia domanda fu seguita da un breve silenzio, durante il quale parve si domandassero chi di loro avrebbe dovuto rispondermi. - Be', comincia il riflusso, - disse l'omino. - Ah! In ogni caso la sfera non andrà lontano, - risposi. E, decapitato il mio terzo uovo, iniziai un discorsetto. Ascoltate benedissi. ! - E non pensate che voglia mostrarmi scortese o che voglia divertirmi a raccontarvi delle fandonie disoneste... No, nulla di tutto ciò. Sono obbligato a essere breve e misterioso. Comprendo perfettamente come ciò possa apparirvi immensamente strano e come la vostra fantasia debba essere sovreccitata. Posso assicurarvi che siete testimoni d'un avvenimento memorabile; ma, per ora, non posso spiegare di più, mi è impossibile dare spiegazioni. Vi do, tuttavia, la mia parola d'onore che arrivo proprio dalla luna. E questo è tutto ciò che posso dire... Aggiungerò soltanto che vi sono infinitamente obbligato; sì, infinitamente obbligato. E spero che i miei modi non vi abbiano offesi. - Oh! No, davvero, - disse il più giovane, in tono affabile. Comprendiamo perfettamente adesso. - Senza smettere di fissarmi, si rovesciò indietro sulla sedia e poco mancò che cadesse; ricuperò subito l'equilibrio, non senza sforzo. Neppure la minima offesa! - insistette. - Ci deve credere! rinforzò un terzo. E, dopo tali parole, si alzarono tutti, andando e venendo per la stanza, accendendo delle sigarette, tentando in mille modi di mostrare che non erano affatto corrucciati e che non provavano più, ormai, la benché minima curiosità né per me né per la sfera. - Comunque sia, voglio tener d'occhio quella nave, - intesi mormorare uno di loro. Se avessero potuto trovare un pretesto per uscire, l'avrebbero fatto certamente. Avevo finito il mio terzo uovo. - Il tempo, - osservò poco dopo l'omino, - è stato meraviglioso, vero? Non ricordo di avere avuto un'estate simile da molti anni... Nello stesso momento si udì un fischio, simile a quello che potrebbe lanciare un razzo enorme... Alcuni vetri si infransero... - Che cos'è? - gridai. - Che cosa succede...? - chiese l'omino, correndo alla finestra. Gli altri lo seguirono, mentre io rimanevo con gli occhi fissi su di loro. D'un tratto scattai, rovesciando l'uovo, e corsi anch'io alla finestra. Un pensiero mi aveva attraversato la mente. - Non si vede nulla da qui, - disse l'omino, precipitandosi alla porta. - E' quel monello! - urlai con voce rauca e furiosa. - Sì, quel maledetto monello! - Voltandomi, urtai il cameriere che mi portava altre tartine e, in due salti, fui fuori della stanza, giù, sulla terrazza dell'albergo. Il mare, che fino a poco prima era calmo, era agitato ora da onde furiose e, nel posto dove si trovava la sfera, l'acqua spumeggiava come nella scia d'una nave. In alto, turbinavano nubi di vapore, come fumo che si disperda: le tre o quattro persone che si trovavano sulla riva guardavano fissamente, con aria interrogativa, il punto in cui s'era prodotta quella inattesa detonazione. Era tutto. Il cameriere e i giovani mi corsero dietro. S'intesero grida dalle finestre e dalle porte; persone d'ogni genere apparvero, inquiete, a bocca aperta per lo stupore. Rimasi là un istante; ma ero troppo stordito da quell'incidente inaspettato per pensare a tutti quegli individui. La mia sorpresa fu dapprima troppo forte perché potessi capire che quel che era successo costituiva un vero disastro... Mi trovavo nello stato d'animo di chi, ricevuto inaspettatamente un colpo violento, non riesca a rendersi conto del danno sofferto se non a poco a poco. - Signore Iddio! Ebbi un brivido di paura. Le gambe mi si piegarono... Comprendevo purtroppo quello che significava per me una simile sventura... Su, nel cielo, vagava già quel maledetto monello! Ero completamente annientato al solo pensarci. C'era, sì, dell'oro nella sala da pranzo... il mio unico bene terrestre. Come sarebbe andata a finire? Rimaneva nel mio cervello una confusione gigantesca. - Dunque? - chiese la voce dell'omino, - dica dunque, che cos'è successo? Mi volsi per tener testa a venti o trenta persone che mi accerchiavano, tempestandomi di domande e di occhiate indecise e sospettose. Sostenere tutti quegli sguardi mi fu impossibile; ed urlai. - Non so nulla! - esclamai, - dico che non so nulla! Non ho più forze, io...! Cercate un po' voi... e andate al diavolo tutti quanti! Gesticolavo convulsamente. L'omino indietreggiò d'un passo, come se l'avessi minacciato, mentre io, attraversando la fila dei curiosi, scappavo verso l'albergo. Raggiunsi il cameriere che stava rientrando. - Senta! - urlai. - Si faccia aiutare e porti subito queste sbarre nella mia stanza. Pareva non capisse; frattanto, io continuavo a sfiatarmi e ad inquietarmi con lui. Apparve un vecchietto, dall'aspetto affaccendato, in grembiule verde; due giovani in abito di flanella lo seguivano. Mi slanciai incontro a loro e li pregai di aiutarmi. Ma, appena l'oro fu nella mia camera, mi sentii spinto ad attaccar briga. - Ed ora, fuori subito...! Fuori...! gridavo. - Fuori tutti...! Se non volete vedermi divenir pazzo furioso. - Così dicendo, diedi un grande urtone al cameriere che esitava sulla soglia. Appena chiusa la porta dietro di loro, mi tolsi gli abiti prestatimi dall'omino, scaraventandoli a destra e a sinistra, e mi cacciai subito a letto. Rimasi lungamente coricato, ansando e bestemmiando, finché a poco a poco incominciai a calmarmi. Alzatomi dal letto e chiamato il cameriere, gli chiesi una camicia di flanella, whisky, seltz, dei buoni sigari. Dopo un'attesa esasperante, che mi fece suonare il campanello parecchie volte, mi venne portato tutto quanto; richiusi la porta e mi accinsi di proposito ad esaminare la mia situazione. Il risultato della nostra gran prova si presentava come uno scacco indiscutibile, una vera sconfitta, di cui io solo ero il superstite. Era un crollo assoluto, che l'incidente di poco prima completava disastrosamente. Null'altro ormai mi rimaneva da fare se non tentar di cavarmela, salvando, nella disfatta, tutte le speranze che potevo. Dopo il colpo fatale che aveva coronato il disastro, tutti i miei vaghi propositi di tentare un altro viaggio in soccorso di Cavor svanivano d'un tratto. La mia intenzione di andare sulla luna a cercare un carico d'oro, di far analizzare un frammento di cavorite per tornare a scoprire il gran segreto, fors'anche di ritrovare il corpo di Cavor... tutto, tutto crollava. Ero io il solo superstite. Ecco tutto...! Cacciarmi a letto in un momento critico fu, almeno penso, una delle più belle idee che mi siano mai venute. Credo che altrimenti avrei perduto la testa o che mi sarei lasciato andare a qualche atto estremo, fatale o imprudente. Così rinchiuso, invece, al riparo da ogni importuno intervento, potei esaminare il caso sotto ogni aspetto e prendere le necessarie disposizioni. Mi facevo, naturalmente, un'idea assai chiara di quanto era capitato al monello: egli era scivolato nella sfera, aveva manovrato i bottoni, chiuse le tende di cavorite ed era partito senza volerlo. Senza dubbio, il portello doveva essere rimasto aperto; ma, quand'anche egli l'avesse chiuso, c'erano mille probabilità contro una che sarebbe riuscito a tornare. Era evidente che sarebbe gravitato, con i miei bagagli, nel centro della sfera e là sarebbe rimasto, non offrendo più alcun interesse alla terra, per quanto potesse sembrare non trascurabile agli abitanti di un angolo inaccessibile dello spazio; di tutto ciò mi convinsi rapidamente. Quanto, poi, alle responsabilità cui potevo andare incontro a tale riguardo, più riflettevo e più mi convincevo che l'unica cosa che mi restava da fare era quella di tacere. Se i genitori disperati fossero venuti a domandarmi conto del loro figlio perduto, avrei semplicemente reclamato da loro la mia sfera o fatto mostra di non capire nulla. Prima avevo pensato ai genitori in lacrime, alle guardie e a ogni genere di complicazioni; ma, adesso, vedevo che, se fossi riuscito a non aprir bocca, nulla di grave mi sarebbe potuto accadere. Proprio così; più rimanevo coricato, fumando e riflettendo, e più mi appariva evidente la saggezza di un silenzio impenetrabile. Ogni cittadino inglese ha pienamente diritto, quando non compia alcun atto dannoso o indecente, di comparire all'improvviso dove più gli piace, anche stracciato e sudicio, se preferisce, e con la quantità d'oro che desidera caricarsi sulle spalle; e nessuno ha il diritto di dargli noia o di limitare la sua libera volontà. Mentalmente formulavo questo principio, ripetendolo a più riprese, come una specie di particolare Magna Charta della mia libertà. Una volta ottenuto questo risultato, potei intraprendere, in condizioni identiche, l'esame di altre considerazioni, alle quali fino allora non avevo pensato: le conseguenze, cioè, del mio fallimento. Ma, valutando le circostanze con calma, dovetti subito persuadermi che, se avessi potuto sopprimere la mia identità affibbiandomi temporaneamente un nome meno conosciuto e tenendo la barba che in quei due ultimi mesi mi era spuntata, i rischi di noie, da parte del creditore intrattabile al quale ho già accennato, sarebbero stati molto ridotti. Partendo da questa premessa, era facile costruire un piano d'azione razionale. Mi feci portar da scrivere e indirizzai una lettera alla New Rommey Bank - la banca più vicina, disse il cameriere, informando il direttore che desideravo farmi aprire un conto e pregandolo di inviarmi due persone di fiducia, debitamente autorizzate, con una carrozza tirata da un buon cavallo, per sbarazzarmi d'un quintale d'oro. Firmai la lettera: Blacke, un nome che mi sembrò rispettabilissimo. Ciò fatto, domandai la guida di Folkstone, scelsi a caso l'indirizzo di una sartoria e scrissi che venissero a prendermi la misura di alcuni vestiti, mandandomi anche un baule, una valigia, delle camicie, dei cappelli in prova ed altri oggetti necessari. Con un'altra lettera, chiesi all'orologiaio di consegnare al portatore un orologio, di cui indicavo il prezzo. Spedite queste lettere, mi feci servire il miglior pranzo che l'albergo potesse fornirmi, dopo di che mi stesi beatamente sul letto, fumando un sigaro e attendendo che, secondo le mie istruzioni, i due impiegati debitamente autorizzati venissero dalla banca per pesare e portar via il mio oro. Finito il sigaro, mi tirai le coperte sopra le orecchie per allontanare ogni rumore e mi addormentai tranquillamente... Dormii. Eh sì...! Senza dubbio per il primo uomo di ritorno dalla luna, questa era una cosa assai prosaica; e immagino che il giovane lettore pieno di fantasia rimarrà molto deluso da una simile condotta. Ma io ero terribilmente stanco e seccato... e, dopo tutto, che cos'altro avrei potuto fare? Non avevo la minima probabilità di essere creduto, se avessi narrato la mia storia; e in questo caso, mi sarei esposto alle più grandi seccature. Dormii. Quando finalmente mi svegliai, mi trovai pronto di nuovo ad affrontare il mondo, come ho sempre fatto dacché ho l'uso della ragione. E fu cosi che risolsi di partire per l'Italia, dove ora mi trovo, occupato a scrivere la mia avventura. Se il lettore non vorrà crederla, la prenda pure come una favola. Poco m'importa! Terminato adesso il mio racconto, rimango io stesso stupito, al pensiero che tutto ciò accadde veramente ed è finito. Tutti credono che Cavor sia stato un ricercatore poco brillante, saltato in aria con la sua casa a Lympne, e attribuiscono la detonazione che seguì il mio arrivo a Littlestone alle prove con esplosivi che si fanno a tre chilometri di là, negli stabilimenti nazionali di Lydd. Debbo confessare che finora non ho rivelato la parte che mi spetta nella scomparsa di Tommy Simmons, l'imprudente monello introdottosi nella sfera; questo, probabilmente, sarebbe un conto difficile da regolare. La mia apparizione, stracciato e con due verghe d'oro puro, sulla spiaggia di Littlestone continua ad essere spiegata in diversi modi... Ma io non mi curo affatto di quel che possono pensare di me. Arrivano a pretendere che io abbia immaginato questa serie di racconti per evitare domande troppo incalzanti sulla provenienza della mia ricchezza. Vorrei vedere l'uomo capace d'inventare una storia simile, che avesse capo e coda come questa! Ma, se si vuole che il mio racconto sia una favola, tale sia. Ho finito la narrazione e penso che adesso, purtroppo, dovrò abituarmi di nuovo alle miserie e ai tormenti della vita terrestre. Anche quando si è stati sulla luna, bisogna continuare a guadagnarsi da vivere; ed è proprio per questo che mi trovo ad Amalfi, intento a lavorare alle scene della commedia abbozzata prima che Cavor fosse venuto a turbare la mia esistenza, e cercando di riorganizzare la mia vita com'era prima di conoscerlo. Debbo, tuttavia, riconoscere che mi riesce assai difficile concentrare tutta la mia attenzione sul lavoro, quando il chiaro di luna penetra nella mia stanza. E' luna piena, adesso; e ieri sera sono rimasto sotto il pergolato con gli occhi fissi, per ore, a quel pallido luccichio che tante cose nasconde. Immaginate un po'! Tavole e sedili, cavalletti e sbarre d'oro! Che il diavolo mi porti...! Se si potesse scoprire ancora la cavorite...! Il male è che certe cose non capitano mai due volte nella vita. Eccomi qui, dunque, in una condizione un po' più agiata di quand'ero a Lympne. Questo è tutto! E Cavor si è suicidato in un modo molto più complicato di quelli scelti normalmente dagli uomini. Così finisce il racconto. Come un sogno! E tutto è così diverso dagli avvenimenti della vita normale che, certe volte, nonostante il mio oro lunare, dubito quasi anch'io che l'intera avventura sia semplicemente un sogno... 