“Per fare la guerra ci rubano la terra”: come la protesta produce
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“Per fare la guerra ci rubano la terra”: come la protesta produce
“Per fare la guerra ci rubano la terra”: come la protesta produce identità. Il caso No Dal Molin. Donatella della Porta e Maria Fabbri Campagne contro grandi infrastrutture e identità collettive: una introduzione La ricerca sui movimenti sociali non si è molto occupata delle campagne di protesta contro le grandi infrastrutture, che sono state invece - con poche e lodevoli eccezioni - analizzate all’interno di due diversi approcci. Da un lato, la ricerca sulle politiche pubbliche ha ripreso il termine di NIMBY (Not In My Back Yard – Non nel Mio Giardino) per riferirsi a proteste che, in nome di specifici interessi locali, si oppongono, talvolta con successo, alla costruzione di “beni collettivi”. Il problema viene di solito qui affrontato come dilemma dell’azione collettiva in relazione a decisioni specifiche, che hanno benefici diffusi e costi, invece, focalizzati (e.g. Bobbio 1999). La soluzione proposta è spesso in termini di procedure che dovrebbero, attraverso coinvolgimento e compensazioni, accrescere il consenso. Più in generale, il nimbismo è considerato come un sintomo di disaffezione alla politica, o almeno di frantumazione delle domande e prevalere di egoismi diffusi (e.g. Rosanvallon 2006). In questo quadro, i principali promotori delle mobilitazioni contro grandi infrastrutture - i comitati di cittadini - sono stati definiti come “la specifica forma organizzativa che si accompagna alla sindrome NIMBY” (Bobbio 1999, 196): caratterizzati dalla “portata limitata delle loro richieste e rivendicazioni” (Buso 1996, 197) in una forma ibrida tra gruppi di interesse e movimento sociale. Dall’altro, la ricerca sulle politiche locali ha analizzato le proteste di residenti contro progetti di sviluppo locale come reazione a politiche pubbliche orientate a produrre profitti per alcuni gruppi di cittadini e, invece, ad emarginarne altri. In queste mobilitazioni, si esprimerebbero non individualisti egoisti ma citizen-workers che, esercitando i loro diritti come cittadini, difendono la qualità della vita nella loro comunità (Gould et al. 1996, 4). Chi si oppone ad un uso invasivo del proprio territorio, tende a privilegiarne il valore d’uso, rispetto a “macchine per lo sviluppo urbano” che invece ne sottolineano il valore di scambio, monetizzandolo. In questa immagine, i residenti hanno un interesse a difendere la qualità della loro vita (la salute, il paesaggio), mentre le imprese economiche (spesso insieme ai politici locali) fanno pressione per i propri interessi economici (e politici). In questa chiave, “i conflitti ambientali sono fondamentalmente battaglie sulle differenti capacità dei gruppi sociali di corrispondere ai propri bisogni ottenendo accesso a risorse naturali. Uno dei dilemmi nella gestione della scarsità ambientale nella società industriale liberale sta nel bisogno di soddisfare allo stesso tempo sia le domande di sviluppo economico del capitale privato e della agenzie pubbliche che le domande dei cittadini di protezione della salute pubblica così come del valore ricreativo ed estetico del loro habitat naturale” (Gould et al. 1996, 5). Da questo punto di vista, l’attribuzione dell’etichetta Nimby è stata vista come un modo per “rinchiudere i residenti in una posizione illegittima” (Jobert 1998, 73), alla quale i comitati di cittadini mobilitati cercano di resistere, proponendo diverse letture e appellandosi a valori universali (della Porta 1998). La campagna No Dal Molin, contro l’ampliamento (o raddoppio o nuovo insediamento) della base militare statunitense di Vicenza, è stata spesso tacciata di nimbysmo (sia da destra che da sinistra). La campagna nasce contro la realizzazione della base dell’esercito statunitense nel piccolo aeroporto Tommaso Dal Molin, a ridosso della città nella zona nord e confinante con il comune di Caldogno. Tutta l’area del Dal Molin appartiene al demanio militare, ma vi convivono la zona militare ad ovest e l’aeroporto civile ad est. La base andrebbe a consolidare gli altri insediamenti statunitensi già presenti sul territorio vicentino, come la Caserma Ederle e la base Site Pluto di Longare, e dovrebbe servire agli USA per riunire la 173° Brigata aviotrasportata e diventare così la base logistica più importante dell’esercito statunitense in Europa. Secondo il progetto, reso pubblico dal Giornale di Vicenza, la nuova base occuperà un’area di circa 440.000 mq, correndo parallela a 1 tutta la pista dell’aeroporto e lungo via Sant’Antonino, arteria molto trafficata che unisce Vicenza a Caldogno (Dal Sasso 2007). L'iniziativa ha diviso la cittadinanza: sono sorti comitati, raccolte di firme e un presidio permanente. Gradualmente la questione ha assunto una dimensione nazionale sia dal punto di vista delle mobilitazioni che dello sviluppo di una trama di azioni molto variegata: dai ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, al referendum del 5 ottobre 2008, fino agli scontri con le forze dell’ordine. Il previsto impatto urbanistico è una delle ragioni principali che dà il via al movimento anti-base che presenta una dimensione di protezione ambientale, con una sottolineatura della particolare delicatezza di una città d’arte: “Vicenza è sempre stata considerata una città d’arte: ma cosa vogliamo fare il tour delle caserme?” (INT14). Diversamente che in altre campagne simili, inoltre, la specificità della “grande opera” -una base militare- porta a leggere le mobilitazioni come (anche) concretizzazione di un movimento per la pace e contro la guerra, che a partire dal 2003 ha visto in Italia convergere realtà di partecipazione diverse su iniziative di varia natura e carattere trasversale, seppure su temi molto più generali. In particolare, è stato preso in considerazione l’articolarsi nazionale e locale delle interpretazioni della protesta, alla luce di una “possibilità e disponibilità di movimento”. Se una spiegazione in termine di attivazione di interessi pre-esistenti ha dunque qualche utilità per inquadrare il caso No Dal Molin rispetto ad approcci e identità su menzionati, vi è tuttavia una dimensione rilevante, che nessuno degli approcci fin qui menzionati coglie. Nella protesta, infatti, non solo si esprimono gruppi con interessi già formati (e, se vogliamo, identità costruite attorno a quegli interessi), ma si formano anche identità collettive che hanno poi una ricaduta sulle identità preesistenti. E’ a questo processo che vogliamo guardare in questo contributo. Nello studio sui movimenti sociali, l’identità collettiva è certamente un concetto centrale (e.g. Melucci 1980), utilizzato comunque in modo diverso in diversi approcci (Mueller 2003, 274). In Europa, il concetto di identità collettiva ha in parte sostituito quello di coscienza di classe, con una attenzione rivolta alla definizione da parte dell’attore della sua identità, della identità dell’avversario e della posta in gioco: l’I-O-T, identité-opposition-totalité, di Alain Touraine (1974) ne è l’esempio più influente. L’identità è qui l’essenza del movimento—sintetizzando il contributo di Alberto Melucci, Carol Mueller (2003, 276) scrive che “l’identità collettiva è il movimento e il movimento stesso un processo”, che produce e riproduce queste identità collettive. Ciò è particolarmente rilevante nei nuovi movimenti che non si riallacciano ad identità preesistenti di classe o etniche. Dall’altra parte, nella tradizione costruttivista americana, l’attenzione si è focalizzata sulle micro-dinamiche di costruzione di una identità collettiva, con particolare attenzione al discorso attraverso cui i partecipanti alla azione danno senso ad essa (e.g. Gamson et al. 1982). Boundary-markers e simboli di continuità vengono riprodotto in azione, e con essi l’identità del movimento viene costruita, mantenuta e rivitalizzata (Snow e Benford 1992; Taylor e Whittier 1992). Combinando i due approcci, Donatella della Porta e Mario Diani (1999) sottolineano che l’identità collettiva: a) è un processo, che va mutando continuamente nel corso dell’azione. Da questo punto di vista, essa è al contempo precondizione e prodotto della protesta. b) è relazionale, formandosi attraverso una continua interazione sia tra i diversi partecipanti alla campagna che tra di essi e i loro avversari, in varie arene, discorsive e non. c) è molteplice, convergendo, negoziando e contaminandosi i vari discorsi identitari di comunità e organizzazione, individuali e di gruppo. Questo discorso generale ha due evoluzioni specifiche (in parte almeno, in reciproca tensione) per l’analisi del caso No Dal Molin: la crescente attenzione alle così dette recognition struggles, e la crescente attenzione alla dimensione territoriale. Per quanto riguarda il primo, il dibattito sui “nuovi movimenti sociali” è di recente sfociato nell’affermazione di una crescente diffusione delle lotte orientate al riconoscimento rispetto a quelle orientate a rivendicazioni redistributive, qualche volta con una contrapposizione tout court di classe e identità, o di interesse e identità (Hobson 2003). Come ha osservato Nancy Fraser (2003, 21), 2 mettendo in guardia dal rischio di displacement (di rivendicazioni di eguaglianza e giustizia sociale) e di reification (di identità stigmatizzate) “alla volta del secolo, i conflitti sociali si orientano sempre più su questioni di riconoscimento”. Sebbene la contrapposizione tra riconoscimento e ridistribuzione sia stata di recente contrastata (Fraser 20031; Phillips 2003), il dibattito sulle lotte di riconoscimento ha avuto il merito di spostare l’attenzione sulla combinazione di rivendicazioni compresenti in ciascuna azione collettiva, e sulla rilevanza del riconoscimento della identità collettiva come specifica posta in gioco delle proteste. Come aveva osservato Alessandro Pizzorno molto tempo fa, non solo nei nuovi, ma anche nei vecchi movimenti l’identità precede gli interessi, essendo essa necessaria alla loro stessa comprensione da parte dell’attore (Pizzorno 1993). Come vedremo, anche nelle campagne contro la costruzione di grandi opere, tacciate di essere non solo orientate all’interesse, ma anche in questo particolarmente “egoiste”, concentrato su richieste particolaristiche, vi è invece una importante componente identitaria, che si sviluppa in azione. Vedremmo infatti, nel caso No Dal Molin ad esempio, non solo una interazione dinamica tra richieste di rispetto e richieste di giustizia, ma anche una “ridefinizione delle lotte di riconoscimento in lotte per l’inclusione dei cittadini e la voce politica” (Phillips 2003, 264). Per quanto riguarda il secondo, il dibattito recente nello studio dei (nuovi) movimenti sociali si è messo spesso in luce il progressivo distacco dal territorio. Se il vecchio movimento operaio si caratterizzava per un radicamento in alcuni luoghi specifici (dalla fabbrica al quartiere operaio)— con alto livello di cat-net (Tilly 1978)—i movimenti recenti sono stati considerati come sempre meno territoriali, orientandosi verso identità che attraversano confini territoriali di diverso tipo. I movimenti contro le grandi infrastrutture rappresentano invece casi di riappropriazione e reinvenzione del territorio, ancorandosi in esso ma al contempo cercando (almeno in molti casi) di uscire da confini ristretti. Come è stato osservato di recente, recenti campagne del movimento per una giustizia globale sono “sia (i) sempre più collegate l’una all’altra da istituzioni transnazionali; che (ii) radicate in, e costituenti, un senso di spazio” (Drainville 2004, 17) - senso di spazio definito come “costruzione politica, creata attraverso pratiche concrete e contingenti, in circostanza particolari” (ibid., 40). Campagne transnazionali sono, infatti, radicate in battaglie concrete e localizzate, contribuendo a creare un più ampio e politico senso dello spazio” (ibid. 95). La protesta è infatti un tentativo di influenzare individui e avvenimenti, esercitando un controllo sul territorio. Le caratteristiche del territorio - costruite e ricostruite- hanno una rilevanza per la protesta, che occupa vecchi spazi e ne crea di nuovi, oltre ad adattare repertori e schemi di riferimento ai vincoli provenienti dalle caratteristiche (fisiche e sociali) del territorio. Come mobilitazioni geograficamente situate, le proteste contro la costruzione di grandi infrastrutture sono particolarmente influenzate dallo spazio (valle o stretto, territorio urbano o territorio rurale, centro o periferia) in cui si sviluppano, che trasformano ma al quale anche si adattano. La difesa di confini, ma anche la penetrazione in territorio avversario acquistano qui infatti particolare rilevanza per la continua contestazione e rinegoziazione dello spazio. La ricerca sui movimenti sociali sottolinea infatti la costruzione, nel corso dei cicli di protesta, di domande e identità che riprendono simboli e schemi interpretativi da movimenti passati, ma anche che innovano rispetto ad essi. In questa presentazione, focalizzeremo infatti l’attenzione sui meccanismi che si mettono in moto nel corso dell’azione, suggerendo un carattere emergente delle campagne di protesta (della Porta e Mosca 2007), cioè una capacità della protesta stessa di sfidare (o trasformare) le strutture esistenti.2 A questo fine, focalizzeremo l’attenzione sulla contaminazione in azione, cioè sulle trasformazioni degli e negli attori - individui e organizzazioni impegnati nelle reti della protesta che si realizzano nel corso stesso delle campagne e per effetto della mobilitazione, grazie, a livello individuale, alla presenza di partecipazioni multiple ad associazioni e movimenti e, a livello organizzativo, ad un intenso networking, sia formale che 1 Nancy Fraser ha ad esempio proposto di guardare al riconoscimento come a una questione di status, rivendicando reciproco riconoscimento e eguaglianza di status. 2 Si è parlato, a proposito della capacità formativa di alcuni eventi, di “eventful temporality” (Sewell 1996). 3 informale. Lo studio della campagna No Dal Molin (come in altre campagne di protesta come quella No Tav in Val di Susa o quella contro il Ponte sullo Stretto in Sicilia e Calabria, v. della Porta e Pianta 2007 e 2008) ci porterà a riflettere sulle condizioni e i limiti del processo di costruzione identitaria in azione. In questo contributo, guarderemo ai processi interpretativi che si sono verificati nel corso della campagna No Dal Molin in relazione alla mobilitazione nazionale per la pace e contro la guerra. In particolare ci concentreremo sui processi di framing e i reciproci effetti delle campagne. Il lavoro ha previsto l’analisi di stampa, report di riunioni e assemblee, interviste semistrutturate ad attivisti, documenti interni e materiale di propaganda dei gruppi (volantini, petizioni, manifesti, filmati, raccolti in occasione di manifestazioni o contenuti nei siti web). Nel caso della mobilitazione per la pace e contro la guerra, gli intervistati sono i portavoce delle organizzazioni selezionate sulla base di un incrocio tra i documenti ufficiali della Tavola della Pace, dell’assemblea nazionale del Tavolo Bastaguerra e del Comitato Fermiamo la guerra, le due principali realtà formali di coalizione e il coordinamento ad hoc creato per l’organizzazione italiana della giornata internazionale contro la guerra del 15 febbraio 2003. Nel caso della campagna No Dal Molin, la selezione dei gruppi è avvenuta a seguito della ricostruzione del quadro di attori collettivi protagonisti della protesta, tramite l’analisi del dibattito pubblico del principale quotidiano locale (Il Giornale di Vicenza). In entrambi i casi, per ognuno degli attori collettivi selezionati sono stati scelti uno o più attivisti, tenendo conto della funzione all’interno dei gruppi. La traccia dell’intervista ha riguardato la valutazione rispetto a natura delle mobilitazioni, autorappresentazioni e stigmatizzazioni, possibile esistenza di un percorso di continuità e contaminazione, focalizzandosi sull’esistenza di aree, eventi chiave, fratture esistenti o potenziali, obiettivi, discorsi e forme di partecipazione. Un’analisi della costruzione di significato nel corso della protesta va però al di là della dimensione strumentale, guardando al processo attraverso cui le persone costruiscono la loro realtà, applicando ad essa schemi di riferimento. Il patrimonio individuale e collettivo di esperienze, ideologie, simboli, valori viene infatti attivato nel corso dell’azione comune. Esso filtra l’esperienza quotidiana, ma al contempo ne è anche trasformato. La storia viene infatti ricostruita sulla base della esperienza dell’oggi; se in parte vincola la percezione della realtà, essa viene comunque “manipolata” per dare senso e valore alla quotidianità, che diventa anche quotidianità di protesta. Nel corso delle campagne di protesta emergono delle “grammatiche”, o schemi normativi, attraverso cui storie, racconti, memorie sono organizzate per comprendere la realtà esterna e agire su di essa. In questo quadro di analisi interpretativa, il ricorso a elementi di narrazione si inserisce come scelta metodologica, elemento storico nella spiegazione sociologica, utile per esaminare e considerare la temporalità dell’azione sociale (Griffin 1992), perché “la realtà sociale capita nelle storie” (Abbott 1983) e le narrative possono essere considerate come rendiconti in cui elementi quali le relazioni, le persone e i contesti, a livello macro, locale o cognitivi si mescolano. Le parole degli intervistati non solo definiscono situazioni e forniscono interpretazioni delle stesse con attenzione alla dimensione culturale, simbolica e valoriale, ma propongono anche chiavi di ripensamento di concetti consolidati nello studio dei movimenti sociali, e di riflessione sulle innovazioni della mobilitazione. In quanto segue, guarderemo in primo luogo alla costruzione della identità degli attori della campagna No Dal Molin passando quindi ad analizzare come essa abbia inciso nella evoluzione specifica del movimento per la pace e nella definizione stessa del concetto di pace. Successivamente, guarderemo quindi al modo in cui la identità è stata costruita in azione, guardando alla protesta stessa come arena di costruzione di significato, attraverso dinamiche sia cognitive che emotive. Infine, rifletteremo sugli effetti che le mobilitazioni territoriali hanno sugli attori preesistenti - in particolare sul movimento pacifista. 4 La definizione della identità “Noi abbiamo fatto questo tipo di ragionamento sulla complessità e sull’impossibilità di semplificare la questione Dal Molin: c’è una questione di impatto ambientale, consumo del territorio, risorse non riproducibili, quando abbiamo cominciato abbiamo chiesto quanta acqua, energia, territorio consumava questa struttura. C’è poi da considerare che non solo il Dal Molin ma anche tutte le strutture complementari. Quello che il governo ci dà per il nostro “sacrifico” è una tangenziale che unisce il Dal Molin alla Ederle e che viene spacciata come infrastruttura utile e che costa ai cittadini, consuma una marea, intacca le falde acquifere e non sono costi quantificabili: è una follia un progetto del genere! Ci costa svariate centinaia di milioni l’anno e visto che la tradizione vuole che il vicentino sia molto attento alle questioni economiche, materialmente, abbiamo chiesto “cosa dà ai cittadini di Vicenza questa base?”