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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTA’: MEDICINA E CHIRURGIA e SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE (abilitante alla professione sanitaria di Educatore Professionale) (classe SNT/2) “Dalla Fobia Scolare all' Hikikomori: l'adolescente e il disagio sociale oltre i confini nosografici e culturali.” Relatrice: Prof.ssa Maria Cristina Stefanini Canditata: Francesca Mussari Correlatrice: Ed. Prof.le Manuela Nardi Anno Accademico 2010/2011 A tutti gli adolescenti INDICE INTRODUZIONE 3 CAP. 1 – ADOLESCENZA: PASSAGGIO, CRISI E SCOMPENSO 5 1.1 – Epistemologia ed excursus storico 1.2 – I Modelli di Comprensione 1.2.1 Il modello Fisiologico: la pubertà 1.2.2 Il modello Sociologico 1.2.3 Il modello Psicoanalitico 1.2.4 Il modello Cognitivo-Educativo 1.3 – L'adolescente e la famiglia 1.4 – L'adolescente a scuola 1.5 – Break-Down adolescenziale 5 7 8 10 11 15 16 18 20 CAP. 2 – L'ADOLESCENTE ODIENRO: DAL DISAGIO A NUOVE PATOLOGIE 27 2.1 – Ansia, angoscia e paura 2.2 – Disturbi 2.2.1 Disturbo d'ansia generalizzato 2.2.2 Disturbo d'ansia da separazione 2.2.3 Fobia sociale 2.2.4 Inibizione Relazionale 2.3 – Fobia Scolare 2.3.1 Descrizione 2.3.2 Espressione sintomatica 2.3.3 Approccio pscicopatologio 2.3.4 Presa in carico ed evoluzione 27 29 29 31 33 35 35 35 36 39 40 CAP. 3 – HIKIKOMORI: dal Giappone all'Italia? 43 3.1 – Che cosa vuol dire Hikikomori 3.2 – Non è una malattia ma produce malattia 3.3 – Scuole speciali 3.4 – La dipendenza dalla madre 3.5 – La violenza simbolica del padre che non c'è 3.6 – La pazienza che cura 43 46 49 51 53 55 3.7 – Un fenomeno trasculturale? 58 CAP. 4 – CASI CLINICI 62 4.1 – Lia 4.2 – Sofia 4.3 – Somministrazione questionario Youth Self Report 11/18 62 67 70 CAP. 5 – L'EDUCATORE PROFESSIONALE E IL PROGETTO EDUCATIVO NEGLI ADOLESCENTI 73 5.1 – Le competenze dell'Educatore Professionale, l'Équipe Multidisciplinare e il Lavoro di Rete 5.2 – La Relazione Educativa 5.3 – L'importanza del gruppo terapeutico in adolescenza 5.4 – Il lavoro con la famiglia 73 78 80 84 CONCLUSIONI 86 APPENDICE Appendice 1 Appendice 2 94 94 101 BIBLIOGRAFIA 107 SITOGRAFIA 110 INTRODUZIONE L'interesse per le problematiche che riguardano il periodo adolescenziale è nato dopo la mia esperienza di tirocinio diretto, svoltosi presso una delle U.F. SMIA dell' Asl 10 di Firenze. Durante questo periodo ho avuto la possibilità di seguire casi di adolescenti con grosse difficoltà nella regolare frequenza scolastica a causa di disturbi d'ansia, tali da far supporre la presenza di Fobia Scolare, accompagnata da sintomi di Inibizione Relazionale. In particolare la mia attenzione si è rivolta a due casi di ragazze adolescenti, che dopo il rifiuto di frequentare la scuola, si sono ritirate presso la propria abitazione, ponendo le basi per un vero e proprio ritiro sociale. E proprio da questo è nato il mio interesse ad analizzare la questione del ritiro sociale in adolescenza da un punto di vista epidemiologico, fino a scontrarmi con il fenomeno giapponese, tipicamente maschile, dell' Hikikomori. Nel primo capitolo metterò a fuoco i nodi centrali del processo adolescenziale partendo da come è cambiata l'adolescenza negli anni, passando poi ad un' analisi teorica dei processi cognitivi e delle teorie psicoanalitiche, per poi descrivere le dinamiche familiari e scolastiche tipiche del periodo, fino alla descrizione del break-down adolescenziale. Nel secondo capitolo descriverò i disturbi d'ansia che possono manifestarsi nel disagio di questi adolescenti, fino alla definizione della Fobia Scolare. Nel terzo capitolo invece descriverò il fenomeno dell'Hikikomori, dal punto di vista sintomatologico e da come la società giapponese possa influire sul manifestarsi di questo disagio. Nel quarto capitolo parlerò dei due casi clinici sopra citati e della somministrazione di un questionario Self Report ad un piccolo gruppo di adolescenti in carico al servizio territoriale. Il quinto capitolo invece sarà dedicato al ruolo dell'Educatore Professionale, descrivendone le competenze e gli strumenti che può utilizzare nell'intervento educativo in adolescenti con questo tipo di disagio. La domanda che mi sono posta alla fine di questo lavoro è se non sia proprio la società stessa a portare questa fascia di popolazione verso lo sviluppo di questo disagio. Come lo sono state le isteriche del primo novecento di Freud e le anoressiche della fine del secolo scorso, mi chiedo dunque se i giovani in hikikomori potrebbero diventare l'espressione di un nuovo disagio umano nella società post capitalistica, ma piuttosto la negazione dell'adolescente stesso che si nega al mondo esterno. CAPITOLO 1 ADOLESCENZA: PASSAGGIO, CRISI E SCOMPENSO. 1.1. Epistemologia ed excursus storico La fase che va dalla pubertà alla giovinezza risulta cruciale per lo sviluppo umano in quanto è connotata da una rapida trasformazione corporea, psicologica e sociale. Gli studi effettuati sull'adolescenza in prospettiva storica sostengono che i giovani hanno sempre dovuto affrontare questo periodo critico di trasformazione fisica e sociale. L'adolescenza come la intendiamo oggi, un gruppo sociale con caratteristiche e specificità proprie che definisce un periodo di diversi anni della vita, sarebbe apparsa nel XVIII e XIX secolo. Alcuni invece riconoscono che, l'adolescenza come gruppo autonomo e d'opposizione al mondo degli adulti, sia nata solamente dopo la seconda guerra mondiale. Philippe Ariès ha scritto: <<il bambino passava direttamente dalle gonne delle donne al mondo degli adulti. Bruciava le tappe della giovinezza o dell'adolescenza. Da bambino diventava immediatamente un piccolo adulto vestito come gli uomini o le donne, mischiato a loro, senza altra distinzione se non la statura. Tra l'altro è probabile che nelle nostre società passate, i bambini entrassero nella vita attiva degli adulti prima di quanto avviene nelle società primitive e nelle nostre società attuali>> 1. Così fino all'Ottocento in occidente i bambini venivano considerati tali finché non avevano appreso ciò che la loro classe sociale riteneva fondamentale per diventare, appunto, un “piccolo adulto”. Si deve riconoscere però, che a partire dall'antichità, il rimando alla giovinezza esiste spesso sotto forma di appello alle virtù di forza e di coraggio nel caso di addestramento militare o azioni di difesa per il proprio popolo. Nelle società tradizionali, infatti, la figura dell'adolescente non era considerata, anzi 1 Ariès P., Padri e figli nell' Europa medievale e moderna, Edizioni La Terza, Roma 1991. l'adolescenza era un periodo di addestramento alla socializzazione nel mondo degli adulti, scandito da tappe culturalmente predefinite attraverso le quali giungere al riconoscimento sociale dell'identità adulta. L'adolescenza in alcune epoche storiche era anche più lunga di quanto non lo sia adesso: A Roma si era puer sino a quindici anni, adulescens dai quindici ai trent'anni. Nel rinascimento l'infanzia durava fino ai sette anni, la puerizia fino ai quattordici e l'adolescenza dai quattordici ai ventuno. A Firenze nel 1427 l'età media alla quale ci si sposava era di ventinove anni come lo dimostrano alcuni studi effettuati sul catasto fiorentino dal 1427-29 2. Il rapporto tra pubertà e adolescenza si fa più complesso se si prendono in considerazione i dati provenienti dagli studi di antropologia culturale, riguardo i riti ed i periodi di iniziazione. In alcuni casi, il trapasso dall'infanzia all'età adulta avviene senza scosse e rimane ignorato dalla società, mentre in altri casi i riti della pubertà portano con sé un trapasso non dalla fanciullezza all'adolescenza, ma dalla fanciullezza all'età adulta. La letteratura sull'argomento evidenzia il fatto che non sempre il rito di iniziazione avviene in contemporanea con il momento della pubertà; inoltre mentre la durata della pubertà è stabilita da fattori biologici, quella dell'adolescenza è sociale ed è determinata dalle istituzioni e dalle norme che vigono in un dato gruppo sociale. Esse possono coincidere, ma ciò non accade necessariamente. Si afferma spesso che una delle caratteristiche del mondo "moderno" è la scomparsa dell'iniziazione: al contrario nelle società tradizionali esistono numerose varianti dei riti di iniziazione. I riti di iniziazione relativi al passaggio dall'età dell'infanzia a quella adulta, vengono celebrati alle soglie della pubertà e sanciscono l'ingresso ufficiale del giovane nella comunità degli adulti. Tale passaggio viene rappresentato attraverso una morte e una rinascita simbolica: il giovane muore nella sua vita infantile per rinascere in un'esistenza di adulto. <<Nei riti iniziatici, l'adolescente maschio o femmina impara a confrontarsi con i diversi contesti che dovrà governare una volta adulto e viene modellato così da essere e sentirsi realisticamente adeguato a 2 D. Herlihy and C. Klapsch-Zuber, Les Toscans et leurs Familles, une étude du catasto florentin de 1427, Paris 1978, (pag.614). ruoli previsti e nelle relative appartenenze sociali: incontra perciò anche dolore, frustrazioni e conflitti interni, tra le diverse parti del Sé, ed esterni, sociali, insieme al festeggiamento della riconosciuta capacità di generare>> 3. In Europa, verso la fine del XIX secolo prese vita una nuova figura di adolescente, il quale poteva confrontarsi, e che ancora può, non più solamente con il mondo degli adulti, ma anche con il gruppo dei pari. Questo avvenne grazie ai considerevoli cambiamenti in campo economico e sociale, accompagnati da una profonda evoluzione del sistema scolastico, aumentando gli anni della scuola dell'obbligo e di conseguenza posticipando l'ingresso nel mondo del lavoro. <<Oggi, nella nostra società, invece di festeggiare la pubertà e farsi carico della trasformazione dei ragazzi e delle ragazze, il mondo adulto sembra preferire lasciarli liberi di strapparsi o meno dall'universo infantile, e di scegliersi il loro destino, che lo affrontino da soli o col gruppo dei pari: così si può sognare di non scartare nessuno. Il rischio è di negare a molti di loro i punti di riferimento utili per conquistare il Sé adulto con fatica, ma anche con il piacere della consapevolezza e della responsabilità di essere diventati finalmente grandi>>4. 1.2. I modelli di Comprensione L'adolescenza, dal latino adolescere, “crescere”, è l'età della vita, compresa fra la fanciullezza e l'essere adulto, nella quale si compiono i processi di crescita, di formazione della personalità e di trasformazione fisica. Molto spesso si dice che l'adolescente è allo stesso tempo bambino e adulto. Questo doppio movimento, da una parte il rinnegamento della propria fanciullezza, e dall'altra la ricerca delle propria personalità adulta, costituisce l'essenza della “crisi” propria dell'adolescente.5 L'adolescenza, più che ogni altra età della vita, mette il clinico nella condizione di 3 4 5 Cristiani C. 2008, “Compiti evolutivi e riti iniziatici: il contributo dell'antropologia culturale” (pag. 45) in Maggiolini A. e Pietropolli Charmert (a cura di), Manuale di psicologica dell'adolescenza: compiti e conflitti, FrancoAngeli, Milano 2004. Loc. Cit. Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Adolescenza e Psicopatologia, Masson editore, Milano 1999. confrontarsi con i modelli che egli stesso usa e lo costringe ad un continuo riesame, in modo da valutare, caso per caso, la pertinenza del modello. <<Questo va-e-vieni tra la pratica e la teoria, questo riesame permanente e necessario, fanno la ricchezza della pratica clinica nell'ambito della psicopatologia dell'adolescenza>>6. Le diverse teorizzazioni riguardanti l'adolescente, possono essere identificate in quattro modelli principali: il modello fisiologico, il modello sociologico e ambientale, il modello psicoanalitico e infine il modello cognitivo ed educativo. Passerò ora ad esaminare in modo più approfondito ogni modello, sottolineando che l'ordine in cui vengono esaminati non riguarda la preminenza dell'uno sull'altro. 1.2.1. Il modello Fisiologico: la pubertà. La trasformazione del corpo, che corrisponde alla pubertà, si estende per un periodo che va dai diciotto mesi ai due anni circa e questa trasformazione dipende da un certo numero di ormoni. La pubertà inizia mediamente verso gli undici anni nella femmina e verso i dodicitredici nel maschio, in questo caso per età non viene intesa l'età reale, ma l'età fisiologica, la cosiddetta <<età ossea>>. In alcuni bambini vi è una leggera differenza fra l'età cronologica e l'età ossea, anche con l'assenza di una condizione patologica. Questa differenza spiega anche la variabilità individuale dell'età di comparsa dei segni puberali. I limiti temporali per la comparsa della pubertà sono dagli otto ai quindici anni nella ragazza e tra i dieci ai sedici nel ragazzo. Fuori da questi limiti si parla di precocità o ritardo puberale. E' stato dimostrato un regolare anticipo dell'inizio della pubertà: circa un anno ogni venticinque anni. In meno di un secolo si è passati dai diciassette ai tredici anni come età della comparsa del primo menarca. In media sembra che l'età del primo menarca si sia fermata ai tredici anni per quanto riguarda i paesi industrializzati. Questo ha messo difronte a considerevoli problemi a livello 6 Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Psicopatologia dell'adolescente, Masson editore, Milano 1985 (pag.4). sociale: i giovani si trovano ad avere a che fare con un corpo sessualmente maturo, ma si trovano ancora in una condizione di dipendenza. L'anticipazione della pubertà sembra sia dovuta ad un miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e alla dieta alimentare più completa. La pubertà nella ragazza. I primi segni posso essere rappresentati dallo sviluppo di un piccolo rigonfiamento, appena sensibile ad un seno. Successivamente ci sarà un aumento della dimensione dell'aureola, in concomitanza dello sviluppo del seno. Anche gli organi genitali si modificano. Al tempo stesso si sviluppa la pelosità, prima al pube e circa sei mesi dopo l'inizio della crescita del seno, si svilupperà la peluria ascellare. Si nota un discreto aumento della crescita e il corpo inizia a prendere sembianze più femminili. Le prime mestruazioni indicano la fine della pubertà da un punto di vista fisiologico. Dopo le prime mestruazioni i cicli presentano solitamente delle irregolarità sia per la durata che per l'abbondanza. Si ritiene che la ragazza entri nella vita ginecologica adulta solo quando i cicli si regolarizzano. Questo processo dura circa tre anni. La pubertà nel ragazzo. La pubertà nel maschio inizia con l'aumento del volume dei testicoli verso gli undici anni circa. Vi è poi una modificazione degli organi genitali esterni. Si denota un aumento della dimensione del pene, un plissettamento ed una pigmentazione dello scroto. La prima peluria pubica compare lateralmente alle radici delle cosce e sullo scroto. Ci vogliono circa quattro anni per far si che gli organi genitali raggiungano l'aspetto adulto. La pelosità ascellare si sviluppa a circa metà della pubertà, quella facciale e toracica compare verso i sedici/diciassette anni. Le modificazioni mammarie non sono esagerate, si nota una leggera tumescenza o gonfiore, che in alcuni casi può essere dolorosa. E' un fenomeno del tutto normale, ma in alcuni ragazzi può diventare causa di forti inquietudini. La silouette del corpo cambia con un allargamento toracico, cambia anche il timbro di voce. La prima eiaculazione si manifesta in media verso i quattordici/quindici anni e, come per le mestruazioni nella ragazza, segna la fine della pubertà. La comparsa dell'acne sia nei ragazzi che nelle ragazze, nelle sue localizzazioni più variabili, sicuramente sul viso, ma anche su dorso e torace, è sentita come una vera e propria complicazione dalla maggior parte degli adolescenti. Tutti questi avvenimenti possono provocare negli adolescenti angosce e produrre disturbi psichici durevoli. Per questo è utile da parte degli operatori una conoscenza almeno di base dei cambiamenti che investono l'adolescente, per essere così in grado di poterli rassicurare e accompagnare in questo periodo di cambiamento. 