Herbert George Wells. I PRIMI UOMINI SULLA LUNA. Titolo

Transcript

Herbert George Wells. I PRIMI UOMINI SULLA LUNA. Titolo
Herbert George Wells.
I PRIMI UOMINI SULLA LUNA.
Titolo originale dell'opera: "THE FIRST MEN IN THE MOON".
Traduzione integrale dall'inglese di GIUSEPPE MINA.
Copyright 1976 per l'edizione italiana U. Mursia editore, Milano.
NOTA BIOGRAFICA.
HERBERT GEORGE WELLS nacque a Bromley, nel Kent, il 21 settembre
1866, e morì a Londra il 13 agosto 1946.
Nato in una famiglia povera, già all'età di quattordici anni si
impiegò come commesso in un negozio di stoffe. Vi restò poco
tempo, e lavorò poi in un laboratorio farmaceutico,
trasferendosi infine, come istitutore, in una scuola. Ottenuta
una borsa di studio frequentò i corsi della Normal School of
Science, a Londra, dove ebbe come professore di biologia il
famoso Thomas H. Huxley, i cui insegnamenti troveranno vasta eco
nella sua opera di scrittore. Dopo un periodo di insegnamento
alla Henley House School, laureatosi in zoologia, Wells ottenne
una cattedra all'University Correspondence College.
Nel frattempo, aveva iniziato la sua attività letteraria, prima
come giornalista, e intraprendendo in seguito la strada del
romanzo; a trent'anni poteva già dirsi famoso.
Autore prolifico, i cui meriti sono ormai indiscussi, ha
lasciato circa un centinaio di opere. Ricordiamo qui "La
Macchina del Tempo", "L'isola delle bestie", "L'uomo invisibile
e altri casi straordinari", "La guerra dei mondi", "Racconti
dello spazio e del tempo".
INDICE.
1. Il signor Bedford incontra il signor Cavor a Lympne.
2. La fabbricazione della cavorite.
3. La costruzione della sfera.
4. Nella sfera.
5. Il viaggio verso la luna.
6. L'arrivo sulla luna.
7. Alba sulla luna.
8. Mattino lunare.
9. L'esplorazione inizia.
10. Perduti sulla luna.
11. I pascoli dei vitelli lunari.
12. Il volto dei seleniti.
13. Il signor Cavor fa alcune supposizioni.
14. Tentativi di entrare in relazione.
15. Il ponte sopra l'abisso.
16. Punti di vista.
17. Il combattimento nella caverna dei macellai lunari.
18. Alla luce del sole.
19. Il signor Bedford solo.
20. Il signor Bedford nello spazio infinito.
21. Il signor Bedford atterra a Littlestone.
22. La stupefacente comunicazione del signor Julius Wendigee.
23. Riassunto dei primi sei messaggi trasmessi da Cavor.
24. Storia naturale dei seleniti.
25. Il Gran Lunare.
26. L'ultimo messaggio di Cavor alla terra.
1. IL SIGNOR BEDFORD INCONTRA IL SIGNOR CAVOR A LYMPNE.
Mentre sto per scrivere, all'ombra di una vite, sotto il cielo
azzurro dell'Italia del Sud, mi convinco, non disgiunto da un
sentimento di stupore, che la mia partecipazione alle
sorprendenti avventure del signor Cavor va intesa come un frutto
del caso. Quanto è successo a me sarebbe potuto succedere a
chiunque altro. Venni a trovarmi al centro di queste cose quando
mi ritenevo immune dalla più insignificante possibilità di
compiere esperienze tumultuose. Mi ero difatti recato a Lympne,
credendolo il luogo più tranquillo del mondo. «Qui, almeno»,
avevo detto fra me, «troverò la pace e la possibilità di
lavorare!»
Questo libro è la conseguenza di quella pace. A tal punto il
destino si diverte a insidiare anche i più semplici piani degli
uomini.
Ritengo utile notare qui come recentemente avessi subito un
notevole tracollo finanziario in seguito ad alcuni investimenti
sbagliati. Ora, circondato da tutti gli agi, posso permettermi
il lusso di confessare la mia passata miseria, ed ammettere
anche che, in parte, le mie sventure erano dovute probabilmente
alla mia inesperienza. Se esistono campi in cui io possiedo una
certa abilità, la condotta delle operazioni commerciali non è
certamente fra questi. Ma a quei tempi ero giovane e, tra gli
altri difetti, avevo anche l'orgoglio di credermi abile nelle
speculazioni. Giovane lo sono ancora quanto all'età, ma gli
avvenimenti mi hanno tolto una parte della mia primitiva
leggerezza; se poi essi mi abbiano fatto acquistare anche un po'
di saggezza, è cosa più problematica.
E' superfluo entrare nei particolari dei ragionamenti che
causarono il mio arrivo a Lympne, nel Kent. Oggigiorno anche gli
affari hanno un forte sapore d'avventura. Ne accettai i rischi.
Ogni speculazione comporta, invariabilmente, il dare e l'avere;
e a me, infine, purtroppo, toccò proprio il dare. Persino quando
ritenevo di aver sistemato tutte le mie pendenze, un creditore
intrattabile ritenne opportuno farmi oggetto delle sue
persecuzioni. Forse avrete provato anche voi quella bruciante
sensazione di virtù offesa, o forse l'avete soltanto avvertita.
Mi perseguitò aspramente. L'unico rimedio per uscire
dall'impiccio, se non volevo rassegnarmi a guadagnare
stentatamente un pezzo di pane accettando un meschino posto
d'impiegato, mi sembrò infine quello di scrivere un dramma. Ho
una discreta dose di immaginazione, e gusti raffinati: intendevo
perciò lottare vigorosamente contro l'avverso destino che mi
voleva schiacciare. Aggiungerò che in quei tempi, oltre ad avere
una gran fiducia nelle mie qualità di uomo d'affari, ero anche
convinto di essere in grado di scrivere un buon lavoro teatrale.
Non credo sia, del resto, un'opinione molto strana, dato che non
vi è nulla che offra così ricche possibilità, a parte i
legittimi affari, come un lavoro teatrale, e molto probabilmente
tale convinzione fu quella che mi indusse a tentare. Mi ero
infatti abituato a considerare questo dramma non ancora scritto
come una comoda riserva accantonata per i giorni del bisogno.
Questi giorni erano giunti, e io mi misi al lavoro.
Dovetti però presto accorgermi che lo scrivere un dramma era un
lavoro che richiedeva un tempo assai maggiore di quello da me
supposto. Dapprima avevo creduto che sarebbero stati sufficienti
dieci giorni; mi ero perciò recato a Lympne per procurarmi un
"pied-à-terre". Avevo avuto la fortuna di trovare un piccolo
bungalow e l'avevo preso in affitto per tre anni, arredandolo
alla meglio con pochi mobili. Mentre lavoravo al dramma, dovevo
dedicarmi anche alla cucina. I miei piatti avrebbero fatto
arricciare il naso alla signora Bond, eppure, sapete, erano
abbastanza appetitosi. Possedevo una caffettiera, un tegame per
le uova, una casseruola per cuocere le patate e una padella per
friggere salsicce e lardo: ecco in che cosa consisteva la mia
agiatezza. Il lusso non è sempre possibile e la semplicità ne è
la migliore alternativa. Per il resto, mi procurai a credito un
bariletto di birra e un fornaio fiducioso mi riforniva ogni
giorno. Non era, per la verità, una vita da sibarita; ma avevo
visto momenti peggiori. Ero un po' dispiaciuto per il fornaio,
uomo veramente degno di ogni considerazione; ma speravo bene
anche per lui.
Per chi ami la solitudine, Lympne è il posto ideale. Il paese è
situato nella parte argillosa del Kent; il mio bungalow sorgeva
proprio sull'estremo limite di un'antica scogliera marina, e di
là la vista si estendeva oltre la pianura paludosa di Romney
fino al mare. Quando piove, il luogo diventa quasi
inaccessibile; e mi venne detto che spesso il portalettere era,
a causa del fango, obbligato a percorrere la maggior parte del
suo giro su delle specie di sci. Io non lo vidi mai così
attrezzato, ma me lo posso immaginare con facilità. All'entrata
delle poche villette e case che formano il villaggio vi sono
appositi grandi fasci di sterpi per levarsi il grosso del fango
dalle scarpe, il che può dare un'idea della conformazione della
regione. Ai tempi dei romani, la località fu uno dei maggiori
porti dell'Inghilterra, Portus Lemanus, mentre oggi dista dal
mare ben sei chilometri. Tutt'intorno alla base della collina vi
sono molti avanzi romani in mattoni, e da lì parte l'antica
Watling Street, in parte ancora lastricata in pietra, che,
dritta come una freccia, punta verso il nord. Spesso mi
soffermavo sulla sommità della collina, ripensando a tutte le
cose di quel tempo, alle galere e alle legioni, ai prigionieri e
agli ufficiali, alle donne e ai mercanti, a coloro che come me
si erano soffermati a vedere e a pensare, a tutta la folla e al
tumulto che era risuonato all'interno e all'esterno del porto.
Ed ora rimanevano soltanto pochi ruderi su un pendio erboso, una
pecora o due... e io! E là, dove era stato l'antico porto, si
stendeva la palude in forma di ampia mezzaluna fino alla lontana
Dungeness, punteggiata qua e là dalle cime degli alberi e dalle
cuspidi dei campanili di qualche vetusta città medioevale,
destinata, come Lemanus, ad andare a poco a poco scomparendo.
La vista della palude costituiva, per la verità, uno dei
panorami più poetici che io avessi mai contemplati. Dungeness si
trovava a circa venticinque chilometri e sembrava una zattera
sul mare; lontano, a ovest, vi erano le colline di Hastings,
dorate dal sole al tramonto. A volte parevano vicine e nitide,
altre volte erano basse e sfumate, e spesso le condizioni del
tempo le nascondevano completamente alla vista. La zona più
vicina della palude era disseminata di fossi e di canali.
La finestra presso la quale ero solito lavorare si apriva su
quel panorama, e fu di là che scorsi per la prima volta Cavor.
Ero appunto alle prese con la sceneggiatura, concentrando tutta
la mia attenzione su quel lavoro complicatissimo, quando la sua
vista mi colpì al punto da distogliermi dalle mie meditazioni.
Il sole stava calando e il cielo risplendeva di giallo e di
verde, allorché la sua piccola figura, nera e strana, vi si
stagliò.
Era un uomo di bassa statura, corpulento, con due gambe
esilissime, che si muoveva a scatti. Aveva creduto bene di
vestire la sua figura fuori del comune con un berretto da
giocatore di cricket, un soprabito, pantaloni alla zuava e calze
al ginocchio, da ciclista. Non riuscii mai a capire la ragione
di questo suo modo di vestire perché non andò mai in bicicletta
e non giocò mai al cricket. Si trattava di un'accozzaglia di
indumenti, riuniti insieme non so come.
Gesticolava, agitando braccia e mani e dondolando il capo; e
ronzava, ossia emetteva dalle labbra un ronzio simile a quello
d'una macchina elettrica. Non potete aver mai sentito niente di
simile; per di più ogni tanto si schiariva la gola facendo un
curiosissimo rumore.
Era piovuto di recente e la sua andatura a scatti risultava
aumentata dall'estrema scivolosità del sentiero. Nel momento
preciso in cui si stagliò davanti al disco del sole, si fermò,
estrasse un orologio, ebbe un attimo di esitazione. Poi, con una
specie di movimento convulso, girò su se stesso e ritornò sui
suoi passi, dimostrando grandissima fretta, senza più
gesticolare, ma procedendo a lunghi passi veloci che misero in
evidenza le notevoli dimensioni dei suoi piedi (ricordo che il
fango che vi aderiva li faceva apparire di proporzioni
grottescamente gigantesche). Ciò accadde il primo giorno che mi
trovavo a Lympne, quando la mia attività di scrittore drammatico
era attivissima; considerai perciò l'incidente come una noiosa
distrazione, la perdita di cinque minuti di tempo. Tornai alla
mia sceneggiatura; ma, quando la sera seguente l'apparizione
ricomparve con un'esattezza sorprendente, ripetendosi
regolarmente tutte le sere in cui non pioveva, la mia
concentrazione sulla sceneggiatura iniziata cominciò a divenire
uno sforzo notevole. «Che il diavolo se lo porti!» dissi tra me.
«Si direbbe che voglia esercitarsi a fare il burattino!», e per
parecchie sere lo mandai di cuore all'inferno.
Poi la noia cedette il posto alla meraviglia e alla curiosità.
Perché mai quell'uomo si comportava così? La quattordicesima
sera non potei più resistere e, appena egli apparve, aprii la
portafinestra, traversai la veranda e mi diressi verso il luogo
dove invariabilmente egli si fermava.
Lo raggiunsi appunto mentre stava estraendo di tasca l'orologio.
Il suo viso era paffuto e rubicondo, con gli occhi di un marrone
rossastro (fino ad allora lo avevo visto soltanto controluce).
- Un momento, signore! - gli dissi, mentre si voltava.
Egli mi guardò. - Un momento, - ripeté, - d'accordo. Ma se
lei vuole parlarmi più a lungo, e se non è chiederle troppo il
suo momento è già scaduto - le domanderò di accompagnarmi. Le
dispiace?
- Neanche per sogno; anzi... - risposi, ponendomi al suo
fianco.
- Le mie abitudini sono regolari, e il mio tempo per gli scambi
di opinione è limitato.
- Immagino che questa sia l'ora della sua passeggiata igienica.
- Appunto. Vengo qui per godermi il tramonto.
- Ma se non si gode niente.
- Come?
- Non lo guarda mai.
- Non lo guardo mai?
- No, l'ho osservata per tredici sere e non una sola volta l'ho
veduta guardare il tramonto, non una.
Aggrottò le sopracciglia, come se si trovasse di fronte a un
problema.
- Ma... mi piace vedere il colore del sole... dell'aria...
seguo questo sentiero, attraverso quel cancello - volse
bruscamente la testa accennando a dietro le spalle - e giro...
- Macché, non c'è mai passato. E' tutta una frottola. Là non
c'è sentiero. Questa sera, per esempio...
- Ah, questa sera! Mi lasci pensare. Ah! Ho guardato l'orologio
e mi sono accorto d'aver superato di tre minuti la mia solita
mezz'ora: ho deciso che non avevo tempo di fare il mio solito
giro e sono passato di qui...
- Ma se ci passa sempre!
Mi guardò pensieroso. - Forse è vero, ora che ci penso. Ma lei
che cosa voleva dirmi?
- Quello che le ho già detto.
- Quello che mi ha detto?
- Già; perché si comporta così? Ogni sera lei viene qui facendo
quel rumore...
- Facendo un rumore?
- Ma sì, così - e imitai il suo ronzio.
Mi guardò; evidentemente il ronzio aveva ridestato in lui una
sensazione spiacevole. - Io faccio questo? - mi domandò.
- Tutte le sante sere.
- Non me n'ero mai accorto.
Si fermò sui due piedi, e, guardandomi seriamente, disse: - Può
essere che me ne sia fatta una specie di mania?
- Sembra di sì. Non è forse vero?
Si strinse il labbro inferiore fra l'indice e il pollice e si
mise a fissare una pozzanghera ai suoi piedi.
- La mia mente è assillata da gravi preoccupazioni, - disse, e
lei vorrebbe saperne il perché! Ebbene, signore, le assicuro che
non solo non so perché faccio quel che faccio, ma non mi sono
nemmeno mai accorto di averlo fatto. Pensandoci bene è proprio
come dice lei, io non sono mai stato oltre quel campo... Ma
forse queste cose le danno fastidio?
Non so perché, cominciavo a divenire meno severo nei suoi
confronti. - Darmi fastidio no, - dissi. - Ma... si immagini
un po' di dovere scrivere un dramma!
- Io non riuscirei.
- Be', qualche altra cosa che richieda concentrazione.
- Ah! sì, certo, - rispose, e prese un'aria meditativa. La sua
espressione mi rivelò così eloquentemente la sua pena, che io mi
raddolcii ancora di più. Dopo tutto c'è qualcosa di aggressivo
nel chiedere a uno che non si conosce perché si schiarisca la
voce sulla pubblica via.
- Vede, è un vizio, - disse debolmente.
- Oh! Ne sono persuaso.
- E' un vizio di cui mi debbo liberare.
- Non è assolutamente necessario. Io, del resto, non ho alcun
diritto... Forse, mi sono già preso troppa libertà.
- Ma no, signore, - disse, - io le sono invece infinitamente
grato. Dovrei evitare certe cose. D'ora in avanti lo farò. Posso
disturbarla... ancora una volta? Com'era quel rumore?
- Pressappoco così, - dissi, - Zuzz, zuzz. Ma per la verità,
lei sa...
- Le sono obbligatissimo...! In effetti mi rendo conto che sto
diventando incredibilmente distratto. Lei ha tutte le ragioni,
signore... tutte le ragioni. Per davvero, le devo moltissimo. Ma
questa cosa finirà. Intanto, signore, l'ho trascinata più
lontano di quanto non dovessi.
- Spero che la libertà che mi sono preso...
- Ma no, ma no, signore, nemmeno per sogno!
Ci guardammo per un istante. Io mi tolsi il cappello e gli
augurai la buona sera; egli mi rispose nel solito modo a scatti;
dopo di che ciascuno proseguì per la propria strada.
Alla scaletta mi volsi a guardare la sua figura che si
allontanava. La sua andatura era cambiata notevolmente: pareva
che zoppicasse, che si fosse rattrappito. Il contrasto con il
suo gesticolare di prima, con il suo brontolio, mi toccò in un
modo assurdo, quasi patetico. Lo seguii con l'occhio sino a che
fu scomparso; poi, desiderando dal profondo del cuore di aver
pensato ai fatti miei, ritornai al mio bungalow e al mio dramma.
Né la sera seguente, né l'altra ancora, egli si fece vedere; ma
mi era rimasto fortemente impresso nella mente e mi capitò di
pensare che un tipo comico-sentimentale come lui avrebbe potuto
servirmi a meraviglia nello sviluppo del mio dramma. Il terzo
giorno venne da me.
Per un poco rimasi a cercare di indovinare che cosa lo avesse
condotto da me. Egli iniziò una conversazione qualunque nella
maniera più formale, poi improvvisamente venne all'argomento che
gli stava a cuore: voleva comperare il mio bungalow.
- Vede, - disse, - non per biasimarla, assolutamente no, ma
lei mi ha distrutto un'abitudine, e ciò mi sconvolge la
giornata. Sono venuto a passeggiare qui per anni... anni.
Certamente, devo aver sempre brontolato... Lei mi ha reso tutto
ciò impossibile!
Non mancai di suggerirgli che avrebbe potuto scegliere un'altra
strada.
- No, no, per me non ve ne sono altre; questa è la sola, me ne
sono informato. E adesso... ogni pomeriggio, alle quattro, sono
bloccato...
- Ma, caro signore, se la cosa è tanto importante per lei...
- E' questione di vita o di morte. Vede, io sono un
ricercatore... Sono impegnato in un'indagine scientifica.
Abito... - si arrestò e sembrò riflettere. - Abito proprio
là,- riprese e indicò qualche cosa con il dito pericolosamente
vicino al mio occhio, - in quella casa dai camini bianchi che
vede là, proprio dietro gli alberi. E la situazione in cui mi
trovo è fuori del comune... fuori del comune. Sto per portare a
termine un esperimento importantissimo... Le assicuro che si
tratta di uno dei più importanti esperimenti che siano mai stati
fatti. Esso richiede una concentrazione, una tranquillità
spirituale e attività continue: il pomeriggio era il mio miglior
momento... Pieno di nuove idee, di nuovi punti di vista.
- Ma perché non può continuare a venire qui?
- La cosa sarebbe completamente diversa. Sarei impacciato; la
penserei intento a lavorare al suo dramma... a guardare irritato
verso di me... invece di occuparmi del mio lavoro. No! Devo
comprare il bungalow.
Mi misi a pensare; certamente dovevo riflettere attentamente
sull'argomento prima di dire qualcosa di decisivo. In quel
periodo ero abbastanza disposto a concludere affari e il vendere
mi aveva sempre attirato; ma, in primo luogo, quel bungalow non
era mio e, anche ammesso che fossi riuscito a venderglielo a un
buon prezzo, avrei potuto incontrare dei guai nel trapasso di
proprietà nel caso che il vero padrone avesse avuto sentore
della transazione; in secondo luogo, ero... ebbene ero un
fallito non ancora posto sotto liquidazione. L'affare richiedeva
quindi chiaramente di essere trattato con molta prudenza.
D'altra parte, mi interessava pure la possibilità che egli fosse
alla ricerca di qualche invenzione che avrebbe potuto avere un
valore. Pensavo che mi sarebbe piaciuto saperne di più sul suo
esperimento, non con qualche fine disonesto, ma solo con l'idea
che il sapere di che cosa si trattava avrebbe potuto essere un
diversivo allo scrivere drammi. Presi a sondarlo.
Egli si dimostrò dispostissimo ad informarmi; in realtà, una
volta che ebbe preso l'aire, la conversazione divenne un
monologo. Parlava come un uomo che ha una valanga di cose da
dire, dopo averle tenute chiuse dentro di sé troppo a lungo.
Parlò per quasi un'ora, e devo confessare che trovai il suo
discorso ben difficile da seguire. Ma in tutto ciò vi era quel
sottofondo di soddisfazione che si prova quando si sta
trascurando il lavoro cui ci si è dedicati. Durante quella prima
intervista compresi ben poco del significato del suo lavoro. La
maggior parte dei vocaboli da lui usati erano di genere tecnico,
interamente nuovi per me: illustrò poi due o tre punti con
quella che si compiaceva di chiamare matematica elementare,
facendo dei conti sopra una busta con una matita copiativa, in
un modo che rendeva difficile addirittura il far finta di
capire. - Già, - dicevo, - già. Prosegua! - Nondimeno potei
comprendere abbastanza per acquistare la convinzione che egli
non era un qualunque maniaco per le invenzioni. A dispetto della
sua bizzarra apparenza, emanava da lui una forza che rendeva
impossibile una supposizione del genere. Qualsiasi cosa fosse,
la sua scoperta aveva delle possibilità di essere realizzata. Mi
parlò di un suo laboratorio, e dei suoi tre assistenti, ex
falegnami a cottimo, che egli aveva addestrati. Dal laboratorio
all'ufficio brevetti il passo è breve. M'invitò a fare una
visita al suo complesso, io accettai prontamente, preoccupandomi
di far notare questo fatto accennandovi più volte. La proposta
di acquisto del bungalow rimase molto opportunamente in sospeso.
Alla fine Cavor si alzò per andarsene, scusandosi per la troppo
lunga durata della sua visita. Parlare del suo lavoro, disse,
era una gioia che gli accadeva troppo raramente; non gli
capitava spesso di trovare degli ascoltatori intelligenti come
me, e cercava poco volentieri la compagnia degli scienziati di
professione.
- Troppe meschinerie! - spiegava, - troppi intrighi! E poi
quando uno ha un'idea... un'idea nuova, piena di possibili
sviluppi... Non voglio infierire, ma...
Sono un uomo che crede ai primi impulsi; gli feci, così, una
proposta, forse troppo azzardata. Bisogna però considerare che
per quattordici giorni ero rimasto solo a Lympne scrivendo il
mio dramma e che mi incombeva ancora sul capo il rimorso di
avergli rovinato la sua passeggiata consueta. - Perché,
dissi,- non si crea un'abitudine nuova, al posto di quella che
le ho rovinata? Per lo meno, fino a che possiamo accordarci a
proposito del bungalow. Quello che lei desidera è di poter
rimuginare il suo lavoro, cosa che ha sempre fatto durante la
sua passeggiata pomeridiana. Sfortunatamente ciò è fuori
discussione, e lei non può riportare le cose come erano. Ma
perché non viene qui e parla con me del suo lavoro, servendosi
di me come di una specie di muro contro cui lei potrà scagliare
i suoi pensieri e da cui li riceverà di rimbalzo? Io sono troppo
ignorante per approfittare delle sue idee, né conosco scienziati
di sorta...
Tacqui. Egli rimase assorto; evidentemente, la proposta non gli
piaceva. - Ma mi spiacerebbe annoiarla, - mi disse.
- Forse pensa che io sia troppo ottuso?
- No; ma certi particolari tecnici...
- Comunque sia, mi ha interessato grandemente, questo
pomeriggio.
- Certo, SAREBBE un grande aiuto per me. Nulla serve tanto a
rischiarare le idee quanto l'esporle. E finora...
- Non dica altro, caro amico.
- Ma veramente lei ha del tempo disponibile?
- Non vi è riposo migliore come il cambiare occupazione,
risposi io con profonda convinzione.
L'affare era concluso. Giunto sulla soglia della mia veranda, si
voltò. - Le sono veramente obbligatissimo, - disse.
Gli chiesi come mai.
- Lei mi ha completamente guarito da quel ridicolo vizio di
borbottare, - mi spiegò.
Gli risposi, a quanto ricordo, che ero lietissimo di avergli
potuto rendere un siffatto servigio, ed egli se ne andò.
Istantaneamente il corso dei pensieri che la nostra
conversazione aveva proposto dovette riprendere il sopravvento.
Le sue braccia ripresero ad agitarsi come prima, e il solito
«zuzz» mi giunse all'orecchio, portato dalla brezza...
Be', dopo tutto, non erano affari miei...
Ritornò il giorno seguente e l'altro ancora, tenendomi ogni
volta una conferenza sulla fisica, con soddisfazione di
entrambi. Parlò con una lucidità straordinaria di «etere», di
«tubi di forza», di «potenziale di gravitazione» e di altre cose
del genere, mentre io, standomene seduto sull'altra delle mie
sedie pieghevoli, lo incoraggiavo a proseguire con dei «già...
prosegua... la seguo benissimo». Il soggetto era per me
terribilmente oscuro, ma non credo che egli abbia mai sospettato
fino a che punto io non lo capissi. Vi erano dei momenti nei
quali avevo il dubbio di essere preso in giro, ma ad ogni modo
riuscivo a distanziarmi da quei maledetto dramma. Di tanto in
tanto, per un attimo, alcune cose mi apparivano chiare, ma solo
per scomparire non appena ritenevo di essermene impadronito. A
volte, la mia attenzione se ne andava del tutto, e io, senza
preoccuparmene, me ne stavo seduto a guardarlo, riflettendo se
dopo tutto non sarebbe stato meglio che mi servissi di lui per
farne il personaggio principale di una divertente commedia e
lasciassi perdere quell'altra porcheria. E allora, forse, mi
concentravo di nuovo per un poco.
Non appena mi si presentò l'occasione favorevole, mi recai a
visitare la sua casa. Questa era spaziosa, ma arredata con
trascuratezza; non aveva altri servitori all'infuori dei suoi
tre assistenti. Il suo regime dietetico e la sua vita privata si
distinguevano per una semplicità da filosofo. Egli era astemio,
vegetariano e seguiva tutte le regole relative ad un tale modo
di vivere. Ma la vista della sua attrezzatura liquidò molti miei
dubbi. Dalle cantine al solaio sembrava un'officina in funzione:
uno stupefacente complesso, a trovarlo in un villaggio fuori
mano. Le stanze del pianterreno contenevano banconi coperti di
apparecchiature, il forno e la caldaia dell'acquaio erano stati
ingranditi sino a diventare fucine di notevoli dimensioni, in
cantina erano installate delle dinamo e nel giardino c'era un
gasometro. Egli mi mostrò tutto con l'entusiasmo fiducioso di
chi è vissuto per troppo tempo da solo. Il suo isolamento
traboccava ora in un eccesso di fiducia che io ebbi la buona
ventura di raccogliere.
I tre aiutanti erano ottimi rappresentanti della classe degli
«artigiani» dalla quale provenivano. Coscienziosi, ma non troppo
intelligenti, robusti, cortesi e volonterosi. Uno, Spargus,
addetto alla cucina ed ai lavori concernenti i metalli, era
stato marinaio; il secondo, Gibbs, era stato falegname, ed il
terzo, un ex giardiniere a ore, aveva adesso le mansioni di
factotum. Essi non si occupavano che dei lavori materiali; la
parte intellettuale era per intero disimpegnata da Cavor. La
loro ignoranza era delle più grandi, anche se confrontata con le
mie approssimative nozioni.
Ed ora passiamo alla natura delle ricerche di Cavor. Qui, però,
disgraziatamente, viene il difficile. Io non sono uno
scienziato, e, se dovessi tentar di esprimere nel linguaggio
rigorosamente scientifico usato dal signor Cavor lo scopo cui
miravano i suoi tentativi, non solo porrei in grave imbarazzo il
lettore ma anche me stesso, e quasi certamente commetterei
qualche errore madornale che mi renderebbe ridicolo agli occhi
di qualsiasi aggiornato studente di fisica o di matematica. Il
meglio che mi resti da fare è perciò di rendere le mie
impressioni nel linguaggio usuale, senza cercare nemmeno di
ostentare una cultura scientifica cui non ho alcun diritto,
essendone affatto privo.
Lo scopo degli esperimenti del signor Cavor era di ottenere una
sostanza la quale fosse «opaca» - egli, a dire il vero, usava
qualche altra parola che ora non ricordo, ma il termine «opaco»
rende abbastanza bene l'idea - a «qualsiasi forma di energia
radiante». «Energia radiante», egli mi spiegava, era qualcosa
come luce o calore, o quei raggi Rontgen, dei quali tanto si è
parlato circa un anno fa o giù di lì, oppure le onde elettriche
di Marconi, o, meglio ancora, la gravitazione. Tutto ciò
diceva - irradia da centri ed agisce sui corpi a distanza; da
qui il nome di «energia radiante». Quasi ogni sostanza è opaca a
questa o a quella forma di energia radiante. Il vetro, per
esempio, lascia passare la luce ma molto meno il calore ed è
perciò che lo si usa di preferenza per i parafuoco; l'allume
lascia passare la luce, ma intercetta completamente il calore.
Una soluzione di iodio al bisolfito di carbonio è invece opaca
alla luce, ma lascia passare liberamente il calore. Essa vi
intercetterà la vista del fuoco, pur lasciando che il calore
pervenga fino a voi. I metalli sono opachi non solo alla luce ed
al calore, ma anche all'energia elettrica, la quale invece passa
attraverso la soluzione di iodio ed il vetro, quasi come se
questi non fossero interposti; e così via.
Tutte le sostanze conosciute sono «trasparenti» alla
gravitazione. Si possono usare vari mezzi per intercettare la
luce, il calore, l'influenza elettrica del sole, il calore
emanato dalla terra; si possono proteggere alcuni oggetti dai
raggi Marconi con delle placche di metallo, ma non si potrà mai
intercettare l'attrazione gravitazionale del sole o della terra.
Riesce assai difficile spiegare perché nulla esista che possa
opporsi a tali leggi. Cavor non poteva comprendere perché non
dovesse esistere alcuna sostanza dotata di tale qualità. E non
ero certamente io quello che gli avrebbe potuto risolvere il
problema! Una siffatta possibilità non m'era mai neppur passata
per la mente prima. Per mezzo di calcoli già da lui effettuati,
che, certo, lord Kelvin, o il professor Lodge, o il professor
Karl Pearson, o qualche altro grande scienziato, avrebbero
potuto comprendere, ma che non riuscivano che a confondermi
sempre di più, Cavor mi dimostrò che tale sostanza non solamente
doveva esistere ma che doveva soddisfare a determinate
condizioni. Era un ragionamento meraviglioso. Ma quanto mi
meravigliasse e, al tempo stesso, mi preoccupasse, sarebbe
impossibile a dirsi in questa sede. - Già, - rispondevo a
tutto ciò, - già, prosegua! - Per la chiarezza di questo
racconto basterà dire che egli era persuaso di poter produrre
questa sostanza opaca alla gravitazione per mezzo di una lega
complicata di metalli e di un nuovo elemento, che credo si
chiamasse «elio» e che gli mandavano da Londra in recipienti di
argilla sigillati. Su questo particolare sono stati espressi dei
dubbi, ma io sono quasi sicuro che fosse proprio elio ciò che
gli veniva inviato in quei recipienti sigillati. Si trattava
comunque certamente di una sostanza molto gassosa e rarefatta.
Se allora avessi preso qualche appunto...
Ma come avrei potuto prevedere la necessità di prendere degli
appunti?
Chiunque possegga la più piccola dose d'immaginazione
comprenderà quali straordinarie possibilità possa avere una
simile sostanza. Si capirà così l'emozione da me provata via via
che quest'idea usciva chiara dal caotico ammasso di astruse
parole mediante le quali Cavor si esprimeva. Intermezzo comico
della cosa! Mi ci volle un po' di tempo per convincermi di non
avere frainteso Cavor. Mi guardai bene, comunque, dal fare una
qualsiasi domanda che potesse dargli una pallida idea
dell'abisso d'ignoranza in cui egli giornalmente versava le sue
spiegazioni. Ma nessuno di quanti leggeranno questo libro potrà
capirmi pienamente, perché dalla mia povera narrazione sarà
impossibile comprendere quanto fossi convinto che la nuova
meravigliosa sostanza sarebbe stata senza dubbio fabbricata.
Non ricordo di aver dedicato più di un'ora di lavoro consecutivo
al mio dramma dopo la mia visita a casa sua. La mia
immaginazione era altrove. Quella maledetta sostanza sembrava
avere possibilità illimitate; di deduzione in deduzione,
giungevo a pensare miracoli e rivoluzioni! Per esempio, con un
sottilissimo foglio della nuova sostanza, si sarebbe facilmente
potuto sollevare come se si trattasse di una pagliuzza, anche un
peso enorme. Il mio primo pensiero naturale e impulsivo fu
quello di applicare il nuovo principio ai cannoni, alle
corazzate e a tutto il materiale bellico; e da lì alla
navigazione, alla locomozione, alle costruzioni, insomma ad ogni
possibile forma dell'industria umana. Il caso che mi aveva
condotto nel luogo di nascita di questo tempo nuovo - una nuova
epoca, nientemeno! - era di quelli che accadono forse ogni
millennio. La scoperta si svolgeva e si espandeva sempre più
davanti a me. Fra gli altri risultati, vi scorgevo la mia
redenzione come uomo d'affari. Sognai immediatamente una grande
società con un grandissimo numero di filiali, applicazioni a
destra e a sinistra, sindacati e trust, privilegi e concessioni
che si sarebbero propagati e sviluppati fino a che questa vasta
e prodigiosa società per lo sfruttamento della cavorite avesse
conquistato e governato il mondo intero.
E di questa società io avrei fatto parte!
Andai diritto allo scopo. Sapevo che rischiavo di compromettere
ogni cosa; volli tuttavia affrontare la situazione con arditezza.
- Noi possediamo l'invenzione più strabiliante che l'uomo abbia
mai conosciuto, - dissi, e sottolineai marcatamente il «noi».
Se lei volesse escludermi dalla combinazione, dovrebbe usare il
cannone, ormai! Da domani sarò qui ai suoi ordini come quarto
collaboratore.
Il mio entusiasmo lo sorprese un poco, ma non svegliò in lui
alcuna ostilità o sospetto. Egli, piuttosto, tendeva a
sottovalutarsi.
Mi guardò dubbioso. - Crede proprio che...? - disse. - Ma il
suo lavoro teatrale! A che punto si trova?
- E' svanito! - esclamai. - Ma, caro signore, non vede a che
cosa è giunto? Non vede che cosa sta per realizzare?
La mia era retorica, ma egli non capiva veramente. A tutta
prima, non vi volle credere: egli non ne aveva avuta la più
lontana idea. Quello stupefacente ometto aveva seguitato a
lavorare tanto tempo su un piano puramente teorico. Quando aveva
detto che si trattava del «più importante» esperimento che il
mondo avesse mai visto, aveva semplicemente inteso dire che esso
avrebbe messo a posto tante teorie e risolto molti dubbi; non si
era preoccupato delle applicazioni della sua sostanza, più che
se fosse stato una macchina che fabbrica cannoni. Una tale
sostanza era possibile ed egli l'avrebbe prodotta! "Voilà tout",
come dicono i francesi.
Al di là di quella, era come un bambino. Sperava tutt'al più,
qualora l'avesse realizzata, che essa passasse ai posteri con il
nome di cavorite o cavonna, e che nominassero lui membro della
Royal Society e che il suo ritratto andasse in giro sulla
rivista «Nature» come quello di una eminente personalità nel
mondo scientifico, e cose del genere. Queste erano le sue
aspirazioni. Ciò significa che avrebbe lanciato una simile bomba
nel mondo come se si fosse trattato della scoperta di una nuova
specie di moscerino, se non mi fosse successo di capitargli tra
i piedi. E, forse, la scoperta sarebbe rimasta abbandonata o
sarebbe fallita, come una delle tante inezie che gli scienziati
lasciano sul loro cammino.
Appena ebbi compreso di che cosa si trattava, la voglia di
parlare venne finalmente a me, e a Cavor toccò di far da
semplice ascoltatore, ripetendo la mia vecchia frase «prosegua».
Balzai in piedi, e cominciai a camminare su e giù per la camera,
con l'animazione e l'entusiasmo di un giovane di vent'anni.
Tentai di fargli capire i suoi doveri e le sue responsabilità
nella faccenda: i nostri doveri e le nostre responsabilità. Gli
assicurai che avremmo potuto arricchire al punto da realizzare
ogni genere di rivoluzione sociale che ci fosse passato per il
capo, o al punto da governare e possedere il mondo intero. Gli
parlai di compagnie, di brevetti e della necessità di mantenere
il segreto sul processo di produzione. Ma tutte queste belle
cose parvero provocare su di lui l'identica impressione che le
formule matematiche avevano prodotto su di me. Il suo viso
rubicondo manifestò una perplessità enorme. Balbettò qualcosa
circa la sua indifferenza alla ricchezza; ma subito io
l'interruppi, non lasciandogli il modo di proseguire. Era
inutile balbettare! Egli doveva diventar ricco. E gli feci
comprendere che uomo fossi e quale grande esperienza possedessi
in materia di affari. Naturalmente, non credetti opportuno
dirgli anche della mia posizione di fallito, perché questa,
secondo me, non doveva essere che passeggera; ritengo, del
resto, di essere riuscito a conciliare la mia evidente indigenza
con le mie aspirazioni finanziarie. A poco a poco, quasi
insensibilmente, come accade di solito per tali progetti quando
vanno a mano a mano sviluppandosi, l'accordo di un monopolio
sulla cavorite si stabilì tra noi. Egli avrebbe prodotto la
materia prima; io avrei lanciato l'affare.
Nella conversazione mi ostinai a non impiegar che il «noi»;
l'«io» e il «lei» non esistevano più per me!
Egli era dell'idea che i profitti della speculazione dovessero
andare a beneficio della ricerca scientifica; ma ciò,
naturalmente, si sarebbe deciso poi! - Va bene, va bene!
esclamai. L'essenziale stava nell'ottenere l'elemento in
questione.
- Noi abbiamo una sostanza in mano - continuai, - della quale
non potranno fare a meno né case, né fabbriche, né fortezze, né
navi; utilizzabile in modo ancor più universale di un medicinale
brevettato. Ma questo non è che uno dei suoi aspetti, uno dei
suoi diecimila usi possibili, e sarà esso solo più che
sufficiente ad arricchirci, Cavor; molto più ricchi del più
ardito sogno di un avaro!
- Perbacco, - disse. - Comincio a capire. E' straordinario
come uno possa formarsi dei nuovi punti di vista, mettendosi a
discutere sui problemi!
- E ciò avviene in particolare quando ci si rivolge alla
persona adatta.
- Penso che nessuno, - dichiarò, - sia assolutamente
contrario a possedere una grande fortuna. Naturalmente c'è una
difficoltà...
Tacque d'improvviso, ed io attesi in silenzio, senza muovermi.
- E' anche possibilissimo, dopo tutto (è bene che lei lo
sappia), che noi non si riesca a fabbricarla! Potrebbe essere
una di quelle cose teoricamente possibili, che però in pratica
falliscono. Potrebbe anche darsi che nella preparazione sorgesse
qualche piccolo ostacolo...
- Penseremo all'ostacolo quando si presenterà, - dissi io.
2. LA FABBRICAZIONE DELLA CAVORITE.
Ma le apprensioni di Cavor risultavano senza ragione, almeno per
quanto aveva attinenza con la fabbricazione della cavorite. Il
14 ottobre 1889, questa incredibile sostanza fu scoperta!
Piuttosto stranamente, alla fine essa venne composta per caso,
quando Cavor mostrava d'essere impreparato al fenomeno. Egli
aveva fuso insieme diversi metalli e certe altre sostanze come
desidererei ora di averne conosciuto i particolari! - ed era
sua intenzione conservare il miscuglio per una settimana, e
quindi lasciarlo raffreddare con lentezza. Salvo errore nei
calcoli, l'ultima fase della combinazione si sarebbe dovuta
ottenere allorché la miscela avesse raggiunto una temperatura di
15 gradi circa. Senonché, all'insaputa di Cavor, nacque una
discussione circa chi dovesse sorvegliare il forno: Gibbs, che
se ne era occupato fino allora, cercò di cedere l'incarico
all'ex giardiniere, adducendo il pretesto che il carbone faceva
parte del suolo, poiché da questo veniva estratto, e che,
conseguentemente, non rientrava per nulla nelle mansioni di un
falegname; l'ex giardiniere, a sua volta, osservava che il
carbone è una sostanza metallica o un minerale, senza poi
contare che egli doveva badare alla cucina. Ma Spargus
insistette perché Gibbs continuasse nel suo incarico, dal
momento che egli era falegname e che il carbone è notoriamente
legno fossilizzato. Di conseguenza, Gibbs cessò d'alimentare il
forno e nessuno più se ne prese cura; d'altra parte, Cavor era
troppo assorto in alcuni interessanti problemi che avevano per
oggetto una macchina volante mossa dalla cavorite (trascurando
l'attrito dell'aria e uno o due altri particolari) per
accorgersi che c'era qualcosa che non andava. La nascita
prematura della sua invenzione avvenne così proprio nel momento
in cui egli stava attraversando il campo per giungere al mio
bungalow per il tè e per la nostra chiacchierata pomeridiana.
Rammento quel giorno con una straordinaria lucidità. L'acqua
stava bollendo, tutto era pronto e il suo solito borbottio mi
aveva richiamato sulla veranda. La sua piccola figura sempre in
movimento si delineava, nera, nel tramonto d'autunno; verso
destra, i comignoli della sua casa si ergevano oltre le cime di
un gruppo di alberi dalle tinte magnifiche. Più lontano, si
stagliavano le colline di Wealden, indecise e azzurrognole,
mentre, sulla sinistra, si stendeva grande e tranquilla la
palude ricoperta di nebbia. Ed ecco...
D'un tratto, i comignoli esplosero spezzettandosi in strisce di
mattoni e il tetto e una gran quantità di mobili li seguirono.
Poi, ecco sollevarsi una immensa fiammata bianca, che avvolse e
celò ogni cosa allo sguardo. Gli alberi intorno alla costruzione
vennero piegati, divelti e ridotti in pezzi che finirono
anch'essi per essere lanciati tra le fiamme. Le mie orecchie
vennero colpite da un violento colpo di tuono che mi rese sordo,
da una parte, per sempre, mentre, tutt'intorno a me, le finestre
si fracassavano, senza che nessuno le avesse toccate.
Avevo appena sceso tre dei gradini della veranda, diretto verso
la casa di Cavor, quando sopraggiunse lo spostamento d'aria.
Immediatamente, le falde del mio vestito mi vennero sollevate
sopra il capo, e, indipendentemente dalla mia volontà, mi trovai
ad avanzare a salti e a balzi incontro a Cavor. In quello stesso
istante anch'egli venne investito, preso come in un vortice e
lanciato nell'aria piena di rumore. Vidi uno dei miei camini
precipitare al suolo, a meno di sei metri da me, e fui costretto
a fare una ventina di salti che mi portarono, a gran velocità.
verso l'origine di quel fenomeno. Cavor, scalciando e
dibattendosi, precipitò di nuovo, per un attimo venne fatto
girare più volte su se stesso, si rimise in piedi penosamente,
fu risollevato, trasportato avanti con enorme rapidità: disparve
infine tra gli alberi contorti e straziati, che si piegavano
intorno alla sua casa.
Una massa di fumo e di cenere e un blocco di sostanza bluastra e
luccicante vennero scagliati verso lo zenit. Un gran frammento
del recinto volò sopra di me, cadde di sbieco e si schiacciò al
suolo; e l'attimo più terribile poté dirsi superato. La
perturbazione atmosferica diminuì rapidamente fino a divenire
semplicemente una forte burrasca e ancora una volta potei
costatare che respiravo e mi trovavo ancora in piedi. Volgendo
il dorso al vento, riuscii a fermarmi ed a raccogliere le poche
idee che mi restavano.
In quei pochi secondi, l'aspetto intero della zona era cambiato.
Il tramonto tranquillo del sole era scomparso, il cielo era
offuscato da nubi minacciose: tutto era stato sconvolto, turbato
dalla tempesta. Gettai uno sguardo alle mie spalle per vedere se
il mio bungalow fosse ancora in piedi, poi avanzai, traballando,
verso gli alberi tra i quali Cavor era scomparso; attraverso i
loro rami, ora spogli, splendevano le fiamme della casa
incendiata.
Entrai nel bosco, scavalcando i tronchi e aggrappandomi ad essi,
ma le mie ricerche per un po' furono vane. Finalmente, in mezzo
a un viluppo di rami e di frammenti del recinto, che era stato
scaraventato vicino al muro del giardino, intravidi qualcosa che
si muoveva; corsi verso quel punto, ma, prima ancora che vi
fossi giunto, ne venne fuori una massa brunastra, che si rizzò
su due gambe infangate, protese le mani supplichevoli e
sanguinanti. Alcuni lembi del vestito svolazzavano ancora
intorno alla parte centrale di quella massa, agitati dal vento.
In un primo momento, non riuscii a riconoscere quell'essere
argilloso; poi vidi che si trattava di Cavor, tutto ricoperto
del fango nel quale era andato a rotolare. Egli si chinò per
resistere al vento, strofinandosi gli occhi e la bocca per
sbarazzarli della terra che li ricopriva.
Mi tese una mano informe e fangosa, e mosse un passo,
barcollando verso di me. Il suo viso, dal quale si andavano
staccando piccole scaglie di fango, era sconvolto per
l'emozione. Sembrava l'essere più malconcio e degno di
compassione che avessi mai visto, e la prima frase che mi
rivolse mi lasciò francamente stupefatto. - Si congratuli con
me, - balbettò, - si congratuli con me!
- Congratularmi con lei! - dissi. - Santo cielo, e perché mai?
- Ce l'ho fatta!
- Ce l'ha fatta! Ma che cosa diavolo ha provocato
quest'esplosione?
Un colpo di vento mi impedì di udire chiaramente le sue parole.
Compresi però che egli aveva detto che non si era trattato
affatto di un'esplosione. Una raffica di vento mi lanciò contro
di lui; rimanemmo, così, aggrappati l'uno all'altro.
- Tentiamo di rientrare in casa mia, - gli gridai
all'orecchio. Non mi comprese e mi gridò a sua volta qualche
cosa come queste parole: «Tre martiri... scienza» e qualcosa
come: «Non erano delle gran teste». In quel momento egli credeva
che i suoi tre aiutanti fossero morti nel turbine.
Fortunatamente si sbagliava. Non appena egli era uscito per
venire a casa mia, di comune accordo si erano recati nell'unica
osteria di Lympne per discutere la questione del forno davanti a
qualcosa di fresco da bere.
Ripetei l'invito di andare a casa mia e questa volta egli
comprese. Ci aggrappammo l'uno all'altro, tenendoci a braccetto,
e ci movemmo riuscendo alla fine a rifugiarci sotto quel po' di
tetto che mi restava. Rimanemmo per un po' ansimanti,
sprofondati nelle poltrone. Tutti i vetri erano rotti, e i
mobili più piccoli sottosopra; tuttavia non vi erano danni
irreparabili. Fortunatamente, la porta della cucina aveva
resistito e il mio vasellame ed i miei utensili erano rimasti
intatti. La macchinetta a spirito ardeva ancora e vi posi sopra
dell'acqua a bollire per il tè. Ciò fatto, potei ascoltare le
spiegazioni di Cavor.
- Tutto bene, tutto bene, - seguitava a ripetere. - Ce l'ho
fatta, e tutto va bene.
- Come, - protestai, - tutto bene! Ma se non c'è né un
mucchio di fieno, né un recinto, né un tetto di paglia che non
siano rimasti danneggiati in un raggio di trenta chilometri...
- Ma sì, davvero, va tutto bene. Naturalmente non avevo
previsto questo piccolo sconvolgimento. La mia mente era
occupata in un altro problema, ed io trascuro di solito queste
conseguenze pratiche marginali. Ma tutto va bene...
- Non vede dunque, caro signore, - gli gridai, - che ha
prodotto qualche migliaio di sterline di danni?
- Quanto a ciò, mi rimetto alla sua discrezione. Io non sono un
uomo pratico, certamente; ma non le pare che tutti riterranno
che si sia scatenato un ciclone?
- Ma l'esplosione...
- Non c'è stata esplosione. E' semplicissimo; solo, come già le
ho detto, io sono portato a trascurare queste piccolezze. E' un
po' come il mio borbottio su scala più vasta. Inavvertitamente,
ho fabbricato questa sostanza, la cavorite, sotto forma di un
foglio largo e sottile...
Si fermò. - Capisce dunque che questa nuova sostanza è opaca
alla gravitazione, che impedisce alle cose di esercitare la
forza di gravità le une verso le altre?
- Sì, sì, - risposi.
- Ebbene! Non appena essa ha raggiunto la temperatura di 15
gradi circa, e il processo della sua fabbricazione si è
completato, l'aria, che le stava sopra, così come parte del
soffitto, del pavimento e di tutto ciò che le si trovava al di
sopra, hanno cessato di essere pesanti. Suppongo che lei sappiapoiché nessuno ormai, più lo ignora - che l'aria è pesante e
che esercita una pressione su tutto ciò che si trova sulla
superficie della terra, una pressione in ogni direzione di un
chilogrammo e mezzo su ogni centimetro quadrato.
- Sì, lo so. Continui.
- Anch'io lo so, - egli precisò. - Ma intanto ciò le può
dimostrare come sia inutile il sapere una cosa, se essa non
viene applicata in pratica. Ora, lei comprende, con la nostra
cavorite è avvenuto proprio questo. L'aria, sopra di essa, cessò
di esercitare una pressione, ma tutto all'ingiro continuò a
pesare nelle medesime proporzioni di prima sull'altra aria
rimasta d'un tratto priva di peso. Ah! Comincia a comprendere...
L'aria che circondava la cavorite schiacciò con una forza
irresistibile quella, improvvisamente priva di peso, che si
trovava sopra il foglio; quest'ultima fu spinta in alto con
violenza e quella che si precipitava ad occupare il suo posto,
perduto immediatamente il suo peso, cessò d'esercitare ogni
pressione, seguì l'altra, sfondò il soffitto e fece saltare per
aria il tetto...
«Capisce, - continuò, - ciò ha formato una specie di getto
atmosferico, qualcosa come un camino nell'atmosfera. Se la
cavorite non fosse rimasta libera e quindi aspirata su per tale
camino, si immagina che cosa sarebbe avvenuto?»
Mi misi a pensare.
- Suppongo, - risposi, - che l'aria starebbe ancora
continuando a salire a tutta velocità sopra quella materia
infernale.
- Precisamente, - egli confermò. - Come un enorme getto
d'acqua...
- Che attraversa lo spazio! Dio mio! Ma ciò avrebbe aspirato e
lanciato via tutta l'atmosfera della terra! Avrebbe rubato tutta
l'aria del mondo! Sarebbe stata la morte dell'intero genere
umano! E tutto per quel pezzetto di sostanza!
- Non avrebbe esattamente attraversato lo spazio, - disse
Cavor, - ma, in pratica, non sarebbe stato meglio davvero.
Avrebbe tolto via l'aria che circonda la terra così come si
sbuccia una banana, e l'avrebbe lanciata a migliaia di
chilometri. Sarebbe ricaduta, naturalmente, ma sopra un mondo
asfissiato! Dal nostro punto di vista, sarebbe stato perciò come
se non fosse ritornata mai più.
Lo guardai stupefatto; ero ancora troppo stordito per
comprendere fino a qual punto tutte le mie speranze fossero
sconvolte. - Che cosa conta di fare adesso? - domandai.
- In primo luogo, se lei mi presta una paletta da giardiniere,
mi leverò un po' di questo fango che mi ricopre; poi, se mi
permetterà di servirmi del suo bagno, mi laverò. Dopo ciò,
potremo discorrere finché vorremo. Io penso che sarebbe bene,
disse, posando sul mio braccio una mano fangosa, - non parlare
con nessuno di questa faccenda. So bene di aver causato gravi
danni... Probabilmente diverse abitazioni saranno state
devastate qua e là nella zona. D'altra parte, non è pensabile
che io possa risarcire i danni che ho provocato, e, se si
giungesse a saperne la vera causa, ciò potrebbe provocare
soltanto animosità ed ostacoli per il mio lavoro. Tutto non si
può prevedere, capisce, ed io non posso, nemmeno per un istante,
aggiungere alle mie teorie l'imbarazzante peso di considerazioni
materiali. Più tardi, quando interverrà lei con il suo spirito
pratico, quando la cavorite sarà lanciata - "lanciata" è la
parola giusta, vero? - e si saranno così realizzate tutte le
cose che lei prevede, allora potremo sistemare ogni cosa con
questa gente. Ma non ora... non ora. Se non viene data
alcun'altra spiegazione, date le poco soddisfacenti risposte
presentate oggi dalla meteorologia, tutto questo verrà messo in
conto a qualche uragano. Si giungerà, forse, sino ad aprire una
sottoscrizione pubblica, e, dato che anche la mia casa è stata
rovesciata e bruciata, io stesso riceverò, spero, una forte
indennità che sarà utilissima per proseguire le nostre ricerche.
Se invece si viene a sapere che sono stato io ad aver causato
tutto questo disastro, non solo non vi sarà più la
sottoscrizione pubblica, ma tutti mi si scateneranno contro
furibondi. E questo sarebbe gravissimo. Praticamente, non potrei
più trovare il modo di lavorare in pace. I miei tre aiutanti
possono essere morti e possono essere vivi; questo è un
particolare secondario. Se sono morti, la perdita non è grande;
avevano più zelo che capacità, e questo prematuro avvenimento è
senza dubbio in gran parte dovuto alla loro negligenza per
quanto riguarda la fornace. Se non sono morti, dubito assai che
essi abbiano abbastanza intelligenza per spiegare la cosa.
Accetteranno l'ipotesi del ciclone. E se, fino a quando la mia
casa sarà inabitabile, lei mi permetterà di occupare una delle
stanze vuote del suo bungalow...
Tacque e mi guardò.
Un uomo dotato di tali capacità, pensavo, non poteva davvero
essere un ospite di tutto riposo.
- Forse, - dissi, alzandomi in piedi, - faremmo meglio, se ci
mettessimo subito in cerca di una paletta da giardiniere. - E
gli feci strada fino alle rovine della serra.
Mentre faceva il bagno, esaminai fra me e me la questione. Era
chiaro che la compagnia del signor Cavor faceva prevedere
inconvenienti che io non avevo immaginato. L'imperdonabile
distrazione che aveva fatto correre il rischio di sterminare il
globo terrestre avrebbe potuto ad ogni minuto causare guai anche
peggiori. D'altra parte, ero giovane: i miei affari erano un
pasticcio; mi sentivo dunque proprio disposto a tentare
turbolente avventure che, forse, avrebbero potuto andare bene.
Avevo subito pensato che avrei avuto per lo meno la metà di ciò
che l'affare avrebbe potuto rendere. Per fortuna, occupavo il
mio bungalow, come ho già spiegato, con un contratto di tre
anni, senza obbligo di riparazioni; e quel po' di mobilio che
c'era l'avevo preso a credito, e non l'avevo ancora pagato.
L'avevo però assicurato; quindi ero fuori di ogni pericolo.
Finalmente, decisi di rimanere con Cavor e di andare fino in
fondo.
Certo, l'aspetto delle cose era molto cambiato; non dubitavo più
delle enormi possibilità che offriva la sostanza, ma cominciavo
a nutrire qualche dubbio per quanto riguardava la realizzazione
del trasporto di cannoni e delle scarpe brevettate.
Ci mettemmo subito all'opera per ricostruire il suo laboratorio
e per proseguire i nostri esperimenti. Cavor prese a parlare in
modo assai più comprensibile per me di quanto non avesse fatto
prima; soprattutto quando si trattò di tornare a fabbricare la
nuova sostanza.
- Naturalmente, bisogna rifabbricarla, - disse con una certa
allegria che non mi sarei aspettata in lui. - Questo è certo,
bisogna rifabbricarla...! Abbiamo provocato un inferno, forse,
ma abbiamo superato una volta per sempre la parte teorica.
Eviteremo così, se possibile, la distruzione del nostro piccolo
pianeta. Ma pericoli bisogna pur che ve ne siano! Bisogna! Nei
lavori sperimentali ve ne sono sempre. E a questo punto, tocca a
lei entrare in azione, nella sua qualità di uomo pratico. Per
parte mia, mi sembra che si potrebbe forse ottenerla in fogli
sottilissimi nel senso della lunghezza. Tuttavia, non so ancora;
ho la vaga idea di un altro metodo che mi è difficile spiegare
per ora. Cosa abbastanza strana, mi si è affacciato alla mente
quando il vento mi stava facendo rotolare nel fango (ed ero
assai incerto sulla riuscita dell'avventura) e sono
assolutamente convinto che sia il metodo giusto, che avrei già
dovuto adottare.
Nonostante tutta la mia buona volontà, ci trovammo davanti a
molti ostacoli; ci ostinammo tuttavia a riedificare il
laboratorio. Dovevamo fare molte cose prima di poter decidere
sul metodo e sulla forma precisa della nostra seconda prova.