. La gran parte della città non sa che spendeva per questo e per la Ederle. Poi sulla democrazia: possibile che nel 2008 esista un Trattato che regola le servitù militari in Italia del 1954? Possibile che una materia di questo genere, che modifica radicalmente la città, il territorio, le relazioni, non possa vedere i cittadini soggetti protagonisti della scelta? Non è un indefinito senso del no, non è fare è affare: è diverso! Non è che i cittadini posso essere terroristi ogni volta che si oppongono. Perché dobbiamo essere strumento a servizio di un paese se la maggioranza dei cittadini non d’accordo con quella politica? perché Vicenza questo diventa! Per il governo questa non è una nuova base ma è un allargamento, perché il territorio è visto come funzionale alle esigenze militari: è questo su cui abbiamo aperto un confronto con il governo. Quando Prodi dall’estero ci dice che è una questione urbanistica, mi dispiace per l’intelligenza sua! Ha più senso dire “è una questione di politica estera, si fa così e chiuso!” almeno lì hai la figura del Leviatano che ti dice che si fa così, per un potere che tu gli hai dato, sceglie e ti impone e tu o rompi e uccidi il Leviatano o accetti la scelta ma così, su!” (INT9) La definizione della identità collettiva è legata alla definizione della posta in gioco, come illustra questo brano da un’intervista con un attivista. Nel caso No Dal Molin, come in altri casi di opposizione locale, la costruzione della identità passa attraverso una definizione e ridefinizione di progresso, ma anche di politica, di territorio e di comunità. Come già la ricerca su proteste No Tav e No Ponte aveva indicato, nel corso dei conflitti locali, l’identità tende a costruirsi in costante tensione tra un riferimento alla comunità, che rafforza la solidarietà locale e un appello a valori universali, necessario alla mobilitazione di alleanze all’esterno. Il tema centrale nel discorso sulle opposizioni locali alle grandi infrastrutture riguarda infatti la dimensione territoriale del contendere che viene comunque elaborato in modo diverso nei diversi casi, in riferimento alla specifica storia locale (come patrimonio di narrazioni del e sul territorio) così come della compresenza nella mobilitazione di diverse identità collettive. Definiti come localisti, coloro che contestano la costruzione di infrastrutture ad alto impatto ambientale sottolineano invece la dimensione comunitaria di difesa di un territorio limitato, percepito come aggredito dall’esterno. Questa difesa del territorio si intreccia poi con altre rivendicazioni, convergendo nel costruire una identità più ampia che si sviluppa in azione. 5 Il radicamento territoriale viene rivendicato dagli attori della protesta, ma come effetto, più che causa, della protesta stessa. Nelle narrazioni della protesta è nel corso dell’azione che lo schema di riferimento si trasforma: “Tanta gente si è resa conto che il problema è sì vicino casa, locale ma è da collegarsi con il resto del mondo e che i problemi sono connessi e questo credo che lo abbiano presente tutti che si parte dal problema vicino casa e si arriva alla guerra mondiale ma anche il collegamento con altre realtà da Vicenza al no ponte, no Mose…magari non solo come protesta ma anche come proposta” (INT2). Comune ad altre opposizioni a grandi opere è l’individuazione della protesta come capace di ristrutturare il territorio stesso. Se nel caso della Val di Susa la storia della Resistenza nella Valle permetteva di sviluppare una narrazione di ritorno ad un passato glorioso, nel caso del No Dal Molin, la narrazione sottolinea invece la frattura con un passato pacioso e non-glorioso: “Vicenza è sempre stata una città addormentata, non ha mai avuto grandi movimenti nemmeno nel ’68” (INT4); “Vicenza non ha certamente la vocazione alle barricate, anzi il dialogo, la trattativa, l’accomodamento rientrano nella sua tradizione culturale e politica. Ma se il governo Prodi crede che questo significhi anche un’attitudine ad essere proni, si sbaglia” (Achille Variati, Il messaggio della Basilica, il Giornale di Vicenza, 20/4/2007). Nel corso della protesta cresce però l’identificazione con la città, di cui si mette in luce la inattesa capacità di resistenza: “a me questa città mi ha fatto schifo per tanto tempo ma adesso quando dico che amo Vicenza, riconosco che la amo, amo la mia città, perché ha saputo ribellarsi a questo e magari ti metti anche pensare che su qualcosa hanno ragione…” (INT5). Si comincia così a parlare di “altravicenza”, che si contrappone alla tradizionale immagine della Vicenza interessata al denaro e sottomessa ai militari: “La popolazione vicentina ha una natura particolare: intanto la base di Vicenza è quella che esiste da più tempo e quindi c’è stato tempo per lavorare da parte di tutti i poteri forti della città ed economici sul tema del consenso nei confronti dell’interesse americano, costruito sicuramente anche sulla base di vantaggi economici… vantaggi economici sono venuti per l’economia vicentina e per il nord est sono arrivati: contratti, esportazioni di prodotti tipici e anche ricatti forse in questo momento, tipo ‘se voi non fate il dal Molin, noi riduciamo le nostre commesse…’, si tratta di una dare e ricevere, quindi la motivazione non è morale, non è politica ma è economicistica. … però c’è una comunità…c’è l’altravicenza che in questi ultimi anni si è ribellata” (INT6). Il radicamento territoriale della protesta porta (qui come nelle campagne No Tav e No Ponte) a sottolinearne la dimensione di comunità—che attraversa classi e interessi specifici. Nelle parole di un consigliere comunale vicentino, sostenitore della protesta, il No dal Molin è un “movimento che prende forma, consistenza e importanza con le sue varie transizioni, come movimento di popolo in quanto attraversa e lacera tutti i mondi. Il mondo istituzionale e politico, centro-sinistra che esprime una contrarietà a questa nuova realizzazione e centrodestra che dà il via libera con un momento formale di voto risicatissimo, su 41 aventi diritto, appena 21 danno un voto al favore, condizionandolo a 5 punti. Si spacca quindi il mondo politico ma si 6 spacca anche il mondo sociale soprattutto anche dal mondo cattolico che partecipa vivacemente a questa battaglia in favore della pace. Un mondo cattolico che vede da una parte la gerarchia, ovvero il vescovo, non schierarsi mai, mentre invece le comunità locali, le parrocchie, i sacerdoti, sempre più in numero crescente, che partecipano molto attivamente e non solo i Beati e Pax Christi ma anche proprio il cuore vero. Il mondo del lavoro che attraverso le sue rappresentanze più importanti, quindi Cgil e Cisl, si differenzia in base alle sensibilità. Argomenti importanti che producono lacerazioni, dibattito molto intenso anche culturalmente e momenti diversi” (INT3). La protesta viene così definita come colorata ed eterogenea: “La base della protesta è l’associazionismo che è sempre stato impegnato per la pace e la cooperazione a cui si aggiungono quelli che hanno preso coscienza attraverso le campagne di informazione e l’impegno di tanti comitati, che già c’era, su tante questioni, l’abuso edilizio, la centrale del latte, le antenne… piccoli comitati che si occupavano di altre cose ma costituiti da persone che avevano preso coscienza della necessità di un impegno su problemi che vivevano direttamente, trattandosi di una questione anche ambientale, questa del dal Molin, anche a livello di quartiere, si sono dunque trovati” (INT6). Vi è inoltre un mutamento di scala (McAdam e Tarrow 2004). Inizialmente localistica, la definizione del problema assume dimensione nazionale: “Vi è un consiglio comunale e il sorgere di comitati spontanei di opposizione per vari motivi, primo per i devastanti effetti urbanistici, danni ambientali, viabilistici e sociali, provocano una lacerazione nella comunità e anche alla mobilitazione e alle lotte si crea una coscienza anche a livello nazionale. A livello nazionale c’è un profilo che riguarda le servitù militari, D’Alema dice in campagna elettorale che si diminuiranno le spese militari e qui si fa la cosa esattamente opposta: cioè si fa la smilitarizzazione a la Maddalena e qui si raddoppia. Gli effetti sono una mobilitazione di popolo che ha poi momenti di mobilitazione nazionale in una città pur non grandissima, che evidenzia un problema politico del 21 secolo, con riflessi a livello nazionale e momenti di tensione a livello governativo ecc…” (INT3). La mobilitazione “di popolo”, comunitaria è normalmente presentata come interclassista: “l’operaio, il precario l’infermiera, il bancario, il giovane, l’anziano, ha attraversato le appartenenze, c’è anche chi non si era mai impegnato e interessato di politica e con questo percorso ha costruito una propria identità” (INT6). Un altro aspetto centrale per la costruzione simbolica di un conflitto è la definizione (non solo in negativo) della posta in gioco. La creazione del noi è infatti strettamente collegata a quella dell’oggetto del conflitto: delle cause dei problemi e delle loro soluzioni. Nel corso della protesta si diffondono schemi di riferimento diagnostici, orientati a costruire una immagine di ciò che non funziona, e prognostici, che suggeriscono possibili soluzioni per i problemi identificati (Snow e 7 Benford 1988). La convergenza di diverse identità preesistenti contribuisce ad una offerta di molteplici immagini, con un frame bridging che si sviluppa nel corso dell’azione. Nel caso del No Dal Molin, diverse tematiche sono state privilegiate dai diversi gruppi. Il tema dell’effetto sul territorio è sottolineato, sin dalle prime fasi della protesta, soprattutto dal coordinamento dei comitati. Qui in contrapposizione al frame Nimby, si sottolinea da un lato la particolare fragilità della città, dall’altro la già presente sofferenza di alcune zone. Si denuncia così che la nuova caserma si insedierebbe “nella città della basilica palladiana, in una città di grande identità architettonica, patrimonio dell’Unesco, ci sarebbe quindi anche un’alterazione dell’identità culturale di questa città” (INT3). Per il già esistente coordinamento dei comitati, costituitisi nella zona Nord della città, il primo obiettivo è la difesa di una “zona deteriorata per quello che stava succedendo a livello urbanistico, per cui il fatto di quell’insediamento diventava più grave per quello su cui si inseriva per il territorio, per la vita, per la qualità della vita. Noi diciamo che siamo un comitato nato per tutelare gli interessi dei cittadini e la qualità della vita in senso ampio e per la difesa del territorio. Questa roba qua veniva ad aggravare una situazione già grave. Con tutta una serie di componenti gravi sia dal punto di vista sociale che etico, morale, dei rapporti internazionali. C’è già una presenza americana a Vicenza, sono più di 5000, se ne vengono altri 2000?” (INT1). La battaglia simbolica tra promotori e oppositori della base militare Dal Molin viene poi a coinvolgere una dimensione etica, in particolare legata alla volontà di “esaltare il valore della pace” (Presidio permanente contro il Dal Molin). Qui riemerge un utopismo etico che aveva caratterizzato le mobilitazioni per la pace degli anni ’80, in grado di agire da moltiplicatore simbolico anche tramite nuove elaborazioni, come ad esempio il tema dello spreco di denaro pubblico in investimenti militari di fronte alla lotta alla povertà. La ricerca su altri conflitti, locali e no, ha sottolineato l’importanza della delimitazione simbolica del problema, e soprattutto dell’attribuzione ad esso di una causa politica. La mobilitazione dei cittadini in un’azione collettiva non dipende infatti solo (o tanto) dalla entità del pericolo “oggettivo” per i loro interessi, né dalla disponibilità strutturale di risorse (soprattutto organizzative) per la protesta, ma anche e soprattutto da una componente soggettiva legata alla consapevolezza dei problemi. La definizione della posta in gioco cambia comunque nel corso della protesta, con una reciproca influenza. All’inizio della protesta, nel 2004, “ci sono dei documenti ma sempre sul discorso urbanistico, non è etico-morale all’inizio anche perché non si sapeva cosa ci sarebbe venuto, non si sapeva niente! Dopo è cominciato nel famoso maggio 2006, è stato materializzato improvvisamente in consiglio comunale…noi eravamo lì per altre cose che riguardavano il territorio, eravamo lì presenti è c’è stata la presentazione da parte di Cicero per conto delle forze americane delle slides. Allora lì, siamo andati in cerca dei documenti e subito abbiamo cominciato a tirar fuori queste cose qua, abbiamo cominciato ad approfondire ed è stato un continuo: abbiamo fatto convegni: abbiamo cominciato a parlare di impatto urbanistico, ma anche ambientale e sociale. Abbiamo cominciato a dire ma chi viene qua? Sono americani? Cosa vengono a fare? Cosa costano? Cosa porteranno?” (INT1). I comitati hanno quindi coinvolto il sindacato. Nel racconto di un sindacalista della FiomCgil la sua organizzazione inizia a interessarsi del dal Molin, sin dall’inizio, 8 “perché un gruppo di cittadini è venuto da noi, dicendo che avevano avuto delle voci della possibile costruzione di una base a Vicenza. … Questi cittadini sono praticante il coordinamento dei comitati di quartiere di Vicenza, sono sei comitati , e sono venuti da noi per cercare di capire insieme cosa fare. Noi abbiamo iniziato a raccogliere informazioni, chiedendo anche a un architetto di Vicenza che ha acquisito la planimetria del progetto, il famoso progetto in inglese della base americana e ha iniziato a fare uno studio. Noi abbiamo fatto il primo periodo con i comitati, con un rapporto comitati, partiti più largo, informativo. Il primo periodo era di informare la cittadinanza, abbiamo fatto una manifestazione in Piazza castello con un maxi cartellone per informare i cittadini di Vicenza su cosa si intendeva fare” (INT4). Le tematiche urbanistiche si intrecciano quindi con quelle pacifiste, con un incontro tra coordinamento dei comitati e presidio, con quella che i partecipanti definiscono come contaminazione reciproca: “l’area dei comitati inizialmente aveva una lettura del No Dal Molin urbanistica, sull’aspetto devastante dal punto di vista urbanistico; mentre il presidio aveva iniziato un discorso di pace e di quello che rappresentava. Poi con il tempo sé cambiato: il presidio ha un discorso di pace e di cosa rappresenta una caserma, ma nei comitati con l’andar del tempo c’è stata una maturazione e si è aperto a un discorso ambientale, di militarizzazione, di pace, di quello che significa la militarizzazione di una città per i cittadini. Poi sai, parlano anche mondi molto diversi: un mondo più legato al radicalismo, giusto, e uno più legato alla chiesa e i comitati vengono da una storia di quartiere, su problemi reali, sul problema del centrale del latte, problemi legati all’ambiente” (INT4). Nel frattempo anche i centri sociali si sono mobilitati, contribuendo sia dal punto di vista delle risorse generazionali che politico-organizzative: riescono a rinverdire il repertorio di azione e insieme ai sindacati di base rinsaldano il legame con la globalizzazione dal basso, pur in un contesto diverso rispetto alla Val di Susa, sia per la minore rappresentatività dei sindacati di base che per la diversa natura dei centri sociali coinvolti, proseguendo però un percorso di apertura alle organizzazioni tradizionali per la pace e di dialogo con il mondo politico tipico della Disobbedienza del nord est: “All’inizio eravamo in pochi, poi abbiamo cominciato ad aprire la discussione ad altri, a Emergency, ai gruppi sociali, ai sindacati di base e avevamo dato vita nel gennaio 2006 all’Osservatorio sulle servitù militari e qualche giorno l’inaugurazione della gendarmeria europea, poi abbiamo distribuito un questionario per sapere cosa la città sapesse, allora emerge con prepotenza la totale mancanza di informazione. Allora, da lì tentare di approcciarsi in maniera diversa, non ideologica, alla questione delle basi militari e tentare di costruire forme di partecipazione e informazione: quello che vale per il cittadino comune vale anche per noi, una spinta propulsiva, cercare di mettere in moto, volevamo condividere anche con gli altri. Si è aperto un caso, si sono uniti in vari ed è esplosa questa questione del Dal Molin. Da lì sono sorti altri comitati che già esistevano ma sul profilo puramente urbanistico, di quartiere, classicamente su temi 9 specializzati. Allora, noi abbiamo fatto un ragionamento, diverso anche dai cicli precedenti di movimenti contro la guerra: legare la presenza militare a un concetto di difesa del territorio, dei beni comuni, arrivando a capire quale è la funzione di queste strutture in un quadro di complessità, non di semplificazione guerra-pace. Non era questo quello che noi volevamo, se no ritrovavamo sempre lo stesso corpo sociale di militanti, che conosciamo da una vita, con cui ci ritroviamo sempre in piazza ma che di per sé non è sufficiente a creare un riscontro di pubblica opinione” (INT9). Alla mobilitazione partecipa infatti anche una componente pacifista cattolica, che definisce il problema in termini antimilitaristi e non violenti: “E’ arrivato il mondo cattolico: è arrivato un po’ in ritardo ma è arrivato e in una città come Vicenza credo sia molto importante. Devo dire la verità che è stata anche un sorpresa, perché il mondo cattolico aveva iniziato con le Famiglie per la pace, con i Bilanci di giustizia, con le proprie associazioni, con cui però non c’era mai stata, anche se non ufficialmente, una vera condivisione. Poi lavorando al proprio interno hanno deciso di partecipare e questo credo che abbia un significato non indifferente, perché anche se il vescovo non si è mai dichiarato contrario, una parte di parrocchie, devo dire che su questo ho scoperto che si sono parroci che ne parlano anche durante le messe, c’è e questo ha significato spostare la cosa su valori più alti: il valore della pace, del fatto che un cristiano non può appoggiare la guerra e ha introdotto forse elementi che prima non avevamo” (INT4). Conferma un esponente della Casa della Pace: “Noi abbiamo preso coscienza lentamente, abbiamo fatto convegni, abbiamo invitati esperti non posso dire come casa per la pace ma tutte le associazioni dentro o in collaborazioni fuori e collaborando insieme abbiamo sviluppato questo filone della ricerca della conoscenza” (INT6). Le narrative della protesta mettono dunque in luce gli strumenti flessibili di coordinamento, così come le difficoltà legate ai conflitti interni. Le identità si costruiscono qui (come aveva sottolineato Melucci) attraverso una negoziazione di significato tra attori dotati di preesistenti identità. Un ricco patrimonio associativo è infatti in parte ereditato da precedenti esperienze di mobilitazioni e associazioni già esistenti. In parte, tuttavia, esso si costruisce nel corso della protesta attraverso l’incontro e la contaminazione di gruppi attivi su tematiche differenti -dal lavoro alla controcultura- estendendosi inoltre al di la delle stesse comunità locali. Come vedremo in quello che segue, la partecipazione del movimento pacifista alla campagna No Dal Molin è determinata da una serie di condizioni—tra cui le precedenti esperienze di mobilitazione. Essa è oggetto di dibattito e tensioni, contribuendo ad una ristrutturazione del discorso, con una articolazione delle tematiche territoriali con quelle più specificamente pacifiste attraverso un intenso frame bridging. 