1.2.2. Il modello Sociologico La tesi che l'adolescenza non è un fenomeno universale è uno dei temi che sicuramente più riguarda l'approccio culturale dell'adolescente. In questo non può non essere citata Margaret Mead7 per i suoi lavori, anche se contestati, riguardo per esempio gli abitanti di Samoa8 dove non esiste questa fase della vita: le adolescenti samoane sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica, identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi, e non soffrirebbero delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Ella sosteneva che le difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali (americane in particolare), non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più tradizionalisti e moralistici della cultura americana impongono. É quindi possibile, secondo la Dott.ssa Mead, stabilire una connessione fra la natura degli adolescenti e ed il grado di complessità della società che si considera: più la società è complessa, più l'adolescenza sarà lunga e conflittuale. Le caratteristiche dell'adolescenza cambiano quindi a seconda delle società per: •la durata dell'adolescenza; 7 8 Antropologa statunitense di fama mondiale (Filadelfia 1901- New York 1978). Mead M., Coming of Age in Samoa: A Psychological Study of Primitive Youth for Western Civilization, 1928. •i metodi di socializzazione adottati dell'individuo: nel nucleo familiare, in istituzioni extrafamiliari, nel gruppo dei pari. Nelle nostre società contemporanee, questi diversi modi di socializzazione esistono almeno allo stato potenziale (soggiorno presso zii, collegi, comunità); •i tipi di cultura. Secondo M. Mead (1972) si dividono in tre tipi di culture:le culture posfigurative, dove i bambini apprendono soprattutto dai loro genitori; le culture cofigurative, nelle quali sia adulti che bambini apprendono dai coetanei; e le culture prefigurative, che si caratterizzano per il fatto che gli adulti apprendono anch'essi dai loro bambini. Nelle condizioni delle società occidentali attuali, l'adolescenza costituisce il punto di incontro fra il mondo dei bambini e quello degli adulti, secondo Bruner <<essa propone dei nuovi stili di vita meglio adattati a ciò che è percepito come un insieme di condizioni nuove e mutevoli, a dei cambiamenti che essa afferma, a torto o a ragione, di percepire meglio di coloro che si sono adattati allo stato di cose precedente>>9. Quindi secondo Bruner si assiste ad un'inversione di prospettiva: visto che il mondo attraversa continui cambiamenti, e l'adolescenza come caratteristica fondamentale è cambiamento, diventa una sorta di modello sociale e culturale, sia per i bambini che per gli adulti. 1.2.3. Il modello Psicoanalitico In questo paragrafo ho deciso di riportare con una sintetica ricostruzione storica alcuni autori, scelti per il valore pionieristico dei loro studi o comunque per la loro centralità nell'attuale letteratura psicoanalitica sull'adolescenza. Farò un inevitabile riferimento a Sigmund Freud, continuando con Anna Freud, Erik Erikson, Peter Blos, Donald Winnicot, i coniugi Laufer. Sigmund Freud: l'adolescente innominato L'unico testo nel quale Freud parla essenzialmente dell'adolescenza è Psicologia del ginnasiale (1914), nel quale non compaiono mai i termini “adolescente” e “adolescenza”. Freud preferisce utilizzare il termine “pubertà” in quanto secondo 9 Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Adolescenza e Psicopatologia, Masson editore, Milano 1999 (pag 11). lui è con la fine di essa che si raggiungono le definitive caratteristiche della vita sessuale. L'assenza di termini che riportino all'adolescente, impone a Freud di riferirsi o al “bambino” , inteso come padre dell'adolescente, oppure ad una gioventù indefinita dal punto di vista anagrafico, ma che comunque trova nell'infanzia le proprie radici e le proprie ragioni patologiche. Ribadiva che per lo sviluppo della personalità sono indispensabili i primi sei anni di vita, concetto che non trova più accoglimento nella psicoanalisi moderna, la quale sostiene che proprio durante l'adolescenza, intesa come fase di passaggio inedito, si possa quasi interamente riorganizzare le basi della propria personalità. Anna Freud: meccanismi di difesa Anna Freud individua due principali meccanismi di difesa che caratterizzano la fase adolescenziale e che danno una chiave di lettura dei principali comportamenti degli adolescenti: ”l'ascetismo” e “l'intellettualizzazione”. L'ascetismo è descritto come <<...un soggetto impegnato in una lotta continua nei riguardi dei propri impulsi aggressivi e sessuali. Una lotta che finisce per coinvolgere anche il corpo dell'adolescente determinando in alcuni casi un meccanismo difensivo che comporta il mancato appagamento dei bisogni fisiologici primari, quali l'assunzione di alimenti e il sonno>> 10. Questi adolescenti si tengono lontani dal godimento, fino ad opporsi agli istinti con assolute proibizioni, fino ad non riconoscere i bisogni corporei più elementari come l'alimentasi o il proteggesi dal freddo. L'intellettualizzazione è una difesa che sposta su di un piano teorico ed astratto tematiche che in realtà fanno parte della vita emotiva e quotidiana dell'adolescente. Secondo A. Freud l'intellettualizzazione riguarda solitamente il matrimonio, l'amore libero, il vagabondare, la religione, teorie politiche, la scelta della professione e l'amicizia. Questo meccanismo di difesa frequente nel periodo e nella classe sociale alla quale apparteneva Anna Freud, appare con molta meno frequenza fra gli adolescenti di oggi. Coloro che si rivolgono ai servizi per l'adolescenza sono in 10 Lancini M., L'ascolto a scuola. La consultazione con l'adolescente, FrancoAngeli, Milano 2003 (pag. 116-117). numero maggiore rispetto al passato e non tendono ad avvalersi di questo sistema di difesa, vuoi per la diffusione dei massmedia o per la crisi dei sistemi ideologici, con una conseguente perdita della riflessione individuale. Erik Erikson Erikson ha dominato la psicoanalisi americana fino agli anni settanta. Egli ha inserito lo sviluppo del bambino e dell'adolescente in un complesso quadro di adattamento dell'individuo all'ambiente sociale. La fase adolescenziale è caratterizzata dalla ricerca di senso di identità che è importante per dare significato alle scelte professionali, personali, sessuali; l’identità personale permette di affrontare cambiamenti e mutamenti. Erikson individua otto tappe evolutive fondamentali per lo sviluppo dell'individuo. Il rischio di questa fase è il possibile crearsi di confusione circa i ruoli e l’identità, fino ad originare un senso di dispersione, cioè insicurezza per le pressioni interne ed esterne dovute ai cambiamenti fisici e psicologici. Questo possibile fallimento mette in discussione la possibilità dell'adolescente di accedere alla vita adulta ed ad una prospettiva mentale ed affettiva “genitale”.Secondo Erikson, si arriva alla fase successiva, quella della post-adolescenza, solo quando si è sperimentato un sufficiente senso di identità e una conseguente intimità con se stessi e con l'altro. La teoria di Erikson si caratterizza per un approccio non deterministico all'adolescenza, in quanto tutte le fasi di sviluppo precedenti all'adolescenza possono essere messe in discussione e riorganizzate. Peter Blos Di Peter Blos è soprattutto nota la suddivisione in fasi dell'adolescenza. Anche se la sua teoria in parte è considerata superata, viene considerata ammirevole come sintesi dei vari punti teorici e clinici e ritenuta di grande utilità. La prima fase è la pre-adolescenza. È caratterizzata da un aumento delle pulsioni, legate alla pubertà. I maschi in questo periodo saranno più aggressivi nei confronti delle femmine e si organizzeranno in “bande omosessuali”, mentre le femmine si saranno già interessate e seduttive verso l'altro sesso, e si ritroveranno a fantasticare storie d'amore e si difenderanno allo stesso tempo dalle tentazioni regressive che le richiamano verso la madre, La seconda fase è quella della prima adolescenza, nella quale sarà presente il conflitto insito nello svincolo dalla figure parentali e l'importantissima formazione degli ideali dell'Io. In quest'ultimo caso è importante per il maschio il gruppo dei pari, dove elabora valori, ideali e comportamenti, ma importante è anche la funzione che ha lo sport, la musica, anche la scuola. Nelle femmine invece, è importante la figura dell'amica del cuore, l'esperienza dei primi innamoramenti, più fantasticati che vissuti realmente. La terza fase è quella dell'adolescenza vera a e propria, la quale è caratterizzata dalla ricerca del vero amore, facile per alcuni, meno facile e tormentata per altri. Le fasi della tarda adolescenza e della post-adolescenza, sono per Blos poco differenziate, ma punto principale di tali fasi è il conseguimento dell'identità sessuale e genitale definitive. Donald Winnicott Winnicott pone grande attenzione al rapporto dell'adolescente con l'ambiente sociale e proprio in quest'ottica individua i principali bisogni evolutivi dell'adolescente. Winnicott descrive l’adolescenza come una fase in cui il soggetto è impegnato nel compito di raggiungere l'indipendenza individuale, intesa come forma evoluta e matura di dipendenza dall’altro. L’adolescente alterna uno sprezzante spirito di indipendenza a spinte regressive verso la dipendenza infantile e può vivere questa drastica alternanza di stati interni con grandissima angoscia. L’adolescente ha inoltre precisi bisogni evolutivi: • una necessità ontologica di sfidare l’ambiente familiare da cui è dipendente; • il bisogno di “pungolare” la società, mettendo in discussione ciò che è vecchio e ripetitivo per aprirsi a nuovi scenari affettivi e antropologici; • l’imperativo di evitare quelle che Winnicott definisce false soluzioni , che non consistono in un’effettiva elaborazione delle dinamiche intrapsichiche, quanto piuttosto in un loro arresto (es. identificazione imitativa o esperienze sostitutive). L’adolescenza implica crescita, e questa richiede tempo. Mentre la crescita è in progresso, la responsabilità deve essere assunta da figure genitoriali. Se le figure genitoriali abdicano, allora gli adolescenti devono fare un salto nella falsa maturità e perdere il loro bene più grande: la libertà di avere idee e di agire per impulso. Un altro metodo che l'adolescente può utilizzare per calmare l'angoscia, consiste in un'attività sessuale compulsiva, omosessuale o eterosessuale, spesso masturbatoria, senza un reale incontro con l'altro. Moses e M. Elglé Laufer I Laufer affermano che <<la principale funzione evolutiva dell'adolescenza è l'instaurarsi dell'organizzazione sessuale definitiva, una funzione evolutiva che passa attraverso processi difficili e delicati, il cui fallimento può provocare un vero e proprio “breakdown evolutivo”, quasi sempre non passibile di risoluzione spontanea e che solo un adeguato intervento clinico può fronteggiare e risolvere>>11 . Per questi autori il processo adolescenziale verte sostanzialmente intorno a tre compiti "evolutivi": il cambiamento nelle relazioni con gli oggetti adulti, il cambiamento nelle relazioni con il gruppo di coetanei e, soprattutto, il cambiamento nella relazione con il proprio corpo nel contesto dello stabilirsi dell'identità sessuale. I Laufer ritengono che la crisi che si verifica nell'adolescenza sia sempre collegata a un disturbo nel processo di stabilizzazione dell'identità sessuale e nella relazione conflittuale che l'Io stabilisce con il proprio corpo sessuato. Il breakdown costituisce in altri termini una vera e propria minaccia di rottura psicotica, quasi permanente in adolescenza, che mette a rischio l'integrazione di un'immagine del corpo fisicamente maturo all'interno della rappresentazione di sé, esprimendosi in un rifiuto inconscio del corpo sessuato. Le pulsioni aggressive si intensificano e si rivolgono contro il corpo sessuato ma anche contro il nuovo rapporto con gli oggetti interni che la trasformazione puberale implica. Se invece accetta la propria sessualità, dovrà integrare la nuova rappresentazione del proprio corpo nella 11 Laufer M. e E,. Adolescenza e breakdown evolutivo, Tr. It. Boringhieri, Torino 1984. “fantasia masturbatoria centrale” che è un prodotto inconscio che proviene dall'infanzia. Anche se l’adolescente si sente in pericolo di cedere ai desideri regressivi, egli è consapevole inconsciamente che esiste una possibilità di scelta . Le stesse fantasie masturbatorie rivelano la ricerca attiva di un oggetto sessuale d’amore . 1.2.4. Il modello Cognitivo-Educativo Durante l'adolescenza si assiste ad una trasformazione delle strutture cognitive. Piaget ha infatti descritto una nuova forma si intelligenza che viene a crearsi in questo periodo, l'intelligenza operativa formale, la quale prende nome dalla fase delle operazioni formali della teoria dello sviluppo cognitivo dello stesso Piaget. Tra i dodici e i sedici anni si ha l'ultima fase intellettuale: dal punto di vista della maturazione, ha termine in questi anni il periodo infantile, e inizia quello giovanile. L'adolescente diventa, a differenza del bambino, <<...un individuo che spinge il suo pensiero al di là del presente immediato, e costruisce teorie su qualunque cosa, provando un compiacimento particolare nel soffermarsi in considerazioni su ciò che non è>> (Piaget, 1947). Egli acquista la capacità di pensare e di ragionare prescindendo dalla realtà del suo mondo e dalle sue stesse convinzioni personali; l'adolescente, insomma, fa il suo ingresso nel mondo delle idee e delle essenze, svincolato dal mondo del reale. Il linguaggio continua ad arricchirsi e a svilupparsi, e così a sua volta costituisce un fattore di sviluppo del pensiero e del comportamento cognitivo. L'ambiente fisico dell'adolescente presenta ora sfumature nuove. Gli oggetti sono visti in rapporto al loro uso appropriato, mentre le loro proprietà diventano rilevanti a seconda delle esigenze della situazione. L'adolescente si rende conto che il valore degli oggetti dipende interamente dal sistema di valori dell'uomo. Altri autori invece ritengono che l'adolescenza è un periodo di apprendimenti sociali e culturali, o un'età in cui l'essere umano non è ancora costretto a conformarsi ad un ruolo definito e il continuo passare da un sistema di identificazione all'altro permette loro altre prove. Questo stadio consente di ottenere il senso dell'individualità e dell'integrazione sociale, grazie all'apprendimento. 1.3. L'adolescente e la famiglia Come già evidenziato nei precedenti paragrafi, Winnicott ha descritto molto bene questo periodo di movimento e cambiamento, dichiarando che alla base di ogni adolescenza c'è un assassinio, l'assassinio dei genitori. Si parla certamente di un assassinio simbolico, dei genitori interiorizzati, cioè di come l'adolescente li rappresenta al suo interno. E se alla base dell'adolescenza c'è questo assassinio simbolico, è impossibile che non si ripercuota sulle relazioni tra i genitori e l'adolescente. Una delle costanti del dialogo fra genitori e figli è un'oscillazione tra comprensione-incomprensione: in certi casi i figli adolescenti vogliono essere capiti, ma in realtà hanno bisogno di non essere compresi dai genitori, in altri casi al contrario, hanno il bisogno di non essere capiti, pur desiderando di essere compresi. È molto frequente che un genitore dica al figlio che lo comprende esattamente, oppure che l'altro genitore affermi di non capirlo assolutamente. Ma questo può succedere anche all'adolescente nei confronti dei genitori: magari un genitore lo capisce di più rispetto all'altro, può essere anche una fase temporanea o che magari riguarda solo specifiche situazioni. Queste oscillazioni rapide degli adolescenti e delle loro opinioni derivano proprio dal fatto che l'adolescente mentre chiede di essere compreso, teme anche di essere messo a nudo, di essere svelato. Gli adolescenti possono passare ore a cercare di convincere i loro genitori che non li capiscono, oppure a discutere sempre per la stessa cosa, che sia un'idea politica, una questione filosofica o sportiva. Proprio durante queste accese discussioni si possono soddisfare due bisogni nascosti dell'adolescente: da una parte quello di provocare i propri genitori e dall'altra quello di dipendere ancora da loro, chiarito oltretutto da questa ostinazione nel continuare il dialogo in una incomprensione reciproca. I genitori devono essere coscienti e accettare di essere l'oggetto contro i quali il figlio adolescente riversa la maggior parte della sua aggressività. I genitori devono sopravvivere, cioè non devono venir distrutti né abbattuti da questa aggressività; non devono rinunciare alla propria funzione. Oltre a questa funzione di bersaglio, hanno anche la funzione di proteggerli perché l'adolescente non è ancora cosciente dei propri limiti. Devono controllare e badare sull'ambiente di sviluppo del figlio, per far si che l'ambiente non lo metta davanti ad esperienze troppo dannose. Il dialogo genitori-adolescenti ha la funzione di far affermare la propria differenza all'adolescente, senza arrivare all'odio e allo stesso tempo di far riconoscere la propria somiglianza senza però confondersi, perché per l'adolescente è difficile differenziarsi dall'altro, soprattutto dalla propria famiglia, senza arrivare ad un rifiuto di ciò che deriva proprio da essa. L'adolescente deve affrontare un'alternativa paradossale: da un lato deve distaccarsi dai suoi genitori per trovare la sua identificazione di adulto, ma dall'altro egli potrà trovare le basi della sua identità attraverso la storia della propria famiglia. Oltre ai genitori, possono svolgere una parte importante nel dialogo con l'adolescente anche i nonni, gli zii e le zie. I nonni permettono un inserimento nel tempo e nella storia, soprattutto nella storia della famiglia. Senza questa terza generazione si rischia di vedere le relazioni dei genitori e dei figli incentrate solo sulle interazioni attuali. Inoltre la funzione dei nonni è anche quella di far scoprire ai nipoti, attraverso i racconti sul loro figlio, il padre o la madre dell'adolescente, delle persone diverse, con i loro successi, fallimenti ed esperienze. Anche le zie e gli zii, permettono agli adolescenti di stabilire delle relazioni, ancora più modulate, con diversi membri della propria famiglia. Molte volte capita che l'adolescente in conflitto con i propri genitori venga accolto dagli zii. Addirittura in alcune culture, soprattutto in Africa, è alla zia o allo zio che viene affidato il compito di educare l'adolescente. Ad oggi la valutazione dell'ambiente familiare di un adolescente in difficoltà, deve essere inserita nell'insieme delle indagini cliniche. Le terapie familiari, hanno una discreta efficacia quando vi è un adolescente in difficoltà nel gruppo familiare, anche perché la malattia adolescenziale è spesso collegata con timori o minacce, che siano reali o fantasmatiche, che pesano sull'unione familiare, non necessariamente dei genitori, ma anche dei fratelli o dei nonni. 