22. LA STUPEFACENTE COMUNICAZIONE DEL SIGNOR JULIUS WENDIGEE. Quando ebbi terminato il rapporto del mio ritorno sulla terra, a Littlestone, scrissi la parola «fine», feci uno svolazzo, e lanciai la penna in un angolo, pienamente convinto che l'intera storia dei primi uomini sulla luna fosse terminata. Non soltanto avevo fatto questo, ma avevo dato il manoscritto nelle mani di un agente letterario, avevo permesso che fosse venduto, avevo visto una parte notevole dell'opera apparire sullo «Strand Magazine», e stavo per rimettere mano alla sceneggiatura del dramma che avevo iniziato a Lympne, prima che mi rendessi conto che la fine non era ancora giunta. Proprio allora, infatti, mi fu rispedita da Amalfi ad Algeri (sei mesi fa) una delle più stupefacenti comunicazioni che io abbia mai ricevuto in vita mia. In breve, mi si informava che il signor Julius Wendigee, scienziato olandese, sperimentando un apparecchio del genere di quello usato in America dal Tesla, nella speranza di scoprire un mezzo di comunicazione con Marte, andava di giorno in giorno ricevendo strani frammenti di messaggi in inglese, i quali indiscutibilmente dovevano essere di Cavor, e provenivano dalla luna. Pensai, dapprima, che si trattasse di una farsa laboriosamente architettata da uno che avesse avuto sott'occhio il manoscritto del mio racconto. Risposi pertanto al signor Wendigee in tono scherzoso; ma egli mi riscrisse in modo da dissipare completamente ogni sospetto d'impostura. Allora, in uno stato di sovreccitazione facile a comprendersi, lasciai in gran fretta Algeri per recarmi nel piccolo osservatorio del San Gottardo, nel quale egli stava lavorando. Udita la sua relazione e trovatomi in presenza del suo materiale scientifico soprattutto dei messaggi di Cavor che continuavano a pervenire - anche i miei ultimi dubbi scomparvero. Senz'ombra di esitazione, accettai la sua proposta di rimaner là per assisterlo nel compito di registrare giornalmente le diverse comunicazioni e di tentar insieme con lui d'inviare un nostro messaggio sulla luna. Venimmo così a sapere che Cavor non soltanto era vivo, ma libero, in mezzo all'inconcepibile comunità di quegli esseri dal corpo di formica, abituati a camminar diritti come gli uomini, nell'oscurità azzurrognola delle caverne lunari. Era, a quanto sembrava, rimasto zoppo, ma, a parte ciò, in perfetta salute, migliore, anzi - così diceva - di quella che di solito godeva sulla terra. Aveva avuto la febbre, ma non glien'era rimasto nessuno strascico noioso. Cosa strana, pareva convinto ch'io fossi morto nel cratere della luna o perduto negli abissi dello spazio. Il Wendigee cominciò a ricevere i primi messaggi mentre io ero assorto in ricerche del tutto diverse. Il lettore ricorderà senza dubbio lo scalpore suscitato al principio del secolo dalla notizia che Nikola Tesla, il celebre scienziato americano, aveva ricevuto un messaggio dal pianeta Marte. La notizia aveva richiamato l'attenzione su un fatto che da lungo tempo era noto agli scienziati: vale a dire, che da una sorgente ignota dello spazio certe onde elettromagnetiche, del tutto simili a quelle usate da Marconi per il suo telegrafo senza fili, giungono costantemente fino alla terra. Oltre il Tesla, molti altri stanno perfezionando apparecchi capaci di ricevere e registrare vibrazioni siffatte, ma pochi soltanto osano spingere le loro ipotesi fino a considerar tali onde veri messaggi indirizzatici da qualche mittente extraterrestre. Tra questi scienziati deve essere indubbiamente annoverato il Wendigee. Dal 1898 in poi, egli si dedicò esclusivamente a queste ricerche e, possedendo una discreta sostanza, si fece costruire un osservatorio apposito sui fianchi del monte Rosa, in posizione molto adatta, sotto ogni punto di vista, per un tale genere di osservazioni. Le mie cognizioni scientifiche, debbo confessarlo, non sono molto vaste; ma, per quel che m'è dato giudicare, gli strumenti immaginati dal Wendigee per cogliere e registrare ogni minima perturbazione nelle condizioni elettromagnetiche dello spazio sono particolarmente originali ed ingegnosi. Per una felice coincidenza, i suoi apparecchi erano stati montati e messi in azione circa due mesi prima che Cavor avesse fatto il suo primo tentativo di comunicare con la terra. Di conseguenza, possediamo i frammenti dei suoi messaggi fin dal principio. Disgraziatamente, si tratta di soli frammenti, così che le notizie più importanti che egli avrebbe potuto far conoscere all'umanità - prime fra tutte le istruzioni che, se fossero state da lui trasmesse, avrebbero consentito di rifabbricare la cavorite - sono andate perdute nello spazio. Non riuscimmo mai ad inviare una risposta a Cavor. Egli ignora perciò che cosa sia stato ricevuto e che cosa manchi a completare le sue notizie, e anche se qualcuno sulla terra si sia accorto dei suoi tentativi; ma il suo persistere nell'invio di diciotto lunghe descrizioni delle cose lunari - tali sarebbero se noi le avessimo complete - dimostra che il suo pensiero dev'essere stato rivolto costantemente al pianeta d'origine, dopo due anni che l'aveva lasciato. E' facile immaginare come debba essere rimasto sorpreso il Wendigee quando scoprì, intercalate nella sua registrazione di tracce elettromagnetiche, delle frasi di Cavor. Il Wendigee, che nulla sapeva del nostro folle viaggio sulla luna, si trovò d'un tratto dinanzi agli occhi parole inglesi uscite dal vuoto! E' bene che il lettore comprenda in quali condizioni è presumibile che Cavor abbia inviato i suoi messaggi. Senza dubbio, per un certo tempo egli dovette penetrare in una caverna interna della luna, nella quale si trovava raccolta una quantità enorme di apparecchi elettrici; è allora possibile che, munitosi, forse furtivamente, di un apparecchio trasmettitore del tipo di quelli di Marconi, se ne sia servito per puro passatempo a intervalli diversi, talvolta per una mezz'ora soltanto, tal altra per tre o quattro ore di seguito. Egli poté così inviare i suoi messaggi al nostro pianeta, senza pensare che la posizione della luna, in rapporto ai diversi punti della superficie terrestre, muta costantemente. Di conseguenza e a causa delle inevitabili imperfezioni dei nostri strumenti, ogni sua comunicazione va e viene sui nostri registratori in modo assai difettoso, divenendo d'un tratto confusa e scomparendo, a volte, in modo misterioso ed esasperante. Bisogna notare anche che l'operatore non era troppo esperto; egli, infatti, aveva in parte dimenticato, o non aveva mai saputo perfettamente, il codice generale; così che, procedendo nel suo lavoro, si stancava, saltava delle parole, o le trasmetteva incomplete. Sta di fatto che una buona metà delle sue comunicazioni è andata perduta e che gran parte di quelle che ci sono giunte era disturbata, qua e là interrotta, e in parte cancellata. Nel riassunto che segue, il lettore deve quindi aspettarsi una quantità notevole d'interruzioni, di lacune e di cambiamenti inattesi di soggetto. Il Wendigee ed io andiamo preparando in collaborazione un'edizione completa e corredata di note dei documenti trasmessi da Cavor, che speriamo poter pubblicare fra non molto, con una descrizione particolareggiata degli strumenti impiegati. Sarà un rapporto completo e scientifico, di cui quanto segue non è che un semplice riassunto alla buona, senza pretese. Ma, se non altro, aggiungiamo subito qui quanto basta per completare la storia già narrata e per dare un'idea sommaria di quel che è racchiuso in un altro mondo, tanto vicino, tanto analogo e pur tanto diverso dal nostro. 23. RIASSUNTO DEI PRIMI SEI MESSAGGI TRASMESSI DA CAVOR. I primi due messaggi di Cavor possono molto bene essere tenuti in serbo nella prospettiva di quel volume più ampio. Essi semplicemente dicono, con la più grande brevità e con una differenza in parecchi particolari, che è interessante ma non di alcuna vitale importanza, i nudi ed essenziali fatti circa la costruzione della sfera e la nostra partenza dalla terra. Cavor parla sempre di me come di un morto, ma con un curioso cambiamento di umore quando si avvicina a narrare il nostro approdo sulla luna. «Povero Bedford», dice di me, e «quel povero giovane»; e si rimprovera per aver indotto un giovane «che non era predisposto a tali avventure» a lasciare il pianeta «sul quale certamente sarebbe potuto riuscire», per una missione così pericolosa. Evidentemente, Cavor attribuiva un valore minimo alla mia energia e alle mie capacità pratiche nella realizzazione della sua sfera teorica. «Siamo arrivati», dice, senza più far cenno della nostra corsa attraverso lo spazio, come se si fosse trattato di uno dei soliti viaggi con un treno dei sobborghi. Diviene poi sempre più ingiusto con me. Tanto ingiusto, anzi, quanto non avrei mai supposto in un uomo abituato alla ricerca della verità. Rileggendo, adesso, il racconto da me già fatto del nostro viaggio, non posso fare a meno di costatare con piacere come io sia stato sempre molto più giusto con Cavor che non lui con me. Ben poco attenuai, nulla soppressi. Ma è meglio riportare ciò che egli dice: «Fu subito chiaro che la stranezza assoluta della nostra situazione e di quanto ci circondava - perdita enorme di peso, aria rarefatta ma immensamente ossigenata, e, come necessaria conseguenza, risultati esagerati dei nostri sforzi muscolari, rapido sviluppo di una vegetazione fantastica che nasceva da spore scure, un cielo pallido - sovreccitava il mio compagno. Sulla luna il suo carattere parve alterarsi, ed egli divenne impulsivo, temerario e attaccabrighe. In breve, la sua imprudenza di aver divorato alcune vesciche gigantesche e l'intossicazione che ne seguì furono causa della nostra cattura da parte dei seleniti, prima ancora che ci fosse stato possibile avere la minima opportunità di osservar bene il loro modo di agire...». E' facile notare come nulla dica dell'aver divorato anch'egli quelle vesciche. Continua poi il suo racconto: «Giunti in loro compagnia ad un passaggio difficile, Bedford, male interpretando certi loro gesti (ah, erano proprio graziosi i loro gesti!), fu preso da grande timore, si mise a correre come un pazzo e uccise tre seleniti, obbligandomi così a scappare con lui dopo tanto oltraggio. Ci battemmo in seguito con una gran quantità di quegli esseri che ci volevano sbarrare il passo e ne uccidemmo altri sette od otto. E tale è la tolleranza del popolo lunare, che, pur essendo stato io ricatturato, non fui ucciso. Qualunque altro popolo lo avrebbe fatto immediatamente. Rintracciata la via che riconduceva alla superficie, ci separammo in quel cratere, ove già eravamo discesi, per aumentare e affrettare le probabilità di ritrovare la sfera. Ma eccomi in breve circondato da una banda di seleniti, guidati da due esseri stranamente diversi, anche nella forma, da quelli che avevo fino allora veduti, con teste più grandi e corpi più piccoli, molto più accuratamente protetti. Dopo esser loro sfuggito per qualche tempo, caddi in un crepaccio, mi ferii il capo abbastanza gravemente e mi lussai la rotula del ginocchio. Riuscendomi allora troppo penoso l'arrampicarmi, risolvetti di arrendermi, ammesso che mi consentissero di farlo... Parve che acconsentissero e, accortisi della mia impossibilità di camminare, mi trasportarono con loro nella luna. Da quel momento, nulla più ho saputo di Bedford, né, per quanto mi è stato possibile accertare, i seleniti stessi l'hanno più riveduto, sia che la notte l'abbia sorpreso nel cratere, sia che - e forse questo è più probabile - egli abbia ritrovato la sfera ed abbia voluto giocarmi un brutto tiro, fuggendo con essa, per costatare invece, come temo, la sua ignoranza nel dirigerla e per trovare così una morte più lenta negli abissi dello spazio». Con queste semplici parole Cavor si sbarazza di me, occupandosi subito di più interessanti argomenti. Mi dispiacerebbe molto che qualcuno potesse pensare che io, abusando della mia posizione di editore, ne profitti ora per mutilare il racconto di Cavor secondo il mio personale interesse; ma non per questo potrei astenermi dal protestare contro il modo con il quale egli ebbe a falsare le cose. Nulla dice, intanto, di quel messaggio convulsamente redatto, in cui dava, o tentava di dare, una versione molto diversa di tali avvenimenti. Questa della resa dignitosa è una versione completamente nuova dell'avvenimento, versione che egli diede - insisto sulla circostanza - soltanto quando finì per sentirsi sicuro in mezzo al popolo lunare; e quanto al «brutto tiro», lascio al lettore giudicare fra noi due, sulla scorta della duplice esposizione di quanto accadde. So bene di non essere un modello di virtù, e non ho alcuna pretesa d'esserlo. Ma, infine, sarei proprio come Cavor vorrebbe farmi apparire? Comunque, i miei torti sono tutti qui. E da questo momento posso trascrivere o riassumere le parole di Cavor con animo tranquillo, dato che egli non ha più occasione o ragione di ricordare il mio nome. Bisogna dedurre che i seleniti, dopo averlo sorpreso, lo abbiano condotto in qualche luogo all'interno, discendendo «un gran pozzo» servendosi di ciò ch'egli definisce «una specie di pallone». Dal passo molto confuso nel quale è contenuto il racconto di questo fatto, e da un certo numero di allusioni casuali, possiamo dedurre che quel «gran pozzo» fa parte di un enorme sistema di tubi artificiali diretti verso