10 Mobilitazione per la pace e contro la “guerra al territorio” Figura 1: mappa delle 113 basi Nato sul territorio italiano (http://www.sciechimiche.org/informazioni_scie_chimiche/elenco_mappa_basi_nato_usa_italia.html) In questo paragrafo, guardando in particolare all’area di mobilitazione per la pace e contro la guerra, suggeriremo che la sperimentazione di nuove alleanze è legata da un lato alla ricerca di soluzione a problemi esistenti, ma dall’altro si costruisce anche su precedenti esperienze storiche. Sul tema del disarmo, alcune anime della mobilitazione per la pace e contro la guerra coniugano diversi matrice libertaria o antimilitarista con un discorso più tradizionale del pacifismo e della nonviolenza, talvolta anche di ispirazione religiosa, in un ambito di generale dissenso in cui si rivendica il diritto della comunità locali a partecipare al processo decisionale, contestando il fatto che “un processo di globalizzazione e militarizzazione ‘droga’ l’intera struttura sociale, provoca danni all’ambiente e calpesta diritti e cultura” (www.fvg.peacelink.it/aviano2000/versounconvegno.html). Si tratta di un lavoro sia di studio che di informazione, controinformazione e mobilitazione tramite iniziative di protesta, assemblee locali, convegni (Gettiamo le Basi), che di elaborazione rispetto a “teorie e pratiche non di semplice antagonismo e disobbedienza, ma di reale conflitto sociale e politico” (www.resistenze.org) focalizzate sul territorio. Esso è in parte stimolato dall’esaurirsi delle mobilitazioni di massa. Se ad opera dei media si è parlato di scomparsa del movimento nazionale, gli attivisti per la pace e contro la guerra si appellano alla natura carsica del movimento, pur evidenziandone i limiti: “c’è anche una continuità nel nascere e morire continuamente, quando nasci e muori dieci volte, vuol dire che comunque ci sei, con delle forti difficoltà, con delle forti contraddizioni, ma ci sei” (INTc) “qualche anno fa dicevamo che dovevamo essere sabbia, non olio negli ingranaggi della guerra. Poi, a un certo punto, nell’aprile del 2003 si è ritenuto che la guerra in Iraq fosse finita. Abbiamo tolto le bandiere della pace dalla finestra e abbiamo smesso di mobilitarci come facevamo un tempo, senza nessuna ragione, perché da allora la guerra c’è stata più di quanto c’era prima” (Tomasello, Forum del movimento contro la guerra, 25/26/27 febbraio 2005). 11 Il declino di una mobilitazione può essere attribuito all’impossibilità di amplificare il frame, senza produrre discrepanze ed incoerenze rispetto alle organizzazioni e alle forme di azione e all’incapacità di rispondere a esigenze di risonanza e innovazione, come viene evidenziato da alcune componenti della campagna di mobilitazione nazionale: “[un movimento] si regge anche sul riconoscimento della legittimità democratica dei propri luoghi decisionali e sulla capacità di essere un vero laboratorio del conflitto che intercetta la radicalità dei nuovi e dei vecchi bisogni” (Il movimento fuori dal quadro, manifesto del 30 settembre 2004, Ginatempo-Tavolo Bastaguerra, Mometti-Brescia Social Forum, Monteventi-Bologna Social Forum, Ricciardi-Tavolo Migranti). In particolare, la rete per la pace e contro la guerra nazionale, o parti di essa a seconda dei territori, sembrano aver riconosciuto pur con ritardo l’efficacia delle mobilitazioni locali, enfatizzando il lavoro di iniziative politiche frammentate ma diffuse (Zadra 1987) sul territorio. Queste si rilevano infatti in grado di connettere pacifismo e politiche, in primis legge finanziaria e disarmo, traducendo il “no alla guerra” in “contraddizioni” pubbliche del sistema, cercando di sviluppare una retorica globale che faccia appello a un pubblico più ampio, creando e aderendo a rete organizzative, superando i confini del conflitto locale-esterno solo talvolta tradotti in centroperiferia. In questa situazione, così pure come nella contestazione agli euromissili negli anni ‘80, si è affrontato e si affronta il problema di un focus su comuni obiettivi concreti ma fortemente rispetto a cui è difficile produrre proposte politiche, focalizzate sulla questione della sicurezza: allora, in nome di “pericoli di guerra, democrazia e libertà, una società più giusta, un movimento di protagonisti, autonomo, organizzato, non-allineato”3; oggi, perché “la pace è la nostra sicurezza” (II assemblea tavolo Bastaguerra) e “non c’è sicurezza senza pace” (Tavola della pace, Noi e la paceRiflessioni e proposte). Si è cercato di sviluppare una retorica globale (Trom 1999) che facesse appello a un pubblico più ampio e permettesse di aderire o creare nuove reti organizzative. Dalle contestazioni degli anni ‘80 fino a quelle recenti legate alla presenza delle basi e delle differenti infrastrutture connesse ad esercito, produzione di armi, e militarizzazione del territorio, è possibile rintracciare un percorso in cui vari attori hanno costruito la mobilitazione, lavorando sul frame della “pace preventiva” a partire dalla connessione con altri temi della protesta: sicurezza, qualità della vita, tutela dell’ambiente (http://www.nuovomunicipio.org/documenti/smilitarizzazione/vialebasi.pdf), salute e non necessariamente all’interno di schieramenti ideologici predeterminati: “Non sono pacifista, neppure antimilitarista e tanto meno antiamericano. Non ho alcun pregiudizio ideologico nei confronti degli Stati Uniti. Credo soltanto che la presenza dei sommergibili americani a La Maddalena oltre ad aver fatto il suo tempo, rappresenti un pericolo per la popolazione e una palla al piede per lo sviluppo dell’isola, della Gallura e dell’intera Sardegna” (Comiti, sindaco de La Maddalena, 14 novembre 2005, La Repubblica, 21). Questo percorso di mobilitazione è stato realizzato tramite l’incontro di esperienze di mobilitazione e attivismo organizzato ma anche di partecipazione individuale, focalizzate sulla ricerca di presenza sul territorio, continuità e concretezza della protesta all’interno dei contesti locali direttamente coinvolti. Il richiamo al territorio rappresenta una reazione al calo della mobilitazione di massa attraverso la connessione alle esigenze e agli elementi di criticità presenti nelle comunità: “se c’è una percezione dei problemi reali, allora ci si trova e anche le iniziative hanno dei riscontri in termini di partecipazione. Dove c’è il gruppo senza attività sul territorio non c’è riscontro” (INTe). 3 Documento approvato nella giornata conclusiva dell’Assemblea nazionale dei Comitati per la pace, svoltasi ad Ariccia il 23-25 marzo 1984. 12 Questi conflitti localizzati sul territorio e connessi alla militarizzazione si sono spesso proposti come opposizione “Locally Unwanted Land Use” (Trom 1999). A partire dalla critica a un uso del territorio localmente non voluto (della Porta, 2004), essi hanno intrecciato tematiche di difesa della qualità della vita locale (Andretta 2004) con tutela del patrimonio artistico e naturale (inquinamento acustico, elettromagnetico e da polveri), salute4 (tumori, leucemie e malformazioni neonatali) e integrazione socio-economica5 (economie “drogate”, americanizzazione culturale, disgregazione del tessuto sociale), rivendicazione di democrazia, all’interno di un quadro di un generale e diffuso pacifismo. La prospettiva della mobilitazione dei gruppi pacifisti contro la militarizzazione del territorio appare quindi quella di superare l’epiteto di NIMBY, in primo luogo sviluppando retoriche in cui problemi locali e globali si intrecciano in una ridefinizione della politica legata alla gestione del territorio legati al processo di globalizzazione. Si tratta ad esempio di collocare la critica alla funzione e all’uso della rete delle basi militari NATO e straniere, e delle strutture ad esse legate, nell’ambito dell’elaborazione del concetto di nuovo modello di difesa prima e di guerra globale. Si mira ad amplificare il frame per estendere il consenso sulla questione, guadagnare supporto politico, sostegno finanziario e acquisire legittimità pubblica. Questo ha significato per i gruppi coinvolti tentare di astrarre i temi generali dal contesto di origine e ricollocarli in diverse prospettive sotto l’ombrello comune del “no alla guerra senza se e senza ma”: “già durante la guerra in Serbia avevamo posto la questione con grosse difficoltà con il movimento per la pace che invece spesso nasce su questioni contingenti ma non si pone con una visione organica: chi fa la guerra, che strutture si usano, da dove partono gli aerei; perché spesso si dice no alla guerra ma senza pensare a quello che ci sta dietro” (INTe). Al tempo stesso, si evidenzia come porre in primo piano la valutazione della qualità della vita di una comunità di appartenenza (Gould, Schnaiberg e Weinberg 1996) non coincida necessariamente con la difesa di un interesse “particolaristico” (Bobbio, 1999, 198) ma al contrario possa sottendere l’appello a valori universali (Williams e Matheny 1995, 183): “vi sono vertenze di tipo nazionale e di tipo internazionale ovviamente, ma poi tutte queste possono sempre essere declinate a partire da vertenze territoriali” (INTf). All’interno di un potenziale di mobilitazione articolato su diversi frame, si assiste così alla ridefinizione delle conseguenze dirette della militarizzazione e indirette della guerra, ponendo il tema della pace come filo conduttore, per innalzare il livello di generalità della protesta, in un repertorio ibrido tra informazione, controinformazione, partecipazione, azione diretta ma anche lobbying. Da una parte, questo lavoro si rivolge al potenziale di mobilitazione direttamente interessato dalla questione: “chi si trova a fare i conti con una servitù militare in casa, sa benissimo di cosa si sta parlando. E si finisce, volenti o nolenti, per esserne complici. Perché la guerra non è solo quella eclatante delle prime bombe in Iraq. È anche il piccolo gesto quotidiano, le azioni minime a cui finiamo per abituarci. È il defender dell’esercito che ti passa ogni due minuti sotto casa, perché di fianco hai una base militare, sono i soldati in assetto di guerra che corrono alle sette 4 Si veda ad esempio la denuncia sui casi della sindrome di Quirra, dicitura con cui sono raggruppate gravi patologie (tumori, leucemie, linfoma non Hodgkin) diffuse nel Sarrabus, sulla costa sud-orientale della Sardegna, dove sorge la più grande base NATO del Mediterraneo, il più vasto poligono sperimentale interforze d'Europa (http://www.mailarchive.com/[email protected]/msg00378.html;http://italy.indymedia.org/archives/archive_by_id.php?id=69). 5 “La presenza di una base condiziona il territorio anche da un punto di vista economico, investimenti, lavoro, affitti, attività commerciali per cui la difficoltà è confrontarsi con una controparte che giustifica la presenza militare giocando sulle ricadute positive sul piano economico” (Comitato Aviano2000). 13 del mattino di fronte alle scuole elementari, sono l’abitudine a vedere muri di cemento armato e fili spinati” (da un volantino dell’Osservatorio contro le servitù militari Vicenza). Dall’altra, il tentativo ai fini dell’estensione del frame è quello di riconfigurare la questione in termini di contestazione di deficit di democrazia: abusi di potere, mancanza di trasparenza nei processi decisionali, violazione di norme di legge (art. 11 della Costituzione italiana e Carta dell'ONU), nonché di denuncia degli interessi economici privati. A conferma del fatto che “la resistenza alla guerra in molte sue fasi è stata strettamente collegata alla nozione di democratizzazione comunitaria e egalitaria” (Young e Taylor 1987, 24). In una fase di “sgretolamento” della mobilitazione per la pace e contro la guerra a livello nazionale, alle vertenze locali, forti dei successi di partecipazione e di consenso di esperienze legate alle mobilitazioni contro altri generi di infrastrutture (della Porta e Piazza 2008), e consolidate dalla capacità di connettersi l’una all’altra, viene assegnata la funzione di collante6 e di rigenerazione della mobilitazione per la pace e contro la guerra. Si tratta di una soluzione nata dal dover necessariamente fare i conti con un calo di consenso e con la diffusa sensazione di un’incapacità e di un’inefficienza politica, dovute alla scomparsa di una risorsa cruciale: quell’eccedenza della piazza, comparsa tra il 2002 e il 2003, che era stato il frutto di un processo di costruzione di immaginario collettivo: “io penso che il movimento italiano abbia capito quanto può vivere fuori dai coordinamenti nazionali e quanto possa esercitare la propria forza e possa radicarsi nel territorio attraverso le vertenze locali […] il palazzo è permeabile a questo tipo di tematiche, e questo lo si deve soprattutto alla grande mobilitazione popolare” (INTf). Non sono mancati in questa prospettiva i tentativi di networking anche tra aree e movimenti, resi possibili in particolare dalla presenza di realtà nazionali con forti legami sul territorio: “Oggi del disarmo si occupa il disobbediente così come il cattolico delle Acli, in qualche modo e in qualche forma, mentre il disobbediente parla e rafforza l’idea del ‘via le basi della NATO’ o fa un lavoro di ricerca su alcune militarizzazioni del territorio fondamentali, un altro attore inizia a studiare come oggi le armi sono diffuse in tutto il mondo, per cui ognuno forse nella sua specificità.. però si è reso conto e si rende conto che il progetto deve essere comune, però in maniera tematica, sui contenuti” (INTg). Il territorio risponde infatti alla logica del “grande cortile”, alla quale ci si appella nel tentativo di promuovere un ciclo nazionale di mobilitazione che connetta “movimenti contro la guerra, le basi militari e per la difesa dei beni comuni” (Presidio Permanente No Dal Molin, I nostri sogni faranno più strada delle loro ruspe: quando iniziano, li fermeremo, novembre 2008). Si apre così un dialogo con altre ondate di protesta affini presenti nel paese, in primis quello dell’onda del precariato e della ricerca7: “tanti grandi cortili sono nati in giro per l’Italia e le nostre ragioni sono 6 Il report finale dell’assemblea dei Movimenti per la pace e contro la guerra, svoltasi a Firenze il 21 e il 22 ottobre 2006, ha indicato come primo impegno condiviso: l’adesione alla manifestazione del 2 dicembre a Vicenza, contro la totale militarizzazione dell’aeroporto Dal Molin, indicato come “Appuntamento nazionale unitario, che rappresenta un’occasione di rilancio di una campagna per la chiusura delle basi militari e per il disarmo”. 7 “In questi anni abbiamo imparato a guardarci intorno, a conoscere e interrogare. Vogliamo capire e imparare, costruire e creare. Come voi ci riuniamo in assemblea. Come voi cerchiamo di valorizzare la nostra creatività e la nostra diversità. Come voi difendiamo beni comuni che i governi vorrebbero sottrarci: l'accesso ai saperi per regalarlo ai profitti dei privati, il territorio per svenderlo ai militari statunitensi o al partito del tondino e del cemento, l'acqua per consentire nuovi enormi profitti alle grandi multinazionali. Come voi puntiamo sulla forza della ragione e della verità e pratichiamo metodi di lotta pacifici.[…] Le nostre onde seguono la stessa rotta: quella che ha come meta la difesa dei beni comuni, della partecipazione e della democrazia”. (Presidio permanente No Dal Molin NOTAV Valle di Susa, Lettera aperta agli studenti, ai precari, agli insegnanti, ai genitori impegnati nella difesa di un bene comune: la scuola e l'università, 6/11/2008). 14 diventate le ragioni di molte altre resistenze. Obiettivo comune: difendere la democrazia e poter decidere del proprio futuro. Un filo lega da allora le iniziative che ci vedono protagonisti” (“I nostri sogni faranno più strada delle loro ruspe”, documento del Presidio Permanente No Dal Molin, 05/11/2008). Inoltre, spesso la generalità del conflitto viene affermata a partire da una retorica procedurale, definendo la propria azione come opposizione ad abusi di potere e mancanza di trasparenza nel processo decisionale pubblico, oltre che ad una alleanza collusiva tra governo e interessi imprenditoriali (Gordon e Jasper 1996): “quello che si definisce un interesse particolare… è invece espressione della sovranità delle popolazioni che vivono il territorio”, richiamando “dal Nord al Sud, una sola lotta” (volantino per il gemellaggio No Tav - No Ponte, Rete Meridionale del Nuovo Municipio Coordinamento "NoPonte" ). Questo ha permesso alla rete per la pace e contro la guerra di ritrovarsi, pur decimata, in nuovi spazi e su nuovi temi e di attraversare un periodo di latenza che talvolta si scontra con la “sordità” della mobilitazione nazionale. In questo quadro, pare comunque delinearsi anche una sorta di conflitto centro-periferia interno alla mobilitazione. Infatti, pur nell’intuizione che una grande operazione nazionale sul tema avrebbe potuto incontrare l’interesse locale, non si è ad oggi ancora verificata una vera apertura a tutti i comitati, come coinvolgimento diretto nell’elaborazione dei contenuti delle iniziative. I comitati vengono infatti accusati di essere bloccati in un atteggiamento di “delega”: “questa roba di Brescia non è mai diventata patrimonio comune di questo movimento, e credo che neanche Aviano lo sia e neanche Camp Darby e neanche Verona. Nel senso che vengono considerate in teoria problema nazionale, nella pratica vengono delegate a delle situazioni locali, dicendo che è ‘il territorio che decide’. Il territorio decide, però chiede a tutti gli altri di esserci in un percorso, invece va a finire che sulla base ‘il territorio decide:… arrangiatevi!’” (INTd). “le realtà sul territorio o non sono capaci, o non vogliono, o fanno fatica a coordinarsi a livello nazionale […]. Nel senso, che i sardi sono bravissimi ma se gli dici di fare una cosa fuori dalla Sardegna non vengono mai, i friulani sono bravissimi su Aviano ma qualsiasi cosa che si faccia fuori dal territorio della provincia di Pordenone loro non ci sono.