1.4. L'adolescente a scuola La scuola è un'esperienza che l'adolescente può utilizzare per acquisire nuovi contenuti e nozioni, ma anche per apprendere su di sé, proprio per questo ha un ruolo fondamentale nella ricerca dell'identità adulta da parte dell'adolescente. Gli dà la possibilità di confrontarsi con compagni, docenti e materie di insegnamento, così da poter misurare e ampliare le proprie possibilità e i propri limiti, insieme alla propria capacità di affrontare le frustrazioni e le imposizioni. Vari fattori influenzano una buona scolarità e tra questi quelli più significativi sono legati allo sviluppo affettivo, all'intelligenza e alle dinamiche familiari. Le trasformazioni da un punto di vista affettivo e relazionale durante l'adolescenza, si riflettono sulla scolarità grazie ai nuovi interessi che suscita e al desiderio di autonomia e di indipendenza che vi si collega. L'emergere di nuove pulsioni sessuali, attraverso il meccanismo della sublimazione, si spostano sul terreno culturale ed intellettuale. Questo cambio di polarità dell'energia permette all'adolescente di trovare un campo di investimento per la sua curiosità, l'esercizio del suo controllo e lo sviluppo dei suoi ideali. Allo stesso tempo, la ricerca della propria autonomia e indipendenza, facilitano l'esplorazione di campi di interesse personale, la ricerca di un autore nel quale identificarsi o un'ideologia. Conflitti affettivi e relazionali troppo intensi, possono interferire sul rendimento scolastico, perché l'adolescente potrebbe farvi convergere tutti quei comportamenti derivanti dalla propria opposizione verso la famiglia. Per quanto riguarda i fattori legati all'intelligenza, si parla della facoltà di adattamento alle situazioni nuove, la facoltà di immagazzinare e di memorizzare forme di conoscenze e della facoltà di astrazione, che rappresenta nella scolarità una capacità indispensabile per una buona riuscita. Tutti questi cambiamenti fanno parte dello sviluppo intellettuale del ragazzo, con l'entrata allo stadio del pensiero astratto, a partire dai dodici-tredici anni. Questo tipo di pensiero è una condizione necessaria per la continuazione di un percorso scolastico prolungato. L'accesso al pensiero astratto negli studi e nell'insegnamento, può mettere in difficoltà alcuni adolescenti per i quali l'accesso al pensiero concreto rimane più facile e manipolabile. É quindi importante conoscere lo stile di pensiero che l'adolescente utilizza, nella scelta di orientamenti scolastici piuttosto che altri. Infine tra i molteplici fattori che influenzano il percorso scolastico, vi è la mancata rappresentazione e consegna della scuola da parte dei genitori. In alcune famiglie vi è una concentrazione quasi esclusiva dei genitori sul rendimento scolastico del figlio adolescente, che si trasforma in studente e che diventa il principale destinatario degli interventi educativi genitoriali. Il rendimento scolastico viene considerato elemento fondamentale per valutare la qualità della relazione affettiva e degli scambi narcisistici tra figlio e genitori. Il successo o l'insuccesso scolastico vengono quindi tradotti in amore o odio, in appartenenza o rottura, e non vengono considerati in base alla singola prestazione e al ruolo di studente, ma riguardano tutta la persona. La scuola rimane quindi nelle mani dei genitori, solitamente della madre, la quale ha investito narcisisticamente l'esperienza sociale scolastica, anche più del padre, e diventa il campo in cui si gioca la partita fra dipendenza e autonomia. In alcuni casi il malessere e le difficoltà scolastiche adolescenziali possono persistere ed organizzarsi in forme più patologiche come fobie scolari o rifiuti ansiosi delle scuola: si tratta di fenomeni caratterizzati da angosce crescenti e crisi che si manifestano in prossimità o all'interno dell'edificio scolastico. Approfondirò nei capitoli successivi questo tipo di disturbi, in quanto tema essenziale dell'argomento di tesi. 1.5. Break-Down adolescenziale L'adolescente, impegnato nel suo processo di sviluppo, tende naturalmente a iperinvestire il mondo esterno (il paradosso delle relazioni familiari, i legami di appartenenza ai gruppi e coloro che fanno parte della stessa dimensione sociale o della stessa cultura del soggetto), il corpo e le sensazioni, a scapito del pensiero e del mondo interno (l'uso dei meccanismi di difesa, la continuità psichica, il mondo fantasmatico e l'organizzazione delle identificazioni e dei sistemi di idee), nell'attesa di potersene pienamente appropriare. Il mondo interno non è dunque in grado di tollerare o elaborare i conflitti specifici dell'adolescenza (differenziazione, integrazione del corpo sessuato, piena utilizzazione delle nuove capacità cognitive). Essi vengono esportati in ciò che Jeammet in Réalité interne, réalité externe (1980) ha chiamato "lo spazio psichico allargato", per definire lo spazio costituito da coloro (persone, luoghi, ideali, gruppi) ai quali l'adolescente affida inconsciamente questa o quella parte delle sue istanze psichiche, in questo o quel momento della sua storia. Allorquando appartiene a questo spazio, l'oggetto è investito di un ruolo suppletivo e assicura, temporaneamente e funzionalmente, una "circolazione psichica extra corporea", la cui importanza si rivela solo quando tale oggetto viene a mancare1. É quindi importante valutare lo spazio psichico allargato per comprendere gli equilibri necessariamente instabili, prendendo in considerazione il contesto familiare, il gruppo e il contesto sociale. Di seguito riporterò varie definizioni di “crisi” adolescenziale: • Concezione sistemica - Thom R., 1976 : perturbazione temporanea dei meccanismi di regolazione di un sistema, di un individuo o anche di un insieme di individui, derivante da cause esterne o interne. • Concezione psicopatologica - Marcelli D., 1994 : fase temporanea di disequilibrio e di sostituzioni rapide che rimettono in gioco l’equilibrio normale o patologico del soggetto. La sua evoluzione è aperta, variabile e dipende sia da fattori interni che esterni. • Ferrara M., Sabatello U., 1998 : situazione di passaggio rapido che può evolvere in senso positivo o negativo e che, in età evolutiva, coinvolge tanto il ragazzo che i familiari. • 1 DSM IV : transient situational disorder. Casoni A. (a cura di), Adolescenza liquida, Edup, Roma 2008 (pag 114). Da queste definizioni possiamo rilevare come siano considerate delle costanti l'elemento temporale della transitorietà, la messa in gioco dei precedenti equilibri e la potenzialità evolutiva, potendo successivamente evolvere verso un assetto più stabile e maturo o verso uno stato di vulnerabilità psicopatologica, sotto la spinta di fattori sia interni che esterni2. Se si mettono a confronto il concetto di crisi e di “scompenso”, la differenza che emergerà sarà prevalentemente a carico delle caratteristiche psicopatologiche, in quanto anche nello scompenso ci sarà un fattore tempo e il possibile raggiungimento di nuovi equilibri, ma a caratterizzarlo, sarà una “frattura” del senso di continuità e di integrità. Può essere a carico dell’ambiente familiare che non riesce a far fronte ad elementi critici, ma evolutivi dell’adolescente. Di seguito la definizione di scompenso psichico in età evolutiva da Stolorow e Lachmann modificato: Condizione in cui si manifesta, a diversi gradi di gravità e con sintomatologia clinica multipla, una rottura parziale o totale del senso di continuità del sé, talvolta del contatto con la realtà, della percezione del senso comune, della possibilità di condividere emotivamente ed affettivamente con gli altri eventi, anche semplici, della vita quotidiana. Con entità variabile risultano compromessi: • la coesione strutturale – compaiono sentimenti di depressione, devitalizzazione, angosce di frammentazione; • la stabilità temporale – la capacità di pensarsi come stabili nonostante i cambiamenti impressi dalle circostanze e quelli fisici e affettivi propri dell'età evolutiva e dell'adolescenza; • la coloritura affettiva – da cui dipende l'autostima e la modulazione emotiva delle esperienze intrapsichiche e relazionali3. Molto importante da considerare è un concomitante scompenso del contesto Martinetti M.G. e Stefanini M.C., Approccio evolutivo alla neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza, Seid Editori, Firenze 2005. 3 Ibidem. 2 familiare, il quale non potrà essere sottratto ad una terapia familiare. I coniugi Laufer propongono come principale chiave di lettura dello scompenso che le problematiche in questa fase della vita derivino dalle modificazioni corporee e che il break-down sia la rappresentazione delle varie condizioni psicopatologiche, dai disturbi lievi alle psicosi e affermano: <<nel corso dell'adolescenza, allorché il corpo diviene fisicamente sessuato, può verificarsi che per il soggetto la sola maniera di conservare il proprio modo di essere, si tratti di uomo o di donna, sia una frattura con il mondo esterno>>4. Si può delineare così un crollo psichico nel corso del quale la personalità è totalmente sommersa, incapace di funzionare, mentre l’adattamento alla realtà è compromesso. La continuità psichica è rotta. Facendo riferimento alla teoria dell'attaccamento, Fonagy e Target5, affrontando la definizione di break-down adolescenziale, hanno evidenziato quei processi maturazionali adolescenziali che risultano importanti in molti tipi di patologia adolescenziale e che riguardano soprattutto la capacità di rappresentazione mentale e la funzione riflessiva, quest'ultima intesa come la capacità a percepire e vivere se stesso e gli altri come persone con pensieri e motivazioni dotate di coerenza. Come ho già sottolineato nel capito precedente, in questo periodo l'adolescente deve fare i conti anche con l'aumento della complessità cognitiva, in quanto sta passando alla fase delle operazioni formali, la quale implica un riassetto delle funzioni di monitoraggio affettivo fra figli e genitori, in un momento in cui l'adolescente può essere in difficoltà ad organizzare le nuove competenze cognitive e riflessive. Durante questo percorso si può arrivare ad una fase di scompenso e gli Autori sopra citati evidenziano processi maturazionali adolescenziali importanti in diversi tipi di patologia adolescenziale: • salto al pensiero delle operazioni formali e la conseguente intensificazione della pressione per la comprensione interpersonale. Lo sviluppo del pensiero simbolico, nell’infanzia, è correlato alla crescita emozionale 4 5 Laufer M. e E,. Adolescenza e breakdown evolutivo, Tr. It. Boringhieri, Torino 1984. Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, (V. lingiardi e M. Ammanniti a cura di ), Cortina, Milano 2001. nell’ambito delle relazioni di attaccamento; • pressione che porta alla separazione dalle figure genitoriali e dalle loro rappresentazioni interne; • alcuni disturbi dell’affettività possono essere pensati come una inadeguata consolidazione della capacità simbolica; • l’ipersensibilità agli stati mentali può sopraffare la capacità dell’adolescente nell’affrontare pensieri e sentimenti, a meno di una loro manifestazione in sintomi somatici o in azioni fisiche. Questo può portare ad un breakdown apparentemente critico nella capacità di mentalizzare (ritiro sociale, ansia, agiti); • Il protrarsi delle difficoltà può dipendere sia dalla solidità delle strutture psichiche dell’adolescente sia dalla capacità dell’ambiente di supportare tale stato. Da sottolineare che, se si considerano manifestazioni del disagio, si notano gli stessi sintomi sia per la “crisi” che per lo “scompenso”, restando comunque come principale elemento di differenziazione la “rottura psichica”. Le manifestazioni del disagio in adolescenza possono riguardare: • disturbi centrati sul corpo: disturbi del comportamento alimentare (DCA), disturbi somatoformi, disturbi psicosomatici, conversioni isteriche; • condotte agite: disturbi della condotta (comportamenti antisociali, fughe, condotte auto/etero lesive e tentativi di suicidio), dipendenze; • disturbi del pensiero e delle percezioni: disturbi dissociativi, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi allucinatori e deliranti; • disturbi dell'affettività: depressione, disturbi bipolari, disturbi d'ansia.6 Relativamente alla modalità di manifestazione del disagio, alcuni aspetti formali devono essere presi in considerazione, perché sostanziali per la tempistica e le caratteristiche della presa in carico e necessari per attivare specifiche modalità terapeutiche: l'urgenza e l'emergenza. Martinetti M.G. e Stefanini M.C., Approccio evolutivo alla neuropsichiatria dell'infanzia dell'adolescenza, Seid Editori, Firenze 2005. 6 e Urgenza: situazione critica transitoria con alterazione del pensiero, dell’affettività o del comportamento che il contesto non è in quel momento in grado di contenere, e che richiede un’ intervento rapido e provvedimenti terapeutici immediati. Emergenza: situazioni in cui gli aspetti psicopatologici si associano alle problematiche psicosociali indotte da comportamenti abnormi (mancanza di tutela), connessione con il concetto di urgenza che comporta la necessità di risposta immediata. Situazioni di emergenza-urgenza adolescenziali possono quindi individuarsi sia in periodi di crisi legati a scompenso come rottura dell’equilibrio psicologico, normale o patologico precedente, sia in crisi che si collochino nel processo evolutivo dell’adolescente, rimane comunque necessaria un'adeguata valutazione per la conseguente presa in carico dell'adolescente e della propria famiglia. La valutazione comprenderà: approfondimento psicodiagnostico, valutazione sintomatica con accertamenti medici, valutazione psicofarmacologica, presa in carico ( integrazione se soggetti già in trattamento psicoterapico), valutazione delle risorse ambientali. In media lo scompenso ha una durata di sei-otto settimane, infatti <<...è di per sé iatrogena, in quanto fa sperimentare all'adolescente vissuti di derealizzazione e depersonalizzazione, che si accompagnano ad angosce di frammentazione; il perdurare di questo stato, risulta un'esperienza che minaccia il sé, e induce, anche a distanza, stati di angoscia legati alla possibilità di ricadute, o al perdurare di memorie non elaborate, spesso iscritte a livello fisico>>6. Oltre agli aspetti strettamente sintomatici, la crisi e/o lo scompenso sono valutati anche relativamente allo scacco del processo adolescenziale, nel senso che se l'entrata nel processo adolescenziale è determinata dalla crisi o dallo scompenso, il vettore che fa dirigere verso l'uscita potrà effettuare movimenti diversi: 1) un movimento evolutivo, che permetterà una “progressione” del processo adolescenziale, non dovuta esclusivamente dalle capacità adattative dell'adolescente, ma anche dall'acquisizione delle funzione riflessiva e la 6 ibidem (pag. 319). capacità di differenziare il mondo interno e il mondo esterno da permettere così l'esame di realtà; 2) una situazione di stallo, nel tentativo di mettere in “moratoria” le spinte adolescenziali, creando uno stato di equilibrio instabile, dove ogni movimento progressivo o regressivo, mettono in una situazione di angoscia (annientamento, inglobamento), a meno che non vi sia una scissione, eliminando ogni conflittualità. La difficoltà a rappresentarsi dal punto di vista strutturale e temporale, porta alla messa in atto di scenari fantasmatici, con condotte agite, ma anche con episodi di depersonalizzazione; anoressia mentale e tossicomania sono espressione cliniche di questa condizione; 3) la posizione “regressiva” è caratterizzata da una disattivazione delle problematiche adolescenziali, dove non è percepibile l'elaborazione del lutto, non è percepita angoscia e si può arrivare ad un arresto prematuro del processo adolescenziale perché i movimenti possibili sono controevolutivi. L'adolescente non è capace di fare l'esame di realtà, anche come conseguenza della messa in atto di meccanismi di difesa come la scissione e l'idealizzazione. Nel caso di adolescenti che presentano uno scompenso con le caratteristiche di regressione o di moratoria, con determinati meccanismi di difesa, scissione, diniego e proiezione, <<il pervenire ad un' alleanza e ad un setting individuale si configura come un obbiettivo del percorso terapeutico, che può utilizzare inizialmente uno spazio terapeutico allargato che possa assorbire dirompenze e agiti, richiedendo un periodo di presa in carico in ambiente terapeutico>>7. Risulta importante attivare gli interventi con i servizi territoriali di salute mentale, affinchè la famiglia riprenda possesso dei compiti evolutivi del figlio adolescente e che quest'ultimo possa tornare, almeno in parte, alla quotidianità, confermando le proprie potenzialità evolutive. 7 Ibidem. CAPITOLO 2 L'ADOLESCENTE ODIERNO: DAL DISAGIO A NUOVE PATOLOGIE Introduzione In questo capitolo cercherò di descrivere le varie manifestazioni ansiose dell'età adolescenziale, facendo particolare riferimento alla fobia scolare, la quale non è ancora inserita in una ben precisa classificazione diagnostica, in quanto il manifestarsi di essa non è sempre un disturbo a se stante come nel caso delle fobie specifiche, ma può corrispondere al disturbo d'ansia generalizzato quando l'affrontare la competitività e la valutazione espone a possibili esperienze di frustrazione per l'ideale perfezionistico; oppure al disturbo d'ansia da separazione, quando prevalgono ansie abbandoniche e vissuti catastrofici nell'allontanamento da casa; o a una fobia sociale, dove sono prevalenti gli aspetti di inibizione. In alcuni casi la Fobia scolare è anche una manifestazione di sintomi depressivi nascosti. 