la parte centrale del nostro satellite, muovendo ciascuno da ciò che chiamiamo un «cratere» lunare, fino alla profondità di circa centocinquanta chilometri. Questi pozzi, comunicanti fra loro per mezzo di gallerie trasversali, si aprono in caverne immense e in grandi spazi sferici. La sostanza solida che costituisce la luna, per più di centocinquanta chilometri all'interno, è una semplice spugna rocciosa. «Questa sostanza spugnosa», dice Cavor, «in parte è naturale, ma in larga proporzione è dovuta alla gigantesca industria dei seleniti nei tempi passati. Le enormi montagne circolari di roccia e di terra estratte dal globo lunare formano intorno ai pozzi quei grandi cerchi che gli astronomi terrestri, ingannati da una falsa analogia, chiamano vulcani. Proprio in uno di questi pozzi egli fu fatto discendere con quella «specie di pallone», di cui parla. Regnò dapprima un'assoluta oscurità; apparve poi una regione in cui sempre più andava crescendo il chiarore fosforescente. Le comunicazioni di Cavor ce lo rivelano uomo singolarmente indifferente, per essere uno scienziato, a particolari che avrebbero avuto in se stessi non poco valore; egli lascia tuttavia comprendere come quella luce sia dovuta a ruscelli e a cascate di liquido «contenente, senza alcun dubbio, un organismo fosforescente», che scorre sempre più abbondante verso il mare Centrale. «Quanto più discendevo», egli dice, «tanto più i seleniti divenivano luminosi.» Finalmente molto lontano, sotto di lui, vide, per così dire, un lago di fuoco senza calore, le acque del mare Centrale, risplendenti ed agitate da una strana perturbazione, «come un luminoso latte turchino che sia sul punto di bollire». «Questo mare lunare», dice Cavor in un altro passo, «non è un oceano stagnante; una marea solare gli fa descrivere un moto perpetuo intorno all'asse della luna; vi sono tempeste, ribollimenti, straripamenti strani di acque; talvolta, venti freddi e cupi rumori giungono fino alle vie affaccendate dell'enorme formicaio selenita. Solo quando è mossa, l'acqua emana chiarore; nelle sue rare stagioni di calma è nera. Di solito l'agitano flutti che ricadono in un gonfiore oleoso, mentre onde e masse di schiuma bollente e scintillante sono trascinate via dalla corrente lenta debolmente luminosa. I seleniti navigano attraverso tali stretti cavernosi e tali lagune con piccole imbarcazioni piatte, molto simili, nella forma, alle nostre lance; prima del mio viaggio nelle gallerie che circondano il Gran Lunare, signore della luna, mi fu permesso di fare una breve escursione nelle sue acque. «Le caverne e i passaggi sono naturalmente molto tortuosi. Gran parte di queste vie è conosciuta soltanto dai più esperti piloti fra i pescatori, cosicché avviene di frequente che dei seleniti si smarriscano in tali labirinti. Nelle insenature più lontane si nascondono, a quanto mi hanno detto, creature strane, alcune delle quali formidabili e pericolose, che la scienza lunare non ha mai potuto distruggere. Si cita in particolar modo il Rapha, massa inestricabile di voraci tentacoli, che, se tagliata a pezzi, si moltiplica, e il Tzee, creatura fulminea che mai si vede, tanto essa uccide sottilmente e velocemente...» Segue una vaga descrizione: «Ricordavo, durante questa escursione, quel che avevo già veduto delle caverne di Mammoth; se avessi avuto una torcia gialla, anziché quell'eterna luce violetta, e un robusto marinaio con un remo, invece di quel selenita dalla testa a secchia di carbone, che faceva funzionare una macchina posta a poppa della lancia, avrei potuto pensare d'essere tornato improvvisamente sulla terra. Le rocce intorno a noi erano assai varie, talvolta nere e talaltra venate di azzurro pallido; sfavillarono anche, un istante, e lanciarono fiamme, come se si fosse giunti in una miniera di zaffiri. Si scorgevano, sotto, pesci fantastici e fosforescenti mandar lampi e scomparire nelle profondità un po' meno illuminate. Ed ecco apparire un vasto panorama ultramarino, lungo un braccio di mare rigonfio, costituito da un canale solcato da imbarcazioni e da una specie di pontile di sbarco; infine, colpo d'occhio impressionante, il pozzo enorme di una delle grandi vie verticali. «In un vasto spazio, sovraccarico di grandi stalattiti scintillanti, parecchie barche erano intente alla pesca. Avvicinatomi ad una di quelle lance, potei vedere i pescatori seleniti ritirare le loro reti con braccia straordinariamente lunghe. Sembravano piccoli insetti gibbosi, con appendici superiori molto solide, gambe corte e sbilenche, maschera facciale ricurva. Dal modo con cui tiravano la rete, mi parve che questa fosse la cosa più pesante da me vista sulla luna. Era munita di pesi - d'oro, senza dubbio - e occorse molto tempo per ritirarla tutta, dato che in quelle acque, nelle estreme profondità, si nascondevano i pesci più grossi e appetitosi. Quelli già pescati, che riempivano la rete, apparvero come un tenue chiaro di luna. «V'era frammista una cosa nera, brutta a vedersi e munita di numerosi tentacoli che furiosamente si agitavano, la cui apparizione fu salutata dai pescatori con piccole grida e con garriti. Con movimenti secchi e nervosi, senza indugio essi si accinsero a tagliarla a pezzi con piccole asce; ma tutte le membra, pur così divise, continuarono a torcersi e a distendersi in modo minaccioso. In seguito, sfinito dalla febbre, più volte rividi in sogno l'immagine di quella creatura mostruosa, uscita così vigorosa e attiva da quel mare sconosciuto. Era quella la più viva e malefica fra tutte le creature viventi da me vedute fin allora nel mondo interno lunare... «La superficie di quella distesa d'acqua deve trovarsi circa trecento chilometri, se non di più, sotto il livello della crosta esterna della luna; tutte le città, da quanto appresi, sono situate proprio sopra questo Mare Centrale, fra spazi cavernosi e gallerie artificiali del genere di quelle già descritte, comunicanti con l'esterno per mezzo di quegli enormi pozzi verticali, che sboccano invariabilmente in ciò che gli astronomi terrestri chiamano "crateri" della luna. Avevo già visto, durante le esplorazioni precedenti alla mia cattura, il coperchio che chiudeva la bocca d'uno di tali pozzi. «Sullo strato della parte più periferica della luna non sono giunto ancora ad aver cognizioni veramente precise. C'è un enorme sistema di caverne, in cui i vitelli lunari si riparano durante la notte; ci sono macelli ed altri luoghi simili. Fu in uno di questi che Bedford ed io ci battemmo con i macellai seleniti, e fu là che vidi poi dei palloni carichi di carne scendere dalle tenebre superiori. Fino a questo punto, io, di tutte queste cose, ne so tanto quanto potrebbe saperne delle scorte di grano inglese uno zulù piombato a Londra per la prima volta. E evidente che quei pozzi verticali e la vegetazione della superficie debbono esercitare una funzione essenziale nella ventilazione e nell'abbassamento termico dell'atmosfera lunare. Più volte, e particolarmente quando uscii dalla mia prigione, avvertii un vento freddo che soffiava certamente dall'alto verso il basso del pozzo; seguì, più tardi, una specie di scirocco che saliva verso la superficie lunare e che ebbe a coincidere con quell'accesso di febbre da cui fui colpito circa tre settimane dopo; una febbre così forte che, nonostante le pastiglie di chinino fortunatamente trovate in tasca, soffrii e fui molto agitato quasi fino al giorno in cui fui condotto nel palazzo del Gran Lunare, o signore della luna.» «Non voglio», egli avverte, «dilungarmi sullo stato miserando nel quale mi trovai durante i giorni della mia malattia...» E continua a dare una quantità di particolari minuziosi che qui ometto, perché insignificanti. «La mia temperatura», conclude, «restò a lungo anormalmente alta, facendomi perdere ogni desiderio di cibo. Ebbi intervalli di veglie smarrite e riposi tormentati da sogni; ricordo di aver subito una terribile crisi di debolezza, durante la quale fui invaso da una frenetica nostalgia della terra. Provavo l'insostenibile desiderio che un altro colore venisse finalmente a rompere quel turchino perpetuo...» Riprende poi a parlare dell'atmosfera lunare, imprigionata in una simile spugna. Alcuni astronomi e fisici mi hanno assicurato che quanto egli racconta corrisponde perfettamente a quel che già si sa sullo stato della luna. Se gli astronomi terrestri avessero avuto il coraggio e la fantasia di spingere all'estremo un'ardita induzione - pretende il Wendigee - avrebbero potuto predire quasi tutto ciò che Cavor rivela della struttura generale della luna. Essi ora sanno, quasi certamente, che la luna e la terra sono non tanto un satellite, e il suo pianeta, quanto due sorelle, una piccola e una grande, costituite d'una medesima massa e quindi d'identica materia. E se la densità della luna equivale soltanto ai tre quinti di quella della terra, ciò è dovuto unicamente al fatto che la luna è attraversata e scavata da quel suo gran sistema di caverne. Non c'era proprio alcuna necessità, come disse sir Jabez Flap, F. R. S., il piacevole illustratore degli aspetti faceti degli astri, di andar sulla luna per verificare così facili induzioni; e accentua l'ironia con un'allusione al formaggio groviera; ma avrebbe fatto meglio a divulgare prima del nostro viaggio ciò che sapeva delle cavità lunari! Se la luna è forata, l'assenza apparente d'aria e d'acqua si spiega presto. Il mare trovasi nell'interno, in fondo alle caverne, e l'aria viaggia attraverso le immense gallerie, in perfetto accordo con le leggi fisiche più elementari e più note. Le caverne lunari sono, insomma, dei luoghi molto ventilati. Via via che la luce solare va investendo il globo, l'aria delle gallerie superiori finisce per essere surriscaldata. Aumentando la sua pressione, una parte sfugge verso l'esterno, fino a mescolarsi con l'aria congelata che evapora dai crateri, dove le piante assorbono il suo acido carbonico, mentre la maggior parte si espande lungo le gallerie per prendere il posto dell'aria condensata della regione fredda. Da ciò deriva naturalmente una continua brezza che spira verso est nell'atmosfera delle gallerie superiori ed una fuga dai pozzi durante i giorni lunari, fuga molto complessa, certo, per le varie forme e dimensioni delle grotte e delle gallerie stesse, a cui corrispondono gli ingegnosi apparecchi immaginati dai seleniti... 24. STORIA NATURALE DEI SELENITI. I messaggi di Cavor, dal sesto al sedicesimo, sono per lo più così spezzettati, e a tal punto infarciti di ripetizioni, che a fatica possono costituire il tessuto di una narrazione organica. Essi saranno dati integralmente nel rapporto scientifico, ma qui sarà più conveniente continuare semplicemente a compendiare e a citare come nel capitolo precedente. Sottoponemmo ogni parola a un attento esame critico, e i miei brevi ricordi e impressioni delle cose lunari sono stati di grande aiuto nell'interpretazione di alcuni brani che, altrimenti, sarebbero risultati oscuri e indecifrabili. Come esseri viventi, il nostro interesse è naturalmente rivolto soprattutto a quella strana comunità d'insetti lunari in mezzo alla quale Cavor visse, a quanto pare, da ospite onorato; cosicché ciò che concerne soltanto le condizioni fisiche del loro mondo rimane in secondo piano. Ho già chiaramente ricordato, se non erro, che i seleniti da me visti rassomigliavano all'uomo in quanto anch'essi stavano in piedi e avevano quattro arti, ed ho altresì paragonato a quello degli insetti l'aspetto generale della loro testa e delle giunture delle loro membra. Accennai pure alla particolare influenza della minore gravitazione lunare sul loro fragile organismo. Cavor, a sua volta, conferma le mie parole su tutti questi punti. Egli li chiama «animali», sebbene essi non possano rientrare in una suddivisione della classificazione delle creature terrestri, e osserva che «dal punto di vista anatomico, il tipo insetto non superò mai per fortuna degli uomini, sulla terra, dimensioni relativamente piccole». I più grandi insetti terrestri, viventi o scomparsi, non hanno, in realtà, mai misurato più di una ventina di centimetri di lunghezza; «ma qui, in virtù della minor gravitazione della luna, ogni creatura, insetto e vertebrato ad un tempo, sembra esser riuscita a raggiungere e superare, anche, le dimensioni umane». Non fa menzione della formica, ma tutte le sue allusioni suggeriscono di continuo l'idea della formica con la sua attività insonne, la sua intelligenza, la sua organizzazione sociale, la sua struttura e, particolarmente, il fatto che possiede, oltre ai due sessi maschile e femminile, propri di quasi tutti gli animali, un certo numero di altre creature asessuali - operai, soldati e via dicendo - diverse fra loro per struttura, carattere, forza e mansioni, e pur tutte appartenenti ad una medesima specie. I seleniti hanno effettivamente una grande varietà di forme; essi sono non solo di dimensioni colossali in confronto alle formiche, ma, secondo il parere di Cavor, sembrano anche uomini per quanto concerne intelligenza, moralità e saggezza sociale. Vi sono innumerevoli forme di seleniti, anziché le quattro o cinque forme conosciute di formiche. Io mi sono sforzato di far presenti le differenze considerevoli osservate nei vari seleniti della crosta esteriore da me incontrati. Le disparità di dimensione, di colore, di conformazione sono certamente altrettanto marcate quanto quelle esistenti fra le razze umane più dissimili fra loro. Ma le diversità da me accertate