[…] La frattura locale-nazionale non è stata risolta neanche ai tempi di Fermiamo la guerra” (INTb). Nonostante queste tensioni, numerosi attori di conflitti legati al territorio hanno sviluppato la propria rivendicazione all’interno di alcuni frame specifici della mobilitazione generale per la pace e contro la guerra: commercio delle armi, militarizzazione del territorio e nucleare. Questi temi, tramite l’impegno delle comunità territoriali, hanno iniziato ad acquisire visibilità anche all’interno delle realtà di coordinamento nei luoghi e nei momenti di dibattito e riflessione a livello nazionale, spinti in parte dalla visibilità e dal successo di altre proteste legate al territorio pur su questioni e con cornici interpretative diverse, in primis l’opposizione alle grandi opere (campagna no Tav, campagna no Mose, protesta per il ponte sullo stretto di Messina): “per facilitare una nuova fase di campagne locali e nazionali, di costruzione di reti, di coordinamento di lotte reali e vertenze, coinvolgendo le realtà diffuse, le realtà nazionali, le esperienze di base locali e nazionali ma anche singoli individui contro il sistema di guerra e la militarizzazione del territorio, costruendo un’alternativa basata sulla diplomazia dal basso, l’interposizione non violenta, la cooperazione la convivenza tra i popoli” (Atti del Forum del Movimento contro la guerra, 25/26/27 febbraio 2005). Pur in un territorio nazionale così diversificato, in cui ogni singolo conflitto locale deve fare in conti con la specificità della propria struttura di opportunità e subculture politiche, proprio verso questa 15 onda di mobilitazione di comunità per la difesa del territorio si sono verificati tentativi di coordinamento, a partire da manifestazioni di solidarietà reciproca, iniziative e campagne informative, fino ad arrivare all’adesione del movimento vicentino no Dal Molin contro la nuova base statunitense al Patto nazionale di solidarietà e mutuo soccorso, una “cornice”, un “contenitore” che mette in rete varie realtà territoriali di mobilitazione “contro le grandi opere inutili e contro lo scempio delle risorse ambientali ed economiche” (http://www.pattomutuosoccorso.org/). Protagonisti di questa mobilitazione sono i cittadini, che in qualità di citizen-workers (Gould, Schnaiberg e Weinberg 1996) difendono la qualità della loro vita, acquistano legittimazione politica e sensibilizzano l’opinione pubblica nazionale, su tutela della qualità della vita, del patrimonio artistico, dell’ambiente, della salute, dell’integrazione sociale e della pace. Si assiste quindi a una vera e propria contaminazione di temi, pratiche e identità in una rete di mobilitazione che dal locale guarda al globale, in una nuova dimensione del conflitto cosiddetta Not On the Placet Earth-NOPE (Trom 1999) caratterizzata dalla retorica del bene comune e delle procedure nel processo decisionale pubblico. La costruzione di identità come riconoscimento La costruzione di un “noi” tra diverse campagne di protesta non si limita a indicare un comune oppositore, ma si realizza in un processo di mutuo riconoscimento attraverso il lavoro compiuto dalle organizzazioni sugli schemi interpretativi identitari che comprendono visioni condivise del mondo e riguardano significati comuni della situazione, a fini di riconoscimento di sé e degli altri. Questo processo richiede anche di confrontarsi con le definizioni che di questo “noi” vengono fornite dall’esterno, in primo luogo dai mezzi di comunicazione. In Italia, specie nel corso del 2003, ha avuto luogo una mobilitazione per la pace e contro la guerra frutto del combinarsi di elementi civici e di protesta, che tramite eventi “ibridi” ha associato iniziative sociali e di carattere conflittuale e, in un’ipotesi di continuità nella mobilitazione pacifista, e ha comportato anche un cambiamento delle forme di azione e di organizzazione (Sampson, McAdam, MacIndoe e Weffer-Elizondo 2005). La mobilitazione ha avuto il suo apice nella giornata di mobilitazione contro la guerra del 15 febbraio 20038 e ha visto in Italia convergere realtà di partecipazione molto diverse, tanto da far parlare di “offensiva pacifista”. Da una parte, si è assistito alla mobilitazione di settori organizzativi direttamente impegnati sul tema anche in relazione ad esperienze precedenti (la mobilitazione contro la guerra nei Balcani e la contestazione dei missili di Comiso). Dall’altra, si è verificata l’integrazione della questione pace con temi, iniziative e attori connessi al mondo della sinistra storica, dei nuovi movimenti sociali e soprattutto della globalizzazione dal basso (Pianta, Silva 2003; Beck 1999). Alla presenza continua di alcuni soggetti di natura strutturata si è sommata sia quella di realtà relativamente stabili ma con organizzazione reticolare che quella di attori occasionali. Queste organizzazioni hanno a più riprese tentato di collegarsi nel tentativo di dare vita a un’interpretazione in grado di far assumere alla campagna un’espressione e una valenza morale, per “annunciare alla società che qualcosa di altro è possibile” (Melucci 1985). All’indomani del 15 febbraio 2003 e della giornata internazionale contro la guerra, sembra però essersi chiusa una fase della mobilitazione. In particolare, dalla fine del 2003 è iniziata una fase di incertezza e di ripiegamento della mobilitazione, fino a giungere all’auto-sospensione del comitato Fermiamo la guerra nel 2004, dovuto a un cambiamento nella struttura delle opportunità 8 La manifestazione era stata proclamata in conclusione dei lavori del Social Forum Europeo del novembre 2002 di Firenze, da dove si era lanciato un appello contro la guerra, che era stato poi successivamente ripreso nel meeting europeo di Copenaghen (la prima riunione della rete europea del movimento contro la guerra) del 15 dicembre 2002, insieme all’organizzazione a ombrello statunitense United for Peace, e poi concretamente comunicato all’opinione pubblica internazionale a seguito dei lavori di un workshop specifico all’interno del Forum sociale mondiale di Porto Alegre del gennaio 2003. 16 politiche per il cambiamento del sistema di alleanze. La mancanza di uno snodo di organizzazione e di proposta sulle iniziative porta a “una sorta di emorragia strisciante” (INTa) all’interno della rete nazionale che si era consolidata, attribuita in parte anche alla scarsa capacità di creare sinergie con il territorio: “lo spazio pubblico comune rappresentato dal Comitato Fermiamo la guerra non ha saputo trasformarsi in uno spazio di costruzione politica del conflitto e non si è saputo dare respiro e coordinamento alle varie iniziative diffuse a livello locale, mettendo in crisi l’autonomia della mobilitazione dal quadro politico e dalle sedi istituzionali” (INTb). Il prolungarsi della mobilitazione senza visibili risultati sul fronte dell’obiettivo ha di fatto diminuito l’attenzione del pubblico e dei media, facendo calare il senso di emergenza e di priorità del tema anche per gli attori coinvolti. La graduale accettazione da parte dell’opinione pubblica del coinvolgimento militare del paese nel conflitto iracheno e la percezione di una situazione non risolvibile, se non nel lungo periodo, hanno indebolito il fronte del “no alla guerra senza se e senza ma” che si è frammentato sul fronte della prognosi e delle strategie. A questo si sono poi sommate le reazioni internazionali agli attacchi dell’11 settembre e, nel momento in cui gli attacchi terroristici si sono avvicinati al contesto europeo (prima con gli attentati di Madrid e poi con quelli di Londra), il tema del “no alla guerra” si è trasformato in un tema globale legato al paradigm shift del concetto di sicurezza, con l’elaborazione della “guerra contro il terrore” e della “giustizia infinita”. La guerra in Afghanistan e poi quella in Iraq hanno imposto la centralità di temi tradizionali del pacifismo, ma al tempo stesso si è assistito all’elaborazione di una protesta preventiva in cui il disarmo e l’economia di guerra si sono inseriti in un nuovo master frame di “peaceful justice” (Vasi 2006). In sintesi, il concretizzarsi della guerra al terrore ha cambiato le capacità e le prospettive della mobilitazione per la pace e contro la guerra, mostrando anche la necessità di iniziative innovative, meno ancorate al repertorio degli anni ’60 e a quello antinucleare degli anni ’80, in grado di rispondere con più efficacia all’esigenza di identità unitaria. Questo ha significato per la mobilitazione italiana innanzitutto un lavoro sul linguaggio ma anche sui temi e sulle pratiche della protesta, puntando sulla controinformazione e sulla costruzione di reti di sostegno (Keck e Sikkink 1998), in cerca di occasioni politiche per ampliare il proprio raggio di azione, di accesso informativo e di sviluppo della connessione con altre questioni (Burde 2002), in primis quella del disarmo: collegandosi al tema della sicurezza e della militarizzazione, entrambi focalizzati sulla dimensione del territorio. Si è quindi cercato di indirizzare verso le campagne e le iniziative locali un processo di politicizzazione, tentando di realizzare un mutamento di scala e di interpretazione del conflitto, sostenendo momenti di mobilitazione e di attenzione pubblica nazionali. Fare in modo che una questione venga definita come pubblica e diventi oggetto di controversia politica (Lauman e Knoke 1987) non è operazione facile da realizzare per degli attori di mobilitazione. Si tratta di un processo che innanzitutto deve permettere agli attori che mirano a un cambiamento della realtà circostante di valutare e presentare come possibile una soluzione e indicare una causalità che connetta vittime e responsabilità, costruendo “contro-schemi” (Gamson 1988, 218) per legittimare la critica e sostenere le proprie richieste in relazione al frame proposto dalle istituzioni. Da questo punto di vista, la protesta No Dal Molin ha sviluppato con i media un rapporto controverso, di fatto subendolo. A livello locale i media sono stati percepiti dagli attivisti come vere e proprie controparti della mobilitazione, con un rilevante ruolo di stigmatizzazione rispetto all’attribuzione alla protesta delle etichette di NIMBY e di no global. Sul livello nazionale, invece gli attivisti vicentini lamentano una mancanza di attenzione, se non in occasione di esigenze di copertura di mobilitazioni di massa o di ripercussioni della protesta 17 sugli equilibri governativi. In effetti, da un’analisi del contenuto dei commenti sull’ampliamento della base di Vicenza presentati da alcuni dei principali quotidiani nazionali si rileva come il discorso pubblico intorno alla mobilitazione No Dal Molin9 si sia focalizzato su un’interpretazione in chiave di politica estera e interna di una componente del non meglio precisato movimento “no war”. In particolare, come evidenziato nelle tabelle 1 e 2 in appendice, la mobilitazione viene letta e interpretata all’interno di due principali cornici interpretative. La prima concerne l’attendibilità del ruolo internazionale dell’Italia, in relazione al rispetto degli impegni internazionali in nome dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti e in particolare del rifinanziamento della missione in Afghanistan. La seconda cornice presenta la mobilitazione No Dal Molin come casus belli all’interno della maggioranza, sintomo della fragilità del rapporto del governo con “aree di dissenso note e circoscritte” (dichiarazione di Prodi alla stampa, febbraio 2007). Fanno eccezione alcuni quotidiani dichiaratamente affini alla mobilitazione, che all’interno di una copertura maggiore, hanno proposto chiavi interpretative connesse direttamente alla pace e al no alla guerra e alla partecipazione dal basso, spesso dando voce direttamente agli attori della protesta sul livello nazionale. Il dibattito mediatico sembra quindi disconoscere le chiavi di lettura proposte dal territorio, solo in alcuni casi enfatizzandone un legame con la mobilitazione nazionale in termini di dipendenza e non di originalità dell’iniziativa. La mobilitazione No Dal Molin ha dovuto fare i conti nella diffusione dei propri frame con alcune difficoltà peculiari legate alla natura delle questioni connesse al tema della pace nel rapporto con i media. Innanzitutto, la tradizionale passività del contesto pubblico italiano, determinata dalla minor attenzione mediatica e dalla carenza di competenze nel pubblico rispetto a questioni di carattere internazionale, che tendono a far prevalere l’opzione di exit o un generico consenso di opinione. Inoltre, le questioni legate alla pace e alla guerra, come così in generale quelle attinenti alle politiche estere e di difesa, tendono a restare piuttosto immuni dalle influenze democratiche dal basso (Pagnucco e Smith 1993) e di conseguenza più difficilmente riconducili a questo tipo di lettura da parte dell’opinione pubblica, per la scarsa praticabilità dal punto di vista dell’esperienza personale da parte dell’audience in un contesto come quello italiano. Inoltre la campagna No Dal Molin ha dovuto rispondere alle accuse di un anti-americanismo di matrice no global e svilupparsi in una struttura di opportunità politiche molto diversa rispetto ad altri casi di mobilitazione del territorio, ad esempio quella No Tav. Non si verifica a Vicenza il coinvolgimento sul fronte della protesta delle amministrazioni locali e viene quindi a mancare una combinazione vincente di risorse di legittimazione, logistiche e di coordinamento e protesta e diventa molto più lenta e ardua la costruzione di un processo virtuoso di costruzione della fiducia nel movimento. La definizione dell’interesse dei cittadini rimane al centro di una battaglia simbolica. La stessa concezione del bene pubblico è oggetto del lavoro di costruzione di significato da parte di coloro che protestano, ma anche delle loro controparti. Frequentemente, gli oppositori a grandi infrastrutture sono definiti dai loro promotori come ignoranti, contrari al progresso sulla base di pregiudizi e malafede per cui i sostenitori del Dal Molin hanno ad esempio affermato che certo “un quartiere di Vicenza non può mettere in discussione il patto atlantico” (un politico della Destra ad una Tv locale il 17 febbraio 2007)10. Davanti all’indifferenza mediatica, la costruzione di un frame collettivo si delinea come un processo strategico per la mobilitazione nella definizione del “noi” (Gamson 1992) e di quanto viene realizzato, come individui o come collettività, per attribuire significato a se stessi o agli altri. 9 Il periodo di riferimento è quello compreso tra il 12/01/2007 e il 05/02/2007, considerato cruciale per la definizione delle posizioni governative sul tema: si tratta infatti dei giorni cosiddetti “dell’editto di Bucarest”. Il 16 gennaio 2007, l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, in visita a Bucarest, comunica alla stampa il definitivo via libera ai lavori per la base, la mobilitazione No dal Molin reagirà con la manifestazione nazionale del 17 febbraio. 10 www.altravicenza.it/dossier/dalmolin/doc/20070811viest01.pdf. 18 La dimensione cognitiva della protesta R1:”[il movimento è fatto da una] moltitudine di persone che hanno storie differenti ed è uno dei punti di forza della realtà in cui siamo che è la convergenza su alcune tematiche… I. Su tematiche o su obiettivi? R1: Su un obiettivo legato ai beni comuni, alla difesa del territorio, no alla militarizzazioni dei territori… R2: la partenza è la condivisione del No dal Molin, la partenza storica. Ci si incontra noi contro la guerra e i comitati sul no al territorio e lì si costruisce, i valori si costruiscono anche nelle relazione nel percorso… la costruzione del valore avviene anche nel percorso, perché ad esempio noi non siamo d’accordo neanche sull’immigrazione R1: anche nell’organizzazione delle manifestazioni si arriva a una cosa condivisa in cui ognuno parte dalla visione che lui ha e si arriva con un percorso comune a un’idea condivisa. Per esempio, nell’ultima manifestazione europea di dicembre c’è stato un percorso in cui siamo arrivati a condividere come porci anche con gli altri movimenti in Europa, in particolare su questa questione della militarizzazione dei territori, se non altro europeo.… R2: è dura dire su quanta roba ci siamo contaminati! Intanto il linguaggio…bestemmio meno! [ridono] Scusa la battuta, ma intanto c’è la grande capacità di ascoltare, veramente io non ho mai parlato così tanto con tutti, perché prima lavoravo con persone che erano d’accordo con quello che pensavo io, avevano la mia visione, mentre qua è una continua messa in discussione. Su quante robe ci siamo contaminati, non sono ancora riuscito a contarle.… R1: ci sono alcune cose che a me hanno fatto piacere. Per la mia indole mi ha sempre indignato la difficoltà a dialogare anche quando si è d’accordo…quanta difficoltà c’era e anche c’è tuttora nell’affrontare problemi. Innanzitutto, si è capito che ognuno deve fare un passetto indietro e questa, secondo me, è stata una cosa fondamentale e bella, perché ognuno quando entra in quella realtà deve spogliarsi di qualcosa e deve aprirsi a un’idea diversa, mentre altre volte non capitava che un cattolico venisse ascoltato da un disobbediente solo per la sua estrazione, la sua provenienza, e invece ognuno ha portato le cose della sua esperienza e le ha messe al servizio… R2: in assemblea tutti applaudono gli interventi dell’altro anche se sono in opposizione, lo legittimi anche se non sei d’accordo. R1: spesso la difficoltà a dialogare viene dal fatto che non ci si conosce, si aveva un’idea, perché non si era mai andati in quel luogo…,e poi capisci che su certe cose ci sei, magari hai dei metodi diversi, però non puoi farti un’idea se non conosci. Io sono contento che Francesco [Pavin] parli di ascolto, perché non sono più solo cose del mio modus operandi… R2: vedi sono diventato un cattolico! [ridono] Io non sono cattolico ma vedi che dico “mettersi al servizio degli altri”… in questa cosa del linguaggio sento la contaminazione: sento gente che usa immaginario collettivo, moltitudine, impero e poi noi parliamo di mettersi al 19 servizio, farlo per gli altri…,l’altro giorno uno mi ha detto “ma sei veramente diventato un prete!” (INT5, 8) Per gli attivisti No Dal Molin, così come per quelli del movimento per una giustizia globale (della Porta e Mosca 2003), la diversità è un valore positivo. Nel corso della mobilitazione essa arricchisce infatti gruppi e individui grazie ad una reciproca contaminazione e alla conoscenza reciproca. Nelle immagini più comuni nella ricerca sui movimenti sociali (e non solo), la consapevolezza (anche in termini di reciproca conoscenza tra gli attori) sono risorse che precedono l’azione - ne costituiscono premesse. La campagna No Dal Molin (come quelle contro la TAV e il Ponte sullo Stretto, della Porta e Piazza 2008) racconta un’altra storia: come cioè la reciproca diffidenza e la differenza di percorsi e tradizioni tra i diversi attori individuali e collettivi vengono superati nel corso della campagna di protesta, che rappresenta una arena di costruzione (cognitiva) di una realtà condivisa. Pur nel riemergere o perdurare di tensioni, l’azione comune porta ad una costruzione di significato (o negoziazione di significato, come scriveva Melucci, 1985). Nell’azione, la conoscenza reciproca fa crescere la fiducia tra attori e individui che avevano poca occasione di frequentarsi e, spesso, rifiuto reciproco. Si verifica in pratica un processo di empowerment attraverso rispetto reciproco e coinvolgimento. Le persone coinvolte accedono a nuove risorse in termini di competenze, consapevolezza, relazioni ed esercizio di un vero e proprio potere che aumenta il senso di efficacia politica, di consapevolezza della cittadinanza. Intervistati appartenenti a diverse componenti notano con accenti positivi la contaminazione nel corso dell’azione. Nella campagna No Dal Molin, così come in quella sulla Tav, nel corso della campagna di protesta si creano rapporti di fiducia tra diversi attori, come dimostra la citazione ad inizio del paragrafo, gli attivisti dei centri sociali mutano la loro immagine sui gruppi cattolici. Ad esempio, con i centri sociali, inizialmente guardati con sospetto dalle componenti più moderate, vengono poi accettati: “C’erano grandi pregiudizi nei confronti dei ragazzi [dei centri sociali], non li conoscevo ma ho imparato a conoscerli… l’area dei centri sociali, io partendo senza diffidenza ho imparato a conoscerli e si può cercare di fare qualcosa tutti assieme e discutere … Il presidio è quello che io ho sempre pensato: un’unione di persone molto diverse ma che possono tranquillamente lavorare assieme, trovando un punto di incontro bellissimo. Anche nei confronti dei ragazzi è un rapporto di grande affetto, di grande stima. Delle volte discutiamo anche aspramente, anche questo ultimo mese e mezzo è stato un bel confronto, però abbiamo imparato a fidarci. Per me questo è importante: la fiducia, così è nato e l’avventura continua ancora” (INT7). La conoscenza crea una capacità di comunicare, basata su conoscenza accettazione, se non necessariamente condivisione. Nella narrazione degli intervistati, l’identità del movimento si costruisce quindi nell’azione, anche attraverso la partecipazione dei cittadini, che costringe ad uscire dalla identità organizzativa, costruendo quelle che Gamson (1998) ha definito come identità, invece, di movimento: “Il presidio permanente introduce una scalettata di cittadini dentro il presidio in una proporzione del 300% di quello che era prima, e ti costringe a ragionare non più nell’ottica che c’era prima di mediazione tra le organizzazioni, ma in un’ottica di condivisione di una moltitudine, dove a un certo punto non faccio più l’intervento come disobbediente dell’assemblea permanente, come facevo prima, 20 