L'unica seccatura proprio seria fu lo sciopero dei tre aiutanti,
i quali non volevano che io prendessi il posto di ispettore. Ma,
dopo due giorni di colloqui, si venne ad un accordo.
3. LA COSTRUZIONE DELLA SFERA.
Ricordo molto chiaramente la circostanza in cui Cavor mi espose
la sua idea circa la sfera. Egli ne aveva già avuto in
precedenza qualche intenzione, ma quella volta l'idea sembrò
accendersi in lui improvvisamente. Stavamo tornando al bungalow
per il tè, quando, per la strada, egli interruppe il suo solito
brontolio. A un tratto gridò: - Ecco! E' fatta! Una specie di
tenda avvolgibile!
- Fatta che cosa? - domandai.
- Lo spazio... dovunque! La luna.
- Ma che cosa dice?
- Che cosa dico? Perbacco... deve essere una sfera! Questo
voglio dire!
Mi resi conto che non comprendevo quanto diceva, e, per un po',
lasciai che parlasse a suo modo. Non avevo la più pallida idea
di dove volesse arrivare. Dopo che avemmo preso il tè, egli mi
chiarì quanto andava dicendo.
- La cosa sta così, - egli disse. - L'ultima volta, ho fuso
questa sostanza che sottrae gli oggetti alla gravitazione in un
recipiente piatto, munito di coperchio. Appena si fu
raffreddata, avvenne tutto quel po' po' di fracasso. Nulla di
quanto le stava sopra aveva più alcun peso. L'aria schizzò in
alto, la casa la seguì e, se anche la sostanza non fosse
schizzata via, non so che cosa sarebbe successo! Ma supponiamo
che la sostanza sia fluttuante e completamente libera di
elevarsi.
- Si alzerà subito!
- Precisamente! Senza produrre un rumore più forte di un colpo
di cannone.
- Ma a che cosa potrà servire?
- A farmi alzare con lei.
Posai la mia tazza, e lo fissai.
- Immagini una sfera grande a sufficienza da poter contenere
due persone con i loro bagagli. Dovrebbe essere fatta d'acciaio
e rivestita internamente di vetro spesso; dovrebbe contenere una
sufficiente riserva d'aria solidificata, alimenti concentrati,
acqua, un apparecchio per distillazione e così via; il
rivestimento esterno di acciaio dovrebbe essere smaltato...
- Di cavorite?
- Appunto!
- Ma in che modo penetrerà poi nell'interno?
- E' un problema di una semplicità infantile.
- Ne sono convinto. Ma come?
- In modo facilissimo. Basterà per questo un'apertura
pneumatica. Naturalmente, dovrà essere un po' più perfezionata,
dovrà essere munita di una valvola per permettere, in caso di
bisogno, di gettar fuori qualcosa senza eccessiva perdita d'aria.
- Come il proiettile di Jules Verne, in "Dalla terra alla luna"?
Ma Cavor non aveva mai letto un tal genere di romanzi.
- Comincio a comprendere, - dissi lentamente. - Lei entrerà e
si chiuderà dentro, mentre la cavorite è ancora calda: appena si
sarà raffreddata, essa diventerà impenetrabile alla
gravitazione, ed ecco che lei potrà partire...
- Per la tangente.
- Partirà in linea retta... - Mi fermai bruscamente. - Ma che
cosa impedisce alla sfera di viaggiare per sempre in linea retta
attraverso lo spazio? - domandai. - Lei non può essere sicuro
di arrivare in qualche luogo; e, anche ammesso che ciò possa
accadere, come potrebbe tornare indietro?
- Ci ho già pensato, - rispose Cavor. - Ecco ciò che volevo
dire quando ho esclamato che la cosa era fatta. La sfera interna
di vetro sarà a prova d'aria e, tranne l'apertura, in un solo
pezzo; la sfera d'acciaio, invece, sarà divisa in sezioni,
ciascuna delle quali sarà avvolgibile, come una tenda
avvolgibile, appunto. Si potrebbe farle funzionare facilmente
mediante delle molle, aprirle e chiuderle per mezzo
dell'elettricità trasmessa da fili di platino fusi nel vetro.
Tutto ciò non è che una questione di particolari. Vede dunque
che, a parte lo spessore di queste tende avvolgibili, l'esterno
in cavorite della sfera consisterà tutto di finestre o di tende,
come preferisce chiamarle. Quando tutte queste finestre saranno
ermeticamente chiuse, né luce, né calore, né gravitazione, né
energia radiante di alcun genere potranno penetrare nell'interno
della sfera; essa volerà attraverso lo spazio in linea retta,
come ha detto lei. Ma apra una finestra... Immagini una delle
finestre aperta! Immediatamente, allora, qualunque corpo pesante
che si trovi nei nostri paraggi ci attirerà...
Sedetti, cercando di comprendere meglio.
- Capisce? - egli chiese.
- Oh! Sì, capisco.
- In pratica, ci sarà facile girare e arrivare nello spazio a
nostro piacimento, essere attratti da questo o da quello.
- Oh! Sì. E' abbastanza chiaro; soltanto...
- Che cosa?
- Non vedo lo scopo di tutto ciò. Non servirebbe ad altro, mi
pare, che a fare un salto fuori del mondo, per poi ripiombarvi.
- Certamente! Per esempio, si potrebbe andare sulla luna.
- E, quando si fosse andati fin là, che cosa vorrebbe trovarci?
- Vedremo! Pensi un po' a tutte le nuove cognizioni!
- Ma c'è aria sulla luna?
- E' possibile.
- E' una bell'idea, - dissi. - Sarà però un'impresa assai
difficile. La luna! Veramente, preferirei dedicarmi a qualcosa
di un po' più modesto, prima.
- E' impossibile, a causa del problema dell'aria.
- Perché non applicare quest'idea di tende a molla - tende di
cavorite in solide armature di acciaio - per sollevare pesi?
- Non funzionerebbe, - insisté. - Dopo tutto, viaggiare nello
spazio non è certamente impresa peggiore di una spedizione
polare. Eppure, molti si dedicano a tali spedizioni.
- Non degli uomini d'affari; d'altra parte, essi sono pagati
per questo e, se incontrano qualche difficoltà, altre spedizioni
sono inviate in loro soccorso... Ma questo... questo è
semplicemente uno slanciarsi fuori del mondo per nulla.
- Per fare delle scoperte!
- Lo chiami così... Forse si potrebbe farne poi un libro,
dissi.
- Sono sicuro che vi saranno minerali, - disse Cavor.
- Per esempio?
- Oh! Zolfo, oro forse, e magari dei nuovi elementi.
- E le spese di trasporto, - dissi. - Lei non è proprio un
uomo pratico, sa! La luna si trova ad oltre trecentomila
chilometri da noi.
- Mi sembra che non dovrebbe costare molto il trasportare
ovunque un qualsiasi peso, basta che lo si racchiuda in un
imballaggio di cavorite.
Non avevo pensato a ciò. - Consegnato gratis sulla testa del
destinatario, vero?
- E poi, non saremo certo limitati alla luna.
- Cioè?
- Vi è Marte... atmosfera limpida, nuovi paesaggi, una
sensazione piacevolissima di leggerezza. Sarebbe divertente
andarci.
- C'è aria su Marte?
- Certamente.
- Ne parla come se dovesse aprirvi un sanatorio. Ma, a
proposito, quanto dista Marte?
- Trecento milioni di chilometri, nella posizione attuale,
rispose Cavor in tono allegro. - Molto vicino al sole!
La mia immaginazione cercava di riprendersi ancora una volta.
Dopo tutto, - osservai, - c'è qualcosa in queste proposte.
Fare un viaggio simile...
Improvvisamente una straordinaria possibilità mi balenò innanzi.
Ed ecco che vidi, come in un sogno, l'intero sistema solare
percorso da astronavi e da sfere "de luxe" di cavorite. «Diritti
di prelazione», fu il ritornello che cominciò a fluttuarmi nella
mente... «diritti di prelazione interplanetaria.» E ripensavo
all'antico monopolio spagnolo sull'oro delle Americhe. Adesso,
non si trattava più soltanto di questo o di quel pianeta, ma di
tutti! Fissai la faccia rubiconda di Cavor; la mia fantasia
incominciò a correre sfrenatamente. Mi alzai e presi a camminare
in lungo e in largo; la mia lingua si sciolse come per incanto.
- Comincio a vederci chiaro, - esclamai; - comincio proprio a
vederci chiaro! - Il passaggio dal dubbio all'entusiasmo era
avvenuto in un attimo. - Ma è straordinario! - andavo
gridando. - E' enorme! Non avrei potuto immaginare una cosa
simile!
Appena scomparsa la freddezza della mia prima opposizione, la
sovreccitazione di Cavor, già contenuta per un poco, non ebbe
più freni. Anch'egli si alzò e si mise a misurare la stanza a
grandi passi, gesticolando e parlando ad alta voce. Sembravamo
uomini ispirati: eravamo uomini ispirati.
- Rimedieremo a tutto ciò, - egli affermò in risposta ad
alcune difficoltà secondarie che mi avevano colpito. - Vi
rimedieremo al più presto. Cominceremo i disegni per i modelli
subito, questa sera stessa.
- Li cominceremo immediatamente, - risposi; e ci precipitammo
verso il laboratorio per metterci subito all'opera.
Fui per tutta la notte come un bimbo nel Paese delle Meraviglie.
L'alba ci sorprese ancora occupati al lavoro; nonostante fosse
già giorno fatto, tenevamo ancora accesa la luce elettrica.
Ricordo esattamente l'aspetto di quei disegni. Io ombreggiavo e
davo i colori, mentre Cavor disegnava: erano fatti in fretta e
quasi scarabocchiati, ma risultarono miracolosamente precisi.
Dopo quella notte di lavoro, potemmo ordinare le intelaiature e
le tende d'acciaio che ci sarebbero occorse; la sfera di vetro
fu disegnata in meno di una settimana. Lasciammo da parte le
nostre conversazioni del pomeriggio e il sistema di vita dei
tempi precedenti; lavoravamo senza tregua; dormivamo e
mangiavamo soltanto quando la stanchezza e la fame ci impedivano
di continuare. Il nostro entusiasmo finì per comunicarsi anche
ai nostri tre aiutanti, quantunque essi non avessero la minima
idea dell'uso cui la sfera era destinata. In quei giorni Gibbs
non camminava nemmeno più, ma si recava dovunque sempre
correndo, persino quando doveva soltanto attraversare la stanza.
La sfera procedeva rapidamente. Trascorsero come in un soffio
dicembre, gennaio - dovetti impiegare una giornata intera,
armato di scopa, per aprire in mezzo alla neve un piccolo
sentiero che portasse dal bungalow al laboratorio - febbraio e
marzo. Verso la fine di marzo, i lavori stavano per essere
conclusi. In gennaio, un'enorme cassa era stata portata da un
carro tirato da più cavalli; ora la nostra sfera di spesso vetro
era pronta, già in posizione sotto la gru predisposta per
collocarla nella sua custodia d'acciaio. Tutte le sbarre e le
tende dell'ossatura d'acciaio (in realtà non si trattava di un
involucro sferico, bensì poliedrico, munito di tende avvolgibili
su ognuna delle facce) erano giunte in febbraio; la parte
inferiore era già montata. La cavorite in marzo era quasi
finita. La pasta metallica era già passata per due stadi
diversi; le sbarre e le tende d'acciaio ne erano già in parte
rivestite. Era sorprendente vedere come ci attenevamo
strettamente alle indicazioni della prima ispirazione di Cavor
nella realizzazione dell'opera. Quando il montaggio della sfera
fu finito del tutto, egli propose di demolire il tetto rustico
del laboratorio provvisorio, in cui il lavoro veniva eseguito e
di costruire un forno all'ingiro. Così, l'ultima fase della
fabbricazione della cavorite, in cui la pasta viene riscaldata
fino a divenire di un colore rosso cupo in una corrente di elio,
si sarebbe compiuta quando la sostanza era già stesa sulla sfera.
Si dovette allora discutere e decidere quali provviste avremmo
dovuto recare con noi: alimenti pressati, essenze concentrate,
cilindri d'acciaio contenenti una riserva d'ossigeno, un
apparecchio per eliminare l'acido carbonico e i gas di scarico
dell'aria e rifornirla di ossigeno per mezzo del perossido di
sodio, condensatori d'acqua ed altri strumenti. Ricordo il
mucchio che quegli oggetti formavano in un angolo: casse,
rotoli, scatole, un insieme di cose veramente molto prosaiche.
Fu, quello, un periodo di fatiche enormi, durante il quale
restava ben poco tempo per riflettere. Ma un giorno, mentre già
si approssimava la fine dei nostri preparativi, mi sentii
improvvisamente in uno stato d'animo strano. Dopo avere per
tutta la mattinata murato mattoni per il forno, ero stato
costretto a sedermi, affranto dalla fatica, vicino al mio
lavoro. Tutto mi sembrava triste e incredibile.
- Ma mi dica un po', Cavor, - dissi, - in fin dei conti, a
che cosa potrà mai servire questo nostro lavoro?
Egli sorrise. - Importante, ora, è partire.
- La luna! - esclamai pensoso. - Ma che cosa mai si può
aspettare? Io credevo che la luna fosse un mondo morto.
Egli alzò le spalle.
- Stiamo per andare a vederlo.
- Lo stiamo proprio, eh? - dissi guardando fisso dinanzi a me.
- Lei è stanco, - egli osservò; - farebbe meglio a fare una
passeggiata, questo pomeriggio.
- No, - risposi con ostinazione; - voglio finire questo muro.
E così feci, procurandomi in tal modo una notte insonne.
Non ritengo di aver mai passata una notte simile. Ne avevo
trascorse di brutte prima del mio tracollo finanziario, ma la
peggiore di quelle era stata un dolce dormire paragonata a
quella serie infinita di risvegli dolorosi. Di colpo ero stato
preso dal terrore di ciò che stavamo per intraprendere.
Non ricordo di aver mai pensato, prima di quella notte, ai
rischi che stavamo per correre. Mi si affacciavano alla mente,
adesso, come quelle torme di spettri che un tempo assediarono
Praga. La stranezza di quanto stavamo per fare e la sua
assurdità mi opprimevano. Ero come uno che, svegliato da sogni
dorati, si ritrovi piombato nella più orribile realtà. Giacevo
disteso a occhi spalancati; la sfera pareva divenire a poco a
poco più confusa ed evanescente, Cavor sempre più irreale e
fantastico, e l'intera impresa più pazza ad ogni minuto.
Saltai giù dal letto e incominciai a camminare per la stanza;
poi sedetti vicino alla finestra, contemplando l'immensità dello
spazio. Gli astri brillavano nel vuoto; intorno ad essi le
tenebre inscrutabili! Tentai di ricordare qualche nozione
acquisita nelle mie irregolari letture, ma esse erano troppo
vaghe per darmi un'idea di quello che potevamo aspettarci.
Finalmente, mi ricoricai, ed ebbi alcuni momenti di sonno, o,
piuttosto, di incubo, durante il quale mi parve di cadere,
cadere, cadere per sempre negli abissi del cielo.
A colazione feci restare stupefatto Cavor, dicendogli
brevemente: - Non parto più con lei nella sfera.
Accolsi tutte le sue proteste con aspra ostinazione. - E'
troppo una pazzia, e non voglio prendervi parte, - dissi. - E'
troppo una pazzia!
Non volli accompagnarlo al laboratorio. Passeggiai per un po'
senza scopo intorno al mio bungalow; poi, preso il cappello e il
bastone, me ne uscii da solo a zonzo. Il mattino, per caso, era
splendido; c'era un tiepido venticello, il cielo era di un
azzurro profondo; il primo verde della primavera incominciava a
mostrarsi, una quantità di uccelli cantava. Feci colazione con
del manzo e della birra in una piccola trattoria vicino a Elham,
dove allarmai il proprietario, esclamando, a proposito del
tempo: - Un uomo che lasci il mondo quando si hanno delle
giornate simili non può che essere pazzo!
- E' proprio quello che ho risposto quando me ne hanno
parlato!- osservò il proprietario; venni così a sapere che per
un povero diavolo, almeno, questo mondo si era dimostrato troppo
crudele, e che quello si era tagliato la gola proprio lì.
Ripresi il mio cammino con un nuovo argomento da meditare.
Nel pomeriggio potei gustare qualche ora di riposo sull'erba, al
sole, continuando poi la mia strada rinvigorito.
Arrivai ad una locanda, presso Canterbury, che sembrava
abbastanza confortevole; la facciata era tutta rivestita di
piante rampicanti; la proprietaria era una vecchietta di
piacevole aspetto. Avevo con me giusto il denaro sufficiente per
pagarmi il pernottamento e decisi di fermarmi lì per quella
notte. La vecchia era molto loquace; tra gli altri particolari,
seppi che ella non era mai stata a Londra. - Il posto più
distante dove io sia stata è Canterbury, - disse. - Oh! Io non
sono davvero una vagabonda come tanti al giorno d'oggi!
- Che cosa ne direbbe di una gita sulla lunale ? chiesi.
- Non ho mai avuto fiducia nei palloni, - rispose, credendo
che alludessi evidentemente a una delle solite ascensioni. Non
ci salirei per nulla al mondo!
Questo suo modo di vedere la faccenda mi sembrò abbastanza
divertente. Dopo cena, seduto su una panca vicino alla porta
della locanda, m'intrattenni a chiacchierare con due operai, di
mattoni, di automobili e del campionato di cricket dell'anno
precedente. Nel cielo, un debole chiarore, vago ed azzurro come
un monte lontano, andava intensificandosi verso ovest, sulla
traccia del sole.
Il giorno seguente ritornai da Cavor. - La accompagno, dissi.
- Sono stato un po' sfasato, ma ormai è passata.
Fu quella la sola volta che provai dei seri dubbi circa la
nostra impresa. Questione di nervi, semplicemente! In seguito,
lavorai con un po' più di regola, facendo ogni giorno un'ora di
moto. E finalmente, a parte il riscaldamento nel forno, i lavori
poterono dirsi compiuti.
4. NELLA SFERA.
- Partiamo, - disse Cavor, mentre sedevo a cavalcioni sul
bordo del portello d'ingresso della sfera, guardandone l'interno
buio. Eravamo soli. Era sera, il sole era tramontato, e la
tranquillità del crepuscolo era sopra ogni cosa.
Infilai l'altra gamba nell'interno e mi lasciai scivolare giù,
lungo la superficie liscia del vetro, fin sul fondo della sfera,
poi mi voltai per prendere le scatole dei cibi e gli altri colli
che Cavor mi passava. L'interno era caldissimo, il termometro
segnava 60 gradi circa, e dato che dovevamo perdere poco o nulla
del calore per radiazione, avevamo calzato pantofole e indossato
abiti di flanella sottile. Tuttavia, per precauzione, ci eravamo
muniti di pesanti vestiti di lana e di parecchie coperte; in
base agli ordini di Cavor, disposi i pacchi, i cilindri
d'ossigeno e gli altri bagagli in vari posti, ai miei piedi, e
ben presto tutto fu in ordine; Cavor girò qua e là per l'ultima
volta nel capannone senza tetto per verificare se per caso nulla
fosse stato dimenticato. Poi venne a raggiungermi; vidi che
teneva in mano qualcosa.
- Che cos'ha lì? - domandai.
- Lei non ha preso nulla da leggere? - chiese a sua volta.
- Oh Dio, no!
- Ho dimenticato di dirglielo. Non siamo sicuri... Il viaggio
può essere lungo... Potremmo stare delle settimane...
- Ma...
- Fluttueremo nella sfera senza assolutamente niente da fare.
- Se l'avessi saputo...
Egli mise fuori la testa dall'apertura. - Guardi! - disse.
Ecco là qualche cosa !
- Ma c'è tempo?
- Ne abbiamo ancora per un'ora.
Guardai fuori a mia volta. Si trattava di un vecchio numero del
«Tit-Bits», dimenticato forse da uno dei nostri uomini; più
lontano, in un angolo, vidi un fascicolo del «Lloyd's News».
Presi il giornale e il fascicolo e riscivolai dentro la sfera. E
lei, che cos'ha portato? - domandai.
Presi il volume dalle sue mani e lessi: "Opere complete" di
William Shakespeare.
Arrossì leggermente. - La mia educazione fu così puramente
scientifica... - disse, come per scusarsi.
- Non l'ha mai letto?
- Mai.
- Era uno scrittore un po' singolare, sa...
- E' proprio quanto mi hanno detto, - assentì Cavor.
Lo aiutai a stringere le viti del coperchio di vetro; dopo di
che, non appena egli, premendo un bottone, ebbe calata la tenda
nella parte esterna, il piccolo rettangolo di tenue luce
disparve. Rimanemmo al buio.
Per un po' di tempo nessuno osò parlare. Sebbene la nostra
prigione non fosse impenetrabile ai suoni esterni, tutto era
immerso nel più profondo silenzio. Costatai che non avremmo
potuto afferrarci a nulla per restare in piedi al momento della
scossa della partenza e mi resi conto nello stesso tempo che mi
sarei trovato a disagio senza sedie.
- Perché non abbiamo portato con noi delle sedie? - domandai.
- Vi avevo pensato, - rispose Cavor. - Non ne avremo bisogno.
- E perché?
- Vedrà! - disse in tono che non ammetteva replica.
Tacqui. Ad un tratto pensai fra me che ero stato proprio pazzo a
farmi rinchiudere in quella sfera. «E' forse troppo tardi adesso
per ritirarmi?», chiesi a me stesso. Il mondo, fuori della
sfera, mi sarebbe apparso, lo sapevo, freddo e inospitale - per
settimane ero vissuto grazie all'aiuto di Cavor - ma, dopo
tutto, sarebbe proprio stato per me freddo come lo zero infinito
e inospitale come lo spazio vuoto? Se non fosse stato il timore
di apparire pusillanime, credo fermamente che, a quei pensieri,
mi sarei fatto rendere la libertà. Rimasi invece esitante, in
attesa di non so che cosa, inquieto, irritato, e così il tempo
passò.
A un tratto, una piccola scossa, un rumore simile a quello di un
tappo di champagne che salti in aria in una stanza vicina, poi
un leggero sibilo. Per un breve istante, ebbi la sensazione di
essere schiacciato da un peso enorme, la convinzione passeggera
che i miei piedi premessero il pavimento con una forza di
parecchie tonnellate. Fu cosa di un attimo.
Bastò tuttavia per farmi agire. - Cavor! - chiamai
nell'oscurità, - ho i nervi che stanno per cedere... Non
credo...
Mi fermai. Egli non rispose.
- Al diavolo! - gridai. - Sono un imbecille! Perché dovrei
restar qui? Io non parto, Cavor! La cosa è troppo rischiosa.
Voglio andarmene fuori !
- Impossibile! - disse.
- Impossibile? Lo vedremo subito!
Per dieci secondi non rispose. - E' troppo tardi ormai per
litigare, Bedford, - disse poi. - La piccola scossa di poco fa
era la partenza. Adesso stiamo volando con la velocità di un
proiettile nella voragine dello spazio.
- Io... io... - balbettai. Dopo di che, mi sembrò che quanto
poteva ancora succedere non mi avrebbe più interessato. Per un
certo tempo rimasi stordito, senza saper che cosa dire: come se
non avessi ancora sentito parlare del progetto di abbandonare la
terra. Poi cominciai ad avvertire uno strano quanto
inesplicabile mutamento nelle mie sensazioni corporee: un senso
di leggerezza, qualcosa di irreale. A ciò si aggiungeva una
strana sensazione nella testa, simile a quella prodotta da un
colpo apoplettico, con pulsazioni violente dei vasi sanguigni
nelle orecchie. Il tempo passava, frattanto, ma nessuna di
queste perturbazioni fisiche andava diminuendo; alla fine, però,
mi ci abituai tanto da non provarne più fastidio.
Sentii uno scatto, ed una lampadina ad incandescenza venne
accesa.
Vidi che Cavor era pallidissimo in volto, così come io stesso
sentivo di essere. Ci guardammo in silenzio. L'oscurità
trasparente del vetro che era dietro di lui lo faceva sembrare
sospeso nel vuoto.
- Ci siamo, dunque, - dissi.
- Sì, - confermò, - ci siamo.
- Non si muova! - comandò subito dopo, vedendo che io stavo
per fare dei gesti. - Tenga i muscoli completamente rilassati,
come se fosse a letto. Ci troviamo in un piccolo universo tutto
nostro. Guardi quegli oggetti!
E mi indicò con il dito le scatole e le casse che avevamo
deposto sulle coperte, nella parte inferiore della sfera. Con
grande stupore costatai che esse fluttuavano a una trentina di
centimetri dal soffitto della sfera. Vidi allora, dall'ombra
proiettata, che anche Cavor non stava più appoggiato contro il
vetro. Mi passai un braccio dietro la schiena, e mi accorsi che
anche io ero sospeso nello spazio, senza toccare in alcun punto
la parete di vetro.
Non ebbi né un grido né un gesto, ma fui scosso da un brivido di
paura. Era come se fossi tenuto sollevato da qualcosa d'ignoto.
Il semplice contatto della mia mano contro la parete provocava
un mio rapido movimento. Compresi di che cosa si trattava, ma
non per questo la mia paura diminuì. Noi non eravamo più
soggetti alla legge della gravitazione esterna; solo
l'attrazione degli oggetti contenuti nella nostra sfera aveva
effetto. Di conseguenza, tutto ciò che non era fissato al vetro
cadeva, lentamente a causa dell'esiguità delle nostre masse,
verso il centro di gravità del nostro piccolo mondo, che
sembrava essere in qualche punto verso il centro della sfera, ma
piuttosto nella mia direzione che non in quella di Cavor, a
causa del mio maggior peso.
- Dobbiamo voltarci, - disse Cavor, - e fluttuare, schiena
contro schiena, con questi oggetti tra noi.
Quel fluttuare liberamente nello spazio fu per me la più strana
sensazione che mi fosse mai capitato di provare. Dapprima fui
preso da uno strano orrore, che scomparve però quasi subito,
lasciando subentrare una sensazione per nulla sgradevole ed
estremamente riposante. L'unico paragone che io possa fare con
le cose terrene conosciute è il riposare sopra un alto e morbido
letto di piume; ma che senso di totale distacco e di
indipendenza! Non mi ero aspettato una sensazione simile; mi ero
preparato a una violenta scossa alla partenza e alla vertigine
sbalorditiva della velocità. E, invece, mi sembrava... come se
non avessi addirittura più corpo. Quello non sembrava l'inizio
d'un viaggio: pareva piuttosto l'inizio d'un sogno.
5. IL VIAGGIO VERSO LA LUNA.
Subito Cavor spense la luce. Disse che non avevamo una grande
riserva di energia elettrica e che dovevamo economizzare se si
voleva leggere. Per un po' di tempo, non so se lungo o breve,
non ci fu nulla, tranne una totale oscurità.
Una domanda venne a galleggiare nel vuoto. - Come ci possiamo
orientare? - dissi. - Qual è la nostra direzione?
- Stiamo allontanandoci dalla terra per la tangente, e poiché
la luna è quasi al terzo quarto, ci stiamo avvicinando ad essa.
Aprirò una tenda...
Si udì uno scatto, e una finestra si aprì sull'involucro
esterno. Fuori, il cielo era nero come l'oscurità all'interno
della sfera, ma la finestra aperta era resa evidente da un
numero infinito di stelle.
Coloro che hanno ammirato soltanto dalla terra la volta stellata
non possono farsi un'idea del suo aspetto, quando sia stato
tolto di mezzo l'impalpabile e quasi luminoso velo della nostra
atmosfera. Gli astri che scorgiamo dalla terra non sono che
pochi e sparsi superstiti, i quali riescono ad attraversare lo
strato nebbioso dell'aria che ci circonda. Ora invece ero in
grado di comprendere che cosa significassero le schiere celesti!
Ci saremmo trovati, in breve, dinanzi a cose ben più strane; ma
quel cielo senza aria e cosparso di stelle...! Tra tutte le cose
da me viste, penso che sarà una delle ultime che dimenticherò.
La piccola finestra si richiuse con uno scatto; un'altra si aprì
bruscamente per tornare subito a richiudersi; poi una terza, ed
io dovetti serrar le palpebre un attimo per sfuggire
all'accecante splendore della luna nella sua fase calante.
Per un attimo dovetti fissare Cavor e gli oggetti che mi
circondavano, tutti illuminati da un bianco chiarore, prima di
poter assuefare gli occhi a quel pallido riflesso.
Quattro finestre furono aperte per far sì che la forza di
attrazione della luna potesse agire su quanto era contenuto
nella nostra sfera. Mi accorsi allora che non ondeggiavamo più
liberamente nello spazio e che i miei piedi si poggiavano sul
vetro in direzione della luna. Le casse di provviste e le
coperte scivolarono anch'esse lentamente lungo il vetro e si
fermarono ad un tratto, togliendoci una parte della visuale.
Naturalmente, guardando la luna, mi sembrava di guardare «in
basso». Sulla terra, «in basso» significa verso il suolo, la
direzione nella quale cadono gli oggetti, come «in alto»
significa la direzione opposta. In quel momento la forza di
gravità ci attirava verso la luna ed io ero del tutto persuaso
che il nostro pianeta fosse sopra la mia testa. Così, quando
tutte le tende di cavorite erano chiuse, «in basso» significava
verso il centro della nostra sfera e «in alto» verso la sua
parte esterna.
Era proprio una curiosa esperienza, in nulla simile alle cose
terrestri, quella di ricevere la luce dal basso. Sulla terra la
luce viene dall'alto, o ci arriva di traverso; là, invece, ci
arrivava tra i piedi, obbligandoci a guardare in su per vedere
le nostre ombre.
Sulle prime provai una specie di vertigine a star ritto soltanto
su quella parete di vetro grosso e a vedere la luna sotto di me,
attraverso centinaia di migliaia di chilometri di spazio vuoto.
Ma il mio malessere a poco a poco scomparve. E allora... che
spettacolo stupendo!
Il lettore potrà averne un'idea mettendosi a osservare la luna
in una calda notte d'estate, disteso sull'erba e guardando tra
le punte dei piedi; ma per qualche ragione, forse a causa della
mancanza d'aria che la rendeva assai più luminosa, la luna
sembrava molto più grande che vista dalla terra. I più minuti
particolari della sua superficie erano straordinariamente
chiari, e, potendo noi osservare il suo disco senza
l'impedimento dell'atmosfera, ne distinguevamo nettamente i
contorni brillanti e decisi; non aveva intorno né riflessi né
alone, e le stelle che riempivano il cielo giungevano sino alla
sua circonferenza, disegnando il contorno della parte che
rimaneva in ombra. Mentre restavo così a contemplare la luna
attraverso i miei piedi, quella percezione dell'impossibile, che
fin dalla partenza mi aveva lasciato e ripreso più volte, tornò
ad assalirmi con una forza dieci volte maggiore.
- Cavor, - dissi, - tutto questo mi fa uno strano effetto. La
società che dovevamo formare e tutti i nostri progetti a
proposito dei minerali?
- Ebbene?
Da qui non li vedo più.
- No, - rispose Cavor, - ma vedrà che riuscirà a sistemare
tutto.
- Credo di poter far fronte anche alle cose peggiori. Ma
questa... Per un momento potrei quasi credere che il mondo non
sia mai esistito.
- Quella copia del «Lloyd's News» la può forse aiutare.
Guardai un momento il fascicolo; poi, avvicinatolo meglio agli
occhi, mi accorsi di poter leggere senza alcuna difficoltà. Lo
sguardo si arrestò sopra una colonna di annunci economici.
«Signore, dotato di proprie sostanze, è disposto a effettuare
prestiti in denaro». lessi. Conoscevo quella specie di
«signori». Più sotto, un tipo eccentrico offriva in vendita una
bicicletta Cutaway «assolutamente nuova e del valore di quindici
sterline» per sole cinque sterline; e una signora in difficoltà
dichiarava di essere disposta a cedere, nonostante il fatto che
per lei costituisse un grande sacrificio, un servizio di posate
da pesce, «dono di nozze». Senza dubbio, qualche anima semplice
avrebbe esaminato prudentemente quelle posate, e qualche altra
si sarebbe allontanata trionfalmente su quella bicicletta, e una
terza sarebbe ricorsa con fiducia al benefico signore. Scoppiai
in una sonora risata, lasciando cadere il giornale.
- Siamo visibili dalla terra? - chiesi.
- Perché?
- Conosco un tale che s'interessa di astronomia. E pensavo che
sarebbe divertente se egli - il mio amico - fosse per caso
occupato ora a guardare nel suo telescopio verso questo punto!
- Per poterci scorgere adesso, sarebbe necessario il più
potente telescopio terrestre, e non saremmo che un punto
impercettibile nello spazio.
Rimasi un istante in silenzio, assorto nella contemplazione
della luna.
- E' un mondo, - dissi. - E lo si sente con molto maggior
forza che non sulla terra. Ci saranno forse degli abitanti...
- Abitanti! - gridò Cavor. - Macché! Non lo pensi neppure! Si
consideri come una specie di viaggiatore dell'estremo artico,
che vada ad esplorare i posti più desolati dello spazio. Guardi!
Agitò la mano indicandomi, sotto di noi, l'abbagliante
biancheggiare del pianeta. - La luna è morta... morta! Enormi
vulcani spenti, deserti di lava, monti di neve, acido carbonico
congelato e aria solidificata; dovunque, frane, crepacci,
fessure, precipizi. Nessuna vita. Da più di duecento anni gli
astronomi hanno osservato sistematicamente la luna con i
telescopi. Ebbene, quali cambiamenti crede vi abbiano scorto?
- Nessuno.
- Hanno scoperto due indiscutibili scoscendimenti, forse un
crepaccio nuovo ed un leggero cambiamento di colore. Ecco tutto.
- Io, veramente, non sapevo nemmeno che avessero scoperto ciò.
- Sì, sì. Ma quanto ad abitanti!
- A proposito, - domandai, - qual è la cosa più piccola
visibile sulla luna con un potente telescopio?
- Vi si potrebbe scorgere una chiesa di ordinarie dimensioni,
e, certamente, vi si vedrebbero le città, gli edifici ed ogni
altra costruzione, opera di eventuali abitanti. Ci possono
essere, forse, degli insetti, qualcosa del genere delle
formiche, per esempio, che possono nascondersi in tane profonde
durante la notte lunare, o, addirittura una nuova specie di
esseri privi di ogni equivalente terrestre. Ed è l'unica
probabilità, ammesso che la vita sulla luna sia possibile. Pensi
a quanto sono differenti le condizioni! La vita deve adattarsi,
qui, a giornate che equivalgono a quattordici giorni terrestri.
Un sole fiammeggiante, senza nubi, per quattordici giorni; poi,
una notte ugualmente lunga, che si fa sempre più fredda, sotto
queste gelide, nitide stelle. Durante queste notti, il freddo è
di un rigore estremo, inaudito; il massimo freddo, lo zero
assoluto, 273 gradi sotto il punto di congelamento dell'acqua
sulla terra! Qualsiasi forma di vita che vi si trovi è obbligata
a svernare in queste condizioni e a risvegliarsi ogni mattina.
Rimase un momento pensoso. - Si possono immaginare degli esseri
vermiformi, - riprese, - che assorbano aria solida, come i
lombrichi si nutrono di terra, ovvero dei mostri dalla pelle
spessa...
- Ma, allora, - dissi io, - perché non abbiamo portato un
fucile?
Egli non rispose alla mia domandaNo, . - concluse, dobbiamo
andarci così. Vedremo il da farsi quando ci saremo.
Mi ricordai di una cosa. - Ad ogni modo, - dissi, - ci
troverò dei minerali, naturalmente, qualunque possano essere le
condizioni atmosferiche.
Poco dopo egli mi disse di voler modificare un po' la nostra
direzione, lasciandosi attrarre un istante dalla terra. Avrebbe
aperto una delle tende verso la terra per una trentina di
secondi. Mi avvertì che mi sarei sentito preso da un capogiro e
mi consigliò di stendere le mani contro la parete per evitare di
cadere. Secondo le sue indicazioni, puntai i piedi contro le
scatole delle provviste e i cilindri d'aria, per impedire che mi
venissero addosso. Ed ecco, la finestra si aprì di colpo con uno
scatto, mentre io cadevo in avanti sulle mani e sulla faccia,
scorgendo per un momento, attraverso le mie dita nere e
allargate, la nostra madre terra, pianeta basso, nel cielo.
Eravamo ancora molto vicini; Cavor mi disse che la distanza
doveva essere all'incirca di milleduecento chilometri. L'immenso
disco terrestre riempiva tutto il cielo. Ma già ci voleva poco a
vedere che il nostro mondo era di forma sferica. Sotto di noi,
la terra appariva indistinta e in' una luce crepuscolare, ma,
verso ovest, la grigia vastità dell'Atlantico brillava come
argento liquido sotto i bagliori del tramonto. Credetti di
riconoscere, attraverso le nubi, il profilo delle coste della
Francia, della Spagna e dell'Inghilterra meridionale; poi, d'un
tratto, con un nuovo scatto, la finestra si richiuse, ed io
scivolai adagio lungo la liscia parete di vetro, in uno stato di
straordinaria confusione.
Quando, alla fine, le mie idee si riordinarono, mi sembrò del
tutto fuor di dubbio che la luna fosse in basso e la terra da
qualche parte sulla linea dell'orizzonte: quella terra che,
dalla creazione in poi, si era sempre trovata in basso, almeno
per me e per la mia razza.
La nostra attività era così ridotta, e così facile diveniva
tutto ciò che si doveva fare grazie alla pratica eliminazione
del peso, che non provammo alcun bisogno né di mangiare né di
dormire durante le sei ore trascorse dalla nostra partenza
(stando al cronometro di Cavor). Rimasi assai sorpreso che il
tempo fosse trascorso così rapidamente. Esaminato l'apparecchio
che assorbiva l'acido carbonico e il vapore acqueo, Cavor
dichiarò che funzionava in modo veramente soddisfacente e che
l'ossigeno da noi consumato era pochissimo. La nostra
conversazione languiva; non avendo più nulla da fare, cedemmo ad
uno strano torpore che ci aveva ormai invasi. Stese le nostre
coperte lungo la parete della sfera in modo da intercettare
quanto più fosse possibile il gran chiarore lunare, ci augurammo
la buona notte e, quasi subito, ci addormentammo
Così, un po' dormendo, un po' parlando e un po' leggendo,
mangiando talvolta, sia pure senza appetito, ma rimanendo per lo
più immersi in una specie di tranquillità che non era né veglia
né sonno, precipitammo per un periodo di tempo senza giorni né
notti, silenziosamente, mollemente, velocemente verso la luna.
6. L'ARRIVO SULLA LUNA.
Rammento come, un giorno, Cavor aprì improvvisamente sei delle
nostre tendine ed io rimasi tanto abbagliato da dare in un
grido. L'intero spazio scoperto era dominato dalla luna,
stupenda scimitarra di bianca aurora con il contorno
frastagliato da dentellature di tenebre; spiaggia crescente per
una marea di tenebre in deflusso, da cui picchi e pinnacoli
venivano sorgendo nella fiamma del sole. Penso che il lettore
abbia visto dipinti o fotografie della luna, cosicché non
ritengo opportuno descrivere la vastità di questo paesaggio, le
gigantesche catene circolari, più solenni di qualsiasi montagna
che abbiamo sulla terra, le loro sommità splendenti durante il
giorno, le loro ombre aspre e profonde, le pianure grigie e
sconvolte, il susseguirsi di gioghi montani, colline e crateri,
tutto destinato a passare da una luce sfavillante ad un comune
mistero di oscurità. Stavamo volando obliquamente sopra questo
mondo, centocinquanta chilometri appena sopra le vette delle
montagne. Potemmo vedere, allora, cose che nessun occhio umano
vedrà mai; al di sotto del vivo splendore del giorno, gli aspri
contorni delle rocce, i crepacci delle pianure e gli orli dei
crateri apparivano grigi e indistinti, attraverso una nebbia
sempre più fitta, e il biancore delle loro luminose superfici si
spezzettava, si frammentava ancora, diminuiva, svaniva, e qua e
là comparivano e si ingrandivano strane zone color marrone e
oliva.
Ma allora avevamo poco tempo per ammirare il panorama. Per il
momento eravamo giunti alla fase più pericolosa del nostro
viaggio. Bisognava che ci avvicinassimo sempre più alla luna,
mentre le passavamo accanto, che rallentassimo la nostra corsa e
spiassimo il momento favorevole per poter lasciarci cadere alla
fine sulla sua superficie.
Per Cavor fu questo un periodo di grande attività; per me, di
ozio ansioso. Non dovevo far altro che cedergli continuamente il
posto. Egli saltava da un punto all'altro della sfera con
un'agilità che gli sarebbe stata impossibile sulla terra.
Durante queste ultime memorabili ore, non cessò un momento di
aprire e chiudere le tendine di cavorite, facendo calcoli, e di
consultare il suo cronometro alla luce della lampada a
incandescenza. Per un certo tempo, poi, tenemmo tutte le
finestre chiuse e restammo silenziosi, sospesi nelle tenebre,
roteando nello spazio.
Infine, a tastoni, cercò i bottoni di manovra, e subito quattro
finestre si aprirono. Traballai, coprendomi gli occhi
istintivamente, penetrato, bruciato, accecato dall'inatteso
splendore del sole sotto i miei piedi. Poi, di nuovo le tendine
si richiusero bruscamente, lasciando che il mio cervello
vorticasse nel buio che quasi mi schiacciava gli occhi; dopo di
che, fluttuammo ancora in un vasto e nero silenzio.
Allora Cavor riaccese la luce elettrica, dicendomi che intendeva
legare assieme tutti i nostri bagagli e avvolgerli nelle coperte
per proteggerli dall'urto inevitabile della discesa. Ci mettemmo
all'opera, mentre le finestre rimanevano chiuse, per far sì che
gli oggetti si sistemassero naturalmente al centro della sfera.
Questo fu, in verità, un bizzarro modo di lavorare; noi due che
fluttuavamo liberamente in quello spazio sferico, impacchettando
e legando. Immaginatelo, se ci riuscite! Né alto, né basso; e,
ad ogni sforzo, dei movimenti impensati. Talvolta una spinta di
Cavor mi mandava ad urtare violentemente contro la parete di
vetro; talaltra mi dibattevo disperatamente nel vuoto. Ora la
luce elettrica si trovava sopra le nostre teste, ora sotto i
piedi. Ora i piedi di Cavor ondeggiavano davanti ai miei occhi;
ora eravamo abbracciati l'uno all'altro. Ma alla fine tutti i
nostri oggetti furono riuniti in un grosso e morbido pacco,
all'infuori di due coperte con un buco per infilarci la testa,
che avremmo dovuto indossare noialtri.
Allora, per una frazione di secondo, Cavor aperse una finestra
che guardava sulla luna; costatammo che si andava a cadere nel
centro di un immenso cratere, intorno al quale si raggruppavano,
in forma di croce, dei crateri più piccoli. Allora Cavor rialzò
nuovamente le tendine della sfera dalla parte del sole. Suppongo
che egli si servisse dell'attrazione solare come freno. - Si
avvolga nella coperta, - mi gridò, indietreggiando vivamente;
e, per un momento, non compresi.
Poi presi la coperta che avevo ai piedi, e mi ci avvolsi
coprendomi bene testa e occhi. Di colpo egli richiuse di nuovo
le tendine, ne aprì un'altra ancora e la richiuse; quindi le
aprì tutte, in modo che ciascuna fosse al sicuro, riavvolta
nella sua custodia di acciaio. Seguì un rumore stridulo, e
cominciammo a rotolare, urtando contro la parete di vetro e
contro l'involto dei nostri bagagli, e aggrappandoci l'uno
all'altro: di fuori, una sostanza bianca inzaccherava da ogni
parte la sfera, come se scivolassimo sopra un pendio ricoperto
di neve...
Rotolio, avvinghiati, sbattuti, avvinghiati, sbattuti,
rotolio... Poi un tonfo sordo e mi trovai mezzo schiacciato
sotto il peso dei nostri bagagli. Per un po' di tempo, tutto
rimase tranquillo. Poi sentii Cavor che borbottava, ansimando,
e, infine, il rumore di una tendina in movimento. Feci uno
sforzo, spinsi in là l'involto e mi rialzai. Le nostre finestre
aperte sembravano dei quadrati di nero profondo, tempestati di
stelle.
Eravamo vivi, e giacevamo nella zona d'ombra prodotta dalla
cinta del grande cratere nel quale eravamo caduti.
Sedemmo, ripigliando fiato, e tastandoci i lividi sulle membra.
Penso che nessuno di noi due si aspettasse con chiara visione il
rude atterraggio che avevamo subito. A fatica e dolorante mi
alzai. - Ed ora, - dissi, - diamo un'occhiata al paesaggio
della luna! Ma qui è terribilmente buio, Cavor.
Il vetro era tutto bagnato; parlando, l'asciugavo con la mia
coperta. - Manca mezz'ora a far giorno, - disse. Aspetteremo.
Era impossibile distinguere qualche cosa; potevamo essere in una
sfera d'acciaio, per quello che si vedeva. Avevo sfregato con la
coperta il vetro che si era imbrattato e, per quanto io lo
sfregassi, esso si riappannava subito per il nuovo strato di
umidità condensata unito a una sempre maggiore quantità di peli
della coperta. Evidentemente non avrei dovuto usare quella.
Mentre mi sforzavo di pulire il vetro, scivolai sopra la
superficie umida e finii per battere il mento contro uno dei
cilindri d'ossigeno che usciva dall'involto.
Tutto ciò era esasperante e ridicolo al tempo stesso. Eravamo
arrivati sulla luna, tra non so quali meraviglie, e tutto quello
che potevamo vedere si limitava alla parete grigia e bagnata
della sfera di vetro in cui avevamo viaggiato!
- Al diavolo! - dissi. - Per trovarci ridotti in queste
condizioni avremmo fatto meglio a rimanere a casa! - Sedetti
sul pacco, rabbrividendo dal freddo, e mi avvolsi meglio nella
coperta.
A un tratto l'umidità della parete si cambiò in ricamate
incrostazioni di ghiaccio. - Riesce ad arrivare al riscaldatore
elettrico? - domandò Cavor. - Sì... quel bottone nero...
altrimenti tra breve saremo gelati.
Non me lo feci dire due volte. - Ed ora, - chiesi, - cosa
facciamo?
- Aspettiamo, - rispose.
- Aspettiamo?
- Naturalmente. Bisogna attendere finché l'aria della sfera si
sia nuovamente riscaldata e allora le nostre finestre
ridiventeranno trasparenti; non possiamo far nulla fino a quel
momento. Qui è notte ancora... Bisognerà attendere il nascere
del giorno. Ma intanto, non ha fame?
Rimasi un momento senza rispondergli, sempre seduto,
irritatissimo. Svogliatamente levai gli occhi dall'enigma
intricato del vetro e lo guardai in faccia. - Sì, - dissi, ho
fame. Sono però molto deluso. Avevo sperato non so che cosa, ma,
certamente, non questo.
Facendo appello a tutta la mia filosofia, mi aggiustai la
coperta per proteggermi dal freddo, mi sedetti di nuovo
sull'involucro e incominciai il mio primo pasto sulla luna. Non
ricordo affatto d'averlo finito. D'improvviso, in vari punti,
che rapidamente si riunirono in maggiori spazi, la parete di
vetro si rischiarò e il velo nebbioso che ci nascondeva il mondo
lunare dileguò.
Potemmo, così, contemplare, finalmente, il paesaggio lunare.
7. ALBA SULLA LUNA.
Al primo sguardo, lo scenario era dei più selvaggi e desolati.
Ci trovavamo in un enorme anfiteatro - pianura vasta e
circolare - il fondo del gigantesco cratere. Le sue pareti,
simili ad alte scogliere a picco, ci circondavano da ogni parte.
Da ovest la luce del sole che era fuori di vista vi batteva
contro, giungendo sino ai loro piedi, e rivelava una disordinata
scarpata di monotone rocce grigiastre, segnate qua e là da
bianchi crepacci pieni di neve. Questo complesso si trovava a
una ventina di chilometri di distanza, ma non vi era atmosfera
che intervenisse a ridurre anche in minima parte lo splendore
persino dei particolari nei quali esso ci appariva. Esso si
stagliava netto e abbagliante su uno sfondo di oscurità stellare
che sembrava ai nostri occhi terrestri piuttosto una stella di
velluto stupendamente trapunta di scintillanti pietre preziose
che non gli spazi celesti.
La parete rocciosa a est apparve a tutta prima come un semplice
bordo senza stelle della immensa cupola tempestata di astri.
Nessuna tinta rosea, nessun pallore nascente annunciava la
venuta del giorno. Solo la luce della corona zodiacale, enorme
cono di foschia luminescente puntato verso lo splendore della
stella del mattino, ci avvertì dell'imminente avvicinarsi del
sole.
Tutta la luce che ci circondava era riflessa dalle pareti
occidentali. Essa permetteva di vedere un'immensa pianura
ondulata, fredda e grigia, di un grigio che procedendo verso est
assumeva una tonalità sempre più scura, sino a divenire la
tenebra più assoluta dell'ombra delle pareti a est. Innumerevoli
punte grigie e arrotondate, enormi e fantastiche protuberanze,
onde fatte di una sostanza nevosa, che si stendevano di cresta
in cresta sino alla lontana oscurità, ci diedero il primo
indizio della distanza che ci separava dalla parete del cratere.
Tali protuberanze sembravano di neve: per lo meno, allora
credetti che lo fossero. Ma no... Erano, forse, cumuli e masse
d'aria congelata?
Questo, lo spettacolo che ci si presentò ad un primo momento;
poi, d'un tratto, rapido e prodigioso, sorse il giorno lunare!
La luce del sole, scesa lungo la parete rocciosa, toccò i massi
confusi della base, e subito avanzò verso di noi con
stupefacente rapidità. La lontana muraglia sembrò muoversi e
tremare, e al contatto con la luce dell'aurora, una nube di
vapore grigio si alzò dal fondo del cratere: turbini, sbuffi,
volute di grigio, sempre più densi, sempre più estesi, sempre
più fitti, fino a che l'intero pianoro occidentale prese a
fumare, come un fazzoletto bagnato steso sopra il fuoco; e
attraverso tale vapore, le pareti rocciose splendevano di luce
rifratta.
- E' aria, - disse Cavor. - Dev'essere aria... altrimenti non
evaporerebbe così rapidamente... al semplice contatto di un
raggio di sole. E se andiamo avanti così...
Levò gli occhi in alto. - Guardi! - disse.
- Che cosa? - domandai.
- Nel cielo. Già. Sul nero... un piccolo tocco di azzurro.
Guardi! Le stelle sembrano più grandi. E le piccole... e tutte
le vaghe nebulosità che scorgevamo nello spazio vuoto... sono
scomparse!
Rapidamente, regolarmente, il giorno avanzava. Le grigie sommità
erano raggiunte una dopo l'altra dal chiarore sfavillante e si
mutavano in un bianco e denso vapore. Ad ovest, non rimaneva più
che una nube di nebbia ascendente, l'avanzare tumultuoso di una
densa fittissima bruma. La parete lontana si era ancor più
arretrata fino a perdere ogni preciso contorno nel turbinio
dell'atmosfera per poi smarrirsi confusamente e dileguare del
tutto.
Il fumo si faceva vicino, più vicino, sempre più vicino,
estendendosi come l'ombra di una nube davanti al vento di
sudovest. Intorno a noi cominciava pure ad alzarsi una leggera
foschia.
Cavor mi afferrò per un braccio.
- Che cosa c'è? - domandai.
- Guardi! L'alba! Il sole!
Mi fece voltare e m'indicò la cima della parete orientale,
indecisa attraverso la foschia che ci circondava, appena più
rischiarata delle tenebre del cielo. Ma il suo contorno appariva
ora illuminato da strane forme rossastre, da lingue di fiamma
vermiglie che si torcevano e danzavano. Pensai dovessero essere
spirali di vapore che, passando attraverso la luce, formavano
sullo sfondo del cielo quella serie di lingue furiose; ma, in
realtà, erano i pennacchi solari che vedevo, cioè la corona di
fuoco che circonda il sole e che rimane sempre celata dal velo
atmosferico agli occhi degli abitanti della terra.
E poi.. il sole!
Regolare e inesorabile, apparve una linea brillante, un bordo
sottile d'insostenibile splendore che assunse forma circolare,
divenne un arco, un globo fiammeggiante e lanciò verso di noi,
come un dardo, il suo calore ardente.
Credetti di aver proprio perduta la vista! Gettai un grido e mi
volsi, accecato, cercando a tastoni la mia coperta dietro
l'involto.
E con quell'incandescenza ci giunse un suono, il primo che
udissimo dall'esterno da quando avevamo lasciato la terra, un
fischio e un rumore, lo strisciare tempestoso dell'aereo
mantello del nuovo giorno. Nel momento in cui ci pervennero il
suono e la luce, la sfera traballò, e noi, storditi e
abbagliati, fummo spinti violentemente l'uno contro l'altro. Poi
la sfera tornò a traballare ed il sibilo divenne più forte.
Avevo dovuto per forza chiudere gli occhi, e stavo compiendo
sforzi inauditi per coprirmi il capo con la coperta, quando
questa seconda scossa mi fece totalmente perdere l'equilibrio e
cadere. Urtai contro l'involto e riaprendo gli occhi ebbi per un
attimo la visione dell'aria appena al di fuori della nostra
sfera. Correva... ribolliva... come neve al contatto con un
ferro rovente. Ciò che prima era stata aria solida diveniva ad
un tratto, al tocco del sole, una poltiglia sempre più molle e
liquida che fischiava e ribolliva, trasformandosi in gas.
La sfera girò con violenza ancora maggiore su se stessa, ma noi
ci eravamo aggrappati l'uno all'altro. Un attimo dopo, però,
fummo nuovamente travolti e obbligati a separarci; fu così che
io mi trovai carponi. L'alba lunare si era impadronita di noi e
sembrava avere intenzione di mostrarci che cosa fosse capace di
fare di due miserabili abitanti della terra.
Gettai un'altra occhiata alle cose fuori: sbuffi di vapore,
fango quasi liquido, salivano, scivolavano, ricadevano. E noi
rotolammo nelle tenebre; finii disteso con le ginocchia di Cavor
che mi premevano sul petto. D'un tratto egli sembrò volarmi via
di dosso e per un attimo giacqui, mezzo soffocato, gli occhi
fissi verso l'alto. Un'immensa frana di quella poltiglia
semiliquida ci era caduta addosso seppellendoci, e ora ribolliva
e si andava riducendo intorno alla nostra sfera. Distinguevo le
bolle danzare sulla parete superiore e sentivo Cavor gemere
debolmente.
Allora, una seconda valanga di aria liquefatta ci colpì e,
mentre ci lamentavamo, cominciammo a rotolare veloci, sempre più
veloci per una discesa sempre più ripida, superando vari
crepacci e rimbalzando contro pendii, sempre più veloci, sempre
più veloci, verso ovest, nel tumultuoso e ardente ribollimento
del giorno lunare.
Aggrappati l'uno all'altro, non cessavamo di girare, lanciati
ora da una parte ora dall'altra, con i nostri bagagli che ci
urtavano e ci colpivano. Ci urtavamo, ci stringevamo per un
istante; un attimo dopo eravamo nuovamente allontanati; le
nostre teste si scontravano, l'universo intero ci danzava
innanzi agli occhi con stelle e lingue di fuoco. Sulla terra ci
saremmo massacrati per lo meno una dozzina di volte: ma sulla
luna, fortunatamente per noi, il nostro peso era solo un sesto
di quello terrestre, e le cadute e gli urti erano privi di
grandi conseguenze. Ricordo di aver provato una sensazione
d'intollerabile malessere, di aver avuto l'impressione che il
mio cervello fosse andato sossopra nel cranio, poi...
Qualcosa si dava da fare sulla mia faccia: leggere pressioni mi
tormentavano le orecchie. Allora costatai che lo sfolgorante
splendore del paesaggio circostante era mitigato da un paio di
occhiali azzurrati. Cavor si chinò su di me, e io vidi il suo
volto a rovescio, anch'egli con gli occhi protetti da lenti
colorate. Ansimava e le sue labbra sanguinavano per un taglio.
Va meglio? - disse, asciugandosi il sangue con il dorso della
mano.
Tutto, lì intorno, pareva agitarsi per trovar posto, ma era
soltanto effetto del mio capogiro. Mi accorsi che egli, per
proteggermi dal chiarore troppo diretto del sole, aveva
abbassato alcune tende della sfera esterna; ma tutti gli oggetti
circostanti continuavano ugualmente a brillare in modo
straordinario.
- Gran Dio! - sussurrai convulsamente. - Ma questo...
Allungai il collo per osservare meglio. Vidi all'esterno uno
splendore accecante, una completa trasformazione dalle tenebre
impenetrabili delle nostre prime impressioni. - E' un pezzo che
sono privo di sensi? - domandai.
- Non lo so... il cronometro si è rotto. Certo un bel po'...
Mio caro amico! Ho avuto una paura...
Rimasi disteso per un po' cercando di riprendermi; vidi che il
suo volto conservava ancora le tracce di una profonda emozione.
Per un certo tempo rimasi in silenzio. Poi mi passai una mano
sul viso ad esplorarvi le contusioni, ed esaminai quello di lui
per rintracciarvi identici lividi. Il dorso della mia mano
destra era quello più contuso e offeso; la pelle era stata
strappata via a sangue, scoprendo i tessuti. La fronte era
contusa e insanguinata anch'essa. Cavor mi offerse un
bicchierino con del cordiale che aveva portato con sé e di cui
non ricordo più il nome. Dopo un po', cominciai a sentirmi
meglio e presi a muovere le membra con molta precauzione. In
breve, fui in grado di parlare.
- Questa non ci voleva, - dissi, come se non vi fosse stato
intervallo.
- Ah! Proprio no!
Egli si mise a riflettere con le mani appoggiate sulle
ginocchia. Poi gettò uno sguardo all'esterno attraverso il vetro
e subito mi guardò sbigottito. - Buon Dio! - disse. - No!
- Che cosa è successo? - domandai, dopo una breve pausa.