sono nulla in confronto alle diversità enormi di cui parla Cavor. Pare che i seleniti con i quali io fui a contatto fossero, per così dire, di un colore unico, dediti ognuno ad una particolare occupazione: pastori, macellai od altro. Ma nell'interno della luna, da me quasi neppur supposti, pare che si trovino in gran numero altri seleniti, diversi come dimensioni, forme, facoltà, aspetto, senza che perciò costituiscano specie diverse, ma solo forme diverse di una specie unica. La luna è, veramente, un grande formicaio che, anziché esser costituito da quattro o cinque specie di formiche - soldato, operaio, maschio alato, regina e schiavo - comprende centinaia di varietà di seleniti, l'una differenziata dall'altra. Si può bene immaginare che Cavor se ne sia subito accorto. Intuisco, non apprendo, dal suo racconto, che egli fu catturato dai pastori dei vitelli lunari guidati da quei seleniti i quali «hanno scatole craniche molto più grosse e gambe molto più corte». Accortisi ch'egli non poteva camminare neppure se punto con il pungolo, essi lo trasportarono in mezzo a tenebre dense, si avviarono su un ponte assai stretto, una specie di asse che potrebbe esser benissimo quella che mi ero già rifiutato di attraversare, e lo deposero in qualcosa che a lui dovette sembrare, a tutta prima, una specie di ascensore. Era quello il «pallone» - che doveva senza alcun dubbio esser rimasto a noi invisibile nella più profonda oscurità - e ciò che a me era parso nulla più di un'asse lanciata nel vuoto, era, in realtà, un pontile d'imbarco. Dentro questo veicolo essi discesero verso le profondità sempre più luminose della luna, in perfetto silenzio - brontolio dei seleniti a parte - finché penetrarono in un frastuono prodotto da movimenti confusi. In breve, le tenebre profonde resero i suoi occhi così sensibili che egli poté scorgere sempre meglio quanto l'attorniava; poi, d'un tratto, anche i contorni incerti gli si precisarono. «Immaginate un enorme spazio cilindrico», dice Cavor nel suo settimo messaggio, «di quattrocento metri circa di diametro, forse, dapprima molto confusamente rischiarato, illuminatissimo poi, con grandi piattaforme che si susseguivano intorno alle pareti in una spirale che andava a scomparire giù giù, in un abisso turchino; il chiarore diveniva sempre più vivo, senza che si potesse dire come e perché. Pensate allo spazio vuoto della più grande scala o gabbia d'ascensore nella quale abbiate mai guardato, e ingranditelo cento volte. Immaginatelo, visto nel crepuscolo, attraverso lenti turchine; il vostro sguardo piomba giù, nell'interno, eppure vi sentite straordinariamente leggeri, senza provare affatto quel senso di vertigine da cui potreste esser colti sulla terra; immaginate ciò e proverete qualcosa che assomiglia molto alla mia prima impressione. Intorno a questo pozzo enorme immaginate una grande galleria che scende a spirale, molto più rapidamente di quanto sarebbe possibile sulla terra, in modo da formare una strada in pendio, separata dal precipizio soltanto da un piccolo parapetto che si perde nello spazio tre chilometri più giù. «Alzando gli occhi, vidi da sotto in su il rovescio di questo quadro; faceva l'effetto di guardare in un cono assai aguzzo. Nel pozzo soffiava una brezza; credetti di udire, lontano lontano, in alto, a mano a mano sempre più deboli, i muggiti dei mostri lunari ricondotti all'interno dal pascolo. Lungo le gallerie, numerosi seleniti, insetti stravaganti e leggermente luminosi, interrompevano le loro occupazioni, a me ignote, alle quali attendevano, per contemplare la nostra apparizione. «Fu una mia illusione? Un fiocco di neve, a un certo punto, discese rapidamente con la brezza glaciale. Poi, piombando rapida come un chicco di grandine, una piccola figura di uomo-insetto, aggrappata a un paracadute, ci sorpassò a grande velocità, diretta verso le parti centrali della luna. «Il selenita dalla gran testa, che era seduto al mio fianco, vedendomi protendere il capo, indicò con la sua mano tronca una gettata appena visibile molto in basso, una specie di pontile di sbarco, per così dire, nel vuoto; a mano a mano che esso pareva salire verso di noi, la nostra velocità andava sensibilmente diminuendo; in pochi istanti lo raggiungemmo. Una gomena fu lanciata e afferrata; ed eccomi, d'un tratto, condotto verso una grande folla di seleniti che si urtavano fra loro per vedermi bene. Erano moltissimi. Subito s'imposero alla mia attenzione le innumerevoli differenze esistenti fra quegli abitanti lunari. «A dire il vero, pareva che, in mezzo a tutta quella folla saltellante, non ci fossero due seleniti uguali. Tutti differivano per la forma, per le dimensioni! Alcuni erano grassi e altissimi, altri correvano fra le gambe dei loro compagni e vi si avvinghiavano come serpi. Ma tutti suggerivano in modo grottesco e impressionante l'idea d'un insetto che, in certo qual modo, voglia prendere in giro l'umanità; e tutti mostravano incredibilmente esagerato un tratto particolare; chi aveva l'avambraccio destro così lungo da sembrare un'immensa antenna; chi sembrava tutto gambe, come in equilibrio sui trampoli; chi proiettava un organo enorme a forma di naso che gli conferiva un aspetto sorprendentemente umano, finché rimaneva celata la parte bassa della sua faccia priva di espressione. La strana testa d'insetto (a parte che mancavano le antenne) dei guardiani del bestiame lunare subiva sorprendenti trasformazioni: ora grande e piatta, ora lunga e stretta; qui l'assenza della fronte era rimpiazzata da corna e da altre appendici; là il viso era contornato da una specie di barba, formando un profilo grottescamente umano. Alcune scatole craniche erano distese come vesciche fino a raggiungere formidabili dimensioni. Anche gli occhi erano stranamente diversi: del tutto elefantini alcuni, nella loro piccolezza; altri, dei veri buchi tenebrosi. Certe forme apparivano sconcertanti, con teste ridotte a proporzioni microscopiche e corpi a palla, che davano l'impressione di cose fantastiche e inconsistenti che si sarebbe creduto esistessero soltanto per servire di base a grandi occhi fissi e orlati di bianco. Ciò che più di tutto mi parve bizzarro fu il vedere due o tre di quegli abitanti d'un mondo sotterraneo, riparato dal sole e dalla pioggia da chilometri e chilometri di rocce, portar degli ombrelli nelle loro mani a tentacoli: degli ombrelli che somigliavano perfettamente a quelli usati sulla terra! Ma pensai tosto al selenita dal paracadute che avevo visto scendere nel pozzo. «Quegli esseri lunari si comportavano, dunque, nello stesso modo di una folla umana in analoghe circostanze; si spingevano a vicenda e si urtavano, si scostavano e si arrampicavano gli uni sugli altri per gettare un'occhiata su di me. Di minuto in minuto, andavano aumentando di numero e con maggior impeto si addensavano contro i dischi dei miei guardiani. » Cavor non spiega che cosa ciò voglia dire. «Ad ogni istante nuove forme s'imponevano alla mia attenzione già stanca. In breve, mi fu fatto segno di andare innanzi, mi si aiutò a prender posto in una specie di lettiga che dei portatori dalle braccia solide sollevarono sulle loro spalle, e fui così trasportato verso gli appartamenti per me preparati. Ero attorniato da occhi, facce, tentacoli; e tutto ciò in mezzo a un sordo rumore, simile a quello prodotto da uno sfregamento d'elitre di grilli, e ai belati chiocci delle voci dei seleniti...» Immaginiamo che egli sia stato condotto in una «stanza esagonale» ove restò confinato per un certo tempo. Solo più tardi, gli fu accordata una certa libertà o, per meglio dire, la stessa indipendenza che si può avere sulla terra in una città civile. Sembra, infine, che l'essere misterioso che governa e possiede la luna abbia incaricato due seleniti «dalla testa grossa» di sorvegliarlo, di studiarlo e di stabilire con lui ogni possibile comunicazione mentale. E, per quanto ciò possa apparire sorprendente e incredibile, quelle due creature, quei due uomini-insetti, quegli esseri di un altro mondo, comunicarono veramente con Cavor per mezzo d'un linguaggio terrestre! Cavor li designa sotto i nomi di Phi-oo e Tsi-puff. «Phi-oo», egli dice, «è alto press'a poco un metro e mezzo. Su esili gambe, lunghe circa sessanta centimetri, e su piedi sottili, del solito tipo lunare, oscilla un piccolo corpo, scosso dalle pulsazioni del cervello. Ha lunghe braccia molli, con numerose giunture, che finiscono in un artiglio tentacolare; il suo collo è articolato in modo normale, ma è eccezionalmente corto e grosso. La sua testa (osserva Cavor riferendosi evidentemente a qualche altra precedente descrizione, smarritasi nello spazio) è del tipo lunare comune, però modificato. La bocca ha l'abituale sbadiglio senza espressione, ma è straordinariamente piccola e aguzza verso il basso; il volto è ridotto alle dimensioni di un muso largo e piatto. D'ambo i lati, piccoli occhi di pollo. «Il resto del capo è disteso in un globo immenso e quella specie di cuoio rugoso dei guardiani delle mandrie si assottiglia in una semplice membrana, attraverso la quale le pulsazioni del cervello sono distintamente visibili. Phi-oo è proprio una creatura afflitta da un cervello ipertrofico, mentre il resto del suo organismo è, in rapporto, troppo piccolo.» In un altro passo Cavor paragona Phi-oo, visto di dietro, ad Atlante che sostiene il mondo. Tsi-puff, almeno così pare, era un insetto molto simile; ma la sua «faccia» era considerevolmente allungata e, poiché il suo cervello era ipertrofico in zone diverse, la testa, invece d'essere rotonda, aveva la forma di una pera, il cui picciolo sia in basso. Al servizio di Cavor c'erano anche dei porta-lettighe - esseri curvi dalle spalle enormi - alcuni uscieri dalle membra di ragno e un cameriere piccolo e tozzo. Il modo con cui Phi-oo e Tsi-puff risolsero il problema del linguaggio è molto semplice. Recatisi nell'appartamento esagonale ove Cavor era tenuto, si misero ad imitare tutti i rumori che egli faceva cominciando dai colpi di tosse. Cavor, a sua volta, richiamò assai presto la loro attenzione, e cominciò ad articolare parole diverse, indicando a mano a mano con il dito gli oggetti menzionati; il sistema dovette, forse, esser sempre lo stesso: Phi-oo ascoltava Cavor per un momento, poi indicava l'oggetto e ripeteva le sillabe udite. Il primo termine da lui appreso fu «uomo» e il secondo «lunare», di cui, seguendo l'ispirazione del momento, Cavor dovette certo servirsi, invece che usare la parola «selenita», per designare gli abitanti della luna. Non appena Phi-oo era sicuro del significato d'una parola, ripeteva il vocabolo a Tsi-puff che se lo imprimeva nella memoria per sempre. Impararono così più d'un centinaio di nomi durante la sola prima seduta. In seguito, condussero con loro un artista per essere aiutati nel lavoro di spiegazione per mezzo di schizzi e diagrammi, dato che i disegni di Cavor erano alquanto rudimentali. Quest'artista, che, come disse Cavor, era «un essere munito di braccio attivo e d'occhio penetrante», disegnava con incredibile rapidità. L'undicesimo messaggio è senza dubbio un breve frammento di una lunga comunicazione. Dopo alcune frasi incomplete, il cui senso è inintelligibile, Cavor continua: «Ma io non interesserei che i linguisti e sarei condotto troppo lontano, se entrassi nei particolari della serie di profondi colloqui di cui questi erano solo l'inizio; d'altra parte, dubito assai di poter dare un'idea dei giri di parole e degli accorgimenti che dovemmo adottare per giungere a comprenderci vicendevolmente. I verbi furono superati senza difficoltà; quei verbi attivi, se non altro, che potevo esprimere con disegni; alcuni aggettivi, anche, furono facili; ma quando si giunse ai nomi astratti, alle preposizioni e alle parti del discorso più comuni e in se stesse insignificanti, per mezzo delle quali si dicono tante e tante cose sulla terra, la faccenda si fece seria. Difficoltà simili rimasero veramente insuperabili finché, alla sesta lezione, non comparve un quarto assistente, dalla testa ovale enorme, la cui specialità era la soluzione dei più complicati problemi d'analogia. Entrò con passo preoccupato, inciampando contro uno sgabello; le difficoltà che sorsero dovettero essergli designate con una certa quantità di grida, di spinte e di punture, prima che egli comprendesse; ma poi, d'un tratto e in modo sorprendente, capì tutto. Ogni volta che si presentava la necessità di pensieri superiori alle capacità tutt'altro che limitate di Phi-oo, entrava in funzione questo nuovo personaggio dalla testa oblunga, il quale trasmetteva invariabilmente il suo responso a Tsi-puff perché non venisse più dimenticato: Tsi-puff era sempre un vero arsenale di cognizioni. Così andammo guadagnando terreno. «Tutto ciò parve lungo e fu, invece, brevissimo, una questione di giorni; dopo di che fu veramente possibile conversare con quegli insetti lunari. Inutile dire che i primi colloqui furono assai noiosi ed esasperanti; sta di fatto che, a poco a poco, senza neanche accorgercene, giungemmo ad intenderci relativamente bene. Io sono divenuto un uomo pazientissimo. Spetta a Phi-oo parlare; ed egli lo fa con un'enorme quantità di hum! hum! meditativi, non senza ripetere un paio di frasi da lui apprese: "Se posso dire", o "se comprende", con le quali intercala ogni discorso. «Immaginate un po' come si esprimeva per presentarmi l'artista. «"Hum! Hum...! Egli... Se posso dire... Disegna. Mangia poco... Beve poco... Disegna... Ama