ma come…,cioè io mi sento del presidio, questa è la mia appartenenza politica in questo momento! Oltre i riferimenti alle aree e costringe a mettersi in gioco…d’altro canto la costruzione, l’autocostruzione di un’identità porta anche chi vuole mantenere la sua vecchia identità a mettersi in discussione e a decidere se vuole o se non vuole partecipare” (INT5, 8). Se spesso questo incontro avviene nel corso della preparazione delle proteste in piazza, alcune forme d’azione hanno una particolare capacità di favorire l’incontro delle diverse anime della protesta, creando una arena per il confronto, ambito di mediazione dove si attivano processi di riconoscimento e reciproca legittimazione ma anche luogo di individuazione di nuove distinzioni (Tosi, Vitale, 2005). E’ il caso appunto del presidio, iniziato da un’area specifica e poi allargato come spazio del movimento: “Dal punto di vista della storia di questo movimento, con i partiti dell’estrema sinistra, i centri sociali, i cani sciolti della sinistra. E’ accaduto che un giorno c’è stata un’idea del gruppo facente riferimento a quest’area di andare a piantare una tenda davanti al dal Molin, vale a dire il presidio, che è una tecnica, un’azione, diventasse un’azione permanente e addirittura parte del movimento concorrenziale rispetto al resto” (INT 6). Nel corso dell’azione comune si nota, dunque, una reciproca fertilizzazione con un’influenza sui repertori d’azione: “Siccome è una cosa che mi preoccupa e a cui sto attento posso dire di aver visto in loro questa maturazione sia nei leader che nei gruppi e soprattutto nel gruppo delle donne! Credo sia un segno di intelligenza e di capacità di imparare, non c’è adesione ideale ma noi sappiamo che l’adesione ideale in una situazione difficile ti fa essere nonviolento anche se le provocazioni sono immense, invece se uno non ha aderito può dire “mi ribello”. Comunque lì dentro c’è una buona componente di ex dell’ autonomia dell’estremismo che considerava, stando zitti su questo argomento, la violenza come uno strumento, mentre orala nonviolenza si è conquistata sul campo e si è capito che un’azione riesce meglio se si rispettano alcune condizioni nel rapporto con l’avversario, quindi sono diventati dialoganti. Non hanno ancora superato alcune cose e si sono tagliati fuori della cittadinanza ma anche lì ho visto un altro aspetto positivo” (INT6). L’incontro è un incontro di tematiche, ma anche di valori. La CGIL presenta l’azione all’interno di una tradizionale discorso del sindacato che sottolinea “pace, terra, democrazia”, “La comunità ecclesiale ha più sviluppato il discorso del valore, come valore della pace, del non usare la guerra per la pace: il villaggio era legato alla caserma e non ha senso continuare a costruire potenzialità di armi” (INT10). Nel corso dell’azione, tematiche e valori si intrecciano comunque nella definizione di un bene comune, del territorio, ma non solo di esso: “una mobilitazione popolare in cui i cittadini di Vicenza difendono la propria terra, la propria città, il proprio habitat, si battono per una città amica dei cittadini contro la cementificazione che è l’esatto contrario. Ancor più se questa cementificazione avviene per 21 militarizzare la città, perché non c’è solo un impatto dal punto di vista ambientale, come risorse naturali, acqua, aria ma c’è qualcosa di più: il fatto che la città viene militarizzata. In una città dove i leghisti non vogliono gli stranieri, per le loro note ragioni e nello stesso tempo, nel mentre sono xenofobi, sono invece favorevoli a portare in questa città delle persone che non si integreranno mai, perché vengono da teatri di guerra, sono stressate, ruotano continuamente. Da quando è scoppiata la guerra in Iraq, non ho visto mai in Veneto tante bandiere della pace come qui a Vicenza, perché c’è, soprattutto nel mondo cattolico, un forte spirito pacifista che si è saldato con l’idea che c’è un progetto di militarizzazione della città, realizzato in gran segreto da Berlusconi, Hüllweck e i cittadini hanno scoperto un’amministrazione non trasparente” (INT11). La “contaminazione” porta ad un approccio complesso alla questione della base, intrecciando i temi della pace e della qualità della vita sul territorio, ma anche il tema della democrazia violata: “Quando dici guerra, la guerra cosa è? È anche guerra al territorio. Quando tu buchi una montagna, quella non è guerra? Alcuni non vogliono ammetterlo ma qua il punto è il bene comune” (INT5). Soprattutto, l’appello ai valori e a una visione “complessa” del tema No Dal Molin porta a rigettare la definizione NIMBY: “Non abbiamo mai sostenuto che la base non va bene a Vicenza ma andrebbe bene invece a Rovigo. Nel corso del tempo, c’è stata la maturazione a cui facevo prima riferimento: l’idea che bisogna lavorare per la pace e che il no a un progetto che va nella direzione di portare altri strumenti di guerra in Italia del progetto è esattamente il contrario di un nimby” (INT11). Tuttavia, ciò non porta ad un rifiuto di una definizione del conflitto come (anche) locale, seppure come forma nuova che collega locale e globale. La dimensione emotiva della protesta “Probabilmente all’inizio c’era questo elemento [nimby], perché è chiaro che tu ti mobiliti per difendere il tuo territorio, però adesso direi che non c’è più. Per esempio, quando è stato deciso lo spostamento da est a ovest, noi abbiamo perso un po’ di gente, perché probabilmente erano quelli appagati, quelli che abitavano lungo la strada di via Sant’Antonino e ha risolto i suoi problemi. Ma per noi adesso non è sicuramente una questione nimby! Sul no global, guarda, mi hanno definita in tutti i modi, una volta credo il Giornale di Vicenza mi ha definita ‘la mamma dei no global’ ma non mi offende! Probabilmente non me lo sarei aspettata neanche io tre anni fa. Per dire, abbiamo passato l’ultimo dell’anno al presidio: dovevamo andare in settimana bianca, ma poi c’era mio figlio con l’influenza, per cui siamo rimasti a casa ma sono stata felicissima, perché così sono andata al presidio! E mi sono vestita da presidio e quando ti vesti da presidio ti metti i calzettoni, le bragone, i maglioni 22 e mi ricordo che a un certo punto ho detto a Francesco [Pavin] “ma ti rendi conto che io fino all’anno scorso andavo a fare l’ultimo dell’anno in tacchi a spillo, pelliccia e vestito da sera e adesso sono qua con gli scarponi da montagna e i pantaloni felpati!. Ma penso che nella vita è anche bello cambiare, rendersi conto anche di quelle che sono le priorità! Io ho perso il gusto di fare shopping, tutte queste cose, questi orpelli non mi interessano più, mi interessa un altro modo di impostare la vita. In questo ho pagato anche dei grandi scotti, perché ho perso anche tante persone, perché ovviamente tanti amici che non mi riconoscono più, ma non importa. … Io guarda penso che sia un arricchimento reciproco. A me viene in mente che 5-6 anni fa io facevo delle baruffe furiose con mio figlio che aveva 14-15 anni e qualche volta andava al centro sociale. Sono arrivata a chiuderlo in casa. Adesso, c’è mio figlio che arriva a casa e si trova tutti i ragazzi in riunione a casa mia. Adesso si è abituato ma prima mi guardava… si sono invertiti i ruoli, tanto che prima dell’occupazione della prefettura, l’ho salutato e lui mi ha detto “ti raccomando, mamma, ma cosa ti metti a fare?! È la volta che ti mettono dentro!”. Tra l’altro ho anche migliorato il rapporto con mio figlio attraverso la conoscenza di questi ragazzi e sono riuscita a rapportarmi a lui in modo diverso e penso che sia reciproco. Ogni tanto a Francesco [Pavin] dico ‘tira fuori il disobbediente che c’è in te!’. Io sono molto più dura su alcune cose, nonostante la mia aria pacata, sono posizioni più dure rispetto a lui. Quindi con no global cosa si intende? Perché me lo dicono sempre come se fosse un offesa. No, perché essere contro la globalizzazione mondiale che sta portando al disastro non è un’offesa: io sono orgogliosa di essere contro questa globalizzazione e quindi non mi tocca!” (INT7). Come dimostra il lungo brano riportato, tratto dalla intervista ad una delle attiviste del presidio, la partecipazione alla protesta trasforma, in alcuni casi in modo profondo, le motivazioni collettive, così come quelle individuali. Se le emozioni sono state tradizionalmente guardate con sospetto negli studi sui movimenti sociali, che hanno privilegiato il loro agire strategico e razionale, di recente comunque l’intensità emotive della partecipazione ad eventi di protesta è stata sottolineata nel corso del così detto “cultural turn” (Goodwin, Jasper, e Polletta 2001; Aminzade e McAdam 2001). Non sono mancate le ricerche empiriche a sottolineare come i movimenti sociali siano infatti ricchi in emozioni, che includono la rabbia alla paura alla vergogna, ma anche l’orgoglio, la gioia e il piacere (Kemper 2001; Gould 2004), queste ultime particolarmente rilevanti per il mantenimento dell’impegno (Goodwin, Jasper e Polletta 2001). Il ritorno delle emozioni nella ricerca sui movimenti sociali ha comunque comportato una innovazione rispetto gli approcci precedenti. Non solo le emozioni non sono più considerate come negative, ma non vengono neanche più contrapposte all’aspetto cognitivo o alla capacità di agency (Goodwin, Jasper e Polletta 2001). I movimenti sociali vengono ansi considerati come capaci di lavorare sulle emozioni, attraverso una sorta di liberazione emotive, che riproduce le emozioni positive e tiene sotto controllo quelle negative (Flam 2005; Eyerman 2005). Inoltre, le emozioni sono state collegate al contesto, dove norme diffuse contribuiscono a legittimare alcune emozioni ed alcuni modi di esprimerle, e a stigmatizzarne invece altre (Goodwin, Jasper e Polletta 2001). Rituali e narrative contribuiscono ad intensificare il clima emotivo, e questo a sua volta produce e rafforza il senso di appartenenza ad una identità collettiva. Come ha dimostrato la ricerca su altre campagne di protesta, alcune forme di protesta 23 contribuiscono alla creazione di un senso del noi attraverso la costruzione di luoghi di incontro e reciproca conoscenza (ad esempio, spazi occupati), altre a rafforzare i confini con l’esterno attraverso la contestazione di un territorio (ad esempio, conflitti con la polizia). Ciò anche attraverso la creazione di emozioni intense, ricordata nelle interviste come uno degli effetti della partecipazione alla protesta. In particolare, in modo simile che in Val di Susa o sullo stretto di Messina (della Porta, Piazza 2008), viene ricordato il senso di ingiustizia, che produce rabbia e indignazione: “Man mano che passa il tempo, in tantissimi sale l’indignazione anche per quello che è successo: aumenta l’indignazione, aumenta la rabbia, perché oltre alla decisione iniziale, che comunque era inaccettabile, poi però tutta una serie di comportamenti inaccettabili, non democratici, che fa reagire in maniera sempre più forte. Poi, sai, si è creata anche nel Presidio conoscenza da parte delle persone. Per esempio, noi abbiamo il gruppo dei pensionati, se tu prendi loro magari una parte di loro aveva all’inizio interessi nimby, perché stavano nella zona. Adesso, sono i più irriducibili e dicono “non esiste in Italia!”. Arrivi lì e li vedi che chiacchierano di trattati segreti. E’ bellissimo. C’è questo percorso! Ma anche io, insieme a tutti, stiamo maturando!” (INT7). Non chi protesta, ma le istituzioni sono percepite come antidemocratiche: “quando si dice ‘quello è un movimento nimby!’, non è una forma di interpretazione è una denigrazione. Come di diceva una volta, ‘quello è un movimento violento’, anche qui a Vicenza di fronte al dal Molin, il sindaco e il vicesindaco facevano continuamente appello alla questura di intervenire, di non far fare le manifestazioni: i rappresentanti della cittadinanza invitavano la forza pubblica a reprimere le manifestazioni libere, riconosciute dalle leggi” (INT6). Dell’azione si mette comunque anche in evidenza l’aspetto ludico che sembra infatti particolarmente apprezzata dai giovani partecipanti: “Poi insomma, quando porti in piazza 50, 60, 80000 persone alla volta, che fanno chilometri, fai un campeggio e ti diverti in sacco! Cioè se devi partecipare all’assemblea permanente ‘no, scusate, che due coglioni! non ci vengo’, ma quando c’è da preparare un’iniziativa, lavorare di notte, andare a volantinare sono i giovani l’ossatura e senza di loro il presidio non si faceva!” (INT5). In modo simile, una rinnovata vitalità e socializzazione emerge nella conversazione con un’attivista più anziana: “a volte viene quasi da dire ‘meno male che c’è stata questa cosa del no dal Molin’, perché si vede che la base c’era ma serviva una miccia”. Presa di coscienza e ribellione vengono infatti ricordati fra i risultati principali del movimento: “A oggi, il risultato maggiore è quello di risvegliare una città che era in letargo da secoli. Vicenza è una città strana: regno della DC, gente abituata solo neanche all’orticello perché è una cosa un po’ distante… ma al proprio portafoglio, gente tranquilla assolutamente non abituata alla protesta. E invece è diventata una città con mobilitazioni, quelle grandi ma anche quelle piccole che fanno meno notizia. C’è stato un risveglio delle coscienze, un rinascimento e questo è potentissimo, perché non è canalizzato solo al Dal Molin. Quando risvegli la coscienza c’è un effetto su tutto il mondo che ti 24 circonda, a tutte le problematiche e questo è il risultato più bello. Sulle prospettive, eh, eh! Noi continueremo sicuramente. Adesso ci aspettano, non è che ci facciamo illusione che cambi…” (INT7). Così, al di là dei successi (e insuccessi) sull’obiettivo specifico della protesta, valutata positivamente è “la crescita di una coscienza: una cosa che credo che dura…” (INT11). Nella narrativa dei partecipanti, l’esperienza di protesta trasforma la “gente” in cittadini attivi, con una mutazione ritenuta profonda e di lungo periodo: “La prospettiva che va al di là della base è che in futuro ci saranno rogne e che d’ora in poi la gente non tacerà, se non gli andrà bene e protesterà” (INT10). Al di là del risultato, è ritenuto importante “il percorso” (o il “viaggio” come lo definisce questo intervistato). Anche se l’efficacia dell’azione è certamente considerata come non secondaria: “L’importante è il viaggio, per cui comunque rimane un’esperienza ma occorre individuare la possibilità di ottenere risultati. Quindi, io mi sono sempre espresso per il dialogo tra il movimento e le istituzioni, la società e la politica, perché i comitati e i movimenti, se non hanno una sponda politica difficilmente conseguono risultati. … Si riuscirà a ottenere l’obiettivo massimo? Se avessi dovuto fare solo le battaglie per cui avevo la certezza. … Speriamo tutti comunque che le decisioni vengano condizionate fortemente da una battaglia giusta e sacrosanta. Non è detto che l’esito sia totale, perché l’atteggiamento americano è di grande determinatezza, però questa reazione popolare, nessuno, nessunissimo se l’aspettava o comunque ci si aspettava che le cose sarebbero durate alcuni giorni. Invece il movimento è molto molto radicato, esteso, profondo e mette sul tavolo delle questioni vere e non solo per il futuro mio, ma dei miei figli, dei miei nipoti” (INT3). Soprattutto, la domanda di partecipazione viene considerata come effetto della mobilitazione: “Abbiamo ottenuto che i cittadini hanno capito il valore della partecipazione: un percorso culturale sulla partecipazione. Poi una riflessione locale ma anche nazionale su cosa è la guerra, su cosa è il ruolo delle servitù militari di un paese straniero che alla fine della guerra si è insediato qua, ma sono passati cinquant’anni, insomma!” (INT4). La domanda di partecipazione viene collegata poi a forme nuove della politica. Soggettività e individualità possono, in questa visione, esprimersi in azioni collettive, grazie a nuovi strumenti e concezioni organizzative. Queste esperienze di mobilitazione hanno infatti sfidato la visione della protesta come devianza, lontana dalle esperienze della gente normale: la tendenza all’exit piuttosto che alla voice. Ciò porta a sottolineare una “spontaneità” che non significa mancanza di pianificazione, quanto piuttosto indipendenza dal mondo della politica ufficiale e della mobilitazione per la pace istituzionale. Urgenza, iniziativa locale e imperativo morale confluiscono per evidenziare la natura morale, prioritaria e radicale dell’azione (Polletta 1998): “Diciamo che c’era molto spontaneismo, un effetto magico: l’effetto posta elettronica. Questa è una cosa su cui bisogna riflettere, perché la prima cosa che è nata è stata un sito…addirittura ora sono diventati due [fa riferimento al sito dell’Altravicenza]. Ha avuto un’importanza notevole, tutti potevano ricevere le informazioni oppure andare a guardarlo, per questo dico magico! Oggi chiunque è impegnato in un movimento o per un’idea che cosa fa? Si procura un certo numero di indirizzi e manda il suo messaggio: non so ‘manifestazione davanti alla questura per le ore…’ e credi che la gente non arrivi, ma le gente arriva! Perché la prima cosa è che vuol 25 partecipare, vuole essere là, vuole manifestare e questa concomitanza tra legami virtuali, eventi reali”(INT6). Questa spontaneità è collegata a modalità di espressione condivise e il più possibile deliberate: “[…]si è discusso, si è elaborato, si è messo a nudo e si è arrivati a condividere un percorso che magari era un altro rispetto ai due. Ci si muove dalle posizioni e si cercano formule che cerca di compattare e costruire coesione e consenso” (INT9). Il cosiddetto “popolo delle pignatte” riesce così ad articolare le proprie iniziative tra drammatizzazioni dei check point davanti alla caserma Ederle, raccolte di firme, occupazioni e Vie Crucis, tra blitz all’aeroporto, campeggi e convegni in uno sviluppo della mobilitazione che ha visto in tempi relativamente stretti svilupparsi una fase di informazione-protesta-resistenza attiva e propositiva, meno connessa al procedere del progetto e più allo sviluppo della discussione politica nazionale e internazionale al riguardo. Un coordinamento “leggero”, poi Tavola delle associazioni, tra le varie espressioni della protesta o il “patto di mutuo soccorso” con altre campagne contro grandi infrastrutture in Italia, vengono percepiti (nonostante le frustrazioni per le tensioni interne e le difficoltà a mettere in pratica la visione normativa di democrazia) come sperimentazione di nuove formule organizzative capaci di rispettare le diversità, per una mobilitazione plurale e tollerante delle diversità: “E’ un terreno su cui bisogna sempre lavorare, perché bisogna sempre interpretare i modelli che abbiamo utilizzato nel passato e che non si sono rivelati efficaci, penso ad esempio ai Social Forum. Si è cercato di creare modelli diversi, penso alla stessa nascita del patto di mutuo soccorso è stato un momento interessante, che nasce sulle questioni delle grande opere ma il Dal Molin ci sta dentro, come sta dentro nel movimento contro la guerra, perché racchiude in sé questo tipo di contraddizioni. Che poi questo si possa tradurre nella ricomposizione di un movimento, oggi la vedo difficile! Credo che sia molto più semplice ragionare in termini di rete, in cui ogni nodo ha una sua peculiarità ma anche una capacità di mettersi in relazione con gli altri che non è un appiattimento su una posizione, perché partiamo da una cultura diversa: perché è evidente che a Vicenza il conflitto non potrà mai essere uguale a quella del rigassificatore di Aprilia o del Mose di Venezia, che è qua vicino a noi! il problema è: riusciamo noi a costruire un linguaggio che ci fa capire tra di noi? Questo sì.” (INT9). La capacità di dialogare viene qui considerata come fondamentale per mantenere in vita la protesta, in una dinamica faticosa ma utile non solo ai fini della presa di decisione ma anche relativamente alla costruzione del “noi”: “Io tendenzialmente sarei anche per la forma classica, cioè: alziamo la manina e contiamoci. Però sto anche capendo che molte volte non è il modo migliore. L’esempio eclatante è quello della lista: noi siamo partiti un mese e mezzo fa, forse anche di più, e la prima volta che ne abbiamo parlato all’interno del presidio c’era tutta una parte a favore e una no. Noi, se in quel momento avessimo fatto per alzata di mano, avremmo probabilmente perso parecchia gente. Cosa abbiamo fatto? Si è scelta una strada molto difficile, molto impegnativa, molto lunga che in un mese e mezzo di discussioni, gruppi di lavoro, ha portato a quello a cui siamo arrivati da qualche giorni in cui gran parte dei 26 contrari hanno cambiato opinione e adesso che abbiamo scelto i nomi per la lista ci sono persone che all’inizio erano contrarie. Infatti ieri sera mi sono messa lì e ho detto ‘ragazzi, la coerenza non so dove sta da voi?’ [ride]. E’ stato molto faticoso e caratterialmente io che sono molto pragmatica, avrei quasi mandato in malora tutto, perché la settimana scorsa è stato uno sfinimento, fino alle due di notte e sabato e domenica tutto il girono, ma ne siamo usciti compattati. Allora, per chi ha un modo di pensare molto chiuso, a standard, questo non lo capisce. A volte anche io faccio fatica a capirlo e penso che stiamo sbagliando ma poi alla fine invece ha pagato, perché ad esempio questa volta c’è ancora qualcuno che non è d’accordo ma comunque partecipano e danno supporto e così eviti tutte quelle dinamiche che farebbero esserci una maggioranza e una minoranza e la minoranza subisce e noi non lo vogliamo” (INT7). La “campagna dal Molin con più anime” (INT4), o “un movimento fatto da tante singolarità” (INT9) si coordina comunque anche tramite contatti informali dove “non c’era un vero proprio tavolo, un luogo comune ma i rapporti umani tra le varie persone delle varie parti che riescono a coprire questa cosa” (INT4). In questo senso, il movimento è visto come riappropriazione della capacità di decidere sulla propria vita, evidenziando sia la contrapposizione tra chi decide e come si decide che l’esigenza di una nuova politica, nel nome del “bene del paese contro il bene del ‘mio’paese” (Ilvo Diamanti, La base americana vista da Caldogno, la Repubblica, 18/01/2007) e in opposizione a una governance multilivello in cui le decisioni vengono calate dall’alto: “Noi siamo soprattutto espressione di un bisogno della gente di riappropriarsi del proprio potere e di influire sulle cose che riguardano il proprio futuro e quello dei propri figli. Questa è la nonviolenza: la partecipazione dal basso, il diritto di vivere i propri bisogni anche a livello locale, di infrastrutture…e di non accettare quello che viene dall’alto, dai tecnici, dall’Europa” (INT6). 27 Il sì alla pace e il no alla guerra oltre il grande cortile Figura 2: Vicenza 17 febbraio 2007 (http://solleviamoci.blogspot.com/2007/12/i-ministri-della-sinistra scrivono.html) Approfondiremo qui il legame tra la mobilitazione nazionale per la pace e contro la guerra a la campagna No Dal Molin in relazione al processo di costruzione di reti di significati e di relazioni condivisi. Ne considereremo i reciproci effetti in relazione all’estensione di frame esistenti, trasformazione di vecchi e creazione di nuovi, con risultati sulla protesta, spesso indiretti, non intenzionali e a volte perfino in contraddizione con gli obiettivi originari. In generale, si può affermare che il pacifismo moderno abbia cercato di mettere in crisi il paradigma della guerra come strumento centrale della politica contemporanea, sia con proposte contro il circuito guerra-politica (su spese militari, cooperazione, solidarietà internazionale, ruolo della Nato e militarizzazione del territorio), sia promuovendo pratiche e principi in grado di connettere nonviolenza e potere, favorendo e sviluppando al proprio interno pratiche democratiche orizzontali e inclusive e privilegiando potere diffuso, volontariato politico e movimenti (Gagliardi 2003). L’area di mobilitazione per la pace e contro la guerra in Italia, che ha avuto un picco di visibilità della protesta di massa individuabile nei primi sei mesi del 2003, si è però presentata come estremamente variegata, con una composizione più trasversale e articolata della base tradizionale delle famiglie dei nuovi movimenti sociali, aperta ad attori istituzionalizzati e non: una rete a identità multiple, in cui vecchie e nuove issue di movimenti sociali convivono sotto un ombrello (“no alla guerra senza se e senza ma”), fornito dalla connessione di vari schemi interpretativi, in grado di generare nuove appartenenze attraverso le fratture consolidate della protesta e l’elaborazione di un quadro interpretativo condiviso, negoziato rispetto ai vari frame originari di riferimento, in modo da articolare la guerra e la mancanza di pace come problemi sociali e obiettivi comuni di una comune mobilitazione. In particolare, riguardo a questo secondo punto il “nuovo” discorso pacifista ha dovuto tenere conto dell’emergere della pace come macrotema nella definizione degli obiettivi di una mobilitazione che mira ad attivare un processo di riequilibrio delle disuguaglianze sociali su scala globale e in cui la lotta alla guerra nasce anche dal lavoro sulle forme di partecipazione democratica nei territori. In questo quadro, il movimento per la pace e contro la guerra ha subito modificazioni profonde: articolandosi al tempo stesso su scala locale e globale, germogliando sul territorio e collegandosi in reti transnazionali, sommandosi e sovrapponendosi ad altre realtà di mobilitazione ma anche sviluppandosi come mobilitazione spin-off (McAdam 1995). Il lavoro interpretativo sul tema della pace e del no alla guerra si è quindi orientato su frame distinti ma molto intersecati, al cui interno si sono incontrate visioni diverse, segnatamente pacifismo tradizionale, sinistra anti-neoliberista, nonviolenza, associazionismo cattolico e laico e antimperialismo, connessi dalla critica alla globalizzazione al nuovo ordine mondiale e alle sue 28 strategie di difesa. Si tratta nello specifico dell’articolarsi del metatema pace e del tema del no alla guerra su ambiti di impegno preesistenti, di seguito presentati in sintesi. Pace e giustizia in cui l’elaborazione in chiave politica del nesso tra pace e giustizia sociale è frutto dell’incontro tra impegno pacifista cattolico e il mondo della solidarietà anche di matrice ecopacifista. La cornice si presenta come la sintesi del discorso per la globalizzazione dal basso che pone come centrale la critica al rapporto tra pace e sviluppo economico. Il frame svolge una funzione di “cerniera” tra proposte differenti, coniugando scelta etica e politica, radicalità dei contenuti e nonviolenza, in un impegno ad “agire sulle cause”, tramite azioni concrete e costruzione di relazioni. Questo frame ha consentito di politicizzare l’impegno di una parte del mondo cattolico e del volontariato, riuscendo a “sostituire nell’opinione pubblica l’immagine che lavorare per la pace fosse una cosa da comunisti” (INTa). Pace e diritti umani che porta alla “svolta umanitaria” della mobilitazione si è invece realizzata in particolare per l’iniziativa del mondo delle ONG, aprendo a una riflessione di natura politica tra discorso e soccorso, testimonianza e pratica (Burde 2006). La partecipazione di questi gruppi ha permesso di ampliare il repertorio di azione: dagli appelli per sostenere economicamente gli sforzi umanitari e alle azioni dirette di disobbedienza civile, dalle conferenze stampa alle veglie di preghiera, fino alle azioni simboliche in nome di uno spettro molto ampio di identità e di impegno. Questo frame ha offerto un via di collegamento trasversale ad aree divise ideologicamente. Pace e democrazia definisce la pace nel mondo globalizzato non solo come scelta etica, ma come strategia di politica internazionale: fine e strumento di sviluppo sostenibile. Questo frame viene elaborato soprattutto dai gruppi focalizzati sulla promozione di processi di democrazia internazionale in un impegno che combina prospettive di sviluppo economico e principi universali di rispetto dei diritti umani. A questo frame si connettono anche critiche al governo nazionale accusato di sudditanza politica e psicologica rispetto agli Stati Uniti, tanto declinato in chiave antiamericanista, quanto come elaborazione della cittadinanza e della partecipazione democratica. Pace e guerra interna connette in un’unica cornice interpretativa aspetti di quella che viene identificata come “repressione interna” con la lettura dei meccanismi di equilibrio della guerra globale e del warfare, con linee interpretative in particolare legate a diritti dei migranti e al precariato. In una lettura, non priva di influenze terzomondiste, si interpreta la guerra come effetto delle contraddizioni del capitalismo, in cui “l’impero” impedisce di risolvere problemi globali e la militarizzazione risulta contemporaneamente conseguenza e strumento della globalizzazione (della Porta 2003). Si sostengono in tal senso pratiche di illegalità diffusa, o di “nuova legalità dal basso”, di disobbedienza, azione diretta e boicottaggio. Pace e guerra infinita è un frame che individua nella lotta contro l’imperialismo l’obiettivo comune della mobilitazione per la pace e contro la guerra, in quanto causa principale di ingiustizia mondiale. Il quadro è quello di una lettura anticapitalista, sviluppata in un’accezione interpretativa fortemente ancorata ideologicamente e connessa all’antiglobalizzazione, con valutazioni politiche del binomio guerra-terrorismo e della valutazione sul diritto di resistenza e sull’uso della forza in parte dissonanti rispetto alle altre interpretazioni. I frame non risultano esclusivi, tanto che aspetti di diagnosi e prognosi possono essere trasversali e ciascuna di queste aree offre punti di collegamento e si connette alle altre tramite iniziative comuni e il ruolo di gruppi “ponte”, svolto in particolare da realtà organizzative che alla protesta contro la guerra affiancano un impegno per la pace in contesti di tipo politico-istituzionale nel cogliere la natura delle nuove guerre e la portata del discorso generale della mobilitazione (Marcon e Pianta 2000). A livello nazionale, si è assistito al convergere di frame preesistenti (antiglobalizzazione, pacifismo, antimperialismo) sotto banner efficaci per la mobilitazioni di massa, in forme simili alla “condensazione” (Snow e Benford 1988). E’ mancata però l’individuazione di un metaframe realmente condiviso, in grado di funzionare da collante tra attori sociali e politici diversi e segnare il salto di qualità da una coalizione ad hoc a un movimento sociale. 29 Le diverse componenti non elaborano un vero e proprio frame dominante comune ma ogni area o settore di movimento mobilita la propria parte di attivisti e i frame di settore sono sufficienti a garantire una mobilitazione cosiddetta per “blocchi di reclutamento” (Obershall 1973, 117) e talvolta di alleanza tra blocchi, dove spesso si ingaggia una battaglia sulla definizione simbolica di una protesta comune ma al tempo stesso ci si contamina; si rafforzano le linee di frattura esistenti ma si impara anche ad attraversarle. Diagnosi e prognosi si intersecano all’interno di master frames (antimperialismo, altermondialismo e nonviolenza) e danno vita a reti di mobilitazione a geometrie variabili, perché la condanna della stessa guerra non coincide con la rivendicazione della stessa pace, e rende inevitabile una certa flessibilità ideologica per far sì che si arrivi a un’articolazione eterogenea del significato di pace in una relazione di “sfidanti alleati ma separati” (Meyer 1990, 278). L’analisi delle interviste e del materiale dei gruppi ha evidenziato come questi repertori interpretativi dominanti siano riconducibili ad aree di riferimento, connesse in uno schema generico di contestazione alle degenerazioni del sistema neoliberista globalizzato. Queste aree sul livello nazionale vengono qui riscontrate e ricondotte alla protesta No Dal Molin, rispetto a cui la mobilitazione per la pace e contro la guerra si è posta in dialogo, evidenziando l’effetto della campagna dal nazionale al locale. L’esperienza della mobilitazione nazionale sembra infatti aver sedimentato, creando “sottonetwork”, disponibili di volta in volta a rivedere i propri confini per dar vita a iniziative territoriali specie in contesti sensibili alla questione della militarizzazione. La dinamica della protesta No Dal Molin evidenzia del resto che gli attori della mobilitazione possono condividere un sistema di significati ma non necessariamente sentirsi parte dello stesso soggetto, almeno non in ogni fase e con continuità. Da questo punto di vista, più che la costruzione di una identità collettiva condivisa sembra contare la capacità di far convivere più identità articolate su un continuum riconosciuto e legittimato da tutte le realtà esistenti. Come rappresentato in figura 3, dove le aree della mobilitazione per la pace e contro la guerra sono state etichettate, si può considerare il convergere su un unico fronte di mobilitazione di almeno due sotto-livelli diversi: “per la pace” e “contro la guerra”, in alcuni casi parzialmente sovrapposti data la presenza di alcuni attori attivi in entrambi i contesti. Si tratta in sostanza di due coalizioni guida: una più di natura grassroots e l’altra più istituzionale, che hanno collaborato in alcune coalizioni per campagne rivolgendosi a un’audience più ampia e trovando espressione unitaria nel milieu di protesta (Diani 2005) della giornata di mobilitazione internazionale del 15 febbraio 2003. La prima presenta una rete meno formalizzata che fa riferimento all’iniziativa del Tavolo Bastaguerra, affiancata da varie realtà territoriali e dall’Assemblea del movimento contro la guerra, nato da percorso e un processo di allargamento dello spazio comune creato dai movimenti e dalle organizzazioni con un bacino individuato nella cosiddetta “area Social Forum”. La seconda, più moderata e aperta verso un impegno politico-istituzionale, ha il proprio centro nell’organizzazione ombrello della Tavola della Pace, con funzione di advocacy networks all’interno di una sorta di “patto per la pace”. In un processo di mobilitazione includente si sono diversamente allineate tre aree interne: “di pace”, “altermondialista” e “antimpero”, che nel corso del tempo si sono relazionate in modo diversi; fino al punto di arrivare a costituire “fazioni” contrapposte. Ognuna di queste aree può poi essere divisa al suo interno da un’asse moderazione-radicalismo, non solo in termini di repertorio di azione ma anche di radicalità delle posizioni ad esempio rispetto alle richieste alla politica o al riferimento ai valori nonviolenti. Si è scelto di rappresentare questi sotto-gruppi tramite un’immagine circolare, in modo da rendere più facilmente l’idea della continuità nella mobilità di alcuni attori e della prossimità delle aree. L’ampiezza di queste aree viene quindi determinata dal movimento di un raggio che aumentando o diminuendo il livello di generalità del framing proposto, amplia o restringe l’ampiezza del settore incluso. 30 Figura 3: attuale configurazione della mobilitazione per la pace e contro la guerra in Italia Area antimpero La dimensione antimperialista della mobilitazione per la pace e contro la guerra offre interpretazioni all’interno di un visione geopolitica mondiale, collegandosi con temi quali ambiente, risorse naturali, consumo e sistema di produzione. Pur nell’analisi di una dinamica imperiale di nuova generazione, i gruppi si sono concentrati sul “nuovo ordine globale” come causa della guerra, in parte individuato in termini di “unilateralismo statunitense”, con articolazioni interne di risposte e soluzioni che variano dal sostegno alla resistenza nei territori di conflitto, fino al dissenso verso le militarizzazioni e alle rivendicazioni del disarmo. Rispetto alla mobilitazione No Dal Molin, a prendere posizione è la Rete nazionale Disarmiamoli, nata nel febbraio 2007 come evoluzione del Comitato Nazionale per il Ritiro delle Truppe, e che ha raccolto buona parte delle esperienze antimilitariste (comitati, forum sociali, associazioni pacifiste, strutture antimperialiste). L’interpretazione della Rete inquadra la questione Dal Molin in termini di mobilitazione territoriale per un “NO alla guerra senza se e senza”, sottolineandone la capacità di reazione rispetto a un atteggiamento “attivamente subalterno” del governo nazionale e dei cosiddetti deputati “pacifinti” rispetto a politiche militari globali di “guerra infinita” e “warfare”, indirizzate a trasformare Vicenza in “città militare”. La rete nazionale si orienta a sostenere la possibilità di un “effetto domino” di diverse iniziative sul territorio nazionale, quali appello alla Costituzione, obiezione, rimozione, dissociazione, disobbedienza, ritiro, chiusura, smantellamento, bonifica, riconversione. A Vicenza è il Comitato Vicenza Est a promuovere questo tipo di discorso, decisamente minoritario, con il collegamento diretto tra la questione Dal Molin e quello sulla caserma Ederle, base militare dell’esercito statunitense già presente in città, sottolineando il “rifiuto di una battaglia monotematica in favore di un attivismo nel movimento contro la guerra” (INT13). Rispetto all’area affine nazionale, il Comitato presenta però specie sul fronte della prognosi, una maggior apertura ai temi della promozione della pace rispetto a quelli di opposizione alla guerra. La Confederazione unitaria di Base-CUB aderisce a questa interpretazione, ponendo in particolare la questione della riconversione. La CUB sostiene l’opportunità di sviluppare nella mobilitazione la dimensione quotidiana e interna della guerra: i suoi effetti sull’ambiente, sull’economia, sulle paure 31 delle persone, viene rifiutata invece una visione della comunità in lotta ed evidenziando le contraddizioni e le fratture presenti in una società come quella vicentina, “lacerata dalla questione” (INT14). Area altermondialista Questa area della mobilitazione per la pace e contro la guerra individua nelle degenerazioni del processo di globalizzazione un quadro di condizioni causali che si articolano poi in “domanda di pace-resistenza alla guerra”. Vi converge un ampio spettro di realtà nazionali che focalizzano il proprio impegno contro mancanza di giustizia sociale, violazione dei diritti umani e distruzione dell’ambiente, genericamente inquadrabili nelle proposte di nuovo modello di sviluppo e nel concetto di pace positiva, ma anche le organizzazioni della disobbedienza che mirano a recuperare la sinergia tra antiliberismo e reti contro la guerra. I collegamenti tra il modello neoliberista e gli interventi militari delle “guerre giuste” si traducono in iniziative e campagne contro il militarismo, ma anche in lotte contro le “guerre interne”, per il riconoscimento del diritto d’asilo e la conquista dei diritti dei migranti. Sono presenti una componente più moderata, attenta sia alla dimensione etica che alle relazioni internazionali e che nell’attività pratica si orienta prevalentemente alla formazione dell’opinione pubblica, insieme a un’area più politica in senso tradizionale, che individua nell’opposizione alla guerra un processo politico complessivo. Nel dialogo con la dimensione locale, quest’area tradizionalmente “no war” incontra le proteste contro la militarizzazione