2.1. Ansia, angoscia,paura. “L'ansia” è una delle emozioni fondamentali, dunque un'esperienza intrinseca all'esistenza umana, presente nella vita quotidiana di tutte le persone nell'intero arco del ciclo vitale: non rappresenta, quindi, un fenomeno patologico e si manifesta in forme differenti nel corso dello sviluppo. In generale l'ansia è caratterizzata da “un sentimento penoso associato ad un atteggiamento di attesa di un evento imprevisto vissuto come inquietante”. E’ una generale attivazione delle risorse fisiche e mentali rispetto ad una possibile minaccia non immediatamente identificabile. In questo senso l’ansia fisiologica produce l' effetto di ottimizzare le prestazioni individuali favorendo attenzione e concentrazione, le quali contribuiscono alla capacità di risolvere positivamente le incognite presenti in una nuova situazione, con una grande influenza sui processi adattivi. Solitamente la manifestazione dell'ansia viene accompagnata da una serie di sintomi neurovegetativi, con secchezza delle fauci, tachicardia, sudorazione e dilatazione pupillare. “L'angoscia” invece, intesa come sensazione di estremo malessere accompagnata da manifestazioni somatiche neurovegetative e/o viscerali, si differenzia dall'ansia riguardo all'intensità di espressione del fenomeno, in quanto nell'angoscia comporta una sensazione di estremo malessere. Un' ulteriore differenziazione viene effettuata per quanto riguarda “la paura” , che è intesa come una sensazione di forte preoccupazione, di insicurezza, di angoscia, che si avverte in presenza o al pensiero di pericoli reali o immaginari, è legata ad un oggetto o a una precisa situazione, ricollegabile sia a un fatto dell’esperienza sia a un evento nel processo educativo. Indipendentemente dal livello di intensità con cui si può esprimere l'ansia, è importante definire quando la presenza di quest'ultima crea un vero e proprio disturbo. L'ansia è normale quando l'individuo è in grado di esercitare un controllo su di essa, conservando un buon esame di realtà e la capacità di mantenere una posizione attiva, cercando soluzioni funzionali con le quali far fronte alle minacce che causano lo stato ansioso. In questo caso l'individuo può trarre beneficio da questa esperienza e realizzare un adattamento all'ambiente che sia per lui soddisfacente. Una quota d'ansia limitata può essere incanalata in attività socialmente accettate, come attività artistiche, intellettuali e sociali, e rappresentare per l'individuo una fonte di curiosità e anche di creatività. Nei casi in cui l'individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose, l'ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali ed assumere un carattere patologico, determinando vissuti di impotenza e di passività nel controllo delle proprie emozioni. Un criterio differenziale tra la normale reazione d'allarme e l'ansia patologica è rappresentato dal fatto che la prima amplifica le capacità operative del soggetto, mentre la seconda le disturba e influisce negativamente sulle prestazioni. L'ansia normale si distingue dall'ansia patologica anche su una base quantitativa: una condizione ansiosa di elevata intensità può talvolta compromettere il piano sociale e scolastico/lavorativo dell'individuo, causando una grande sofferenza. Quando l'ansia diviene patologica, provoca distorsioni cognitive, come idee ossessive, aspettative catastrofiche ed errori di attribuzione e causa la sovrastimolazione del sistema nervoso e degli organi ad esso collegati. Assume inoltre caratteristiche autoinvalidanti, tramite le quali l'individuo perpetua comportamenti disadattivi per lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dal soggetto stesso come irrazionali e inadeguati. 2.2. 2.2.1. Disturbi Disturbo d'ansia generalizzato Criteri diagnostici DSM-IV: A. Ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva), che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, a riguardo di una quantità di eventi o di attività (come prestazioni lavorative o scolastiche). B. La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione. C. L’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei sei sintomi seguenti (con almeno alcuni sintomi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi 6 mesi). Nota Nei bambini è richiesto solo un item. 1) irrequietezza, o sentirsi tesi o con i nervi a fior di pelle 2) facile affaticabilità 3) difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria 4) irritabilità 5) tensione muscolare 6) alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno o sonno inquieto e insoddisfacente). D. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è limitato alle caratteristiche di un disturbo in Asse I, per es., l’ansia o la preoccupazione non riguardano l’avere un Attacco di Panico (come nel Disturbo di Panico, senza Agorafobia e con Agorafobia), rimanere imbarazzati in pubblico (come nella Fobia sociale), essere contaminati (come nel Disturbo ossessivo compulsivo), essere lontani da casa o dai parenti stretti (come nel Disturbo d’Ansia di Separazione), prendere peso (come nell’Anoressia Nervosa), avere molteplici fastidi fisici (come nel Disturbo di Somatizzazione), o avere una grave malattia (come nell’Ipocondria) e l’ansia e la preoccupazione non si manifestano esclusivamente durante un Disturbo Post-traumatico da Stress. E. L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Questa sindrome è caratteristica negli adolescenti e più rara nell'infanzia. In quest'ultima fascia di età è più facile che prevalga il Disturbo d'ansia di separazione. Negli adolescenti affetti da disturbo d'ansia generalizzato si trova una sintomatologia nel complesso più grave, con un elevato numero di sintomi, una ben visibile manifestazione di sofferenza soggettiva. Inoltre si riscontra una prevalenza maggiore nelle femmine, soprattutto in tarda adolescenza, manifestandosi con preoccupazioni relative ai compiti scolastici o alle prestazioni in generale, un esempio possono essere le prestazioni sportive. Solitamente gli adolescenti affetti da questo disturbo tendono al perfezionismo, che crea tensione, la quale viene risolta o con l'evitamento , oppure con un impegno eccessivo nelle attività. I soggetti che rientrano in questo quadro sono insicuri e tendono a rifare le cose a causa di una scontentezza eccessiva e richiedono eccessiva rassicurazione per le proprie prestazioni e preoccupazioni. Si riscontra una elevata comorbilità con gli altri disturbi d'ansia e con i disturbi depressivi. I vari studi epidemiologici effettuati, mostrano risultati molto differenti sulla prevalenza del disturbo in adolescenza. Una spiegazione potrebbe essere probabilmente dovuta alla specificità del disturbo stesso, alla vasta sintomatologia e all'elevata comorbilità con le altre patologie ansiose e depressive. 2.2.2. Disturbo d'ansia da separazione Criteri diagnostici DSM-IV: A. Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che riguarda la separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato, come evidenziato da tre (o più) dei seguenti elementi: 1) malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o dai principali personaggi di attaccamento o quando essa è anticipata col pensiero 2) persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualche cosa di dannoso 3) persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento spiacevole e imprevisto comporti separazione dai principali personaggi di attaccamento (per es., essere smarrito o essere rapito) 4) persistente riluttanza o rifiuto di andare a scuola o altrove per la paura della separazione 5) persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i principali personaggi di attaccamento a casa, oppure senza adulti significativi in altri ambienti 6) persistente riluttanza o rifiuto di andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi principali di attaccamento o di dormire fuori casa 7) ripetuti incubi sul tema della separazione 8) ripetute lamentele di sintomi fisici (per es., mal di testa, dolori di stomaco, nausea o vomito) quando avviene od è anticipata col pensiero la separazione dai principali personaggi di attaccamento. B. La durata dell’anomalia è di almeno 4 settimane. C. L’esordio è prima dei 18 anni. D. L’anomalia causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, scolastica (lavorativa), o di altre importanti aree del funzionamento. E. L’anomalia non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, di Schizofrenia, o di un altro Disturbo Psicotico e, negli adolescenti e negli adulti, non è meglio attribuibile ad un Disturbo di Panico Con Agorafobia. La caratteristica principale di questo disturbo è l'ansia eccessiva in relazione alla separazione da casa o dalle figure di attaccamento. Intense espressioni d'ansia però possono verificarsi nel normale sviluppo del bambino dai tre mesi ai 6 anni e talvolta possono ripresentarsi anche nella prima adolescenza, diventano però patologiche quando sono persistenti e compromettono il percorso scolastico e la vita sociale e di relazione. Non si denotano distinzioni di sesso nella distribuzione del disturbo e la sua prevalenza in adolescenza è stimata tra il 2,5% e 4%. Se l'esordio avviene in adolescenza, saranno meno frequenti i molteplici incubi sulla separazione, sull'essere rapito e la paura di andare a dormire senza la vicinanza di un genitore. Saranno invece maggiormente presenti il rifiuto di andare a scuola e lamentele somatiche come mal di testa, nausea, dolori allo stomaco, vomito, le quali si presenteranno nei giorni di frequenza scolastica. Data la specificità del disturbo d'ansia da separazione, l'esordio in adolescenza può essere un fattore prognostico negativo, data la compromissione del rendimento scolastico e delle relazioni sociali, ma anche per l'elevata comorbilità con alcuni disturbi depressivi e con gli altri disturbi d'ansia. Spesso la fobia scolare e il disturbo d'ansia da separazione si sovrappongono rendendo difficoltosa la diagnosi differenziale, <<In ogni caso ricordiamo che veri e propri quadri di fobia scolare in adolescenza sono estremamente rari e sintomatologie che rimandano a questa sindrome generalmente appartengono a quadri psicopatologici di maggiore gravità, come, per esempio, esordi depressivi o schizofrenici>>1. 2.2.3. Fobia Sociale Criteri Diagnostici DSM-IV: 1 A. Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante. Nota Nei bambini deve essere evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con persone familiari e l’ansia deve manifestarsi con i coetanei, e non solo nell’interazione con gli adulti. B. L’esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca l’ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione. Nota Nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o con l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari. C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. Nota Nei bambini questa caratteristica può essere assente. D. Le situazioni temute sociali o prestazionali sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio. E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i sociale o prestazionale interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (scolastico) o con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere Ammaniti M., Manuale di psicopatologia dell'adolescenza, Raffello Cortina Editore, Milano 2002 (p. 277) la fobia. F. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi. G. La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale, e non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale (per es., Disturbo di panico con Agorafobia o senza Agorafobia, Disturbo d’Ansia di Separazione, Disturbo da Dismorfismo Corporeo, un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità). H. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale, la paura di cui al Criterio A non è ad essi correlabile, per es., la paura non riguarda la Balbuzie, il tremore nella malattia di Parkinson o il mostrare un comportamento alimentare abnorme nell’Anoressia Nervosa o nella Bulimia Nervosa. Il soggetto teme quindi la possibile umiliazione o l'imbarazzo per la propria reazione ansiosa durante l'esposizione sociale. Per questo disturbo, come per i precedenti, i criteri diagnostici utilizzati per la diagnosi della Fobia Sociale sono quelli utilizzati per gli adulti, fatto salvo delle note riguardanti l'infanzia, fondamentali per definire il disturbo in quella fascia di età: i bambini devono avere capacità relazionali e affettive soddisfacenti con il gruppo dei familiari, avranno invece difficoltà a stabilirne sia con i coetanei che con gli adulti al di fuori dalla famiglia, anche quando il rapporto non è occasionale. In adolescenza determinare quando l'ansia sia patologica o normale non è semplice: molte volte atteggiamenti di timidezza tipici dell'adolescente sono stati confusi con atteggiamenti patologici ed è per questo che si fa riferimento ai criteri diagnostici del DSM-IV per poter effettuare la diagnosi. Si stima che l'età media di insorgenza della Fobia Sociale sia nella prima adolescenza. L'ingresso nella pubertà con tutte le problematiche tipiche di questo periodo può far emergere situazioni già esistenti ma poco riconosciute. Spesso infatti si riscontrano in questi adolescenti comportamenti nell'infanzia, come la mancanza del gioco insieme ai coetanei, rifiuto per la scuola, timidezza esagerata ed evitamento delle attività sociali proprie dell'età: tutti elementi che indicano una continuità del disturbo e un fattore prognostico negativo. Nel caso in cui non vi siano precedenti di questo genere nell'infanzia, la prognosi è più favorevole, perché probabilmente collegata a situazioni, piuttosto che a caratteristiche strutturali della personalità; in questo caso il decorso può migliorare spontaneamente oppure presentarsi solo in modo episodico. Questo disturbo è più frequente nei maschi che nelle femmine e questo sembra dipendere dalla diversità in cui maschi e femmine affrontano la spinta per le nuove esperienze anche dal punto di vista della socializzazione. La depressione è frequente nei comportamenti che l'adolescente sviluppa per alleviare l'ansia sociale, considerata quasi come un' autoterapia; l'uso di alcol e sostanze stupefacenti è molto frequente e con conseguente rischio di dipendenza e poliabuso. 2.2.4. Inibizione Relazionale L'inibizione è un fenomeno che taglia trasversalmente tutti i disturbi d'ansia. Fallimenti scolastici e relazionali spesso sono attribuibili a questo fenomeno. L'inibizione diventa disturbo quando limita l'acquisizione e l'attuazione di possibili competenze. Nell’inibizione relazionale ad essere compromessa è la socializzazione dell’adolescente il quale soffre di un’eccessiva timidezza che lo porta a evitare un gran numero di situazioni e contatti sociali, pur desiderandoli. La vita fantasmatica è spesso molto ricca e vi è il timore che le fantasie possano essere in qualche modo lette dalla persona che ne è oggetto. Si ritiene che la timidezza sia legata al secondo processo di separazioneindividuazione e a una fragilità e labilità dei confini del Sé tipici dello sviluppo pubertario. Si possono infatti osservare tutti i gradi di inibizione e di corrispondente fragilità dei confini del Sé, da quella lieve, in cui i confini sono solamente fonte di dubbio, a quella grave, in cui i confini sono percepiti estremamente fragili e mal definiti portando talvolta al ritiro vero e proprio. 2.3. Fobia Scolare 2.3.1. Descrizione Sebbene la fobia scolare non sia direttamente menzionata all’interno del Manuale diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, capita spesso di confrontarsi con questo disagio. La fobia scolare o “rifiuto ansioso della scuola” descrive quelle situazioni in cui il rifiuto di andare a scuola si accompagna a reazioni molto intense di ansia e panico che presentano un vasto ventaglio di sintomi. Il termine “fobia della scuola2” fu proposto per la prima volta nel 1941, da A. Jonhson e coll. per descrivere <<dei bambini che, per motivi irrazionali, rifiutano di andare a scuola e fanno resistenza con delle reazioni molto intense di ansia o addirittura di panico se si cerca di forzarli ad andarci>>. Il termine “fobia della scuola” divenne subito oggetto di controversie, riguardo al significato fobico del sintomo e all'organizzazione psicopatologica sottostante. Molti autori hanno contestato il termine “fobia”: Bowlby ed altri autori prediligendo espressioni come “angoscia di separazione”; la Klein invece come “distrurbo di panico”; nel DSM-III-R si trovava invece “rifiuto ansioso scolastico” , ma per il DSM-IV alcuni casi di rifiuto della scuola soprattutto in adolescenza, sono attribuibili a Fobia Sociale o a Disturbi dell'umore, piuttosto che ad Ansia da Separazione. Ma come ho già sottolineato all'inizio di questo capitolo, il dibattito sulla classificazione diagnostica della Fobia Scolare è ancora aperto. La distribuzione fra i sessi è leggermente maggiore nei ragazzi: il rapporto maschi-femmine è di 3:2. L'età di insorgenza varia a seconda delle fasce di età: nell'infanzia si avranno picchi tra i cinque e i sette anni, nella preadolescenza fra i dieci e gli undici anni, nell'adolescenza fra i dodici e i quindici anni. In alcuni casi l'insorgenza può manifestarsi alle scuole superiori o addirittura all'inizio dell'università. Per le ragazze l'età di insorgenza potrebbe essere più elevata. Sembra che ci sia un parallelismo fra il valore dato agli studi, sia sul piano 2 Il termine “Fobia della scuola” viene sostituito con i termini “Fobia scolastica” o “Fobia scolare”. In questo elaborato userò il termine “Fobia Scolare”. individuale che su quello familiare, e la frequenza della fobia scolare. 