Siamo finiti ai tropici?
- E' avvenuto quel che mi aspettavo. Quell'aria è evaporata...
sempre che si tratti di aria. Quel che è certo è che è
evaporata, lasciando scoperta la superficie della luna. Adesso
ci troviamo su un banco di rocce. Qua e là si vede il nudo
suolo: strana specie di suolo...
Ma, evidentemente, ritenne che non fosse necessario spiegare
ulteriormente; mi aiutò a pormi a sedere, ed io potei vedere con
i miei stessi occhi.
8. MATTINO LUNARE.
Il violento rilievo, lo spietato bianco e nero dello scenario,
tutto era svanito completamente. La luce abbagliante del sole
aveva assunto un vago color ambra; le ombre sopra la parete del
cratere erano color porpora cupo. Ad est, un oscuro banco di
nebbia ancora si rannicchiava e si proteggeva dal sorgere del
sole, ma ad ovest il cielo era azzurro e limpido. Cominciai a
capire per quanto tempo io fossi rimasto privo di sensi.
Non eravamo più nel vuoto. Un'atmosfera era sorta intorno a noi.
I profili delle cose avevano guadagnato in caratteristica,
avevano acquistato in nitidezza e varietà. Tranne che per alcuni
spazi in ombra qua e là, ancora biancheggianti di quella
sostanza che non era aria, ma neve, l'aspetto artico del
paesaggio era assolutamente scomparso. Ovunque, grandi spiazzi
rossastri di terreno nudo e ineguale si stendevano sotto lo
splendore del sole. In certi punti, vicino ad ammassi di neve,
scintillavano alcune pozze d'acqua e piccoli ruscelli, uniche
cose mobili nella immensità della sterile distesa. Il sole
batteva sulle due tende superiori della nostra sfera, facendo
alzare la temperatura interna a livello estivo; tuttavia, la
parte inferiore era ancora in ombra, e la sfera giaceva su un
cumulo di neve.
E sparse qua e là sul pendio e rese più visibili da un leggero
velo di neve non ancora disciolta sopra i loro lati in ombra,
giacevano alcune forme simili a pezzetti di legno morto,
dall'aspetto rigido e secco, della medesima tinta ferrigna della
roccia su cui stavano. Ciò attrasse vivamente la nostra
attenzione. Pezzi di legno! Su un mondo senza vita! Dopo un
poco, avendo esaminato meglio la struttura della materia che li
componeva, mi accorsi che quasi tutta la loro superficie era di
un tessuto fibroso che ricordava il tappeto di piccoli aghi
brunastri che si trova alla base delle conifere.
- Cavor! - dissi.
- Sì?
- Può essere che questo sia adesso un mondo morto... ma in
altri tempi...
Qualcosa attirò la mia attenzione. In mezzo a tutti quegli aghi,
avevo scoperto un certo numero di minuscoli oggetti rotondi, e
mi era parso che uno di essi si fosse mosso.
- Cavor! - mormorai.
- Ebbene?
Non potei risponder subito: osservavo incredulo. Per un momento
non credetti ai miei occhi. Poi, con una rauca esclamazione,
afferrai Cavor per un braccio e gli indicai l'oggetto della mia
sorpresa. - Guardi! - gridai, ritrovando la voce. - Là! Sì!
E' là!
I suoi occhi seguivano la direzione segnata dal mio dito. -Oh!fece.
Come descrivere ciò che vidi? Sembra cosa di poca importanza a
narrare.... eppure a me parve straordinariamente meravigliosa ed
emozionante. Ho già detto che in mezzo a quegli aghi c'erano dei
piccoli corpi arrotondati, dei piccoli corpi ovali che si
sarebbero potuti scambiare per ciottoli. Ed ecco che, prima uno
poi un altro, si erano mossi, ed erano scoppiati; e il taglio
prodottosi aveva lasciato scorgere una linea sottile di un verde
giallastro che era scattata fuori, a incontrare il caldo
incoraggiamento del sole mattutino. Un solo istante, e fu tutto.
Poi un terzo si mosse e scoppiò anch'esso!
- E' un seme, - chiarì Cavor. E l'intesi mormorare
sommessamente: - La vita!
La vita! E immediatamente ciò ci fece sentire che il nostro
lungo viaggio non era stato vano, che noi non eravamo giunti in
un arido deserto di minerali, ma in un mondo che viveva e si
muoveva! Rimanemmo in osservazione. Ricordo che non cessavo un
istante di asciugare con la manica il vetro davanti a me,
timoroso del minimo accenno di nebbia.
Il quadro era nitido e chiaro soltanto al centro del campo
visivo. Tutt'intorno, le fibre morte e i semi erano ingranditi e
deformati dalla curvatura del vetro. Potevamo tuttavia vedere a
sufficienza! Uno dopo l'altro, sotto la luce del sole, quei
piccoli corpi bruni miracolosi scoppiavano e si aprivano come
baccelli di semi, come gusci di frutti, schiudendo bocche avide,
pronte ad assorbire il calore e la luce che il sole mattutino
lasciava ampiamente cadere su di loro.
Ad ogni istante, un numero sempre maggiore di tali semi si
apriva, mentre gli altri in fase più avanzata traboccavano dal
guscio infranto, passando al secondo stadio del loro sviluppo.
Con salda sicurezza e rapida determinazione, i meravigliosi semi
lanciavano una piccola radice verso il terreno ed una strana
gemma nell'aria. In breve tempo, l'intero pendio apparve
disseminato di minuscole piante, erette nell'ardore del sole.
Non vi restarono molto; le gemme in forma oblunga si gonfiarono,
si stesero e si aprirono con un leggero scatto, lanciando fuori
una corona di sottilissime punte acute, spiegando un verticillo
di minute foglie aghiformi e brune, che si allungavano con
grande rapidità, quasi a vista d'occhio. Il movimento era più
lento di quello di un animale, più rapido invece di quello di
qualsiasi pianta da me vista in precedenza. Come dare un'idea
del modo in cui avveniva un simile sviluppo? Le estremità delle
foglie si ingrandivano in tale maniera che con i nostri occhi
potevamo vederle protendersi verso l'alto. Il guscio bruno si
raggrinziva ed era assorbito con uguale rapidità. Avete mai
provato in una giornata fredda a tenere un termometro nella mano
tiepida, osservando la colonnina del mercurio salire rapidamente
nel tubo di vetro? Ebbene, a quel modo crescevano le piante
lunari.
Nel giro di alcuni minuti, a quanto appariva, le gemme sorte per
prime si erano allungate a formare uno stelo ed avevano spiegato
un nuovo verticillo di foglie, così che tutto il declivio poco
prima semplice distesa di strame morto - appariva ora ricoperto
di questa erba germogliata improvvisamente, di colore verde
oliva e con le punte erette, scosse e animate dal vigore stesso
del loro sviluppo.
Mi volsi - ed ecco - lungo la cresta di una roccia, verso est,
una frangia analoga, in uno stadio un po' meno avanzato,
traballare e curvarsi oscura contro lo splendore accecante del
sole. E, oltre la frangia, si vedeva il contorno di una pianta
molto più solida, che si ramificava goffamente come un cactus e
si gonfiava a vista d'occhio, come una vescica nella quale si
immetta aria.
Poi notai anche ad ovest una nuova forma, essa pure di grandi
proporzioni, che si ergeva in mezzo all'altra vegetazione. Ma
qui la luce cadeva sulle parti lucide; cosicché potei
distinguere come fosse colorata d'una viva luce arancione.
Anch'essa cresceva a vista d'occhio: se abbandonata con lo
sguardo anche per un solo istante, i suoi contorni apparivano,
subito dopo, notevolmente cambiati; emetteva una quantità enorme
di rami tozzi e in breve assunse l'aspetto di un albero di
corallo alto alcuni metri. Confrontati con quella vegetazione, i
funghi vescia di lupo terrestri, che raggiungono a volte in una
sola notte trenta centimetri di diametro, sarebbero di una
lentezza esasperante. Bisogna però aggiungere che le vesce di
lupo crescono opponendosi a una forza di gravità sei volte
maggiore di quella lunare. Più lontano, da burroni e pianure che
rimanevano nascosti a noi, ma non al sole vivificatore, sopra
cumuli e scoscendimenti di rocce scintillanti, un alto e denso
sviluppo di vegetazione a punte acute e carnose cresceva fino a
mostrarsi a noi, come se si affrettasse tumultuosamente per
approfittare delle brevi giornate in cui doveva fiorire,
fruttificare, riseminarsi e morire. Tutto ciò si compiva quasi
per miracolo: possiamo figurarci, secondo la leggenda biblica,
che in questo modo alberi e piante spuntassero dal suolo e
ingrandissero, al momento della creazione, per ricoprire la
desolazione della terra appena nata.
Immaginate tutto ciò! Immaginate quest'alba! La resurrezione
dell'aria congelata, l'agitazione e l'animazione del suolo, poi
questo silenzioso germogliare di vegetazione, questo
soprannaturale sviluppo di piante carnose e sottili!
Immaginatevelo rischiarato da una tale abbagliante luce da fare
apparire, al confronto, debole e fosco il più intenso chiarore
terrestre. E sempre, in mezzo a questa giungla vivente, ovunque
rimanesse un po' d'ombra, grandi zone di neve bluastra. Per
completare poi l'impressione che noi ne riportammo, bisogna
ricordare che tutto questo si offriva al nostro sguardo
attraverso un grosso vetro curvato, che deformava il paesaggio
come una lente deforma gli oggetti, dando cioè immagini che,
vive e nitide nel centro del quadro, risultavano ai lati
ingrandite e irreali.
9. L'ESPLORAZIONE INIZIA.
Cessammo di guardare fissamente. Ci volgemmo l'uno verso
l'altro, con il medesimo interrogativo nello sguardo. Per
permettere a quelle piante di crescere era necessario che ci
fosse dell'aria, sia pur rarefatta, dell'aria che anche noi
avremmo potuto respirare.
- Il portello d'uscita? - chiesi.
- Sì! - rispose Cavor; - se c'è aria lo verremo a sapere!
- Fra poco, - dissi, - queste piante raggiungeranno la nostra
altezza. Supponga che... alla fin fine è una supposizione... E'
certo? Come può sapere che questa sostanza è aria? Potrebbe
essere azoto... potrebbe anche essere acido carbonico!
- Possiamo saperlo facilmente, - egli disse, e incominciò
subito a verificare. Estrasse un grosso pezzo di carta
accartocciata dall'involto dei bagagli, lo accese, e lo gettò in
fretta attraverso la valvola del portello di uscita. Mi chinai,
cercando di seguire attraverso lo spesso vetro quella piccola
fiamma, la cui testimonianza aveva per noi un così grande valore.
Vidi la carta cadere e arrestarsi con leggerezza sulla neve. La
fiamma rosea scomparve. Per un attimo sembrò spenta; poi vidi
sull'orlo della carta una piccola lingua bluastra che tremò, si
estese e divampò.
A poco a poco, tutto il foglio, tranne la parte a diretto
contatto con la neve, si carbonizzò e si contrasse, lasciando
sfuggire un tenue filo tremolante di fumo. Non v'erano più
dubbi: l'atmosfera della luna era composta di ossigeno puro, o
di aria; capace quindi, qualora non fosse eccessivamente
rarefatta, di assicurare la nostra sopravvivenza all'esterno.
Potevamo uscire... e vivere!
Mi sedetti tenendo il portello d'uscita tra le gambe e mi
preparavo a svitarlo, allorché Cavor mi fermò. - Prima bisogna
prendere una piccola precauzione, - avvertì. Mi spiegò che,
sebbene all'esterno esistesse certamente un'atmosfera contenente
ossigeno, poteva pur darsi che essa fosse tanto rarefatta da
causarci gravi inconvenienti. E mi ricordò il mal di montagna,
nonché le emorragie che affliggono spesso gli aeronauti che
hanno compiuto troppo rapidamente le loro ascensioni. Lasciò
così passare un po' di tempo, preparando una bevanda di sapore
nauseante che volle farmi prendere a forza. Questo liquido si
limitò a stordirmi, senza produrre su di me altro effetto
sgradevole. Mi permise di accingermi all'opera di svitamento.
In breve, il coperchio di vetro del portello fu svitato
abbastanza perché l'aria più densa che riempiva la sfera potesse
sfuggire dalla filettatura della vite, producendo un sibilo
simile a quello di una pentola in ebollizione. Ma egli subito si
fermò. Era evidente che la pressione esterna era molto minore di
quella interna; ma di quanto, non sapevamo dire.
Restai seduto, trattenendo il coperchio con entrambe le mani,
pronto a richiuderlo, se, nonostante il nostro vivo desiderio,
l'atmosfera lunare fosse stata troppo rarefatta per noi, mentre
Cavor teneva a portata di mano un cilindro d'ossigeno compresso
per ristabilire la pressione. Ci guardammo l'un l'altro in
silenzio; quindi il nostro sguardo corse ancora alla fantastica
vegetazione che di fuori si agitava e ingrandiva a vista
d'occhio, senza rumore alcuno. Il sibilo acuto dell'aria
sfuggente continuava ininterrotto.
Il sangue cominciò a pulsarmi con violenza alle tempie e il
rumore prodotto dai movimenti di Cavor diminuì. Osservai come
tutto divenisse tranquillo a misura che l'aria si faceva meno
densa.
Mentre la nostra atmosfera sfuggiva sibilando dalla vite, la sua
parte acquosa si condensava in piccoli sbuffi di vapore.
La mia respirazione divenne d'un tratto singolarmente rapida;
cosa questa, che, a dire il vero, durò tutto il tempo in cui
rimasi esposto all'atmosfera esterna lunare; una sensazione
piuttosto sgradevole nelle orecchie, alle estremità delle dita e
in gola mi allarmò un istante, ma poco dopo scomparve.
Ciò che valse tuttavia a mutar bruscamente la natura del mio
coraggio fu l'esser colto da vertigini e da nausea. Diedi un
mezzo giro al coperchio del portello e chiesi a Cavor qualche
frettolosa spiegazione; ma era lui ora il più irrequieto; mi
rispose con una voce che sembrava straordinariamente debole e
lontana, a causa della rarefazione dell'aria che trasmetteva il
suono. Mi consigliò di bere un sorso di brandy dandomene egli
stesso l'esempio; e mi sentii subito meglio. Ripresi allora a
svitare il coperchio. Il pulsare del sangue alle tempie aumentò;
osservai che il sibilo era cessato. Ma, in un primo momento, non
fui proprio sicuro di non sentirlo più.
- Ebbene? - chiese Cavor con un filo di voce.
- Ebbene? - risposi.
- Continuiamo?
Riflettei un momento. - E' tutto qui?
- Se può sopportarlo...
Per tutta risposta, continuai a svitare, tolsi il coperchio
circolare e l'appoggiai con precauzione sui bagagli. Due o tre
fiocchi di neve volteggiarono e si sciolsero, non appena la
nuova aria sottile, e a noi poco familiare, ebbe preso possesso
della nostra sfera. M'inginocchiai, poi mi misi a sedere
sull'orlo del portello, guardando fuori. Alla distanza di un
metro, sotto di me, si stendeva la neve lunare, mai, prima
d'allora, calpestata da piedi umani.
Seguì una breve pausa, durante la quale i nostri occhi
s'incontrarono.
- Non le irrita troppo i polmoni? - domandò Cavor.
- No, posso sopportarlo, - risposi.
Egli stese la mano per prendere la sua coperta e, passata la
testa nel foro centrale, vi si avvolse. Sedette poi sul bordo
del portello e sporse fuori le gambe, fino a che si trovarono a
una quindicina di centimetri dal suolo lunare. Dopo un momento
di esitazione, si slanciò fuori, restando in piedi sul mai prima
calpestato suolo della luna.
Fatti alcuni passi innanzi, mi apparve grottescamente riflesso
dall'orlo del vetro. Si fermò un istante, guardandosi attorno
d'ambo le parti; poi, preso lo slancio, spiccò un salto.
Il vetro deformava tutto; mi sembrò così che egli facesse un
salto straordinario. Con un solo balzo egli aveva superato un
tratto di una decina di metri. Lo vidi ritto sopra una massa
rocciosa, gesticolando verso di me. Forse gridava anche, ma il
suono della sua voce non mi arrivò. Ma come diavolo era riuscito
a far ciò? Mi sentivo come chi ha appena assistito a un
incomprensibile gioco di prestigio.
In uno stato d'animo dei più turbati, mi lasciai anch'io
scivolar giù dal portello e mi trovai in piedi vicino a un
piccolo ruscello formato dalle nevi disciolte. Feci un passo e
saltai.
Mi sentii lanciato a volo nell'aria, mentre la roccia sulla
quale rimaneva Cavor veniva verso di me. Stupefatto oltre ogni
dire, cercai di aggrapparmi ad una sua sporgenza.
Sorrisi pietosamente; mi sentivo terribilmente confuso. Cavor si
chinò verso di me, gridando con voce sottile di fare attenzione.
Mi ero dimenticato che sulla luna, data la sua massa otto volte
minore di quella terrestre e il suo diametro quattro volte più
piccolo, il mio peso era appena un sesto di quel che era sulla
terra. Ma la realtà bastò da sola a ricordarmi il principio
dimenticato.
- Siamo fuori dei confini della terra, adesso! - disse.
Con uno sforzo controllato, riuscii a trascinarmi sulla cima
della roccia, dove, muovendomi con la precauzione di chi soffre
di reumatismi, mi rizzai in piedi accanto a lui, in pieno sole.
La sfera si trovava alle nostre spalle, a circa dieci metri di
distanza, sull'ammasso di neve che l'aveva accolta e che a poco
a poco andava diminuendo.
Fin dove l'occhio poteva giungere, in mezzo all'enorme caos di
rocce che costituivano il fondo del cratere, la stessa
vegetazione che ci circondava stava destandosi alla vita,
interrotta qua e là da masse di piante sporgenti a forma di
cactus: licheni scarlatti e porporini crescevano così in fretta
da sembrare che si arrampicassero sui dirupi. La superficie del
cratere mi parve una landa che si prolungava fino al piede delle
muraglie circostanti.
Queste, tranne che alla base, erano apparentemente prive di
vegetazione, ma avevano contrafforti, terrazze e spianate che,
al momento, non attrassero molto la nostra attenzione. Si
trovavano lontane parecchi chilometri, in ogni direzione, e noi,
quasi al centro del cratere, non potevamo scorgerle che
attraverso una leggera foschia portata avanti dal vento. Perché
c'era anche il vento, ora, in quell'atmosfera sottile, un vento
rapido e pur debole, che ci faceva rabbrividire ma che
esercitava solo una leggera pressione. Soffiava, a quanto
pareva, intorno al cratere e spirava verso la parete calda e
illuminata, provenendo dalla nebbiosa oscurità della parete
controsole. Era assai difficile fissar lo sguardo in quella
nebbia a oriente; dovevamo guardare con gli occhi semichiusi e
facendoci solecchio, a causa dell'eccessiva intensità del sole
immobile.
- Si direbbe deserto, del tutto deserto, - osservò Cavor.
Mi guardai di nuovo intorno. Fino allora avevo conservato una
tenue speranza di trovare qualche traccia più o meno umana,
qualche guglia di edificio, delle case o delle macchine; invece,
ovunque volgessimo lo sguardo, non incontravamo altro che una
confusione di rocce, picchi e creste, in mezzo a una vegetazione
istantanea e a cactus in fase di dilatazione, negazione evidente
di ogni speranza del genere.
- E' probabile che queste piante siano qui le sole
proprietarie, dissi. - Non vedo tracce di eventuali altre
creature.
- Già, né insetti, né uccelli... No! nemmeno una traccia, una
particella o un frammento qualsiasi di vita animale. Se ve ne
fossero... che cosa sarebbe di loro durante la notte...? No, ci
sono proprio soltanto queste piante.
- E' un vero paese di sogno, - osservai facendo schermo agli
occhi con le mani. - Queste cose assomigliano alle piante
terrestri ancor meno delle cose che si immaginano situate in
mezzo alle rocce negli abissi del mare. Guardi quella là! La si
direbbe una lucertola tramutata in pianta... E questo riverbero!
- Ed è solo mattino! - esclamò Cavor.
Poi, sospirando, si guardò intorno e riprese: - Questo non è un
mondo fatto per gli uomini; eppure, in un certo modo... risulta
attraente.
Dopo esser rimasto in silenzio per qualche tempo, egli iniziò il
suo solito brontolio di meditazione.
D'un tratto sobbalzai, sentendomi toccare leggermente; era una
piccola foglia di lichene, d'un color livido, che cominciava a
coprirmi un piede. Scossi vivamente la gamba; la pianta cadde in
mille pezzi, ciascuno dei quali ricominciò a crescere.
Nello stesso tempo Cavor lanciava una rapida esclamazione; una
di quelle dure baionette vegetali l'aveva punto. Esitando, il
suo sguardo vagò in cerca di qualcosa fra le rocce circostanti.
Un subitaneo riflesso roseo andava strisciando e salendo su un
cumulo roccioso. Era un rosa veramente straordinario, quasi di
un livido color magenta.
- Guardi! - dissi, volgendomi. Ma Cavor era scomparso!
Per un istante rimasi come paralizzato; volli muovere un passo
innanzi per guardar giù dalla roccia; ma, sbalordito com'ero per
la sua improvvisa scomparsa, ancora una volta dimenticai di
trovarmi sulla luna. Quel passo, sulla terra, mi avrebbe fatto
avanzare di un metro; sulla luna mi portò avanti di sei, vale a
dire cinque metri almeno più lontano dell'orlo della roccia. Sul
momento, mi parve di essere in preda ad uno di quegli incubi,
durante i quali sembra di seguitare a precipitare all'infinito,
poiché mentre sulla terra si percorrono circa cinque metri nel
primo secondo di una caduta, sulla luna se ne fanno due, e con
un sesto soltanto del proprio peso. Rotolai così o, per meglio
dire, saltai da un'altezza di circa dieci metri; ma ciò parve
richiedere un tempo abbastanza lungo, da cinque a sei secondi.
Dopo aver ondeggiato nell'aria, caddi come una piuma,
sprofondando però fino al ginocchio in un mucchio di neve, ai
piedi di una slavina di rocce bluastre, venate di bianco.
Mi guardai intorno. - Cavor! - gridai. Ma Cavor era invisibile.
- Cavor! - gridai ancora, più forte. Mi rispose solo l'eco
delle rocce.
Presi a girare furiosamente fra i massi, mi arrampicai sulle
loro cime. - Cavor! - gridai. Ma la mia voce risuonò come il
belato di un agnello smarrito.
Anche la sfera era scomparsa, e per un istante mi sentii il
cuore stretto dall'angoscia di una orribile desolazione.
Lo vidi, finalmente: rideva e gesticolava per attrarre la mia
attenzione. Se ne stava su una roccia nuda, venti o trenta metri
più in là. Non potevo sentire la sua voce, ma capii dai gesti
che mi diceva di saltare. Esitai, perché la distanza mi sembrava
enorme. Poi però riflettei che avrei certamente potuto superare
una distanza molto maggiore di quella che mi separava da Cavor.
Fatto un passo indietro, presi lo slancio e, con tutte le mie
forze, saltai. Ebbi l'impressione di essere lanciato diritto
nell'aria, come se mai più dovessi ridiscendere.
Volare in quel modo dava una sensazione deliziosa ed orribile al
tempo stesso, strana come il più strano dei sogni. Compresi però
che il mio slancio era stato troppo violento. Passai sopra la
testa di Cavor, intravedendo su una pietraia una quantità di
piante spinose pronte a ricevermi. Con un grido di spavento,
protesi le mani, irrigidendo le gambe.
Colpii un'enorme massa fungosa che scoppiò intorno a me,
lanciando in tutte le direzioni una quantità di spore arancioni
e ricoprendomi di polvere dello stesso colore. Rotolai per un
po' in mezzo a quella massa e poi mi fermai, scosso da un riso
irresistibile e convulso.
La faccetta rotonda di Cavor si protese al di sopra di una
cresta irta di punte. Mi gridò qualche parola che non riuscii ad
afferrare. - Eh? - tentai di rispondere; ma non mi fu
possibile, tanto mi mancava il respiro. Egli si fece allora
strada verso di me, avanzando con precauzione in mezzo ai
cespugli.
- Bisogna avere prudenza - disse. - Questa luna non è affatto
disciplinata e finirà per farci rompere il collo!
Mi aiutò a rialzarmi. - Lei fa sempre movimenti esagerati,
continuò poi, scuotendo con la mano la polvere arancione che
avevo sul vestito.
Rimasi fermo, in atteggiamento passivo, ansimando, mentre egli
mi spolverava i gomiti e le ginocchia, rimproverandomi per
l'incidente occorso. - Bisogna tener presente che ci troviamo
in contrasto con la gravità. I nostri muscoli non sono ancora
educati come occorrerebbe. Dobbiamo fare un po' di pratica,
quando avrà ripreso fiato.
Mi estrassi dalle mani due o tre piccole spine e mi sedetti un
attimo sopra una sporgenza rocciosa. I muscoli mi tremavano; mi
sentivo afflitto da quel senso di delusione che, sulla terra,
prova alla prima caduta colui che sta imparando ad andare in
bicicletta. Cavor pensò subito che l'aria fredda del burrone,
dopo l'ardore del sole, avrebbe potuto farmi venire la febbre; e
fu perciò che ci arrampicammo di nuovo sulla roccia. Trovammo
che, tranne qualche graffiatura, non avevo riportato alcuna
pericolosa ferita nella mia caduta; su consiglio di Cavor,
cercammo con gli occhi un rialzo facilmente accessibile per il
mio prossimo salto. E la scelta cadde sopra una spianata di
roccia, a dieci metri di distanza, divisa da noi da un boschetto
spinoso color verde oliva.
- Immaginate che sia qui, - disse Cavor, che si cominciava a
dare arie di istruttore, indicandomi un punto non più lontano di
un metro dai miei piedi. Feci il salto senza difficoltà; e debbo
confessare che provai una certa soddisfazione nel vedere che
Cavor aveva sbagliato di circa trenta centimetri a prendere la
misura e che quindi capitombolò a sua volta fra le spine. Come
vede, bisogna avere molta prudenza, - dichiarò, togliendosi
tranquillamente le spine che gli si erano conficcate addosso;
dopo di che, cessò di far la parte del mentore e prese ad
esercitarsi con me nella difficile arte della locomozione lunare.
Scegliemmo in seguito un salto più facile e riuscimmo a
compierlo senza incidenti. Ritornammo poi indietro parecchie
volte, andando e venendo, per abituare i nostri muscoli a sempre
nuovi sforzi proporzionati. Se io stesso non l'avessi
esperimentato, non avrei potuto credere che tale abitudine si
potesse acquisire così rapidamente. In breve, dopo una trentina
di salti, potevamo a colpo sicuro calcolare lo sforzo necessario
per superare una determinata distanza, e con non minore
esattezza che se ci si fosse trovati sulla terra.
Frattanto, la vegetazione lunare continuava a crescere intorno a
noi, di minuto in minuto più alta, più folta e più
aggrovigliata, assumendo una tinta più scura. Erano forti piante
spinose, cactus compatti e verdi, una vegetazione fungosa o
carnosa, licheni dalle forme più strane e contorte. Ma noi
eravamo tanto occupati nei nostri esercizi di salto, che per un
po' non ci preoccupammo affatto del loro crescente e
ininterrotto sviluppo.
Una specie di ebbrezza si era impadronita di noi; forse, in
parte, prodotta dalla gioia di non essere più confinati nella
sfera, ma, soprattutto, determinata dalla dolcezza dell'aria che
certamente doveva contenere una quantità di ossigeno molto
maggiore di quella presente nell'atmosfera terrestre. Nonostante
la stranezza del luogo, mi sentivo pronto ad affrontare
qualsiasi rischio avventuroso, come avviene talvolta a chi,
vissuto costantemente in città, si trovi per la prima volta
trasportato in montagna; né questa sensazione era mia soltanto;
a nessuno di noi passò mai per la mente il pensiero della paura,
pur non dissimulandoci quali e quante incognite ci stessero
dinanzi.
Come dominati da una follia intraprendente, scegliemmo quale
meta di un nuovo salto un cono rivestito di licheni, distante
forse una quindicina di metri, e ne conquistammo entrambi la
sommità senza fatica. - Benissimo...! Benissimo...! - ci
gridammo a vicenda. Con tre passi di slancio, Cavor mosse verso
un pendio di neve tentatrice, biancheggiante, una ventina di
metri lontano. Restai un momento colpito dall'aspetto grottesco
della sua figura librata in volo, con il sudicio berretto da
cricket, i capelli irti, il corpo piccolo e tondeggiante, le
braccia ripiegate, e così le gambe, ricoperte dai pantaloni alla
zuava, e tutto ciò sullo sfondo della fantastica distesa del
paesaggio lunare. Un accesso di riso mi scosse. Presi lo slancio
per raggiungerlo. E... caddi al suo fianco.
Fatti alcuni passi giganteschi, e altri tre o quattro salti,
finimmo per trovarci seduti in una cavità tappezzata di licheni.
I polmoni ci dolevano; rimanemmo seduti, e, mentre riprendevamo
fiato, ci congratulammo a vicenda. Cavor balbettò qualcosa come
«sensazione stupefacente»; allora un pensiero mi colpì, che,
dapprima, non mi sembrò affatto particolarmente spaventoso,
nulla più di una curiosità che nasceva spontanea dalla
situazione.
- A proposito, - domandai, - dov'è esattamente la nostra
sfera?
Cavor guardò verso di me. - Come?
Il terribile significato di quel che avevo chiesto mi apparve
allora lucidamente, d'un tratto.
- Cavor! - gridai, afferrandolo per il braccio, - dov'è la
sfera?
10. PERDUTI SULLA LUNA.
Il suo viso assunse un po' della mia paura. Si alzò in piedi,
fissò lo sguardo tra la boscaglia che ci circondava e che
continuava a crescere intorno a noi, protendendosi verso l'alto
in una crescita quasi appassionata. Dubbiosamente portò una mano
alla bocca e parlò con una improvvisa mancanza di sicurezza.
Credo, - disse lentamente, - che l'abbiamo lasciata... in
qualche posto... là, da quella parte.
Puntò un dito esitante che tracciò un vago arco.
- Non sono sicuro. - La sua espressione di costernazione si
approfondì. - Tuttavia, - disse, volgendo lo sguardo verso di
me, - non può essere lontana.
Eravamo entrambi in piedi. Pronunciavamo esclamazioni senza
significato, i nostri occhi investigavano nella tortuosa e
spessa giungla che ci circondava.
Intorno a noi, sui pendii soleggiati, si agitavano le piante
irte di punte, i cactus ricurvi, i licheni rampicanti; negli
angoli all'ombra biancheggiavano mucchi di neve. A nord, a sud,
a est, a ovest si stendeva una identica monotonia di forme
strane. E da qualche parte, già sepolta in quella confusione
inestricabile, si trovava la nostra sfera, la nostra dimora, il
nostro solo rifugio, la nostra unica speranza per sfuggire a
quella solitudine fantastica di effimera vegetazione, in mezzo
alla quale eravamo caduti!
- Credo, dopo tutto, che dovrebbe essere là in fondo, - disse
Cavor, indicando improvvisamente una direzione.
- No, - osservai, - abbiamo fatto una curva. Guardi, ecco le
orme dei miei talloni. E' evidente che la sfera dev'essere più a
est, molto di più. Certamente dev'essere laggiù.
- Io credo di aver sempre avuto il sole a destra, - ribatté
Cavor.
- E a me sembra che la mia ombra mi preceda ad ogni salto,
risposi.
Ci guardammo. Il fondo del cratere assumeva dimensioni enormi
nella nostra immaginazione, mentre il folto della boscaglia in
crescita diventava impenetrabile. - buon Dio! Che imbecilli
siamo stati!
- Eppure bisogna ritrovarla, - affermò Cavor, - e al più
presto. Il sole incomincia a scottare. Il calore ci avrebbe già
fatto perdere i sensi, se l'aria non fosse così secca... E poi
io ho fame.
Lo guardai meravigliato. Questo pensiero non mi era ancora
balenato alla mente; ma, d'un tratto, mi colpì, e in modo
positivo. - Sì, - risposi con aria convinta, - anch'io ho
fame!
Cavor si alzò, con aria risoluta. - Bisogna assolutamente
ritrovare la sfera.
Con la maggior calma possibile, esaminammo gli scogli
innumerevoli e i boschi che formavano il fondo del cratere.
studiando in silenzio le probabilità di ritrovare la sfera,
prima di essere annientati dal calore e sfiniti dalla fame.
- Non può trovarsi a più di cinquanta metri da qui, - disse
Cavor con gesti indecisi. - L'unica cosa da fare è di
perlustrare la zona qui intorno, finché non l'abbiamo trovata.
- Non c'è alternativa, - risposi, senza mostrare molta fretta
di incominciare la ricerca. - Bisognerebbe che questi maledetti
cespugli mettessero un po' di buona volontà nel crescere meno
velocemente.
- Sì, davvero, - disse Cavor. - La sfera comunque si trovava
sopra un banco di neve.
Scrutai i dintorni, nella vana speranza di scorgere un
monticello o un intrico di piante che erano state vicino alla
sfera. Ma dovunque c'era la medesima confusione; sempre e
dovunque, cespugli che crescevano, fungosità che si estendevano,
banchi di neve che si liquefacevano, e tutti incessantemente e
inevitabilmente cambiati. Il sole bruciava la pelle e fiaccava;
la debolezza causata da una fame inesplicabile rendeva ancora
più penosa la nostra situazione, lasciandoci perplessi. Mentre
eravamo là, sperduti e confusi in mezzo a tante cose insolite,
udimmo un suono, il primo sulla luna che non fosse il fruscio
delle piante, il debole sospiro del vento o il rumore da noi
stessi prodotto.
Bum... bum... bum...
Usciva da sotto i nostri piedi, dall'interno del suolo. E ci
sembrava di sentirlo sia con i piedi sia con le orecchie. La sua
sorda risonanza era attenuata dalla distanza e resa più cupa
dalla natura del materiale interposto. Non avrei mai potuto
immaginare un rumore più sorprendente, o che potesse trasformare
l'apparenza delle cose che ci attorniavano; perché questo suono
forte, lento e regolare, ci sembrò non poter essere altro che il
battito di una pendola gigantesca sepolta sotto terra.
Bum... bum... bum...
Tale rumore faceva rifiorire nel pensiero l'immagine di chiostri
tranquilli, di notti insonni nelle città popolose, di veglie e
di attese impazienti, di tutto ciò, insomma, che si svolge con
ordine e metodo nella vita. e risuonava pungente e misterioso in
quel fantastico deserto. Agli occhi nostri non c'era nulla di
cambiato; la desolazione dei cespugli e dei cactus, ondeggianti
silenziosamente al vento, si stendeva ininterrotta fino alle
pareti di roccia lontane; il cielo tranquillo e scuro era vuoto
sopra il nostro capo; il sole ci flagellava e sfiniva con i suoi
raggi ardenti. E, in mezzo a tutto ciò, come un avvertimento o
una minaccia, vibrava quel suono enigmatico.
Bum... bum... bum...
Ci domandammo con voce debole e timida: - Un orologio?
- Si direbbe!
- Che cosa sarà?
- Che cosa può essere?
- Contiamo - suggerì un po' in ritardo Cavor, poiché i battiti
erano cessati. Il silenzio, la ritmica delusione del silenzio,
ci sorprese come un nuovo urto. Per un momento, dubitammo
perfino di aver mai udito un rumore e ci chiedemmo perché non
continuasse ancora. Avevamo veramente udito un tal suono?
Sentii sul mio braccio la pressione della mano di Cavor. Egli
parlava sottovoce, quasi temesse di svegliare qualche essere
addormentato. - Restiamo insieme a cercare la sfera, balbettò.
- E ritorniamoci al più presto, perché quanto accade sorpassa
ogni nostra possibilità di comprensione.
- Da che parte dobbiamo andare?
Egli esitò. La ferma convinzione della presenza di cose
invisibili intorno e vicino a noi dominava la nostra mente. Che
cosa potevano essere? E dove potevano trovarsi? Quell'orrida
desolazione, alternativamente gelida e torrida, non era forse
altro che la buccia o la maschera di qualche mondo sotterraneo?
E, se era così, di che tipo di mondo? Che genere di abitanti
sarebbero tra poco sbucati fuori?
Ed ecco che, rompendo il silenzio profondo, violento, imprevisto
e inatteso come un colpo di fulmine, si scatenò un rumore
infernale, come se fossero state dischiuse violentemente immense
porte di metallo.
Ci fermammo di colpo, trattenendo il respiro; Cavor, in punta di
piedi, si avvicinò a me. - Non comprendo nulla, - mi sussurrò
all'orecchio. Agitò la mano vagamente verso il cielo, suggerendo
pensieri ancora più vaghi.
- Ci vuole un nascondiglio! Se accadesse qualcosa...
Gettai un'occhiata intorno, facendo un cenno affermativo.
Ci rimettemmo in cammino, avanzando con le più esagerate
precauzioni per non far rumore e dirigendoci verso una macchia
di cespugli. Un clangore, come di colpi di martello sopra una
caldaia, ci fece affrettare il passo. - Camminiamo carponi,
suggerì Cavor.
Le foglie basse delle piante appuntite, già ricoperte dalle più
nuove, cominciavano ad appassire, di modo che potemmo aprirci un
passaggio attraverso i tronchi senza serio pericolo. Del resto,
non ci saremmo lasciati turbare nemmeno da una pugnalata sul
volto o su un braccio. Nel mezzo del bosco mi fermai
sussultando, gli occhi fissi su Cavor.
- E' sotto terra, è là sotto! - egli mormorò.
- Forse stanno per uscire!
- Bisogna ritrovare la sfera!
- Sì, - dissi; - ma come?
- Bisogna arrampicarci fino a che ci arriveremo.
- Ma, se non ci riuscissimo?
- Resteremo nascosti, e vedremo di che cosa si tratta.
- Dobbiamo stare insieme, - aggiunsi.
Egli rifletté un istante. - Da che parte ci dirigiamo?
- Dovremo affidarci al caso.
Guardammo da ogni parte con occhi scrutatori; poi, con la
massima circospezione, incominciammo ad attraversare la foresta,
facendo per quanto ci era possibile un giro, arrestandoci ad
ogni fungosità che si muoveva, ad ogni fruscio, ansiosi solo di
scorgere la sfera, dalla quale così scioccamente ci eravamo
allontanati. Ogni tanto dal suolo che calpestavamo provenivano
scosse, battiti, bizzarri e inesplicabili rumori meccanici; un
paio di volte ci parve udire qualcosa come un rumore e uno
strepito attenuati attraverso l'aria. Ma, pieni di spavento come
eravamo, non avemmo ii coraggio di cercare un'altura da dove
esaminare l'estensione del cratere. Per lungo tempo non vedemmo
nessuno degli esseri che producevano questi rumori diabolici e
persistenti. Tolta la debolezza che ci causavano la fame e la
sete, questa ricerca carponi avrebbe potuto sembrarci un sogno
dei più strani. Era così irreale tutto ciò! L'unico elemento che
potesse sembrare reale era dato da quei suoni.
Immaginate la nostra situazione! Intorno a noi, le piante
fantastiche le cui silenziose foglie appuntite si ergevano sopra
le nostre teste, e, sotto le nostre mani e ginocchia, quei
silenziosi licheni dai colori violenti, illuminati dal sole, che
ondeggiavano nel vigore del loro sviluppo, come un tappeto che
si solleva sotto la pressione del vento. Ogni tanto una vescica
fungosa, tesa e gonfia sotto il sole, spuntava sopra di noi e
qualche forma nuova dai vividi colori ci era di ostacolo. Le
cellule che formavano queste piante erano grandi quanto un
pollice e simili a capocchie di vetro colorato. Tutto ciò era
saturo dell'implacabile splendore del sole; tutto si stagliava
contro un cielo nero bluastro, ancora tempestato, nonostante
fosse giorno, da qualche stella inestinguibile. Ogni cosa era
strana! Persino le forme e le strutture delle pietre erano
strane. Era tutto strano: le sensazioni del corpo a nulla si
potevano paragonare, ogni movimento ci procurava una sorpresa.
Il respiro fischiava in gola, il sangue ci pulsava alle tempie
come un flusso palpitante... tum, tum, tum...
E sempre ritornava, ad intervalli, quel tumulto, con i suoi
colpi sordi e i suoi battiti meccanici, e, improvvisamente... il
muggito di grandi animali.
11. I PASCOLI DEI VITELLI LUNARI.
Così, noi due, poveri naufraghi terrestri, perduti in quella
selvaggia giungla lunare, andavamo strisciando nel terrore
cercando di sfuggire ai rumori che ci inseguivano. Strisciammo,
ci parve, a lungo prima che vedessimo un selenita o un vitello
lunare, anche se udivamo il muggito e il grugnito di questi
ultimi sempre più vicini. Strisciammo per burroni petrosi, sopra
pendenze nevose, in mezzo a funghi che si laceravano come
sottili vesciche sotto i nostri colpi, espellendo un umore
acquoso, sopra una perfetta pavimentazione di cose simili a
vesce di lupo, e attraverso interminabili boschetti. E, sempre
più disperatamente, i nostri occhi cercavano la sfera
abbandonata. La voce degli animali pareva talvolta un lungo
muggito simile a quello dei vitelli; talaltra diveniva un suono
pieno di spavento o di corruccio; poi, di nuovo, un verso
bestiale e sordo, come se quelle creature invisibili stessero
mangiando e muggendo nello stesso tempo.
Quando le intravedemmo, non fu che per un attimo. Cavor, che mi
precedeva, fu il primo ad avvertire la loro presenza. Si fermò
di colpo, facendomi segno di non muovermi.
Un rumore come d'ossa che scricchiolino e si schiaccino sembrava
avanzare alla nostra volta; e mentre noi, sbalorditi, ci
rannicchiavamo cercando di valutare la distanza e di capire bene
la direzione da cui esso proveniva, alle nostre spalle si levò
un muggito terrorizzante, così vicino e violento che i fusti
delle piante si curvarono contemporaneamente, un soffio, umido e
caldo, passò sopra il nostro capo. Voltandoci, potemmo appena
intravedere, attraverso un'infinità di tronchi violentemente
scossi, il fianco lucente di un vitello lunare e la linea lunga
del suo dorso stagliarsi contro il cielo.
E' naturalmente assai difficile per me descrivere adesso con
esattezza ciò che vidi allora, poiché le mie impressioni
andarono modificandosi a mano a mano, a causa delle successive
osservazioni. Anzitutto, rimasi colpito dalle sue enormi
dimensioni: la circonferenza del corpo doveva misurare circa
ventisei metri e la lunghezza era, forse, superiore ai sessanta.
Una faticosa respirazione sollevava i suoi fianchi. Costatai che
il corpo gigantesco e flaccido stava sdraiato al suolo e che la
pelle era rugosa, di un
bianco macchiato di scuro lungo il dorso. Nulla vidi dei suoi
piedi. Probabilmente, scorgemmo allora il solo profilo della
testa, quasi senza calotta cranica, con il collo gonfio di
grasso, la bocca bavosa e vorace, le narici piccole, gli occhi
chiusi (perché il vitello lunare di giorno li tiene
costantemente chiusi). Come aprì di nuovo la bocca per muggire,
avemmo la rapida visione di un'immensa cavità rossa e, nello
stesso tempo, ci giunse il soffio scaturito da quella voragine;
dopo di che, il mostro scivolò via come una nave, trascinando e
facendo risuonare sul suolo la sua pelle rugosa; poi si eresse,
scivolò ancora, ci passò vicino, inzaccherandoci di fango e
scavando al suo passaggio una pista in mezzo alla foresta, e
disparve rapidamente al nostro sguardo, celato nel folto della
vegetazione. Più lontano ne intravedemmo un altro, poi un terzo
e, infine, come se guidasse al pascolo quei blocchi semoventi di
carne, apparve per un attimo un selenita. Con moto convulso,
allo scorgere questo nuovo essere, afferrai un piede di Cavor; e
restammo entrambi immobili, lo sguardo lungamente fisso sulla
inattesa visione, anche molto dopo la sua scomparsa.
Per contrasto con i vitelli lunari, quella pareva una creatura
insignificante, una forma alta sì e no un metro e settanta.
Poiché appariva tutta coperta di vesti fatte di una sostanza
simile al cuoio, nessuna parte del suo corpo era visibile, ma
questo, allora, non lo sapevamo. Appariva perciò come un essere
compatto ed irto, simile a un insetto complicato, munito di
lunghi tentacoli a mo' di frusta e di un braccio tintinnante che
si proiettava all'esterno del suo corpo cilindrico e lucente. La
forma della testa era dissimulata da una specie di enorme casco,
fornito di lunghe innumerevoli punte. Scoprimmo poi che di
queste egli si serviva per punzecchiare gli animali
recalcitranti; due lenti di vetro scuro, disposte lateralmente,
davano l'aspetto di una grossa testa di volatile all'apparecchio
metallico che gli copriva la testa; le braccia non superavano
quella specie di astuccio o fodera che racchiudeva il corpo,
sostenuto da due gambe corte, le quali, sebbene avviluppate in
una gualdrappa, sembravano, ai nostri occhi terrestri,
straordinariamente deboli e sottili. Aveva le cosce cortissime,
le gambe molto lunghe, i piedi piccoli.
Nonostante il vestito, d'aspetto molto pesante, il selenita
avanzava a passi enormi, da un punto di vista terrestre;
agitatissimo rimaneva il suo braccio tintinnante. La natura dei
suoi movimenti, nel breve tempo che lo vedemmo passare,
suggeriva l'idea di grande fretta e di una certa inquietudine;
appena lo avemmo perso di vista, udimmo il muggito di uno degli
animali mutarsi bruscamente in un grido breve e acuto, seguito
da più rapidi rumori dovuti all'accelerarsi della sua andatura.
Via via, i muggiti si allontanarono e si spensero, come se i
pascoli cercati fossero stati raggiunti.
Rimanemmo in ascolto. Il mondo lunare sembrò per un poco aver
riacquistato tutta la sua tranquillità; ma non osammo riprendere
subito l'escursione carponi alla ricerca della sfera perduta.
Quando per la seconda volta incontrammo i vitelli lunari, questi
si trovavano alquanto lontani da noi, in un angolo ingombro di
detriti di rocce. Le superfici piatte o inclinate di queste
erano rivestite da un folto tappeto di piccole piante verdi e
macchiate, che crescevano a folti mazzi muscosi, e di queste si
cibavano i vitelli. Scorgendoli, ci fermammo vicino a un
boschetto di canne, in mezzo al quale stavamo strisciando, e
allungammo il collo dando un'occhiata in giro per vedere ancora
una volta il selenita. Quegli strani animali stavano sdraiati
sul loro cibo come enormi lumaconi, mollicci e viscidi,
mangiando voracemente e rumorosamente, con una specie di avidità
singhiozzante. Sembravano mostri formati solo di grasso, tanto
goffi e schiacciati che un bue terrestre, in confronto, sarebbe
parso un modello di agilità. Le loro mandibole affaccendate nel
ruminare, gli occhi chiusi, nonché il rumore prodotto dal loro
masticare, davano una tale impressione di godimento animale che
il nostro stomaco vuoto provò uno stimolo insostenibile.
- Porci! Porci schifosi! - esclamò Cavor, con insolito
slancio. E, dopo aver gettato loro uno sguardo irritato e
invidioso, riprese il suo cammino in mezzo ai cespugli, verso
destra. Io indugiai un momento per assicurarmi che la pianta
macchiata fosse assolutamente inadatta come cibo per gli uomini;
poi scivolai dietro di lui, mordendo una foglia che avevo
portata alle labbra.
Poco dopo, dovemmo ancora fermarci, data la vicinanza di un
selenita, e, questa volta, riuscimmo a esaminarlo molto più
attentamente. Allora potemmo vedere che la sua copertura esterna
era proprio un vestito e non una specie di tegumento crostaceo.
Egli era in tutto simile, quanto all'abito, al selenita già
visto, né altro aveva di diverso se non una specie d'imbottitura
che gli usciva dal collo. In piedi, su un promontorio roccioso,
volgeva il capo a destra e a sinistra, come se sorvegliasse il
cratere. Restammo immobili: temevamo, muovendoci, di attrarre la
sua attenzione, ma, poco dopo, egli si volse e disparve.
C'imbattemmo poi in un'altra mandria di vitelli lunari, che
muggivano su una pietraia; quindi passammo sopra una zona dove
risuonavano rumori e battiti meccanici, come se là, subito sotto
la superficie, ci fosse un'enorme officina. Tra questi suoni,
raggiungemmo un grande spiazzo aperto, di forse duecento metri
di diametro, e perfettamente piatto. Tranne qualche lichene, che
spuntava sull'orlo, lo spiazzo era nudo e mostrava una
superficie polverosa e giallognola. Esitammo alquanto ad
avventurarci, ma, infine, poiché esso frapponeva minori ostacoli
al nostro cammino, iniziammo a percorrerne il bordo con molta
circospezione.
Per un istante, i rumori interni cessarono e, tolto il debole
fruscio delle piante che crescevano, il silenzio regnò intorno a
noi. Poi, d'un tratto, ecco scoppiare un frastuono più violento,
più impetuoso, e più vicino di quanti fino allora avessero
colpito le nostre orecchie. Era evidente che esso scaturiva dal
suolo. Ci raggomitolammo quanto più possibile raso terra, pronti
a tuffarci rapidamente nella vicina boscaglia. Ogni colpo e ogni
battito sembravano ripercuotersi nei nostri corpi. Frattanto, i
rumori divenivano sempre più forti; e in breve, quella
vibrazione regolare aumentò al punto che tutto il mondo lunare
sembrò esserne scosso e agitato.
- Al coperto! - mormorò Cavor, ed io mi volsi verso la
boscaglia.
In quello stesso momento si udì una detonazione, simile a quella
prodotta da un cannone, e quindi accadde un fatto che ancor oggi
mi perseguita nei sogni. Volsi il capo per guardare Cavor e
stesi avanti la mano, ma non incontrai che il vuoto! La mano era
piombata in una cavità senza fondo!
Il mio petto urtò contro qualcosa di duro; ero caduto in avanti,
le braccia tese, rigide, nel vuoto, il mento sull'orlo dello
smisurato abisso che così improvvisamente si era aperto davanti
a me. Tutta quella vasta superficie circolare e piatta non era
altro che un gigantesco coperchio, il quale stava ora scivolando
da un lato, in una fessura preparata per riceverlo.
Se Cavor non si fosse trovato là, credo che sarei rimasto
rigido, la testa china sull'apertura, cercando di scrutare
nell'enorme precipizio sottostante, fino ad essere respinto
dagli stretti bordi della fessura e a venire precipitato
nell'abisso. Ma Cavor non aveva ricevuto il colpo dal quale io
ero stato paralizzato. Egli si trovava un po' scostato quando il
coperchio aveva incominciato ad aprirsi, e, comprendendo il
pericolo da cui ero minacciato, mi aveva afferrato per le gambe
e mi aveva trascinato indietro. Mi trovai in tal modo seduto, e
riuscii ad allontanarmi carponi da quell'apertura pericolosa;
rialzatomi, attraversai di corsa, seguendo Cavor, la placca di
metallo fremente e sonora. Pareva che essa scivolasse con una
velocità sempre maggiore, mentre i cespugli si piegavano e si
aprivano al mio passaggio, nell'impeto della fuga.
Era tempo! La schiena di Cavor era appena scomparsa nella
foresta, e io dietro di lui, allorché la valva mostruosa rientrò
nella sua custodia con un rumore assordante. Rimanemmo per un
po' ansanti, senza osare avvicinarci al precipizio.
Poi, con gran precauzione, a passo a passo, finimmo per
collocarci in modo da potervi guardare dentro. I cespugli
intorno a noi scricchiolavano e si agitavano sotto la forza
della corrente d'aria che usciva da quel pozzo. Dapprima, non
potemmo scorgere altro che delle pareti verticali e lisce che
scendevano a picco in un'impenetrabile oscurità. Poi,
lentamente, scorgemmo a mano a mano alcune luci debolissime che
andavano e venivano in ogni senso.
Per un certo tempo, il prodigioso precipizio assorbì tanto la
nostra attenzione da farci dimenticare perfino la sfera. Via via
che i nostri occhi si abituavano all'oscurità, cominciammo a
distinguere piccole forme confuse e indistinte, che si muovevano
fra quelle minuscole luci. Ci sforzammo di veder meglio, stupiti
e increduli; ma non riuscimmo ad afferrare nulla di quanto si
svolgeva sotto di noi. Ci era impossibile distinguere la più
piccola cosa che potesse aiutarci a spiegare quelle forme
indecise.
- Che cosa può essere? - domandai. - Che cosa può essere?
- L'officina...! Essi devono vivere in queste caverne durante
la notte per uscirne soltanto quando sorge il sole.
- Cavor! - esclamai. - Possono essere... quello... era
qualcosa di simile... uomini?
- Quello non era un uomo.
- Non dobbiamo osare arrischiarci in nulla!
- Non oseremo nulla, finché non avremo ritrovato la sfera!
- Non potremo fare nulla, finché non avremo ritrovato la sfera.
Egli assentì con un brontolio e si accinse a riprendere il
cammino. Volto lo sguardo attorno, emise un gran sospiro,
indicandomi una direzione. Ci slanciammo nella giungla, dapprima
avanzando vigorosamente, poi con decrescente ardore. Poco dopo,
in mezzo a grandi forme rosse e flosce udimmo un rumore di passi
e delle grida. Rimanemmo rannicchiati dov'eravamo; per alcuni
minuti, i rumori, provenienti da ogni direzione, si avvicinarono
sempre più a noi. Ma questa volta non vedemmo nulla; cercai di
dire a Cavor che non potevo più camminare senza prendere un po'
di cibo, ma avevo la gola tanto arsa che non mi fu possibile
articolar parola.
- Cavor, - dissi, - ho bisogno di mangiare.
Egli volse verso di me una faccia costernata. - Bisogna farne a
meno, - rispose.
- Ma io DEVO mangiare, - insistetti. - Guardi le mie labbra.
- Io pure ho molta sete da un po' di tempo.
- Se almeno fosse rimasta un po' di quella neve!
- E' tutta sciolta. Passiamo dal clima polare a quello
tropicale con la rapidità di un grado al minuto...
Mi morsi le mani.
- La sfera! - mormorò. - Non vi è altra salvezza, se non
nella sfera.
Non senza sforzo ci rimettemmo in cammino. La mia mente era
attraversata ogni momento da visioni di cibi, di frizzanti
bicchieri colmi di bibite estive e in particolare morivo dalla
voglia di una birra. Ero ossessionato dal ricordo del barile che
era rimasto nella mia cantina di Lympne. Pensavo pure alla
vicina dispensa, fornita di bistecche e di pasticci di rognone,
tenere bistecche e pasticci ben guarniti con salse dense, ricche
e piccanti. Ad ogni istante, sbadigliavo per la fame. Giungemmo,
infine, in un posto coperto di piante rosse e carnose, piante
simili a mostruosi coralli, che si rompevano al solo toccarle.
Osservai come erano composte. Quelle piante maledette avevano
l'aspetto commestibile; e mi parve altresì che avessero un buon
odore. Ne raccolsi un pezzetto e lo annusai.
- Cavor! - chiamai con voce rauca.
Egli si volse verso di me con una smorfia. - Non lo faccia! mi
avvertì. Lasciai cadere il pezzetto, e continuammo ad
arrampicarci in mezzo a quelle piante carnose e tentatrici.
- Perché no, Cavor? - domandai nuovamente.
- Veleno! - l'intesi rispondere, senza che volgesse la testa.
Continuai ancora un po' a camminare prima di decidermi.
- Tenterò ugualmente, - dissi.
Egli fece un debole gesto per impedirmelo, ma io avevo già la
bocca piena. Si fermò per esaminare il mio viso, mentre il suo
si contraeva, assumendo le più buffe espressioni. - E' buono!
- dissi.
- Oh! Santo Cielo! - gridò.
Mi guardava masticare. E la sua faccia esprimeva a un tempo
desiderio e disapprovazione: poi, cedendo d'un tratto alla fame,
cominciò a strapparne delle manate, e a riempirsi la bocca. Per
alcuni minuti non facemmo che mangiare.
Quella pianta era simile a un fungo terrestre, ma era formata da
un tessuto meno compatto che, nell'inghiottirlo, scaldava la
gola. Dapprima non provammo che una semplice soddisfazione
meccanica nel mangiarne; poi il sangue cominciò a scorrere più
caldo nelle vene, dandoci una sensazione di prurito alle labbra
e alla punta delle dita; idee nuove e leggermente incongrue
cominciarono ad agitarsi nella nostra mente.
- E' buono! Diabolicamente buono! Che paradiso per il nostro
eccesso di popolazione! Il miserabile eccesso di popolazione! e
presi a divorarne un'altra abbondante porzione.
Provavo una gran soddisfazione nel costatare che sulla luna
c'erano cibi così saporiti. L'abbattimento causatomi dalla fame
si cambiava in un'irragionevole allegria; la paura e il
malessere, che mi avevano angustiato, disparvero completamente.
Non vedevo più la luna, ormai, sotto l'aspetto di un pianeta da
cui desideravo fuggire ad ogni costo, ma come un possibile
rifugio per l'umanità più miserabile. Credo perfino, appena
mangiato quella specie di fungo, di aver dimenticato del tutto i
seleniti, i vitelli lunari, il coperchio e i rumori che poco
prima mi avevano riempito di spavento.
Come ebbi ripetuto per tre volte la mia osservazione
sull'eccesso di popolazione, Cavor replicò con analoghe parole
di approvazione. Sentivo che la testa mi girava, ma l'attribuivo
all'effetto stimolante del cibo dopo il lungo digiuno.
- Eh...! Eccellente scoperta... scoperta, lo sa, Cavor?
balbettai. - Rassomiglia... un po' alla patata... sì, sì!
- Che cosa dice...? - borbottò Cavor. - Scoperta della luna
che rassomiglia un po' a una patata?