disegnare... Null'altro... Detesta tutti quelli che disegnano non come lui... Collerico... Detesta tutti quelli che disegnano come lui meglio... Detesta la maggior parte delle persone. Detesta tutti quelli che non credono che il mondo è fatto per disegnare. Collerico. Hum...! Tutto il resto è nulla per lui... Soltanto disegnare. Lui stima lei... Se lei comprende... Nuova cosa da disegnare. Brutto... impressionante... eh...?" «"Egli", diceva, volgendosi verso Tsi-puff, "ama ricordarsi le parole, si ricorda meravigliosamente più d'ogni altro. Pensa no, disegna no... Si ricorda. Dice... (e qui si rivolgeva al suo assistente per la parola che gli mancava) delle storie... ogni cosa. Sente una volta... dice sempre". «E' per me la cosa più meravigliosa che mai abbia sognato sentire creature così straordinarie - nemmeno con la familiarità si dimentica l'impressione inumana del loro aspetto - avvicinare e piegare quanto più possibile i loro sibili alle forme di una lingua terrestre coerente, fare delle domande e dare delle risposte. Mi pare di essere ritornato al periodo dell'infanzia, quando leggevo avidamente i racconti fantastici e favolosi, in cui la formica e la cavalletta discutono e l'ape giudica fra di loro...». ente per la parola che gli mancava) delle storie... ogni cosa. Sente una volta... dice sempre". « per me la cosa più meravigliosa che mai abbia sognato sentire creature così straordinarie - nemmeno con la familiarità si dimentica l'impressione inumana del loro aspetto - avvicinare e piegare quanto più possibile i loro sibili alle forme di una lingua terrestre coerente, fare delle domande e dare delle risposte. Mi pare di essere ritornato al periodo dell'infanzia, quando leggevo avidamente i racconti fantastici e favolosi, in cui la formica e la cavalletta discutono e l'ape giudica fra di loro... ». Mentre continuava tali esercizi linguistici, pare che il rigore con il quale Cavor era tenuto prigioniero fosse notevolmente diminuito. La diffidenza e la paura sollevate dal nostro disgraziato conflitto andarono, egli dice, «a poco a poco scomparendo grazie alla logica a cui ogni mio atto rimase deliberatamente subordinato... Posso, ormai, andare e venire a mio piacere; le poche restrizioni alle quali debbo ancora sottomettermi mi sono imposte nel mio stesso interesse. Mi è stato possibile scoprire questo apparecchio e, approfittando di una fortunata ricerca in mezzo al materiale che ingombra questo enorme magazzino, inviare questi messaggi. Finora, nessuno ha mai tentato d'immischiarsi in quello che faccio, pur avendo io dichiarato apertamente a Phi-oo che comunico con la terra. «"Lei parla ad altro?", domandò, esaminando lo strumento. «"Ad altri" dissi io. «E continuai la mia trasmissione.» Cavor correggeva continuamente le sue precedenti descrizioni dei seleniti, ciò era dovuto alla conoscenza progressiva di altri fatti che modificavano le conclusioni alle quali era già arrivato. Citiamo, quindi, con alcune riserve quanto segue. Prendiamo le citazioni dal nono, tredicesimo e sedicesimo messaggio; per quanto vaghe e saltuarie, danno pur sempre un quadro abbastanza completo della vita sociale di quella strana comunità. «Sulla luna», dice Cavor, «ogni cittadino ha un particolare incarico, e la disciplina complicata alla quale deve sottomettersi finisce per ridurlo così completamente ed esclusivamente idoneo all'esercizio delle sue mansioni, da eliminare idee ed organi atti a un diverso scopo. "Perché dovrebbe essere diversamente?" dice Phi-oo. Se, per esempio, un selenita nasce con le attitudini necessarie per divenire un matematico, i suoi educatori e i suoi professori fin dall'inizio fanno in modo che tale egli divenga davvero, reprimendo subito ogni tendenza rivolta ad altri scopi e incoraggiando invece i suoi gusti matematici con un'abilità psicologica perfetta. Il suo cervello e le sue facoltà matematiche si sviluppano, così, in modo prevalente, assieme a quella parte del suo organismo che è necessaria per un siffatto compito. All'infuori del riposo e dei pasti, la sola sua delizia è costituita dall'esercizio e dall'accrescimento di quella particolare facoltà; il suo interesse è rivolto soltanto alla sua specialità, e i suoi contatti avvengono esclusivamente con altri specialisti del suo genere. Il suo cervello cresce continuamente, o meglio, crescono in esso le sole parti necessarie per gli studi matematici, quasi assorbendo la vita e il vigore del resto della sua carcassa. Le sue membra si deformano per il mancato sviluppo, mentre il cuore e gli organi della digestione rimpiccioliscono e la sua faccia d'insetto scompare sotto i contorni rigonfi della scatola cranica. La sua voce si attenua in un semplice mormorio atto ad esporre delle formule; egli diviene insensibile a tutto ciò che non sia vera e propria enunciazione di un problema. La capacità di ridere, eccettuato il caso dell'improvvisa scoperta di un paradosso, resta in lui atrofizzata; la sua più profonda emozione è data dalla soluzione d'un nuovo calcolo; e, così, il suo scopo è raggiunto. «Un altro selenita, invece, è designato guardiano di gregge? Eccolo, fin dai primi anni, abituato a pensare al bestiame, a vivere con esso, a trovare ogni suo piacere in ciò che ad esso si riferisce, ad esercitarsi nell'averne cura e nel guidarlo. Viene condotto fuori per divenire attivo e nervoso, gli si abitua l'occhio agli stretti viluppi, ai contorni angolosi che costituiscono la sua specialità, fino a che le regioni profonde della luna finiscono per riuscirgli del tutto indifferenti; egli guarda allora con noncuranza, deride e osteggia tutti i seleniti non ugualmente versati nell'arte di curare, allevare e guidare il gregge. Tutti i suoi pensieri sono per i pascoli e il suo dialetto è composto dei termini tecnici del suo mestiere. In tal modo egli ama il suo lavoro e, con perfetta soddisfazione, compie i doveri che giustificavano la sua esistenza. Altrettanto avviene per i seleniti d'ogni genere e condizione; ciascuno è un'unità perfetta in un mondo meccanico... «Gli esseri dalla testa grossa, ai quali sono riservati i lavori intellettuali, formano in questa società strana una specie di aristocrazia, e hanno come capo - potenza suprema della luna il meraviglioso, gigantesco Gran Lunare, alla cui presenza fra poco debbo esser condotto. Lo sviluppo illimitato delle menti della classe intellettuale è reso possibile dall'assenza assoluta, nell'anatomia lunare, di cranio osseo, quella strana scatola che contiene il cervello umano e ne limita imperiosamente le possibilità. Gli intellettuali lunari si dividono in tre classi principali, che differiscono immensamente fra loro per quel che concerne influenza e considerazione. Vi sono gli amministratori, di cui Phi-oo fa parte, seleniti di grande versatilità ed iniziativa, ai quali spetta rispondere di una certa quantità cubica della massa lunare; gli esperti, come il pensatore della testa ovale, destinati a compiere speciali operazioni; gli eruditi, infine, depositari della scienza. A quest'ultima classe appartiene Tsi-puff, il primo che sulla luna abbia parlato un linguaggio terrestre. Per quel che riguarda questi ultimi, è curioso notare come il crescere illimitato del cervello lunare abbia reso inutile l'invenzione di tutti gli aiuti meccanici del lavoro cerebrale che hanno segnato il progresso dell'uomo. Non ci sono né libri né annali d'alcun genere, né biblioteche né iscrizioni. Ogni nozione è immagazzinata in quei grandi cervelli, nello stesso modo che le formiche del Texas immagazzinano il miele nei loro addomi rigonfi. Le loro biblioteche non sono nient'altro che collezioni di cervelli viventi... «Osservo che gli amministratori, meno specializzati, hanno per me un vivissimo interesse ogni volta che mi incontrano. Si fanno da parte, mi esaminano e rivolgono delle domande, alle quali risponde Phi-oo. Io li vedo andare qua e là, con un seguito di portatori, di domestici, di strilloni, di paracadutisti, gruppi quanto mai bizzarri a vedersi. Gli esperti, per la maggior parte, come s'ignorano, fra loro, ignorano anche me e, se mi degnano della loro attenzione, è solo per esibire subito il loro talento. Gli eruditi sono quasi sempre assorti nella più profonda ammirazione di loro stessi; impenetrabili e immobili come apoplettici, non si svegliano se non quando vedono messa in dubbio la loro erudizione. Generalmente, son condotti in giro da domestici nani e da guardiani; spesso, poi, sono accompagnati da piccole creature dall'aria affaccendata, piccole femmine, di solito, che propendo a credere siano per loro delle specie di spose. Ma alcuni dei sapienti più insigni hanno dimensioni tali che ogni locomozione diviene loro impossibile; sono, allora, trasportati di luogo in luogo da portatori in una specie di botte, masse traballanti e gelatinose di scienza che suscitano in me un senso di rispettosa meraviglia. Ne ho appena incontrato uno, venendo qui, dove mi si permette di divertirmi con questi giocattoli elettrici. Era una gran testa tremula e calva, ricoperta d'una pellicola sottilissima, condotta in giro dai portatori nella sua grottesca barella. Tutt'intorno, strani propalatori di notizie, dalla faccia simile a una trombetta, andavano gridando la sua fama ai quattro venti. «Ho già accennato ai cortei che accompagnano la maggior parte degl'intellettuali, costituiti da uscieri, portatori e valletti, cui spetta di rimpiazzare, come altrettanti muscoli e tentacoli esteriori, le facoltà fisiche limitate di queste menti ipertrofiche. I portatori li seguono quasi sempre; talvolta li accompagnano anche dei messaggeri rapidissimi, con gambe come quelle dei ragni, alcuni domestici incaricati di custodire i paracadute ed altri individui, forniti d'organi vocali di tal forza da risvegliare anche i morti. Quando non entra in azione la loro intelligenza, questi subordinati rimangono inerti e impotenti come ombrelli in un'anticamera. Essi non esistono che per gli ordini ai quali debbono ubbidire, per i doveri che debbono compiere. «Nell'insieme, questi insetti che circolano per le vie a spirale, riempiono i palloni ascendenti e discendenti e mi passano vicino sospesi a fragili paracadute, appartengono alla classe operaia. Mani meccaniche, tali sono in realtà alcuni di questi esseri, metafore a parte; l'unico tentacolo del pastore dei vitelli lunari è rimpiazzato da immense braccia, sole o appaiate, con tre, cinque o sette dita, per afferrare, sollevare, guidare: il resto è costituito da semplici appendici secondarie, strettamente indispensabili per le cose più importanti. Certi seleniti che, suppongo, si occupano di meccanismi rumorosissimi, hanno enormi orecchie come quelle delle lepri proprio dietro gli occhi; altri, che hanno come compito delicate operazioni chimiche, proiettano innanzi un grande organo olfattivo; altri ancora hanno piedi piatti come pedali, con giunture anchilosate, ed altri infine, che m'hanno detto essere soffiatori di vetro, hanno polmoni che sembrano veri soffietti. Ognuno dei comuni seleniti da me visti è perfettamente idoneo alla funzione sociale riservatagli. I lavori molto delicati sono affidati ad operai raffinati, meravigliosamente ridotti a minime dimensioni; tanto piccole da consentirmi, volendo, di tenerne alcuni nel palmo della mano. Esiste pure una specie di selenita girarrosto, assai comune, il cui dovere e la cui unica delizia consistono nel fornire la forza motrice a svariati apparecchi. E per governare tutto ciò, per reprimere ogni tendenza ostile di qualche individuo un po' traviato, vi sono esseri speciali, i più muscolosi che io abbia visti sulla luna, una specie di polizia lunare, le cui membra sono abituate sin dalla più tenera età ad obbedire alle teste rigonfie e a rispettarle nel modo più scrupoloso. «La preparazione di queste diverse specie di lavoratori dev'essere certamente ottenuta con processi molto interessanti e curiosi. Nulla di positivo riuscii a sapere a tale riguardo; ma, di recente, sono capitato fra un certo numero di seleniti giovani, confinati ognuno in una specie di boccale, da cui uscivano soltanto le membra superiori; si preparavano così a divenir servi di macchine d'un genere particolare. Le membra distese in tal modo, con quel sistema di educazione tecnica altamente sviluppato, sono stimolate da sostanze irritanti e nutrite per mezzo di iniezioni, mentre il resto del corpo è privato d'ogni alimento. Phi-oo, se non ho mal compreso, mi spiegò che da principio quelle piccole creature lasciano scorgere segni di sofferenza nelle loro diverse posizioni raggomitolate, ma finiscono per abituarsi facilmente alla loro sorte; mi condusse poi in un luogo dove si confezionavano e si addestravano messaggeri dalle membra flessibili. E' irragionevole, lo so, ma sta di fatto che la vista dei metodi di educazione ai quali sono sottoposti quegli esseri mi colpì sgradevolmente. Spero, tuttavia, che l'impressione passerà presto e che mi sarà dato vedere ancora con tranquilla indifferenza simili aspetti di un ordinamento sociale tanto meraviglioso. Quella mano-tentacolo miserabile, che usciva fuori del boccale, sembrava implorare debolmente le sue forze perdute; ne sono ancora scosso, quantunque, infine, si tratti di un processo molto meno crudele del nostro metodo terrestre di lasciare che i bambini divengano uomini per trasformarli, allora soltanto, in macchine. «Non molto tempo fa - ero, credo, alla mia undicesima o dodicesima visita a quell'apparecchio - ebbi la strana