2.3.2. Espressione sintomatica L'espressione sintomatica acuta si manifesta soprattutto nelle vicinanze della scuola: l'adolescente si agita, manifesta angoscia crescente. In alcuni casi il malessere si manifesta solo in classe oppure in determinate lezioni, in altri casi il malessere compare anche in prossimità della scuola o nel tragitto per raggiungerla. Durante il mio tirocinio formativo ho assistito proprio a quest'ultimo caso: insieme alla mia Tutor di tirocinio, l'Educatrice Professionale Manuela Nardi, andammo a prendere a casa una ragazzina di 13 anni (la quale presenta un quadro piuttosto chiaro di fobia scolare) per accompagnarla a scuola come concordato nel progetto educativo di reiserimento scolastico. Proprio in prossimità del cancello della scuola la ragazzina ha avuto una forte crisi di ansia con tachicardia, sudorazione, crisi di pianto, angoscia e ha cercato di scappare. L'educatrice professionale è riuscita a calmarla e dopo rassicurazioni sul fatto che nessun professore avrebbe potuto interrogarla perché risultava ritirata e avrebbe comunque fatto l'esame da privatista, promettendole che l'avremmo accompagnata fino in classe, la ragazzina è riuscita ad entrare nel cancello della scuola. Il giorno successivo però non si è presentata all'appuntamento con l'educatrice che avrebbe dovuto accompagnarla di nuovo a scuola. Se l'adolescente viene forzato nell'ingresso a scuola appaiono manifestazioni più intense: crisi, violenza, agitazione e fuga. Nei rari casi in cui l'adolescente si lascia convincere, come nel caso sopra citato, le crisi d'angoscia ricompariranno al minimo rimprovero o alla prima discussione, anche con un compagno. Le crisi di angoscia che non permettono all'adolescente di entrare in classe, possono essere giustificate: per il terrore di una possibile interrogazione, per la semplice paura che il professore gli chieda di leggere in classe ad alta voce, per il poco interessamento agli insegnamenti scolastici accompagnato comunque da angoscia, o ancora per la paura di frequentare i coetanei per il terrore di essere rifiutato o di essere deriso. In alcuni casi la fobia scolare resta un fattore isolato; in queste situazioni l'adolescente risulta adeguato negli altri ambiti: riesce ad uscire, mantiene relazioni con i pari, le attività sportive e le attività artistiche o culturali. Nella gran parte dei casi si presentano altri sintomi: altre manifestazioni di tipo ansioso come l'agorafobia, ansia da separazioni da almeno uno dei genitori, fobia dei mezzi pubblici e fobia sociale e più queste manifestazioni sono intense più l'adolescente si limiterà a vivere all'interno del proprio ambiente familiare. Nel contesto domestico, più l'adolescente è pauroso, sottomesso, chiuso nel guscio familiare, più potrà divenire pretenzioso, iracondo, tirannico e anche aggressivo nei confronti dei familiari: può diventare violento verso un fratello o un genitore che cercherà di comandare nelle azioni quotidiane. Sembra quasi che l'adolescente voglia impossessarsi della vita familiare, la vuole comandare come un dittatore, quasi come rivalsa su ciò che non riesce a fare nella vita extrafamiliare, che non riesce a comandare e controllare; sintomi depressivi come crisi di pianto con idee tristi persistenti, autodisprezzo, scarsa autostima, autosvalutazione, idee suicidarie che quasi mai vengono messe in atto, idee di morte, indifferenza, chiusura in se stessi, ritiro sociale, disinteresse anche per le attività in cui solitamente investiva, disturbi del sonno soprattutto nell'addormentamento e nel risveglio notturno, alterazione del ritmo sonno-veglia, disturbi dell'alimentazione con condotte bulimiche o anoressiche, o perdita dell'appetito. Alcuni autori parlano di “depressione mascherata” riguardo alle manifestazioni sintomatiche di tipo depressivo presenti nei soggetti affetti da fobia scolare, come se la fobia scolare fosse <<...una facciata piuttosto fragile che lascia facilmente trasparire i sintomi depressivi e la problematica depressiva sottostante>>3. Ci sono casi nei quali l'adolescente non manifesta nessun sintomo depressivo e il disturbo sembra isolato alla sola scuola; molte volte però anche in questo casi, durante gli incontri psicoterapici o educativi, emergono degli aspetti depressivi. Alcune difficoltà nell'infanzia possono risultare un fattore prognostico negativo nella manifestazione della fobia scolare in adolescenza: problemi scolastici come angoscia da separazione eccessiva all'ingresso della scuola materna o elementare, 3 Ammaniti M. e Novelletto A.(a cura di), Adolescenza e psicopatologia, Masson, Milano 1999 (5° edizione) (p.408). innumerevoli assenze durante l'anno scolastico aldilà della motivazione; disturbi dell'alimentazione come l'anoressia, o del sonno (sonnambulismo, parasonnie, rifiuto di andare a dormire); problematiche relative alle separazioni, solitamente riguardanti separazioni dei genitori, malattie gravi dei genitori o del bambino tale da richiederne il ricovero, decesso dei genitori. Difficilmente si tratta di separazioni positive come gite scolastiche, vacanze da amici, soggiorni estivi ecc.. Importante è differenziare la fobia scolare dal disinteresse o disinvestimento scolastico: l'adolescente con disinteresse per la scuola, non interrompe la frequenza scolastica (almeno inizialmente), né tanto meno ha sentimenti di angoscia. Anche il rifiuto scolastico può essere frainteso e considerato fobia scolare. In realtà il rifiuto scolastico deriva da una mancanza di interesse e di curiosità per gli insegnamenti, con una conseguente interruzione scolastica, denominata da processi di delusione sia da parte dello studente che da parte della scuola (emarginazione, esclusione sociale). 2.3.3. Approccio psicopatologico Secondo Marcelli e Braconnier4 la fobia della scuola sembra essere una condotta sovradeterminata che trova le sue origini a più livelli dell'organizzazione strutturale. Un primo livello si riferisce alla sintomatologia fobica, in quanto lo spostamento dell'angoscia sulla scuola, lascia l'adolescente libero dall'angoscia nelle altre situazioni. Questa angoscia può anche essere legata alla problematica edipica: ad un primo livello alla paura dell'insuccesso, o più indirettamente alla paura per la nascita di una relazione affettiva; ad un secondo livello si può cogliere nelle fobie scolastiche un profondo conflitto fra aggressività e senso di colpa nei confronti dei genitori, legato al desiderio di autonomia proprio del processo adolescenziale e alle corrispondenti preoccupazioni inconsce di restare soli e senza protezione (quindi esposti a pericoli) o ferire i genitori con un abbandono che potrebbe provocargli morte o invecchiamento. Questa ambivalenza verso le figure genitoriali è messa in luce anche dai 4 Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Psicopatologia dell'adolescente, Masson, Milano 1983. comportamenti aggressivi all'interno della famiglia, che si presentano in concomitanza con la comparsa della fobia scolare: crisi di violenza verso oggetti e verso i genitori, soprattutto dell'adolescente maschio verso la madre. In adolescenza è nota l'importanza del gruppo dei pari, e il loro ruolo nella costituzione dell'ideale gruppale, ideale di transizione tra l'Ideale dell'Io del bambino e quello del futuro adulto. Per alcuni degli adolescenti con fobia scolare sembra fondamentale evitare il confronto con il gruppo dei pari, perché esso evidenzia in modo spietato il legame estremo di dipendenza con i propri genitori. Questi adolescenti hanno relazioni strette con un amico che non appartiene al gruppo classe, il più delle volte è un compagno conosciuto nelle classi precedenti e questo lo si ritrova soprattutto nei maschi. Il significato di questa amicizia è da ricercare nell'ambito del legame con il genitore dello stesso sesso, e rappresenta un primo tentativo di distaccarsi dal legame edipico positivo appoggiandosi su un legame edipico negativo. Le dinamiche familiari delle famiglie di adolescenti con fobia scolare hanno caratteristiche peculiari. I padri sono spesso persone assenti o decadute dalla loro funzione paterna. È frequente il loro allontanamento dalla famiglia a causa di divorzio o separazione, oppure per questioni legate al tipo di lavoro svolto. Invece se i padri sono presenti, molto spesso sono svalorizzati dalla madre, oppure malati o invalidi. Molto spesso soffrono di depressione e di ansia cronica con tratti nevrotici evidenti. Il ragazzo adolescente non si identifica in suo padre in modo sufficientemente solido da utilizzare tale relazione edipica per compensare la pesante influenza della relazione con la madre e cercare di liberarsi da essa. Le madri sono spesso eccessivamente ansiose e in alcuni casi con tratti di personalità nevrotici. Nella relazione madre-bambino si instaura un precoce legame di interdipendenza, ma non è chiaro chi sia il primo ad instaurarlo. Nelle madri di figli con fobia scolare è molto frequente una sindrome depressiva più o meno cronica. Questo genera un senso di colpa nell'adolescente che desidera l'autonomia, ma che si sente, e viene fatto sentire dalla famiglia, il responsabile dell'accudimento della madre malata. Questa situazione familiare è molto frequente e dà significato alla manifestazione dei disturbi in adolescenza e alla loro progressiva fissazione. <<...la fobia della scuola in adolescenza giustifica la relativa diversità delle organizzazioni psicopatologiche sottostanti che sono state chiamate in causa. Tuttavia essa frena ed ostacola i naturali processi evolutivi spiegando la prognosi sociale sfavorevole>>.5 2.3.4. Presa in carico ed evoluzione Il trattamento di questo disturbo è senza dubbio problematico. Necessita di una collaborazione multiprofessionale: neuropsichiatra, psicologo ed educatore professionale sono le principali figure professionali che devono intervenire nella valutazione e nel trattamento, altre figure professionali possono essere integrate a seconda dei casi. Il trattamento richiede tempo, e proprio per questo motivo molte volte i genitori tendono a rinunciare se non vedono cambiamenti repentini. Molto spesso la compliance è negata dall'adolescente, sia per lo stesso motivo che porta i genitori a rinunciare e sia perché allontanamenti da casa, per esempio per la comunità terapeutica, non sono accettati. Spesso anche l'inserimento scolastico graduale, concordato fra adolescente ed educatore, non va a buon fine: in molti casi i pazienti non si presentano all'appuntamento, si negano al telefono e si rinchiudono nella propria stanza. La richiesta terapeutica dei genitori è spesso collegata alla sola risoluzione dei sintomi sia che si tratti di fobia scolare o comportamenti ad essa correlati. La dimensione dei sintomi depressivi è solitamente l'unica sulla quale è possibile lavorare, ma solo se i sintomi sono osservabili. La terapia con farmaci antidepressivi o con farmaci che controllino l'ansia può essere una possibile soluzione, ma associata ad una terapia individuale psicoterapica, educativa o cognitivo-comportamentale. Il ritorno a scuola può essere graduale e concordato, nei tempi e nelle modalità, 5 Ammaniti M. e Novelletto A.(a cura di), Adolescenza e psicopatologia, Masson, Milano 1999 (5° edizione) (pag.414). con l'adolescente, i genitori e il personale scolastico. Il ritorno a scuola è comunque più raro negli adolescenti che nei bambini. Fattori prognostici positivi per un possibile ritorno a scuola sembrano essere: essere figlio unico o mediano, essere un maschio preadolescente, aver avuto separazioni nell'infanzia, non aver avuto problemi nell'inserimento alla scuola materna o elementare. Fattori prognostici negativi invece sembrano essere: essere una femmina adolescente, ultima di due o più figli, non aver vissuto separazioni nell'infanzia, aver avuto problemi di separazione all'inserimento alla scuola materna o elementare. Questi fattori indicano una possibile evoluzione in disturbi psicopatici, ritiro o isolamento. Molto frequente può essere una sindrome borderline. In alcuni casi la fobia scolare può rappresentare l'inizio di un ritiro sociale che può prendere le forme della cosiddetta sindrome giapponese di Hikikomori, che tratterò in modo dettagliato nel prossimo capitolo. Il caso del Giappone, dove il ritiro dalla scuola dovuto ad un “rifiuto scolastico ansioso”, è esemplare riguardo alla problematica sociale della eccessiva valorizzazione degli studi da parte della società e della famiglia. È noto infatti il peso competitivo del sistema scolastico giapponese. I fattori scatenanti sembrano essere: traslochi con cambio di sede scolastica, cambiamento del ciclo di studi, non riuscire a soddisfare le aspettative dei genitori ed il bullismo. CAPITOLO 3 HIKIKOMORI: dal Giappone all'Italia? 3.1. Che cosa vuol dire Hikikomori? La parola hikikomori in Giappone è una parola che spaventa. È considerata <<...come una malattia incurabile che colpisce senza motivo e quando arriva contagia lentamente tutta la famiglia rovinandone l'esistenza>>6. La parola hikikomori fu coniata da Saito Tamaki7, psichiatra giapponese, che negli anni ottanta, individuò un numero sempre maggiore di casi di ragazzi che per una forma di fobia scolare o apatia verso la scuola, tagliavano tutte le comunicazioni con il mondo sociale e si ritiravano nella propria stanza, rimanendovi per lunghi periodi senza quasi mai uscire. Come criterio diagnostico per definire lo stato di hikikomori, fu indicato un periodo minimo di reclusione volontaria nella propria stanza per almeno sei mesi; anche se dopo poco si resero conto che il periodo di ritiro durava anche per anni. Molti dei giovani affetti da hikikomori condividono alcuni aspetti patologici con chi soffre di taijin kyofusho. Questa patologia consiste fondamentalmente nel mostrare un sentimento di vergogna e forte timidezza alla presenza degli altri. I dati riportano che a fare hikikomori siano circa un milione di adolescenti, circa 1% della popolazione, e che il 90% sia di sesso maschile. Il ceto sociale di questi adolescenti è solitamente medio-alto, vale a dire il padre laureato con posizione dirigenziale e madre anch'essa laureata, solitamente casalinga. Le ragazze in hikikomori sono solo il 10%. La chiusura in un mondo senza 6 7 Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008. Tamaki Saito è nato nel 1961 a Iwate, si è laureato in medicina all'Università di Tsukuba specializzandosi in psichiatria adolescenziale. E' da anni impegnato nell'assistenza e nel trattamento di hikikomori, in tale ambito è uno degli esperti più qualificati. Attualmente è Direttore Clinico del Sofukai Sasaki Hospital, una clinica privata di Chiba, non lontano da Tokyo; ha pubblicato saggi di successo in ambito psicoanalitico, letterario, su tematiche culturali e sociali, sull'arte moderna. Le frequenti apparizioni televisive e il coinvolgimento verso forme culturali d'avanguardia hanno contribuito ad accrescere la sua fama in Giappone e nel mondo. emozioni è propria del mondo maschile, così come tutti gli altri disturbi rispetto alla fobia degli altri. Le ragazze in hikikomori non raggiungono un rifiuto totale, non necessitano di una forma così estrema, solitamente infatti le forme di disagio nelle adolescenti sono manifestate con anoressia e bulimia (il 2% delle ragazze che frequentano le scuole superiori). Le ragioni per cui le ragazze praticano hikikomori non sono le stesse dei ragazzi, loro non sono esasperate dalla pressione sociale, ma piuttosto si sentono sole e isolate. Un dato che mi sembra giusto sottolineare è che hikikomori non avviene in famiglie con genitori separati o divorziati, o dove il padre vive all'estero per trasferimento lavorativo, in giapponese tannshinfunin, ma si presenta in famiglie con contesti normali. Solitamente chi pratica hikikomori è figlio unico o il figlio maschio maggiore, investito dalla tradizione culturale, di grosse responsabilità rispetto alla famiglia. Il termine hikikomori significa ritirarsi, isolarsi, chiudersi; Tamaki Saito ha tradotto il termine in inglese in sociale withdrawal, che significa “ritiro sociale”, una volontaria reclusione, le cui cause sono da ritrovare nel sistema sociale e familiare. Carla Ricci, laureata in antropologia culturale ed etnologia, che da anni svolge ricerca sul campo in Giappone dove si è specializzata in tematiche psico-sociali portando a compimento diversi lavori sul disagio giovanile tra cui l'hikikomori, nel suo libro “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”, si pone l'obbiettivo di dimostrare che la principale causa attribuita all'hikikomori, il ritiro scolastico appunto, non sia la vera causa per l'instaurarsi del fenomeno, ma che essa rappresenti solo un piccolo tassello in un contesto di sofferenza molto più ampio, di cui l'apparato sociale ne detiene la massima responsabilità e all'interno del quale l'adolescente giapponese non sa come muoversi. Questi adolescenti vengono considerati dall'opinione pubblica come dei malati, al contrario di quello che invece sostengono i medici. È considerata una malattia perché non è concepibile che una persona in buona salute voglia allontanarsi dalla società e soprattutto dalla propria famiglia. In Giappone la separazione della famiglia è un concetto nuovo, basti pensare alla divisione fisica della casa: fino a pochi anni fa, ma in alcune case tuttora, non esistevano le porte per dividere le stanze, ma solo scorrevoli di carta di riso, per trasformare l'ambiente da zona giorno in zona notte. Nei casi in cui questi adolescenti non vengono considerati malati, vengono etichettati come viziati, senza senso del dovere, di rilevata importanza nel sistema giapponese. Questa etichetta viene data anche ad altre tipologie di adolescenti: i Neet e i Freeter. I Neet, “Not in Employment, Education or Training”, sono quei giovani che non studiano, non lavorano, non hanno qualifiche professionale. Non fanno sport, non vanno al cinema, non leggono un libro. Dormono a lungo, vivono a casa dei genitori e da essi sono mantenuti. Amano la comunicazione all'interno dei loro gruppi ed utilizzano internet e cellulare. Il loro modo di rifiutare il sistema è attraverso il “fare nulla”. L'espressione è stata utilizzata per la prima volta dal governo della Granbretagna, che stimava, in termini di costi, l'immobilismo dei suoi giovani. Il gruppo dei Neet racchiudeva ragazzi, che non lavoravano e non studiavano, fra i sedici e i ventiquattro anni. Il fenomeno ha iniziato a girare per il mondo e a prendere etichette diverse. In Francia si chiamano Nènè, in Spagna NiNi, in America anche se con un accezione un po' diversa, sono i Twixter, termine che descrive il giovane intrappolato fra l'adolescenza e la giovinezza, in Giappone viene tradotto in modo meno celato in “single parassita”. E in Italia? La situazione è preoccupante. Sono 2 milioni e 100 mila i giovani italiani (tra i 15 e 29 anni) a vivere da Neet, tradotto dai sociologi italiani come “nullafacenti”. Rappresentano il 22,1 per cento dei giovani italiani.