Lo guardai, colpito dalla sua voce divenuta improvvisamente
rauca e dalla sua stentata pronuncia. Ebbi, in un lampo di
lucidità, l'impressione che si fosse ubriacato, forse per aver
mangiato troppi funghi. Mi sembrava anche che s'ingannasse,
immaginando di avere scoperto la luna; egli non l'aveva
scoperta, c'era soltanto arrivato. Cercai di posargli una mano
su un braccio, e di spiegarglielo, ma la questione era troppo
difficile per il suo cervello; d'altra parte, la cosa cominciava
anche per me a farsi inaspettatamente difficile da spiegare.
Dopo uno sforzo momentaneo per comprendermi - mi ricordo
d'essermi domandato se il fungo avesse reso a volte anche i miei
occhi vitrei come i suoi - egli si lasciò andare a tutta una
serie di ragionamenti per conto suo.
- Noi siamo gli schiavi di ciò che mangiamo e beviamo,
sentenziò con un solenne singhiozzo.
Ripeté di nuovo la sua frase e, dato che io mi trovavo in uno
dei miei momenti cavillosi, decisi di discutere. Probabilmente,
mi sarò allontanato un pochino dall'argomento, ma è pur certo
che Cavor non mi prestò l'attenzione dovuta. Si alzò in piedi
alla meglio, appoggiando la mano sulla mia testa per conservare
l'equilibrio, atto tutt'altro che conveniente, e cominciò a
guardarsi intorno senza più temere, ormai, gli abitanti lunari.
Tentai di fargli comprendere che ciò era pericoloso per varie
ragioni che non erano del tutto chiare neppure a me, ma non vi
riuscii, e la parola «pericoloso », essendosi non so come e
perché confusa con la parola «indiscreto», finii per dire
qualcosa come «ingiurioso». Dopo un immenso sforzo per
coordinare le idee, ripresi la discussione, rivolgendo
l'attenzione alle sconosciute piante che mi crescevano vicine.
Comprendevo che bisognava immediatamente eliminare la confusione
tra la luna e una patata, e mi perdetti in una lunga digressione
sull'importanza di precise definizioni nelle discussioni. Facevo
intanto ogni sforzo per ignorare il fatto che le sensazioni del
mio corpo non erano più tanto piacevoli.
Da qualche particolare, che ora non ricordo, la mia mente fu
ricondotta a concentrarsi sui progetti di colonizzazione.
Bisogna annettere la luna! - esclamai. - Non c'è più da
tergiversare. Fa parte delle responsabilità dell'uomo bianco.
Cavor...! Noi siamo... "hic"... dei satapi... dei satrapi,
voglio dire... Un impero che Cesare non ha mai sognato... Verrà
annunciato su tutti i giornali... La Cavoria...! la Bedfordia...
"hic"... "limited". Vale a dire illimitata... in pratica.
Ero, evidentemente, ubriaco.
Mi slanciai in una argomentazione sconnessa per provare i
benefici infiniti che il nostro arrivo avrebbe portato alla
luna! Mi confusi in una dimostrazione oscura che voleva provare
come l'arrivo di Cristoforo Colombo fosse stato, dopo tutto,
vantaggioso per l'America. Mi accorsi che avevo dimenticato la
serie di prove che mi ero proposto di enunciare, e mi limitai a
ripetere, tanto per passare il tempo: - Noi siamo come
Colombo...!
Da quel momento, si confonde ogni mio ricordo sugli effetti
prodotti dall'abominevole fungo. Vagamente ricordo che
proclamammo a gran voce la nostra intenzione di non sopportare
alcuna insolenza da parte di stupidi insetti come i seleniti;
che riconoscemmo non essere conveniente per degli uomini
nascondersi vergognosamente sulla superficie di un semplice
nostro satellite, e che ci munimmo di una grande quantità di
funghi, ma non so se per servircene come proiettili o per altro
uso. Senza badare affatto alle profonde graffiature che ci
infliggevano le piante acuminate, ci rimettemmo in cammino in
pieno sole.
Quasi subito, dovemmo capitare fra i seleniti. Erano sei e
seguivano in fila un sentiero in mezzo alle rocce; camminando,
producevano straordinari rumori, come guaiti e fischi. Parvero
scorgerci a un tratto. Istantaneamente divennero muti e
sostarono immobili, la faccia rivolta verso di noi.
Mi sentii, per un momento, sconcertato.
- Insetti, - mormorò Cavor, - insetti! Se costoro pensano che
io mi adatti ancora a strisciare sul ventre... sul mio ventre di
vertebrato! Ventre, - ripeté con lentezza, come se fosse giunto
al colmo dell'indignazione.
E, d'un tratto, gettando un grido furioso, con tre grandi slanci
balzò contro di loro. Saltò male, descrisse nell'aria una serie
di capriole, girando proprio sopra di loro, e disparve con
grandi schizzi in mezzo a un groviglio di cactus. Non ho modo di
indovinare ciò che poterono pensare i seleniti di una tale
irruzione da un altro pianeta, stupefacente e, a mio avviso,
assolutamente priva di dignità. Mi sembra di ricordare d'aver
visto le loro schiene che fuggivano in ogni direzione, ma non ne
sono sicuro. Tutti gli ultimi incidenti, capitati prima che io
cadessi nell'assoluta incoscienza, sono rimasti assai vaghi e
confusi nel mio spirito. So che feci un passo per seguire Cavor
e che inciampai a capofitto in mezzo alle rocce. Mi sentii di
colpo - di questo sono certo - seriamente male. Mi sembra
ancora di ricordare una lotta accanita e degli artigli metallici
che mi stringevano...
Quando la mia memoria ritornò chiara, noi eravamo prigionieri, a
non so quale profondità sotto la superficie della luna, immersi
nelle tenebre, in mezzo a rumori strani e spaventosi, i corpi
ricoperti di graffiature e di contusioni, la testa dolorante.
12. IL VOLTO DEI SELENITI.
Mi ritrovai seduto e rannicchiato in una tumultuosa oscurità.
Per parecchio tempo non compresi dove mi trovassi né come vi
fossi arrivato. Pensai all'armadio dove a volte venivo cacciato
quand'ero ragazzo, e poi a una camera da letto molto buia e
rumorosa in cui rimasi durante il corso di una malattia. Ma i
rumori intorno a me non erano i rumori che avevo conosciuto e
v'era un leggero odore nell'aria simile a quello d'una stalla.
Poi immaginai che stessimo ancora lavorando alla sfera, e che io
mi trovassi in qualche modo nella cantina di Cavor. Ricordai che
avevamo finito la sfera, e pensai di trovarmi ancora nel suo
interno e di viaggiare attraverso lo spazio.
- Cavor, - dissi, - possiamo accendere un po' di luce?
Non ebbi risposta.
- Cavor! - insistetti.
Un gemito mi rispose. - La mia testa! - lo intesi dire. - La
mia testa!
Tentai di portarmi le mani alla fronte che mi doleva e mi
accorsi che erano legate. Ciò mi stupì moltissimo. Nell'alzarle
fino alla bocca, sentii il freddo, liscio contatto d'un metallo.
Le mie mani erano incatenate. Cercai di stendere le gambe, e
dovetti invece accorgermi non solo che anch'esse erano legate,
ma, inoltre, che ero fissato al suolo con una catena molto più
forte, passata intorno alla vita.
Fui più spaventato ancora di quanto sia mai stato per le nostre
strane esperienze. Tirai un momento, in silenzio, i miei
legami.- Cavor! - gridai. - Perché sono legato? Perché mi ha
legato mani e piedi?
- Non sono stato io a legarla, - rispose, - sono stati i
seleniti.
I seleniti! Il mio pensiero si fissò un istante su quanto una
tale parola evocava. Allora mi tornò la memoria: la desolazione
nevosa, il disgelo dell'aria, il crescere della vegetazione, i
nostri salti e il nostro duro strisciare in mezzo alle rocce e
alle piante del cratere. Tutto l'affanno della nostra febbrile
ricerca della sfera, tutto mi tornò d'un tratto alla mente... e,
l'apertura della grande placca che ricopriva il precipizio!
Quando poi tentai di ricostruire i nostri ultimi movimenti fino
all'attuale condizione, il dolore alla testa divenne
intollerabile. Urtavo contro un'insormontabile barriera,
un'insuperabile lacuna.
- Cavor?
- Che cosa?
- Dove siamo?
- Come faccio a saperlo?
- Siamo morti?
- Che sciocchezza!
- Siamo in loro potere, dunque!
Egli rispose soltanto con un grugnito. Pareva che le ultime
tracce del veleno lo avessero reso singolarmente irritabile.
- Che cosa pensa di fare?
- Come vuole che lo sappia?
- Ah! Benissimo! - dissi io, e rimasi silenzioso; ma poco dopo
fui scosso di soprassalto da una specie di rumore che mi aveva
colpito. - Oh! Signore! - gridai; - vorrei che la finisse con
questo ronzio
Ricademmo nel silenzio, ascoltando la triste confusione di quei
rumori che ci riempivano le orecchie come il frastuono sordo di
una strada o di un'officina. Non potevo distinguere nulla.
Seguivo un ritmo, poi un altro, ma li studiavo invano.
Finalmente avvertii un suono nuovo e più acuto che anziché
fondersi con gli altri, si staccava, per così dire, dal confuso
sottofondo delle risonanze. Era una serie di suoni pochissimo
definiti, come degli urti e degli stropicciamenti simili a
quelli che potrebbe produrre un tralcio d'edera contro una
finestra, oppure un uccello che svolazzasse in una scatola.
Ascoltammo, cercando di distinguere qualcosa intorno a noi, ma
le tenebre impenetrabili come una tenda di velluto nero ce lo
impedivano. Seguì un rumore che si sarebbe detto un leggero
movimento simultaneo di meccanismi in una serratura ben oliata;
apparve allora innanzi a me, quasi sospesa - così sembrava
nella nera immensità, una tenue striscia di luce.
- Guardi! - balbettò Cavor come in un soffio.
- Che cos'è?
- Non lo so.
Fissammo attentamente.
La sottile linea brillante si andava ingrandendo in una fascia
più larga e più pallida. Parve, poi, una luce bluastra riflessa
su un muro imbiancato a calce. Il chiarore cessò di essere
uniformemente parallelo; un intaglio vi si disegnò da una parte.
Voltandomi per farlo notare a Cavor, rimasi stupefatto nel
vedere il suo orecchio vivamente rischiarato, mentre tutto il
resto della sua persona rimaneva nell'ombra. Girai il capo fino
a che le mie catene me lo permisero. - Cavor! - dissi, - è
dietro di noi!
Il suo orecchio disparve... per cedere il posto a un occhio!
Ed ecco, più forte, ripetersi quello scricchiolio che aveva
preceduto la luce, mostrando alle nostre spalle il vano di una
porta aperta. Dietro, si vedeva una prospettiva color zaffiro e
sulla soglia si stagliava, nitido contro il bagliore, il
contorno di una figura grottesca.
Facemmo entrambi sforzi convulsi per voltarci, ma, non
riuscendovi, rimanemmo a contemplare l'apparizione al di sopra
delle nostre spalle. Io ebbi, a tutta prima, l'impressione di un
deforme quadrupede che avesse la testa abbassata. Mi accorsi poi
che si trattava del corpo smilzo e stretto, delle gambe
sbilenche, corte e straordinariamente sottili, di un selenita,
con la testa incassata fra le spalle. Non aveva però quella
specie d'elmo e di vestito che essi portano sulla superficie del
satellite.
Ci appariva come una semplice sagoma nera e tetra, ma,
istintivamente, la nostra immaginazione dava una fisionomia a
quelle forme molto umane, cosicché io conclusi senza indugio che
doveva trattarsi di un essere un po' gobbo, con una fronte alta
e lineamenti allungati.
Fatti tre passi avanti, esso si fermò. I suoi movimenti
sembravano compiersi in assoluto silenzio; avanzò ancora.
Camminava come un uccello, posando i piedi l'uno avanti
all'altro. Si scansò dalla striscia luminosa che entrava per la
porta aperta e parve scomparire completamente nell'ombra.
Per un istante, i miei occhi lo cercarono dove non era; poi lo
vidi eretto, proprio innanzi a noi, in piena luce. Ma la
fisionomia umana che gli avevo attribuito non esisteva affatto!
Avrei naturalmente dovuto aspettarmelo, ma non ci avevo pensato.
E, così, fu per me un'assoluta, terribile sorpresa; quella non
sembrava una faccia; la si sarebbe detta una maschera, un
orrore, una deformità che poco dopo sarebbe stata rinnegata o
spiegata. Quell'"affare" non aveva naso, e aveva due occhi
sporgenti ai lati - quando avevo visto il suo contorno li avevo
presi per orecchie - non aveva orecchie... Ho cercato poi di
disegnare una di quelle teste, ma non vi sono riuscito. C'era
una bocca incurvata verso il basso, come una bocca umana in un
viso che esamini ferocemente...
Il collo che sorreggeva quella testa era articolato in tre
punti, che ricordavano le corte articolazioni della zampa d'un
granchio. Non potevo distinguere le articolazioni delle membra a
causa delle corregge simili a fasce che le avvolgevano e che
formavano l'unico indumento di quella strana figura.
La mia mente, a questo punto, fu assorbita dal pensiero
dell'assoluta imperturbabilità di un tale essere. Suppongo che
esso pure fosse molto meravigliato e, forse, con maggior ragione
di noi. Senonché - il diavolo se lo porti! - non lo
dimostrava. Noi, almeno, sapevamo bene per quale seguito di
circostanze ci si trovava alla presenza di tali incompatibili
creature. Ma immaginate ciò che dovrebbe pensare un rispettabile
londinese, ad esempio, il quale capitasse d'un tratto alla
presenza di una coppia di esseri viventi, grandi come uomini, ma
assolutamente diversi da ogni altro animale terrestre, intenti a
scorrazzare in mezzo ai montoni di Hyde Park! Tale dovette
essere la sorpresa del selenita.
Figuratevi ora la nostra! Ci trovavamo con mani e piedi legati,
sporchi ed ammaccati, la barba incolta, la faccia graffiata e
sanguinante. Figuratevi Cavor, con i suoi pantaloni alla zuava
(strappati in vari punti dalle piante aguzze), la camicia di
flanella, il vecchio berrettino da cricket, i capelli in
disordine, sfuggenti a ciocche in ogni direzione. Illuminata
dalla luce bluastra, la sua faccia non sembrava più rossa, ma
scura; le sue labbra e le tracce di sangue secco sulle mani
sembravano nere. Se possibile, io ero in condizioni ancora
peggiori delle sue, a causa di quelle fungosità gialle in mezzo
alle quali ero caduto. Le nostre giacche erano sbottonate; le
scarpe che ci erano state tolte, si trovavano poco lontane dai
nostri piedi. Eravamo seduti, con le spalle rivolte a quella
luce strana e bluastra, esaminando un mostro quale solo Dürer
avrebbe potuto inventare.
Cavor ruppe il silenzio; cercò di parlare, emise alcuni suoni
rauchi e tossì per schiarirsi la voce. Fuori, ricominciarono i
muggiti terrorizzanti, come se qualche vitello lunare soffrisse.
Seguì un grido acuto, e tutto ripiombò nel silenzio.
Poco dopo, il selenita si volse, vacillò nell'ombra, indugiò un
secondo sulla porta per gettarci un'ultima occhiata, poi se ne
andò richiudendola, mentre noi venivamo a trovarci ancora una
volta perduti in quel rumoroso mistero di tenebre, nel quale ci
eravamo trovati svegliandoci.
13. IL SIGNOR CAVOR FA ALCUNE SUPPOSIZIONI.
Per un po' di tempo nessuno di noi parlò. Mettere a fuoco tutte
le cose che ci erano capitate era superiore alla mia capacità di
pensare.
- Ci hanno preso, - dissi alla fine.
- E' stata colpa del fungo.
- Già... ma se non l'avessi preso avremmo ceduto, saremmo stati
spacciati.
- Avremmo potuto ritrovare la sfera.
Di fronte alla sua ostinazione, persi la calma e presi a
imprecare fra me e me. Per un po' ci odiammo l'un l'altro in
silenzio. Tamburellavo, con le dita in terra, tra le ginocchia e
facevo stridere fra loro gli anelli delle mie catene. Ma subito
fui forzato a parlare di nuovo.
- Infine, che cosa ci capisce, in tutto ciò? - domandai
umilmente.
- Sono esseri ragionevoli... Fabbricano oggetti e se ne
servono... Quelle luci che abbiamo visto...
Si fermò: era evidente che anch'egli non ci poteva capir nulla.
Quando riprese la parola, fu per ammettere. - Dopo tutto, sono
più umani di quanto avevamo diritto di aspettarci. Presumo...
Seguì una pausa irritante.
- Che cosa presume?
- Suppongo che in ogni pianeta, su cui si trovi un animale
intelligente, questi avrà la sua scatola cranica nella parte
superiore del corpo; avrà delle mani e camminerà eretto...
Poi mutò argomento, d'un tratto.
- Ci troviamo ad una certa profondità - disse. - Vale a
dire... seicento metri circa o anche più...
- Perché?
- Fa più fresco... e le nostre voci sono molto più forti. Quel
senso attenuato di tutte le cose è completamente scomparso... e
così pure quella sensazione in gola e nelle orecchie...
Io non l'avevo ancora costatato; ma improvvisamente me ne
accorsi.
- L'aria è più densa. Siamo ad una grande profondità, forse un
paio di chilometri sotto la superficie della luna.
- Non avevamo mai pensato a un mondo sotto la superficie lunare.
- No.
- Come avremmo potuto immaginarlo?
- Si sarebbe potuto. Solamente... Si hanno certe abitudini
mentali.
Egli si mise a riflettere.
- ORA, invece, - disse, - sembra così evidente!
- Perbacco! E' naturale! La luna dev'essere una serie di enormi
caverne con un'atmosfera interna e un mare nel centro
- Si sapeva che la luna ha un peso specifico minore della
terra: si sapeva pure che ha all'esterno poca aria e poca acqua;
si sapeva infine che è un pianeta uguale alla terra e che, come
tale, non lo si sarebbe potuto concepire composto diversamente.
La deduzione ch'essa fosse cava s'imponeva chiara come la luce
del sole. Eppure, mai la si è accettata come un fatto. Senza
dubbio Keplero...
In quell'istante, il tono della sua voce esprimeva la
soddisfazione di chi ha scoperto un ordine di idee che lo
soddisfa.
- Sì! - continuò, - Keplero con i suoi «subvolvani » aveva
ragione, dopo tutto!
- Avrei preferito però che lei si accorgesse della cosa prima
di metterci in cammino, - dissi.
Non rispose e continuò ad esporre i suoi pensieri borbottando
sottovoce, mentre io cominciavo a perdere la pazienza.
- Che cosa pensa sia successo della sfera? - domandai.
- Perduta! - disse con il tono di chi risponda ad una domanda
senza importanza.
- In mezzo a quelle piante?
- A meno che non l'abbiano trovata.
- E allora?
- Che cosa potrei dirle di più?
- Cavor! - notai con impaziente amarezza, - ho delle belle
prospettive adesso per la mia società...
Non mi diede risposta.
- Buon Dio! - esclamai. - Se si pensa a tutti i fastidi che
ci siamo presi per metterci in queste belle condizioni...!
Perché siamo venuti? Che cosa cerchiamo? Che cos'è la luna per
noi, o noi per essa? Abbiamo desiderato troppo e troppo
arrischiato. Avremmo dovuto cominciar da cose più piccole. E'
stato lei a proporre la luna. Quelle tendine a molla coperte di
cavorite! Sono certo che avremmo potuto servircene per
applicazioni sulla terra... Sicuro! Aveva compreso bene ciò che
volevo fare? Un cilindro d'acciaio...
- Sciocchezze! - interruppe Cavor.
La conversazione rimase sospesa.
Dopo un po', Cavor iniziò un monologo sconnesso, entusiasmandosi
sempre più a mano a mano che procedeva, pur non essendo da me
incoraggiato in alcun modo.
- Se la trovano, - cominciò, - se la trovano, che cosa ne
faranno? E' un bel problema! Può darsi anzi che sia il problema.
Probabilmente, non ci capiranno nulla. Se potessero comprendere
quella specie di strumenti, già da gran tempo sarebbero venuti
sulla terra. Ci sarebbero venuti...? E perché no? In ogni modo,
avrebbero inviato qualcosa... Non si sarebbero sempre lasciati
sfuggire una simile occasione. No! Ma esamineranno la sfera. E'
certo che sono intelligenti e curiosi. L'esamineranno, vi
entreranno, faranno scattare i bottoni. Tac...! In tal modo noi
saremmo imprigionati per sempre nella luna. Strane creature,
nozioni strane...
- Quanto a nozioni strane... - feci io; ma le parole mi
mancarono.
- Intendiamoci, Bedford! - esclamò Cavor; - lei ha
partecipato a questa spedizione di sua volontà!
- Lei mi aveva detto: «Lo chiami andare alla scoperta ».
- Vi sono sempre dei rischi nell'andare alla scoperta.
- Specialmente quando si parte sprovvisti d'armi e senza
prevedere tutte le possibili eventualità!
- Ero così assorbito dalla sfera! Siamo stati presi e
trascinati.
- Già; IO sono stato preso, vorrà dire.
- Oh! Sia io sia lei. Come potevo sapere, io, quando mi sono
messo a studiare la fisica molecolare, che mi avrebbe condotto
qui, proprio qui, in posti così diversi da quelli immaginati?
- E' sempre quella maledetta scienza! - esclamai. - E' il
diavolo in persona; e i preti e gli inquisitori del Medioevo
avevano ragione, e i moderni hanno torto. Arrischiate piccole
esperienze e vi si offrono dei miracoli. Poi, appena ne siete
accalappiato, rimanete abbandonato e demolito nel modo più
inatteso. Vecchie passioni ed armi nuove... Talvolta ciò
sconvolge la vostra religione, talaltra rovescia le vostre idee
sociali e vi precipita nella desolazione e nella miseria!
- In ogni caso, non vedo perché lei debba rimproverarmi
adesso... Queste creature... questi seleniti... comunque si
vogliano chiamare, ci tengono mani e piedi legati. Qualunque sia
l'umore con cui lei prenda la cosa, per forza dovrà arrivare
fino in fondo... e abbiamo la bella prospettiva di esperienze
che richiederanno tutto il nostro sangue freddo.
Si fermò, come attendesse da me una parola di assenso; ma io
persistetti nel rimanermene imbronciato. - Al diavolo la sua
scienza! - dissi.
- La questione è di sapere come si possa comunicare con loro. I
gesti, credo, saranno diversi dai nostri. Indicare gli oggetti,
per esempio... Non vi sono che gli uomini e le scimmie che lo
facciano.
Quest'asserzione, per quanto io fossi ignorante in materia, mi
sembrò evidentemente errata. - Ma quasi tutti gli animali,
esclamai, - indicano gli oggetti con gli occhi o con il naso!
Cavor meditò un momento sulla mia osservazione. - Già, - finì
per dire, - mentre noi uomini non lo facciamo. Vi sono tali
differenze! Si potrebbe... Ma come dire...? C'è la parola. I
rumori che fanno sono di flauto o di piffero... ed io non vedo
come potremmo imitarli...! E' questa specie di rumore il loro
linguaggio? Possono avere sensi diversi, modi di espressione e
di comunicazione diversi. Certo, sono esseri intelligenti; e noi
pure lo siamo. Dobbiamo avere, dunque, qualche cosa di comune.
Chi sa fino a che punto potremo arrivare?
- Tutto ciò è fuori questione, - dichiarai. - Sono più
lontani da noi dei più strani animali della terra. Sono di una
specie assolutamente diversa. Perché dunque parlarne?
Cavor rifletté un momento. - Non sono di questo parere. Ovunque
esistano esseri intelligenti, avranno sempre qualcosa di simile,
anche se si sono sviluppati su differenti pianeti...
Naturalmente, se fosse questione d'istinto... se loro o noi non
fossimo che semplici animali...
- Sono forse esseri superiori? Assomigliano molto più a
formiche erette sulle zampe posteriori che ad esseri umani... E
chi ha mai potuto farsi comprendere dalle formiche?
- Ma quelle macchine e quegli indumenti? No! Non sono del suo
parere, Bedford. La differenza fra noi è, sì, enorme...
- E' insuperabile!
- La rassomiglianza dovrà servire come mezzo per superarla, in
tal caso. Ricordo di aver letto, una volta, uno studio del
compianto professor Galton sulla possibilità di comunicazione
tra i pianeti. Allora, disgraziatamente, non mi sembrava
possibile che tale lettura potesse divenire per me materialmente
utile; temo pertanto di non averle prestato l'attenzione che
avrei dovuto... in vista di quanto oggi ci è capitato...
Eppure...! Aspetti...!
«La sua idea era di cominciare con quelle grandi verità che
devono costituire la base di ogni esistenza mentale e di
stabilire su di esse un sistema. Si comincerebbe con i grandi
principi della geometria... Consigliava di prendere alcune delle
proposizioni fondamentali di Euclide e di dimostrare, con la
loro costruzione, che la loro verità ci è nota; di dimostrare,
per esempio, che gli angoli alla base di un triangolo isoscele
sono uguali e che, se si prolungano i due lati uguali oltre la
base, gli angoli così formati sono uguali anch'essi; oppure che
il quadrato costruito sull'ipotenusa d'un triangolo rettangolo è
uguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati.
Nel dimostrare la nostra conoscenza di questi principi,
proveremo che siamo possessori di un'intelligenza ragionevole...
Ora, supponga che io possa disegnare una figura geometrica con
un dito bagnato, oppure tracciarla nell'aria...»
Tacque, ed io rimasi a meditare sulle sue parole. Per un certo
tempo, partecipai quasi alla sua insensata speranza di
comunicare e di interpretare quegli esseri spaventevoli. Poi
l'irritazione e la disperazione dovute allo sfinimento e alla
debolezza fisica ripresero il sopravvento. Mi resi conto, con
nuova e subitanea chiarezza, della straordinaria follia di
quanto fino allora avevo fatto.
- Imbecille! - dissi. - Oh, imbecille! Straordinario
imbecille...! Si direbbe che io non sia al mondo se non per
compiere continuamente le peggiori stupidate...! Perché, poi,
esserci allontanati dalla sfera...? Per saltellare alla ricerca
di brevetti e concessioni nei crateri della luna...! Se avessimo
almeno avuto il buon senso di fissare un fazzoletto ad un
bastone per indicare il posto dove avevamo lasciata la sfera!
Tacqui, arrabbiatissimo.
- E' chiaro che sono intelligenti, - ruminava Cavor. - Si
possono fare delle ipotesi. Se non ci hanno uccisi subito, ciò
vuol dire che debbono avere intenzioni clementi... clementi...!
Controllate, per lo meno, e chissà? Forse hanno il desiderio di
entrare in relazione! Potrebbero trovarsi ancora con noi! Questa
segregazione, e le occhiate rivolteci dal guardiano. Queste
catene! Un elevato quoziente di intelligenza...!
- Fosse piaciuto al cielo, - esclamai, - che io avessi
riflettuto due volte! Tonfo su tonfo! Prima un capitombolo, poi
un altro! E tutto ciò a causa della mia fiducia in lei! Perché
mai non sono rimasto sulla terra a scrivere il mio dramma?
Quello sì che ero capace di farlo! Quello era il mio mondo e la
vita per la quale ero nato. Avrei potuto finire quel dramma; ne
sono certo, era un buon lavoro. La sceneggiatura si poteva dire
finita! Poi... Immaginate! Saltare sulla luna! Praticamente,
questo vuol dire la mia vita rovinata! La vecchia proprietaria
di quell'albergo nei dintorni di Canterbury aveva più buon
senso...
Alzati gli occhi, mi arrestai di colpo. Alle tenebre, era
nuovamente subentrata la luce bluastra. La porta si aprì e
parecchi seleniti entrarono senza rumore. Non mi mossi più,
fissando le loro facce grottesche.
D'un tratto, l'impressione di stranezza sgradevole si cambiò in
un senso di interessamento. M'accorsi che il primo e il secondo
di quegli esseri portavano delle scodelle. La nostra e la loro
mente avevano dunque in comune almeno il pensiero d'un bisogno
elementare. Le scodelle erano d'un metallo che, come quello
delle catene, sembrava nero in quel chiarore bluastro; e ognuna
conteneva un certo numero di frammenti biancastri. Tutti i
pensieri tetri e la debolezza che mi opprimevano si fusero in un
unico desiderio: mangiare. Seguii con occhio famelico
l'avvicinarsi delle scodelle e, sebbene io abbia poi rivisto con
orrore la scena in sogno, mi sembrò allora cosa del tutto
insignificante che il braccio che ce le porgeva, invece di
terminare con una mano, avesse soltanto una specie di pollice e
di moncherino molto simile all'estremità d'una proboscide
d'elefante.
La sostanza contenuta nella scodella era piuttosto molle e di
color marrone biancastro, molto rassomigliante a dei pezzi di
"soufflé" freddo con un leggero odore di funghi. Dalla carcassa
squartata di un vitello lunare, che avemmo occasione di vedere
più tardi, propendo a credere che il cibo offertoci dovesse
essere composto di carne di quegli animali.
Avevo le mani così strettamente legate, che potevo appena
sorreggere la scodella; ma, come videro i miei sforzi, due di
loro con destrezza allentarono d'un giro la catena che avvinceva
i miei polsi. Le loro mani-tentacolo, sfiorandomi la pelle, mi
diedero la sensazione di una cosa molle e fredda. Presi subito
una boccata di cibo. Aveva la stessa mancanza di consistenza che
sembrava essere la caratteristica di tutte le strutture
organiche sulla luna, e aveva un sapore di cialdoni o di
meringhe, per nulla sgradevole. Ne presi, una dopo l'altra, due
nuove boccate. - Ne avevo proprio bisogno, - dissi, mordendone
un pezzo più grande ancora.
Per un po' mangiammo così, senza aver più coscienza di noi
stessi. Mangiammo, poi bevemmo, come dei mendicanti a una cucina
gratuita. Mai più, né prima né dopo, provai una fame altrettanto
prepotente, e, se io stesso non avessi fatto una tale
esperienza, non avrei mai potuto credere che a oltre
trecentocinquantamila chilometri dal nostro mondo, nell'angoscia
più profonda, circondato, spiato dagli esseri più grotteschi e
più inumani che possano popolare le peggiori visioni di un
incubo, mi sarebbe stato possibile mangiare, nell'oblio più
completo di quanto m'era d'intorno. I seleniti rimasero in piedi
dinanzi a noi, esaminandoci ed emettendo di quando in quando una
specie di pigolio tremolante che doveva, immagino, servire loro
di linguaggio. Non rabbrividii nemmeno al loro contatto; e, come
fu passata la prima voracità della fame, potei osservare che
anche Cavor aveva mangiato con la stessa spensierata
tranquillità.
14. TENTATIVI DI ENTRARE IN RELAZIONE.
Quando finalmente finimmo dì mangiare, i seleniti tornarono a
legarci strettamente le mani, e poi allentarono le catene che ci
serravano i piedi, dandoci così la possibilità di una limitata
libertà di movimento. Poi sciolsero le catene che avevamo
intorno al corpo. Per fare tutto questo dovettero toccarci con
le mani liberamente, e spesso una delle loro strane teste mi
sfiorò il volto, o una molle mano-tentacolo mi raggiunse il capo
o il collo. Non ricordo di aver provato in quella circostanza
timore o repulsione per la loro vicinanza. Credo che il nostro
invincibile antropomorfismo ce li facesse immaginare con
fattezze umane dentro le loro maschere. Come tutto il resto, la
pelle sembrava bluastra, certo per effetto della luce, ed aveva
un aspetto duro e luccicante, molto simile alle elitre di un
insetto, e non 1iscio, umido o peloso come quella d'un animale
vertebrato. Alla sommità del capo, avevano una striscia di spine
biancastre che andavano dalla base cranica alla fronte, e
un'altra, molto più 1arga, s'incurvava perpendicolarmente alla
prima, sopra gli occhi. Il selenita che mi sciolse dalle catene
si servì della bocca per aiutare le mani.
- Si direbbe che vogliano liberarci, - disse Cavor.
Attenzione! ricordi che siamo sulla luna. Non faccia alcun
movimento improvviso!
- Vorrebbe forse provare la sua geometria?
- Se appena mi si presenta l'occasione propizia! Ma potrebbe
anche darsi che siano loro i primi a fare dei tentativi.
Rimanemmo passivi; e, come ebbero terminato il loro lavoro, i
seleniti si ritrassero di qualche passo e parvero esaminarci.
Dico parvero, perché, essendo i loro occhi collocati non davanti
ma lateralmente, per determinare la direzione del loro sguardo
si provava la stessa difficoltà che si prova quando si tratta di
un pollo o di un pesce. Conversavano fra loro, facendo quel
rumore che mi era impossibile imitare o definire. La porta
dietro di noi si schiuse maggiormente; con una rapida occhiata
sopra la spalla, intravidi, oltre quella, un largo spazio
occupato da un gruppo assai numeroso di seleniti. Sembravano una
bizzarra folla molto varia.
- Vogliono che noi imitiamo questi rumori? - domandai a Cavor.
- Non credo, - rispose.
- Pare che tentino di farci capire qualcosa.
- Non riesco a comprendere i loro gesti. Ha osservato quello
che gira il capo come uno che abbia un collo inamidato troppo
stretto?
- Facciamogli noi pure dei segni con la testa.
E gesticolammo nello stesso modo; ma, vedendo che ciò non
produceva alcun effetto, tentammo di imitare i movimenti dei
seleniti. Questa prova parve interessarli, tanto è vero che
tutti rifecero lo stesso movimento; ma, visto che anche tale
tentativo a nulla serviva, vi rinunciammo. Anch'essi allora
cessarono, dandosi ad animate discussioni. Uno fra loro, un po'
più basso e più grosso degli altri e fornito d'una bocca
particolarmente larga, si accovacciò d'un tratto accanto a
Cavor, si mise con le mani e con i piedi nella stessa posizione
di lui, poi, con abile mossa, si rialzò
- Cavor! - gridai, - vogliono che ci alziamo.
- E' proprio così! - egli assentì, guardandomi stupito, a
bocca aperta.
Con ripetuti sforzi, gemendo, impacciati dalle mani legate,
riuscimmo a rizzarci in piedi. I seleniti indietreggiarono per
lasciarci più liberi nei nostri pesanti sforzi, e sembrarono
discorrere fra loro con maggior vivacità. Come fummo in piedi,
il corpulento selenita si avvicinò, toccò uno alla volta i
nostri volti con le sue mani-tentacolo, poi mosse verso la porta
aperta. Anche questo gesto era abbastanza chiaro, e noi lo
seguimmo. Notammo che quattro dei seleniti che si trovavano
sulla soglia erano di assai maggiore statura degli altri e
vestiti nello stesso modo di quelli che avevamo visto nel
cratere, vale a dire con copricapi rotondi, guarniti di punte, e
con una specie di armatura cilindrica; ognuno di loro portava un
pungolo con punta e custodia di metallo scuro come quello delle
scodelle. Questi quattro esseri si collocarono ai nostri lati
nel momento stesso in cui uscimmo dalla stanza per penetrare
nella caverna dalla quale usciva la luce.
Non potemmo farci subito un'idea di questa caverna. Eravamo
completamente assorti nell'esame dei movimenti e degli
atteggiamenti dei seleniti che ci circondavano, consapevoli
della necessità di controllare e frenare i nostri movimenti, per
il timore legittimo di allarmare loro e noi stessi con qualche
passo eccessivamente lungo. Davanti a noi camminava il selenita
basso e corpulento che aveva risolto il problema di farci
alzare; egli procedeva gesticolando in modo per noi
inintelligibile e ci invitava a seguirlo. La sua faccia, a forma
di imbuto, si volgeva ogni tanto dall'uno all'altro di noi in
modo evidentemente interrogativo. Per un certo tempo, ripeto,
rimanemmo del tutto assorbiti da queste cose.
Alla fine, il vasto locale che serviva di sfondo alla scena si
precisò ai nostri sguardi. Era ormai evidente che la sorgente di
una gran parte di quel tumulto di suoni, che ci riempiva le
orecchie da quando era cessata la stupefacente ebbrezza
procurataci dai funghi, era costituita da un enorme complesso
meccanico in piena attività, di cui indistintamente si
scorgevano - sopra le teste e tra i corpi dei seleniti che ci
circondavano - le parti che giravano e si spostavano. Da quel
congegno provenivano non soltanto i rumori, ma anche quella
bizzarra luce bluastra che si diffondeva dappertutto. Avevamo
ritenuto naturale che una caverna sotterranea fosse illuminata
artificialmente; e, in quello stesso momento, pur dinanzi
all'evidenza della costatazione, io non riuscii a comprenderne
tutta la reale importanza, se non quando fummo giunti in una
zona di tenebre. Non saprei spiegare la struttura e l'uso di
quell'immenso apparecchio, perché nessuno di noi seppe a che
cosa servisse e come funzionasse. Una dopo l'altra, grandi
sbarre di metallo si alzavano di scatto dal centro verso l'alto,
facendo percorrere alle loro estremità quello che mi parve un
tragitto parabolico; e ognuna di esse, giunta al punto più alto
della corsa, lasciava cadere una specie di braccio mobile che
s'incastrava in un cilindro verticale, spingendolo con forza.
Intorno ad esso si muovevano degli esseri piccoli e fragili che
sembravano leggermente diversi da quelli che ci circondavano.
Nel momento in cui ciascuno dei bracci mobili scompariva, si
udiva un tonfo e quindi un rombo; la sostanza incandescente che
rischiarava la caverna cominciava a traboccare dal cilindro
verticale, riversandosi, come latte bollente, fuori di una
pentola e cadendo a ondate luminose in un serbatoio sottostante.
Era una luce fredda e bluastra, come una fosforescenza, ma assai
più brillante; dai serbatoi che l'accoglievano colava giù per
mezzo di condotti attraverso la caverna.
Tum, tum, tum, facevano le braccia di questo inesplicabile
apparecchio, e la sostanza luminosa traboccava sibilando.
Dapprima, la macchina mi parve di dimensioni ragionevoli e molto
vicina a noi; ma dovetti poi notare come, in confronto, i
seleniti apparissero piccoli, rendendomi conto dell'immensità
reale del congegno e della caverna. Volsi gli occhi da
quell'enorme pompa nuovamente ai seleniti, per i quali sentii un
nuovo rispetto. Mi fermai, e Cavor fece altrettanto, rimanendo
così a contemplare quella formidabile macchina.
- E' prodigioso! - esclamai. - A che cosa può servire tutto
ciò?
La faccia, illuminata d'azzurro, di Cavor esprimeva la più
rispettosa considerazione.
- Non è possibile che sogni; certamente questi esseri sono...
Gli uomini non avrebbero potuto fare nulla di simile! Guardi un
po' come sono montate quelle manovelle su quei giunti!
Il selenita corpulento aveva fatto alcuni passi senza che noi ce
ne fossimo accorti. Ritornando, si mise tra noi e la grande
macchina. Evitai di guardarlo, indovinando che egli aveva in
mente di farci proseguire il cammino. Si mosse infatti nella
direzione che voleva farci seguire, si volse, ritornò da noi, ci
toccò la guancia per richiamare la nostra attenzione.
Il mio sguardo s'incrociò con quello di Cavor.
- Non potremmo fargli comprendere che siamo curiosi di osservare
questa macchina? - domandai.
- Ma sì, - rispose Cavor. - Tentiamolo. - E, voltosi verso
la nostra guida, sorrise, indicò la macchina, ricominciò i
gesti, appoggiò un dito sulla fronte, poi mostrò la macchina
ancora. Scioccamente sembrò pensare che quella sua mimica
potesse essere tradotta in una specie di gergo: «Io guardare
ciò; io pensare a ciò moltissimo; sì!».
Il suo comportamento parve per un momento far desistere i
seleniti dal proposito di farci proseguire. Si guardarono, le
loro teste bizzarre si agitarono, le voci fischianti garrirono,
rapide e scorrevoli. Poi uno di loro, grande e magro, coperto
non solo delle fasce comuni agli altri, ma anche di una specie
di mantello, cinse con la sua mano-proboscide la vita di Cavor e
lo trascinò delicatamente dietro la nostra guida che si rimise
in marcia.
Cavor resistette. - Possiamo bene cominciar a spiegarci, ora.
Forse ci prendono per una nuova specie di animali, una nuova
specie di vitelli lunari, forse! Eppure, è di grande importanza
il provar loro che siamo dotati d'intelligenza.
Cominciò a scuotere violentemente il capo. - No! No! - Gridò.Io non seguire subito; io guardare ciò.
- Non c'è dunque nessun teorema geometrico che lei possa
spiegare a questo proposito? - suggerii, mentre i seleniti si
consultavano tra loro.
- Potrebbe darsi che una parabola... - cominciò.
Ma, d'un tratto, gettò un grido e fece un salto di più di due
metri.
Uno dei quattro seleniti armati l'aveva punto con il suo pungolo!
Mi volsi, facendo un rapido cenno di minaccia all'uomo del
pungolo, che si ritrasse bruscamente. Questo gesto, come il
grido ed il salto di Cavor, spaventarono i seleniti, che
s'allontanarono in fretta, mostrandoci la loro faccia
dall'espressione stupita e immobile. Durante uno di quei momenti
che non sembravano finir mai, restammo in atteggiamento di
irritata protesta, affrontando un semicerchio di quegli esseri
inumani.
- Mi ha punto! - disse Cavor, con un singhiozzo nella voce.
- Ho visto! - risposi.
- Al diavolo! - cominciai indirizzandomi al selenita, - noi
non vogliamo saperne! Per chi mai ci prendete?
Lanciai rapidamente un'occhiata a destra e a sinistra. Di la
dalla linea azzurra segnata dalla luce nella caverna, vidi molti
altri seleniti venire di corsa alla nostra volta; erano grandi e
snelli, e uno di loro aveva la testa più grossa degli altri. La
vasta e bassa caverna si perdeva in ogni direzione nelle tenebre
più dense. Il tetto, me lo ricordo bene, presentava un
rigonfiamento verso il basso, come se avesse ceduto sotto il
peso dell'enorme quantità di rocce che ci imprigionavano. Nessun
mezzo di scampo, nessuno! Sotto, sopra, c'era l'ignoto; e noi,
uomini senza difesa, eravamo circondati da quelle creature
inumane, armate di pungoli minacciosamente branditi contro di
noi.
15. IL PONTE SOPRA L'ABISSO.
La pausa ostile durò soltanto per un momento. Suppongo che tanto
noi quanto i seleniti ci mettessimo a pensare rapidissimamente.
La mia più chiara impressione fu che non v'era nulla alle spalle
che ci potesse sostenere, e che eravamo destinati ad essere
accerchiati e uccisi. L'assurda follia della nostra presenza in
quel luogo calò sopra di me come immenso biasimo. Perché mai
avevo intrapreso questa folle e disumana impresa?
Cavor venne al mio fianco e mi posò la mano sul braccio. Il suo
pallido e atterrito viso era spettrale nella luce azzurra.
- Non possiamo far nulla! - disse. - E' un errore. Essi non
comprendono. Bisogna seguirli dove vogliono condurci.
Lo guardai un momento; poi mi volsi verso i seleniti che
tornavano ad agitarsi.
- Se avessi le mani libere...
- Inutile! - diss'egli, anelante. - Inutile...!
- Seguiamoli.
E si mise a camminare per primo, nella direzione che ci era
stata indicata.
Lo seguii, a mia volta, cercando, per quanto era possibile,
d'assumere un atteggiamento sottomesso; ma la stretta delle
catene che mi avvincevano i polsi mi faceva ribollire il sangue
nelle vene. Non ricordo più nulla della caverna, pur essendo
dovuto rimanerci a lungo; guardavo le cose che vi si trovavano,
ma, nell'atto stesso in cui le osservavo, uscivano dalla mia
mente per sempre. Credo che tutti i miei pensieri si
concentrassero sulle catene che mi stringevano i polsi e sui
seleniti, specialmente su quelli che portavano elmi e pungoli.
Dapprima ci camminavano al fianco, a rispettosa distanza; poi
altri tre si unirono, e i primi ci si avvicinarono a portata di
mano. Vedendoli accostarsi così, ebbi un momento di
inquietudine. Il selenita piccolo e corpulento, che prima
camminava alla nostra destra, riprese il suo posto davanti a noi.
Con quale lucidità l'immagine di questo gruppo è rimasta
impressa nel mio cervello! Davanti a me Cavor, a testa bassa, le
spalle curve, e il viso ignobile della nostra guida che
s'agitava in ogni senso; al nostro fianco i seleniti armati di
pungoli, vigili, a bocca aperta; e tutto ciò in una luce
azzurrastra, uniforme. Ma un altro ricordo mi è rimasto lucido
nella mente, oltre alle mie impressioni personali; una specie di
canaletto, attraversando il suolo della caverna, scorreva lungo
il sentiero roccioso da noi seguito. Era gonfio di quella stessa
sostanza luminosa, d'un azzurro lucente, che sgorgava dalla
grande macchina. Poiché io seguivo il margine di questo
ruscello, posso ben assicurare che quel liquido non irradiava
calore. Aveva una lucentezza brillante, ma non era né più caldo
né più freddo di quant'altro si trovava nella caverna.
Dopo essere passati proprio sotto alcune leve in movimento di
un'altra grande macchina, giungemmo a un'enorme galleria, nella
quale il rumore dei nostri passi, pur essendo a piedi nudi, si
ripercuoteva con forza. Ad eccezione del chiarore emanato dal
ruscello alla nostra destra, nessun'altra luce rischiarava la
volta. Le ombre nostre e quelle dei seleniti si disegnavano
gigantesche sul soffitto e sulle pareti irregolari della
galleria. Qua e là, sulle muraglie, dei cristalli scintillavano
come gemme; talvolta la galleria s'allargava formando una grotta
con stalattiti, e diramandosi in altri tronchi di gallerie che
si perdevano nelle tenebre.
Mi sembrò che si camminasse da molto tempo. Il ruscello luminoso
scorreva lentamente; il rumore dei nostri passi, e la loro eco,
davano la sensazione di un brontolio irregolare. La mia mente
continuava a fermarsi sul problema delle catene.
- Se potessi fare scorrere un giro in questo senso e poi
torcerlo così... Se gradatamente lo tentassi, si accorgerebbero
che io cerco di liberarmi il polso dalla stretta minore? E,
ammesso che se ne accorgessero, che cosa farebbero?
- Bedford! - esclamò Cavor, - la strada scende: non cessa di
scendere.
Questa osservazione mi strappò alle mie nere preoccupazioni.
- Se avessero voluto ucciderci, - continuò, rallentando il
passo per portarsi al mio fianco, - l'avrebbero già potuto fare.
- E vero! - dovetti ammettere anch'io.
- Non ci capiscono, - riprese; - ci credono null'altro che
strani animali... qualche specie sconosciuta di vitelli lunari,
forse. Soltanto quando ci avranno osservati meglio,
comprenderanno che siamo dotati d'intelligenza...
- Già...! Quando lei traccerà i suoi problemi geometrici,
dissi.
- Forse.
Continuammo a trascinarci ancora per un po'.
- D'altronde, - aggiunse Cavor, - questi che ci accompagnano
possono essere seleniti d'una classe inferiore.
- Satanici idioti! - risposi, gettando uno sguardo d'odio alle
loro facce esasperanti.
- Se sopportiamo quel che ci fanno...
- Per forza! - interruppi.
- Ce ne potranno essere altri meno stupidi. Questa non è che la
parte esteriore del loro mondo. L'altra dev'essere situata nelle
profondità della luna; avrà caverne, passaggi, gallerie; poi il
mare, il mare, finalmente...! Centinaia di chilometri più sotto!
Queste parole mi fecero pensare a tutti i chilometri di rocce e
gallerie che senza dubbio ci sovrastavano; ebbi l'impressione
che gravassero d'un tratto sulle mie spalle, schiacciandomi.
- Lontano dal sole e dall'aria, - osservai, - una miniera
profonda solo mezzo chilometro è soffocante.
- Qui no, in ogni caso... E probabile che... La ventilazione!
L'aria andrebbe dalla parte scura della luna verso la parte
rischiarata, e tutto l'acido carbonico esalerebbe là per nutrire
le piante. In cima a questa galleria, per esempio, si sente una
vera brezza. Che mondo dev'essere! Questi pozzi e queste
macchine ce ne danno un primo saggio...!
- Ma... e il pungolo! - osservai, - non dimentichi il pungolo!
Per un momento Cavor camminò in silenzio.
- Eppure, anche questo pungolo...- riprese.
- Ebbene?
- Lì per lì, ero furibondo. Ma... forse è necessario che noi
continuiamo. Essi hanno una pelle diversa e, probabilmente,
anche nervi differenti dai nostri. Può darsi che non comprendano
la nostra indignazione per essere trattati in quel modo...
Proprio come a un abitante di Marte potrebbe non piacere la
nostra abitudine di toccarci il gomito.
- Faranno bene a star molto attenti al modo in cui mi
toccheranno il gomito!
- A regola, dopo tutto, procedono in modo intelligente,
cominciando dagli elementi della vita e non del pensiero: la
nutrizione, la forza, il dolore: ossia dai principi fondamentali.
- Non c'è dubbio, - approvai.
Egli continuò a parlare del mondo grandioso e fantastico nel
quale ci sprofondavamo. Un po' alla volta, dal suo modo di
parlare, compresi che Cavor non disperava di poter penetrare più
profondamente nei misteriosi abissi del pianeta. La sua mente,
occupata da macchine e da scoperte, era del tutto libera dalle
apprensioni che assillavano l'animo mio. Non già che egli avesse
l'idea di utilizzare tali cose; desiderava soltanto conoscerle.
- Dopo tutto, - osservò, - la nostra situazione è
fantastica...! L'incontro di due mondi! Che cosa vedremo...?
Pensi a tutto quello che può trovarsi sotto di noi...!
- Se non c'è più luce, non vedremo molto, - osservai.
- Questa è solamente la crosta esterna. Sotto, in basso, vi
sarà di tutto... Quali meraviglie potremo raccontare!
- Un animale di specie rara potrebbe consolarsi in questo modo
mentre lo conducono al giardino zoologico...! Non è detto che ci
mostreranno tutto.
- Quando si accorgeranno che siamo esseri ragionevoli, rispose
Cavor, - vorranno sapere che cosa succede sulla terra. Anche
ammesso che non siano suscettibili di generose emozioni,
cercheranno di imparare... e quante cose devono conoscere!
Quante cose inimmaginabili!
Egli continuava a pensare alla possibilità di imparare cose che
sulla terra non avrebbe mai sperato di venire a sapere;
costruiva, così, castelli in aria, dimenticando perfino la
ferita a sangue, causatagli dai pungoli del selenita. Non
ricordo bene tutto ciò che disse, perché la mia attenzione era
assorbita dal fatto che la galleria che seguivamo andava
allungandosi sempre più. Dalla sensazione causata dall'aria,
sembrava che si arrivasse in uno spazio più grande; ma chi
poteva rendersi conto delle dimensioni, immersi com'eravamo
nelle tenebre? Il piccolo ruscello luminoso si prolungava in un
nastro sempre più sottile, fino a scomparire lontano lontano,
davanti a noi. Poco dopo i nostri sguardi non distinsero più le
pareti rocciose. Non scorgevamo altro che il sentiero che si
svolgeva sotto i nostri passi e la fosforescenza azzurrognola
del piccolo ruscello.
Le forme di Cavor e della guida selenita si disegnavano davanti
a me; la parte verso il ruscello luminoso appariva di un azzurro
chiaro e lucente; l'altra, non più rischiarata dal riflesso
della parete, si perdeva indistintamente nell'oscurità.
Mi accorsi presto che ci avvicinavamo a un declivio, poiché la
fosforescenza del rigagnolo scomparve d'un tratto.
Ci parve, nello stesso momento, d'aver toccato l'orlo. Il
ruscello luminoso descriveva una curva, esitava, poi precipitava
in una voragine che doveva essere molto profonda, perché il
rumore della caduta non giungeva fino a noi. L'oscurità rendeva
impenetrabile il burrone; scorgemmo solo una forma indecisa,
simile a un ponticello, che sporgeva dall'orlo della parete e
scompariva, perdendosi nelle tenebre.
Ci arrestammo un istante sul margine del precipizio, cercando di
distinguere qualcosa in quell'insondabile profondità. La guida,
vedendo che ci eravamo fermati, ci spinse per il braccio.
Poi, precedendoci, avanzò fino al ponticello e vi salì,
volgendosi per vedere se noi la seguivamo. Quando vide che
prestavamo attenzione alle sue mosse, continuò ad avanzare,
camminando con passo sicuro, come se si fosse trovata sulla
terraferma. La sua figura fu nitidamente visibile per un
istante, poi divenne una macchia azzurra e scomparve.
Segui una pausa.
- Sì, certamente... - disse Cavor.
Un altro selenita mosse alcuni passi sul ponte gettato sopra
l'abisso, poi si volse verso di noi con aria indifferente. Gli
altri seleniti si disposero alle nostre spalle. La guida
ricomparve, guardandoci con un'espressione interrogativa:
sembrava volesse domandarci perché non l'avevamo seguita.
- Non possiamo assolutamente attraversare il ponte, dichiarai.
- Io sento che non potrei fare tre passi su quella tavola
dondolante, nemmeno se avessi le mani libere, - affermò a sua
volta Cavor.
Ci guardammo in viso costernati.
- Essi non sanno che cos'è la vertigine - riprese Cavor.
- E assolutamente impossibile per noi mantenerci in equilibrio
su quest'asse.
- Io credo che vedano le cose diversamente da noi. Li ho
osservati e mi domando se immaginano che questa è per noi una
completa oscurità. Come potremmo farlo capir loro?
- In ogni caso, bisogna pur tentare!
Credo che queste considerazioni siano state scambiate fra noi a
voce alta, nella vaga speranza che i seleniti potessero in
qualche modo comprendere ciò che andavamo dicendo. Era per noi
una cosa d'importanza capitale poter avere una spiegazione con
loro. Ma quando vidi che sulle loro facce non appariva
nessun'espressione, compresi perfettamente che ogni spiegazione
sarebbe stata impossibile. Non importa! Sul ponticello non mi
sarei arrischiato ugualmente. Tentai di sciogliere le mani dalle
strette delle catene. Due seleniti mi si avvicinarono e mi
spinsero con delicatezza verso l'abisso. Scossi la testa con
forza.
- Questo, poi, no! - gridai. - E' inutile! Voi non capite
nulla.
Un altro selenita venne ad aggiungere i suoi sforzi a quelli
degli altri; fui così obbligato ad andare avanti.
- Attenti! - gridai. - Fate piano, o guai a voi! Per voi è
facile, ma...
Mi volsi repentinamente, prorompendo in maledizioni, poiché uno
dei seleniti armati mi aveva punto nella schiena con il suo
pungolo. Strappati i polsi dalla stretta dei piccoli tentacoli e
voltomi al selenita che mi aveva punto, gridai:
- Vilissima bestia! Ti avevo avvertito! Di che cosa credi sia
fatto, per infilzarmi il pungolo nella pelle? Se mi tocchi
ancora...
Per tutta risposta, quello mi punse nuovamente.
Udii la voce tremante di Cavor che implorava. Credo che anche
allora cercasse di accomodare le cose. Ma la seconda puntura
inflittami, dando sfogo alla mia indignazione, aveva
centuplicato la mia energia. Con un violento strappo, spezzai un
anello della catena; tutte le considerazioni che ci avevano
lasciato senza resistenza nelle mani di quegli esseri lunari
disparvero. Tremante di collera e non pensando affatto alle
conseguenze, con il pugno circondato dalla catena, sferrai un
colpo diritto davanti a me, colpendo in piena faccia il mostro
dal pungolo.
Si verificò allora una di quelle orribili sorprese di cui il
mondo lunare abbonda...
La mia mano, così corazzata, sembrò passare attraverso la faccia
del selenita, che si ruppe come un uovo. Si sarebbe detto che io
avessi picchiato su uno di quei dolci dalla crosta dura che
contengono sostanze liquide. Cedendo alla violenza del pugno, il
corpo senza consistenza del selenita girò su se stesso, mosse
due o tre passi, poi incespicò e cadde a terra, come una massa
floscia. Mi ritrassi stupito; non potevo credere che il corpo
d'un essere vivente potesse presentare così poca consistenza.
Ero forse vittima d'un sogno?
Purtroppo era realtà. Né Cavor né gli altri seleniti sembravano
essersi mossi nel tempo trascorso fra il momento in cui io avevo
fatto il voltafaccia e quello in cui il selenita, colpito dal
mio pugno, era caduto a terra. Tutte le nostre guardie si
scostarono da noi; questo momento di tregua durò qualche
secondo, dopo la caduta del selenita. E tutti sembravano
sforzarsi di comprendere. Ricordo di essere rimasto in piedi, le
braccia a metà piegate, cercando io pure di rendermi ragione
dello strano fatto accaduto. «E poi? E poi?» Ecco la domanda che
mi torturava il cervello.
Poi, d'un tratto, ci rimettemmo in movimento. Compresi che era
necessario mi liberassi dalle catene; prima, però, bisognava
mettere in fuga i seleniti. Mi volsi verso il gruppo dei tre
armati di pungolo. Senza attendere, uno di loro mi lanciò contro
la sua arma, che mi sfiorò la testa, cadendo alle mie spalle
nell'abisso tenebroso. Ma, nel momento stesso in cui l'arma mi
sfiorava, io saltai con tutta la mia forza sul selenita. Come
vide ch'io prendevo lo slancio, fece un mezzo giro per
sottrarsi; ma non fece a tempo. Piombai diritto su di lui,
rovesciandolo al suolo, scivolai sul suo corpo fracassato e
capitombolai a mia volta. Rialzatomi, vidi da ogni parte le
schiene bluastre dei seleniti sparire nell'ombra. Aperto un
anello della catena e liberate le gambe da ogni vincolo, mi
alzai subito, scuotendo in mano le catene. Un altro pungolo,
lanciato come una freccia, fischiò alle mie orecchie: feci per
precipitarmi verso le tenebre da cui era partito, ma non
scorgendo più seleniti, ritornai da Cavor che era rimasto vicino
al burrone e, alla luce del ruscello luminoso, faceva sforzi
convulsi per liberarsi i polsi.