del territorio, coinvolgendole nel Patto Nazionale di Mutuo Soccorso per la difesa dei beni comuni, con l’obiettivo di ampliare la rete dell’impegno pacifista italiano. In questa prospettiva, è il Patto permanente contro la guerra l’attore principale che interpreta la mobilitazione Dal Molin come facente parte di una più ampia mobilitazione contro la guerra “globale permanente” e per la pace e la giustizia. In particolare, l’area disobbediente delle reti e organizzazioni No War pare interessata ad articolare la questione sul piano nazionale: “Da Napoli a Trento, da Torino a Firenze, dalla Val Susa a Lentini. Un po’ ovunque si stanno organizzando iniziative di solidarietà e sostegno. Segno che la lotta contro la nuova base Usa non ha affatto un carattere locale, ma investe in pieno la dimensione nazionale" (Rete no war, 7/11/2007). La questione è ricondotta alle proprie elaborazioni politiche “in tutto questo le responsabilità e le complicità del governo italiano ci sono tutte, basta pensare ai maggiori finanziamenti alle forze armate e al complesso militare-industriale previsti dalla Legge Finanziaria [...] A queste responsabilità del governo non si sottrae quella che per anni abbiamo definito la ‘guerra interna’ contro migranti e movimenti e che vede una escalation securitaria e razzista” (Assemblea nazionale delle reti e organizzazioni contro la guerra , 09/11/07). Sono invece soprattutto Attac e le Donne in nero a collegare la cornice della difesa del territorio e dei beni comuni e quella del no alle guerra globale a livello planetario, tramite l’approfondimento della questione della difesa della democrazia “perché la forza di queste mobilitazioni non sta solo sul contenuto specifico, bensì nell’aver imposto all’agenda politica il nodo fondamentale della democrazia, ovvero la domanda: chi decide l’interesse generale? Sono i Governi e le istituzioni della democrazia rappresentativa, in quanto eletti, dunque delegati? O sono le comunità in lotta, con i loro saperi, le loro conoscenze, la loro capacità di essere locali e globali al medesimo tempo?” (messaggio al Presidio permanente No Dal Molin, 18/7/2007). Il No Dal Molin letto “come laboratorio di democrazia e di volontà di cittadini e cittadine di Vicenza che non vogliono né una città militarizzata né l'inquinamento della quarta falda acquifera più grande d'Europa proprio sotto la base” (messaggio di Luisa Morgantini). La “contaminazione” porta qui ad un approccio complesso alla questione della base, intrecciandosi ai temi della pace e della qualità della vita sul territorio, ma anche al tema della democrazia violata. Vengono evidenziate le contraddizioni del governo rispetto alla politica estera e all’esercizio della sovranità nazionale e la necessità di valorizzare il rapporto con la comunità locale e il suo ascolto: “la politica non può alzare un muro tra se stessa e la comunità. I cittadini devono potersi esprimere 32 e contare” (Coordinamento dei Comitati No al Dal Molin, Vicenza. Verso la manifestazione nazionale, 29/11/2007). Infatti anche nella campagna no Dal Molin, la riflessione sulla democrazia conserva un ruolo centrale sul terreno della formazione delle identità collettive. Il discorso sulla democrazia viene quindi sviluppato come ricerca di un bene comune, con una domanda di decentramento del potere politico, consultazioni dei cittadini interessati, procedure di appello contro decisioni amministrative. La natura della questione connessa a segreti militari comporta però delle specificità nelle potenzialità di mobilitazione del consenso, rendendo più difficile lo sviluppo del dibattito tecnico rispetto a una decisione fortemente politica. Non a caso, contemporaneamente, il ruolo delle istituzioni viene ampiamente contestato. Da una parte, i rappresentanti nazionali di un “governo luamaro” (governo letamaio: figura 4) vengono accusati di affrontare la questione solo nei termini di un problema urbanistico-territoriale della comunità locale, accrescendo la distanza tra governo e territorio, limitandosi nella migliore delle ipotesi ad atteggiamenti di negoziazione, come nel caso della promessa di una “base palladiana”11 o di “mitigazione” (INT12). Figura 4: http://gallery.giovani.it/foto/tag/luamaro/ Più defilata l’interpretazione fornita dalla componente “istituzionale” dell’area, specie in seguito al delinearsi della posizione governativa in proposito. La posizione del PRC, che ha affiancato in passato molte vertenze territoriali, richiama la battaglia antinuclearista e si appella alla necessità di sviluppare un dialogo con le comunità locali, in termini di “ascoltare la base, non costruirla”. Il presidio No Dal Molin si fa prima voce di questa area sul territorio, specie in seguito alle divisioni con le altre componenti della protesta, puntando su tre argomenti di sintesi: “difesa dei beni pubblici, con il discorso sul territorio; la pace, che non si difende solo al Dal Molin, io non voglio che la facciano qua ma non voglio che nessuna popolazione segua supina una politica della guerra preventiva […]; poi la democrazia che sia democrazia reale, basata sui bisogni della popolazione” (INT8). Il presidio No Dal Molin rientra quindi in un più ampio percorso di rete tra conflitti locali, rinnovato rispetto all’esperienza originaria dei Social Forum, e segnato da una nuova interpretazione del rapporto tra cittadino e territorio, tra locale e globale: “quando parli di Val di Susa, non parli di Venaus, parli di rete europea di trasporti; quando parli di Vicenza, non parli di Via Sant Antonino, parli di guerra globale. Quindi è evidente che non siamo rinchiusi nel nostro orticello. Anche questo ragionamento sulla sindrome NIMBY fa a pugni con la realtà. […] Quello che ci interessa non è costruire una semplificazione, come nella tradizione dei vecchi 11 Revelli Fabrizio, Presidio tra reti e sterpaglie ma la base sarà ‘palladiana’, la Repubblica, 18/01/2007. 33 movimenti, ma ci interessa rovesciare la posta: il territorio che diventa modo di costruire conflitti” (INT9). Area di pace L’area di pace della mobilitazione per la pace e contro la guerra presenta confini meno facili da definire ma trova un elemento unitario nella nonviolenza, come riferimento identitario o scelta strategica. Se in proposito non si può parlare di una visione unica, si afferma comunque un discorso unitario, compatibile in termini di pratiche di azione diretta nonviolenta e di nonviolenza attiva tra pacifismo cattolico, realtà della nonviolenza, grandi associazioni laiche, sinistra libertaria e parti dell’area della disobbedienza sociale in un processo di social appropriation (McAdam, Tarrow e Tilly 2001). La Tavola della Pace conferma il ruolo di riferimento nell’area non solo a livello nazionale ma anche rispetto alla mobilitazione No Dal Molin, con un’azione di mediazione a livello istituzionale- esortando Governo e Parlamento affinché “si aprano al confronto con le organizzazioni della società civile e gli enti locali che tutti i giorni s’impegnano concretamente a promuovere la pace e i diritti umani” (Appello della Tavola della pace al Governo Vicenza: il Governo Prodi si apra al confronto. Tavola della pace, 16 febbraio 2007). La cornice interpretativa della Tavola della Pace, e delle realtà che la compongono, si sviluppa anche sul fronte territoriale sui temi dei diritti umani e della lotta alla povertà, in particolare evidenziando come determinate scelte in termini di politica di sicurezza internazionale si pongano in aperto contrasto con una scelta nazionale di lotta alla povertà e tutela dei diritti umani “[…] fino a quando possiamo serenamente accettare che così tante risorse continuino ad essere distrutte per fare la guerra mentre oltre due miliardi di bambine e bambini, donne, uomini e anziani sono costretti a combattere ogni giorno la dura guerra per la sopravvivenza? Possiamo cogliere questa occasione per rivedere le politiche di sicurezza in cui il nostro paese è inserito?” (Tavola della pace, Se Vicenza chiama…, 12 febbraio 2007). Pur sempre all’interno di una lettura di nonviolenza di matrice capitiniana, come richiamo alla traducibilità in politiche, connessa principalmente alle espressioni della partecipazione dal basso, l’interpretazione della mobilitazione da parte delle componenti area “di pace” non si limita ad aderire alle letture offerte dalla loro realtà di coordinamento (la Tavola della Pace) ma si articola tra i vari soggetti collettivi che ne fanno parte. Una distinzione particolare si presenta tra le organizzazioni che hanno dato vita a un impegno di natura istituzionale e quelle che invece hanno sviluppato con maggior continuità un dialogo con le aree di natura più movimentista. In entrambi i casi, la protesta per la pace non viene messa in atto tanto in una prospettiva di complementarità all’azione istituzionale, quanto di coinvolgimento nel sistema decisionale. L’area vicentina “per la pace” ha il suo nucleo centrale nell’associazionismo di matrice cattolica e nella base originaria della mobilitazione, quella dei comitati cittadini. Gradualmente l’area ha ampliato il proprio frame e si è aperta al coinvolgimento di altre componenti, quali quella ecopacifista della Rete Lilliput, del sindacato CGIL e del movimento nonviolento. La componente associativa cattolica ha un particolare rilievo, data la tradizionale subcultura politica del territorio, ma le posizioni assunte rispetto alla mobilitazione No Dal Molin non sono omogenee e rispecchiano le differenti letture a livello nazionale. Beati i Costruttori di pace riconducono la questione Dal Molin a una diagnosi di “nascondimento della politica” davanti a un progetto di “guerra preventiva”, contestato in primo luogo dal punto di vista del diritto costituzionale e internazionale, con la denuncia di mancanza da parte dei decisori di relazione con il territorio e di modalità imposte senza rispetto dei codici della vita democratica (Albino Bizzotto, Padova, 16 luglio 2007). Pax Christi interpreta la mobilitazione alla luce di un pacifismo cristiano che collega la scelta del disarmo, alla nonviolenza, al coinvolgimento dei cittadini sulle scelte che li riguardano direttamente e alla valorizzazione del bene comune, contro una struttura militare che “risulta evidentemente a servizio di un unico idolo ricoperto dall'ideologia della sicurezza (Pontificia 34 Commissione Justitia et Pax, "La Santa Sede e il disarmo generale", 1976). La mobilitazione è presentata come esempio: “Gesù porta la pace lottando per la vita e contro ogni logica di morte. Così ogni cristiano!” (Il Consiglio nazionale di Pax Christi Firenze, 4/2/2007, Lettera aperta ai cristiani di Vicenza). Diversamente le ACLI, pur sostenendo la propria contrarietà rispetto alla nuova base, sia per la modalità del processo (“fatto passare ‘sopra le teste’ della popolazione locale”12), sia per la scarsa trasparenza in riferimento alla destinazione d’uso, confermano il proprio distacco dalla mobilitazione, motivato innanzitutto dall’insoddisfazione rispetto alle garanzie sul carattere nonviolento delle iniziative e al rischio percepito di una deriva ideologica antiamericana. L’atteggiamento prudente dell’associazione cattolica rispecchia non solo le posizioni dell’associazione nazionale, ma anche della gerarchia ecclesiastica locale. A livello di comunità ecclesiale locale, la scelta sembra essere diversa, sia in percorsi di “traiettorie di pace” di singole parrocchie che in iniziative coordinate attorno al valore della pace e alla volontà di “non usare la guerra per la pace” (INT10). Tra queste, quella del Coordinamento dei Cristiani per la Pace di Vicenza13 che in una lettera aperta ai cristiani sottolinea come l’impegno di pace, specie in contrasto alla corsa agli armamenti, non debba solo essere un atteggiamento interiore ma anche un obiettivo concreto da raggiungere per finalità di giustizia e di lotta alla povertà (Populorum Progressio 1967, 53; Gaudium et spes, 81): “crediamo che la Chiesa di Vicenza abbia un’opportunità storica e un serio impegno morale: testimoniare l’Amore di Dio per gli uomini, attraverso l’opposizione totale e netta alla costruzione della nuova base degli USA al Dal Molin (e in ogni altro luogo)”. Nella città indicata fin dagli anni ’70 come la sacrestia d’Italia, dove la DC prendeva il 50% dei voti al silenzio della gerarchia ecclesiastica, motivato dalla percezione di un parere dei cattolici non omogeneo, rispondono gradualmente i no dei Consigli pastorali, di alcune comunità ecclesiali e di alcuni parroci. Il riferimento esplicito all’enciclica Pacem in Terris permette un’amplificazione del frame verso la cultura di pace: “non si tratta tanto degli impatti economici o ambientali. Discernere sul Dal Molin, per un cristiano, significa prendere in considerazione che è una questiona militare. Qui ne va del Vangelo stesso. Non si tratta soli Dal Molin, ma di essere o meno cristiani. Qui ed ora” (don Dario Vivian, il Giornale di Vicenza, 14/12/2006) “ci sentiamo particolarmente coinvolti come cristiani impegnati da molti anni nel sociale, con una nostra particolare sensibilità alla mondialità, alla ricerca della pace, auspicando la fine di tutte le guerre” (La presa di posizione di Giustizia e Pace e di alcune parrocchie vicentine, Il Giornale di Vicenza, 29/9/2006) “Chi siamo? Un gruppo di preti con una storia fatta di nonviolenza, di annuncio evangelico in favore della pace e della giustizia (alcuni provenienti dall’esperienza dei preti operai e della pastorale del lavoro, altri dal mondo dell’emarginazione e della missione nel terzo mondo, la maggior parte immersa nella vita quotidiana delle nostre parrocchie) […] Cosa chiediamo? Di poter parlare, discutere, fare politica autentica affinché questa parola abbia ancora un significato 12 “Acli: non saremo a Vicenza”, 14/02/2007, http://web.vita.it/news/view/64181. Gruppi promotori del Coordinamento: Famiglie per la pace di Vicenza; Famiglie per la pace di Costabissara; Agesci Vicenza-Berica; Ass. Papa Giovanni XXIII; Beati i Costruttori di Pace; Commissioni giustizia e pace: Famiglia Servi/e di Maria Lombardia-Veneto e delle Parrocchie di S. Lazzaro e Cuore Immacolato di Maria di Vicenza; Pax Christi; Mir Vicenza - Acli Vicentine; Traiettorie di Pace; GIM (Giovani Impegno Missionario dei Comboniani). 13 35 […] la nostra convinzione più forte, in qualità di annunciatori di un Vangelo che non ci concede deroghe alla lotta fatta solo con le armi dell’amore e della nonviolenza: quella cioè che il nostro futuro e quello dell’umanità non debba essere fondato sulla produzione, la vendita e l’uso di sempre più nuove e sofisticate armi di deterrenza anche nucleare. I documenti della Chiesa su questo punto non consentono equivoci. Basti l’affermazione che il Concilio cita dall’enciclica Pacem in terris, nella quale la guerra con l’uso di armi nucleari è definita ‘alienum a ratione’, cioè “fuori di testa”! Aggiungere caserme e investire risorse preziosissime per produrre strumenti di morte, sono fatti che non ci lasciano indifferenti, passivi o, peggio, complici…” (lettera di un gruppo di preti di Vicenza col Commissario Paolo Costa, 17/9/2007). In modo simile, il Coordinamento dei Comitati muovendosi a partire da una lettura urbanistica, matura un discorso sulla pace in rapporto alle esigenze e alla vita della comunità locale, di quello che in pratica significa la militarizzazione per una città e i suoi abitanti: un processo di frame bridging, dove guerra e territorio si intrecciano focalizzandosi sul peso delle servitù militari, sui disagi che comportano per gli abitanti, sui limiti che impongono all’autogoverno del territorio, e sviluppandosi in una sorta di “urbanistica partecipata” (Francesco Pardi, Vicenza, Paradigma di governo, l’Unità, 28/01/2007). Questa componente sviluppa rapporti di collaborazione con il mondo dell’associazionismo e del volontariato con un “uso” puntuale delle istituzioni e che considera la mobilitazione sociale come una modalità di partecipazione politica non necessariamente alternativa alla politica istituzionale, con cui spesso ci si pone in relazione per sollevare questioni e forzare l’attenzione (Rochon 1988). Prevale in questa componente l’appello all’articolo 11 della Costituzione, con sostegno all’ipotesi referendaria. Nella stessa direzione, Rete Lilliput punta sulla valorizzazione della logica della testimonianza (della Porta e Diani 1999, 171). Un forte impegno su una questione di valore universale come la pace si collega direttamente al concetto di democrazia partecipativa, in cui l’impegno personale e diretto implica costi e sacrifici in nome di determinati ideali, in pratiche in cui dimensione strategica politica e culturale si intrecciano, valorizzando la componente di intensità emotiva. Rete Lilliput sottolinea infatti la volontà di portare avanti un’opposizione alla base “non per bloccare la base ma per bloccare un disegno generale di nuovo modello di difesa” (INT2), non quindi un antimilitarismo ma promozione di una “altra difesa possibile” legata alla difesa del territorio, della vita, dell’energia. Sulla stessa linea, la CGIL, pur partendo da una scelta strategica “volutamente bassa” di lettura ambientale dell’impatto della base sulla città, arriva attraverso “una sorta di maturazione” (INT11) a porre la questione soprattutto nella combinazione di tre elementi, sintesi delle posizioni dell’intera area: pace, terra, democrazia. La FIOM si è quasi sempre affiancata alla CGIL, all’interno di un movimento percepito come componente del movimento per la pace, rinunciando a un ruolo pionieristico e di propulsione rispetto all’iniziativa del mondo dell’organizzazione dei lavoratori sul tema e a quella che anche a livello nazionale è stata una funzione di traino. Infine, il Movimento nonviolento e il MIR ricollocano la mobilitazione No Dal Molin nell’ambito delle issue del movimento per la pace per “abolire gli strumenti che rendono possibile la guerra, e indicare alternative pacifiche per la convivenza fra i popoli della terra”, in termini di iniziative di educazione permanente e di “coscientizzazione della società civile” contro una “politica di guerra che questa scelta sottende” (Mao Valpiana, Vicenza: il movimento per la pace non è succube, il Governo lo ascolti, 19/02/2007). Va rilevato il fatto alcuni protagonisti della mobilitazione per la pace e contro la guerra a livello nazionale hanno invece in questo contesto locale, in primis per questioni legate al radicamento associativo, svolto un funzione meno rilevante, pur con un sostegno sul fronte del dibattito pubblico nelle occasioni di mobilitazione nazionale. 