<<Colpa dello scenario economico, certo: ma non solo. E così, da scettici e disincantati, i giovani si trasformano in fannulloni>>. 8 I Freeter invece sono quei giovani che non vogliono un posto di lavoro fisso, non vogliono entrare in una classica azienda giapponese con ruoli fissi e divisi per categorie, vogliono invece lavori part-time per mantenersi, anche in molti casi anch'essi sono aiutati dalla famiglia. Questi due espressioni di disagio si discostano molto dall'hikikomori, perché 8 Minardi S., Vita da Neet, in <<L'Espresso>>, 14/07/2011, (pp.136-141). quest'ultimi praticano un ritiro totale, quasi fino all'auto-annientamento. Sono visti con maggiore disprezzo dalla società rispetto ai primi, perché chiudono il rapporto con essa, negano la comunicazione. Come se fossero un elemento di disturbo all'interno della società tanto legata al gruppo sociale. I primi elementi che si possono rilevare riguardo all' hikikomori sono: • non è una malattia a se stante; • il periodo minimo per definire un adolescente in hikikomori è di almeno 6 mesi di ritiro sociale; • al momento in cui il ragazzo inizia l'hikikomori non risulta affetto da nessuna malattia mentale, ritardo mentale e altre patologie mediche. Questi elementi sono stati estrapolati da un lavoro effettuato da un gruppo di ricerca istituito nel 2003 dal Ministero della Salute, al seguito di tre omicidi commessi da persone che si sono dichiarate in hikikomori. Da qui l'ulteriore disprezzo dell'hikikomori da parte della società. 3.2. Non è una malattia ma produce malattia Il ritiro in hikikomori avviene il più delle volte dopo un periodo più o meno prolungato di assenza scolastica. Secondo i dati raccolti da Tamaki Saito, circa il 90% di ragazzi in hikikomori ha praticato l'assenza scolastica, di questo 90%, il 6% l' ha protratta per più di tre mesi. Non è sempre chiaro definire le ragioni di questa assenza prolungata. In alcuni casi tutto inizia da una bocciatura o dall'abbassamento del rendimento scolastico. Il sistema scolastico giapponese è famoso per la sua severità. Gli esami di accesso alle scuole superiori o all'università sono molto difficili e richiedono molti mesi di preparazione, con un impegno giornaliero di dieci o più ore. La tensione che si crea nel ragazzo è molto intensa e i casi di suicidio non sono rari se l'esito dell'esame è negativo. Ma un altro fenomeno che riconduce all'assenza scolastica è ijime, ovvero il bullismo scolastico. Il fenomeno è strettamente collegato al rendimento scolastico: per i ragazzi che hanno carenze scolastiche o sono più indietro rispetto al resto della classe è molto più facile che subiscano ijime. Il fenomeno in Giappone ha preso dimensioni considerevoli e sta destando innumerevoli preoccupazioni. Molti bambini si suicidano perché non sopportano l'esclusione dal gruppo, invece in hikikomori non si sceglie di morire, ma si rifiuta tutto ciò che provoca la sofferenza. Hikikomori non è una malattia, la malattia si manifesta quando la reclusione si prolunga in modo eccessivo. Ci sono anche casi in cui la fobia sociale oltre a presentarsi dopo il ritiro, sia già presente prima. Sintomi certi di una precedente fobia sociale possono essere per esempio queste espressioni solitamente usate dai ragazzi: se vedo persone in divisa avverto una grande ansia, se mi mischio ad altre persone finisco per rovinare l'atmosfera, non ho mai niente di interessante da dire, dato che il mio corpo puzza do sicuramente fastidio agli altri. In Giappone è una patologia dalla quale sono affetti quasi esclusivamente adolescenti e adulti maschi, riconducibile ad alcuni precisi aspetti della cultura nipponica, uno di questi è lo stato d'animo della timidezza, parola che viene usata anche per descrivere la vergogna. Sembra quindi che ragazzi particolarmente timidi siano più a rischio di hikikomori, <<...manca però una chiave di accesso che sembra rappresentato da una sorta di narcisismo derivato da una forma di immaturità, che porta gli uomini a sentirsi feriti nell'orgoglio anche rispetto a situazioni che, in uno stato emotivo normale risulterebbero sopportabili; la timidezza si amplifica così in vergogna da cui prende corpo la paura verso gli altri>>9. Di seguito citerò due casi di ragazzi hikikomori dal libro “Ritiro sociale”di Saito T., tradotti in italiano da Carla Ricci nel libro “Hikikomori adolescenti in volontaria reclusione”10. 1° caso: giovane, 29 anni. Si era dimostrato debole sia da ragazzino. Nella scuola media partecipava alle attività sportive solo parzialmente e preferiva, potendo, stare da solo. Aveva 9 10 Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008 (pag 29) Ibidem (pag 29-30). momenti in cui rifiutava il padre, poi ritornava normale, almeno apparentemente. Nella scuola superiore c'erano stati episodi in cui si era ubriacato ed era stato violento. Dopo la laurea, aveva trovato un lavoro ma dopo un mese lo aveva lasciato; aveva avuto altre esperienze lavorative ma in tutte aveva proseguito solo per qualche mese. Quando interrompeva il lavoro, non diceva niente a nessuno, spariva senza preavviso e non si presentava più. Dopo questi tentativi falliti, la sua vita è continuata segregata in camera come hikikomori. Nel mese di maggio, all'età di 26 anni si è tagliato i polsi. Da allora ha fatto avanti ed indietro all'ospedale psichiatrico. Successivamente in casa il suo comportamento è diventato violento ed il medico che lo ha in cura riferisce che la situazione è sempre a rischio. Anche ora fa hikikomori e continua a vivere in uno stato di inattività. 2° caso: giovane, 24 anni. Già dall'adolescenza, aveva dimostrato di essere timido, problematico e nervoso. Alle scuole superiori, una compagna di classe si lamentò del suo cattivo odore. Come risultato diventò paranoico rispetto all'odore del suo corpo e cominciò ad avere difficoltà con la scuola che dopo un anno abbandonò. Dopodichè, seppur con molte difficoltà interpersonali, si cimentò in molti lavori che regolarmente lasciava dopo un mese. Cominciò così gradualmente a ritirarsi dalle attività sociali. Trascorreva tutto il tempo nella sua stanza. Smise di aver paura del suo odore, ma si sviluppò in lui la patologia di mysophobia e divenne evidente la sua compulsione a lavarsi. Questo stato di ritiro sociale durò per oltre 4 anni, fino a quando il ragazzo insieme ai suoi genitori venne in ospedale per un trattamento. Durante il passare del tempo rinchiusi nella propria stanza, i ragazzi sono invasi da una incolmabile tristezza, che all'apparenza può sembrare anche pigrizia, ma se così fosse con il passare del tempo proverebbero noia, ma i ragazzi hikikomori non sono annoiati, sono piuttosto avvolti in una profonda inquietudine. Riconoscono che <<...il loro comportamento è egoistico e troppo dipendente dai loro genitori, sanno che dovrebbero lasciare la loro stanza e ritornare a scuola o cercarsi un lavoro, tuttavia continuano hikikomori>>11. Durante lo stato di hikikomori i ragazzi perdono la nozione del tempo, poiché non è scandito da nessun avvenimento e varie possono essere le conseguenze: c'è chi 11 Saito T., Tr. Ritiro sociale, PHP Shinsho, Tokyo 1998. si fissa di avere un brutto volto e vuole sottoporsi alla chirurgia plastica obbligando i genitori ad occuparsi di tutto, ma il più delle volte non sono soddisfatti del risultato e la reclusione continua; altri diventano ossessivi riguardo all'igiene personale, si lavano talmente tante volte le mani fino ad arrivare ad uno stato di abrasione tale da sembrare senza pelle, spesso obbligano la madre ad occuparsi di questi azioni di pulizia ossessive e se si rifiuta molte volte passano alla violenza. Comune a quasi tutti (81%) è l'inversione del ritmo sonno-veglia con conseguenze biologiche per la non esposizione alla luce solare, e conseguenze psicologiche nel sentirsi inferiore perché, mentre di giorno tutti sono a scuola o al lavoro, lui dorme ed è inattivo. In alcuni casi si assiste ad una regressione infantile abbastanza invasiva: emettono la voce da bambino, cercano la madre, la vogliono toccare; la madre non impedendo questo atteggiamento non fa altro che peggiorare le cose. Vista la regressione come un desiderio infantile di possesso, viene spesso legata alla violenza domestica, in Giappone intesa come la violenza del figlio verso i genitori, soprattutto la madre. Questo fenomeno è molto frequente e difficile da gestire, in quanto crea un sentimento di paura in tutta la famiglia. Il figlio con questo comportamento vuole esprimere il suo risentimento verso i genitori, dando a loro la colpa del dolore da cui non riesce a liberarsi. Un desiderio di morte o una pianificazione del suicidio sono presenti circa nel 46% dei casi, in realtà il suicidio non viene quasi mai realizzato: <<il ragazzo in hikikomori vuole vivere, ma non sa come>>12. Quello che emerge dalla testimonianze di ex hikikomori è che non sanno quello che gli sta accadendo, loro si sentono solo stanchi. In realtà i veri conflitti che vivono sono: quello di non essere capace più di uscire di lì anche se lo desideravano; quello di sentirsi in colpa per non essere stati attivi socialmente; quello di sentirsi soli per aver perso tutti gli amici; quello di sentirsi dimenticati e non capiti dagli altri. I ragazzi in hikikomori hanno un alto quoziente intellettivo, hanno un' alta capacità di memorizzazione, ma quello che gli manca è un pensiero 12 Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008 (pag. 32). forte, critico, di esprimere un opinione personale, senza aver paura che sia sbagliata o non adatta a chi si ha davanti. 3.3. Scuole speciali In Giappone sono nate numerose scuole “alternative” per far fronte alla richiesta di numerosi genitori di studenti ritirati dalle scuole tradizionali, perché bocciati o vittime di bullismo. Queste scuole chiamate free space o free school, sono circa 300 e svolgono programmi didattici come le normali scuole. Non è però previsto un programma di recupero per ragazzi in hikikomori, cosa che invece avviene al Free space wood “Fsw” . È la madre che, quando ritiene che il figlio sia pronto per uscire dalla propria stanza, contatta il Centro. Dopo che è stato concordato il percorso terapeutico, il responsabile del Centro inizierà a fare delle visite quotidiane alla famiglia. Molto probabilmente per i primi sei mesi, avrà colloqui esclusivamente con la madre, dopo questo periodo è probabile che il ragazzo sia disposto ad uscire dalla sua camera. Dopo un periodo in media di circa tre mesi, ma anche questo è molto soggettivo, il ragazzo può decidere di voler uscire di casa e iniziare a frequentare il Centro. Il percorso riabilitativo può durare mesi e in alcuni casi anni. Inizialmente il ragazzo cercherà di isolarsi il più possibile e per questo motivo avrà a disposizione una stanza tutta per se. Nei momenti di incontro con gli altri ragazzi nella sua stessa condizione, cercherà comunque di isolarsi e di essere il meno visibile possibile. È probabile che dopo qualche settimana inizi a scambiare qualche parola ed ad ascoltare musica, successivamente può provare anche il desiderio di partecipare ad attività sportive e quando il percorso riabilitativo inizierà ad avere un discreto successo, l'obbiettivo sarà quello di aiutarlo ad avere la licenza per iniziare qualche lavoretto part-time. Una delle principali caratteristiche del centro è la mancanza di categorizzazioni: non c'è la distinzione di ruoli in modo gerarchico, non c'è la definizione di chi si è e delle cose che si devono fare. Questo perché in Giappone la differenziazione in categorie è un elemento principale dell'organizzazione della società: tutti appartengono ad una categoria. Un esempio lampante si ha quando ci di deve presentare ad un altra persona: non si inizia con il nome ma con la posizione sociale che si riveste, ha la funzione di status symbol ed indica il livello di rispetto che le persone sono tenute a dare. Un altro esempio che per la nostra cultura occidentale non è concepibile è di non chiamarsi per nome in famiglia. Marito e moglie si chiameranno okasan e otosan cioè madre e padre e i figli fra di loro onisan, ototo, onesan, imoto cioè fratello maggiore, fratello minore, sorella maggiore, sorella minore. Al Centro Fsw non ci sono categorizzazioni e questo porta un effetto positivo ai ragazzi. Anche lo staff non si differenzia dai ragazzi, nessuna divisa, sono tutti uguali, nessun appellativo e nessun distintivo di riconoscimento. Nessun chiede al nuovo arrivato il proprio passato. Nel Centro non ci sono programmi scolastici da seguire e neppure programmi per le altre attività, questo all'inizio destabilizza i ragazzi, ma con il passare del tempo saranno loro ad organizzare le proprie attività e a darsi delle regole, che rispetteranno nella maggior parte dei casi. Il problema sorge quando i ragazzi devono riaffacciarsi alla società, perché quello che succede nel Centro non si verifica nella realtà sociale, è un grande limite, perché la società giapponese richiede di appartenere ad una categoria e gli stessi ragazzi vorrebbero appartenere ad una categoria ma sentono di non avere una grande autostima. 