- Avanti! Di qua! - esclamai.
- Le mie mani! - disse, in tono supplichevole.
Poi, comprendendo che non osavo corrergli vicino nel timore che
i miei passi mal calcolati potessero portarmi di là dal margine,
mosse egli stesso verso di me, trascinando i piedi, e con le
braccia tese.
Presi subito le sue catene per staccarle.
- Dove sono? - mi domandò il pover'uomo con voce anelante.
- Scappati...! Ma ritorneranno...! Lanciano certe cose...! Da
che parte ci dirigiamo?
- Dalla parte della luce, verso la galleria, vero?
- Sì! - risposi, mentre riuscivo a liberargli le mani.
Mi inginocchiai per liberargli anche le gambe dalle catene.
Qualcosa, non so che cosa, venne a cadere nel ruscello, facendo
schizzare intorno a noi la sostanza luminosa. Lontano, alla
nostra destra, si fecero udire suoni fiochi.
Tolte a Cavor le catene che gli serravano le caviglie, gliele
misi in mano, dicendogli:
- Picchi con queste.
E, senza attendere risposta, mi slanciai a grandi salti lungo il
sentiero dal quale eravamo venuti. Sentivo dietro di me il
rumore sordo dei suoi passi sul suolo.
Avanzammo così, a passi da gigante. Ma un tal modo di correre,
come si può facilmente comprendere, era assolutamente diverso da
quello in uso sulla terra, dove si prende lo slancio e, quasi
istantaneamente, si tocca il suolo; sulla luna, a causa del
minor peso, si volava invece attraverso l'aria per qualche
secondo prima di ritoccare nuovamente il suolo. Data la nostra
immensa fretta, ciò era disperante, poiché faceva l'effetto di
grandi pause, durante le quali si sarebbe potuto contare,
volendo, fino a sette o a otto! Un colpo di piede e si prendeva
lo slancio. Nell'intervallo che passava prima di toccare di
nuovo il suolo ogni genere di domande mi attraversava la mente:
«Dove sono i seleniti? Che cosa faranno? Arriveremo mai alla
galleria? Cavor è ancora molto indietro? Non c'è pericolo che
gli taglino la strada?».
Toccavo il suolo, mi slanciavo e partivo per un nuovo salto.
Vidi un selenita fuggire davanti a me; ma le sue gambe si
muovevano come quelle di un uomo sulla terra! Lo vidi, almeno mi
sembrò, gettare uno sguardo dietro le sue spalle, e l'intesi
emettere un grido acuto nel momento stesso in cui spariva alla
mia vista, sprofondandosi da un lato, nelle tenebre. Era, credo,
la nostra guida; ma non ne sono sicuro. Dopo un altro salto
grandissimo, le pareti rocciose ricomparvero ai nostri lati; due
passi ancora, e mi trovai nella galleria, dove moderai
l'andatura, data la scarsa altezza della volta. Giunto ad una
curva, mi fermai e mi volsi. Apparve subito Cavor; sguazzava ad
ogni passo nel ruscello di luce azzurra, e, avvicinandosi a poco
a poco, finì per cozzare contro di me. Ci aggrappammo l'uno
all'altro. Per un momento, almeno, eravamo sfuggiti ai nostri
guardiani e ci trovavamo soli.
Trafelati e ansanti, parlavamo a frasi interrotte, concitate.
- Che cosa facciamo?
- Nascondiamoci!
- Dove?
- In una di queste caverne laterali.
- E poi?
- Ci penseremo.
- Benissimo! Avanti, dunque!
Ripreso il cammino, arrivammo presto in una caverna debolmente
rischiarata, da cui si diramavano gallerie in ogni direzione.
Cavor era davanti. Dopo aver un po' esitato, scelse un'apertura
nera che sembrava adatta come nascondiglio. Si fece innanzi in
quella direzione, poi si volse.
- E' completamente scura, - disse.
- Le sue gambe e i suoi piedi ci rischiareranno. E' tutto
inzuppato di quel liquido luminoso.
- Ma...
Un tumulto di suoni, dominato da uno maggiore che sembrava il
colpo di un gong, si fece udire nella galleria principale.
Avemmo per un momento l'orribile visione di un tumultuoso
inseguimento. E scappammo immediatamente per rifugiarci nella
caverna scura; la nostra corsa era rischiarata dalla
fosforescenza delle gambe di Cavor. - Fortuna che ci hanno
levato le scarpe! - dissi; - altrimenti chissà che baccano
avremmo fatto! - Continuammo a correre facendo i passi più
piccoli che potevamo, nella paura di urtare contro la volta
della caverna. In breve, ci sembrò d'esserci allontanati assai
dal tumulto che era andato a poco a poco diminuendo per poi
cessare completamente.
Fermatomi per gettare uno sguardo dietro di me, udii il rumore
dei passi di Cavor che si allontanavano. D'un tratto, lo sentii
fermarsi.
- Bedford, - balbettò, - c'è una specie di luce davanti a noi.
Guardai, ma, a tutta prima, non potei distinguere nulla. Vidi
poi la sua testa e le spalle spiccare debolmente contro
un'oscurità meno profonda. Vidi anche che quelle tenebre non più
fitte non erano bluastre come tutte le luci all'interno della
luna, ma d'un grigio tenue, d'un pallore incerto e debole che
non poteva essere dato se non dalla luce del giorno. Cavor aveva
notato subito la differenza, prima ancora di me, aprendo il
cuore alla speranza.
- Bedford! - mormorò con voce tremante, - Bedford...! Questa
luce... E' possibile...?
Non osava manifestare completamente il suo pensiero, la sua
speranza; e tacemmo entrambi. D'un tratto, dal rumore dei suoi
passi, compresi che si rimetteva in cammino verso quella pallida
luce. E lo seguii, mentre il cuore mi batteva forte nel petto
per la commozione.
16. PUNTI DI VISTA.
La luce diveniva più forte a mano a mano che avanzavamo. In
breve essa fu forte quasi quanto la fosforescenza delle gambe di
Cavor. La nostra galleria si stava allargando in una caverna, e
la nuova luce brillava all'estremità di questa opposta a noi.
Notai qualcosa che aumentò le mie speranze.
- Cavor, - dissi, - viene dall'alto! Sono certo che viene
dall'alto!
Egli non dette risposta, ma accelerò il passo.
Indiscutibilmente era una luce grigia, d'argento.
Dopo poco, ci trovammo al di sotto di essa. Filtrava giù,
attraverso un interstizio della parete della caverna, e, come
fissavo in alto, sul mio volto cadde una goccia d'acqua.
Trasalii e mi tenni da parte... e un'altra goccia cadde
abbastanza distintamente sul suolo roccioso.
- Cavor! Se uno di noi sollevasse l'altro, si potrebbe arrivare
al crepaccio;
- La solleverò, - mi rispose; e, immediatamente mi alzò come
se non fossi pesato più di un bambino.
Passato un braccio nella fessura, potei aggrapparmi con la punta
delle dita ad un piccolo bordo. La luce bianca era molto più
viva. Con due dita mi sollevai quasi senza sforzo, nonostante
sulla terra il mio peso fosse di settantasette chili circa;
raggiunta una delle sporgenze più alte, riuscii a mettere i
piedi sull'orlo. Tesi le braccia ed esplorata tastoni la roccia,
potei costatare che la fessura si allargava gradatamente. - Ci
si può arrampicare, - dissi a Cavor; - lei monterà
aggrappandosi al braccio che io le tenderò.
Mi incuneai tra le pareti, misi un piede e un ginocchio
sull'orlo ed allungai la mano quanto più mi fu possibile. Non
vedevo Cavor, ma intesi il leggero rumore che fece accingendosi
a saltare. D'un solo slancio, egli giunse, con la leggerezza
d'un gatto, ad aggrapparsi al mio braccio. Lo tirai a me fino a
che ebbe appoggiato una mano sull'orlo.
- Strano! - osservai. - Chiunque potrebbe essere alpinista
sulla luna. - Senza attendere oltre, incominciai alacremente la
scalata, salendo il pendio con slancio. Alzai di nuovo la testa;
la fessura s'ingrandiva continuamente e il chiarore diveniva più
intenso.
Eppure non era la luce del giorno!
In un istante potei rendermene conto; a tal vista, la mia
costernazione fu così grande che avrei picchiato la testa contro
la roccia; scorgevo solo uno spazio aperto, degradante in un
pendio irregolare, tappezzato da una miriade di piccoli funghi a
forma di bastone, ognuno dei quali irradiava quella luce grigio
argentea. Sostai un attimo, gli occhi fissi ad osservare il loro
splendore; poi, slanciatomi sul ripiano, ne strappai una mezza
dozzina, lanciandoli contro la parete. Desolato, infine mi
sedetti, scoppiando in un riso amaro, mentre dal crepaccio
faceva capolino la rossa testa di Cavor.
- Ancora questa maledetta fosforescenza! - esclamai. - Non
c'è bisogno di affrettarsi. Si sieda e faccia come se fosse a
casa sua. - Mentre egli borbottava, imprecando contro l'avverso
destino, io mi divertivo a lanciare nella fessura manate di
piccoli funghi.
- Credevo fosse il chiarore del giorno! - disse Cavor a mezza
voce.
- Il chiarore del giorno! - esclamai. - L'aurora, il
tramonto, le nuvole, il cielo tempestoso! Li rivedremo mai, noi?
Mentre parlavo, tutta una visione del nostro mondo si presentò
ai miei occhi, brillante, minuscola e chiara, come lo sfondo di
certe pitture italiane. - Il cielo che cambia, il mare che si
muove, le colline e gli alberi verdi, paesi e città risplendenti
sotto il sole... Pensi, Cavor, pensi ai tetti umidi, fumanti
sotto i raggi del sole al tramonto... Pensi alle finestre che
scintillano, rifrangendo l'incendio del cielo. - Non rispose.
- Ed eccoci rinchiusi e nascosti in quest'orribile pianeta, che
non è un mondo, con il suo oceano di tenebre all'interno, il
giorno torrido e il silenzio mortale delle notti alla
superficie. E tutti quei mostri, che ora indubbiamente ci
cercano, esseri orribili di cuoio, uomini simili a insetti,
certamente creature diaboliche! Ma, dopo tutto, hanno ragione!
Che cosa siamo venuti a fare? A romperli in mille pezzi, a
portare il disordine fra loro. Può darsi che l'intero pianeta
sia in cerca di noi. Di minuto in minuto, potremmo sentire i
loro piagnucolii e il suono dei loro richiami. Che cosa fare?
Dove andare? Siamo come serpi in una villa solitaria...
- E' colpa sua, - disse Cavor.
- Colpa mia! - urlai. - Ah! Signore!
- Avevo un'idea.
- Al diavolo le sue idee!
- Se ci fossimo ostinati a non muoverci...
- Con quei pungoli?
- Sì... Ebbene, ci avrebbero portati...
- Su quel ponte?
- Sì, avrebbero dovuto portarci.
- Preferirei essere portato dal diavolo!
Ricominciai a distruggere i funghi, ma, d'un tratto, vidi una
cosa che mi colmò di stupore.
- Cavor! - dissi, - queste catene sono d'oro!
La testa fra le mani, egli era assorto in profonde riflessioni.
Si volse lentamente e mi fissò; poi, com'ebbi ripetuto la frase,
abbassò gli occhi sulla catena che gli avvolgeva il polso
destro. - Ma sì... Ma sì! Infatti! - Il suo viso abbandonò
quasi subito l'espressione d'interesse passeggero che aveva
assunta. Esitò un attimo e si sprofondò nuovamente nella sua
meditazione. Frattanto, io andavo meravigliandomi di non aver
osservato prima quel fatto; ma dovetti poi riconoscere che la
colpa era tutta di quella luce bluastra che fino allora ci aveva
rischiarati, alterando ai nostri occhi il colore del metallo.
Fatta questa scoperta, i miei pensieri seguirono un corso che mi
condusse lontano. Dimenticavo che pochi minuti prima mi ero
domandato che cosa facevamo sulla luna. - Oro...!
Fu Cavor il primo a parlare. - Mi sembra che due vie restino da
seguire...
- Quali?
- Bisognerà tentare di aprirci ad ogni costo un passaggio che
ci riconduca all'aperto, per cercare la sfera e ritrovarla prima
che il freddo della notte lunare ci uccida, oppure...
Tacque. - Oppure? - chiesi, quasi certo del seguito.
- Oppure tentare, una volta ancora, di stabilire un rapporto
con questa gente della luna.
- Per conto mio, la prima proposta è la migliore.
- Io esito...
- Ed io no.
- Io non penso, capisce, - proseguì Cavor, - di poter
giudicare i seleniti da quanto abbiamo visto finora. Il loro
mondo centrale, il loro mondo civilizzato, deve trovarsi molto
più lontano, nelle profondità vicine al mare. La regione della
crosta nella quale ci troviamo non è che di confine, una regione
pastorale. Questo, almeno, è il mio pensiero. I seleniti che
abbiamo visto potrebbero non essere altro che l'equivalente dei
nostri pastori o dei nostri operai. L'uso che hanno fatto di
quei pungoli, i quali probabilmente servono loro per i vitelli
lunari, la mancanza di immaginazione di cui hanno dato prova,
credendo che noi potessimo fare ciò che facevano loro, la loro
indiscutibile brutalità, tutto ciò sembra dimostrare qualcosa
del genere. Ma se noi avessimo sopportato...
- Nessuno di noi avrebbe potuto sopportare a lungo la
traversata di un burrone senza fondo sopra un legno largo venti
centimetri...
- No, - disse Cavor, - ma allora...
- Allora non ne voglio sapere.
Egli analizzò un'altra serie di possibilità. - Supponga che noi
avessimo potuto rifugiarci in qualche angolo e difenderci da
quei villanzoni... Se si fosse potuto, ad esempio, resistere per
una settimana, è probabile che la notizia del nostro arrivo
sarebbe giunta sino alla popolazione più intelligente.
- Ammesso che esista!
- Deve esistere. In caso diverso, da dove verrebbero quelle
macchine straordinarie...?
- E' probabile, ma è la peggiore delle possibilità che ci si
prospettano!
- Potremmo tracciare delle iscrizioni sui muri...
- Sappiamo noi se i loro occhi vedranno i segni che noi
tracceremo?
- Potremmo inciderli!
- Sì... forse...
E un altro ordine di pensieri mi assorbì.
- Dopo tutto, - dissi, - spero che non riterrà questi
seleniti più saggi degli uomini!
- Devono sapere molto più di noi... Molte cose differenti dalle
nostre, ad ogni modo.
- Sì... sì... - esitai. - Ma penso che ammetterà, caro Cavor,
di essere un uomo eccezionale.
- E perché?
- Ma via! Lei è un uomo piuttosto solo; lo è stato fino ad
ora... voglio dire che non ha preso moglie.
- Non ne ho avuto bisogno.
- Non è mai diventato più ricco di quanto sia oggi.
- Neanche di questo ho mai avuto bisogno.
- Si è lanciato nelle ricerche scientifiche...
- Una certa curiosità, è naturale...
- Lei la pensa così, e sta bene: crede che ogni mente debba
provare il bisogno di sapere. Ricordo di averle domandato una
volta perché mai proseguiva tante ricerche, e lei mi ha risposto
che desiderava essere nominato membro di un istituto, che
avrebbe fatto battezzare la sua sostanza con il nome di cavorite
e altre piccinerie di questo genere. Sapeva benissimo che non
era la verità; ma la mia domanda le giunse allora all'improvviso
e fu obbligato a rispondere qualcosa che potesse passare per un
motivo plausibile. In realtà, lei continuava a fare ricerche,
solo perché ne aveva bisogno. E' una necessità per lei.
- Può darsi...
- Troverà un uomo su un milione che senta un tale bisogno. La
massima parte degli uomini desidera... be', cose diverse! Ve ne
sono pochissimi che amano la scienza per la scienza, e io non
sono tra quelli, gliel'assicuro... Questi seleniti sembrano
appartenere ad una specie di esseri abili e industriosi; ma sa,
forse, se il più intelligente di loro si interessi di noi e del
nostro mondo? Credo non sappiano nemmeno che esiste un altro
mondo. Non escono mai di notte... gelerebbero fuori! Non hanno
mai visto altri corpi celesti all'infuori del sole accecante.
Come potrebbero sapere che c'è un altro mondo? E, se lo sanno,
che cosa importa loro? Per quali ragioni gente che vive
nell'interno di un pianeta dovrebbe prendersi la briga di
osservare un tal genere di cose? Nemmeno gli uomini l'avrebbero
fatto, se non ne avessero avuto bisogno per determinare le
stagioni e per orientare la navigazione. Perché mai i popoli
lunari dovrebbero tormentarsi a tale proposito...? Ebbene!
Supponiamo pure che vi sia fra i seleniti qualche filosofo o
scienziato come lei. Sarebbe proprio lui l'ultimo ad avere
notizia di noi. Immagini che un selenita fosse caduto sulla
terra mentre lei era a Lympne; lei sarebbe stato l'ultimo ad
apprendere la sua venuta, perché non legge mai i giornali...
Vede, dunque, che le probabilità sono contro di lei. E il peggio
è che per simili probabilità noi siamo tranquillamente seduti
qui, senza far nulla, mentre passa del tempo prezioso. Siamo nei
guai; siamo venuti senz'armi, abbiamo perduto la sfera, non
abbiamo provviste, ci siamo mostrati ai seleniti, abbiamo fatto
loro l'impressione di animali strani, forti e pericolosi; ma, a
meno che i seleniti siano dei grandi imbecilli, si sentiranno in
dovere di cercarci finché ci abbiano ritrovati e, quando ci
avranno scoperti, tenteranno di prenderci, se lo potranno, o ci
uccideranno, non riuscendovi... Ed ecco la fine! Ammesso che ci
prendano, ci uccideranno poi ugualmente, con molta probabilità,
a causa di qualche malinteso. E così, sbarazzati di noi,
potranno forse parlare di noi senza che ciò possa riuscirci di
gran profitto...
- Continui...
- D'altra parte, ecco dell'oro che qui abbonda; se ne potessimo
portar via un po', ritrovare prima di loro la sfera e ripartire,
allora...
- Allora...
- Potremmo ristabilire le cose su una base più giusta. Si
potrebbe ritornare con una sfera più grande, con dei cannoni...
- Gran Dio! - esclamò Cavor, come se avesse sentito profferire
un'eresia.
Ed io mi rimisi a gettare nella fessura grandi manciate di
funghi luminosi.
- Ascolti, Cavor, - ripresi; - posso dire anch'io la mia in
un affare in cui l'opinione d'un uomo pratico può servire a
qualcosa. Lo, ricordi, sono un uomo pratico, e lei certamente
non lo è. Ho la ferma intenzione di non fidarmi più dei
seleniti, né dei suoi diagrammi geometrici, se posso farne a
meno... Ecco tutto...! Ripartire, rivelare il nostro segreto, o
almeno una parte, e ritornare.
Cavor continuò a riflettere per qualche istante. - Avrei dovuto
imbarcarmi solo, - disse d'un tratto.
- Il problema da risolvere, - osservai, - è quello di
ritrovare la sfera.
Silenziosi, le mani sulle ginocchia, riflettevamo.
Infine, Cavor parve disposto ad accettare le mie ragioni.
- Credo che ci potremo orizzontare, - disse. - E' chiaro che,
mentre il sole si trova da questa parte della luna, l'aria deve
muoversi attraverso questo pianeta-spugna dalla parte scura
verso la parte rischiarata. Così arriverà e sfuggirà dalle
caverne lunari, procedendo verso il cratere... Ora, noi ci
troviamo in mezzo a una corrente...
Dopo breve silenzio riprese: - E ciò vuol dire che la nostra
situazione non è disperata; da qualche parte, dietro di noi,
questa fessura continuerà a salire. La corrente d'aria muove
verso l'alto; e questa è la strada che noi dobbiamo seguire. Se
tenteremo di arrampicarci su per questa specie di camino o di
fessura, ci allontaneremo non solo da queste gallerie nelle
quali ci cercano...
- Ma, e se la fessura è troppo stretta?
- Ridiscenderemo.
- Zitto! - dissi ad un tratto.
- Che cosa c'è?
Ci mettemmo in ascolto.
A tutta prima, fu un mormorio indistinto, a cui in breve fece
seguito un suono acuto di richiami.
- Devono proprio credere che siamo una specie di vitelli
lunari, se vogliono spaventarci con questo baccano !
- Avanzano per questa galleria, - disse Cavor; - è certo.
- Non penseranno alla fessura, continueranno per la loro strada.
Rimanemmo in ascolto per alcuni minuti.
- Questa volta, - mormorai, - è probabile che siano armati.
D'un tratto, con un salto, balzai in piedi.
- Buon Dio! - esclamai. - Ecco che ci scoprono! Vedranno la
manciata di funghi che ho gettato giù. Ecco che...
Non terminai la frase. Facendo un mezzo giro e saltando sopra i
funghi, raggiunsi l'estremità superiore della cavità. Vidi,
allora, che lo spazio libero si alzava di nuovo in una fessura
che seguiva la corrente d'aria e si perdeva in tenebre
impenetrabili. Ero sul punto di ricominciare la scalata, quando
una felice ispirazione mi fece ritornare sui miei passi.
- Che cosa fa? - domandò Cavor.
- Avanti! Avanti! - risposi. Presi due funghi fosforescenti e,
messone uno nella tasca della mia giacca di flanella, in modo da
rischiarare la nostra fuga, diedi l'altro a Cavor. Il tumulto
dei seleniti si udiva ora così distintamente, da dover ritenere
che essi si trovassero vicini all'orificio della fessura. Ma può
darsi che incontrassero delle difficoltà ad arrampicarsi, o che
esitassero ad impegnarsi in una lotta con noi, temendo una
eventuale resistenza da parte nostra. Ad ogni modo, ora eravamo
incoraggiati dall'idea della nostra enorme superiorità
muscolare, dovuta alla nostra provenienza da un altro pianeta.
Un istante dopo, io superavo il pendio con gigantesco vigore,
dietro le tracce luminose di Cavor.
17. IL COMBATTIMENTO NELLA CAVERNA DEI MACELLAI LUNARI.
Non so per quanto tempo ci arrampicammo prima di giungere
all'inferriata. Forse eravamo saliti solo per alcune centinaia
di metri, ma allora mi sembrò che ci fossimo inerpicati per
molto più di un paio di chilometri. Ogniqualvolta ritorno con il
pensiero a quei momenti, mi pare di sentire il pesante clangore
delle nostre catene d'oro che seguivano ogni nostro movimento.
Ben presto, le ginocchia e le nocche delle mie dita cominciarono
a scorticarsi, mentre mi ritrovavo una contusione su una
guancia. Calmato il primo impeto istintivo, i nostri sforzi
divennero più cauti e meno penosi. Il tumulto dei seleniti
lanciati alla nostra ricerca era cessato. Si sarebbe detto che
non avessero potuto scoprire le nostre tracce, nonostante il
cumulo di funghi rivelatori che doveva trovarsi sotto l'orificio
del crepaccio. In alcuni punti, le pareti si avvicinavano
talmente che ci riusciva difficile proseguire: in altri, si
allontanavano sino a formare delle grandi cavità, dalle pareti
tempestate di cristalli sporgenti o adorne di voluminosissimi
funghi rotondi. Talvolta il passaggio si torceva a spirale o
s'inclinava fin quasi a raggiungere la direzione orizzontale.
Ogni tanto udivamo un rumore di gocce d'acqua. Un paio di volte,
ci sembrò che delle piccole forme viventi fuggissero rapidamente
davanti a noi, senza lasciarci il tempo di distinguere che cosa
fossero. Suppongo si sia trattato di bestie velenose; ma sta di
fatto che non ci fecero alcun male. Del resto, eravamo allora in
uno stato di tale sovreccitazione, che un orrore o una stranezza
in più o in meno poco ci sarebbero importati. Finalmente, molto
in alto, sopra le nostre teste, scorgemmo di nuovo il noto
chiarore biancastro; costatammo poi come esso filtrasse
attraverso un'inferriata che ci sbarrava la strada.
Commentata la cosa a voce bassa, proseguimmo la scalata con
maggiore circospezione e arrivammo in breve all'inferriata.
Messa la faccia contro le sbarre, potei vedere una piccola parte
della caverna che stava al di là. Evidentemente, era uno spazio
vastissimo, rischiarato da qualche ruscello dello stesso liquido
azzurro e fosforescente che avevamo già visto uscire dall'enorme
meccanismo in moto. Un filo d'acqua colava di quando in quando
tra le sbarre, bagnandomi il viso.
Il mio primo sforzo fu subito di vedere ciò che poteva trovarsi
sul suolo della caverna, ma l'inferriata era infissa in un
masso, il cui orlo nascondeva la vista.
Cercammo allora di renderci conto dei diversi rumori che ci
pervenivano e finimmo con lo scoprire alcune deboli ombre che si
muovevano sul soffitto scuro e altissimo.
Era fuori di dubbio che dovevano trovarsi in quel luogo parecchi
seleniti, forse in numero assai considerevole, poiché noi
percepivamo un rumore confuso di movimenti, che mi ricordava il
loro modo speciale di camminare. Ogni tanto si udiva, ad
intervalli regolari, un succedersi di urti strani, come d'una
lama che penetri in una sostanza molle. Seguì poi uno strepito
di catene, un sibilo e un rimbombo, come se si fosse fatto
correre un carro sopra una volta; e, senza tregua, lo stesso
rumore continuava con uguali intermittenze. Le ombre disegnate
sulla roccia rivelavano figure che si muovevano rapidamente e
ritmicamente con quello stesso rumore, fermandosi quando esso
cessava.
Ci avvicinammo per scambiarci a bassa voce le nostre impressioni.
- Sembra che abbiano fretta, - dissi. - Sono certamente assai
occupati in qualche lavoro.
- Già.
- Non ci cercano, non pensano a noi.
- Può darsi che non abbiano nemmeno sentito parlare del nostro
arrivo...
- Gli altri ci corrono dietro... laggiù... Se si potesse
irrompere qui, d'un tratto...
Ci guardammo silenziosi.
- Potremmo aver l'occasione di conferire con loro, - disse
Cavor.
- No! - risposi. - Non nello stato in cui ci troviamo!
Rimanemmo un istante assorti ciascuno nei propri pensieri.
Lo stesso rumore continuava e le stesse ombre si muovevano.
Esaminai l'inferriata.
- E' poco solida, - osservai. - Potremmo svellere due sbarre
e lasciarci scivolare nella caverna.
Perdemmo tempo in un'inutile discussione. Poi, afferrata con due
mani una delle sbarre, appoggiai i piedi contro la parete
rocciosa fin quasi al livello della mia testa; in tale posizione
tirai con forza l'inferriata verso di me. Cedette così
bruscamente, che fui lì lì per perdere l'equilibrio. Afferrata
la sbarra vicina, la piegai in senso contrario alla prima; poi,
tolto di tasca il fungo luminoso, lo lasciai cadere nel vuoto.
- Non faccia nulla senza aver prima ben riflettuto, - mormorò
Cavor, mentre io andavo introducendomi fra le due sbarre già
allargate. Come fui passato, vidi delle figure muoversi in ogni
direzione; mi stesi bocconi sulla roccia. in modo che l'orlo del
crepaccio mi nascondesse ai loro sguardi e feci segno a Cavor di
fare altrettanto. In breve, ci trovammo vicini a spiare la
caverna e i suoi abitanti.
Era uno spazio molto più grande di quello che avevamo supposto
al nostro primo colpo d'occhio, e noi ci trovavamo nella parte
più bassa del suolo in pendio. La caverna si allargava e il
soffitto si abbassava tanto, che non potevamo vederne la parte
più lontana.
Allineate in una lunga fila che andava perdendosi lontano, nello
sfondo di quella spaventosa prospettiva, emergevano forme
gigantesche, enormi masse biancastre, intorno alle quali si
affaccendavano i seleniti. Dapprima ci sembrarono grandi
cilindri bianchi, di cui non comprendevamo l'uso. Vidi poi delle
teste, rivolte verso di noi, ma senza occhi e senza pelle, come
teste di montone esposte nel negozio di un macellaio. Compresi
che si trattava di carcasse di vitelli lunari che si tagliavano
nello stesso modo nel quale i balenieri tagliavano una balena
incagliata. I seleniti strappavano le carni a pezzi; si vedevano
le costole bianche dei torsi più lontani. Il rumore da noi
inteso proveniva dai colpi di accetta dei macellai. Più lungi,
un veicolo simile a un vagoncino, tirato da una fune e carico di
carne, risaliva il pendio della caverna. L'antro immenso, con la
sua enorme quantità di carne macellata, ci diede un'idea di ciò
che doveva essere la popolazione del mondo lunare.
A tutta prima, mi parve che i seleniti si trovassero sopra delle
assi sostenute da cavalletti. Vidi poi che le tavole, i
cavalletti e le accette avevano la medesima tinta pallida delle
mie catene, prima che la luce bianca le avesse rischiarate.
Sbarre o leve massicce apparivano sparse per terra in gran
numero. Erano lunghe circa due metri, e ciascuna aveva
l'impugnatura lavorata; avevano un aspetto molto invitante come
armi. La caverna era rischiarata da tre ruscelletti di fluido
azzurro che la attraversavano.
Restammo a lungo ad osservare tutto ciò in silenzio. - Ebbene?chiese Cavor alla fine.
Mi rannicchiai più in basso ancora, voltandomi verso di lui.
M'era venuta un'idea luminosa. - A meno che non calino queste
masse per mezzo d'una gru, - dissi, - qui dovremmo trovarci
più vicini di quanto pensassi alla superficie della Luna.
- Perché?
- Il vitello lunare non salta e non ha ali...
Cavor si sporse per guardare dall'orlo del nostro buco.
- Mi domando ora... - cominciò. - Dopo tutto, noi non ci
siamo allontanati molto dalla superficie, e...
L'interruppi, afferrandolo per un braccio: avevo sentito un
rumore nella fessura sotto di noi!
Ci rannicchiammo vicino all'inferriata, in una immobilità
assoluta, con tutti i sensi all'erta. In breve, non potei più
dubitare che qualcuno salisse adagio adagio per il crepaccio;
lentamente, senza fare il benché minimo rumore, strinsi forte la
catena ed attesi che costui comparisse.
- Sorvegli quelli in basso, - ordinai a Cavor.
- Camminano, - egli rispose.
Provai la portata del colpo, lanciando il mio pugno
nell'apertura dell'inferriata. Si sentiva distintamente il
tremulo garrito dei seleniti che salivano, lo strisciare delle
loro appendici contro la parete, la caduta dei frammenti di
roccia che essi staccavano.
Poco dopo, potei scorgere vagamente qualche cosa che si agitava
nell'oscurità; ma non riuscivo a distinguerla. La forma parve
prendermi di mira un momento; poi, crac...! Di colpo fui in
piedi e afferrai selvaggiamente ciò che mi veniva lanciato. Era
la punta acuta di una lancia. Capii dopo che la sua esagerata
lunghezza le aveva impedito di inclinarsi nella stretta fessura,
altrimenti sarei stato senz'altro colpito. Passò come la lingua
di un rettile attraverso l'inferriata; fallito il colpo, volò
indietro e venne nuovamente lanciata. Ma, la seconda volta,
potei afferrarla e strapparla fuori del buco, mentre un'altra
veniva diretta contro di me, anch'essa senza effetto. Gettai un
grido di trionfo quando sentii la stretta del selenita resistere
un solo istante alla mia presa e cedere; poi, senza indugio, mi
misi con tutte le forze a picchiare nel buco. Grida acute
salirono dalle tenebre; Cavor, che si era impadronito dell'altra
lancia, saltava e gesticolava al mio fianco, sforzandosi invano
di imitarmi. Un tumulto indiavolato ci giunse attraverso
l'inferriata; nello stesso momento, un'accetta volò sopra la
nostra testa e cadde sulle rocce, ricordandoci in tempo che
nella caverna c'erano i macellai di carcasse.
Voltandomi, li vidi avanzare in ordine sparso contro di noi,
brandendo le loro accette. Può darsi che prima non avessero
sentito parlare di noi, ma sta di fatto che essi compresero la
situazione con prontezza meravigliosa. La lancia in mano, li
guardai un istante avanzarsi. - Rimanga all'inferriata, Cavor!gridai, e gettando un urlo per intimorirli, mi lanciai contro di
loro. Due seleniti mi scagliarono la loro accetta, ma fallirono
il colpo; gli altri fuggirono immediatamente. Anche i miei due
aggressori si ritirarono, i pugni chiusi e la testa bassa. Mai
vidi correre degli uomini così velocemente come quegli esseri.
Sapevo bene che la lancia tolta ai seleniti non poteva essermi
di alcun valido aiuto, perché sottile, poco solida, buona, al
massimo, per vibrare un sol colpo, troppo lunga per delle rapide
parate. Mi accontentai perciò di inseguire i nemici fino alla
prima carcassa; là mi fermai per raccogliere una delle sbarre
sparse all'ingiro. Era così pesante che avrebbe potuto
schiacciare un buon numero di seleniti. Gettata da parte la
lancia, mi armai di due sbarre. Mi sentivo dieci volte più
sicuro che con la lancia. Con gesto di minaccia, brandii le armi
contro i seleniti, fermi in gruppo nella parte più lontana della
caverna. e tornai da Cavor.
Egli saltava intorno all'inferriata, cacciando a gran colpi fra
le sbarre il manico rotto della sua lancia. Tutto andava bene da
questa parte. Un siffatto esercizio avrebbe trattenuto i
seleniti nella loro tana, almeno per un po'. Mi volsi all'altra
estremità della caverna. «Che cosa diavolo faremo adesso?»
chiesi a me stesso.
Eravamo, fino a un certo punto, già accerchiati. Ma quei
macellai erano rimasti sorpresi, molto probabilmente anche
spaventati; non avevano armi speciali, muniti delle loro accette
soltanto. La nostra salvezza stava in questo. Le loro figure
erano più piccole e tozze di quelle dei pastori di greggi che
avevamo visto all'aperto; si andavano raggruppando in alto, sul
pendio, in un modo che rivelava la loro indecisione.
Approfittammo del vantaggio che ci offrivano la loro confusione
e la loro paura. Avevamo tuttavia una certa apprensione: essi
sembravano molto numerosi e quelli che si arrampicavano per il
crepaccio, muniti di lance lunghissime, potevano avere in serbo
per noi molte sorprese... Che il diavolo se li porti...! Se li
respingevamo risalendo la caverna, avremmo dovuto lasciarli
dietro di noi; restando là, quei maledetti piccoli bruti
avrebbero ricevuto sicuramente dei rinforzi. Solo Iddio poteva
sapere quali terribili strumenti di morte, cannoni, bombe,
torpedini, racchiudesse per distruggerci quel mondo immenso,
sconosciuto, nascosto sotto i nostri piedi, e di cui noi avevamo
sfiorato solo la superficie! Era evidente che non ci rimaneva
nulla di meglio che muovere all'assalto e tanto più ne fummo
convinti quando vedemmo comparire altri seleniti che correvano
verso di noi.
- Bedford! - gridò Cavor. Mi volsi; ed eccolo già a metà
strada fra me e l'inferriata.
- Ritorni subito là, - gli gridai. - A che cosa pensa, dunque?
- Hanno una specie di... cannone!
Infilandosi con uno sforzo fra le sbarre, in mezzo a punte di
lance difensive, apparvero la testa e le spalle di un selenita
singolarmente sottile ed angoloso, munito d'una specie di
apparecchio complicato.
Compresi l'assoluta incapacità di Cavor contro gli avversari che
si presentavano. Dopo un attimo di esitazione, mi precipitai
innanzi, facendo roteare le sbarre, gettando delle grida e
muovendomi in ogni senso, per evitare che il selenita potesse
prendermi di mira. Egli puntava in un modo molto strano, tenendo
l'apparecchio appoggiato contro lo stomaco. Si udì un fischio
leggero; l'ordigno non era un cannone; si scaricò come una
balestra. Il proiettile mi colpì mentre spiccavo un salto.
Non caddi, ma toccai terra un po' più presto di quello che avrei
fatto se non fossi stato colpito. Alzando la mano sinistra verso
la parte lesa, mi accorsi che una specie di freccia mi si era
conficcata nelle carni, presso la scapola. Un istante dopo, con
la sbarra che tenevo nella destra, colpivo a mia volta il
selenita. Egli piombò giù, fracassato, ridotto in frantumi; la
sua testa si ruppe come un uovo.
Posata per terra una delle sbarre, mi strappai la freccia dalla
spalla e, impavido, tornai a menar colpi tremendi nell'oscurità,
attraverso le sbarre dell'inferriata. Ogni colpo era seguito da
grida e da gemiti. Gettata infine l'arma sui nemici con tutta la
mia forza, mi rialzai, raccolsi la sbarra di metallo e corsi
contro l'altra massa di seleniti in fondo alla caverna.
- Bedford! Bedford! - chiamò Cavor, mentre io gli passavo
vicino.
Mi sembra ancora di sentire il rumore dei suoi passi dietro di
me...
Uno slancio... un volo... poi, a terra; uno slancio ancora... un
altro volo... e ogni salto pareva durasse dei secoli. A mano a
mano che avanzavamo, la caverna si allargava e il numero dei
seleniti aumentava visibilmente. Dapprima si sarebbe detto che
corressero in ogni senso, come formiche in fuga nelle loro
gallerie messe a soqquadro; due o tre, brandendo le accette, si
arrischiarono contro di me, ma la maggior parte scappava,
cercando ai lati un rifugio tra le carcasse. Vedemmo, poco dopo,
giungere una truppa armata di lance, seguita da una folla di
altri seleniti. In uno dei miei salti scorsi un animale
straordinario, simile in tutto a un ammasso di mani e di piedi;
spaventato, cercava rifugio. La caverna diveniva intanto sempre
più scura; qualcosa mi passò sopra la testa. Nel prendere un
altro slancio, vidi un giavellotto conficcarsi in una delle
carcasse alla mia sinistra; mentre toccavo terra, un altro colpì
il suolo innanzi a me, lasciandomi nell'orecchio il suo sibilo
acuto. Per un istante, fu una vera tempesta. Tiravano a
tutt'andare.
Mi fermai di colpo.
I miei pensieri, in quel momento, non dovevano essere molto
chiari. Ricordo che una specie di frase stereotipata
riecheggiava nella mia mente: zona pericolosa, cercare un
riparo. So che mi gettai tra due carcasse e rimasi là, immobile,
ansante, in preda a un vero accesso di furore impotente.
Quando mi volsi per vedere dove fosse Cavor, mi parve per un
istante che egli fosse scomparso. Emerse subito dopo dalle
tenebre, tra la fila delle carcasse e la parete rocciosa della
caverna. Vidi la sua piccola faccia, bluastra e scura, tutta
sconvolta per l'emozione e imperlata di sudore. Egli andava
borbottando qualcosa, ma io non mi preoccupai affatto di sapere
che cosa dicesse. Stavo proprio allora pensando che, passando da
una carcassa all'altra, avremmo potuto risalire la caverna e
avvicinarci abbastanza ai seleniti in modo da assalirli
definitivamente; così bisognava fare. - Avanti! - gridai,
indicando la strada.
- Bedford! - implorò inutilmente Cavor.
Mentre seguivamo la stretta via, tra i corpi dei vitelli uccisi
e la parete della caverna, la mia mente non cessava di lavorare.
Le rocce si protendevano in ogni senso, cosicché i nostri
avversari non potevano prenderci di mira. Sebbene in uno spazio
così angusto non ci fosse possibile saltare, eravamo capaci
ancora, grazie alla nostra forza terrestre, di avanzare molto
più in fretta dei seleniti. Calcolai che ben presto saremmo
giunti in mezzo a loro. Una volta là, essi sarebbero stati per
noi poco più terribili di un gruppo di scarabei, pur dovendo
attenderci una pioggia dei loro proiettili. Immaginai uno
stratagemma: sempre continuando a correre, mi tolsi la giubba di
flanella.
- Bedford! - gemette Cavor dietro di me.
- Che cosa c'è? - chiesi.
Egli indicò un punto sopra le carcasse.
- La luce bianca! - disse. - Ancora della luce bianca!
Guardai anch'io, costatando che era vero: un debolissimo e
indeciso crepuscolo biancastro si intravedeva all'estremità
della volta. Tale vista centuplicò le mie forze.
- Mi stia vicino! - ordinai. Un selenita piatto e lungo,
uscito d'un tratto dalle tenebre, scappò lanciando acute grida.
Fermatomi, arrestai anche Cavor con un cenno della mano.
Arrotolai la giubba su una delle mie sbarre e, carponi, feci il
giro della carcassa successiva; posate quindi a terra la giubba
e la sbarra, feci un passo innanzi per farmi scorgere,
indietreggiando poi rapidamente.
Un fischio... Una freccia passò. Eravamo vicinissimi ai
seleniti, tutti raccolti là, grandi e piccoli, dietro una
batteria dei loro ordigni puntati verso il fondo della caverna.
Due o tre altre frecce seguirono la prima; poi i lanci parvero
cessare, ma, messa fuori d'un tratto la testa, sfuggii al tiro
per puro miracolo. Una dozzina di strali si susseguirono; i
seleniti gridavano, quasi il combattimento li eccitasse.
Raccolsi la giubba e la sbarra.
- E ora andiamo! - dissi, protendendo il fantoccio.
In un attimo la mia giubba fu coperta di frecce; altre si
conficcarono nella carcassa che era dietro di noi. D'un tratto,
lasciata cadere la giubba e afferrate le due sbarre, mi
precipitai innanzi.
Per un minuto circa, fu un vero massacro. Ero stato preso da una
tale furia che avevo perduto ogni discernimento; e i seleniti si
erano probabilmente troppo spaventati per poter combattere
ancora. Sta di fatto che non opposero più alcuna resistenza. Io
vedevo rosso. Ricordo l'impressione provata in mezzo a quelle
piccole creature coperte dei loro involucri di cuoio. Procedevo
come in mezzo a grandi erbe, calpestando, abbattendo a destra e
a sinistra. Frammenti di sostanze molli volavano per aria in
ogni senso, mentre andavo pestando cose che si schiacciavano,
gridavano e scivolavano sotto i miei piedi. La folla di questi
esseri sembrava aprirsi e scorrere come acqua, dimostrando
l'inesistenza di un piano prestabilito di battaglia. Dei dardi
mi volavano intorno: uno di essi mi ferì un orecchio. Un'altra
volta fui colpito ad un braccio, un'altra ancora ad una guancia;
ma non m'accorsi di queste ferite che molto tempo dopo, quando
il sangue che ne era uscito si fu coagulato...
Quanto a Cavor, non so che cosa avesse fatto. Mi sembrò che
quella lotta fosse durata un secolo e dovesse continuare in
eterno. D'un tratto. tutto finì; non vidi più che delle teste e
delle spalle che si alzavano e si abbassavano, fuggendo in ogni
direzione... Infine ero sano e salvo! Feci qualche passo,
correndo e gridando; poi, completamente stordito, mi volsi.
Con i miei grandi salti, avevo oltrepassato tutta la larghezza
delle file nemiche. I seleniti erano ormai dietro di me e
andavano cercando in fretta un luogo dove nascondersi.
Chi potrebbe dire la mia straordinaria meraviglia e la mia
subitanea gioia nel veder finito un così arduo combattimento nel
quale m'ero lanciato a corpo morto? Non mi balenò affatto l'idea
che l'esito tanto inatteso fosse dovuto alla poca forza dei
seleniti e al loro improvviso sbandarsi; mi figuravo, invece,
dotato di capacità prodigiose. Scoppiai allora in una risata
sciocca. Come era fantastica quella luna!
Per un istante rimasi a contemplare i corpi schiacciati o scossi
da spasimi, che giacevano sparsi sul suolo della caverna; poi,
con una vaga idea di ulteriori violenze, raggiunsi Cavor in
fretta.
18. ALLA LUCE DEL SOLE.
Presto vedemmo la caverna aprirsi davanti a noi su uno spazio
vuoto pieno di foschia. Poi ci trovammo in una specie di
galleria in discesa, che dava in un vasto spazio circolare, uno
smisurato abisso cilindrico che dall'alto si sprofondava verso
il basso in verticale. La galleria correva intorno a questo
abisso senza alcun parapetto o protezione per un giro e mezzo, e
quindi si rituffava, molto in alto, nella roccia. In certo qual
modo questo mi fece ricordare i numerosi tornanti della ferrovia
del Gottardo. Era tutto tremendamente smisurato. A fatica posso
sperare di rendervi le dimensioni titaniche di tutto quel luogo
e l'effetto che se ne aveva. I nostri occhi seguivano il gran
declivio della parete del pozzo: lontano, sopra le nostre teste,
scorgemmo un'apertura rotonda, luminosa di stelle; metà del suo
contorno rifletteva, abbagliando, la bianca luce del sole. A
quella vista, un alto grido di gioia uscì dai nostri petti.
- In marcia! - gridai, avanzando.
- Ma... là! - disse Cavor, facendosi avanti prudentemente fino
all'orlo della galleria. Seguii il suo esempio; allungando il
collo, guardai nel pozzo, ma, ancora abbagliati dal riflesso
della luce in alto, i miei occhi non poterono discernere fra le
tenebre che macchie spettrali e scarlatte. M'era però dato di
udire. E da quelle tenebre saliva un rumore, simile al ronzio
delle api negli alveari. Salendo nel pozzo enorme, quel rumore
probabilmente arrivava a noi da una distanza di sei chilometri
sotto ai nostri piedi...
Rimasi con l'orecchio teso un istante; poi, brandendo le sbarre,
mi cacciai nella galleria.
- Questo, se non erro, dev'essere il pozzo dentro il quale
abbiamo guardato quando il coperchio si è aperto, - osservò
Cavor.
- E le luci che abbiamo viste sono là sotto...
- Le luci! - diss'egli. - Sì... le luci d'un mondo che non
vedremo mai più...
- Ci torneremo! - dichiarai. Ormai, non avevo altro desiderio
che di ritrovare la sfera.
Non potei afferrare la sua risposta.
- Eh? - domandai.
- Oh! Nulla, nulla, - rispose; e continuammo a camminare in
silenzio.
Suppongo che quella via laterale fosse lunga circa sette
chilometri, tenendo conto delle sinuosità; saliva con una
pendenza che sulla terra sarebbe stato impossibile superare, ma
che là si superava facilmente, date le diverse condizioni della
gravità lunare. In tutta la nuova fase della nostra fuga, non
scorgemmo che due seleniti, i quali, appena si accorsero della
nostra presenza, se la diedero a gambe rapidamente. Era chiaro
che avevano sentito parlare della nostra forza e delle violenze
da noi compiute. La strada così seguita fino all'esterno non
presentò alcun ostacolo. La galleria a spirale finì per
restringersi in un pozzo, salendo con una pendenza ancora più
accentuata. Il suolo presentava numerose tracce del passaggio di
vitelli lunari. A mano a mano che procedevamo, la luce andava
sempre aumentando; lontano, sopra di noi, appariva ormai
l'apertura esterna, circondata da grandi arbusti acuminati,
calpestati qua e là, secchi e morti, figure spinose erette
contro il sole.
Parrà strano; ma sta di fatto che rivedemmo allora quella
vegetazione, apparsaci poco tempo prima così selvaggia e
orribile, con la stessa emozione che proverebbe un esiliato
rivedendo infine il suo paese natale. Accogliemmo pure con gioia
quell'aria rarefatta che ci faceva ansare correndo e che rendeva
penosa la nostra conversazione, sino allora così facile; per
intenderci bisognava parlare a voce assai alta. L'apertura
illuminata dal sole s'ingrandiva sempre più, mentre, dietro di
noi, il tunnel sprofondava nelle tenebre più dense. Gli arbusti
avevano perduto ogni verde e si presentavano di un color bruno,
secchi, induriti. I rami superiori salivano in alto, proiettando
un intrico di forme sulle rocce sconvolte. All'uscita del pozzo,
in uno spazio aperto, la terra appariva ancora calpestata dai
vitelli lunari.
Giungemmo finalmente a quel passaggio, tra un chiarore e un
calore insostenibili. Traversato penosamente un tratto
senz'ombra, oltrepassato un pendio denso di vegetazione, ci
sedemmo ansanti, in un punto rialzato, riparati dal sole da un
macigno perpendicolare di lava. Anche all'ombra, la roccia
bruciava. Il caldo tropicale ci dava un gran malessere fisico;
tuttavia ci sentivamo sollevati dal non trovarci più sepolti in
quello spaventevole sotterraneo. Ci sembrava d'essere ritornati
nel nostro mondo. Lo spavento, l'affanno, le ansie della fuga
attraverso crepacci e tenebrose gallerie non esistevano più che
nel ricordo. L'ultimo combattimento ci aveva ridato una grande
fiducia in noi stessi, per quanto concerneva i nostri rapporti
con i seleniti. Consideravamo ormai con una certa incredulità
l'apertura nera dalla quale eravamo usciti. Là sotto, in un
chiarore bluastro, che ci faceva adesso l'effetto delle tenebre
più assolute, avevamo incontrato i seleniti, insensate
caricature umane, esseri senza faccia; là sotto avevamo
camminato paurosi davanti a loro, tollerando i loro capricci,
fino a che, stanchi e feriti, ci eravamo ribellati. E, sotto
l'impeto dei nostri colpi, li avevamo spezzati come se fossero
stati di cera, li avevamo dispersi come fuscelli di paglia al
vento, obbligando i superstiti a fuggire e a dileguarsi come i
fantasmi di un brutto sogno angoscioso.
Mi stropicciai gli occhi, domandandomi se a volte, dopo aver
mangiato i rossi funghi, non mi fossi addormentato e non avessi
sognato tutto ciò; ma, d'un tratto, sentii del sangue rappreso
sulla faccia, la camicia attaccata alla pelle del braccio, la
spalla indolenzita.
- Che il diavolo se li porti! - esclamai, toccandomi le ferite
con mano tremante. Volto lo sguardo verso l'apertura del pozzo,
mi sembrò di vedervi un occhio enorme che mi spiasse.
- Cavor, che cosa faranno, ora? - chiesi. - E noi, che cosa
faremo?
Egli scosse la testa, lo sguardo fisso alla nera apertura.
- Come immaginare quel che possono fare adesso?
- Dipende da quel che penseranno di noi, non so come potremmo
indovinare i loro pensieri... Dipende anche dalle forze che
possono avere in riserva. E, proprio come lei ha già detto,
Cavor, noi siamo penetrati solo nella parte esterna di questo
mondo. Chi sa mai che cosa posseggono nelle loro tane! Solo con
quegli ordigni che lanciavano frecce, avrebbero potuto farci
passare un brutto quarto d'ora... Dopo tutto, - continuai,
anche non ritrovando subito la sfera, avremo sempre una
speranza. Potremo tener loro testa e resistere... Durante la
notte che sta per venire... potremo nuovamente scendere nel
pozzo, e batterci... batterci ancora...
Gettai intorno delle occhiate scrutatrici. Il paesaggio era
stato trasformato completamente, a causa della crescita
fantastica della vegetazione subito disseccata. La cresta sulla
quale eravamo seduti era altissima; la vista spaziava di là,
assai lontano. Vedevamo, adesso, il fondo del cratere arso e
cupo in quel pomeriggio lunare. Emergendo l'un dopo l'altro, si
vedevano campi e pendii ondulati, ricoperti di bruna
vegetazione, schiacciata dal passaggio dei vitelli lunari; in
lontananza, nella gloria del sole, una mandria di quegli animali
si muoveva pesantemente, proiettando macchie d'ombra sul fianco
d'una discesa. Ma non c'era nessuna traccia di seleniti, sia che
si fossero rifugiati nelle grotte interne, sia che fosse loro
costume ritirarsi dopo aver condotto le mandrie al pascolo. Per
il momento, mi fermai alla prima ipotesi.
- Se potessimo appiccare il fuoco a tutta questa boscaglia,
dissi, - saremmo sicuri di ritrovare la sfera tra le ceneri.
Cavor parve non avermi inteso. La mano al riparo degli occhi,
andava osservando le stelle che, nonostante l'intenso chiarore
del sole, erano ancora in gran parte visibili nel cielo.
- Da quanto tempo, secondo lei, siamo qui? - domandò infine.
- Dove qui?
- Sulla luna.
- Forse da due giorni terrestri.
- Una dozzina, invece, probabilmente... Guardi...! Il sole ha
passato lo zenit e cala verso ovest! Fra quattro giorni, saremo
in piena notte.
- Eh! Via... Se non abbiamo mangiato che una volta!
- Lo so bene, ma... vi sono le stelle!
- Ma perché mai il tempo ci sembrerebbe diverso a causa delle
minime dimensioni della luna?
- Non lo so; mi limito a costatare il fatto.
- In che modo ci si può render conto del tempo, allora?
- Dalla fame, dalla stanchezza... Ma tutto ciò, qui, si avverte
in modo diverso... Mi sembra perfino che dalla nostra uscita
dalla sfera siano passate solo poche ore... delle lunghe ore.
- Dieci giorni...! E ce ne restano ancora quattro! - dissi,
guardando un istante il sole che si trovava già a metà del suo
cammino, tra lo zenit e la cima occidentale dei monti. - Cavor!
continuai, - siamo pazzi a rimanere qui a chiacchierare e a
sognare... Da dove cominciamo?
E, pronunciando queste parole, mi alzai. - Dobbiamo stabilire
un punto fisso che potremo riconoscere, - ripresi; - per
esempio, attaccare un fazzoletto, qualcosa, per farne una specie
di segnale, dividendo poi l'estensione del cratere in varie zone
da esplorare a poco a poco.
- Sì! - approvò Cavor, alzandosi a sua volta.
- Non ci resta altro da fare... nient'altro... Sì, sì, bisogna
cercare la sfera... Possiamo ritrovarla... Altrimenti... Non
dobbiamo perdere di vista il nostro segnale.
Guardò a destra e a sinistra, levò gli occhi al cielo, li
abbassò verso il pozzo e fece un improvviso gesto d'impazienza
che mi meravigliò. - Ci siamo comportati da imbecilli...!
Metterci in un simile imbroglio! Mentre potevamo immaginare
facilmente che avrebbe potuto capitarci qualcosa di ben diverso
da quello che avevamo previsto!
- Possiamo fare ancora molte cose.
- Lo so, ma non quelle che sarebbe stato possibile fare...! Là,
sotto i nostri piedi, c'è un mondo! Pensi a ciò che dev'essere
questo mondo! Ricordi le macchine che abbiamo viste...! E il
pozzo...! E il coperchio...! Tutto ciò non era che il limite
estremo, un'infima parte della crosta! Le creature con le quali
ci siamo battuti non erano che contadini ignoranti, abitanti del
lembo esterno; tangheri, ancora assai vicini a esseri bruti...
Là sotto...! Caverne, gallerie, strade, costruzioni accumulate
le une sulle altre! E ciò deve ingrandirsi, allargarsi,
estendersi e divenire sempre più popolato, a mano a mano che si
scende... Sicuramente...! Fino al mare Centrale che si agita nel
cuore della luna... Pensi a quei flutti nerastri sotto un grigio
chiarore, sotto una luce incerta... se pure i loro occhi hanno
bisogno di luce...! Pensi ai corsi d'acqua tributari che,
scendendo in cascate, l'alimentano...! Pensi all'ondulazione
della sua superficie, ai vortici e al movimento del flusso e
riflusso...! Chissà...? Forse, hanno dei bastimenti per la
navigazione... Forse, nel centro, esistono possenti città, dense
di abitanti, governate da istituzioni d'una saggezza di gran
lunga superiore ad ogni umana immaginazione...! E noi forse
moriremo qui, senza mai vedere quali grandi menti esistano per
governare e dirigere tutto ciò. Noi moriremo di freddo, l'aria
si congelerà e si scioglierà poi su di noi... E allora...?
Allora ci scopriranno, troveranno i nostri corpi stecchiti,
troveranno la sfera, adesso introvabile per noi, e
comprenderanno finalmente, ma troppo tardi, tutti i pensieri e
gli sforzi che sono venuti ad infrangersi qui, invano!
Durante tutto questo discorso la sua voce risuonava debole e
lontana, come quella di chi parla al telefono.
- E le tenebre? - domandai.
- Si potrebbero vincere.
- Come?
- Non lo so... Come potrei saperlo...? Si potrebbe portare una
torcia o procurare una lampada... E poi potrebbero comprendere...
Rimase un istante con le braccia penzoloni e la faccia triste,
gli occhi fissi, innanzi a sé, a quello spazio che lo
preoccupava. Poi, con un gesto di rinuncia, si volse a me,
esponendomi le sue idee circa i mezzi possibili per ritrovare la
sfera.
- Ritorneremo! - dissi per consolarlo.
Egli girò lo sguardo intorno, smarrito. - Prima di tutto,
bisogna ritornare sulla terra.
- Porteremo lampade, utensili, tutto quel che può occorrere per
arrampicarsi, e cento altre cose necessarie.
- Già, - disse, - e porteremo via con noi queste sbarre d'oro
come pegno di riuscita.
Così dicendo, considerò un istante in silenzio le due sbarre. In
piedi, le mani unite dietro la schiena, andava scorrendo con lo
sguardo la distesa del cratere. Trasse infine un sospiro e
parlò. - Sono io che ho trovato il mezzo di venire qui; ma
trovare un mezzo non significa sempre esserne il padrone. Se
porto il segreto sulla terra, che cosa succederà? Non vedo
proprio come potrei tenere celato il mio segreto per un anno
intero... nemmeno per pochi mesi...! Presto o tardi, sarebbe
scoperto. Altri uomini possono fare la medesima invenzione. E
allora...? I governi faranno ogni sforzo per venire qui. Le
nazioni combatteranno fra loro per la conquista della luna e
stermineranno queste creature lunari. Ciò non farà che estendere
e sviluppare le industrie guerresche, moltiplicando i conflitti.