rivelazione della vita degli operai. Ero giunto là da una scorciatoia che mi evitava le vie a spirale e le banchine del mare Centrale. Dalle sinuosità di una lunga ed oscura galleria eravamo entrati in una grande e bassa caverna molto illuminata, piena di un odore terrestre. La luce proveniva da una densa vegetazione di forme fungose livide, alcune delle quali, a dire il vero, stranamente simili ai nostri funghi, ma tanto alte da superare la statura d'un uomo. «"E' questo, dunque, il cibo dei lunari?" domandai a Phi-oo. «"Sì, cibo". «"Gran Dio" gridai d'un tratto, "che cos'è?" «Avevo visto un selenita eccezionalmente grande e mal costruito, disteso immobile fra i tronchi, la faccia al suolo. Ci fermammo. «"Morto?" domandai. (Fino allora non avevo mai visto dei morti sulla luna, e l'inattesa visione aveva eccitato la mia curiosità.) «"No!" esclamò Phi-oo. "Lui lavoratore... non lavoro da fare... prende piccola pozione allora... fa dormire... fino a che si abbia bisogno di lui. Perché lui svegliato...? Non bisogno lui andare e venire per niente." «"Eccone un altro!" esclamai. «Infatti, tutta quella immensa distesa coperta di funghi era ingombra di simili forme prostrate, addormentate da un narcotico finché la luna avesse nuovamente bisogno di loro. Ve n'erano d'ogni genere, in gran quantità, e potemmo rovesciarne alcuni ed esaminarli più da vicino di quanto avessi potuto fare in precedenza. Respiravano rumorosamente quando venivano mossi, ma non si svegliavano. Ve n'era uno di cui mi ricordo perfettamente; mi lasciò, credo, un'impressione più profonda, perché, a causa di un gioco di luce, la sua posa dava l'idea di una figura umana distesa a terra. Le membra superiori erano lunghi e delicati tentacoli - lavorava oggetti fini, certo - e il suo atteggiamento faceva pensare ad una sofferenza subita con rassegnazione. Senza dubbio, era un mio errore interpretare così quell'espressione; ma che cosa farci? Mentre Phi-oo lo respingeva nelle tenebre, in mezzo alla vegetazione livida e carnosa, io provai di nuovo una sensazione sgradevole, pur non potendo dubitare che si trattasse di un insetto, al vederlo rotolar giù. «Ciò dimostra semplicemente come sia falso il modo con cui noi acquistiamo l'abitudine di pensare e di sentire. Narcotizzare l'operaio di cui non ci si può servire e tenerlo come riserva è meglio certamente che cacciarlo dall'officina ed esporlo a morir di fame sulla strada. In ogni comunità sociale complessa vi sono delle soste nell'occupazione di lavoratori specializzati; sotto questo rapporto, dunque, gli imbarazzi derivanti dal problema della disoccupazione sono assolutamente ignoti ai seleniti. Eppure, ogni mente, educata come la mia all'osservazione scientifica, è così irragionevole, che mi perseguita ancora il ricordo di quelle figure prostrate sotto le volte calme e luminose di vegetali carnosi e mi obbliga ad evitare la scorciatoia, preferendo la strada normale, sebbene sia più lunga, più rumorosa e più ingombra. «Da questa strada passo vicino ad un'immensa caverna oscura, nella quale posso scorgere le madri della popolazione lunare, le regine, per così dire, dell'alveare, intente a guardare dalle aperture esagonali d'una specie di muro a celle, o a passeggiare in un largo spazio situato più in basso, o a scegliere giocattoli ed amuleti fabbricati per loro diletto da gioiellieri dalle dita delicatissime entro grotte sotterranee. Sono creature dall'aria nobile, fantasticamente e talvolta assai graziosamente ornate, altere nell'incedere e, a parte la bocca, dalla testa quasi microscopica. «Sulla condizione dei sessi sulla luna, sui matrimoni tra i seleniti e sulle nascite, potei finora apprendere poco; ma, con i rapidi progressi di Phi-oo nella lingua inglese, ben presto potrò mettermi al corrente di tutto. Credo che, come avviene tra le formiche e le api, una gran maggioranza dei membri di questa comunità appartenga al sesso neutro. Del resto, anche sulla terra, nelle nostre città, molti esseri non conducono vita di famiglia, che è la vita naturale dell'uomo. Sulla luna, come sulla terra tra le formiche, ciò costituisce una condizione normale della razza, e la fatica della riproduzione della specie è riservata a una classe speciale e ristretta di matrone, le madri del mondo lunare, creature corpulente e maestose, meravigliosamente fatte per la riproduzione delle larve selenite. Se non ho male interpretato una spiegazione di Phi-oo, tali femmine sono assolutamente incapaci di curare i piccoli da loro messi al mondo: periodi di stupida indulgenza si alternano in loro ad accessi di violenza aggressiva, e, non appena sia possibile, i piccoli, che nascono molli, flosci e di colorito pallido, sono affidati alle cure d'una varietà di femmine sterili, lavoratrici, che, in certi casi, posseggono cervelli di dimensioni quasi maschili.» Disgraziatamente, proprio a questo punto il messaggio fu interrotto. Per quanto frammentaria e poco piacevole sia la materia che costituisce questo capitolo, essa offre tuttavia un'impressione vaga ed ampia di un mondo assolutamente strano, un mondo con il quale il nostro deve prepararsi a fare i conti. Questo susseguirsi intermittente di messaggi e questo sommesso mormorio del registratore nelle tenebre, su un fianco delle Alpi, sono il primo indizio di un cambiamento che si produrrà nelle condizioni umane e che l'umanità finora non ha mai immaginato. Esistono sulla luna nuovi elementi, nuovi apparecchi, nuove tradizioni, una schiacciante valanga di idee nuove, una razza strana con la quale inevitabilmente lotteremo per la supremazia, data la presenza sulla luna dell'oro, comune là come il ferro o il legno sulla terra... 25. IL GRAN LUNARE. Il penultimo messaggio descrive, ogni tanto con elaborati particolari, l'incontro tra Cavor e il Gran Lunare, che è il sovrano o signore della luna. Cavor sembra aver trasmesso la maggior parte del resoconto di tale incontro senza interruzioni, ma deve essere stato interrotto nella parte conclusiva che pervenne dopo un intervallo di una settimana. La prima parte del messaggio comincia così: «Finalmente sono capace di riprendere questa...», poi diventa incomprensibile per un tratto, e quindi ritorna intelligibile nel bel mezzo di una frase. Le parole mancanti della frase che segue debbono esser probabilmente: «La folla»; dopo di che si legge in modo chiaro: «Diveniva sempre più densa a misura che ci avvicinavamo al palazzo del Gran Lunare, se è lecito chiamare palazzo una serie di scavi. C'erano ovunque, rivolte verso di me, pallide facce rigonfie, dagli occhi immobili, dilatati sopra orribili narici tentacolari, o piccoli, sotto fronti mostruose; e, tutt'intorno, un formicolio di creature minuscole, che si pigiavano mugolando, e di teste grottesche, piantate fra due spalle o sotto le braccia dei vicini. Per mantenermi in uno spazio libero, marciava al mio fianco una fila di robusti gendarmi, dalla testa a secchio di carbone; erano gli stessi che si erano uniti a noi quando avevamo lasciato il battello con il quale avevamo attraversato i canali del mare Centrale. L'artista dal piccolo cervello ci raggiunse; una schiera compatta di magri portatori procedeva, curva sotto il peso di una grande quantità di oggetti scelti per me. Durante quest'ultimo tratto del nostro viaggio, fui portato in una lettiga fatta d'un metallo assai duttile, che mi sembrò scuro e lavorato come una maglia, con piccole sbarre di metallo più pallido. A mano a mano che avanzavamo, si andava formando una gran processione. «Camminavano davanti, come araldi, quattro creature dalla faccia a trombetta, emettendo schiamazzi assordanti; seguiva poi un gruppo di uscieri tarchiati, rassomiglianti un po' a dei grossi scarabei; ai lati, una fila di teste sapienti, vera enciclopedia vivente, richiesta, come mi spiegò Phi-oo, dal Gran Lunare per fargli da interprete. Non un particolare della scienza lunare, non una veduta, non un metodo di pensiero erano ignoti alle teste di quegli esseri meravigliosi. Guardie e portatori seguivano, precedendo Phi-oo, dal cervello fremente, adagiato anch'egli su una lettiga; subito dopo, in un'altra lettiga un po' meno lussuosa, veniva Tsi-puff; io, infine, in una lettiga più elegante di tutte le altre, circondato dai miei servitori. Dietro di me, altri araldi-trombettieri mi assordavano con clamori altissimi; era poi la volta di parecchi grandi cervelli, corrispondenti speciali, potremmo chiamarli, o stenografi, incaricati di osservare e ricordare tutti i particolari di tale indimenticabile intervista. Chiudeva il corteo una grande schiera di creature diverse, che agitavano delle insegne, trascinando masse fungose profumate e strani simboli lungo il percorso. Faceva ala un fitto cordone di uscieri e di ufficiali, carichi di ornamenti scintillanti come acciaio; alle loro spalle, da ogni lato, si accalcavano, si agitavano le teste e i tentacoli di una folla spettatrice veramente enorme. «Confesso che, non essendomi ancora abituato all'impressione particolare prodotta dall'aspetto dei seleniti, non trovavo affatto piacevole l'essere, per così dire, sballottato su quel gran mare di esseri entomologici eccitati. Provai, anzi, per un momento, un vero terrore, lo stesso che avevo già provato prima, nelle caverne lunari, quando d'un tratto m'ero visto senza difesa alcuna, in mezzo a una fitta schiera di seleniti. Si tratta di una sensazione assolutamente irrazionale, da cui spero di liberarmi a poco a poco; ma sta di fatto che, per un istante, mentre andavo avanzando sballottato da quella moltitudine, fu solo aggrappandomi forte alla mia lettiga e facendo ricorso a tutta la mia volontà che riuscii a trattenere un grido o un'altra simile manifestazione di terrore. Fu una questione di pochi minuti; dopo di che, ripresi, subito e completamente, il dominio di me stesso. «Ascesa la spirale dei pozzi verticali, attraversammo un gran numero di sale immense, dal soffitto a volta, magnificamente decorate. Avevano certo predisposto l'arrivo del Gran Lunare in modo tale da dare una viva impressione della sua grandezza. Le sale - per mia fortuna tutte abbastanza illuminate per il mio occhio terrestre - costituivano un abile crescendo di spazio e di decorazione. L'effetto della loro dimensione sempre più grande era aumentato dalla continua diminuzione della luce e da un sottile velo di profumi bruciati, sempre più denso via via che avanzavamo. Nelle prime sale la luce vivida dava alle cose contorni netti e concreti; non così avveniva nelle altre, e si aveva l'impressione di procedere di continuo verso un luogo sempre più grande, più scuro e più immateriale. «Devo confessare che tanto splendore acuiva in me un senso di disagio per lo stato miserabile e indegno in cui mi trovavo. Avevo barba e capelli lunghi ed incolti, privo com'ero di rasoio, e baffi irti coprivano le mie labbra. Sulla terra sono sempre stato incline a sdegnare grandi cure per la mia persona, riducendole a quelle necessarie per la pulizia quotidiana. Ma, nelle circostanze eccezionali in cui mi trovavo e dato il compito di rappresentante del mio pianeta e della mia specie dovevo contare, per essere ben accolto, sull'attrattiva esteriore, e quindi avrei pagato chissà che per esser vestito con qualcosa di più nobile e più artistico dei miseri stracci che mi coprivano. Ero sempre stato così convinto della inesistenza di abitanti sulla luna, che avevo del tutto trascurato simili preoccupazioni. Ed ecco che mi trovavo vestito d'una giacca di flanella, pantaloni alla zuava e calze da ciclista, tutto macchiato d'ogni genere di sporcizia lunare e con i piedi calzati di pantofole, di cui la sinistra era persino priva di tacco; fortunatamente, avevo anche una coperta che, forata nel mezzo, lasciava passare la testa e ricopriva alla meglio le mie miserie. Sono questi gli abiti che indosso anche adesso! E' vero che la barba ispida finiva per migliorare i miei lineamenti; ma avevo anche un grande strappo in un ginocchio dei calzoni, assai visibile purtroppo, nonostante rimanessi tutto raggomitolato nella lettiga; a ciò s'aggiunga che la calza destra continuava anch'essa a scendere sullo stinco. E' facile comprendere come il mio abbigliamento abbia fatto torto all'intera umanità. Se avessi potuto, con qualsiasi espediente, improvvisare qualcosa di speciale ed imponente, l'avrei fatto di certo; il male è che non seppi escogitare nulla. Cercai di trarre dalla mia coperta il maggior effetto possibile, drappeggiandola come una toga, e restai seduto ergendo il busto in atteggiamento dignitoso, nonostante il continuo dondolio della lettiga. «Immaginate la sala più ampia che si sia mai vista, artisticamente decorata di maiolica azzurra, illuminata - senza che si vedesse come - da una luce bluastra, e gremita di creature metalliche e livide, l'una diversa dall'altra, di quella stupefacente diversità da me già accennata. Immaginate che questa sala termini in una volta, in cima alla quale si trovi una sala più grande ancora, seguita da una terza anche più vasta e così di seguito, a perdita d'occhio. All'estremo limite della prospettiva, una serie di gradini, come quelli dell'Ara Coeli, a Roma, che salivano così in alto da non poterli più scorgere, e che sembravano sempre più alti via via che ci si avvicinava alla loro base. Giunto finalmente sotto un'immensa volta, potei vedere l'apice di quei gradini, sui quali troneggiava il Gran Lunare. «Stava seduto là, avvolto in un fulgore di azzurro incandescente. Un'atmosfera nebbiosa riempiva