36 Manitese ad esempio inserisce il suo sostegno alla mobilitazione in un quadro eco-pacifista di lavoro per la diffusione di una cultura di pace e di impegno di giustizia “per manifestare insieme a quei cittadini che chiedono semplicemente di vedersi riconosciuto il diritto a partecipare alla elaborazione delle politiche di sviluppo per il proprio territorio […] per difendere e promuovere, anche nel nostro Paese, processi di sviluppo locale partecipato […] contro una decisione che rafforza un modello basato sulle guerre preventive, per favorire pace e giustizia, contro la crescita quantitativa nell’utilizzo di risorse ambientali ed energetiche e per la riduzione degli squilibri internazionali (marzo 2007, Luca Martinelli). Sulla stessa linea interpretativa, Legambiente sottolinea anche nella mobilitazione No Dal Molin, la natura di battaglia delle comunità locali Locally Unwanted Land Use- LULU (Fedi e Mannarini 2008); mentre Arci richiama al tema della “pace come unica sicurezza” e a una mobilitazione come “scommessa sulla partecipazione” (Paolo Beni, Appello dell'Arci Per Vicenza), coniugando quindi impegno per la costruzione di pace, disarmo, convivenza e per la tutela di salute e territorio, che come risposta alle volontà delle popolazioni locali. In un momento di verifica rispetto alla continuità temporale dell’iniziativa nazionale per la pace e contro la guerra, si è assistito a uno sforzo da parte di alcune organizzazioni di ridefinirne l’impegno e non ponendo le differenze in chiave di contrapposizione. Sia sul fronte del “contro la guerra” che del “per la pace”, si è cercato di stimolare un processo di adesione su fini ampi, moltiplicando target e obiettivi, per rimanere in campo sul tema non solo nella fase di mobilitazione attiva. Da una parte, questo ha significato recuperare il riconoscimento del valore dell’impegno su questioni come il disarmo, la riconversione dell’industria bellica, la riduzione delle spese militari, il commercio delle armi, cercando di entrare nel merito della politica militare italiana, e di connettere il tema del “no alla guerra” a quello del rispetto del territorio e della volontà delle comunità locali. Dall’altra, rielaborare l’iniziativa su temi globali, già conosciuti in passato ma all’insegna di una vocazione più transnazionale, sia nell’impegno diretto che nella critica al sistema politico, connettendo il tema della pace a quello della democrazia internazionale, della povertà e del rispetto dell’ambiente. Questo duplice sviluppo sembrerebbe confermare l’ipotesi secondo cui i movimenti per la pace moderni avrebbero due obiettivi distinti: opporsi alla guerra e alla preparazione della guerra e proporre strumenti alternativi per la risoluzione delle dispute internazionali (De Benedetti 1980). La mobilitazione No Dal Molin ha risposto a questa tendenza a livello nazionale, facendo incontrare “sì alla pace e no alla guerra” con il “no alla militarizzazione dei territori”. I due discorsi sulla localizzazione e sulla globalizzazione della guerra hanno rinnovato il pacifismo tradizionale e permettono alle varie componenti di mettersi in rete su contenuti e organizzazione, proprio “agganciandosi” alla questione della tutela del territorio come salvaguardia di un bene comune. Nonostante le persistenti tensioni, in particolare sulla salita di generalità nella cornice interpretativa e il superamento dei confini tematici legati al territorio sia rispetto ai temi che alla rete dei soggetti coinvolti, come nella campagna No Ponte: una struttura di vari coordinamenti e reticoli più informali, spesso costituiti ad hoc su singole specifiche iniziative e basati su nuclei ristretti di attivisti, che hanno assicurato continuità alla mobilitazione, negoziando tra piccoli gruppi la preparazione delle iniziative nazionali, in un contesto meno partecipativo e più incline alla delega (della Porta e Piazza 2008). In questo processo, molto hanno contato gli spazi di incontro, intesi come esperienze condivise di partecipazione e di azione, sia per individui che in queste esperienze hanno trovato la base della propria socializzazione, sia per quanti tramite queste esperienze hanno riattivato un attivismo a lungo sospeso o in parte istituzionalizzato. Centrali sono quindi diventati i luoghi (il tendone del presidio) e gli eventi (le manifestazioni nazionali), dove si creano processi di riconoscimento e prima o poi nascono reti, campagne e dove soprattutto i conflitti determinati dal contesto politico nazionale sembrano in parte ricomporsi comunità che si formano nella lotta. 37 In proposito si evidenzia il valore del luogo presidio, come laboratorio di democrazia partecipata e luogo di socialità, definito da don Gallo “la nuova piazza di Vicenza” (Palma, Buon compleanno presidio14) elemento comune ad altre esperienze di mobilitazione locale. Non mancano le frustrazioni per le tensioni interne, perché l’avvento del presidio non elimina il ruolo dei comitati ma di fatto divide l’esperienza dell’assemblea: la mobilitazione No Dal Molin non presenta mai un unico centro di elaborazione e tale eventualità non appare al momento matura. Particolarmente delicata è stata la questione dell’elaborazione e della pratica nel corso delle azioni e nei momenti decisionali di una diversa democrazia. Come testimonia un’attivista, ad esempio sulla condivisione dei simboli, emergono le difficoltà a mettere in pratica la visione normativa di democrazia: “quello del logo è stato un problema: ne è nata una questione di copyright tra chi diceva ‘è nostro’ e chi comunque diceva ‘è loro, non si usa’” (INT15). Vi è stato un allineamento del frame che ha comportato un ampliamento delle interpretazioni e al tempo stesso aumentato le tattiche a disposizione degli attori coinvolti; questo in una sorta di “divisione dei compiti”, per cui i gruppi moderati hanno teso a gestire e imporre il repertorio dominante; mentre quelli più radicali hanno invece contribuito a innovare i repertori, sviluppando strategie “trascurate”, come quelle legate alla disobbedienza. Si è quindi verificato uno spostamento del dibattito violenza-nonviolenza dalla questione degli obiettivi della protesta e della legittimità del comportamento violento, alla divisione tra chi individua il nodo centrale della rottura in termini di principi dell’azione collettiva e chi invece la riconduce a una questione legalitàillegalità rispetto alle pratiche. Attualmente, la partenza dei lavori, le difficoltà incontrate dalla consultazione popolare e alcuni episodi di scontro con le forze dell’ordine, sembrano spingere le aree verso un’interpretazione condivisa di “emergenza democratica” e “violazione della democrazia”, come del resto già verificatosi nella seconda fase della mobilitazione NO TAV. Concludendo Concludendo, in questo paper la nostra attenzione si è focalizzata sul processo di costruzione simbolica del conflitto, che abbiamo concepito come non solo strumento strategico per la mobilitazione, ma anche fondamentale meccanismo di formazione della identità di chi protesta. Le due contrapposte interpretazione dei conflitti su grandi infrastrutture come egoistiche mobilitazioni NIMBY oppure espressione di conflitti sociali su valore d’uso o valore di scambio del territorio, entrambe considerano valori, interessi e preferenze come esogeni, guardando alla capacità dei rappresentanti di questi interessi di mobilitare risorse organizzative e alleati. Nella nostra analisi, ci siamo invece concentrati sull’emergere di questi valori, interessi e preferenze attraverso un conflitto simbolico che definisce identità, poste in gioco e motivazioni. Riprendendo alcune categorie della analisi dei movimenti sociali come costruzioni simboliche, abbiamo analizzato le tensioni presenti attorno a tre importanti livelli di definizione dell’attore e dell’azione. In primo luogo, nella definizione della identità degli attori abbiamo osservato da un lato la elaborazione di una identità positiva di comunità, ma dall’altro anche la ricerca di valori universali, fino ad una definizione globale del conflitto, con particolare riferimento alla mobilitazione per la pace e contro la guerra. Agli avversari che li accusano di sindrome Nimby, gli attori della protesta tendono infatti a rispondere attraverso una costruzione simbolica che valorizza la comunità, ma senza farne oggetto di identificazione esclusiva. Anche la definizione della posta in gioco tende a superare la dicotomia tra difesa della natura e difesa dello sviluppo economico, costruendo una definizione alternativa di progresso. Se 14 http://www.nodalmolin.net/index.php?option=com_content&task=view&id=113&Itemid=2. 38 certamente presente è, come in altri conflitti locali, il tema della salute dei cittadini e del valore paesaggistico del territorio, molta attenzione viene prestata ad una definizione della propria lotta come orientata al futuro, e non al passato, in particolare nella mobilitazione preventiva contro la guerra. La campagna No Dal Molin è ad oggi ancora un’iniziativa senza successo rispetto all’obiettivo unitario, pur avendo raggiunto consenso a livello di presenza permanente e sviluppo del tema nella società. Si è articolata in alcuni momenti di mobilitazione nazionale e in numerose iniziative sul territorio, con un ampio lavoro di framing e le propensione verso forme partecipative di democrazia, con arene plurali e aperte, senza il prevalere di organizzazioni egemoni né di particolari derive radicali (Klandermans, 1991). Vi si rintraccia inoltre un bagaglio di esperienze acquisite dal dialogo con la mobilitazione nazionale per la pace e contro la guerra, dal punto di vista dei discorsi, della costruzione di reti e dell’atteggiamento verso mass media e opinione pubblica. A chi li accusa di volere fermare “grandi opere”, “strategiche” per lo sviluppo economico locale e globale, coloro che protestano a Vicenza rispondono con un inquadramento della nuova base come dannose per il territorio, economicamente inefficienti, ma anche e soprattutto eticamente sbagliate, in primis collegandosi al tema della difesa della pace. Schemi di riferimento motivazionali sottolineano infine la possibilità di cambiare le decisioni, presentate come “già prese”—incidendo sul “se” e non solo sul “come” attraverso la mobilitazione dei cittadini. Insieme ad una rivendicazione di un decentramento politico che tenga conto del diritto delle comunità locali a prendere decisioni che hanno conseguenze sul loro destino, vi è l’affermazione sempre più esplicita di una diversa concezione di democrazia, basata sulla partecipazione prima che sulla delega, ma anche sul dialogo piuttosto che sulla imposizione a maggioranza delle decisioni. La “buona” politica viene quindi presentata come politica dal basso, fatta dai cittadini piuttosto che dai professionisti e si sottolinea la possibilità di cambiare le decisioni, presentate come “già prese, incidendo sul “se” e non solo sul “come”, attraverso la mobilitazione dei cittadini. Insieme ad una rivendicazione di un decentramento politico che tenga conto del diritto delle comunità locali a prendere decisioni che hanno conseguenze sul loro destino, vi è l’affermazione sempre più esplicita di una diversa concezione di democrazia, basata sulla partecipazione prima che sulla delega, ma anche sul dialogo piuttosto che sulla imposizione a maggioranza delle decisioni: “il Dal Molin l’ho sempre interpretato come uno specchio: uno si alza alla mattina e si guarda allo specchio, se ha la barba lunga e i capelli in disordine, può fare due cose, o si taglia la barba e si mette a posto oppure toglie lo specchio. La politica ha fatto così e si è creata una separazione” (INT9). Gli schemi interpretativi elaborati da chi protesta sono soltanto strumentali? Potrebbe darsi che i fini reconditi siano mascherati all’interno di un discorso di progresso alternativo? Evidenziare la presenza di tutti gli elementi menzionati nei racconti della protesta, ovviamente, non si traduce automaticamente in una smentita della presenza di interessi egoistici e particolaristici, che potrebbero essere strumentalmente nascosti dietro un discorso più etico. Se è difficile indirizzare la ricerca delle “motivazioni reali” nelle scienze sociali empiriche focalizzate sugli schemi interpretativi collettivi, tuttavia, abbiamo mostrato come la definizione di alcuni valori fondamentali, quali la pace, il bene comune, il progresso, il futuro o la democrazia, sia fondamentalmente oggetto di controversia. L’arena della protesta è dunque anche (o, in alcuni momenti, principalmente) uno spazio per una lotta simbolica su significati, identità e interessi. Inoltre, l’evoluzione del conflitto, attraverso l’interazione di attori diversi, comporta complessi mutamenti nella dimensione simbolica della protesta. Lo sviluppo verso la generalizzazione è un processo simbolico che facilita l’interazione tra differenti attori. 39 Un’ipotesi che ci sembra confermata dalla nostra ricerca è che l’evoluzione dalla definizione locale a quella globale, la elaborazione di immagini di un futuro alternativo e di una diversa concezione dell’interesse generale, così come la presentazione della propria azione come laboratorio di una diversa concezione di politica e di una democrazia di qualità avvengono nel corso della campagna di protesta. Essa sembra infatti emergere nell’azione attraverso l’adesione al reticolo della protesta di diversi attori. Comitati e amministratori locali, centri sociali e sindacati, associazioni ambientaliste e forum sociali tendono ad incontrarsi nel corso delle comuni campagne di protesta e a collegare i loro schemi di riferimento specifici attorno ad un comune discorso generale. 40 Appendice Tabella 1: fonte dei commenti: http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/documentazioniFrame.asp QUOTIDIANO Avvenire Il Corriere della Sera Il Giornale Liberazione N. 1 DATA 19/01/2007 TITOLO Vicenza interpella il pacifismo responsabile 2 1 21/01/2007 16/01/2007 In politica estera il caso serio L’Unione scommette sul “dopo Bush” 2 17/01/2007 La coalizione e l’ideologia 3 4 18/01/2007 18/01/2007 Il partito antiamericano Una resa dei conti tra “antagonisti” 5 21/01/2007 6 22/01/2007 7 8 02/02/2007 03/02/2007 1 18/01/2007 L’inevitabile resa dei conti della politica estera italiana La base di Vicenza: economia e interesse nazionale La realtà dietro il pasticcio L’altolà del Professore aspettando l’Afghanistan L’Italietta del populismo 2 3 22/01/2007 26/01/2007 4 5 02/02/2007 03/02/2007 Il ritorno degli estremisti Il fronte del No a tutti i costi mette in crisi Rifondazione Accanimento terapeutico La maggioranza s’è sciolta a Vicenza 1 17/01/2007 Caro Prodi, è un grosso sbaglio 2 18/01/2007 Perché stiamo con i cittadini che dicono no 3 4 18/01/2007 19/01/2007 5 21/01/2007 6 25/01/2007 7 26/01/2007 8 27/01/2007 9 28/01/2007 10 01/02/2007 11 01/02/2007 12 01/02/2007 13 02/02/2007 14 03/02/2007 15 16 03/02/2007 03/02/2007 Il PRC sta a fianco del movimento Amiamo l’America (ma non vogliamo servirla) Il risiko del governo Prodi: tre strade per salvarsi, ma una solo è buona Vicenza: sciopero della fame e una lettera pacifista a Prodi Lettera aperta alla sinistra dell’Unione: “Attenti, Vicenza è uno spartiacque…” Base Usa di Vicenza, patti segreti e finti bisticci Cronaca di una giornata particolare, visitando la Base di Vicenza Il leone divide così il bottino: a me tutto e a te niente Alleanza atlantica, sovranità nazionale: quale cambiamento rispetto al passato? Forse questo governo non è un pranzo di gala, ma non diteci che è “rivoluzione” Il pericolo viene dal centro. Unione battuta al Senato su Vicenza Così il governo esalta la violenza e l’illegalità Un gioco quasi berlusconiano E’ stata una brutta pagina scritta dalla INTERPRETAZIONI antiamericanismo; pacifismo; politica estera politica estera politica estera debolezza maggioranza; politica estera antiamericanismo debolezza maggioranza; pacifismo debolezza maggioranza; politica estera politica estera debolezza maggioranza politica estera antiamericanismo; politica estera debolezza maggioranza debolezza maggioranza; territorio debolezza maggioranza debolezza maggioranza; politica estera debolezza maggioranza; pacifismo; politica estera debolezza maggioranza; democrazia democrazia; pacifismo antiamericanismo democrazia; politica estera pacifismo; territorio debolezza maggioranza democrazia territorio militarizzazione; pacifismo militarizzazione; politica estera pacifismo; politica estera debolezza maggioranza pacifismo pacifismo; politica estera debolezza maggioranza; 41 Il manifesto La Repubblica La Stampa L’Unità Totale articoli politica L’offesa di Vicenza Una base caccia l’altra Perché è un problema l’ampliamento della base USA Una partita aperta 1 2 3 17/01/2007 18/01/2007 18/01/2007 4 19/01/2007 5 6 7 8 9 19/01/2007 21/01/2007 21/01/2007 24/01/2007 24/01/2007 10 11 02/02/2007 02/02/2007 12 13 03/02/2007 03/02/2007 1 2 3 4 1 2 3 17/01/2007 18/01/2007 02/02/2007 02/02/2007 12/01/2007 17/01/2007 21/01/2007 Su Vicenza un arcobaleno di no Chiamatela Fort Ashby Cambio di strategia Lettera a Prodi da Nairobi La scelta sbagliata (e senza motivi) del Professore La frattura Vicenza, il governo Prodi finisce in un vicolo cieco Ma Prodi ha letto l’articolo 11? Politica estera del governo, un’agenda tutta bianca Una scelta obbligata La base americana vista da Caldogno Maggioranza ipotetica Azioni concrete non demagogia Italia-USA gelo sull’alleanza Lo slalom della Farnesina Dispute casalinghe sugli USA 4 02/02/2007 Boomerang e vecchi ricatti 5 6 1 03/02/2007 05/02/2007 18/01/2007 Il coraggio di rischiare La politica estera non si gioca a Vicenza L’interesse nazionale 2 3 4 5 18/01/2007 19/01/2007 21/01/2007 22/01/2007 Polemiche senza punto di caduta Dare e avere Antiamericano chi? Caro Bertinotti che fare? 6 7 24/01/2007 28/01/2007 La guerra secondo Cossiga Vicenza, paradigma di governo 8 9 63 02/02/2007 03/02/2007 La base della confusione Sull’orlo del burrone politico politica estera pacifismo democrazia; pacifismo politica estera democrazia; militarizzazione pacifismo; territorio pacifismo antiamericanismo pacifismo; politica estera democrazia; politica estera debolezza maggioranza debolezza maggioranza debolezza maggioranza; democrazia; territorio pacifismo politica estera politica estera democrazia; territorio debolezza maggioranza politica estera politica estera politica estera debolezza maggioranza; politica estera debolezza maggioranza; politica estera debolezza maggioranza politica estera debolezza maggioranza; democrazia debolezza maggioranza politica estera; territorio antiamericanismo; territorio militarizzazione; politica estera politica estera debolezza maggioranza; democrazia democrazia debolezza maggioranza Tabella 2: chiavi interpretative proposte dai commenti dei quotidiani nazionali (tra il 12/01/2007 e il 05/02/2007) INTERPRETAZIONI antiamericanismo: la questione viene posta e interpretata in termini di analisi di posizioni ideologicamente favorevoli o contrarie agli Stati Uniti d’America, con specifici riferimenti al ruolo della presidenza Bush debolezza maggioranza: la questione viene posta e interpretata come sintomo della fragilità politica della coalizione di maggioranza, delle contraddizioni e degli squilibri in essa presenti nella relazione con specifiche aree di dissenso democrazia: la questione viene posta e interpretata come espressione di mancanza di trasparenza e di PRESENZA 6 24 12 42 assunzione chiara di responsabilità, rivendicazione di partecipazione dal basso e in un quadro di difesa dei diritti umani militarizzazione: la questione viene posta e interpretata nei termini di considerazioni sul ruolo strategico di Vicenza nella rete militare, critica alla Nato, richiamo alla conferenza sulle servitù militari e denuncia della guerra globale permanente pacifismo: la questione viene posta e interpretata come catalizzatore di temi sulla pace e sul no alla guerra (Afghanistan), con richiamo all’articolo 11 della Costituzione, memoria delle mobilitazioni di Comiso e dell’esperienza in Kosovo politica estera: la questione viene posta e interpretata in termini di responsabilità di governo in uno scenario di politica internazionale, come rispetto degli impegni ma anche autonomia nazionale territorio: la questione viene posta e interpretata in relazione all’identificazione di comunità in lotta, frattura tra governo e comunità locali, rivendicazione di sovranità territoriale 4 15 28 8 43 Riferimenti bibliografici Abbott A., 1983, Sequences of Social Events, in “Historical Methods”, 16, 4 Aminzade R., McAdam D., 2001, Emotions and Contentious Politics, in Aminzade R., McAdam,D., Perry E., Sewell Jr. W.H., Tarrow S., Tilly C. 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