Se rivelerò il mio segreto, in breve tempo questo pianeta, fin
nelle sue gallerie più profonde, sarà disseminato di cadaveri
umani... Si può dubitare di quel che avverrà poi, ma questo è
certo! Come se gli uomini avessero bisogno della luna! A che
cosa servirebbe loro? Che cosa hanno fatto della terra? Un campo
di battaglia, il teatro di delitti e di pazzie innumerevoli. Per
quanto piccolo sia il suo mondo e per quanto breve la sua
esistenza, I'uomo ha ancora da fare nella sua breve vita molto
più di quanto possa. No...! La scienza ha lavorato troppo a
lungo per fabbricare armi di cui si servono dei pazzi. E' tempo
ormai che essa si fermi. Che l'uomo ritrovi il mio segreto da
solo...! Sia pure tra mille anni!
- Vi sono molti mezzi per mantenere un segreto, - osservai.
Egli mi guardò sorridendo. - Ma, - disse, - a che cosa serve
tormentarsi? Abbiamo poche probabilità di ritrovare la sfera,
mentre là sotto molte cose si vanno preparando. E' la solita
abitudine umana di sperare fino alla morte che ci fa parlare di
ritorno. I nostri guai sono appena cominciati! Ci siamo mostrati
violenti verso questa gente, abbiamo dato loro un saggio delle
nostre qualità; e le nostre sorti sono press'a poco quelle d'una
tigre che, scappata, abbia ucciso un uomo in Hyde Park. La
notizia delle distruzioni da noi compiute deve passare di
galleria in galleria, fino alle parti centrali... Nessun essere
sano di mente, dopo quanto hanno visto di noi, ci lascerebbe
ricondurre la sfera sulla terra.
- Non miglioreremo certo la situazione rimanendo qui.
- Su, dunque, - disse - bisogna separarci. Attaccheremo un
fazzoletto sopra uno di questi alti tronchi, fissandolo
solidamente; con questo segnale come centro, esploreremo il
cratere. Lei andrà verso ovest, avanzando a mezzi cerchi, da
sinistra a destra e viceversa. Procederà dapprima con la sua
ombra a destra fino a che essa si trovi ad angolo retto con la
direzione del punto in cui si trova il fazzoletto; poi farà lo
stesso avendo la sua ombra a sinistra. Io farò altrettanto a
est. Guarderemo in ogni frana, esamineremo ogni cavità della
roccia, faremo ogni sforzo per ritrovare la sfera. Se scorgeremo
i seleniti, ci nasconderemo alla meglio. Per dissetarci, useremo
la neve e, se sentiremo il bisogno di cibo, bisognerà fare tutto
il possibile per uccidere un vitello lunare, mangiando cruda la
sua carne...! Ed ora in cammino...! Ognuno dalla sua parte!
- E se uno di noi ritrovasse la sfera?
- Dovrà ritornarsene al fazzoletto e fare di là dei segnali
all'altro. - E se né l'uno né l'altro...
Cavor si mise ad osservare il sole.
- Continueremo le nostre ricerche, finché la notte e il freddo
non ci arresteranno...
- Supponga che i seleniti abbiano trovata la sfera e l'abbiano
nascosta.
Egli alzò le spalle.
- E se uscissero, - continuai, - per perseguitarci e
riprenderci?
Non rispose nulla.
- Farà bene a portare con sé una sbarra, - consigliai.
Egli scosse la testa e guardò nuovamente la distesa deserta.
- In cammino! - ripeté.
Tuttavia, rimase un istante immobile; poi, rivolgendosi a me con
aria timida, parve esitare.
- "Au revoir"! - disse subito.
Sentii inaspettatamente una strana emozione. Mi vennero in mente
tutte le vessazioni che avevamo potuto farci reciprocamente, e,
in particolar modo, pensai che l'avevo potuto spesso irritare ed
offendere.
«Al diavolo tutto!» pensai. «Avremmo potuto far di peggio! » Ero
sul punto di chiedergli di scambiarci una stretta di mano per
esprimere in qualche modo il mio stato d'animo, allorché, preso
lo slancio, egli si allontanò senz'altro con un salto verso
nord. Parve volare attraverso lo spazio come una foglia morta
portata dal vento... Toccata terra con leggerezza, ripartì.
Rimasi un istante a guardarlo mentre si allontanava; poi,
volgendomi con rammarico verso ovest, mi raccolsi in me stesso
con l'apprensione d'un uomo che stia per saltare nell'acqua
ghiacciata. Scelto un punto in cui giungere, cominciai anch'io
ad esplorare la mia parte di deserto lunare. Caddi molto male su
un masso roccioso; rialzatomi e cercato un altro punto di
partenza, salii sopra una specie di lastra e mi rimisi in
cammino.
Poco dopo cercai di rivedere Cavor, ma egli era scomparso;
soltanto il fazzoletto s'agitava lietamente, bianchissimo, sul
suo promontorio, sotto il sole ardente.
Risolsi, qualunque cosa potesse accadere, di non perdere di
vista il nostro segnale.
19. IL SIGNOR BEDFORD SOLO.
In breve tempo ebbi l'impressione di essere sempre stato solo
sulla luna. Cercai, dapprima con una certa intensità, ma il
caldo era ancora molto forte, e la rarefazione dell'aria mi dava
la sensazione che un cerchio mi stringesse il petto. In breve
arrivai ad un bacino infossato, irto tutt'intorno al bordo, di
alte, brune, asciutte fronde, e mi sedetti alla loro ombra per
riposarmi e rinfrescarmi. Intendevo sostare solo per poco.
Deposi presso di me le sbarre e appoggiai il mento sulle mani.
Con una specie d'indifferente curiosità, osservai che nei punti
dove i licheni disseccati crescevano meno fitti le rocce erano
venate d'oro e che, in certi luoghi, delle bozze gialle, rotonde
e increspate, s'ergevano in mezzo alla vegetazione più bassa.
Quale interesse ciò poteva destare in me, in quel momento? Una
specie di languore si era impadronito del mio corpo e della mia
mente. Disperai un istante di poter ritrovare la sfera in
quell'immenso campo sconvolto. Mi pareva che, tranne il caso di
un eventuale arrivo dei seleniti, non avrei più potuto avere
alcuna ragione di agire; ma mi persuasi che, nonostante la mia
volontà negativa, mi sarei mosso ed avrei agito ancora,
obbedendo così a quell'imperativo irragionevole che spinge
innanzi tutto l'uomo a preservare e difendere la sua vita, per
riservarla spesso ad una morte peggiore in seguito.
Perché mai eravamo venuti sulla luna?
Tale domanda mi si presentò alla mente come un problema
imbarazzante. Qual è dunque la forza ignota che spinge sempre
l'uomo ad abbandonare la felicità e la sicurezza per correre
dietro al mistero, affrontando pericoli e sofferenze e mettendo
in gioco la propria esistenza? Solo lassù, sulla luna,
comprendevo certe cose, che avrei già dovuto sapere: che l'uomo,
cioè, non è soltanto fatto per condurre un'esistenza comoda e
sicura, divertendosi e mangiando bene. Se lo si domanda a
qualcuno, non a semplici parole ma all'atto pratico, ognuno
dimostrerà di saperlo. Eppure, contro il proprio interesse,
contro la propria felicità, ognuno è costantemente trascinato a
fare cose irragionevoli. E' una forza estranea che trascina, a
cui bisogna ubbidire. Ma perché? Perché? Là, seduto, in mezzo a
tutto quell'oro inutile, innanzi a tutte quelle cose nuove per
me, ripensai alla mia vita passata. Presumendo di dover morire,
irrimediabilmente perduto sulla luna, non m'era dato in nessun
modo di vedere quale beneficio avessi tratto dalla mia
esistenza. Mi fu impossibile chiarire questo punto; in ogni modo
mi apparve evidente, più che mai evidente, che io non tendevo
affatto al mio scopo, che in tutta la mia vita non avevo mai, a
dire il vero, ottenuto una finalità che mi fosse propria. Quale
fine, quale disegno stavo perseguendo? Cessando di tormentarmi e
di indagare perché mai eravamo venuti sulla luna, i miei
pensieri si smarrirono in più terribili e oscure ricerche. Per
quale ragione ero venuto al mondo? Perché mai mi era stata
concessa un'esistenza...? E mi persi in riflessioni senza fine...
I miei pensieri divennero vaghi e nebulosi, non seguirono più
una direzione definita. Eppure non mi sentivo afflitto né
spossato; penso, anzi, che sulla luna non si provi né sonno né
fatica. Suppongo però di esser stato fisicamente sfinito e, d'un
tratto, mi addormentai.
Ebbi, così sonnecchiando, un indicibile ristoro. Intanto il sole
discendeva all'orizzonte e l'immenso calore andava diminuendo.
Quando, finalmente, fui ridestato dal mio assopimento da un
clamore lontano, mi sentii di nuovo pronto ad agire. Mi stirai e
mi stropicciai gli occhi. Poi, alzatomi, le membra ancora un po'
irrigidite, mi accinsi subito a riprendere le ricerche. Caricai
sulle spalle le mie sbarre d'oro e m'allontanai dal burrone
delle rocce aurifere.
Il sole, senza dubbio, era più basso e l'aria si era molto
rinfrescata. Secondo i miei calcoli, avevo dormito a lungo. Una
debole nebbia bluastra ondeggiava davanti alla muraglia
occidentale. Saltai su un piccolo rialzo roccioso per osservare
la distesa del cratere. Non vedevo più alcuna traccia di vitelli
lunari né di seleniti; tanto meno di Cavor. Potei però scorgere
in lontananza il mio fazzoletto agitato dalla brezza sopra la
foresta spinosa. Data un'occhiata all'ingiro, saltai su una
specie di belvedere che faceva al caso mio. Continuai ancora ad
inoltrarmi, descrivendo prima un arco di cerchio, ritornando poi
al punto di partenza e formando una serie di mezzelune sempre
più vaste. Era noioso e disperante insieme! L'aria s'era
veramente molto rinfrescata; mi parve che l'ombra della muraglia
occidentale si allargasse. Ogni tanto, mi fermavo esplorando con
lo sguardo la distesa, ma non riuscivo a scoprir traccia né di
Cavor né dei seleniti; i vitelli lunari dovevano essere stati
ricondotti nell'interno, poiché non se ne vedeva più nessuno.
Sempre più vivo sentivo frattanto il desiderio di rivedere
Cavor. Il disco solare si era abbassato, ora, fino a distare
dall'orizzonte non più di un tratto uguale al suo diametro. Mi
sentivo oppresso dall'idea che in breve i seleniti avrebbero
richiuso il loro coperchio e la loro valvola, lasciandoci fuori,
esposti all'inesorabile notte lunare. Non vedevo l'ora di
abbandonare le ricerche, di ritrovare Cavor e di accordarmi con
lui. Capivo bene quanto fosse urgente prendere una pronta
decisione. Non avendo ritrovato la sfera, non ci restava ormai
più tempo di cercarla ancora; una volta richiuse le valvole e
rimasti fuori, saremmo stati perduti. La gran notte dello
spazio, quelle tenebre del vuoto, equivalenti ad una morte
assoluta, sarebbero discese su di noi. E tutto il mio essere
tremava al solo pensiero di una simile prospettiva. Bisognava
nuovamente discendere nelle viscere della luna, fosse pure per
essere uccisi. Ero già assorto nella visione dei nostri corpi
irrigiditi sotto l'azione del freddo, mentre, con un supremo
sforzo, facevamo risuonare di colpi disperati il grande
coperchio del pozzo.
Non pensavo più alla sfera; di null'altro ormai mi preoccupavo
se non di ritrovare Cavor. Ero quasi deciso a rientrare solo
nella luna, piuttosto che cercare il compagno, correndo il
pericolo di far troppo tardi.
Avevo già percorso metà della distanza che mi separava dal
fazzoletto, allorché, inaspettatamente, vidi la sfera!
Potrei quasi dire che essa incontrò me! Giaceva in un anfratto
del suolo, molto più ad ovest della parte nella quale io m'ero
avventurato; i raggi obliqui del sole morente, rifrangendosi
sulla parete di vetro, mi avevano ad un tratto fatto accorgere
della sua presenza con abbaglianti scintillii. Pensai dapprima a
un tranello tesoci dai seleniti; invece era proprio la nostra
sfera !
Alzando le braccia al cielo, gettai un grido che risuonò appena
nella rarefatta atmosfera, e mi diressi a passi da gigante verso
la preziosa salvezza. Calcolato male uno dei miei salti, andai a
finire in un burrone profondo, lussandomi una caviglia; dopo
questo disgraziato incidente, ad ogni salto perdevo l'equilibrio
e ruzzolavo per terra. Ero in uno stato di sovreccitazione
straordinaria, scosso da tremiti violenti, e respiravo a fatica;
tre volte almeno dovetti fermarmi, comprimendomi il petto con le
mani; nonostante l'aria asciutta e rigida, la mia faccia
gocciolava di sudore.
Raggiungere la sfera: questo era il mio pensiero dominante. Più
non esisteva, ormai, la mia inquietudine per Cavor. Un ultimo
salto, e caddi in piedi, le mani aperte e protese verso la palla
di vetro, vanamente tentando di gridare: - Cavor! Eccola!
Ripreso fiato, guardai all'interno attraverso il grosso vetro, e
mi parve che gli oggetti fossero stati sconvolti. Mi abbassai
per vedere più da vicino e tentai di entrare nella sfera; ma
dovetti sollevarla un po' per far passare la testa
nell'apertura. La chiusura era intatta nell'interno; potei
costatare allora che nulla era stato toccato né danneggiato. La
sfera era là, proprio come l'avevamo lasciata, allorché ci
eravamo arrischiati tra la neve. Sul momento, una rapida
ricognizione mi assorbì completamente; mi accorsi poi d'essere
scosso da un tremito violento. Chi potrebbe dire il conforto
provato nel rivedere quel rifugio oscuro, a me tanto familiare?
Mi lasciai realmente scivolare nell'interno e mi sedetti,
alfine, vicino ai nostri bagagli, tremando e guardando
attraverso la parete di vetro la strana landa lunare. Deposte le
sbarre d'oro con cautela, presi un po' di cibo, non perché
avessi realmente fame, ma solo per il fatto d'averlo trovato
sottomano. Pensai quindi che era tempo di uscire per fare a
Cavor i segnali convenuti. Ma non lo feci subito; qualcosa, mio
malgrado, mi tratteneva nella sfera.
Dopo tutto, la nostra scappata finiva assai meglio di quanto
avessi pensato. Avremmo avuto ancora il tempo di procurarci un
po' di quel magico metallo che costituisce la maggior forza
degli uomini. Eh, sì! Era là sotto, a portata di mano; non
rimaneva che abbassarsi per prenderne; la sfera avrebbe
viaggiato bene ugualmente, tanto piena d'oro quanto vuota;
avremmo potuto ripartire, adesso, padroni di noi stessi e del
nostro mondo. Suvvia, dunque...!
Alzatomi, con uno sforzo uscii dalla sfera. Ma, appena fuori,
rabbrividii; l'aria della sera era divenuta freddissima. Mi
trovavo in un crepaccio; prima di saltare su una roccia vicina,
scrutai con molta cura fra le piante che mi attorniavano. Stavo
ripetendo un'altra volta il mio primo passo sulla luna, ma senza
il minimo sforzo, adesso.
La vegetazione era cresciuta rapidamente e altrettanto
rapidamente era morta; anche l'aspetto delle rocce era mutato.
Si potevano tuttavia riconoscere ancora bene il pendio sul quale
avevamo visto germogliare le sementi e la piattaforma da cui
avevamo gettato il nostro primo sguardo sul cratere. La
vegetazione spinosa del pendio, divenuta secca e bruna, era
giunta ad un'altezza di nove metri, proiettando, a perdita
d'occhio, lunghe ombre strane; i piccoli frutti, che pendevano
in grappoli dai rami superiori, erano adesso neri e maturi.
Quelle piante, giunte al loro massimo sviluppo, avevano finito
il loro compito, stavano ormai per dissolversi in frantumi al
sopraggiungere della notte imminente. Quei cactus morenti, che
si erano gonfiati sotto i nostri occhi, erano già da tempo
scoppiati, lanciando le loro spore in ogni angolo. Piccolo ma
prodigioso angolo dell'universo! Punto d'arrivo per gli uomini!
«Un giorno», pensai, «farò mettere una lapide commemorativa in
mezzo a questo burrone.» E pensai anche che quel piccolo mondo
formicolante sotto la crosta lunare sarebbe certamente scattato
in un tumulto furioso, se avesse potuto comprendere tutto il
significato di quel fatale minuto!
Ma, fino allora, non potevano nemmeno sognare l'importanza della
nostra venuta. Altrimenti il cratere sarebbe senza dubbio
risuonato per il rumore dell'inseguimento, anziché essere
tranquillo e silenzioso come la morte! Cercai con gli occhi un
punto dal quale fare dei segnali a Cavor e scorsi, ancora nuda e
sterile, quella punta rocciosa sulla quale, dal luogo in cui
allora io mi trovavo, egli per la prima volta aveva spiccato il
salto. Temetti un momento di allontanarmi troppo dalla sfera,
ma, vergognandomi di tale esitazione, mi slanciai...
Dalla nuova posizione vedevo bene il cratere. Lontano, alla
sommità dell'ombra enorme, il fazzoletto bianco ondeggiava sopra
le piante. Appariva piccolissimo, lontano com'era. Scrutai qua e
là attentamente; Cavor non si vedeva in nessun luogo; eppure mi
sembrava che a quell'ora avrebbe dovuto essere là ad aspettarmi,
ferma restando la nostra intesa. Ma no; nessuna traccia di lui
era visibile.
Restai là, ansioso e attento, facendo con le mani schermo agli
occhi, aspettandomi ad ogni istante di vederlo spuntar fuori; e
ci rimasi a lungo. Volevo chiamare, ma mi ricordai della
rarefazione dell'aria. Mossi un passo indeciso verso la sfera.
Il timore dei seleniti mi rendeva esitante a inalberare una
delle nostre coperte in cima a una pianta vicina. Ispezionando
nuovamente il cratere, ebbi una tale impressione di vuoto
assoluto che ne rimasi agghiacciato.
Tutto restava immobile. I rumori del mondo lunare interno erano
svaniti; ovunque incombeva un silenzio di morte. All'infuori del
debolissimo alitare di una brezza nascente che accarezzava le
piante, nulla si udiva... E quella brezza era glaciale.
Al diavolo Cavor!
Aspirata l'aria a pieni polmoni, misi le mani a imbuto davanti
alla bocca, e con tutta forza chiamai: - Cavor! - Si sarebbe
detta la voce d'un pigmeo che da lontano avesse lanciato un
grido. Bisognava agire senz'altro indugio, se si voleva salvare
Cavor. Guardai il fazzoletto; guardai dietro di me; l'ombra
ingigantiva sul dirupo. Facendo schermo agli occhi con la mano,
fissai il sole; sembrava che si abbassasse nel cielo d'attimo in
attimo. Levatomi il panciotto, lo gettai come segnale sulla cima
di una pianta; poi mi incamminai in linea retta verso il
fazzoletto. Questo rimaneva a una distanza di circa tre
chilometri che si sarebbero potuti superare con qualche
centinaio di salti. Ho già detto che, saltando, sembrava di
rimaner sospesi sopra il suolo. Ad ogni salto, cercavo Cavor,
chiedendomi per quale ragione si fosse nascosto. Ad ogni
slancio, sentivo che il sole scendeva dietro di me e che
l'oscurità stava per raggiungermi. Ogni volta che toccavo terra
ero tentato di tornare indietro.
Un ultimo salto, e mi trovai in un incavo del terreno, sotto la
roccia sulla quale si ergeva il nostro segnale; ancora uno
slancio, e lo raggiunsi. Alzandomi sulla punta dei piedi quanto
più potei, scrutai il vasto deserto fino alla linea delle ombre
che rapidamente avanzavano. Lontano lontano, al termine di un
gran declivio, si apriva la galleria dalla quale eravamo
fuggiti; la mia ombra si allungava, adesso, fantasticamente, fin
quasi a toccarne l'ingresso.
In mezzo a quel silenzio, non un rumore, non una traccia di
Cavor; solo il fremito della vegetazione e l'oscurità che
avanzava sempre più. D'un tratto, fui scosso da un brivido
violento. - Ca...! - cominciai; ma dovetti ancora una volta
costatare l'inutilità della voce umana in quell'aria rarefatta.
Il silenzio...! Il silenzio della morte!
Fu allora che il mio sguardo scoprì qualcosa... un piccolo
oggetto che giaceva a terra a cinquanta metri circa da me, più
in basso, in mezzo a rami contorti e spezzati. Che cos'era,
dunque? Lo sapevo bene; ma, per qualche ragione non confessata,
volevo ignorarlo.
Mi avvicinai. Era il berretto, dal quale Cavor non si separava
mai. Restai in piedi a guardarlo, senza osare raccoglierlo.
Mi accorsi, allora, che le piante vicine erano state calpestate
e schiacciate con forza. Ancora esitante, feci un passo e
raccolsi il berretto.
Poi esaminai i rami spezzati e calpestati. C'erano, qua e là,
piccole macchie di una sostanza nerastra che non osavo toccare.
Pochi passi lontano, spinto forse dalla brezza, si sollevò
qualcosa di bianco.
Era un pezzo di carta, gualcito come fosse stato stretto in
mano. Lo raccolsi; aveva delle macchie rossastre; quasi subito,
vi scoprii deboli segni a matita. Lo aprii, convulso,
distendendolo: era coperto di una scrittura ineguale e
interrotta, finendo con un segno brusco che aveva rigato tutta
la carta.
Mi accinsi con ansia a decifrare il documento.
Cominciava in modo abbastanza chiaro: «Sono stato ferito al
ginocchio - credo che la mia rotula sia rimasta offesa - non
posso correre né arrampicarmi».
Poi continuava in modo meno leggibile.
«Essi mi perseguitano da un bel po' ed è soltanto questione
di...» La parola «tempo» sembrava fosse stata scritta e poi
cancellata per sostituirla con un'altra completamente
indecifrabile. «... prima che mi prendano. Vanno esplorando i
dintorni.»
A questo punto la scrittura diveniva convulsa. «Li sento da
qui...» Fu tutto quello che potei indovinare. Seguivano due o
tre frasi del tutto illeggibili; infine, un certo numero di
parole ben distinte. «... Una specie di seleniti completamente
diversi che sembrano digerire i...» Di nuovo la scrittura
diveniva confusa per la fretta.
«Hanno la calotta cranica più grande - un corpo più alto e
slanciato - gambe cortissime. Camminando, producono rumori
tenuissimi; vanno e vengono come se seguissero un piano...
«Sebbene io sia qui ferito ed impotente, il loro aspetto mi dà
bene a sperare.» Erano parole tipicamente sue. «Non hanno
lanciato nessun proiettile, né hanno tentato di ferirmi. Ho
intenzione...»
Seguiva quel segno brusco che rigava la carta; dietro e sui lati
c'erano macchie brune... sangue!
Mentre rimanevo là, stupefatto e perplesso, con tale
sbalorditiva reliquia in mano, qualcosa di molto dolce,
leggerissimo e gelido, mi toccò un istante la mano e si sciolse;
poi un altro piccolo punto bianco mi passò dinanzi agli occhi.
Erano minuscoli fiocchi di neve, i primi fiocchi che
annunciavano la notte.
Sobbalzando, alzai il capo: il cielo, divenuto scuro quasi fino
a sembrare nero, s'andava coprendo di una moltitudine crescente
di stelle vigili e fredde. Volsi lo sguardo ad est, dove il
chiarore aveva preso una tinta bronzea; ad ovest, il sole
perdeva, adesso, il suo ardore e il suo splendore sotto folte
cortine bianche e sembrava celarsi sulla cima della muraglia del
cratere, lasciando tutto nell'oscurità, mentre i tronchi delle
piante e le rocce sconvolte si ergevano contro il suo disco in
un disordine fantastico di forme nere. In quel gran lago di
tenebre, verso ovest, un'immensa ghirlanda di nebbia si
abbassava; soffiava un vento gelido. D'un tratto, una raffica di
neve mi investì; quanto mi era intorno non fu più che un'unica
confusione grigia.
Sentii allora, non più rimbombante e penetrante come la prima
volta, ma debole e vago come una voce morente, quel rumore,
quello stesso rumore che aveva salutato la venuta del giorno.
Bum... bum... bum...
E, propagandosi attraverso il cratere, sembrò palpitare
all'unisono con le grandi stelle, mentre il rosso sanguigno del
disco solare continuava a scomparire dietro l'alta muraglia.
Bum... bum... bum...
Che cos'era successo a Cavor? In mezzo a quel frastuono,
rimanevo esitante, perplesso. Improvvisamente ogni rumore cessò.
Infine, l'orificio aperto del pozzo, in fondo al pendio, si
chiuse come un occhio.
Ero definitivamente solo.
Intorno a me, serrandomi e stringendomi, nulla più esisteva se
non l'eternità, ciò che fu prima del principio e che trionferà
sulla fine, quel vuoto enorme in cui la luce, la vita e l'essere
non sono più che il sottile e fuggevole splendore d'una stella
cadente; il freddo, la pace, il silenzio, la notte dello spazio,
la notte senza fine ed ultima!
Il senso di solitudine e di desolazione che mi aveva invaso fu
sostituito da quello della presenza oppressiva di esseri
misteriosi che si chinavano su di me, fin quasi a toccarmi.
- No! - gridai. - No! Non ancora! Aspettate! Aspettate! Oh!
Aspettate!
La mia voce salì in un grido acuto... Gettato a terra il foglio
spiegazzato, mi arrampicai sulla cresta per ritrovare, di là, la
mia direzione; poi, con tutta l'energia di cui ero ancora
capace, cominciai a saltare verso il segnale da me lasciato,
incerto e lontano, sul margine estremo dell'ombra.
I miei salti si susseguivano rapidamente, ma ognuno di essi
durava un secolo...
Innanzi a me, il pallido segmento del sole diminuiva
continuamente, l'ombra avanzava sempre di più, minacciando di
conquistare la sfera prima che avessi potuto raggiungerla. Mi
separava ancora una distanza di tre chilometri, che con un
centinaio di grandi salti avrei potuto superare; l'aria si
rarefaceva come sotto l'aspirazione di una pompa pneumatica e il
freddo mi paralizzava le membra. Ma continuavo i miei salti. Se
era scritto che dovessi morire, sarei almeno morto saltando. A
più riprese, il piede mi scivolò sullo strato di neve che andava
aumentando: il mio slancio restò così diminuito e il salto
accorciato. Andai, una volta, a cadere in mezzo a dei cespugli
che si spezzarono, volando via in frammenti polverosi; un'altra
capitombolai in un crepaccio, da cui mi rialzai contuso e
sanguinante, senza più sapermi orizzontare.
Ma incidenti siffatti erano inezie a paragone di quegli
intervalli, di quelle orribili pause angosciose durante le quali
volavo verso l'incubo crescente della notte tetra... La mia
respirazione diveniva pesante; si sarebbe detto che delle lame
di coltello mi trapassassero ad ogni volo i polmoni. I battiti
del cuore mi risuonavano dolorosamente nel cervello. «Potrò
raggiungerla? Oh Dio! Potrò raggiungerla?»
Tutto il mio essere era invaso dalla più profonda angoscia.
«Fermati...! Fermati!», urlavano le mie sofferenze e la mia
disperazione...
Quanto più i miei sforzi erano grandi, tanto più sentivo che per
me era impossibile raggiungere la meta. Ero intorpidito, ormai,
e traballavo; mi ferivo, eppure non sanguinavo.
Finalmente la vidi.
Caddi in ginocchio. I polmoni mi strappavano dei lamenti...
M'arrampicai; la brina mi si accumulava sulle labbra, dei
ghiaccioli mi pendevano dai baffi. Gelavo in quell'atmosfera
glaciale.
Non ero più che a una dozzina di metri dalla sfera. Gli occhi mi
si offuscarono...
«Fermati!», gridava la disperazione. «Fermati!»
Avevo toccato la sfera. Mi fermai.
«Troppo tardi!», urlò la disperazione. «Fermati!»
Con un ultimo sforzo mi protesi. Quando giunsi al portello ero
stupefatto e mezzo morto. Intorno a me, non c'era che neve. Mi
lasciai cadere nell'interno, dove, per fortuna, rimaneva ancora
un po' d'aria tiepida.
I fiocchi di neve, i fiocchi d'aria congelata, turbinavano
intorno a me. Con le mani ghiacciate mi accinsi a riavvitare il
portello. Singhiozzavo...
- Voglio! - balbettai, mentre i denti mi battevano. Poi, con
le dita tanto rigide che parevano rompersi, premetti i bottoni
che chiudevano le tende di cavorite.
Mentre tastavo qua e là cercando di manovrarle, poiché era la
prima volta che toccavo i bottoni, vidi vagamente, attraverso il
ghiaccio che diveniva già spesso, le ultime fiamme purpuree del
sole, guizzare, palpitare tra le raffiche gelide, mentre le
forme nere delle piante mutavano aspetto, piegandosi e
rompendosi sotto il peso della neve accumulata. I fiocchi
turbinavano più fitti, neri contro la luce. Che cosa sarebbe
successo se le tende non avessero più obbedito alle molle?
Ma, per fortuna, sentii sotto la pressione della mano uno
scricchiolio e, in meno di un istante, quell'ultima visione del
mondo lunare disparve ai miei occhi. Ero chiuso nel silenzio e
nelle tenebre della sfera interplanetaria.
20. IL SIGNOR BEDFORD NELLO SPAZIO INFINITO.
Mi sentivo come se fossi stato ucciso. In verità, potrei
immaginare che cosa prova un uomo bruscamente e violentemente
ucciso giacché ho provato tale esperienza. Per un momento, fui
all'agonia e ne rimasi terrorizzato: il nuovo buio e il
silenzio, né luce, né vita, né sole o luna o stelle, il vuoto
infinito. Benché la cosa fosse avvenuta per un mio atto
volontario, benché avessi già provato la stessa cosa in
compagnia di Cavor, mi sentivo sorpreso, stupito e schiacciato.
Mi sembrava di trovarmi in un'enorme oscurità. Cessai di
appoggiare le dita sui bottoni, ondeggiai come annichilito;
finalmente, adagio adagio, senza urti, giunsi vicino al
bagaglio, alla catena e alle sbarre d'oro, verso il nostro
comune centro di gravità
Non so davvero quanto tempo impiegai per arrivar fin là. Nella
sfera, naturalmente, più ancora che sulla luna, il senso
terrestre del tempo era svanito. A contatto con il bagaglio, fu
come se mi fossi svegliato da un sogno.
Compresi subito che, volendo rimanere desto e vivo, avrei avuto
bisogno di luce, avrei dovuto aprire una finestra in modo da
permettere ai miei occhi di posarsi su qualche cosa. Inoltre ero
intirizzito; data al bagaglio una spinta che mi ricacciò contro
il vetro e afferrata una delle sottili corde interne, mi
trascinai fino all'orlo dell'apertura. Potei, di là, vedere
tanto da ritrovare gl'interruttori della luce e le leve delle
tende; preso un nuovo slancio, passai vicino al bagaglio, urtai
contro un oggetto inconsistente, agitato anch'esso qua e là,
appoggiai la mano sulla corda vicino alle leve e le raggiunsi.
Accesa anzitutto la piccola lampada elettrica per veder contro
quale oggetto avevo urtato, costatai che il vecchio numero del
«Lloyd's News» era scivolato fuori del pacco e ondeggiava nel
vuoto. Tale costatazione valse a ricondurmi dall'infinito alle
mie dimensioni! Sul momento, non potei fare a meno di ridere; ma
il riso mi provocò tali dolori ai polmoni, che pensai di
ricorrere alla riserva d'aria contenuta nel cilindro
dell'ossigeno. Ciò fatto, accesi il fornello e mangiai qualcosa.
M'accinsi poi a manovrare con ogni possibile delicatezza le
tendine di cavorite, per vedere se potevo in qualche modo
indovinare come viaggiava la sfera; ma dovetti subito richiudere
la prima tendina che s'era aperta, tanto abbagliante era lo
splendore del sole dal quale ero rimasto improvvisamente
colpito. Dopo un momento di riflessione, capii che dovevano
essere alzate le tendine che si trovavano ad angolo retto con
quella da me già sollevata. Vidi allora il globo immenso della
luna e, dietro a quello, il minuscolo disco della terra. Rimasi
stupefatto nel costatare che mi trovavo già molto lontano dalla
luna; avevo, è vero, calcolato non solo che questa volta avrei
sentito poco o nulla la violenta spinta che l'atmosfera ci aveva
dato al momento di partire, ma anche lo sforzo tangenziale della
rotazione della luna sarebbe stato ventotto volte minore di
quello della terra. Pensavo quindi di rimanere sopra il cratere,
nei confini della notte lunare; tutto ciò, invece, non era più
che una parte del contorno di quel pallido spicchio di luna che
splendeva nel cielo.
E Cavor...? Era già divenuto una quantità infinitesimale.
Tentai d'immaginare quel che gli poteva essere capitato, ma non
mi fu possibile, allora, pensare ad altro che alla sua morte,
certo già avvenuta. Me lo figuravo pesto e contuso, giacere in
fondo a un'interminabile cascata di fluido azzurro, mentre,
intorno a lui, quegli stupidi insetti di seleniti chinavano la
loro testa senza faccia...
Al contatto ispiratore di quel numero di giornale, ridivenni per
un po' un uomo pratico. Capivo chiaramente che era
indispensabile ritornare sulla terra; eppure, per quel che
potevo intuire, me ne allontanavo. Qualunque cosa fosse capitata
a Cavor, ammesso che vivesse ancora - e ciò mi sembrava
impossibile dopo aver trovato il suo biglietto macchiato di
sangue - era chiaro che io mi trovavo nell'impossibilità di
corrergli in aiuto. Egli era là, vivo o morto, celato in un
cumulo di tenebre impenetrabili e doveva rimanerci per lo meno
fino a quando io non avessi fatto ritorno sulla luna munito
d'armi e di uomini. Ma l'avrei fatto veramente? Avevo in mente
di ritornare sulla terra e, a seconda delle più mature
riflessioni che mi avrebbero risolto in un senso o nell'altro,
mostrare e spiegare la sfera a poche persone discrete, per poter
poi agire con loro di comune accordo, oppure tenere per me il
segreto, vendere l'oro, procurarmi delle armi, delle provviste,
un aiuto e, così equipaggiato, ripartire per andare a trattare
da pari a pari con quei fragili abitanti lunari, liberare Cavor
(se viveva ancora) e, comunque, procurarmi se non altro una
quantità d'oro sufficiente per stabilire su una base più solida
la mia futura esistenza. Ma questo significava guardar le cose
un po' troppo da lontano; prima di tutto, avrei dovuto
raggiungere la terra!
Mi occupai, pertanto, del modo in cui avrei dovuto manovrare per
far ritorno sul mio pianeta.
Dopo lunghe riflessioni, vidi che sarebbe stato meglio scendere
verso la luna quanto più possibile per poi riprendere lo
slancio, chiudere le finestre e passare dall'altra parte del
globo lunare. Una volta là, avrei potuto aprire le tendine dalla
parte della terra e muover così in direzione del nostro pianeta.
Mi sarebbe stato tuttavia impossibile affermare e dimostrare
che, in tal modo, avrei potuto toccar terra, senza essere invece
trascinato in una rotazione iperbolica o parabolica. Ebbi, più
tardi, una felice ispirazione e, aperte alcune finestre dalla
parte della luna, che era apparsa nel cielo davanti alla terra,
modificai il mio cammino in modo da dirigermi in linea retta
verso quest'ultima; senza una tale manovra, le sarei invece
passato dietro. Sulla base di questi problemi, mi abbandonai ad
una quantità di calcoli molto complicati; ma io non sono un
matematico e son persuaso di dovere soltanto alla mia buona
stella, e non alle mie scarse cognizioni, d'esser potuto
ritornare sulla terra. Se avessi saputo prima, come appresi poi,
tutte le probabilità matematiche che avevo contro di me, dubito
assai che avrei toccato i bottoni per tentare di orientarmi.
Ponendo in esecuzione il piano di manovra ideato, aprii tutte le
finestre che davano sulla luna; lo sforzo mi sollevò per un
istante di circa un metro per aria, facendomi rimaner sospeso
nel modo più strano. Tornai allora a rannicchiarmi contro la
parete di vetro, aspettando che il disco avesse raggiunto
dimensioni sufficienti e che mi fossi avvicinato abbastanza ad
esso. «Chiuderò allora le finestre», avevo pensato, «passerò
dietro la luna con la velocità così acquistata - a meno che
vada a schiacciarmi sulla sua superficie - e mi porrò
finalmente in cammino verso la terra.»
E così feci.
Quando fui persuaso che la velocità fosse sufficiente, d'un sol
colpo feci scomparire ai miei occhi il disco lunare. In quello
stato d'animo - adesso lo ricordo bene - stranamente libero da
ogni ansietà e da ogni paura, mi misi a posto per incominciare,
nella piccola sfera librata attraverso lo spazio infinito, una
veglia che avrebbe dovuto durare fino al mio arrivo sulla terra.
Il fornello aveva dato alla sfera un calore tollerabile; l'aria
era stata rinfrescata dall'ossigeno, e, tolta la leggera
congestione che non mi abbandonò mai finché durò la mia assenza
dalla terra, le mie condizioni fisiche erano eccellenti. Avevo
spento la luce, nella paura che poi mi venisse a mancare, e,
nell'oscurità in cui mi trovavo, vedevo sopra il mio capo il
chiarore della terra e lo scintillio delle stelle. Tutto era
così calmo e silenzioso, che avrei potuto illudermi d'essere la
sola creatura vivente nell'universo intero. Cosa invece
abbastanza strana, non provavo alcun senso di solitudine o di
paura; proprio nulla di diverso da ciò che avrei potuto provare
stando sdraiato sul mio letto, in casa mia. E ciò mi sembra
ancora più strano, quando penso che, durante le ultime ore
passate nel cratere, la sensazione del mio assoluto isolamento
era stata per me una vera agonia. Per quanto possa sembrare
incredibile, il tempo che rimasi nello spazio non è
assolutamente paragonabile ad altri periodi della mia esistenza.
Mi sembrava, talvolta, che durasse incommensurabili eternità,
come se io fossi una divinità indiana seduta sopra una foglia di
loto; talaltra, invece, mi pareva che si verificasse un arresto
momentaneo nel mio viaggio dalla luna alla terra. In realtà,
trascorsero parecchie settimane del nostro tempo terrestre. Ma
in questo periodo, almeno, l'avevo finita una buona volta con
l'inquietudine e l'ansietà, con la fame e lo spavento.
Ondeggiavo nella sfera, ripensando con uno strano senso di
distacco a tutto quanto avevamo passato, io e Cavor, a tutta la
mia vita, ai moventi delle mie azioni e ai segreti risultati
della mia esistenza. Mi sembrava, fluttuando così in mezzo alle
stelle, di diventar sempre più grande, di perdere ogni senso del
moto, e l'impressione della piccolezza della terra e della
piccolezza ancora maggiore della mia vita su di essa era
implicita nei miei pensieri.
Non pretendo davvero di spiegare tutte le idee che mi passarono
per il capo; senza dubbio, esse derivavano, più o meno
direttamente, dalle strane condizioni fisiche nelle quali
vivevo. Le riporto qui semplicemente, per quel che valgono,
senza commenti. Ero continuamente portato a dubitare della mia
identità. Mi dissociavo da Bedford, se così posso esprimermi;
consideravo Bedford come una cosa banale e accidentale cui mi
ero trovato unito. Vedevo Bedford sotto molti aspetti, come un
asino o una povera bestia qualsiasi, mentre fino allora ero
stato portato a considerarlo, con tranquillo orgoglio, come un
individuo energico e coraggioso. Lo vedevo non solo come un
asino, ma anche come il discendente di parecchie generazioni di
asini. Passavo in rivista la sua fanciullezza, la sua
adolescenza, il suo primo palpito d'amore, press'a poco come si
esaminerebbe l'andare e venire d'una formica sulla sabbia... Con
mio gran rammarico, ben poca cosa ricordo di quel periodo di
lucidità e dubito molto di poter ritrovar mai la completa
soddisfazione dei giorni passati. Ma, allora, la cosa non era
affatto penosa, poiché io avevo la straordinaria persuasione di
non essere né Bedford né nessun altro, ma solamente uno spirito
librato nella perfetta serenità dello spazio. Perché mai
crucciarmi delle insufficienze di quel Bedford? Io non ero
responsabile né di esse né di lui.
Per un po' lottai contro quell'illusione realmente grottesca.
Cercavo di chiamare in mio soccorso il ricordo di fatti
importanti, di dolci ed intense emozioni, sentivo che, se avessi
potuto riprovare la scossa autentica di una vera sensazione,
quella crescente separazione dal mio io avrebbe avuto fine. Ma
non ci riuscii. Vedevo ancora Bedford percorrere, a passo
affrettato, lo stretto marciapiede di Chancery Lane, il cappello
indietro, le falde del soprabito al vento, pensando agli esami
che l'attendevano. Lo vedevo far giri, ora urtando ora salutando
altre piccole creature simili a lui in quella via formicolante.
Ero io quello? Vedevo Bedford, la stessa sera, nel salotto d'una
certa signora; sulla tavola, vicino a lui, il suo cappello che
aveva proprio un gran bisogno d'un colpo di spazzola e il povero
giovane tutto in lacrime. Ero io quello? Lo vedevo in compagnia
di quella signora, in atteggiamenti diversi e sopraffatto da
diverse emozioni... Non m'ero mai sentito così diviso da me
stesso. Lo vedevo, sempre affaccendato, correre verso Lympne per
scrivere un dramma e imbattersi in Cavor; poi, in maniche di
camicia, lavorare alla costruzione della sfera e scappare a
Canterbury per lo spavento di imbarcarsi... Ero io quello? Non
potevo crederci!
Volevo provare a me stesso che ero vittima d'una allucinazione
dovuta alla solitudine e al fatto che avevo perduto il mio peso
ed ogni senso di resistenza. Mi sforzai di ricuperare questi
sensi, lanciandomi contro la parete della sfera, pizzicandomi,
percuotendomi forte. Tra l'altro, accesi la luce, presi la copia
del «Lloyd's News» e rilessi quelle inserzioni così convincenti
e reali a proposito d'una bicicletta che era ancora quasi nuova,
di un signore che aveva dei capitali e di una rispettabile
signora in miseria che vendeva i suoi regali di nozze. Senza
dubbio, quella gente esisteva in qualche luogo. «Ecco il tuo
mondo!», pensavo, «e tu sei Bedford; tu ritorni a vivere in
mezzo a cose di questo genere per tutto il resto della tua
vita!» Ma dentro di me i dubbi continuavano ad agitarsi. «Non
sei tu che leggi, è Bedford; ma tu non sei Bedford, sei tu! E'
qui che incomincia il tuo errore.»
- Al diavolo! - finii per gridare. - Se non sono Bedford, chi
sono, dunque?
Ma, così facendo, non sorgeva alcuna luce, nonostante le strane
fantasie che mi attraversavano la mente e i dubbi bizzarri e
lontani, come ombre che si scorgano in distanza... Immaginate!
Pensavo d'essere realmente qualcosa che si trovi, non solo del
tutto fuori del nostro mondo, ma di tutti i mondi, fuori dello
spazio e del tempo, e che quel povero Bedford non fosse
null'altro che un buco di serratura dal quale io guardavo la
vita!
Bedford! Nonostante tutte quelle negazioni, rimanevo certamente,
in modo indissolubile, legato a lui, e sapevo bene che,
qualunque cosa io fossi e dovunque andassi, ero condannato a
subire i suoi desideri, a condividere le sue gioie e i suoi
dolori, sino alla fine della sua vita. E dopo la morte di
Bedford... che cosa sarei divenuto?
Ma basta con questa fase tanto singolare delle mie esperienze!
Le ho narrate soltanto per dimostrare come l'isolamento e la
separazione dal nostro pianeta possano influire non solo sulle
funzioni organiche del nostro corpo, ma anche sul sistema
cerebrale, provocando disturbi strani ed inattesi. Durante la
maggior parte di quel viaggio nello spazio io pensavo a cose
immateriali, del genere di quelle espresse; restavo diviso da me
stesso ed insensibile, megalomane rannuvolato dell'immensità. Il
mondo verso il quale ritornavo, come le caverne illuminate dal
chiarore bluastro della luna, le teste munite d'elmo dei
seleniti, le loro macchine gigantesche e prodigiose, il destino
di Cavor prigioniero e impotente lassù, tutto ciò mi sembrava
infinitamente piccolo e quanto mai insignificante.
Avvertii infine l'attrazione della terra sul mio corpo e questa
sensazione mi ricondusse alla vita reale degli uomini. In
seguito, sempre più mi persuasi che io ero proprio Bedford, di
ritorno, dopo sorprendenti avventure, verso il mondo terrestre
con una vita che molto probabilmente avrei perduta durante il
ritorno medesimo. E fu per ciò che mi sentii in dovere di
studiar bene in quali condizioni sarebbe stato più opportuno
cadere sulla terra.
21. Il SIGNOR BEDFORD ATTERRA A LITTLESTONE.
Volavo pressappoco parallelamente alla superficie della terra
quando entrai nello strato più alto dell'atmosfera. La
temperatura della sfera cominciò immediatamente ad aumentare. Mi
resi conto che mi conveniva affrettare la discesa. Al di sotto
di me, in lontananza, in un crepuscolo oscuro, si estendeva un
largo tratto di mare. Aprii tutte le finestre che potei e caddi
dalla luce del sole alla sera, e dalla sera alla notte. La terra
si faceva più grande, sempre più grande, nascondendo le stelle;
l'argenteo e traslucido velo di nubi che la avvolgeva,
illuminato dagli astri, si protendeva per catturarmi.
Finalmente, il nostro mondo mi apparve non più sferico ma piatto
e, poco dopo, concavo. Non fu più un pianeta nel cielo, ma il
mondo... il mondo dell'uomo. Chiusi tutte le finestre che davano
sulla terra, meno una, che lasciai aperta a metà per poter
vedere, e subito mi sentii trascinare con crescente rapidità. Il
mare si allargava; era così vicino, ormai, che potevo vedere il
nero scintillio delle onde precipitarmisi incontro. Chiusa
l'ultima tendina, mi sedetti agitando, mordendomi le mani,
nell'attesa del colpo...
La sfera piombò sulla superficie delle onde, lanciando dei getti
enormi. L'acqua dovette schizzare certamente a centinaia di
metri d'altezza. Nell'istante stesso dell'urto, aprii tutte le
tende di cavorite. Sprofondavo, sì... ma sempre più lentamente;
avvertii sotto i piedi la pressione dell'acqua contro la parete
e risalii alla superficie come una palla di gomma. Mi trovai,
alla fine, che ondeggiavo e galleggiavo sulla superficie delle
acque... Il mio viaggio nello spazio era finito.
La notte era scura e il cielo coperto di nubi. Due punti gialli,
in lontananza, indicavano una nave in rotta e, più vicino, un
raggio rosso andava e veniva. Se la corrente elettrica che
alimentava la mia lampada non si fosse esaurita, avrei potuto
esser raccolto quella notte stessa. Una stanchezza indicibile
cominciava a vincermi, eppure mi sentivo straordinariamente
eccitato; provai per un istante un desiderio furioso e
impaziente che il mio viaggio avesse termine.
Ma, calmata in breve ogni agitazione, restai, le mani sulle
ginocchia, ad osservare in distanza quella luce rossa. Il raggio
oscillava, su e giù, senza mai fermarsi. Compresi che avrei
dovuto passare ancora almeno tutta quella notte nella sfera; mi
sentivo infinitamente stanco e invaso da un senso di pesantezza
insostenibile; in breve, il sonno mi vinse.
Qualcosa di diverso nel ritmo dei miei movimenti mi svegliò.
Guardando attraverso la parete di vetro, costatai che ero giunto
a toccar terra su un gran banco di sabbia. Mi sembrò di vedere
in lontananza alberi e case e al largo, in mare, la sagoma
deformata d'una nave, quasi sospesa tra cielo e acqua.
Con uno sforzo, mi alzai. Unico mio desiderio era quello di
uscire dalla mia prigione. Il portello d'uscita si trovava nella
parte superiore della sfera; a poco a poco, tenendomi saldo a un
sostegno, riuscii ad aprirlo. L'aria ancora una volta penetrò
sibilando nell'interno, con lo stesso sibilo con il quale n'era
sfuggita. Ma, questa volta, non attesi davvero che la pressione
interna e l'esterna si fossero equilibrate. Un istante dopo,
lasciavo cadere il portello e potevo finalmente rivedere sopra
la mia testa, grande e libero, il vecchio cielo familiare della
terra.
L'aria mi entrò così violentemente nei polmoni che mi tolse il
respiro. Abbandonando il sostegno, gettai un grido, portai le
mani al petto e mi sedetti. Per alcuni minuti sentii dei dolori
terribili. Potei poi respirare più ampiamente, rialzarmi infine
e muovermi. Volli far passare il corpo dall'apertura, ma in
quell'istante la sfera traballò. Si sarebbe detto che qualcuno
mi avesse tirato giù per la testa e subito mi ritrassi per non
cadere nell'acqua. Dopo varie oscillazioni e vari sforzi,
riuscii a scivolare sulla sabbia ancora lambita dalle onde della
bassa marea.
Non tentai nemmeno di alzarmi, perché mi sembrò che il corpo si
fosse improvvisamente trasformato in piombo. La nostra madre
terra aveva messo nuovamente la sua mano pesante su di me, senza
cavorite come intermediaria! E mi distesi dove mi trovavo, senza
preoccuparmi affatto delle onde che mi bagnavano i piedi.
Era l'alba; un'alba grigia, piuttosto nuvolosa, tale, tuttavia,
da lasciar trasparire qua e là lunghe strisce di grigio
verdastro. Innanzi a me, una nave ancorata appariva come una
pallida macchia leggermente giallastra. Le onde venivano a
incresparsi sulla sabbia. In lontananza, verso destra, la costa
si curvava, popolata di piccole case; spiccava, alto
sull'orizzonte, un faro, sopra una punta di terra. Una distesa
di sabbia uniforme avanzava verso l'interno, interrotta qua e là
da qualche stagno, e finiva, a un chilometro e mezzo circa, in
una striscia sottile, densa di cespugli. A nordest, una plaga
isolata emergeva con alcuni gruppi di case e di villini; erano
quelle le cose più alte ch'io vedessi, folte macchie nere contro
il cielo rischiarato dall'aurora. Quali strane creature avevano
potuto erigere delle costruzioni verticali siffatte in uno
spazio così grande? Sembravano frammenti di città sperduti in un
deserto.
Rimasi là a lungo, sbadigliando e stropicciandomi gli occhi.
Tentai infine di rialzarmi. Mi pareva di sollevare un peso
enorme; riuscii tuttavia a riprendere il mio equilibrio.
Fissai le cose lontane. Per la prima volta, dal nostro digiuno
nel cratere, mi venne fatto di pensare a cibi terrestri.
- Prosciutto! - mormorai, - uova... buon pane abbrustolito...
buon caffè...! Ma come diavolo farò a trasportare tutto il mio
bagaglio a Lympne? Mi chiesi dove fossi; senza dubbio, mi
trovavo su una costa orientale; prima di cader giù, avevo
riconosciuto l'Europa.
D'un tratto, sentii dei passi sulla sabbia; un uomo piccolo,
dalla faccia rotonda e dall'aria benevola, vestito di flanella,
con un asciugamano attorno al collo e un costume da bagno sotto
il braccio, apparve poco lontano sulla spiaggia. Compresi subito
che dovevo trovarmi in Inghilterra. L'uomo guardava ora la sfera
ora me con intensa meraviglia. Si fece avanti. Certo, io dovevo
aver l'aspetto di un feroce selvaggio, sudicio, scarmigliato,
lacero in modo indescrivibile... Ma come avrei potuto pensare a
ciò in quel momento? Egli si fermò alla distanza d'una ventina
di metri.
- Ehi! laggiù...! - fece in tono incerto.
- Ehi! - feci eco io.
Rassicurato dalla mia voce, si avvicinò di qualche passo.
- Che cosa può essere quell'affare lì? - domandò, indicandomi
la sfera.
- Può dirmi dove sono? - chiesi a mia volta.
- A Littlestone, - rispose, mostrando con l'indice le case;
laggiù c'è Dungeness. E' appena arrivato? Che cos'è quell'affare
che ha lì? Un nuovo genere di macchina?
- Già.
- E si è arenato? E' naufragato, oppure...? E che cos'è questa
faccenda?
Riflettei rapidamente, tentando di farmi un'idea dell'uomo che
si avvicinava ancora.
- Perbacco! - egli esclamò - ha dovuto passare un brutto
momento! - Credevo... In fede mia... Ma in quale punto è
naufragato? E questa macchina è un apparecchio di salvataggio?
Risolsi lì per lì di confermare quella spiegazione e gli risposi
con alcune frasi vaghe. - Ho bisogno di aiuto, - continuai con
voce rauca. - Vorrei trasportare diverse cose che non posso
abbandonare qui. - In quel momento scorsi altri tre giovani
dall'aspetto simpatico, muniti anch'essi di asciugamani;
portavano in testa dei cappelli di paglia e scendevano dalla
nostra parte, evidentemente il luogo prescelto al mattino dai
bagnanti di Littlestone.
- Di aiuto? - chiese il mio interlocutore. - E' presto fatto!
- E, così dicendo, fece dei gesti affrettati per indicare la sua
buona volontà di venirmi in aiuto. - Che cosa desidera che
faccia? - Si volse, agitò le braccia. I tre giovani
affrettarono il passo; in breve, tutti e quattro mi
attorniarono, tempestandomi di domande, alle quali non ero
affatto disposto a rispondere.
- Vi racconterò tutto più tardi, - interruppi. - Muoio dalla
fame e mi sento debolissimo.
- Venga in albergo, - disse l'omino dalla faccia rotonda. Uno
di noi resterà qui a custodire la sua macchina.
Esitavo. - Non è possibile... In questa sfera vi sono due
grandi sbarre d'oro.
Si scambiarono alcuni sguardi increduli e mi osservarono con
maggior attenzione. Tornato alla sfera e introdottomi
nell'interno, misi subito loro dinanzi la catena spezzata e le
sbarre dei seleniti. Se non fossi stato così stanco e
preoccupato, sarei scoppiato in una risata alla loro sorpresa.
Si sarebbero detti dei gattini intorno a una lumaca! Non
sapevano che cosa fare del mio bagaglio. L'uomo più piccolo si
abbassò, sollevò una delle sbarre e la lasciò ricadere con una
specie di grugnito. Tutti l'imitarono.
- E' ottone o oro? - chiese uno.
- Oh! E' oro, - disse l'altro.
- Certamente è oro, - confermò il terzo.
E tutti e tre tornarono a esaminarmi bene, sempre più
meravigliati, guardando anche la nave all'ancora.
- Ma, infine! - esclamò l'omino, - dove l'ha preso?
Ero troppo stanco per inventare una frottola.
- L'ho preso sulla luna.
Si guardarono fra loro sbalorditi.
- Sentite, - dissi, - non ho voglia di mettermi a discutere o
a dare spiegazioni. Aiutatemi piuttosto a portare questi pezzi
d'oro fino all'albergo. Ritengo che, con qualche breve sosta,
fra voi quattro potrete portare le due sbarre; io trascinerò la
catena. Il resto ve lo racconterò quando mi sarò ristorato.
- E che cosa farà di questo affare rotondo?
- Oh, non si guasterà di certo, - risposi. - E, quand'anche,
che il diavolo se lo porti! Bisogna che per ora rimanga qui. Con
l'alta marea, galleggerà senza ostacolo.
Sempre più stupiti, i quattro giovani, obbedienti, sollevarono i
miei tesori sulle loro spalle; quanto a me, trascinando a gran
fatica le mie povere membra più pesanti del piombo, mi posi alla
testa del gruppo, muovendo in direzione delle case lontane. A
metà strada, due bambine, curve sotto il peso di badili, si
unirono a noi intimorite; fu la volta, poco dopo, di un
ragazzino magro. Ricordo che portava a mano una bicicletta; ci
accompagnò, rimanendo alla nostra destra, per un centinaio di
metri; poi, suppongo, non trovandoci più abbastanza
interessanti, rimontato sulla bicicletta, si allontanò in
direzione della sfera.
Non potei fare a meno di voltarmi, per vedere dove andava a
finire.
- Non la toccherà! - affermò l'omino in tono rassicurante.
Non desideravo di meglio che sentirmi assai tranquillizzato al
riguardo.
Dapprima, un riflesso delle tinte grigie del mattino parve
pesare sull'animo mio; ma in breve, uscito dalle nubi compatte,
sorse il sole, illuminando la terra. La tinta plumbea del mare
disparve, le onde scintillarono e anche la mia mente si destò.
Chiara mi si manifestava tutta l'immensa importanza delle cose
che avevo compiute e di quelle che ancora mi restavano da
compiere. Uno del gruppo inciampò, traballando, sotto il peso
dell'oro; e ciò mi fece ridere. «Quando avrò ripreso il mio
posto sulla terra», pensai, «come sarà sorpreso il mondo!».
Se non fossi stato così sfinito, il proprietario dell'albergo
sarebbe stato per me una fonte inesauribile di divertimento;
egli esitava, tra il mio rispettabile corteo carico d'oro e il
mio poco decente aspetto. Infine, mi trovai ancora una volta in
una stanza da bagno, con dell'acqua calda e dei vestiti di
ricambio, un po' troppo corti e stretti per me, per la verità,
ma puliti; mi erano stati prestati dall'omino con amabile
generosità. Mi aveva mandato anche un rasoio, ma non ebbi la
forza di affrontare in quel momento il pelo ispido che mi
ricopriva la faccia.
Preferii accomodarmi a tavola, davanti a una colazione
perfettamente inglese, che attaccai con un particolare appetito!
Mi sentii in obbligo, poi, di rispondere ai quattro giovanotti,
raccontando loro la pura verità.