il luogo, dando alle pareti una lontananza fantastica e ai miei sensi l'impressione di ondeggiare in un vuoto azzurrognolo. «Il Gran Lunare mi fece dapprima l'effetto d'una piccola nube luminosa, da cui irraggiasse tutt'intorno un grande chiarore. Meditava sul suo trono celeste, e il suo cervello poteva misurare parecchi metri di diametro. Per una ragione che non sono riuscito ad approfondire, vari fasci di luce irradiavano da dietro il trono, come se il Gran Lunare fosse stato una stella; un grande alone luminoso lo circondava. Alcuni servi lo sostenevano, minuscoli e quasi indistinti fra tanto splendore; più sotto, appartati e tutti in piedi in un vasto semicerchio, stavano raccolti i suoi dipendenti intellettuali, i suoi suggeritori, i calcolatori, i ricercatori, i servi e tutti gli onorevoli insetti della corte lunare. Più sotto ancora, c'erano gli uscieri e i messaggeri; scaglionate poi sugli innumerevoli gradini, stavano le guardie; gremita, infine, la base brulicava di un'enorme e indistinta moltitudine di piccoli dignitari e funzionari lunari. Il loro sgambettare produceva un tenue rumore sul suolo roccioso; le loro membra, invece, si agitavano con altissimo strepito. «Quando entrai nella penultima sala, una musica dolcissima si fece udire, salendo a poco a poco in una regale magnificenza di suoni, mentre i clamori degli strilloni s'andavano spegnendo... «Giunsi nell'ultima sala, la più vasta... «Il mio corteo si aprì a ventaglio... Gli uscieri e le guardie che mi precedevano si fecero da parte, a destra e a sinistra, e le tre lettighe nelle quali eravamo io, Phi-oo e Tsi-puff procedettero su un suolo lucido e brillante fino ai piedi della gigantesca scalea. Cominciò allora, fondendosi con la musica, un vasto ed ansioso sussurro. I due seleniti si chinarono a terra; ma a me si ordinò di rimanere seduto quale segno di speciale onore, immagino. La musica tacque, pur continuando il sussurro, mentre il movimento simultaneo di diecimila teste rispettose faceva volgere il mio sguardo verso quell'alone di suprema intelligenza che si librava su di noi. «Dapprima, quando tentai di distinguerlo meglio tra lo sfolgorante chiarore, quel cervello quintessenziale mi parve assai simile a una vescica opaca, privo com'era di lineamenti definiti, con lievi ombre ondulate di circonvoluzioni che visibilmente si agitavano. Sotto quel cervello enorme minuscoli occhi neri e penetranti scintillavano, fissando qua e là, nello sfolgorio circostante; era impossibile sostenerne lo sguardo, sia pure un attimo solo, senza provare una violenta sensazione d'angoscia. Non era un volto quello; si sarebbe detto che due occhi si fossero rifugiati in due fori. Dapprima, non potei scorgere che quelle piccole pupille fisse; vidi, poi, anche un corpo da nano e delle membra da insetto, pallide e raggrinzite. Lo sguardo di quell'essere s'abbassava verso di me con una strana intensità; la parte inferiore del globo rigonfio era increspata. Piccole mani, veri tentacoli inutili, mantenevano quella forma sul suo trono... «Era grande, eppure pietoso. Veniva fatto di dimenticare la sala e la folla. «Con forti scosse, mi fecero salire la scala. Mi pareva che quel cervello dai riflessi purpurei mi attanagliasse. Le file dei servi e degli aiutanti sembravano assottigliarsi, fino a scomparire, nello splendore di quel centro sovrano. Mi accorsi che personaggi nebulosi facevano colare un liquido rinfrescante su quel grande cervello, strofinandolo e sostenendolo. Io, frattanto, rimanevo aggrappato alla lettiga, gli occhi fissi sul Gran Lunare, incapace di volgerli altrove. Quando, finalmente, potei giungere su un ripiano separato dal trono da una decina di gradini appena, la confusa magnificenza della musica raggiunse il colmo e si spense: ero rimasto, per così dire, nudo in quella enorme vastità, sotto gli occhi scrutatori del Gran Lunare. «Egli andava esaminando il primo essere umano giunto fino a lui... «Riuscii, tuttavia, a staccargli gli occhi di dosso, girando lo sguardo, prima sulle indecise figure che l'attorniavano, quasi evanescenti nella nebbia azzurrognola, poi, in fondo ai gradini, sui seleniti ammassati là a migliaia, immobili e intenti. Ancora una volta, quella folla destò in me un irragionevole orrore... che poi passò... «Seguì una sosta e si venne al saluto. Aiutato a scendere dalla mia lettiga, rimasi goffamente in piedi, mentre gesti curiosi, senza dubbio simbolici, venivano fatti in mia vece da due esili funzionari a tale scopo delegati. Il corteo enciclopedico dei sapienti, da cui ero stato accompagnato fino all'ingresso dell'ultima sala, apparve allora, schierato a destra e a sinistra, due gradini sotto di me, pronto ai bisogni del Gran Lunare. Il bianco cervello di Phi-oo andò a collocarsi a metà strada circa dal trono, in posizione tale da poter facilmente comunicare con noi, senza essere perciò obbligato a volger le spalle né all'uno né all'altro. Tsi-puff prese posto dietro il suo compagno. Abili uscieri mi vennero incontro, tenendo sempre la faccia interamente rivolta verso il Gran Lunare. Sedutomi alla turca, Phi-oo e Tsi-puff s'inginocchiarono un po' più in alto. Seguì una pausa. Gli occhi dei cortigiani più vicini andavano da me al Gran Lunare per tornare a fissarsi su di me. Un fremito d'attesa passò sulle moltitudini sottostanti, quasi invisibili; ci fu poi un profondo silenzio. «Nessuno fiatò. «Per la prima e l'ultima volta nel mio soggiorno, la luna fu silenziosa. «Sentii un debole e tremulo sussurro. Il Gran Lunare si rivolgeva a me. La sua voce sembrava prodotta dallo stropiccio d'un dito su una lastra di vetro. «Esaminatolo attentamente per alcuni minuti, diedi poi un'occhiata al vigile Phi-oo. In mezzo a tutti quegli esseri, mi sentivo ridicolmente grosso, carnoso e solido con la mia testa ridotta, al loro confronto, a sole mascelle ricoperte d'ispidi peli neri. Fissai di nuovo il Gran Lunare. Taceva. I suoi servi gli si affaccendavano intorno, e quanto c'era in lui di lucente brillava ancora di più, irrorato da un liquido refrigerante. «Phi-oo rimase un istante pensieroso, consultò Tsi-puff; poi si mise a pigolare nel mio linguaggio parole appena comprensibili per il nervosismo da cui era invaso. "Hum! Hum...! Il Gran Lunare... desidera dire... comprende che lei è... hum...! uomo... che lei è un uomo del pianeta terra. Egli desidera dire che lei è il benvenuto... il benvenuto... e desidera sapere... sapere, se posso usar questa parola... lo stato del suo mondo... e la ragione che l'ha condotto qui..." «Tacque. Ero sul punto di rispondere, quando egli riprese la parola, facendo alcune osservazioni il cui nesso non era molto chiaro; credo, tuttavia, fossero dei complimenti. Mi disse che la terra era per la luna ciò che il sole è per la terra e che i seleniti desideravano vivamente avere maggiori notizie su quanto riguarda la terra e i suoi abitanti. Ricordò, sempre per puro complimento, le dimensioni e il diametro della terra e della luna, accennando alla meraviglia e alla curiosità con cui i seleniti avevano sempre osservato il nostro pianeta. Riflettei un istante, gli occhi bassi, con aria modesta, prima di rispondere; dissi poi che anche gli uomini si chiedevano insistentemente che cosa contenesse la luna, pur credendola disabitata, non supponendo affatto l'infinita magnificenza che io in quel momento contemplavo. In segno di ringraziamento, il Gran Lunare fece muovere i suoi fasci di luce con intensità ancor più fulgida, mentre in tutta l'immensa sala si propagavano bisbigli, mormorii e pigolii per ripetere le mie parole. Il Gran Lunare continuò, allora, facendo a Phi-oo domande, alle quali era assai facile rispondere. «Egli aveva compreso, così almeno diceva, che noi viviamo sulla superficie della terra, che la nostra aria e i nostri oceani si trovano nella parte esterna del globo; tutte cose, del resto, ch'egli già sapeva dai suoi astronomi. Era, per altro, desideroso di avere più ampie notizie intorno a un tale straordinario ordine di cose, data la solidità della terra che induceva sempre a ritenerla inabitabile e inabitata. Si sforzò innanzi tutto di capire bene a quali elevate temperature fossero esposti gli esseri terrestri, interessandosi vivamente alla descrizione che io gli feci delle nubi e della pioggia. La sua immaginazione era aiutata dal fatto che nelle gallerie superiori, verso il lato notturno, l'atmosfera lunare è spesso nebbiosissima. Parve meravigliarsi quando apprese che noi non troviamo troppo forte per i nostri occhi la luce solare e mi ascoltò attentamente quando spiegai che questa luce è attenuata fino a raggiungere un colore bluastro per la rifrazione dell'aria; non potrei giurare tuttavia d'essere sicuro ch'egli abbia compreso ciò chiaramente. Gli spiegai che l'iride può contrarre la pupilla e proteggere così la delicata struttura interna dell'occhio umano dagli eccessi della luce; mi fu allora permesso di avvicinarmi qualche passo al Gran Lunare per far sì che egli potesse esaminare una tale struttura. Ciò condusse ad un raffronto fra gli occhi terrestri e gli occhi lunari. Questi sono non solo estremamente sensibili a tutte le luci che l'occhio umano distingue, ma possono vedere anche il calore; cosicché sulla luna ogni diversità di temperatura si vede nei singoli oggetti. «L'iride fu per il Gran Lunare un organo completamente nuovo. Si divertì un po' a far convergere sul mio volto i suoi raggi per veder contrarre le mie pupille; ciò che finì per abbagliarmi ed accecarmi per alcuni minuti... «Ma, nonostante tale conseguenza sgradevole, a poco a poco, quasi insensibilmente, quello scambio di domande e risposte, sempre logico e razionale, giunse a tranquillizzarmi. Avrei potuto chiudere gli occhi, riflettere e quasi dimenticare che il Gran Lunare era privo di volto... «Quando fui tornato al mio posto, il Gran Lunare mi chiese in che modo ci riparassimo dal calore e dalle tempeste, ed io gli parlai dell'arte del costruire e dell'arredare una casa. Sorsero a questo punto malintesi e contraddizioni, dovuti in gran parte, debbo confessarlo, al mio modo d'esprimermi. Dovetti superare serie difficoltà per fargli comprendere che cosa sia una casa. Tanto a lui quanto a quelli che l'attorniavano, parve la cosa più bizzarra del mondo che gli uomini fabbricassero delle case, mentre potrebbero scendere sotto terra; ed io stesso contribuii a complicare maggiormente le cose, cercando di spiegare che gli uomini originariamente avevano abitato in caverne e che anche oggi le loro ferrovie e alcuni stabilimenti sono sotto la superficie del suolo. Forse, mi aveva condotto a questa precisazione il desiderio di mostrar loro la nostra più alta imperfezione intellettuale. Seguì un altro inestricabile imbroglio, dovuto a un mio imprudente tentativo di spiegar loro che cosa siano le miniere. Lasciato alfine da parte tale soggetto senza approfondirlo, il Gran Lunare mi domandò a quale uso sia da noi riservato l'interno del nostro globo. «Un gran frastuono di pigolii e di garriti si propagò fino ai punti più remoti della grande assemblea, allorché risultò chiaramente che noi uomini non sappiamo affatto che cosa contenga il mondo, sul quale si sono avvicendate le innumerevoli generazioni dei nostri antenati. Dovetti ripetere tre volte che dei seimilacinquecento chilometri di materia interposta fra la terra e il suo centro, soltanto uno, e poco anch'esso, è conosciuto dall'uomo. Intuivo che il Gran Lunare si domandava perché mai fossi venuto sulla luna, se non eravamo ancora giunti a conoscere bene il nostro pianeta; ma, per fortuna, nessuna richiesta di spiegazioni venne a pormi in imbarazzo, tanto era ansioso di approfondire ciò che per lui era una folle inversione di tutte le sue idee. «Essendo ritornato sulla questione del tempo, cercai di descrivergli il cielo sempre mutevole, la neve, il gelo e gli uragani. «"Ma quando viene la notte," domandò, "non fa freddo?" «Gli risposi che la temperatura è più bassa che durante il giorno. «"E la vostra atmosfera non gela mai?" «Gli assicurai che ciò non accade, perché non fa mai un freddo eccessivo e perché le nostre notti sono molto brevi. «"'Non si scioglie neppure?" «Stavo per dir di no, quando mi venne in mente che almeno una parte della nostra atmosfera, il vapore acqueo in essa contenuto, si scioglie talvolta, formando la rugiada, e talaltra gela, formando la brina e il nevischio, processo del tutto analogo al congelamento dell'atmosfera esterna della luna durante le lunghe notti. Mi spiegai con chiarezza a tale riguardo. Il Gran Lunare cominciò allora a parlarmi del sonno per sapere come mai quel bisogno di dormire, che regolarmente si ripete ogni ventiquattro ore, sia proprio della nostra eredità terrestre. Sulla luna non si riposa che a rari intervalli e solo dopo sforzi straordinari. Volli allora dipingergli i dolci splendori di una notte estiva, passando poi ad una descrizione degli animali che lavorano di notte e dormono di giorno. Gli parlai di leoni e di tigri e mi parve di aver provocato un grande stupore. Eccettuati infatti gli animali subacquei, non c'è creatura sulla luna che non sia completamente domestica, da tempo immemorabile. Vi sono anche creature acquatiche mostruose, ma non bestie da preda; e l'idea di una cosa grande e forte che vive alla superficie, di notte, è per loro quasi inammissibile...» A questo punto nella relazione c'è una lacuna. «Il Gran Lunare s'intrattenne con i suoi sapienti, sulla strana superficialità e sulla irragionevolezza degli uomini