- Ebbene! Giacché insistete, l'ho proprio trovato sulla luna,
l'oro!
- Sulla luna!
- Sì! Sulla luna nel cielo.
- Ma che cosa intende dire?
- Nient'altro che quel che ho detto, in fede mia!
- Dunque, lei arriva dalla luna?
- Precisamente! Attraverso lo spazio...! Dentro quella sfera...
Così dicendo, inghiottivo un delizioso tuorlo d'uovo e andavo
pensando tra me che, tornando alla ricerca di Cavor, avrei
portato con me senza dubbio una grande scatola di uova.
Vedevo chiaramente che nessuno credeva una sola parola di quanto
avevo detto: tutti mi consideravano, certamente, come il più
grande mentitore che mai avessero conosciuto. Si guardavano l'un
l'altro e tornavano a concentrare la loro attenzione su di me.
Credo si aspettassero di trovare la chiave del mistero nel modo
con il quale mi servivo del sale. Parve anche che attribuissero
un certo valore al fatto che io misi del pepe nell'uovo. Quelle
masse d'oro dalle forme strane, sotto cui avevano camminato
ricurvi, occupavano ogni loro pensiero. Giacevano lì, proprio
innanzi a me, sia le sbarre sia la catena; ognuna di esse valeva
migliaia di sterline, e sarebbe stato altrettanto difficile
rubarle quanto portar via una casa o un campo! Mentre sorbivo la
mia tazza di caffè, osservando la loro faccia curiosa, mi feci
un'idea del cumulo di spiegazioni che avrei dovuto fornire per
rendere comprensibili le mie parole.
- Non pretenderà davvero... - incominciò il più piccolo dei
miei compagni, con il tono di chi parla ad un ragazzo ostinato.
- Vorrebbe avere la cortesia di passarmi il porta-tartine?
chiesi io, troncandogli la parola sulle labbra.
- Infine, vediamo un po', - attaccò un altro, - noi non
crediamo nulla di tutto ciò, sa?
- Ah, sì? - dissi, alzando le spalle.
- Non vuol dirci nulla, - notò il più piccolo, volgendosi agli
altri; poi, fingendo una grande indifferenza, aggiunse:
Permette che accenda una sigaretta?
Gli risposi con un gesto di cordiale assenso, senza cessar di
mangiare. Due dei miei compagni si alzarono e, andati alla
finestra più lontana, si misero a discorrere fra loro a bassa
voce. D'un tratto un pensiero mi atterrì.
- Sta forse salendo la marea? - domandai.
La mia domanda fu seguita da un breve silenzio, durante il quale
parve si domandassero chi di loro avrebbe dovuto rispondermi.
- Be', comincia il riflusso, - disse l'omino.
- Ah! In ogni caso la sfera non andrà lontano, - risposi.
E, decapitato il mio terzo uovo, iniziai un discorsetto.
Ascoltate benedissi. ! - E non pensate che voglia mostrarmi
scortese o che voglia divertirmi a raccontarvi delle fandonie
disoneste... No, nulla di tutto ciò. Sono obbligato a essere
breve e misterioso. Comprendo perfettamente come ciò possa
apparirvi immensamente strano e come la vostra fantasia debba
essere sovreccitata. Posso assicurarvi che siete testimoni d'un
avvenimento memorabile; ma, per ora, non posso spiegare di più,
mi è impossibile dare spiegazioni. Vi do, tuttavia, la mia
parola d'onore che arrivo proprio dalla luna. E questo è tutto
ciò che posso dire... Aggiungerò soltanto che vi sono
infinitamente obbligato; sì, infinitamente obbligato. E spero
che i miei modi non vi abbiano offesi.
- Oh! No, davvero, - disse il più giovane, in tono affabile. Comprendiamo perfettamente adesso. - Senza smettere di
fissarmi, si rovesciò indietro sulla sedia e poco mancò che
cadesse; ricuperò subito l'equilibrio, non senza sforzo.
Neppure la minima offesa! - insistette. - Ci deve credere!
rinforzò un terzo. E, dopo tali parole, si alzarono tutti,
andando e venendo per la stanza, accendendo delle sigarette,
tentando in mille modi di mostrare che non erano affatto
corrucciati e che non provavano più, ormai, la benché minima
curiosità né per me né per la sfera. - Comunque sia, voglio
tener d'occhio quella nave, - intesi mormorare uno di loro. Se
avessero potuto trovare un pretesto per uscire, l'avrebbero
fatto certamente. Avevo finito il mio terzo uovo.
- Il tempo, - osservò poco dopo l'omino, - è stato
meraviglioso, vero? Non ricordo di avere avuto un'estate simile
da molti anni...
Nello stesso momento si udì un fischio, simile a quello che
potrebbe lanciare un razzo enorme...
Alcuni vetri si infransero...
- Che cos'è? - gridai.
- Che cosa succede...? - chiese l'omino, correndo alla
finestra.
Gli altri lo seguirono, mentre io rimanevo con gli occhi fissi
su di loro.
D'un tratto scattai, rovesciando l'uovo, e corsi anch'io alla
finestra. Un pensiero mi aveva attraversato la mente. - Non si
vede nulla da qui, - disse l'omino, precipitandosi alla porta.
- E' quel monello! - urlai con voce rauca e furiosa. - Sì,
quel maledetto monello! - Voltandomi, urtai il cameriere che
mi portava altre tartine e, in due salti, fui fuori della
stanza, giù, sulla terrazza dell'albergo.
Il mare, che fino a poco prima era calmo, era agitato ora da
onde furiose e, nel posto dove si trovava la sfera, l'acqua
spumeggiava come nella scia d'una nave. In alto, turbinavano
nubi di vapore, come fumo che si disperda: le tre o quattro
persone che si trovavano sulla riva guardavano fissamente, con
aria interrogativa, il punto in cui s'era prodotta quella
inattesa detonazione. Era tutto. Il cameriere e i giovani mi
corsero dietro. S'intesero grida dalle finestre e dalle porte;
persone d'ogni genere apparvero, inquiete, a bocca aperta per lo
stupore.
Rimasi là un istante; ma ero troppo stordito da quell'incidente
inaspettato per pensare a tutti quegli individui.
La mia sorpresa fu dapprima troppo forte perché potessi capire
che quel che era successo costituiva un vero disastro... Mi
trovavo nello stato d'animo di chi, ricevuto inaspettatamente un
colpo violento, non riesca a rendersi conto del danno sofferto
se non a poco a poco.
- Signore Iddio!
Ebbi un brivido di paura. Le gambe mi si piegarono...
Comprendevo purtroppo quello che significava per me una simile
sventura... Su, nel cielo, vagava già quel maledetto monello!
Ero completamente annientato al solo pensarci. C'era, sì,
dell'oro nella sala da pranzo... il mio unico bene terrestre.
Come sarebbe andata a finire? Rimaneva nel mio cervello una
confusione gigantesca.
- Dunque? - chiese la voce dell'omino, - dica dunque, che
cos'è successo?
Mi volsi per tener testa a venti o trenta persone che mi
accerchiavano, tempestandomi di domande e di occhiate indecise e
sospettose. Sostenere tutti quegli sguardi mi fu impossibile; ed
urlai.
- Non so nulla! - esclamai, - dico che non so nulla! Non ho
più forze, io...! Cercate un po' voi... e andate al diavolo
tutti quanti!
Gesticolavo convulsamente. L'omino indietreggiò d'un passo, come
se l'avessi minacciato, mentre io, attraversando la fila dei
curiosi, scappavo verso l'albergo. Raggiunsi il cameriere che
stava rientrando. - Senta! - urlai. - Si faccia aiutare e
porti subito queste sbarre nella mia stanza.
Pareva non capisse; frattanto, io continuavo a sfiatarmi e ad
inquietarmi con lui. Apparve un vecchietto, dall'aspetto
affaccendato, in grembiule verde; due giovani in abito di
flanella lo seguivano. Mi slanciai incontro a loro e li pregai
di aiutarmi. Ma, appena l'oro fu nella mia camera, mi sentii
spinto ad attaccar briga. - Ed ora, fuori subito...! Fuori...!
gridavo. - Fuori tutti...! Se non volete vedermi divenir pazzo
furioso. - Così dicendo, diedi un grande urtone al cameriere
che esitava sulla soglia. Appena chiusa la porta dietro di loro,
mi tolsi gli abiti prestatimi dall'omino, scaraventandoli a
destra e a sinistra, e mi cacciai subito a letto. Rimasi
lungamente coricato, ansando e bestemmiando, finché a poco a
poco incominciai a calmarmi.
Alzatomi dal letto e chiamato il cameriere, gli chiesi una
camicia di flanella, whisky, seltz, dei buoni sigari. Dopo
un'attesa esasperante, che mi fece suonare il campanello
parecchie volte, mi venne portato tutto quanto; richiusi la
porta e mi accinsi di proposito ad esaminare la mia situazione.
Il risultato della nostra gran prova si presentava come uno
scacco indiscutibile, una vera sconfitta, di cui io solo ero il
superstite. Era un crollo assoluto, che l'incidente di poco
prima completava disastrosamente. Null'altro ormai mi rimaneva
da fare se non tentar di cavarmela, salvando, nella disfatta,
tutte le speranze che potevo. Dopo il colpo fatale che aveva
coronato il disastro, tutti i miei vaghi propositi di tentare un
altro viaggio in soccorso di Cavor svanivano d'un tratto. La mia
intenzione di andare sulla luna a cercare un carico d'oro, di
far analizzare un frammento di cavorite per tornare a scoprire
il gran segreto, fors'anche di ritrovare il corpo di Cavor...
tutto, tutto crollava.
Ero io il solo superstite. Ecco tutto...!
Cacciarmi a letto in un momento critico fu, almeno penso, una
delle più belle idee che mi siano mai venute. Credo che
altrimenti avrei perduto la testa o che mi sarei lasciato andare
a qualche atto estremo, fatale o imprudente. Così rinchiuso,
invece, al riparo da ogni importuno intervento, potei esaminare
il caso sotto ogni aspetto e prendere le necessarie disposizioni.
Mi facevo, naturalmente, un'idea assai chiara di quanto era
capitato al monello: egli era scivolato nella sfera, aveva
manovrato i bottoni, chiuse le tende di cavorite ed era partito
senza volerlo. Senza dubbio, il portello doveva essere rimasto
aperto; ma, quand'anche egli l'avesse chiuso, c'erano mille
probabilità contro una che sarebbe riuscito a tornare. Era
evidente che sarebbe gravitato, con i miei bagagli, nel centro
della sfera e là sarebbe rimasto, non offrendo più alcun
interesse alla terra, per quanto potesse sembrare non
trascurabile agli abitanti di un angolo inaccessibile dello
spazio; di tutto ciò mi convinsi rapidamente. Quanto, poi, alle
responsabilità cui potevo andare incontro a tale riguardo, più
riflettevo e più mi convincevo che l'unica cosa che mi restava
da fare era quella di tacere. Se i genitori disperati fossero
venuti a domandarmi conto del loro figlio perduto, avrei
semplicemente reclamato da loro la mia sfera o fatto mostra di
non capire nulla. Prima avevo pensato ai genitori in lacrime,
alle guardie e a ogni genere di complicazioni; ma, adesso,
vedevo che, se fossi riuscito a non aprir bocca, nulla di grave
mi sarebbe potuto accadere. Proprio così; più rimanevo coricato,
fumando e riflettendo, e più mi appariva evidente la saggezza di
un silenzio impenetrabile.
Ogni cittadino inglese ha pienamente diritto, quando non compia
alcun atto dannoso o indecente, di comparire all'improvviso dove
più gli piace, anche stracciato e sudicio, se preferisce, e con
la quantità d'oro che desidera caricarsi sulle spalle; e nessuno
ha il diritto di dargli noia o di limitare la sua libera
volontà. Mentalmente formulavo questo principio, ripetendolo a
più riprese, come una specie di particolare Magna Charta della
mia libertà.
Una volta ottenuto questo risultato, potei intraprendere, in
condizioni identiche, l'esame di altre considerazioni, alle
quali fino allora non avevo pensato: le conseguenze, cioè, del
mio fallimento. Ma, valutando le circostanze con calma, dovetti
subito persuadermi che, se avessi potuto sopprimere la mia
identità affibbiandomi temporaneamente un nome meno conosciuto e
tenendo la barba che in quei due ultimi mesi mi era spuntata, i
rischi di noie, da parte del creditore intrattabile al quale ho
già accennato, sarebbero stati molto ridotti. Partendo da questa
premessa, era facile costruire un piano d'azione razionale.
Mi feci portar da scrivere e indirizzai una lettera alla New
Rommey Bank - la banca più vicina, disse il cameriere,
informando il direttore che desideravo farmi aprire un conto e
pregandolo di inviarmi due persone di fiducia, debitamente
autorizzate, con una carrozza tirata da un buon cavallo, per
sbarazzarmi d'un quintale d'oro. Firmai la lettera: Blacke, un
nome che mi sembrò rispettabilissimo. Ciò fatto, domandai la
guida di Folkstone, scelsi a caso l'indirizzo di una sartoria e
scrissi che venissero a prendermi la misura di alcuni vestiti,
mandandomi anche un baule, una valigia, delle camicie, dei
cappelli in prova ed altri oggetti necessari. Con un'altra
lettera, chiesi all'orologiaio di consegnare al portatore un
orologio, di cui indicavo il prezzo. Spedite queste lettere, mi
feci servire il miglior pranzo che l'albergo potesse fornirmi,
dopo di che mi stesi beatamente sul letto, fumando un sigaro e
attendendo che, secondo le mie istruzioni, i due impiegati
debitamente autorizzati venissero dalla banca per pesare e
portar via il mio oro. Finito il sigaro, mi tirai le coperte
sopra le orecchie per allontanare ogni rumore e mi addormentai
tranquillamente...
Dormii. Eh sì...! Senza dubbio per il primo uomo di ritorno
dalla luna, questa era una cosa assai prosaica; e immagino che
il giovane lettore pieno di fantasia rimarrà molto deluso da una
simile condotta. Ma io ero terribilmente stanco e seccato... e,
dopo tutto, che cos'altro avrei potuto fare? Non avevo la minima
probabilità di essere creduto, se avessi narrato la mia storia;
e in questo caso, mi sarei esposto alle più grandi seccature.
Dormii. Quando finalmente mi svegliai, mi trovai pronto di nuovo
ad affrontare il mondo, come ho sempre fatto dacché ho l'uso
della ragione. E fu cosi che risolsi di partire per l'Italia,
dove ora mi trovo, occupato a scrivere la mia avventura. Se il
lettore non vorrà crederla, la prenda pure come una favola. Poco
m'importa!
Terminato adesso il mio racconto, rimango io stesso stupito, al
pensiero che tutto ciò accadde veramente ed è finito. Tutti
credono che Cavor sia stato un ricercatore poco brillante,
saltato in aria con la sua casa a Lympne, e attribuiscono la
detonazione che seguì il mio arrivo a Littlestone alle prove con
esplosivi che si fanno a tre chilometri di là, negli
stabilimenti nazionali di Lydd. Debbo confessare che finora non
ho rivelato la parte che mi spetta nella scomparsa di Tommy
Simmons, l'imprudente monello introdottosi nella sfera; questo,
probabilmente, sarebbe un conto difficile da regolare. La mia
apparizione, stracciato e con due verghe d'oro puro, sulla
spiaggia di Littlestone continua ad essere spiegata in diversi
modi... Ma io non mi curo affatto di quel che possono pensare di
me. Arrivano a pretendere che io abbia immaginato questa serie
di racconti per evitare domande troppo incalzanti sulla
provenienza della mia ricchezza. Vorrei vedere l'uomo capace
d'inventare una storia simile, che avesse capo e coda come
questa! Ma, se si vuole che il mio racconto sia una favola, tale
sia.
Ho finito la narrazione e penso che adesso, purtroppo, dovrò
abituarmi di nuovo alle miserie e ai tormenti della vita
terrestre. Anche quando si è stati sulla luna, bisogna
continuare a guadagnarsi da vivere; ed è proprio per questo che
mi trovo ad Amalfi, intento a lavorare alle scene della commedia
abbozzata prima che Cavor fosse venuto a turbare la mia
esistenza, e cercando di riorganizzare la mia vita com'era prima
di conoscerlo. Debbo, tuttavia, riconoscere che mi riesce assai
difficile concentrare tutta la mia attenzione sul lavoro, quando
il chiaro di luna penetra nella mia stanza. E' luna piena,
adesso; e ieri sera sono rimasto sotto il pergolato con gli
occhi fissi, per ore, a quel pallido luccichio che tante cose
nasconde. Immaginate un po'! Tavole e sedili, cavalletti e
sbarre d'oro! Che il diavolo mi porti...! Se si potesse scoprire
ancora la cavorite...! Il male è che certe cose non capitano mai
due volte nella vita. Eccomi qui, dunque, in una condizione un
po' più agiata di quand'ero a Lympne. Questo è tutto! E Cavor si
è suicidato in un modo molto più complicato di quelli scelti
normalmente dagli uomini. Così finisce il racconto. Come un
sogno! E tutto è così diverso dagli avvenimenti della vita
normale che, certe volte, nonostante il mio oro lunare, dubito
quasi anch'io che l'intera avventura sia semplicemente un
sogno...
22. LA STUPEFACENTE COMUNICAZIONE DEL SIGNOR JULIUS WENDIGEE.
Quando ebbi terminato il rapporto del mio ritorno sulla terra, a
Littlestone, scrissi la parola «fine», feci uno svolazzo, e
lanciai la penna in un angolo, pienamente convinto che l'intera
storia dei primi uomini sulla luna fosse terminata. Non soltanto
avevo fatto questo, ma avevo dato il manoscritto nelle mani di
un agente letterario, avevo permesso che fosse venduto, avevo
visto una parte notevole dell'opera apparire sullo «Strand
Magazine», e stavo per rimettere mano alla sceneggiatura del
dramma che avevo iniziato a Lympne, prima che mi rendessi conto
che la fine non era ancora giunta. Proprio allora, infatti, mi
fu rispedita da Amalfi ad Algeri (sei mesi fa) una delle più
stupefacenti comunicazioni che io abbia mai ricevuto in vita
mia. In breve, mi si informava che il signor Julius Wendigee,
scienziato olandese, sperimentando un apparecchio del genere di
quello usato in America dal Tesla, nella speranza di scoprire un
mezzo di comunicazione con Marte, andava di giorno in giorno
ricevendo strani frammenti di messaggi in inglese, i quali
indiscutibilmente dovevano essere di Cavor, e provenivano dalla
luna.
Pensai, dapprima, che si trattasse di una farsa laboriosamente
architettata da uno che avesse avuto sott'occhio il manoscritto
del mio racconto. Risposi pertanto al signor Wendigee in tono
scherzoso; ma egli mi riscrisse in modo da dissipare
completamente ogni sospetto d'impostura. Allora, in uno stato di
sovreccitazione facile a comprendersi, lasciai in gran fretta
Algeri per recarmi nel piccolo osservatorio del San Gottardo,
nel quale egli stava lavorando. Udita la sua relazione e
trovatomi in presenza del suo materiale scientifico soprattutto
dei messaggi di Cavor che continuavano a pervenire - anche i
miei ultimi dubbi scomparvero. Senz'ombra di esitazione,
accettai la sua proposta di rimaner là per assisterlo nel
compito di registrare giornalmente le diverse comunicazioni e di
tentar insieme con lui d'inviare un nostro messaggio sulla luna.
Venimmo così a sapere che Cavor non soltanto era vivo, ma
libero, in mezzo all'inconcepibile comunità di quegli esseri dal
corpo di formica, abituati a camminar diritti come gli uomini,
nell'oscurità azzurrognola delle caverne lunari. Era, a quanto
sembrava, rimasto zoppo, ma, a parte ciò, in perfetta salute,
migliore, anzi - così diceva - di quella che di solito godeva
sulla terra. Aveva avuto la febbre, ma non glien'era rimasto
nessuno strascico noioso. Cosa strana, pareva convinto ch'io
fossi morto nel cratere della luna o perduto negli abissi dello
spazio.
Il Wendigee cominciò a ricevere i primi messaggi mentre io ero
assorto in ricerche del tutto diverse. Il lettore ricorderà
senza dubbio lo scalpore suscitato al principio del secolo dalla
notizia che Nikola Tesla, il celebre scienziato americano, aveva
ricevuto un messaggio dal pianeta Marte. La notizia aveva
richiamato l'attenzione su un fatto che da lungo tempo era noto
agli scienziati: vale a dire, che da una sorgente ignota dello
spazio certe onde elettromagnetiche, del tutto simili a quelle
usate da Marconi per il suo telegrafo senza fili, giungono
costantemente fino alla terra. Oltre il Tesla, molti altri
stanno perfezionando apparecchi capaci di ricevere e registrare
vibrazioni siffatte, ma pochi soltanto osano spingere le loro
ipotesi fino a considerar tali onde veri messaggi indirizzatici
da qualche mittente extraterrestre. Tra questi scienziati deve
essere indubbiamente annoverato il Wendigee. Dal 1898 in poi,
egli si dedicò esclusivamente a queste ricerche e, possedendo
una discreta sostanza, si fece costruire un osservatorio
apposito sui fianchi del monte Rosa, in posizione molto adatta,
sotto ogni punto di vista, per un tale genere di osservazioni.
Le mie cognizioni scientifiche, debbo confessarlo, non sono
molto vaste; ma, per quel che m'è dato giudicare, gli strumenti
immaginati dal Wendigee per cogliere e registrare ogni minima
perturbazione nelle condizioni elettromagnetiche dello spazio
sono particolarmente originali ed ingegnosi. Per una felice
coincidenza, i suoi apparecchi erano stati montati e messi in
azione circa due mesi prima che Cavor avesse fatto il suo primo
tentativo di comunicare con la terra. Di conseguenza, possediamo
i frammenti dei suoi messaggi fin dal principio.
Disgraziatamente, si tratta di soli frammenti, così che le
notizie più importanti che egli avrebbe potuto far conoscere
all'umanità - prime fra tutte le istruzioni che, se fossero
state da lui trasmesse, avrebbero consentito di rifabbricare la
cavorite - sono andate perdute nello spazio. Non riuscimmo mai
ad inviare una risposta a Cavor. Egli ignora perciò che cosa sia
stato ricevuto e che cosa manchi a completare le sue notizie, e
anche se qualcuno sulla terra si sia accorto dei suoi tentativi;
ma il suo persistere nell'invio di diciotto lunghe descrizioni
delle cose lunari - tali sarebbero se noi le avessimo complete
- dimostra che il suo pensiero dev'essere stato rivolto
costantemente al pianeta d'origine, dopo due anni che l'aveva
lasciato.
E' facile immaginare come debba essere rimasto sorpreso il
Wendigee quando scoprì, intercalate nella sua registrazione di
tracce elettromagnetiche, delle frasi di Cavor. Il Wendigee, che
nulla sapeva del nostro folle viaggio sulla luna, si trovò d'un
tratto dinanzi agli occhi parole inglesi uscite dal vuoto!
E' bene che il lettore comprenda in quali condizioni è
presumibile che Cavor abbia inviato i suoi messaggi. Senza
dubbio, per un certo tempo egli dovette penetrare in una caverna
interna della luna, nella quale si trovava raccolta una quantità
enorme di apparecchi elettrici; è allora possibile che,
munitosi, forse furtivamente, di un apparecchio trasmettitore
del tipo di quelli di Marconi, se ne sia servito per puro
passatempo a intervalli diversi, talvolta per una mezz'ora
soltanto, tal altra per tre o quattro ore di seguito. Egli poté
così inviare i suoi messaggi al nostro pianeta, senza pensare
che la posizione della luna, in rapporto ai diversi punti della
superficie terrestre, muta costantemente. Di conseguenza e a
causa delle inevitabili imperfezioni dei nostri strumenti, ogni
sua comunicazione va e viene sui nostri registratori in modo
assai difettoso, divenendo d'un tratto confusa e scomparendo, a
volte, in modo misterioso ed esasperante. Bisogna notare anche
che l'operatore non era troppo esperto; egli, infatti, aveva in
parte dimenticato, o non aveva mai saputo perfettamente, il
codice generale; così che, procedendo nel suo lavoro, si
stancava, saltava delle parole, o le trasmetteva incomplete.
Sta di fatto che una buona metà delle sue comunicazioni è andata
perduta e che gran parte di quelle che ci sono giunte era
disturbata, qua e là interrotta, e in parte cancellata. Nel
riassunto che segue, il lettore deve quindi aspettarsi una
quantità notevole d'interruzioni, di lacune e di cambiamenti
inattesi di soggetto. Il Wendigee ed io andiamo preparando in
collaborazione un'edizione completa e corredata di note dei
documenti trasmessi da Cavor, che speriamo poter pubblicare fra
non molto, con una descrizione particolareggiata degli strumenti
impiegati. Sarà un rapporto completo e scientifico, di cui
quanto segue non è che un semplice riassunto alla buona, senza
pretese. Ma, se non altro, aggiungiamo subito qui quanto basta
per completare la storia già narrata e per dare un'idea sommaria
di quel che è racchiuso in un altro mondo, tanto vicino, tanto
analogo e pur tanto diverso dal nostro.
23. RIASSUNTO DEI PRIMI SEI MESSAGGI TRASMESSI DA CAVOR.
I primi due messaggi di Cavor possono molto bene essere tenuti
in serbo nella prospettiva di quel volume più ampio. Essi
semplicemente dicono, con la più grande brevità e con una
differenza in parecchi particolari, che è interessante ma non di
alcuna vitale importanza, i nudi ed essenziali fatti circa la
costruzione della sfera e la nostra partenza dalla terra. Cavor
parla sempre di me come di un morto, ma con un curioso
cambiamento di umore quando si avvicina a narrare il nostro
approdo sulla luna. «Povero Bedford», dice di me, e «quel povero
giovane»; e si rimprovera per aver indotto un giovane «che non
era predisposto a tali avventure» a lasciare il pianeta «sul
quale certamente sarebbe potuto riuscire», per una missione così
pericolosa. Evidentemente, Cavor attribuiva un valore minimo
alla mia energia e alle mie capacità pratiche nella
realizzazione della sua sfera teorica. «Siamo arrivati», dice,
senza più far cenno della nostra corsa attraverso lo spazio,
come se si fosse trattato di uno dei soliti viaggi con un treno
dei sobborghi.
Diviene poi sempre più ingiusto con me. Tanto ingiusto, anzi,
quanto non avrei mai supposto in un uomo abituato alla ricerca
della verità. Rileggendo, adesso, il racconto da me già fatto
del nostro viaggio, non posso fare a meno di costatare con
piacere come io sia stato sempre molto più giusto con Cavor che
non lui con me. Ben poco attenuai, nulla soppressi. Ma è meglio
riportare ciò che egli dice:
«Fu subito chiaro che la stranezza assoluta della nostra
situazione e di quanto ci circondava - perdita enorme di peso,
aria rarefatta ma immensamente ossigenata, e, come necessaria
conseguenza, risultati esagerati dei nostri sforzi muscolari,
rapido sviluppo di una vegetazione fantastica che nasceva da
spore scure, un cielo pallido - sovreccitava il mio compagno.
Sulla luna il suo carattere parve alterarsi, ed egli divenne
impulsivo, temerario e attaccabrighe. In breve, la sua
imprudenza di aver divorato alcune vesciche gigantesche e
l'intossicazione che ne seguì furono causa della nostra cattura
da parte dei seleniti, prima ancora che ci fosse stato possibile
avere la minima opportunità di osservar bene il loro modo di
agire...».
E' facile notare come nulla dica dell'aver divorato anch'egli
quelle vesciche. Continua poi il suo racconto:
«Giunti in loro compagnia ad un passaggio difficile, Bedford,
male interpretando certi loro gesti (ah, erano proprio graziosi
i loro gesti!), fu preso da grande timore, si mise a correre
come un pazzo e uccise tre seleniti, obbligandomi così a
scappare con lui dopo tanto oltraggio. Ci battemmo in seguito
con una gran quantità di quegli esseri che ci volevano sbarrare
il passo e ne uccidemmo altri sette od otto. E tale è la
tolleranza del popolo lunare, che, pur essendo stato io
ricatturato, non fui ucciso. Qualunque altro popolo lo avrebbe
fatto immediatamente. Rintracciata la via che riconduceva alla
superficie, ci separammo in quel cratere, ove già eravamo
discesi, per aumentare e affrettare le probabilità di ritrovare
la sfera. Ma eccomi in breve circondato da una banda di
seleniti, guidati da due esseri stranamente diversi, anche nella
forma, da quelli che avevo fino allora veduti, con teste più
grandi e corpi più piccoli, molto più accuratamente protetti.
Dopo esser loro sfuggito per qualche tempo, caddi in un
crepaccio, mi ferii il capo abbastanza gravemente e mi lussai la
rotula del ginocchio. Riuscendomi allora troppo penoso
l'arrampicarmi, risolvetti di arrendermi, ammesso che mi
consentissero di farlo... Parve che acconsentissero e, accortisi
della mia impossibilità di camminare, mi trasportarono con loro
nella luna. Da quel momento, nulla più ho saputo di Bedford, né,
per quanto mi è stato possibile accertare, i seleniti stessi
l'hanno più riveduto, sia che la notte l'abbia sorpreso nel
cratere, sia che - e forse questo è più probabile - egli abbia
ritrovato la sfera ed abbia voluto giocarmi un brutto tiro,
fuggendo con essa, per costatare invece, come temo, la sua
ignoranza nel dirigerla e per trovare così una morte più lenta
negli abissi dello spazio».
Con queste semplici parole Cavor si sbarazza di me, occupandosi
subito di più interessanti argomenti. Mi dispiacerebbe molto che
qualcuno potesse pensare che io, abusando della mia posizione di
editore, ne profitti ora per mutilare il racconto di Cavor
secondo il mio personale interesse; ma non per questo potrei
astenermi dal protestare contro il modo con il quale egli ebbe a
falsare le cose. Nulla dice, intanto, di quel messaggio
convulsamente redatto, in cui dava, o tentava di dare, una
versione molto diversa di tali avvenimenti. Questa della resa
dignitosa è una versione completamente nuova dell'avvenimento,
versione che egli diede - insisto sulla circostanza - soltanto
quando finì per sentirsi sicuro in mezzo al popolo lunare; e
quanto al «brutto tiro», lascio al lettore giudicare fra noi
due, sulla scorta della duplice esposizione di quanto accadde.
So bene di non essere un modello di virtù, e non ho alcuna
pretesa d'esserlo. Ma, infine, sarei proprio come Cavor vorrebbe
farmi apparire?
Comunque, i miei torti sono tutti qui. E da questo momento posso
trascrivere o riassumere le parole di Cavor con animo
tranquillo, dato che egli non ha più occasione o ragione di
ricordare il mio nome.
Bisogna dedurre che i seleniti, dopo averlo sorpreso, lo abbiano
condotto in qualche luogo all'interno, discendendo «un gran
pozzo» servendosi di ciò ch'egli definisce «una specie di
pallone». Dal passo molto confuso nel quale è contenuto il
racconto di questo fatto, e da un certo numero di allusioni
casuali, possiamo dedurre che quel «gran pozzo» fa parte di un
enorme sistema di tubi artificiali diretti verso la parte
centrale del nostro satellite, muovendo ciascuno da ciò che
chiamiamo un «cratere» lunare, fino alla profondità di circa
centocinquanta chilometri. Questi pozzi, comunicanti fra loro
per mezzo di gallerie trasversali, si aprono in caverne immense
e in grandi spazi sferici. La sostanza solida che costituisce la
luna, per più di centocinquanta chilometri all'interno, è una
semplice spugna rocciosa. «Questa sostanza spugnosa», dice
Cavor, «in parte è naturale, ma in larga proporzione è dovuta
alla gigantesca industria dei seleniti nei tempi passati. Le
enormi montagne circolari di roccia e di terra estratte dal
globo lunare formano intorno ai pozzi quei grandi cerchi che gli
astronomi terrestri, ingannati da una falsa analogia, chiamano
vulcani.
Proprio in uno di questi pozzi egli fu fatto discendere con
quella «specie di pallone», di cui parla. Regnò dapprima
un'assoluta oscurità; apparve poi una regione in cui sempre più
andava crescendo il chiarore fosforescente. Le comunicazioni di
Cavor ce lo rivelano uomo singolarmente indifferente, per essere
uno scienziato, a particolari che avrebbero avuto in se stessi
non poco valore; egli lascia tuttavia comprendere come quella
luce sia dovuta a ruscelli e a cascate di liquido «contenente,
senza alcun dubbio, un organismo fosforescente», che scorre
sempre più abbondante verso il mare Centrale. «Quanto più
discendevo», egli dice, «tanto più i seleniti divenivano
luminosi.» Finalmente molto lontano, sotto di lui, vide, per
così dire, un lago di fuoco senza calore, le acque del mare
Centrale, risplendenti ed agitate da una strana perturbazione,
«come un luminoso latte turchino che sia sul punto di bollire».
«Questo mare lunare», dice Cavor in un altro passo, «non è un
oceano stagnante; una marea solare gli fa descrivere un moto
perpetuo intorno all'asse della luna; vi sono tempeste,
ribollimenti, straripamenti strani di acque; talvolta, venti
freddi e cupi rumori giungono fino alle vie affaccendate
dell'enorme formicaio selenita. Solo quando è mossa, l'acqua
emana chiarore; nelle sue rare stagioni di calma è nera. Di
solito l'agitano flutti che ricadono in un gonfiore oleoso,
mentre onde e masse di schiuma bollente e scintillante sono
trascinate via dalla corrente lenta debolmente luminosa. I
seleniti navigano attraverso tali stretti cavernosi e tali
lagune con piccole imbarcazioni piatte, molto simili, nella
forma, alle nostre lance; prima del mio viaggio nelle gallerie
che circondano il Gran Lunare, signore della luna, mi fu
permesso di fare una breve escursione nelle sue acque.
«Le caverne e i passaggi sono naturalmente molto tortuosi. Gran
parte di queste vie è conosciuta soltanto dai più esperti piloti
fra i pescatori, cosicché avviene di frequente che dei seleniti
si smarriscano in tali labirinti. Nelle insenature più lontane
si nascondono, a quanto mi hanno detto, creature strane, alcune
delle quali formidabili e pericolose, che la scienza lunare non
ha mai potuto distruggere. Si cita in particolar modo il Rapha,
massa inestricabile di voraci tentacoli, che, se tagliata a
pezzi, si moltiplica, e il Tzee, creatura fulminea che mai si
vede, tanto essa uccide sottilmente e velocemente...»
Segue una vaga descrizione:
«Ricordavo, durante questa escursione, quel che avevo già veduto
delle caverne di Mammoth; se avessi avuto una torcia gialla,
anziché quell'eterna luce violetta, e un robusto marinaio con un
remo, invece di quel selenita dalla testa a secchia di carbone,
che faceva funzionare una macchina posta a poppa della lancia,
avrei potuto pensare d'essere tornato improvvisamente sulla
terra. Le rocce intorno a noi erano assai varie, talvolta nere e
talaltra venate di azzurro pallido; sfavillarono anche, un
istante, e lanciarono fiamme, come se si fosse giunti in una
miniera di zaffiri. Si scorgevano, sotto, pesci fantastici e
fosforescenti mandar lampi e scomparire nelle profondità un po'
meno illuminate. Ed ecco apparire un vasto panorama ultramarino,
lungo un braccio di mare rigonfio, costituito da un canale
solcato da imbarcazioni e da una specie di pontile di sbarco;
infine, colpo d'occhio impressionante, il pozzo enorme di una
delle grandi vie verticali.
«In un vasto spazio, sovraccarico di grandi stalattiti
scintillanti, parecchie barche erano intente alla pesca.
Avvicinatomi ad una di quelle lance, potei vedere i pescatori
seleniti ritirare le loro reti con braccia straordinariamente
lunghe. Sembravano piccoli insetti gibbosi, con appendici
superiori molto solide, gambe corte e sbilenche, maschera
facciale ricurva. Dal modo con cui tiravano la rete, mi parve
che questa fosse la cosa più pesante da me vista sulla luna. Era
munita di pesi - d'oro, senza dubbio - e occorse molto tempo
per ritirarla tutta, dato che in quelle acque, nelle estreme
profondità, si nascondevano i pesci più grossi e appetitosi.
Quelli già pescati, che riempivano la rete, apparvero come un
tenue chiaro di luna.
«V'era frammista una cosa nera, brutta a vedersi e munita di
numerosi tentacoli che furiosamente si agitavano, la cui
apparizione fu salutata dai pescatori con piccole grida e con
garriti. Con movimenti secchi e nervosi, senza indugio essi si
accinsero a tagliarla a pezzi con piccole asce; ma tutte le
membra, pur così divise, continuarono a torcersi e a distendersi
in modo minaccioso. In seguito, sfinito dalla febbre, più volte
rividi in sogno l'immagine di quella creatura mostruosa, uscita
così vigorosa e attiva da quel mare sconosciuto. Era quella la
più viva e malefica fra tutte le creature viventi da me vedute
fin allora nel mondo interno lunare...
«La superficie di quella distesa d'acqua deve trovarsi circa
trecento chilometri, se non di più, sotto il livello della
crosta esterna della luna; tutte le città, da quanto appresi,
sono situate proprio sopra questo Mare Centrale, fra spazi
cavernosi e gallerie artificiali del genere di quelle già
descritte, comunicanti con l'esterno per mezzo di quegli enormi
pozzi verticali, che sboccano invariabilmente in ciò che gli
astronomi terrestri chiamano "crateri" della luna. Avevo già
visto, durante le esplorazioni precedenti alla mia cattura, il
coperchio che chiudeva la bocca d'uno di tali pozzi.
«Sullo strato della parte più periferica della luna non sono
giunto ancora ad aver cognizioni veramente precise. C'è un
enorme sistema di caverne, in cui i vitelli lunari si riparano
durante la notte; ci sono macelli ed altri luoghi simili. Fu in
uno di questi che Bedford ed io ci battemmo con i macellai
seleniti, e fu là che vidi poi dei palloni carichi di carne
scendere dalle tenebre superiori. Fino a questo punto, io, di
tutte queste cose, ne so tanto quanto potrebbe saperne delle
scorte di grano inglese uno zulù piombato a Londra per la prima
volta. E evidente che quei pozzi verticali e la vegetazione
della superficie debbono esercitare una funzione essenziale
nella ventilazione e nell'abbassamento termico dell'atmosfera
lunare. Più volte, e particolarmente quando uscii dalla mia
prigione, avvertii un vento freddo che soffiava certamente
dall'alto verso il basso del pozzo; seguì, più tardi, una specie
di scirocco che saliva verso la superficie lunare e che ebbe a
coincidere con quell'accesso di febbre da cui fui colpito circa
tre settimane dopo; una febbre così forte che, nonostante le
pastiglie di chinino fortunatamente trovate in tasca, soffrii e
fui molto agitato quasi fino al giorno in cui fui condotto nel
palazzo del Gran Lunare, o signore della luna.»
«Non voglio», egli avverte, «dilungarmi sullo stato miserando
nel quale mi trovai durante i giorni della mia malattia...» E
continua a dare una quantità di particolari minuziosi che qui
ometto, perché insignificanti.
«La mia temperatura», conclude, «restò a lungo anormalmente
alta, facendomi perdere ogni desiderio di cibo. Ebbi intervalli
di veglie smarrite e riposi tormentati da sogni; ricordo di aver
subito una terribile crisi di debolezza, durante la quale fui
invaso da una frenetica nostalgia della terra. Provavo
l'insostenibile desiderio che un altro colore venisse finalmente
a rompere quel turchino perpetuo...»
Riprende poi a parlare dell'atmosfera lunare, imprigionata in
una simile spugna. Alcuni astronomi e fisici mi hanno assicurato
che quanto egli racconta corrisponde perfettamente a quel che
già si sa sullo stato della luna. Se gli astronomi terrestri
avessero avuto il coraggio e la fantasia di spingere all'estremo
un'ardita induzione - pretende il Wendigee - avrebbero potuto
predire quasi tutto ciò che Cavor rivela della struttura
generale della luna. Essi ora sanno, quasi certamente, che la
luna e la terra sono non tanto un satellite, e il suo pianeta,
quanto due sorelle, una piccola e una grande, costituite d'una
medesima massa e quindi d'identica materia. E se la densità
della luna equivale soltanto ai tre quinti di quella della
terra, ciò è dovuto unicamente al fatto che la luna è
attraversata e scavata da quel suo gran sistema di caverne. Non
c'era proprio alcuna necessità, come disse sir Jabez Flap, F. R.
S., il piacevole illustratore degli aspetti faceti degli astri,
di andar sulla luna per verificare così facili induzioni; e
accentua l'ironia con un'allusione al formaggio groviera; ma
avrebbe fatto meglio a divulgare prima del nostro viaggio ciò
che sapeva delle cavità lunari! Se la luna è forata, l'assenza
apparente d'aria e d'acqua si spiega presto. Il mare trovasi
nell'interno, in fondo alle caverne, e l'aria viaggia attraverso
le immense gallerie, in perfetto accordo con le leggi fisiche
più elementari e più note. Le caverne lunari sono, insomma, dei
luoghi molto ventilati. Via via che la luce solare va investendo
il globo, l'aria delle gallerie superiori finisce per essere
surriscaldata. Aumentando la sua pressione, una parte sfugge
verso l'esterno, fino a mescolarsi con l'aria congelata che
evapora dai crateri, dove le piante assorbono il suo acido
carbonico, mentre la maggior parte si espande lungo le gallerie
per prendere il posto dell'aria condensata della regione fredda.
Da ciò deriva naturalmente una continua brezza che spira verso
est nell'atmosfera delle gallerie superiori ed una fuga dai
pozzi durante i giorni lunari, fuga molto complessa, certo, per
le varie forme e dimensioni delle grotte e delle gallerie
stesse, a cui corrispondono gli ingegnosi apparecchi immaginati
dai seleniti...
24. STORIA NATURALE DEI SELENITI.
I messaggi di Cavor, dal sesto al sedicesimo, sono per lo più
così spezzettati, e a tal punto infarciti di ripetizioni, che a
fatica possono costituire il tessuto di una narrazione organica.
Essi saranno dati integralmente nel rapporto scientifico, ma qui
sarà più conveniente continuare semplicemente a compendiare e a
citare come nel capitolo precedente. Sottoponemmo ogni parola a
un attento esame critico, e i miei brevi ricordi e impressioni
delle cose lunari sono stati di grande aiuto
nell'interpretazione di alcuni brani che, altrimenti, sarebbero
risultati oscuri e indecifrabili. Come esseri viventi, il nostro
interesse è naturalmente rivolto soprattutto a quella strana
comunità d'insetti lunari in mezzo alla quale Cavor visse, a
quanto pare, da ospite onorato; cosicché ciò che concerne
soltanto le condizioni fisiche del loro mondo rimane in secondo
piano.
Ho già chiaramente ricordato, se non erro, che i seleniti da me
visti rassomigliavano all'uomo in quanto anch'essi stavano in
piedi e avevano quattro arti, ed ho altresì paragonato a quello
degli insetti l'aspetto generale della loro testa e delle
giunture delle loro membra. Accennai pure alla particolare
influenza della minore gravitazione lunare sul loro fragile
organismo. Cavor, a sua volta, conferma le mie parole su tutti
questi punti. Egli li chiama «animali», sebbene essi non possano
rientrare in una suddivisione della classificazione delle
creature terrestri, e osserva che «dal punto di vista anatomico,
il tipo insetto non superò mai per fortuna degli uomini, sulla
terra, dimensioni relativamente piccole».
I più grandi insetti terrestri, viventi o scomparsi, non hanno,
in realtà, mai misurato più di una ventina di centimetri di
lunghezza; «ma qui, in virtù della minor gravitazione della
luna, ogni creatura, insetto e vertebrato ad un tempo, sembra
esser riuscita a raggiungere e superare, anche, le dimensioni
umane». Non fa menzione della formica, ma tutte le sue allusioni
suggeriscono di continuo l'idea della formica con la sua
attività insonne, la sua intelligenza, la sua organizzazione
sociale, la sua struttura e, particolarmente, il fatto che
possiede, oltre ai due sessi maschile e femminile, propri di
quasi tutti gli animali, un certo numero di altre creature
asessuali - operai, soldati e via dicendo - diverse fra loro
per struttura, carattere, forza e mansioni, e pur tutte
appartenenti ad una medesima specie. I seleniti hanno
effettivamente una grande varietà di forme; essi sono non solo
di dimensioni colossali in confronto alle formiche, ma, secondo
il parere di Cavor, sembrano anche uomini per quanto concerne
intelligenza, moralità e saggezza sociale. Vi sono innumerevoli
forme di seleniti, anziché le quattro o cinque forme conosciute
di formiche. Io mi sono sforzato di far presenti le differenze
considerevoli osservate nei vari seleniti della crosta esteriore
da me incontrati. Le disparità di dimensione, di colore, di
conformazione sono certamente altrettanto marcate quanto quelle
esistenti fra le razze umane più dissimili fra loro. Ma le
diversità da me accertate sono nulla in confronto alle diversità
enormi di cui parla Cavor. Pare che i seleniti con i quali io
fui a contatto fossero, per così dire, di un colore unico,
dediti ognuno ad una particolare occupazione: pastori, macellai
od altro. Ma nell'interno della luna, da me quasi neppur
supposti, pare che si trovino in gran numero altri seleniti,
diversi come dimensioni, forme, facoltà, aspetto, senza che
perciò costituiscano specie diverse, ma solo forme diverse di
una specie unica. La luna è, veramente, un grande formicaio che,
anziché esser costituito da quattro o cinque specie di formiche
- soldato, operaio, maschio alato, regina e schiavo - comprende
centinaia di varietà di seleniti, l'una differenziata dall'altra.
Si può bene immaginare che Cavor se ne sia subito accorto.
Intuisco, non apprendo, dal suo racconto, che egli fu catturato
dai pastori dei vitelli lunari guidati da quei seleniti i quali
«hanno scatole craniche molto più grosse e gambe molto più
corte». Accortisi ch'egli non poteva camminare neppure se punto
con il pungolo, essi lo trasportarono in mezzo a tenebre dense,
si avviarono su un ponte assai stretto, una specie di asse che
potrebbe esser benissimo quella che mi ero già rifiutato di
attraversare, e lo deposero in qualcosa che a lui dovette
sembrare, a tutta prima, una specie di ascensore. Era quello il
«pallone» - che doveva senza alcun dubbio esser rimasto a noi
invisibile nella più profonda oscurità - e ciò che a me era
parso nulla più di un'asse lanciata nel vuoto, era, in realtà,
un pontile d'imbarco. Dentro questo veicolo essi discesero verso
le profondità sempre più luminose della luna, in perfetto
silenzio - brontolio dei seleniti a parte - finché penetrarono
in un frastuono prodotto da movimenti confusi. In breve, le
tenebre profonde resero i suoi occhi così sensibili che egli
poté scorgere sempre meglio quanto l'attorniava; poi, d'un
tratto, anche i contorni incerti gli si precisarono.
«Immaginate un enorme spazio cilindrico», dice Cavor nel suo
settimo messaggio, «di quattrocento metri circa di diametro,
forse, dapprima molto confusamente rischiarato, illuminatissimo
poi, con grandi piattaforme che si susseguivano intorno alle
pareti in una spirale che andava a scomparire giù giù, in un
abisso turchino; il chiarore diveniva sempre più vivo, senza che
si potesse dire come e perché. Pensate allo spazio vuoto della
più grande scala o gabbia d'ascensore nella quale abbiate mai
guardato, e ingranditelo cento volte. Immaginatelo, visto nel
crepuscolo, attraverso lenti turchine; il vostro sguardo piomba
giù, nell'interno, eppure vi sentite straordinariamente leggeri,
senza provare affatto quel senso di vertigine da cui potreste
esser colti sulla terra; immaginate ciò e proverete qualcosa che
assomiglia molto alla mia prima impressione. Intorno a questo
pozzo enorme immaginate una grande galleria che scende a
spirale, molto più rapidamente di quanto sarebbe possibile sulla
terra, in modo da formare una strada in pendio, separata dal
precipizio soltanto da un piccolo parapetto che si perde nello
spazio tre chilometri più giù.
«Alzando gli occhi, vidi da sotto in su il rovescio di questo
quadro; faceva l'effetto di guardare in un cono assai aguzzo.
Nel pozzo soffiava una brezza; credetti di udire, lontano
lontano, in alto, a mano a mano sempre più deboli, i muggiti dei
mostri lunari ricondotti all'interno dal pascolo. Lungo le
gallerie, numerosi seleniti, insetti stravaganti e leggermente
luminosi, interrompevano le loro occupazioni, a me ignote, alle
quali attendevano, per contemplare la nostra apparizione.
«Fu una mia illusione? Un fiocco di neve, a un certo punto,
discese rapidamente con la brezza glaciale. Poi, piombando
rapida come un chicco di grandine, una piccola figura di
uomo-insetto, aggrappata a un paracadute, ci sorpassò a grande
velocità, diretta verso le parti centrali della luna.
«Il selenita dalla gran testa, che era seduto al mio fianco,
vedendomi protendere il capo, indicò con la sua mano tronca una
gettata appena visibile molto in basso, una specie di pontile di
sbarco, per così dire, nel vuoto; a mano a mano che esso pareva
salire verso di noi, la nostra velocità andava sensibilmente
diminuendo; in pochi istanti lo raggiungemmo. Una gomena fu
lanciata e afferrata; ed eccomi, d'un tratto, condotto verso una
grande folla di seleniti che si urtavano fra loro per vedermi
bene. Erano moltissimi. Subito s'imposero alla mia attenzione le
innumerevoli differenze esistenti fra quegli abitanti lunari.
«A dire il vero, pareva che, in mezzo a tutta quella folla
saltellante, non ci fossero due seleniti uguali. Tutti
differivano per la forma, per le dimensioni! Alcuni erano grassi
e altissimi, altri correvano fra le gambe dei loro compagni e vi
si avvinghiavano come serpi. Ma tutti suggerivano in modo
grottesco e impressionante l'idea d'un insetto che, in certo
qual modo, voglia prendere in giro l'umanità; e tutti mostravano
incredibilmente esagerato un tratto particolare; chi aveva
l'avambraccio destro così lungo da sembrare un'immensa antenna;
chi sembrava tutto gambe, come in equilibrio sui trampoli; chi
proiettava un organo enorme a forma di naso che gli conferiva un
aspetto sorprendentemente umano, finché rimaneva celata la parte
bassa della sua faccia priva di espressione. La strana testa
d'insetto (a parte che mancavano le antenne) dei guardiani del
bestiame lunare subiva sorprendenti trasformazioni: ora grande e
piatta, ora lunga e stretta; qui l'assenza della fronte era
rimpiazzata da corna e da altre appendici; là il viso era
contornato da una specie di barba, formando un profilo
grottescamente umano. Alcune scatole craniche erano distese come
vesciche fino a raggiungere formidabili dimensioni. Anche gli
occhi erano stranamente diversi: del tutto elefantini alcuni,
nella loro piccolezza; altri, dei veri buchi tenebrosi. Certe
forme apparivano sconcertanti, con teste ridotte a proporzioni
microscopiche e corpi a palla, che davano l'impressione di cose
fantastiche e inconsistenti che si sarebbe creduto esistessero
soltanto per servire di base a grandi occhi fissi e orlati di
bianco. Ciò che più di tutto mi parve bizzarro fu il vedere due
o tre di quegli abitanti d'un mondo sotterraneo, riparato dal
sole e dalla pioggia da chilometri e chilometri di rocce, portar
degli ombrelli nelle loro mani a tentacoli: degli ombrelli che
somigliavano perfettamente a quelli usati sulla terra! Ma pensai
tosto al selenita dal paracadute che avevo visto scendere nel
pozzo.
«Quegli esseri lunari si comportavano, dunque, nello stesso modo
di una folla umana in analoghe circostanze; si spingevano a
vicenda e si urtavano, si scostavano e si arrampicavano gli uni
sugli altri per gettare un'occhiata su di me. Di minuto in
minuto, andavano aumentando di numero e con maggior impeto si
addensavano contro i dischi dei miei guardiani. » Cavor non
spiega che cosa ciò voglia dire. «Ad ogni istante nuove forme
s'imponevano alla mia attenzione già stanca. In breve, mi fu
fatto segno di andare innanzi, mi si aiutò a prender posto in
una specie di lettiga che dei portatori dalle braccia solide
sollevarono sulle loro spalle, e fui così trasportato verso gli
appartamenti per me preparati. Ero attorniato da occhi, facce,
tentacoli; e tutto ciò in mezzo a un sordo rumore, simile a
quello prodotto da uno sfregamento d'elitre di grilli, e ai
belati chiocci delle voci dei seleniti...»
Immaginiamo che egli sia stato condotto in una «stanza
esagonale» ove restò confinato per un certo tempo. Solo più
tardi, gli fu accordata una certa libertà o, per meglio dire, la
stessa indipendenza che si può avere sulla terra in una città
civile. Sembra, infine, che l'essere misterioso che governa e
possiede la luna abbia incaricato due seleniti «dalla testa
grossa» di sorvegliarlo, di studiarlo e di stabilire con lui
ogni possibile comunicazione mentale. E, per quanto ciò possa
apparire sorprendente e incredibile, quelle due creature, quei
due uomini-insetti, quegli esseri di un altro mondo,
comunicarono veramente con Cavor per mezzo d'un linguaggio
terrestre!
Cavor li designa sotto i nomi di Phi-oo e Tsi-puff. «Phi-oo»,
egli dice, «è alto press'a poco un metro e mezzo. Su esili
gambe, lunghe circa sessanta centimetri, e su piedi sottili, del
solito tipo lunare, oscilla un piccolo corpo, scosso dalle
pulsazioni del cervello. Ha lunghe braccia molli, con numerose
giunture, che finiscono in un artiglio tentacolare; il suo collo
è articolato in modo normale, ma è eccezionalmente corto e
grosso. La sua testa (osserva Cavor riferendosi evidentemente a
qualche altra precedente descrizione, smarritasi nello spazio) è
del tipo lunare comune, però modificato. La bocca ha l'abituale
sbadiglio senza espressione, ma è straordinariamente piccola e
aguzza verso il basso; il volto è ridotto alle dimensioni di un
muso largo e piatto. D'ambo i lati, piccoli occhi di pollo.
«Il resto del capo è disteso in un globo immenso e quella specie
di cuoio rugoso dei guardiani delle mandrie si assottiglia in
una semplice membrana, attraverso la quale le pulsazioni del
cervello sono distintamente visibili. Phi-oo è proprio una
creatura afflitta da un cervello ipertrofico, mentre il resto
del suo organismo è, in rapporto, troppo piccolo.»
In un altro passo Cavor paragona Phi-oo, visto di dietro, ad
Atlante che sostiene il mondo. Tsi-puff, almeno così pare, era
un insetto molto simile; ma la sua «faccia» era
considerevolmente allungata e, poiché il suo cervello era
ipertrofico in zone diverse, la testa, invece d'essere rotonda,
aveva la forma di una pera, il cui picciolo sia in basso. Al
servizio di Cavor c'erano anche dei porta-lettighe - esseri
curvi dalle spalle enormi - alcuni uscieri dalle membra di
ragno e un cameriere piccolo e tozzo.
Il modo con cui Phi-oo e Tsi-puff risolsero il problema del
linguaggio è molto semplice. Recatisi nell'appartamento
esagonale ove Cavor era tenuto, si misero ad imitare tutti i
rumori che egli faceva cominciando dai colpi di tosse. Cavor, a
sua volta, richiamò assai presto la loro attenzione, e cominciò
ad articolare parole diverse, indicando a mano a mano con il
dito gli oggetti menzionati; il sistema dovette, forse, esser
sempre lo stesso: Phi-oo ascoltava Cavor per un momento, poi
indicava l'oggetto e ripeteva le sillabe udite.
Il primo termine da lui appreso fu «uomo» e il secondo «lunare»,
di cui, seguendo l'ispirazione del momento, Cavor dovette certo
servirsi, invece che usare la parola «selenita», per designare
gli abitanti della luna. Non appena Phi-oo era sicuro del
significato d'una parola, ripeteva il vocabolo a Tsi-puff che se
lo imprimeva nella memoria per sempre. Impararono così più d'un
centinaio di nomi durante la sola prima seduta.
In seguito, condussero con loro un artista per essere aiutati
nel lavoro di spiegazione per mezzo di schizzi e diagrammi, dato
che i disegni di Cavor erano alquanto rudimentali.
Quest'artista, che, come disse Cavor, era «un essere munito di
braccio attivo e d'occhio penetrante», disegnava con incredibile
rapidità.
L'undicesimo messaggio è senza dubbio un breve frammento di una
lunga comunicazione. Dopo alcune frasi incomplete, il cui senso
è inintelligibile, Cavor continua:
«Ma io non interesserei che i linguisti e sarei condotto troppo
lontano, se entrassi nei particolari della serie di profondi
colloqui di cui questi erano solo l'inizio; d'altra parte,
dubito assai di poter dare un'idea dei giri di parole e degli
accorgimenti che dovemmo adottare per giungere a comprenderci
vicendevolmente. I verbi furono superati senza difficoltà; quei
verbi attivi, se non altro, che potevo esprimere con disegni;
alcuni aggettivi, anche, furono facili; ma quando si giunse ai
nomi astratti, alle preposizioni e alle parti del discorso più
comuni e in se stesse insignificanti, per mezzo delle quali si
dicono tante e tante cose sulla terra, la faccenda si fece
seria. Difficoltà simili rimasero veramente insuperabili finché,
alla sesta lezione, non comparve un quarto assistente, dalla
testa ovale enorme, la cui specialità era la soluzione dei più
complicati problemi d'analogia. Entrò con passo preoccupato,
inciampando contro uno sgabello; le difficoltà che sorsero
dovettero essergli designate con una certa quantità di grida, di
spinte e di punture, prima che egli comprendesse; ma poi, d'un
tratto e in modo sorprendente, capì tutto. Ogni volta che si
presentava la necessità di pensieri superiori alle capacità
tutt'altro che limitate di Phi-oo, entrava in funzione questo
nuovo personaggio dalla testa oblunga, il quale trasmetteva
invariabilmente il suo responso a Tsi-puff perché non venisse
più dimenticato: Tsi-puff era sempre un vero arsenale di
cognizioni. Così andammo guadagnando terreno.