che si accontentano di vivere soltanto alla superficie d'un mondo, creature esposte alle tempeste, ai venti e ad ogni altro pericolo dello spazio, che non sanno nemmeno unirsi per trionfare sulle bestie che divorano la loro razza e che tuttavia osano invadere un altro pianeta. Durante questo colloquio, io rimasi a riflettere; poi, accontentando un suo desiderio, gli parlai delle diverse specie di uomini. Mi colmò di domande. «"Per i diversi generi di lavori, avete lo stesso tipo di uomini? Ma chi pensa, dunque? Chi governa?" «Gli risposi con un rapido accenno al sistema democratico. «Quand'ebbi finito, ordinò che si spargessero sulla sua fronte liquidi rinfrescanti; dopo di che mi pregò di ripetere la mia spiegazione, credendo di non aver bene afferrato tutto. «"Fanno, dunque, cose diverse?" chiese Phi-oo. «"Ci sono dei pensatori," replicai, "dei funzionari; alcuni vanno a caccia o sono meccanici, altri sono artisti o lavoratori, ma tutti governano." «"Non hanno forme particolarmente adatte ai loro diversi compiti?" «"Nessuna," risposi, "eccettuato, forse, il vestito. Le loro menti, forse, differiscono un po'," continuai. «"Debbono differire molto," riprese il Gran Lunare, "altrimenti vorrebbero tutti fare la stessa cosa." «Per meglio armonizzare le mie con le sue idee preconcette, risposi che la sua supposizione era esatta. «"Tutto è celato nel cervello; e là soltanto esistono le diversità. Se la mente e l'animo degli uomini si potessero vedere, si troverebbero altrettanto vari e dissimili fra loro quanto quelli dei seleniti. Ci sono uomini grandi e piccoli; alcuni dalle membra lunghe ed altri dalle membra corte e svelte; uomini nervosi, dallo spirito sempre desto, ed altri che vivono di ricordi..."» Tre parole del racconto sono illeggibili. «M'interruppe per ricordarmi una delle mie frasi precedenti. «"Lei ha detto che tutti gli uomini governano?" insistette. «"Fino a un certo punto," risposi, rendendo, credo, con la mia spiegazione ancora più confuse le sue idee. «Si attaccò allora a un altro punto. «"Vuol dire dunque," domandò, "che non esiste nessun Gran Terrestre?" «Il mio pensiero corse a diversi personaggi, ma finii per assicurargli che non ne esistevano. Gli spiegai che gli autocrati e gli imperatori che avevano regnato sulla terra s'erano dati abitualmente al bere e al vizio, quando non erano stati violenti, e che la vasta e influente parte del popolo terrestre a cui io appartengo, gli anglosassoni, non aveva affatto l'intenzione di esperimentare ancora cose simili. A questo punto, il Gran Lunare rimase ancora più sbalordito. «"Ma, allora, come fate a conservare la saggezza che avete già acquistata? " «Gli spiegai in che modo noi aiutiamo con libri ed intere biblioteche il nostro... [qui manca una parola che probabilmente è "cervello"] limitato. Gli feci comprendere come la nostra scienza si sviluppi giovandosi del lavoro concorde di piccoli innumerevoli uomini. Non fece alcun commento, limitandosi ad osservare che evidentemente avevamo superato molte difficoltà, nonostante la nostra selvaggia condizione sociale, altrimenti non mi sarebbe stato possibile arrivare sulla luna. Ma il contrasto era fortissimo. Con la loro scienza, i seleniti si sviluppano e si modificano; l'umanità terrestre, invece, immagazzina la sua, facendo rimanere gli uomini allo stato di bruti armati. Il Gran Lunare dichiarò...» [Anche qui un frammento del messaggio è incomprensibile.] «Dovetti allora descrivergli con quali mezzi ci muoviamo sulla terra, parlandogli delle nostre ferrovie e dei piroscafi. Per un istante non riuscì a comprendere perché noi utilizziamo la forza del vapore da solo un secolo. Quando poté capirlo, ne restò immensamente sorpreso. E' strano che i seleniti dividano in anni il tempo, come facciamo noi sulla terra, ma non ho capito niente del loro sistema numerico. (Ciò, del resto, non ha importanza, dal momento che Phi-oo conosce perfettamente la nostra numerazione.) «Gli spiegai poi che l'umanità vive nelle città da soli nove o diecimila anni e che gli uomini non sono ancora uniti in un'unica società fraterna, ma sono divisi in gruppi e hanno forme molteplici di governo. Ciò stupì assai il Gran Lunare non appena arrivò a capirlo. Dapprima aveva creduto che si trattasse solo di divisioni amministrative. «"I nostri Stati e i nostri imperi sono soltanto forme grossolane di quell'ordine di cose che esisterà prima o poi," continuai...» [A questo punto, un tratto di trasmissione, equivalente, forse, a trenta o quaranta parole, è del tutto indecifrabile.] «Il Gran Lunare fu particolarmente impressionato dalla follia umana nell'ostinarsi ad avere lingue diverse. «"Vogliono e insieme non vogliono comunicare," egli disse e per parecchio tempo mi tempestò di domande relative alla guerra. «Restò dapprima perplesso e incredulo. «"Vuol dire dunque," chiese per averne conferma, "che voi percorrete la superficie del vostro mondo - quel mondo di cui avete appena cominciato a conquistare le ricchezze uccidendovi a vicenda come bestie da macello?" «Gli risposi che ciò era perfettamente esatto. «Mi chiese allora dei particolari per aiutare la sua immaginazione. «"Ma le vostre piccole città e le vostre navi non ne restano, forse, danneggiate?" «Alla mia risposta, vidi chiaramente che la distruzione e la rovina l'impressionavano quasi quanto l'assassinio. «"Mi dica, mi dica ancora," insistette il Gran Lunare. "Mi descriva quel che succede. Non posso immaginare cose simili." «E fu così che, sebbene a malincuore, dovetti dargli un'idea della storia delle guerre terrestri. «Accennai alle prime cerimonie guerresche, ai preliminari e agli ultimatum, al modo di guidare gli eserciti e di valersene. Cercai di spiegargli che cosa siano le manovre, le posizioni strategiche e le battaglie; gli parlai di assedi e di assalti, di popolazioni affamate, di fatiche e di privazioni nei campi e nelle trincee, di sentinelle morenti di freddo sotto la neve, di sconfitte e di sorprese, di resistenze disperate e di estreme speranze, di spietate persecuzioni dei fuggiaschi e di campi di battaglia ricoperti di morti. Gli parlai, anche, del passato, di invasioni e di massacri, degli unni e dei tartari, delle guerre di Maometto, di quelle dei califfi e delle Crociate. «A mano a mano che proseguivo e che Phi-oo traduceva, i seleniti rumoreggiavano e mormoravano, turbati da una emozione sempre più intensa. «Spiegai come una corazzata possa lanciare alla distanza di diciotto chilometri un proiettile d'una tonnellata che riesce a perforare una placca d'acciaio di sei metri di spessore; aggiunsi in che modo manovriamo sott'acqua una torpediniera; descrissi, infine, un cannone Maxim in azione e quello che potei immaginare della battaglia di Colenso. Il Gran Lunare si mostrò tanto incredulo da interrompere la traduzione di Phi-oo per domandarmi di ripetere quanto avevo già narrato. Dubitava soprattutto della descrizione che gli avevo fatta di uomini esaltati fino a lanciar grida ed esclamazioni di gioia muovendo all'attacco. «"Ma, certamente, non ne provano piacere," tradusse Phi-oo. «Ed io gli assicurai che gli uomini della mia razza considerano sempre una battaglia come la più gloriosa prova della loro vita; al che, l'intera assemblea rimase stupefatta. «"A che cosa serve, infine, questa guerra?" domandò il Gran Lunare, insistendo sull'argomento. «"Oh! Quanto a servire..." risposi. "Essa decima e dirada la popolazione!" «"Ma a che cosa serve tutto ciò?" «Seguì una pausa; altri liquidi rinfrescanti gli furono versati sul cervello; poi riprese a parlare.» [A questo punto diviene visibile nel messaggio una quantità di ondulazioni, verificatesi come una sorprendente complicazione fin dalla descrizione di Cavor del silenzio che seguì prima che il Gran Lunare prendesse la parola. Queste ondulazioni son certo il risultato di radiazioni emananti da una sorgente lunare, e il loro persistente avvicinarsi ai segnali alternati di Cavor fa nascere stranamente l'idea di un operatore che cerchi deliberatamente di intercalarli nel suo messaggio per renderlo illeggibile. Sono dapprima così piccole e regolari che, con un po' di cura e di pazienza, sia pure perdendo qualche parola, abbiamo potuto estrarne il messaggio di Cavor. Divengono poi sempre più grandi e più larghe; d'un tratto, si fanno irregolari, d'una irregolarità che fa pensare a qualcuno intento a scarabocchiare e cancellare una riga di scritto. Per un lungo tratto, non si può decifrare nulla di una striscia siffatta, pazzamente serpentina; bruscamente cessa l'interruzione, lasciando chiare alcune parole, poi riprende e continua per tutto il resto del messaggio, cancellando completamente tutto ciò che Cavor tentava ancora di trasmettere. Se si trattò veramente di un intervento volontario, perché mai i seleniti preferirono 1asciare che Cavor inviasse i suoi messaggi senza sospettare affatto che essi venissero cancellati, mentre dipendeva soltanto da loro - e sarebbe stato anche più comodo e facile - interrompere e sopprimere la sua trasmissione in un momento qualsiasi? ecco un problema che per me rimane insolubile. Pare che le cose siano andate così; e questo è tutto ciò che posso dire. L'ultimo passo della sua descrizione del Gran Lunare riprende, nel bel mezzo d'una frase, in questi termini.] «... m'interrogò insistentemente sul mio segreto. In breve potei intendermi con lui e chiarire finalmente quello che per me era rimasto un enigma, dal giorno in cui avevo potuto accertarmi della vastità delle loro cognizioni scientifiche: intendo dire perché mai non avessero scoperto loro stessi la cavorite. Ho dunque accertato che essi la conoscevano già come sostanza teorica, pur considerandola sempre inutilizzabile in pratica, per il fatto che manca l'elio sulla luna, e che l'elio...» [Attraverso le ultime lettere della parola elio riappare d'un tratto la traccia cancellatrice, bisogna notare la parola «segreto», perché su questa, e su questa soltanto, io son condotto a basare la mia interpretazione dell'ultimo messaggio il Wendigee ed io lo consideriamo tale - ch'egli deve averci trasmesso.] 26. L'ULTIMO MESSAGGIO DI CAVOR ALLA TERRA. In questo modo insoddisfacente si conclude il penultimo messaggio di Cavor. Sembra di vederlo, là, nell'azzurra oscurità, davanti all'apparecchio, tutto intento a trasmettere i suoi segnali sino alla fine, del tutto ignaro dello schermo interpostosi fra 1ui e noi; e pure completamente ignaro dei gravissimi pericoli che sin da allora dovevano minacciarlo. La sua rovinosa mancanza di buonsenso lo aveva completamente tradito. Aveva parlato di guerra, della forza e dell'irrazionale violenza degli uomini, delle loro insaziabili aggressioni, della instancabile futilità dei loro conflitti. Dopo avere offerto all'intero mondo lunare tale temibile visione della nostra razza, è molto probabile ch'egli abbia ammesso che dipendeva solo da lui, per lo meno per molto tempo ancora, la possibilità che altri uomini arrivassero sulla luna. Mi sembra assai chiara la linea di condotta che alle intelligenze lunari, fredde e spietate, rimaneva da scegliere e attuare; e anch'egli deve averla vagamente intuita, quando non se ne sia addirittura accertato nettamente di colpo. Possiamo immaginarcelo girare qua e là, sulla luna, tormentato dal rimorso, continuamente crescente, della sua fatale indiscrezione. Ritengo che il gran lunare debba aver provato per un po' la necessità di studiare la nuova situazione e per quel periodo Cavor deve aver goduto di assoluta libertà. Pure, qualche ostacolo deve avergli impedito di servirsi del suo apparecchio elettromagnetico, dopo avere inviato l'ultimo messaggio da me trascritto. Per alcuni giorni non ricevemmo nulla. Forse doveva presentarsi a nuove udienze e cercava di modificare l'effetto delle sue prime rivelazioni? chi può sperare di indovinarlo? D'un tratto, come un grido nella notte, come un grido seguito da un silenzio di morte, giunse l'ultimo messaggio. E' questo il frammento più breve da noi posseduto, il principio interrotto di due frasi diverse. Il primo diceva: «E' stata una pazzia far conoscere al gran lunare...». seguì un intervallo di un minuto circa, dovuto probabilmente a un intervento esterno. Un allontanamento dall'apparecchio... un'orribile esitazione fra le masse confuse di apparecchiature accumulate nella caverna debolmente azzurrognola, un improvviso riavvicinamento ad esso, spinto da una risoluzione tardiva. Ed ecco giungere, come trasmesso in gran fretta: «Cavorite fabbricata come segue: prendete...» Poi seguì un'unica parola; una parola che, così come ci è pervenuta, è del tutto priva di senso: «Inut...». Ed è tutto. Può darsi che egli abbia voluto rapidamente trasmettere la parola «inutile», quando la sua fine divenne imminente. Non ci è possibile dire che cosa sia avvenuto intorno all'apparecchio. Quel che è certo è che non ricevemmo più altri messaggi dalla luna. Da parte mia, una visione lucida e netta mi è giunta in aiuto, e vedo, quasi come se avessi potuto assistere alla scena, Cavor scarmigliato, immerso nella pallida luce azzurra, che si di batte nella stretta di una folla accanita di quegli insetti seleniti, che lotta sempre più selvaggiamente e disperatamente a mano a mano che essi, sempre più numerosi, gli formicolano intorno, gridando, supplicando, imprecando, forse anche combattendo finalmente, spinto a poco a poco ancor più lontano da quelli della sua razza, ricacciato per sempre nell'ignoto, nelle tenebre, nel silenzio che non ha fine...