«Tutto ciò parve lungo e fu, invece, brevissimo, una questione
di giorni; dopo di che fu veramente possibile conversare con
quegli insetti lunari. Inutile dire che i primi colloqui furono
assai noiosi ed esasperanti; sta di fatto che, a poco a poco,
senza neanche accorgercene, giungemmo ad intenderci
relativamente bene. Io sono divenuto un uomo pazientissimo.
Spetta a Phi-oo parlare; ed egli lo fa con un'enorme quantità di
hum! hum! meditativi, non senza ripetere un paio di frasi da lui
apprese: "Se posso dire", o "se comprende", con le quali
intercala ogni discorso.
«Immaginate un po' come si esprimeva per presentarmi l'artista.
«"Hum! Hum...! Egli... Se posso dire... Disegna. Mangia poco...
Beve poco... Disegna... Ama disegnare... Null'altro... Detesta
tutti quelli che disegnano non come lui... Collerico... Detesta
tutti quelli che disegnano come lui meglio... Detesta la maggior
parte delle persone. Detesta tutti quelli che non credono che il
mondo è fatto per disegnare. Collerico. Hum...! Tutto il resto è
nulla per lui... Soltanto disegnare. Lui stima lei... Se lei
comprende... Nuova cosa da disegnare. Brutto...
impressionante... eh...?"
«"Egli", diceva, volgendosi verso Tsi-puff, "ama ricordarsi le
parole, si ricorda meravigliosamente più d'ogni altro. Pensa no,
disegna no... Si ricorda. Dice... (e qui si rivolgeva al suo
assistente per la parola che gli mancava) delle storie... ogni
cosa. Sente una volta... dice sempre".
«E' per me la cosa più meravigliosa che mai abbia sognato
sentire creature così straordinarie - nemmeno con la
familiarità si dimentica l'impressione inumana del loro aspetto
- avvicinare e piegare quanto più possibile i loro sibili alle
forme di una lingua terrestre coerente, fare delle domande e
dare delle risposte. Mi pare di essere ritornato al periodo
dell'infanzia, quando leggevo avidamente i racconti fantastici e
favolosi, in cui la formica e la cavalletta discutono e l'ape
giudica fra di loro...».
ente per la parola che gli mancava) delle storie... ogni cosa.
Sente una volta... dice sempre".
« per me la cosa più meravigliosa che mai abbia sognato sentire
creature così straordinarie - nemmeno con la familiarità si
dimentica l'impressione inumana del loro aspetto - avvicinare e
piegare quanto più possibile i loro sibili alle forme di una
lingua terrestre coerente, fare delle domande e dare delle
risposte. Mi pare di essere ritornato al periodo dell'infanzia,
quando leggevo avidamente i racconti fantastici e favolosi, in
cui la formica e la cavalletta discutono e l'ape giudica fra di
loro... ».
Mentre continuava tali esercizi linguistici, pare che il rigore
con il quale Cavor era tenuto prigioniero fosse notevolmente
diminuito. La diffidenza e la paura sollevate dal nostro
disgraziato conflitto andarono, egli dice, «a poco a poco
scomparendo grazie alla logica a cui ogni mio atto rimase
deliberatamente subordinato... Posso, ormai, andare e venire a
mio piacere; le poche restrizioni alle quali debbo ancora
sottomettermi mi sono imposte nel mio stesso interesse. Mi è
stato possibile scoprire questo apparecchio e, approfittando di
una fortunata ricerca in mezzo al materiale che ingombra questo
enorme magazzino, inviare questi messaggi. Finora, nessuno ha
mai tentato d'immischiarsi in quello che faccio, pur avendo io
dichiarato apertamente a Phi-oo che comunico con la terra.
«"Lei parla ad altro?", domandò, esaminando lo strumento.
«"Ad altri" dissi io.
«E continuai la mia trasmissione.»
Cavor correggeva continuamente le sue precedenti descrizioni dei
seleniti, ciò era dovuto alla conoscenza progressiva di altri
fatti che modificavano le conclusioni alle quali era già
arrivato. Citiamo, quindi, con alcune riserve quanto segue.
Prendiamo le citazioni dal nono, tredicesimo e sedicesimo
messaggio; per quanto vaghe e saltuarie, danno pur sempre un
quadro abbastanza completo della vita sociale di quella strana
comunità.
«Sulla luna», dice Cavor, «ogni cittadino ha un particolare
incarico, e la disciplina complicata alla quale deve
sottomettersi finisce per ridurlo così completamente ed
esclusivamente idoneo all'esercizio delle sue mansioni, da
eliminare idee ed organi atti a un diverso scopo. "Perché
dovrebbe essere diversamente?" dice Phi-oo. Se, per esempio, un
selenita nasce con le attitudini necessarie per divenire un
matematico, i suoi educatori e i suoi professori fin dall'inizio
fanno in modo che tale egli divenga davvero, reprimendo subito
ogni tendenza rivolta ad altri scopi e incoraggiando invece i
suoi gusti matematici con un'abilità psicologica perfetta. Il
suo cervello e le sue facoltà matematiche si sviluppano, così,
in modo prevalente, assieme a quella parte del suo organismo che
è necessaria per un siffatto compito. All'infuori del riposo e
dei pasti, la sola sua delizia è costituita dall'esercizio e
dall'accrescimento di quella particolare facoltà; il suo
interesse è rivolto soltanto alla sua specialità, e i suoi
contatti avvengono esclusivamente con altri specialisti del suo
genere. Il suo cervello cresce continuamente, o meglio, crescono
in esso le sole parti necessarie per gli studi matematici, quasi
assorbendo la vita e il vigore del resto della sua carcassa. Le
sue membra si deformano per il mancato sviluppo, mentre il cuore
e gli organi della digestione rimpiccioliscono e la sua faccia
d'insetto scompare sotto i contorni rigonfi della scatola
cranica. La sua voce si attenua in un semplice mormorio atto ad
esporre delle formule; egli diviene insensibile a tutto ciò che
non sia vera e propria enunciazione di un problema. La capacità
di ridere, eccettuato il caso dell'improvvisa scoperta di un
paradosso, resta in lui atrofizzata; la sua più profonda
emozione è data dalla soluzione d'un nuovo calcolo; e, così, il
suo scopo è raggiunto.
«Un altro selenita, invece, è designato guardiano di gregge?
Eccolo, fin dai primi anni, abituato a pensare al bestiame, a
vivere con esso, a trovare ogni suo piacere in ciò che ad esso
si riferisce, ad esercitarsi nell'averne cura e nel guidarlo.
Viene condotto fuori per divenire attivo e nervoso, gli si
abitua l'occhio agli stretti viluppi, ai contorni angolosi che
costituiscono la sua specialità, fino a che le regioni profonde
della luna finiscono per riuscirgli del tutto indifferenti; egli
guarda allora con noncuranza, deride e osteggia tutti i seleniti
non ugualmente versati nell'arte di curare, allevare e guidare
il gregge. Tutti i suoi pensieri sono per i pascoli e il suo
dialetto è composto dei termini tecnici del suo mestiere. In tal
modo egli ama il suo lavoro e, con perfetta soddisfazione,
compie i doveri che giustificavano la sua esistenza. Altrettanto
avviene per i seleniti d'ogni genere e condizione; ciascuno è
un'unità perfetta in un mondo meccanico...
«Gli esseri dalla testa grossa, ai quali sono riservati i lavori
intellettuali, formano in questa società strana una specie di
aristocrazia, e hanno come capo - potenza suprema della luna
il meraviglioso, gigantesco Gran Lunare, alla cui presenza fra
poco debbo esser condotto. Lo sviluppo illimitato delle menti
della classe intellettuale è reso possibile dall'assenza
assoluta, nell'anatomia lunare, di cranio osseo, quella strana
scatola che contiene il cervello umano e ne limita
imperiosamente le possibilità. Gli intellettuali lunari si
dividono in tre classi principali, che differiscono immensamente
fra loro per quel che concerne influenza e considerazione. Vi
sono gli amministratori, di cui Phi-oo fa parte, seleniti di
grande versatilità ed iniziativa, ai quali spetta rispondere di
una certa quantità cubica della massa lunare; gli esperti, come
il pensatore della testa ovale, destinati a compiere speciali
operazioni; gli eruditi, infine, depositari della scienza. A
quest'ultima classe appartiene Tsi-puff, il primo che sulla luna
abbia parlato un linguaggio terrestre. Per quel che riguarda
questi ultimi, è curioso notare come il crescere illimitato del
cervello lunare abbia reso inutile l'invenzione di tutti gli
aiuti meccanici del lavoro cerebrale che hanno segnato il
progresso dell'uomo. Non ci sono né libri né annali d'alcun
genere, né biblioteche né iscrizioni. Ogni nozione è
immagazzinata in quei grandi cervelli, nello stesso modo che le
formiche del Texas immagazzinano il miele nei loro addomi
rigonfi. Le loro biblioteche non sono nient'altro che collezioni
di cervelli viventi...
«Osservo che gli amministratori, meno specializzati, hanno per
me un vivissimo interesse ogni volta che mi incontrano. Si fanno
da parte, mi esaminano e rivolgono delle domande, alle quali
risponde Phi-oo. Io li vedo andare qua e là, con un seguito di
portatori, di domestici, di strilloni, di paracadutisti, gruppi
quanto mai bizzarri a vedersi. Gli esperti, per la maggior
parte, come s'ignorano, fra loro, ignorano anche me e, se mi
degnano della loro attenzione, è solo per esibire subito il loro
talento. Gli eruditi sono quasi sempre assorti nella più
profonda ammirazione di loro stessi; impenetrabili e immobili
come apoplettici, non si svegliano se non quando vedono messa in
dubbio la loro erudizione. Generalmente, son condotti in giro da
domestici nani e da guardiani; spesso, poi, sono accompagnati da
piccole creature dall'aria affaccendata, piccole femmine, di
solito, che propendo a credere siano per loro delle specie di
spose. Ma alcuni dei sapienti più insigni hanno dimensioni tali
che ogni locomozione diviene loro impossibile; sono, allora,
trasportati di luogo in luogo da portatori in una specie di
botte, masse traballanti e gelatinose di scienza che suscitano
in me un senso di rispettosa meraviglia. Ne ho appena incontrato
uno, venendo qui, dove mi si permette di divertirmi con questi
giocattoli elettrici. Era una gran testa tremula e calva,
ricoperta d'una pellicola sottilissima, condotta in giro dai
portatori nella sua grottesca barella. Tutt'intorno, strani
propalatori di notizie, dalla faccia simile a una trombetta,
andavano gridando la sua fama ai quattro venti.
«Ho già accennato ai cortei che accompagnano la maggior parte
degl'intellettuali, costituiti da uscieri, portatori e valletti,
cui spetta di rimpiazzare, come altrettanti muscoli e tentacoli
esteriori, le facoltà fisiche limitate di queste menti
ipertrofiche. I portatori li seguono quasi sempre; talvolta li
accompagnano anche dei messaggeri rapidissimi, con gambe come
quelle dei ragni, alcuni domestici incaricati di custodire i
paracadute ed altri individui, forniti d'organi vocali di tal
forza da risvegliare anche i morti. Quando non entra in azione
la loro intelligenza, questi subordinati rimangono inerti e
impotenti come ombrelli in un'anticamera. Essi non esistono che
per gli ordini ai quali debbono ubbidire, per i doveri che
debbono compiere.
«Nell'insieme, questi insetti che circolano per le vie a
spirale, riempiono i palloni ascendenti e discendenti e mi
passano vicino sospesi a fragili paracadute, appartengono alla
classe operaia. Mani meccaniche, tali sono in realtà alcuni di
questi esseri, metafore a parte; l'unico tentacolo del pastore
dei vitelli lunari è rimpiazzato da immense braccia, sole o
appaiate, con tre, cinque o sette dita, per afferrare,
sollevare, guidare: il resto è costituito da semplici appendici
secondarie, strettamente indispensabili per le cose più
importanti. Certi seleniti che, suppongo, si occupano di
meccanismi rumorosissimi, hanno enormi orecchie come quelle
delle lepri proprio dietro gli occhi; altri, che hanno come
compito delicate operazioni chimiche, proiettano innanzi un
grande organo olfattivo; altri ancora hanno piedi piatti come
pedali, con giunture anchilosate, ed altri infine, che m'hanno
detto essere soffiatori di vetro, hanno polmoni che sembrano
veri soffietti. Ognuno dei comuni seleniti da me visti è
perfettamente idoneo alla funzione sociale riservatagli. I
lavori molto delicati sono affidati ad operai raffinati,
meravigliosamente ridotti a minime dimensioni; tanto piccole da
consentirmi, volendo, di tenerne alcuni nel palmo della mano.
Esiste pure una specie di selenita girarrosto, assai comune, il
cui dovere e la cui unica delizia consistono nel fornire la
forza motrice a svariati apparecchi. E per governare tutto ciò,
per reprimere ogni tendenza ostile di qualche individuo un po'
traviato, vi sono esseri speciali, i più muscolosi che io abbia
visti sulla luna, una specie di polizia lunare, le cui membra
sono abituate sin dalla più tenera età ad obbedire alle teste
rigonfie e a rispettarle nel modo più scrupoloso.
«La preparazione di queste diverse specie di lavoratori
dev'essere certamente ottenuta con processi molto interessanti e
curiosi. Nulla di positivo riuscii a sapere a tale riguardo; ma,
di recente, sono capitato fra un certo numero di seleniti
giovani, confinati ognuno in una specie di boccale, da cui
uscivano soltanto le membra superiori; si preparavano così a
divenir servi di macchine d'un genere particolare. Le membra
distese in tal modo, con quel sistema di educazione tecnica
altamente sviluppato, sono stimolate da sostanze irritanti e
nutrite per mezzo di iniezioni, mentre il resto del corpo è
privato d'ogni alimento. Phi-oo, se non ho mal compreso, mi
spiegò che da principio quelle piccole creature lasciano
scorgere segni di sofferenza nelle loro diverse posizioni
raggomitolate, ma finiscono per abituarsi facilmente alla loro
sorte; mi condusse poi in un luogo dove si confezionavano e si
addestravano messaggeri dalle membra flessibili. E'
irragionevole, lo so, ma sta di fatto che la vista dei metodi di
educazione ai quali sono sottoposti quegli esseri mi colpì
sgradevolmente. Spero, tuttavia, che l'impressione passerà
presto e che mi sarà dato vedere ancora con tranquilla
indifferenza simili aspetti di un ordinamento sociale tanto
meraviglioso. Quella mano-tentacolo miserabile, che usciva fuori
del boccale, sembrava implorare debolmente le sue forze perdute;
ne sono ancora scosso, quantunque, infine, si tratti di un
processo molto meno crudele del nostro metodo terrestre di
lasciare che i bambini divengano uomini per trasformarli, allora
soltanto, in macchine.
«Non molto tempo fa - ero, credo, alla mia undicesima o
dodicesima visita a quell'apparecchio - ebbi la strana
rivelazione della vita degli operai. Ero giunto là da una
scorciatoia che mi evitava le vie a spirale e le banchine del
mare Centrale. Dalle sinuosità di una lunga ed oscura galleria
eravamo entrati in una grande e bassa caverna molto illuminata,
piena di un odore terrestre. La luce proveniva da una densa
vegetazione di forme fungose livide, alcune delle quali, a dire
il vero, stranamente simili ai nostri funghi, ma tanto alte da
superare la statura d'un uomo.
«"E' questo, dunque, il cibo dei lunari?" domandai a Phi-oo.
«"Sì, cibo".
«"Gran Dio" gridai d'un tratto, "che cos'è?"
«Avevo visto un selenita eccezionalmente grande e mal costruito,
disteso immobile fra i tronchi, la faccia al suolo. Ci fermammo.
«"Morto?" domandai. (Fino allora non avevo mai visto dei morti
sulla luna, e l'inattesa visione aveva eccitato la mia
curiosità.)
«"No!" esclamò Phi-oo. "Lui lavoratore... non lavoro da fare...
prende piccola pozione allora... fa dormire... fino a che si
abbia bisogno di lui. Perché lui svegliato...? Non bisogno lui
andare e venire per niente."
«"Eccone un altro!" esclamai.
«Infatti, tutta quella immensa distesa coperta di funghi era
ingombra di simili forme prostrate, addormentate da un narcotico
finché la luna avesse nuovamente bisogno di loro. Ve n'erano
d'ogni genere, in gran quantità, e potemmo rovesciarne alcuni ed
esaminarli più da vicino di quanto avessi potuto fare in
precedenza. Respiravano rumorosamente quando venivano mossi, ma
non si svegliavano. Ve n'era uno di cui mi ricordo
perfettamente; mi lasciò, credo, un'impressione più profonda,
perché, a causa di un gioco di luce, la sua posa dava l'idea di
una figura umana distesa a terra. Le membra superiori erano
lunghi e delicati tentacoli - lavorava oggetti fini, certo - e
il suo atteggiamento faceva pensare ad una sofferenza subita con
rassegnazione. Senza dubbio, era un mio errore interpretare così
quell'espressione; ma che cosa farci? Mentre Phi-oo lo
respingeva nelle tenebre, in mezzo alla vegetazione livida e
carnosa, io provai di nuovo una sensazione sgradevole, pur non
potendo dubitare che si trattasse di un insetto, al vederlo
rotolar giù.
«Ciò dimostra semplicemente come sia falso il modo con cui noi
acquistiamo l'abitudine di pensare e di sentire. Narcotizzare
l'operaio di cui non ci si può servire e tenerlo come riserva è
meglio certamente che cacciarlo dall'officina ed esporlo a morir
di fame sulla strada. In ogni comunità sociale complessa vi sono
delle soste nell'occupazione di lavoratori specializzati; sotto
questo rapporto, dunque, gli imbarazzi derivanti dal problema
della disoccupazione sono assolutamente ignoti ai seleniti.
Eppure, ogni mente, educata come la mia all'osservazione
scientifica, è così irragionevole, che mi perseguita ancora il
ricordo di quelle figure prostrate sotto le volte calme e
luminose di vegetali carnosi e mi obbliga ad evitare la
scorciatoia, preferendo la strada normale, sebbene sia più
lunga, più rumorosa e più ingombra.
«Da questa strada passo vicino ad un'immensa caverna oscura,
nella quale posso scorgere le madri della popolazione lunare, le
regine, per così dire, dell'alveare, intente a guardare dalle
aperture esagonali d'una specie di muro a celle, o a passeggiare
in un largo spazio situato più in basso, o a scegliere
giocattoli ed amuleti fabbricati per loro diletto da gioiellieri
dalle dita delicatissime entro grotte sotterranee. Sono creature
dall'aria nobile, fantasticamente e talvolta assai graziosamente
ornate, altere nell'incedere e, a parte la bocca, dalla testa
quasi microscopica.
«Sulla condizione dei sessi sulla luna, sui matrimoni tra i
seleniti e sulle nascite, potei finora apprendere poco; ma, con
i rapidi progressi di Phi-oo nella lingua inglese, ben presto
potrò mettermi al corrente di tutto. Credo che, come avviene tra
le formiche e le api, una gran maggioranza dei membri di questa
comunità appartenga al sesso neutro. Del resto, anche sulla
terra, nelle nostre città, molti esseri non conducono vita di
famiglia, che è la vita naturale dell'uomo. Sulla luna, come
sulla terra tra le formiche, ciò costituisce una condizione
normale della razza, e la fatica della riproduzione della specie
è riservata a una classe speciale e ristretta di matrone, le
madri del mondo lunare, creature corpulente e maestose,
meravigliosamente fatte per la riproduzione delle larve
selenite. Se non ho male interpretato una spiegazione di Phi-oo,
tali femmine sono assolutamente incapaci di curare i piccoli da
loro messi al mondo: periodi di stupida indulgenza si alternano
in loro ad accessi di violenza aggressiva, e, non appena sia
possibile, i piccoli, che nascono molli, flosci e di colorito
pallido, sono affidati alle cure d'una varietà di femmine
sterili, lavoratrici, che, in certi casi, posseggono cervelli di
dimensioni quasi maschili.»
Disgraziatamente, proprio a questo punto il messaggio fu
interrotto. Per quanto frammentaria e poco piacevole sia la
materia che costituisce questo capitolo, essa offre tuttavia
un'impressione vaga ed ampia di un mondo assolutamente strano,
un mondo con il quale il nostro deve prepararsi a fare i conti.
Questo susseguirsi intermittente di messaggi e questo sommesso
mormorio del registratore nelle tenebre, su un fianco delle
Alpi, sono il primo indizio di un cambiamento che si produrrà
nelle condizioni umane e che l'umanità finora non ha mai
immaginato. Esistono sulla luna nuovi elementi, nuovi
apparecchi, nuove tradizioni, una schiacciante valanga di idee
nuove, una razza strana con la quale inevitabilmente lotteremo
per la supremazia, data la presenza sulla luna dell'oro, comune
là come il ferro o il legno sulla terra...
25. IL GRAN LUNARE.
Il penultimo messaggio descrive, ogni tanto con elaborati
particolari, l'incontro tra Cavor e il Gran Lunare, che è il
sovrano o signore della luna. Cavor sembra aver trasmesso la
maggior parte del resoconto di tale incontro senza interruzioni,
ma deve essere stato interrotto nella parte conclusiva che
pervenne dopo un intervallo di una settimana.
La prima parte del messaggio comincia così: «Finalmente sono
capace di riprendere questa...», poi diventa incomprensibile per
un tratto, e quindi ritorna intelligibile nel bel mezzo di una
frase.
Le parole mancanti della frase che segue debbono esser
probabilmente: «La folla»; dopo di che si legge in modo chiaro:
«Diveniva sempre più densa a misura che ci avvicinavamo al
palazzo del Gran Lunare, se è lecito chiamare palazzo una serie
di scavi. C'erano ovunque, rivolte verso di me, pallide facce
rigonfie, dagli occhi immobili, dilatati sopra orribili narici
tentacolari, o piccoli, sotto fronti mostruose; e, tutt'intorno,
un formicolio di creature minuscole, che si pigiavano mugolando,
e di teste grottesche, piantate fra due spalle o sotto le
braccia dei vicini. Per mantenermi in uno spazio libero,
marciava al mio fianco una fila di robusti gendarmi, dalla testa
a secchio di carbone; erano gli stessi che si erano uniti a noi
quando avevamo lasciato il battello con il quale avevamo
attraversato i canali del mare Centrale. L'artista dal piccolo
cervello ci raggiunse; una schiera compatta di magri portatori
procedeva, curva sotto il peso di una grande quantità di oggetti
scelti per me. Durante quest'ultimo tratto del nostro viaggio,
fui portato in una lettiga fatta d'un metallo assai duttile, che
mi sembrò scuro e lavorato come una maglia, con piccole sbarre
di metallo più pallido. A mano a mano che avanzavamo, si andava
formando una gran processione.
«Camminavano davanti, come araldi, quattro creature dalla faccia
a trombetta, emettendo schiamazzi assordanti; seguiva poi un
gruppo di uscieri tarchiati, rassomiglianti un po' a dei grossi
scarabei; ai lati, una fila di teste sapienti, vera enciclopedia
vivente, richiesta, come mi spiegò Phi-oo, dal Gran Lunare per
fargli da interprete. Non un particolare della scienza lunare,
non una veduta, non un metodo di pensiero erano ignoti alle
teste di quegli esseri meravigliosi. Guardie e portatori
seguivano, precedendo Phi-oo, dal cervello fremente, adagiato
anch'egli su una lettiga; subito dopo, in un'altra lettiga un
po' meno lussuosa, veniva Tsi-puff; io, infine, in una lettiga
più elegante di tutte le altre, circondato dai miei servitori.
Dietro di me, altri araldi-trombettieri mi assordavano con
clamori altissimi; era poi la volta di parecchi grandi cervelli,
corrispondenti speciali, potremmo chiamarli, o stenografi,
incaricati di osservare e ricordare tutti i particolari di tale
indimenticabile intervista. Chiudeva il corteo una grande
schiera di creature diverse, che agitavano delle insegne,
trascinando masse fungose profumate e strani simboli lungo il
percorso. Faceva ala un fitto cordone di uscieri e di ufficiali,
carichi di ornamenti scintillanti come acciaio; alle loro
spalle, da ogni lato, si accalcavano, si agitavano le teste e i
tentacoli di una folla spettatrice veramente enorme.
«Confesso che, non essendomi ancora abituato all'impressione
particolare prodotta dall'aspetto dei seleniti, non trovavo
affatto piacevole l'essere, per così dire, sballottato su quel
gran mare di esseri entomologici eccitati. Provai, anzi, per un
momento, un vero terrore, lo stesso che avevo già provato prima,
nelle caverne lunari, quando d'un tratto m'ero visto senza
difesa alcuna, in mezzo a una fitta schiera di seleniti. Si
tratta di una sensazione assolutamente irrazionale, da cui spero
di liberarmi a poco a poco; ma sta di fatto che, per un istante,
mentre andavo avanzando sballottato da quella moltitudine, fu
solo aggrappandomi forte alla mia lettiga e facendo ricorso a
tutta la mia volontà che riuscii a trattenere un grido o
un'altra simile manifestazione di terrore. Fu una questione di
pochi minuti; dopo di che, ripresi, subito e completamente, il
dominio di me stesso.
«Ascesa la spirale dei pozzi verticali, attraversammo un gran
numero di sale immense, dal soffitto a volta, magnificamente
decorate. Avevano certo predisposto l'arrivo del Gran Lunare in
modo tale da dare una viva impressione della sua grandezza. Le
sale - per mia fortuna tutte abbastanza illuminate per il mio
occhio terrestre - costituivano un abile crescendo di spazio e
di decorazione. L'effetto della loro dimensione sempre più
grande era aumentato dalla continua diminuzione della luce e da
un sottile velo di profumi bruciati, sempre più denso via via
che avanzavamo. Nelle prime sale la luce vivida dava alle cose
contorni netti e concreti; non così avveniva nelle altre, e si
aveva l'impressione di procedere di continuo verso un luogo
sempre più grande, più scuro e più immateriale.
«Devo confessare che tanto splendore acuiva in me un senso di
disagio per lo stato miserabile e indegno in cui mi trovavo.
Avevo barba e capelli lunghi ed incolti, privo com'ero di
rasoio, e baffi irti coprivano le mie labbra. Sulla terra sono
sempre stato incline a sdegnare grandi cure per la mia persona,
riducendole a quelle necessarie per la pulizia quotidiana. Ma,
nelle circostanze eccezionali in cui mi trovavo e dato il
compito di rappresentante del mio pianeta e della mia specie
dovevo contare, per essere ben accolto, sull'attrattiva
esteriore, e quindi avrei pagato chissà che per esser vestito
con qualcosa di più nobile e più artistico dei miseri stracci
che mi coprivano. Ero sempre stato così convinto della
inesistenza di abitanti sulla luna, che avevo del tutto
trascurato simili preoccupazioni. Ed ecco che mi trovavo vestito
d'una giacca di flanella, pantaloni alla zuava e calze da
ciclista, tutto macchiato d'ogni genere di sporcizia lunare e
con i piedi calzati di pantofole, di cui la sinistra era persino
priva di tacco; fortunatamente, avevo anche una coperta che,
forata nel mezzo, lasciava passare la testa e ricopriva alla
meglio le mie miserie. Sono questi gli abiti che indosso anche
adesso! E' vero che la barba ispida finiva per migliorare i miei
lineamenti; ma avevo anche un grande strappo in un ginocchio dei
calzoni, assai visibile purtroppo, nonostante rimanessi tutto
raggomitolato nella lettiga; a ciò s'aggiunga che la calza
destra continuava anch'essa a scendere sullo stinco. E' facile
comprendere come il mio abbigliamento abbia fatto torto
all'intera umanità. Se avessi potuto, con qualsiasi espediente,
improvvisare qualcosa di speciale ed imponente, l'avrei fatto di
certo; il male è che non seppi escogitare nulla. Cercai di
trarre dalla mia coperta il maggior effetto possibile,
drappeggiandola come una toga, e restai seduto ergendo il busto
in atteggiamento dignitoso, nonostante il continuo dondolio
della lettiga.
«Immaginate la sala più ampia che si sia mai vista,
artisticamente decorata di maiolica azzurra, illuminata - senza
che si vedesse come - da una luce bluastra, e gremita di
creature metalliche e livide, l'una diversa dall'altra, di
quella stupefacente diversità da me già accennata. Immaginate
che questa sala termini in una volta, in cima alla quale si
trovi una sala più grande ancora, seguita da una terza anche più
vasta e così di seguito, a perdita d'occhio. All'estremo limite
della prospettiva, una serie di gradini, come quelli dell'Ara
Coeli, a Roma, che salivano così in alto da non poterli più
scorgere, e che sembravano sempre più alti via via che ci si
avvicinava alla loro base. Giunto finalmente sotto un'immensa
volta, potei vedere l'apice di quei gradini, sui quali
troneggiava il Gran Lunare.
«Stava seduto là, avvolto in un fulgore di azzurro
incandescente. Un'atmosfera nebbiosa riempiva il luogo, dando
alle pareti una lontananza fantastica e ai miei sensi
l'impressione di ondeggiare in un vuoto azzurrognolo.
«Il Gran Lunare mi fece dapprima l'effetto d'una piccola nube
luminosa, da cui irraggiasse tutt'intorno un grande chiarore.
Meditava sul suo trono celeste, e il suo cervello poteva
misurare parecchi metri di diametro. Per una ragione che non
sono riuscito ad approfondire, vari fasci di luce irradiavano da
dietro il trono, come se il Gran Lunare fosse stato una stella;
un grande alone luminoso lo circondava. Alcuni servi lo
sostenevano, minuscoli e quasi indistinti fra tanto splendore;
più sotto, appartati e tutti in piedi in un vasto semicerchio,
stavano raccolti i suoi dipendenti intellettuali, i suoi
suggeritori, i calcolatori, i ricercatori, i servi e tutti gli
onorevoli insetti della corte lunare. Più sotto ancora, c'erano
gli uscieri e i messaggeri; scaglionate poi sugli innumerevoli
gradini, stavano le guardie; gremita, infine, la base brulicava
di un'enorme e indistinta moltitudine di piccoli dignitari e
funzionari lunari. Il loro sgambettare produceva un tenue rumore
sul suolo roccioso; le loro membra, invece, si agitavano con
altissimo strepito.
«Quando entrai nella penultima sala, una musica dolcissima si
fece udire, salendo a poco a poco in una regale magnificenza di
suoni, mentre i clamori degli strilloni s'andavano spegnendo...
«Giunsi nell'ultima sala, la più vasta...
«Il mio corteo si aprì a ventaglio... Gli uscieri e le guardie
che mi precedevano si fecero da parte, a destra e a sinistra, e
le tre lettighe nelle quali eravamo io, Phi-oo e Tsi-puff
procedettero su un suolo lucido e brillante fino ai piedi della
gigantesca scalea. Cominciò allora, fondendosi con la musica, un
vasto ed ansioso sussurro. I due seleniti si chinarono a terra;
ma a me si ordinò di rimanere seduto quale segno di speciale
onore, immagino. La musica tacque, pur continuando il sussurro,
mentre il movimento simultaneo di diecimila teste rispettose
faceva volgere il mio sguardo verso quell'alone di suprema
intelligenza che si librava su di noi.
«Dapprima, quando tentai di distinguerlo meglio tra lo
sfolgorante chiarore, quel cervello quintessenziale mi parve
assai simile a una vescica opaca, privo com'era di lineamenti
definiti, con lievi ombre ondulate di circonvoluzioni che
visibilmente si agitavano. Sotto quel cervello enorme minuscoli
occhi neri e penetranti scintillavano, fissando qua e là, nello
sfolgorio circostante; era impossibile sostenerne lo sguardo,
sia pure un attimo solo, senza provare una violenta sensazione
d'angoscia. Non era un volto quello; si sarebbe detto che due
occhi si fossero rifugiati in due fori. Dapprima, non potei
scorgere che quelle piccole pupille fisse; vidi, poi, anche un
corpo da nano e delle membra da insetto, pallide e raggrinzite.
Lo sguardo di quell'essere s'abbassava verso di me con una
strana intensità; la parte inferiore del globo rigonfio era
increspata. Piccole mani, veri tentacoli inutili, mantenevano
quella forma sul suo trono...
«Era grande, eppure pietoso. Veniva fatto di dimenticare la sala
e la folla.
«Con forti scosse, mi fecero salire la scala. Mi pareva che quel
cervello dai riflessi purpurei mi attanagliasse. Le file dei
servi e degli aiutanti sembravano assottigliarsi, fino a
scomparire, nello splendore di quel centro sovrano. Mi accorsi
che personaggi nebulosi facevano colare un liquido rinfrescante
su quel grande cervello, strofinandolo e sostenendolo. Io,
frattanto, rimanevo aggrappato alla lettiga, gli occhi fissi sul
Gran Lunare, incapace di volgerli altrove. Quando, finalmente,
potei giungere su un ripiano separato dal trono da una decina di
gradini appena, la confusa magnificenza della musica raggiunse
il colmo e si spense: ero rimasto, per così dire, nudo in quella
enorme vastità, sotto gli occhi scrutatori del Gran Lunare.
«Egli andava esaminando il primo essere umano giunto fino a
lui...
«Riuscii, tuttavia, a staccargli gli occhi di dosso, girando lo
sguardo, prima sulle indecise figure che l'attorniavano, quasi
evanescenti nella nebbia azzurrognola, poi, in fondo ai gradini,
sui seleniti ammassati là a migliaia, immobili e intenti. Ancora
una volta, quella folla destò in me un irragionevole orrore...
che poi passò...
«Seguì una sosta e si venne al saluto. Aiutato a scendere dalla
mia lettiga, rimasi goffamente in piedi, mentre gesti curiosi,
senza dubbio simbolici, venivano fatti in mia vece da due esili
funzionari a tale scopo delegati. Il corteo enciclopedico dei
sapienti, da cui ero stato accompagnato fino all'ingresso
dell'ultima sala, apparve allora, schierato a destra e a
sinistra, due gradini sotto di me, pronto ai bisogni del Gran
Lunare. Il bianco cervello di Phi-oo andò a collocarsi a metà
strada circa dal trono, in posizione tale da poter facilmente
comunicare con noi, senza essere perciò obbligato a volger le
spalle né all'uno né all'altro. Tsi-puff prese posto dietro il
suo compagno. Abili uscieri mi vennero incontro, tenendo sempre
la faccia interamente rivolta verso il Gran Lunare. Sedutomi
alla turca, Phi-oo e Tsi-puff s'inginocchiarono un po' più in
alto. Seguì una pausa. Gli occhi dei cortigiani più vicini
andavano da me al Gran Lunare per tornare a fissarsi su di me.
Un fremito d'attesa passò sulle moltitudini sottostanti, quasi
invisibili; ci fu poi un profondo silenzio.
«Nessuno fiatò.
«Per la prima e l'ultima volta nel mio soggiorno, la luna fu
silenziosa.
«Sentii un debole e tremulo sussurro. Il Gran Lunare si
rivolgeva a me. La sua voce sembrava prodotta dallo stropiccio
d'un dito su una lastra di vetro.
«Esaminatolo attentamente per alcuni minuti, diedi poi
un'occhiata al vigile Phi-oo. In mezzo a tutti quegli esseri, mi
sentivo ridicolmente grosso, carnoso e solido con la mia testa
ridotta, al loro confronto, a sole mascelle ricoperte d'ispidi
peli neri. Fissai di nuovo il Gran Lunare. Taceva. I suoi servi
gli si affaccendavano intorno, e quanto c'era in lui di lucente
brillava ancora di più, irrorato da un liquido refrigerante.
«Phi-oo rimase un istante pensieroso, consultò Tsi-puff; poi si
mise a pigolare nel mio linguaggio parole appena comprensibili
per il nervosismo da cui era invaso.
"Hum! Hum...! Il Gran Lunare... desidera dire... comprende che
lei è... hum...! uomo... che lei è un uomo del pianeta terra.
Egli desidera dire che lei è il benvenuto... il benvenuto... e
desidera sapere... sapere, se posso usar questa parola... lo
stato del suo mondo... e la ragione che l'ha condotto qui..."
«Tacque. Ero sul punto di rispondere, quando egli riprese la
parola, facendo alcune osservazioni il cui nesso non era molto
chiaro; credo, tuttavia, fossero dei complimenti. Mi disse che
la terra era per la luna ciò che il sole è per la terra e che i
seleniti desideravano vivamente avere maggiori notizie su quanto
riguarda la terra e i suoi abitanti. Ricordò, sempre per puro
complimento, le dimensioni e il diametro della terra e della
luna, accennando alla meraviglia e alla curiosità con cui i
seleniti avevano sempre osservato il nostro pianeta. Riflettei
un istante, gli occhi bassi, con aria modesta, prima di
rispondere; dissi poi che anche gli uomini si chiedevano
insistentemente che cosa contenesse la luna, pur credendola
disabitata, non supponendo affatto l'infinita magnificenza che
io in quel momento contemplavo. In segno di ringraziamento, il
Gran Lunare fece muovere i suoi fasci di luce con intensità
ancor più fulgida, mentre in tutta l'immensa sala si propagavano
bisbigli, mormorii e pigolii per ripetere le mie parole. Il Gran
Lunare continuò, allora, facendo a Phi-oo domande, alle quali
era assai facile rispondere.
«Egli aveva compreso, così almeno diceva, che noi viviamo sulla
superficie della terra, che la nostra aria e i nostri oceani si
trovano nella parte esterna del globo; tutte cose, del resto,
ch'egli già sapeva dai suoi astronomi. Era, per altro,
desideroso di avere più ampie notizie intorno a un tale
straordinario ordine di cose, data la solidità della terra che
induceva sempre a ritenerla inabitabile e inabitata. Si sforzò
innanzi tutto di capire bene a quali elevate temperature fossero
esposti gli esseri terrestri, interessandosi vivamente alla
descrizione che io gli feci delle nubi e della pioggia. La sua
immaginazione era aiutata dal fatto che nelle gallerie
superiori, verso il lato notturno, l'atmosfera lunare è spesso
nebbiosissima. Parve meravigliarsi quando apprese che noi non
troviamo troppo forte per i nostri occhi la luce solare e mi
ascoltò attentamente quando spiegai che questa luce è attenuata
fino a raggiungere un colore bluastro per la rifrazione
dell'aria; non potrei giurare tuttavia d'essere sicuro ch'egli
abbia compreso ciò chiaramente. Gli spiegai che l'iride può
contrarre la pupilla e proteggere così la delicata struttura
interna dell'occhio umano dagli eccessi della luce; mi fu allora
permesso di avvicinarmi qualche passo al Gran Lunare per far sì
che egli potesse esaminare una tale struttura. Ciò condusse ad
un raffronto fra gli occhi terrestri e gli occhi lunari. Questi
sono non solo estremamente sensibili a tutte le luci che
l'occhio umano distingue, ma possono vedere anche il calore;
cosicché sulla luna ogni diversità di temperatura si vede nei
singoli oggetti.
«L'iride fu per il Gran Lunare un organo completamente nuovo. Si
divertì un po' a far convergere sul mio volto i suoi raggi per
veder contrarre le mie pupille; ciò che finì per abbagliarmi ed
accecarmi per alcuni minuti...
«Ma, nonostante tale conseguenza sgradevole, a poco a poco,
quasi insensibilmente, quello scambio di domande e risposte,
sempre logico e razionale, giunse a tranquillizzarmi. Avrei
potuto chiudere gli occhi, riflettere e quasi dimenticare che il
Gran Lunare era privo di volto...
«Quando fui tornato al mio posto, il Gran Lunare mi chiese in
che modo ci riparassimo dal calore e dalle tempeste, ed io gli
parlai dell'arte del costruire e dell'arredare una casa. Sorsero
a questo punto malintesi e contraddizioni, dovuti in gran parte,
debbo confessarlo, al mio modo d'esprimermi. Dovetti superare
serie difficoltà per fargli comprendere che cosa sia una casa.
Tanto a lui quanto a quelli che l'attorniavano, parve la cosa
più bizzarra del mondo che gli uomini fabbricassero delle case,
mentre potrebbero scendere sotto terra; ed io stesso contribuii
a complicare maggiormente le cose, cercando di spiegare che gli
uomini originariamente avevano abitato in caverne e che anche
oggi le loro ferrovie e alcuni stabilimenti sono sotto la
superficie del suolo. Forse, mi aveva condotto a questa
precisazione il desiderio di mostrar loro la nostra più alta
imperfezione intellettuale. Seguì un altro inestricabile
imbroglio, dovuto a un mio imprudente tentativo di spiegar loro
che cosa siano le miniere. Lasciato alfine da parte tale
soggetto senza approfondirlo, il Gran Lunare mi domandò a quale
uso sia da noi riservato l'interno del nostro globo.
«Un gran frastuono di pigolii e di garriti si propagò fino ai
punti più remoti della grande assemblea, allorché risultò
chiaramente che noi uomini non sappiamo affatto che cosa
contenga il mondo, sul quale si sono avvicendate le innumerevoli
generazioni dei nostri antenati. Dovetti ripetere tre volte che
dei seimilacinquecento chilometri di materia interposta fra la
terra e il suo centro, soltanto uno, e poco anch'esso, è
conosciuto dall'uomo. Intuivo che il Gran Lunare si domandava
perché mai fossi venuto sulla luna, se non eravamo ancora giunti
a conoscere bene il nostro pianeta; ma, per fortuna, nessuna
richiesta di spiegazioni venne a pormi in imbarazzo, tanto era
ansioso di approfondire ciò che per lui era una folle inversione
di tutte le sue idee.
«Essendo ritornato sulla questione del tempo, cercai di
descrivergli il cielo sempre mutevole, la neve, il gelo e gli
uragani.
«"Ma quando viene la notte," domandò, "non fa freddo?"
«Gli risposi che la temperatura è più bassa che durante il
giorno.
«"E la vostra atmosfera non gela mai?"
«Gli assicurai che ciò non accade, perché non fa mai un freddo
eccessivo e perché le nostre notti sono molto brevi.
«"'Non si scioglie neppure?"
«Stavo per dir di no, quando mi venne in mente che almeno una
parte della nostra atmosfera, il vapore acqueo in essa
contenuto, si scioglie talvolta, formando la rugiada, e talaltra
gela, formando la brina e il nevischio, processo del tutto
analogo al congelamento dell'atmosfera esterna della luna
durante le lunghe notti. Mi spiegai con chiarezza a tale
riguardo. Il Gran Lunare cominciò allora a parlarmi del sonno
per sapere come mai quel bisogno di dormire, che regolarmente si
ripete ogni ventiquattro ore, sia proprio della nostra eredità
terrestre. Sulla luna non si riposa che a rari intervalli e solo
dopo sforzi straordinari. Volli allora dipingergli i dolci
splendori di una notte estiva, passando poi ad una descrizione
degli animali che lavorano di notte e dormono di giorno. Gli
parlai di leoni e di tigri e mi parve di aver provocato un
grande stupore. Eccettuati infatti gli animali subacquei, non
c'è creatura sulla luna che non sia completamente domestica, da
tempo immemorabile. Vi sono anche creature acquatiche mostruose,
ma non bestie da preda; e l'idea di una cosa grande e forte che
vive alla superficie, di notte, è per loro quasi
inammissibile...»
A questo punto nella relazione c'è una lacuna.
«Il Gran Lunare s'intrattenne con i suoi sapienti, sulla strana
superficialità e sulla irragionevolezza degli uomini che si
accontentano di vivere soltanto alla superficie d'un mondo,
creature esposte alle tempeste, ai venti e ad ogni altro
pericolo dello spazio, che non sanno nemmeno unirsi per
trionfare sulle bestie che divorano la loro razza e che tuttavia
osano invadere un altro pianeta. Durante questo colloquio, io
rimasi a riflettere; poi, accontentando un suo desiderio, gli
parlai delle diverse specie di uomini. Mi colmò di domande.
«"Per i diversi generi di lavori, avete lo stesso tipo di
uomini? Ma chi pensa, dunque? Chi governa?"
«Gli risposi con un rapido accenno al sistema democratico.
«Quand'ebbi finito, ordinò che si spargessero sulla sua fronte
liquidi rinfrescanti; dopo di che mi pregò di ripetere la mia
spiegazione, credendo di non aver bene afferrato tutto.
«"Fanno, dunque, cose diverse?" chiese Phi-oo.
«"Ci sono dei pensatori," replicai, "dei funzionari; alcuni
vanno a caccia o sono meccanici, altri sono artisti o
lavoratori, ma tutti governano."
«"Non hanno forme particolarmente adatte ai loro diversi
compiti?"
«"Nessuna," risposi, "eccettuato, forse, il vestito. Le loro
menti, forse, differiscono un po'," continuai.
«"Debbono differire molto," riprese il Gran Lunare, "altrimenti
vorrebbero tutti fare la stessa cosa."
«Per meglio armonizzare le mie con le sue idee preconcette,
risposi che la sua supposizione era esatta.
«"Tutto è celato nel cervello; e là soltanto esistono le
diversità. Se la mente e l'animo degli uomini si potessero
vedere, si troverebbero altrettanto vari e dissimili fra loro
quanto quelli dei seleniti. Ci sono uomini grandi e piccoli;
alcuni dalle membra lunghe ed altri dalle membra corte e svelte;
uomini nervosi, dallo spirito sempre desto, ed altri che vivono
di ricordi..."»
Tre parole del racconto sono illeggibili.
«M'interruppe per ricordarmi una delle mie frasi precedenti.
«"Lei ha detto che tutti gli uomini governano?" insistette.
«"Fino a un certo punto," risposi, rendendo, credo, con la mia
spiegazione ancora più confuse le sue idee.
«Si attaccò allora a un altro punto.
«"Vuol dire dunque," domandò, "che non esiste nessun Gran
Terrestre?"
«Il mio pensiero corse a diversi personaggi, ma finii per
assicurargli che non ne esistevano. Gli spiegai che gli
autocrati e gli imperatori che avevano regnato sulla terra
s'erano dati abitualmente al bere e al vizio, quando non erano
stati violenti, e che la vasta e influente parte del popolo
terrestre a cui io appartengo, gli anglosassoni, non aveva
affatto l'intenzione di esperimentare ancora cose simili. A
questo punto, il Gran Lunare rimase ancora più sbalordito.
«"Ma, allora, come fate a conservare la saggezza che avete già
acquistata? "
«Gli spiegai in che modo noi aiutiamo con libri ed intere
biblioteche il nostro... [qui manca una parola che probabilmente
è "cervello"] limitato. Gli feci comprendere come la nostra
scienza si sviluppi giovandosi del lavoro concorde di piccoli
innumerevoli uomini. Non fece alcun commento, limitandosi ad
osservare che evidentemente avevamo superato molte difficoltà,
nonostante la nostra selvaggia condizione sociale, altrimenti
non mi sarebbe stato possibile arrivare sulla luna. Ma il
contrasto era fortissimo. Con la loro scienza, i seleniti si
sviluppano e si modificano; l'umanità terrestre, invece,
immagazzina la sua, facendo rimanere gli uomini allo stato di
bruti armati. Il Gran Lunare dichiarò...»
[Anche qui un frammento del messaggio è incomprensibile.]
«Dovetti allora descrivergli con quali mezzi ci muoviamo sulla
terra, parlandogli delle nostre ferrovie e dei piroscafi. Per un
istante non riuscì a comprendere perché noi utilizziamo la forza
del vapore da solo un secolo. Quando poté capirlo, ne restò
immensamente sorpreso. E' strano che i seleniti dividano in anni
il tempo, come facciamo noi sulla terra, ma non ho capito niente
del loro sistema numerico. (Ciò, del resto, non ha importanza,
dal momento che Phi-oo conosce perfettamente la nostra
numerazione.)
«Gli spiegai poi che l'umanità vive nelle città da soli nove o
diecimila anni e che gli uomini non sono ancora uniti in
un'unica società fraterna, ma sono divisi in gruppi e hanno
forme molteplici di governo. Ciò stupì assai il Gran Lunare non
appena arrivò a capirlo. Dapprima aveva creduto che si trattasse
solo di divisioni amministrative.
«"I nostri Stati e i nostri imperi sono soltanto forme
grossolane di quell'ordine di cose che esisterà prima o poi,"
continuai...»
[A questo punto, un tratto di trasmissione, equivalente, forse,
a trenta o quaranta parole, è del tutto indecifrabile.]
«Il Gran Lunare fu particolarmente impressionato dalla follia
umana nell'ostinarsi ad avere lingue diverse.
«"Vogliono e insieme non vogliono comunicare," egli disse e per
parecchio tempo mi tempestò di domande relative alla guerra.
«Restò dapprima perplesso e incredulo.
«"Vuol dire dunque," chiese per averne conferma, "che voi
percorrete la superficie del vostro mondo - quel mondo di cui
avete appena cominciato a conquistare le ricchezze uccidendovi
a vicenda come bestie da macello?"
«Gli risposi che ciò era perfettamente esatto.
«Mi chiese allora dei particolari per aiutare la sua
immaginazione.
«"Ma le vostre piccole città e le vostre navi non ne restano,
forse, danneggiate?"
«Alla mia risposta, vidi chiaramente che la distruzione e la
rovina l'impressionavano quasi quanto l'assassinio.
«"Mi dica, mi dica ancora," insistette il Gran Lunare. "Mi
descriva quel che succede. Non posso immaginare cose simili."
«E fu così che, sebbene a malincuore, dovetti dargli un'idea
della storia delle guerre terrestri.
«Accennai alle prime cerimonie guerresche, ai preliminari e agli
ultimatum, al modo di guidare gli eserciti e di valersene.
Cercai di spiegargli che cosa siano le manovre, le posizioni
strategiche e le battaglie; gli parlai di assedi e di assalti,
di popolazioni affamate, di fatiche e di privazioni nei campi e
nelle trincee, di sentinelle morenti di freddo sotto la neve, di
sconfitte e di sorprese, di resistenze disperate e di estreme
speranze, di spietate persecuzioni dei fuggiaschi e di campi di
battaglia ricoperti di morti. Gli parlai, anche, del passato, di
invasioni e di massacri, degli unni e dei tartari, delle guerre
di Maometto, di quelle dei califfi e delle Crociate.
«A mano a mano che proseguivo e che Phi-oo traduceva, i seleniti
rumoreggiavano e mormoravano, turbati da una emozione sempre più
intensa.
«Spiegai come una corazzata possa lanciare alla distanza di
diciotto chilometri un proiettile d'una tonnellata che riesce a
perforare una placca d'acciaio di sei metri di spessore;
aggiunsi in che modo manovriamo sott'acqua una torpediniera;
descrissi, infine, un cannone Maxim in azione e quello che potei
immaginare della battaglia di Colenso. Il Gran Lunare si mostrò
tanto incredulo da interrompere la traduzione di Phi-oo per
domandarmi di ripetere quanto avevo già narrato. Dubitava
soprattutto della descrizione che gli avevo fatta di uomini
esaltati fino a lanciar grida ed esclamazioni di gioia muovendo
all'attacco.
«"Ma, certamente, non ne provano piacere," tradusse Phi-oo.
«Ed io gli assicurai che gli uomini della mia razza considerano
sempre una battaglia come la più gloriosa prova della loro vita;
al che, l'intera assemblea rimase stupefatta.
«"A che cosa serve, infine, questa guerra?" domandò il Gran
Lunare, insistendo sull'argomento.
«"Oh! Quanto a servire..." risposi. "Essa decima e dirada la
popolazione!"
«"Ma a che cosa serve tutto ciò?"
«Seguì una pausa; altri liquidi rinfrescanti gli furono versati
sul cervello; poi riprese a parlare.»
[A questo punto diviene visibile nel messaggio una quantità di
ondulazioni, verificatesi come una sorprendente complicazione
fin dalla descrizione di Cavor del silenzio che seguì prima che
il Gran Lunare prendesse la parola. Queste ondulazioni son certo
il risultato di radiazioni emananti da una sorgente lunare, e il
loro persistente avvicinarsi ai segnali alternati di Cavor fa
nascere stranamente l'idea di un operatore che cerchi
deliberatamente di intercalarli nel suo messaggio per renderlo
illeggibile. Sono dapprima così piccole e regolari che, con un
po' di cura e di pazienza, sia pure perdendo qualche parola,
abbiamo potuto estrarne il messaggio di Cavor. Divengono poi
sempre più grandi e più larghe; d'un tratto, si fanno
irregolari, d'una irregolarità che fa pensare a qualcuno intento
a scarabocchiare e cancellare una riga di scritto. Per un lungo
tratto, non si può decifrare nulla di una striscia siffatta,
pazzamente serpentina; bruscamente cessa l'interruzione,
lasciando chiare alcune parole, poi riprende e continua per
tutto il resto del messaggio, cancellando completamente tutto
ciò che Cavor tentava ancora di trasmettere. Se si trattò
veramente di un intervento volontario, perché mai i seleniti
preferirono 1asciare che Cavor inviasse i suoi messaggi senza
sospettare affatto che essi venissero cancellati, mentre
dipendeva soltanto da loro - e sarebbe stato anche più comodo e
facile - interrompere e sopprimere la sua trasmissione in un
momento qualsiasi? ecco un problema che per me rimane
insolubile. Pare che le cose siano andate così; e questo è tutto
ciò che posso dire. L'ultimo passo della sua descrizione del
Gran Lunare riprende, nel bel mezzo d'una frase, in questi
termini.]
«... m'interrogò insistentemente sul mio segreto. In breve potei
intendermi con lui e chiarire finalmente quello che per me era
rimasto un enigma, dal giorno in cui avevo potuto accertarmi
della vastità delle loro cognizioni scientifiche: intendo dire
perché mai non avessero scoperto loro stessi la cavorite. Ho
dunque accertato che essi la conoscevano già come sostanza
teorica, pur considerandola sempre inutilizzabile in pratica,
per il fatto che manca l'elio sulla luna, e che l'elio...»
[Attraverso le ultime lettere della parola elio riappare d'un
tratto la traccia cancellatrice, bisogna notare la parola
«segreto», perché su questa, e su questa soltanto, io son
condotto a basare la mia interpretazione dell'ultimo messaggio il Wendigee ed io lo consideriamo tale - ch'egli deve averci
trasmesso.]
26. L'ULTIMO MESSAGGIO DI CAVOR ALLA TERRA.
In questo modo insoddisfacente si conclude il penultimo
messaggio di Cavor. Sembra di vederlo, là, nell'azzurra
oscurità, davanti all'apparecchio, tutto intento a trasmettere i
suoi segnali sino alla fine, del tutto ignaro dello schermo
interpostosi fra 1ui e noi; e pure completamente ignaro dei
gravissimi pericoli che sin da allora dovevano minacciarlo. La
sua rovinosa mancanza di buonsenso lo aveva completamente
tradito. Aveva parlato di guerra, della forza e dell'irrazionale
violenza degli uomini, delle loro insaziabili aggressioni, della
instancabile futilità dei loro conflitti. Dopo avere offerto
all'intero mondo lunare tale temibile visione della nostra
razza, è molto probabile ch'egli abbia ammesso che dipendeva
solo da lui, per lo meno per molto tempo ancora, la possibilità
che altri uomini arrivassero sulla luna. Mi sembra assai chiara
la linea di condotta che alle intelligenze lunari, fredde e
spietate, rimaneva da scegliere e attuare; e anch'egli deve
averla vagamente intuita, quando non se ne sia addirittura
accertato nettamente di colpo. Possiamo immaginarcelo girare qua
e là, sulla luna, tormentato dal rimorso, continuamente
crescente, della sua fatale indiscrezione. Ritengo che il gran
lunare debba aver provato per un po' la necessità di studiare la
nuova situazione e per quel periodo Cavor deve aver goduto di
assoluta libertà. Pure, qualche ostacolo deve avergli impedito
di servirsi del suo apparecchio elettromagnetico, dopo avere
inviato l'ultimo messaggio da me trascritto. Per alcuni giorni
non ricevemmo nulla. Forse doveva presentarsi a nuove udienze e
cercava di modificare l'effetto delle sue prime rivelazioni? chi
può sperare di indovinarlo?
D'un tratto, come un grido nella notte, come un grido seguito da
un silenzio di morte, giunse l'ultimo messaggio. E' questo il
frammento più breve da noi posseduto, il principio interrotto di
due frasi diverse.
Il primo diceva: «E' stata una pazzia far conoscere al gran
lunare...».
seguì un intervallo di un minuto circa, dovuto probabilmente a
un intervento esterno. Un allontanamento dall'apparecchio...
un'orribile esitazione fra le masse confuse di apparecchiature
accumulate nella caverna debolmente azzurrognola, un improvviso
riavvicinamento ad esso, spinto da una risoluzione tardiva. Ed
ecco giungere, come trasmesso in gran fretta: «Cavorite
fabbricata come segue: prendete...»
Poi seguì un'unica parola; una parola che, così come ci è
pervenuta, è del tutto priva di senso: «Inut...».
Ed è tutto.
Può darsi che egli abbia voluto rapidamente trasmettere la
parola «inutile», quando la sua fine divenne imminente. Non ci è
possibile dire che cosa sia avvenuto intorno all'apparecchio.
Quel che è certo è che non ricevemmo più altri messaggi dalla
luna. Da parte mia, una visione lucida e netta mi è giunta in
aiuto, e vedo, quasi come se avessi potuto assistere alla scena,
Cavor scarmigliato, immerso nella pallida luce azzurra, che si
di batte nella stretta di una folla accanita di quegli insetti
seleniti, che lotta sempre più selvaggiamente e disperatamente a
mano a mano che essi, sempre più numerosi, gli formicolano
intorno, gridando, supplicando, imprecando, forse anche
combattendo finalmente, spinto a poco a poco ancor più lontano
da quelli della sua razza, ricacciato per sempre nell'ignoto,
nelle tenebre, nel silenzio che non ha fine...