3.4. La dipendenza dalla madre Un problema nel trattamento di ragazzi in hikikomori è la presa di coscienza da parte della famiglia. Nel momento in cui la famiglia si accorge dei problemi del figlio, dovrebbe chiedere subito l'intervento di un medico, in questo modo le cose prenderebbero una strada differente e l'auto-reclusione del figlio nella propria stanza si risolverebbe in tempi più brevi. Ma i motivi per cui questo non accade sono molteplici. Il giovane che sta male trova rifugio nella propria casa, nella propria famiglia, come in un guscio protettivo: <<fuori si combatte, in casa ci si ripara>> 13. Prima di descrivere il ruolo della madre negli adolescenti in hikikomori, voglio spendere due parole per la profonda distinzione fra ciò che è dentro e fra ciò che è fuori nella società nipponica. I giapponesi mantengono una netta divisione fra chi è dentro e chi è fuori dagli specifici rapporti di famiglia e di gruppo. Riempiono di attenzioni chi è uchi, cioè chi è dentro, e ignorano chi è soto, cioè fuori, in quanto estraneo. La convinzione occidentale che tutti debbano essere considerati nello stesso modo, che siano uchi o soto, all'interno o all'esterno della “rete”, sembra strana per gran parte dei giapponesi. È come se avessero un doppio registro psichico: uno per il mondo esterno, l'altro riservato alle persone con cui sono in confidenza. I giapponesi riconoscono l'esistenza di una faccia pubblica, tatemae, visibile quando si parla in modo formale, oppure con degli estranei. Una persona esprime i propri sentimenti autentici, honne, solo tra gli amici più stretti, oppure davanti a un bicchiere di sakè. La vita è così divisa in due ambiti: uchi e soto, due confini fra i quali desiderano mantenere le distanze privilegiando naturalmente uchi. Un segno che esprime l'importanza data al significato di uchi è per esempio, il togliersi sempre le scarpe ogni volta in cui si entra in una casa o in ambiente di incontro. La dicotomia dentro-fuori, dentro/pulito-fuori/sporco o dentro/sicurofuori/pericoloso, è in stretto collegamento fra chi fa hikikomori che starà soltanto uchi/dentro. Quando il giovane inizia il ritiro, la madre lo asseconda, lo lascia in pace, gli fa solo qualche domanda nella speranza che tutto torni normale il prima possibile; il padre è assente, la cosa importante per quest'ultimo è il lavoro per poter mantenere la famiglia. Il ritiro con il passare del tempo diventa totale, anche se oscilla fra fasi di dipendenza e di aggressività verso i fratelli, ma sopratutto verso la madre. Ed è con la madre che instaura un rapporto quasi morboso di dipendenza e malsano, fino ad arrivare come ho già detto, anche a casi di regressione infantile. È quando picchia i fratelli e la madre che la famiglia esasperata prende la 13 Sagliocco G. ( a cura di), Hikikomori e Adolescenza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011. decisione di chiamare il medico. In alcuni casi limite, con ragazzi in hikikomori di età superiore, il resto della famiglia è addirittura costretto a cambiare casa e le minacce di morte da parte del figlio, sopratutto verso la madre, non sono rare. In generale il rapporto madre e figlio si fortifica attraverso amae. Letteralmente significa “dolcezza”, ma sottointende “una dolce dipendenza”. In tutto il mondo il rapporto che si instaura fra la madre e il bambino appena nato è simbiotico, ma in Giappone questo legame spesso non finisce mai. Un esempio lampante può essere che in Giappone i bambini fino a circa dieci anni dormono nel letto con i genitori, hanno la loro camera ma la usano solo per studiare. In occidente invece si fa di tutto per abituare il prima possibile il bambino a dormire nella propria stanza. Il comportamento della madre verso il bambino è di completa dedizione e il bambino nella crescita acquisterà la consapevolezza della bontà della madre e di quanto si sia sacrificata per lui, e non potrà sentire altro che un sentimento di obbligo che verrà poi trasferito in tutte le relazioni sociali e durerà per tutta la vita. Si pensi che in Giappone il fatto che un giovane rimanga a vivere in famiglia anche fino a trenta-trentacinque anni non è un valore negativo, ma bensì un sentimento di devozione filiale. Secondo Carla Ricci questa relazione fondata su amae, anche se in Giappone è considerata una prassi, prende altri risvolti: la madre fa troppo la madre e non fa per niente la moglie. La madre giapponese del ventunesimo secolo, sembra però incontrare alcune difficoltà dovute all'assenza del padre, alla frequenza del figlio ad un regime scolastico molto rigido e ad un forte sentimento di solitudine. Come conseguenza la madre tende a iperproteggere il figlio, molto spesso idealizzato e sul quale ha proiettato un certo grado di aspettative. 3.5. La violenza simbolica del padre che non c'è Il mondo maschile in Giappone è un mondo a parte. La crisi economica, con la conseguente paura di perdere il posto di lavoro e la competitività, hanno creato una condizione del mondo maschile al di fuori della norma: le amicizie si limitano a quelle fatte in ambito lavorativo così come gli argomenti di cui parlare, nessuna o quasi attività extra-lavorativa perché la stanchezza dopo il lavoro è tale da non permetterla. In famiglia tutti i compiti sono effettuati dalla moglie, addirittura il marito trasferisce integralmente il suo stipendio alla moglie la quale avrà il compito di amministrare tutte le spese relative alla casa e alla famiglia. Di conseguenza il marito non sa niente riguardo alla famiglia e quando è in casa diventa quasi un ingombro. C'è un modo per chiamare i mariti che nel fine settimana stanno a poltrire per casa: “una grande immondizia”. Il numero dei divorzi in Giappone negli ultimi 25 anni è raddoppiato, una delle cause è anche la sindrome chiamata RHS “Retired Husband Sindrome”: vengono colpite più del 60% delle mogli di mariti andati in pensione; la moglie abituata a vivere praticamente da sola per la maggior parte del tempo non riesce più a condividere la quotidianità con il marito, con conseguenti stati depressivi e in alcuni casi anche alcuni suicidi. Generalmente sembra che in apparenza la famiglia funzioni bene, nessuno litiga, tutti educati, ma l'intimità della coppia è in frantumi. La società giapponese anche se sostiene la completa dedizione al lavoro del padre, è consapevole che la mancanza della figura paterna sia una delle cause che portano il ragazzo in hikikomori. Ma anche se c'è una mancanza fisica del padre, dall'altra parte c'è una eccessiva presenza della figura patriarcale che egli costituisce. La presenza della figura patriarcale si manifesta appunto, attraverso una “violenza simbolica 14”, una violenza gentile, che può essere esercitata in molti modi: con la continua narrazione dei successi del padre, sia lavorativi che scolastici, la sua completa dedizione al lavoro per garantire un buon livello sociale alla famiglia ed anche la 14 La violenza simbolica è un termine coniato da Pierre Bourdieu sociologo contemporaneo di fama internazionale. Di seguito riporto il significato che lui stesso ha riportato in un'intervista (12/07/1993): <<La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare "dolce" e quasi invisibile. E' una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni umane. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un' azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. E' una visione non falsa, ma che maschera l' aspetto di violenza. La relazione pedagogica, per quanto possa essere attenta alle attese del ricevente, implica un'imposizione arbitraria di un arbitrio culturale>>. madre contribuisce a tutto questo, con il tacito intento che il padre diventi l'esempio da seguire per il figlio. L'assenza fisica del padre fa anche in modo che fra la madre e il figlio ci sia una forma di attaccamento tale da poter sviluppare un esagerato narcisismo del figlio. L'uomo giapponese è un uomo “malato di virilità” 15, per virilità in Giappone si intende l'insieme di quei valori che definiscono “l'essere uomo”, un uomo concentrato sul lavoro, calmo e forte, che non lascia trapelare nessuna emozione, che parla poco ma che le sue parole, anche se poche, sono sentenze e dalle quali la famiglia dipende sia economicamente che psicologicamente. Il “malato di virilità” chiude tutti i rapporti intimi con la sua famiglia, con la scusa del lavoro pressante e si sottrae al dialogo anche con se stesso. Si ritrova così incapace di esprimere le sue emozioni. Secondo Saito Satoru, famoso psichiatra giapponese che si interessa di malattie da stress, questa malattia di virilità si trasmette al figlio attraverso la violenza simbolica, che lo porterà ad acquisire i valori del padre. È probabile pensare che i ragazzi hikikomori, proprio come i padri, si ritirino in un mondo senza emozioni, ma con una differenza sostanziale: il loro ritiro è una forma di critica al sistema sociale, nel quale forse cercano di ritrovare quel mondo perduto di emozioni. 3.6. La pazienza che cura La maggior parte dei genitori che hanno un figlio in hikikomori cercano di nasconderlo. Questo significa affrontare il problema e cercare di risolverlo da soli. Questo porta ad una chiusura in se stessi, è frustrante e crea uno stato emotivo di grande tensione, peggiorando anche la situazione in cui si trova il ragazzo e sicuramente posticipando il possibile recupero. Passano anche anni prima che la famiglia si rivolga al medico, a tal punto che il ragazzo non sa più quali siano le ragioni del suo ritiro. Interagire con il ragazzo non è mai semplice, è difficile che accetti l'aiuto di un 15 Saito Satoru, Virilità e Hikikomori, vol.18, Health Work Corporation, Tokyo 2001. medico: la paura di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico è forte. Molti genitori vorrebbero che il problema si risolvesse facilmente e non accettano che il trattamento sia prolungato nel tempo. Alcuni genitori si sono affidati a centri privati presso i quali si vendono trattamenti che producono cambiamenti repentini, ma nella maggior parte dei casi peggiorano la situazione o peggio ancora creano danni irreversibili come la morte. È il caso di un ragazzo di 26 anni, ricoverato in modo coatto in una struttura privata di Nagoya: il ragazzo è stato legato con delle catene ad una colonna in una stanza definita “la grande stanza”, nella quale c'erano sia ragazzi che ragazze. Lo scopo era quello di farli uscire dal ritiro facendogli condurre una vita di gruppo. Ovviamente non potevano uscire dalla stanza perché chiusa a chiave. Il ragazzo dopo quattro giorni traumatizzato e indebolito è morto. Questo è avvenuto il 18 aprile 2006. Non servono luoghi specializzati in cui rinchiudere l'hikikomori, secondo Saito Tamaki la cura è un'altra: la pazienza. A volte servono anche dieci anni per un recupero da hikikomori. Il ricovero dovrebbe avvenire solo in casi particolarmente gravi e mai in ospedale psichiatrico, perché essendo un luogo estraneo crea al ragazzo un senso ancor più grande di isolamento. Oltre al terapeuta riveste un ruolo importante nel recupero anche la famiglia. Non è un compito facile, è faticoso e sopportare la violenza, le parole di accusa, di odio da parte del figlio non è semplice. Importante è trasmettere al figlio un senso si sicurezza, difficilmente dato dal padre, il quale ritiene che quello del figlio sia solo un comportamento di pigrizia. Ma l'approvazione del padre è sostanziale anche solo per allentare il legame fra il ragazzo e la madre. Iniziare a parlare con il ragazzo da dietro una porta può essere un punto di partenza. Passerà molto tempo prima di ricevere una risposta, ma la tenacia è fondamentale. Frasi come “vado a fare la spesa, ti serve qualcosa?” sono utili, con il tempo risponderà. Importante però è non violare i suoi spazi, anche se la camera è sporca e in disordine. Tutto questo non è facile se il ragazzo in hikikomori è violento verso i familiari, come ho già detto soprattutto verso la madre. Non è semplice aggressività perché prima o poi finirebbe, ma una violenza piena di tristezza, come se volesse punire la famiglia ritenendola responsabile del suo ritiro. In alcuni casi le famiglie decidono, insieme al terapeuta, di rifugiarsi in un altra casa quando la situazione è insopportabile. Secondo Saito Tamaki16, con il rifugio si è trovato un modo per rigettare la violenza, per non sublimarla e non tollerarla e la cosa ha funzionato: questo è il caso di una madre che per dieci anni ha subito violenze da parte del figlio maggiore che pratica hikikomori, dopo il suo rifugio e cinque mesi di terapia, non ha più esercitato violenza su di lei. Lo stato di hikikomori cambia la percezione delle cose: anche l'amore e il sesso sono considerati emozioni troppo forti e spaventano, cosa che in una normale adolescenza creano interesse. La gentilezza è la cura migliore, ed è quello che il ragazzo si aspetta, anche se non risolve i problemi. Una novità in Giappone sono le “rental onesan”, o meglio tradotte in “sorelle maggiori in affitto”. Sono delle ragazze senza una specifica preparazione professionale, ma che usano come strumento di lavoro la loro empatia. La “sorella maggiore in affitto” rivolge le sue cure soltanto a ragazzi in hikikomori da meno di un anno. Solitamente è la madre del ragazzo che la contatta. Viene chiamata sorella maggiore perché rimanendo sempre nel tema dei ruoli sociali in Giappone, è la sorella maggiore che si occupa dei fratelli più piccoli. Cerca di instaurare una relazione con il ragazzo passandogli dei bigliettini sotto la porta, lasciando spesso il suo numero di cellulare. Prima o poi il ragazzo le risponderà. Quando si instaura una relazione, spesso riescono a portarli fuori. Questo è quello che Tamaki Saito in una intervista pensa riguardo alle rental onesan17: “In Giappone c'è un programma di volontariato gestito da un'associazione chiamata New Start18. Anche dall'Italia molte persone partecipano all'iniziativa e vengono 16 Saito T., Tr. Ritiro sociale, PHP Shinsho, Tokyo 1998. Intervista a Tamaki Saito del 12/04/2008: Appendice 1 18 La New Start è un'organizzazione no profit la cui sede centrale è in Giappone, una delle sedi è anche Roma. L'organizzazione si propone di aiutare prevalentemente i giovani con difficoltà di comunicazione e integrazione nella società. In genere sono i genitori a contattare la New Start e a far partecipare il figlio alle attività del programma, pagando una quota. La New Start si propone come un'estensione della famiglia e in questo senso prevede anche la figura della cosiddetta "sorella (o fratello) in prestito", che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un 17 in Giappone da volontari a sostegno dei ragazzi hikikomori. Lei, Dottor Saito, cosa pensa della New Start? SAITO: Penso che la New Start sia ammirevole nella fase iniziale di sostegno. Tuttavia manca di medici e consulenti specializzati e questo è il punto debole. Conosci le "rental onesan"? Vanno a trovare lo hikikomori in casa e lo aiutano... Ah, sì. Ne ho sentito parlare. Sono le "sorelle in prestito", chiamate dai genitori degli hikikomori per aiutarli a superare l'isolamento. SAITO: Sì. L'idea è una buona idea, ma mi pare che non abbiano alcuna formazione specifica. Hanno un programma dai ritmi sostenuti, forse poco adeguato. Questo mi lascia in dubbio, oltre al fatto che molti pazienti credono che vivere insieme o lavorare insieme sia di per sé un processo terapeutico. Loro non si occupano dei ragazzi che rifiutano di partecipare al programma. In questo senso vedo dei problemi. Comunque nel complesso penso sia ammirevole quello che fanno.” 3.7. Un fenomeno transculturale? Per quanto le caratteristiche del fenomeno hikikomori rappresentino una risposta fortemente correlabile alle influenze della società e della cultura nipponica, va detto che il fenomeno del social withdrawal potrebbe essere riscontrato in altre culture e realtà sociali. In letteratura vi è ampio dibattito sulla classificazione di taluni atteggiamenti e comportamenti imputabili al ritiro sociale che potrebbero essere etichettati come hikikomori. Una dettagliata prospettiva interculturale del fenomeno hikikomori risulta oggi ostacolata dal fatto che i comportamenti tipici di questi soggetti possono essere ascritti ad una molteplicità di etichette mediche o sociali e quindi, ciò che in una nazione può essere ritenuto un disturbo psicologico, in un'altra invece può essere analizzato come fenomeno meramente sociologico. L'assenza di una definizione universale del fenomeno ne impedisce quindi uno studio transculturale dei casi effettivamente rispondenti alla condotta individuata. L'assenza di una visione transculturale non impedisce di riconoscere l'esistenza del fenomeno anche in Italia: in un articolo del 11 febbraio 2009 a cura di Alessandra Mangiarotti19, si evidenzia come all'associazione milanese contatto con lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma. 19 Mangiarotti A. (11/02/2009), Chiusi in una stanza: gli hikikomori d‟Italia, Corriere della Sera, ”Minotauro”, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi hikikomori. Lo psichiatra Pietropolli Charmet e lo psicoterapeuta Antonio Piotti spiegano: «Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni '60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All'origine c'è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di gruppo». A ciò si aggiunga un altro articolo20 della stessa giornalista nel quale lo psicoterapeuta dell'età evolutiva Fulvio Scaparro, discutendo dell'incremento del fenomeno del rifiuto scolastico, dichiara che il fenomeno hikikomori non è solo giapponese, ma esiste anche in Italia e si caratterizza per un isolamento parziale: esso “coincide con gli orari scolastici e la vita ricomincia quando la scuola chiude”. Anche Carla Ricci21, conferma la presenza del fenomeno in Italia, evidenziando come <<anche l'Italia ha i suoi Hikikomori e […] questi sono in costante aumento. Le diverse culture, peculiarità caratteriali e sistemi sociali ne plasmano differenti forme, ma il contenuto è simile. Hikikomori quindi non è esclusività del Giappone, ma è un frutto generato da una terra diventata sterile, da una società in decadenza che avvilisce la speranza, espressione invece innata in ogni individuo>>. 20 21 http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/11/Chiusi_una_stanza_gli_hikikomori_co_8_09 0211034.shtml. Mangiarotti A. (11/02/2009), <<Vittime di fallimenti a scuola>>, Corriere della Sera, http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/11/Vittime_fallimenti_scuola__co_8_09021103 6.shtml Ricci C., Hikikomori. Narrazioni da una porta chiusa, Aracne, Roma 2009. Dall'intevista rilasciata da Saito Tamaki a Claudia Pierdominici, lo psichiatra giapponese afferma: <<Io penso che il fenomeno hikikomori sia equivalente al fenomeno dei giovani senza fissa dimora in Europa e in America. In entrambi i casi si emarginano dalla società, con la differenza che in Giappone lo fanno restando nelle loro case. Per questo non penso che il fenomeno possa estendersi ad altri paesi. Ho ricevuto molte e-mail dall'Italia, in particolare dall'Italia e non da altri paesi. Non so perché ma dall'Italia mi arrivano tante domande. Probabilmente dal prossimo anno saremo in contatto con l'Università di Palermo, lì in molti collaborano e studiano questo fenomeno. In Italia ci sono molte persone interessate allo hikikomori. Un altro paese è l'Inghilterra. Sono stato intervistato dalla BBC circa cinque anni fa e grazie a loro molte persone nel mondo sono venute a conoscenza del fenomeno. Non si estenderà altrove, ma non c'è solo in Giappone; anche in Corea gli hikikomori sono tanti. Oggi i paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, che sono aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il Confucianesimo e in particolare il concetto di pietà filiale. Sono culture in cui la pietà filiale è un valore molto enfatizzato. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell'alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo "parasite singles", mentre in Italia si chiamano "mammoni"!>>. Anche presso l'Unità Operativa di Pscicopalogia degli adolescenti (U.O.P.A.), presente nel distretto Sanitario di Marano in provincia di Napoli, sono stati presi in carico adolescenti con problematiche molto simili agli hikikomori giapponesi. Come spiegano Maria Grazia Ciufferi diregente psicologo del U.O.P.A. DI Marano e Francesca Mancini psicologa e psicoterapeuta, nel libro a cura di Silvia Sagliocco22, anche presso il servizio dove lavorano si sono rivolti genitori i cui figli manifestavano comportamenti di chiusura. Le ragazze con questo tipo di 22 Sagliocco G. ( a cura di), Hikikomori e Adolescenza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011. problema hanno accettato subito di fissare un appuntamento con lo psicologo e l'età di insorgenza è risultata inferiore (11-12 anni) rispetto ai maschi (14-15 anni). Anche in questo caso gli adolescenti pervenuti al servizio sono prevalentemente maschi. Il comportamento di chiusura è iniziato anche in questo caso con una fobia scolare e una successiva resistenza a frequentare gli amici e gradualmente l'adolescente diventa schiavo della propria vita sedentaria, del computer e della televisione, fino ad arrivare a uscire dalla propria stanza sono per consumare i pasti. Con il tempo può arrivare a vivere in un mondo virtuale on-line: in alcuni casi non vogliono più farsi chiamare con il proprio nome ma con il loro Nickname. Anche in questo caso, come in Giappone, la famiglia chiede aiuto quando il figlio non ha più relazioni sociali e non frequenta più la scuola da mesi. Il rapporto con la madre è intenso e spesso la madre protegge il figlio in modo incondizionato. Un' altro aspetto in comune con la famiglia giapponese è la mancanza della figura paterna. Come primo strumento per interagire ritengono utile l'uso del telefono, in alcuni casi della mail, così da non obbligare il ragazzo a lasciare la propria stanza. Come in Giappone si risconta aggressività nei confronti dei familiari, soprattutto della madre. Come si può osservare dunque, il fenomeno rimane marcatamente nipponico, seppur siano verificati casi clinici e/o sociali di soggetti aventi caratteri comportamentali affini di varia entità e perciò non universalmente etichettabili. Uno spaccato interessante è inoltre fornito direttamente dal web, che ormai pullula di spazi virtuali, in cui gli hikikomori si manifestano “vivendo” la loro vita ed esprimendo i loro interessi e le loro opinioni. Ne sono un esempio il celebre social network Facebook™ che ospita numerosi gruppi e pagine create da persone che si definiscono hikikomori, altri social network ed alcuni blog e forum. CAPITOLO 4 CASI CLINICI 4.1. Lia Lia è arrivata al servizio territoriale all'età di 12 anni, alla fine della prima media. Il suo caso è stato riportato in equipe a maggio 2008 dalla psicologa del servizio. Lia è figlia unica e unica nipote in quanto entrambi i genitori sono figli unici; vive con il padre, che lavora in proprio come traslocatore, e la madre, che è casalinga. La famiglia vive in un piccola casa confinante con la scuola media che Lia avrebbe dovuto frequentare. La problematica che i genitori, in accordo con gli insegnati, portarono alla psicologa, era il rifiuto di Lia di andare a scuola: la ragazzina da ormai diversi mesi non frequentava più la scuola dell'obbligo, o la frequentava saltuariamente con grossissime difficoltà. Fin dalle prime settimane di scuola iniziò a manifestare una grossa difficoltà ad entrare nella propria classe, senza spiegare quali potessero essere le motivazioni del suo rifiuto. Questo suo comportamento la costringeva a passare le ore di scuola in corridoio; quando veniva forzata ad entrare in classe, aveva crisi di pianto, palpitazioni e i tentativi degli insegnanti difficilmente riuscivano a calmarla. I professori come unica strategia adottarono il sistema di farle passare del tempo nella stanza adibita per il sostegno, per evitare che stazionasse nel corridoio. Con il passare del tempo la paura di entrare in classe si trasformò in paura di entrare a scuola, fino ad un vero e proprio ritiro domiciliare. Immediatamente la scuola attivò tutti i percorsi necessari affinchè i genitori, nel prendere coscienza del problema, potessero rivolgersi ai servizi territoriali di infanzia e adolescenza. Nel frattempo alcune professoresse, si offrirono volontariamente per andare a prendere Lia a casa, vista la stretta vicinanza con la scuola. Questi tentativi non portarono alcun esito, Lia si faceva trovare in pigiama e chiusa in camera. Anche i pochi tentativi più coercitivi nel cercare di farla uscire dalla propria stanza, portarono il solo esito di peggiorare la situazione, come il manifestarsi di episodi di resistenza fisica da parte della ragazza. Dal racconto fatto dai genitori emergeva che Lia è sempre stata una bambina serena e contenta di andare a scuola, malgrado alcune difficoltà di apprendimento e di un brutto rapporto con una delle maestre curricolari della scuola elementare, che a loro dire aveva modi piuttosto severi. Dopo la discussione in equipe multidisciplinare, fu ritenuto importante attuare un intervento riabilitativo di tipo educativo, che fu accettato e condiviso anche dai genitori nel colloquio di fine maggio 2008, in presenza della psicologa e dell'educatore professionale (da ora in poi E.P.). Dopodiché venne fissato il primo incontro con Lia che venne accompagnata dalla madre e nel quale le fu presentato l'E.P.. L'obiettivo implicito dell'intervento educativo fu mirato al recupero di autostima e motivazione per il rientro a scuola; l'obiettivo esplicitato con Lia fu quello di fare esperienze nuove e significative insieme all'E.P., tutto questo in accordo con i genitori. I primi incontri con l'E.P. si svolsero presso il domicilio con l'obiettivo di conoscere la ragazzina e farsi conoscere, in modo da creare i presupposti per una relazione di fiducia. Le attività proposte erano di tipo ludico e potenzialmente divertenti; Lia si coinvolgeva proponendo lei stessa dei giochi da tavolo da fare insieme all'E.P.. Dopo circa un mese e mezzo l'E.P. propose alla ragazza di andare presso l'ambulatorio. Lia accettò e vi si recò sempre accompagnata dalla madre, ogni tanto usciva dalla stanza per verificare che fosse sempre fuori ad aspettarla e a volte, a fine incontro prima di salutare l'E.P., la invitava ad entrare per farle vedere ed informarla su cosa aveva fatto durante l'incontro. Questo atteggiamento si è protratto per il periodo in cui gli incontri si sono svolti presso l'ambulatorio, circa 4 mesi. In tutti questi mesi l'E.P. notò grosse oscillazioni nel modo di comportarsi e di relazionarsi di Lia nei suoi confronti e rispetto alle proposte che via via le faceva, pur mantenendo costante e senza forzature la presenza agli incontri. Lia riuscì a staccarsi dalla madre quando cominciarono a programmare incontri esterni alla struttura e che la ragazzina accettò. Con l'arrivo di settembre e l'imminente riapertura delle scuole, l'E.P. cominciò a parlare con lei delle modalità per riprendere contatti con i professori e i nuovi compagni, visto che la sua totale assenza dell'anno precedente l'aveva costretta a ripetere la prima media. Lia alternava momenti di ascolto e interesse a momenti di totale rifiuto verbalizzando: “che me ne frega a me, tanto io farò la casalinga”. In tutto questo periodo ha continuato a mantenere anche lezioni private pomeridiane di recupero scolastico per tre volte la settimana. L'intervento è proseguito con proposte ludiche che potessero essere per lei piacevoli e l'aiutassero a riattivare un area di interesse nel fare le cose. Lia in questo aderì partecipando attivamente, alternando comunque momenti in cui aveva bisogno di essere molto stimolata. Il primo giorno di scuola in prima media come ripetente, Lia non si presentò, come era presumibile che accadesse. Nello stesso pomeriggio aveva un incontro con l' E.P. durante il quale sarebbero dovute uscire. L'E.P. la invitò invece ad affrontare subito l'argomento. Lia disse più volte che non le interessava andare a scuola e che non le piaceva, mantenendo però un atteggiamento ambiguo. Alla fine dell'incontro l' E.P. le disse che la mattina seguente sarebbe andata a prenderla a casa per poi accompagnarla a scuola. La mattina seguente Lia si fece trovare chiusa a chiave in camera. La madre cercò di farla uscire con la forza, ma non ci riuscì. L'E.P. cercò di tranquillizzarla spiegandole che non l'avrebbe mai portata con la forza a scuola. Lia uscì dalla camera si gettò sul divano, parlando a monosillabi e riuscì a rilassarsi solo quando l'E.P. spostò la sua attenzione su una delle attività di grosso interesse per la ragazza, le parlò della possibilità di andare al canile per fare un po' di volontariato, concordando con lei giorni e orari. Lia continuò per molto tempo a chiudersi in camera tutte le mattine per la paura che qualcuno la portasse a scuola. In questo periodo non aveva nessuna relazione con i coetanei, ad eccezione del gruppo pomeridiano di pallavolo, nel quale però stava ben attenta che nessuno scoprisse che non frequentava la scuola e se c'era qualcuno del gruppo classe dell'anno precedente si assicurava che nessuno ne avrebbe parlato. Considerando che a Lia piaceva molto l'attività sportiva, l'E.P. le propose di andare a conoscere i compagni di scuola nell'ora di ginnastica, concordando il tutto con le insegnanti, Lia aderì anche a questa proposta. Così lentamente riuscì a tornare a scuola solo per le ore concordate. Dopo la pausa di 15 giorni delle vacanze di Natale, Lia nuovamente si chiuse presso il proprio domicilio, come se tutto il percorso fatto fino ad allora non ci fosse mai stato. Agli inizi di Marzo viene fatto un nuovo tentativo di rientro a scuola, concordando con la ragazza e con la professoressa di riferimento, giorni e orari in base alle materie preferite da Lia. Nonostante questi accordi, più volte discussi, la ragazza non riuscì a tornare all'istituto. Ciò che continuava a portare avanti erano tutti gli altri impegni ed interessi: due volte la settimana l'incontro con l'E.P., due volte la settimana agli allenamenti di pallavolo con tanto di partita domenicale, tre volte la settimana con l'insegnante privato per le ripetizioni. I tentativi fatti fino a quel momento non portarono nessun progresso nell'ottica della frequenza scolastica, mentre ci furono notevoli cambiamenti nella relazione, nelle capacità comunicative, nella consapevolezza di sé e delle proprie difficoltà. Cominciò a verbalizzare le sue paure rispetto alla scuola: paura di non essere accettata, paura di sbagliare e di mettersi a piangere davanti alla classe. Riuscì ad esprimere anche sentimenti di vergogna per non riuscire ad andare a scuola. Venne ritirata da scuola e riuscì a passare in seconda media con l'esame da privatista, accompagnata sempre dalla madre. Durante i giorni di esame tenne aggiornata l'E.P. sui risultati. Superati gli esami, in alcuni incontri individuali Lia parlò delle problematiche relazioni rispetto i genitori. Con loro non riusciva a scherzare o parlare semplicemente, i suoi rapporti erano migliori con altri genitori o con i propri nonni. Lia si lamentava del fatto che i suoi genitori facessero sempre le stesse cose; parlò del padre come una persona senza interessi, che passava tutto il suo tempo sul divano, lo descrisse come un “buco nero”; le faceva promesse che poi non manteneva, come quella di portarla in giro in bicicletta. La madre la descriveva come una donna poco attenta alla cura personale, prettamente vestita in tuta, non femminile e con poca attenzione per la casa. L'E.P. programma un incontro di verifica con i genitori e la psicologa, è Lia stessa che chiede all'E.P. di parlare con loro, con la speranza che si attivino con proposte interessanti. Durante l'incontro si discute delle grosse difficoltà di Lia nell'affrontare il confronto con la scuola e i suoi compagni, e viene richiesta maggior collaborazione da parte della famiglia che ha una linea educativa piuttosto permissiva e in parte collusiva, viene anche suggerito alla coppia di promuovere attività piacevoli da fare insieme con la figlia, come gite domenicali. Entrambi i genitori sono piuttosto poveri culturalmente, non hanno interessi, non hanno relazioni sociali significative ed esprimono verbalmente il loro scarso interesse per la carriera scolastica della figlia in quanto anche loro non hanno proseguito gli studi dopo l'obbligo scolastico. Da qui emerse negli operatori la consapevolezza di ripensare al progetto riabilitativo educativo in quanto la famiglia non poteva essere una risorsa, e che, malgrado rimanesse importante mantenere l'obiettivo del rientro scolastico, diventava prioritario per Lia, promuovere l'autostima, l'autonomia, la consapevolezza delle proprie risorse e la conoscenza di nuove possibilità. Per promuovere questi obbiettivi viene proposto alla ragazza l'inserimento nel gruppo di adolescenti in carico al servizio, con problematiche simili a quelle di Lia, la quale accettò. Il confronto con il gruppo dei pari le ha permesso di diventare più adeguata nelle relazioni con i coetanei tanto da permettersi delle uscite domenicali con le compagne della pallavolo. Come primo obbiettivo, viene deciso, dall'E.P. insieme ad Ilaria, di cercare di raggiungere una discreta autonomia dalla madre per lo spostamento a piedi di brevi tragitti. Un primo passo fu quello di raggiungere l'ambulatorio a piedi da sola, che dista circa 600 metri dalla sua casa. Da questo emerse la sua paura nell'attraversare la strada. Quando dopo un paio di mesi riuscirà a farlo e dichiarerà “sembravo un handicappata a non attraversare la strada da sola”. Nell'ambito delle attività del gruppo adolescenti, sono previste due uscite con pernottamento fuori casa per due o più notti. Quando a Lia venne proposta l'uscita di tre giorni, la ragazza accettò. Durante la prima notte però vennero fuori le difficoltà della ragazza nel passare la notte fuori casa: non riuscì a dormire, era agitata e piangeva, sintomi riconducibili ad un attacco d'ansia. La mattina seguente, dopo aver avuto un colloquio con l'E.P. che riuscì a tranquillizzarla, decise comunque di farsi venire a prendere dai suoi genitori. Qualche mese dopo, venne proposto ai ragazzi del gruppo un soggiorno estivo di una settimana e Lia si rifiutò di aderire a tale iniziativa. L'E.P. chiamò i genitori della ragazza per un colloquio, durante il quale ai genitori venne spiegata la situazione e l'importanza della partecipazione al soggiorno della figlia, i quali però si limitarono a dire che non avrebbero potuto portarla con la forza. Da notare che solo durante le uscite la ragazza riusciva a staccarsi dalla madre. Lia oggi ha 15 anni, è riuscita a superare l'esame di terza media da privatista, ma insieme ai propri compagni di classe. L'obbiettivo del reinserimento scolastico non è stato raggiunto e probabilmente non lo sarà mai. All'inizio della prima superiore, nella riunione di equipe fu deciso di proporre ad i genitori un blando aiuto farmacologico, con ansiolitici, per cercare di aiutarla nell'inserimento scolastico. I genitori accettarono, ma anche con l'assunzione dei farmaci, Lia non è mai riuscita a frequentare la scuola. Per quanto riguarda gli obbiettivi riferiti al raggiungimento dell'autonomia e delle competenze, risultano ad oggi adeguate all'età. Continua a frequentare il gruppo adolescenti, riesce a dormire fuori casa senza difficoltà nei soggiorni proposti al gruppo, ha recuperato delle buone capacità relazionali con i coetanei e negli incontri con gli operatori di riferimento, sta riflettendo sulle sue possibilità lavorative e formative future. 4.2. Sofia Quando al servizio di infanzia e adolescenza territoriale si comincia a parlare di Sofia, aveva 15 anni e mezzo e avrebbe dovuto frequentare la seconda liceo. E' la madre a rivolgersi al servizio per chiedere supporto per la propria figlia che ormai da mesi si è ritirata da scuola e chiusa in casa; oltretutto cominciando ad avere atteggiamenti aggressivi nei confronti dei familiari. I genitori raccontano che la figlia è sempre stata molto capace sul piano del rendimento scolastico, mentre rispetto ai rapporti con i coetanei è sempre stata una ragazza piuttosto riservata. Dai racconti emerge anche di un periodo durante la scuola materna in cui Sofia ha manifestato mutismo selettivo con i coetanei. All'epoca non si rivolsero al servizio territoriale ma ad uno psicomotricista privato. La coppia genitoriale è separata e Sofia vive con la madre e un fratello più piccolo, vede il padre settimanalmente. Entrambi i genitori sono di cultura elevata e apparentemente benestanti. Dai colloqui risulta che entrambi, per motivi diversi, soffrono di depressione tanto da dover ricorrere, saltuariamente, a cure farmacologiche. La Neuropsichiatra infantile (da ora NPI) del territorio invita, con lettera scritta, la ragazza a presentarsi ad un appuntamento presso il suo ambulatorio, appuntamento al quale Sofia non si è mai presentata. Neppure nelle successive occasioni in cui viene invitata a presentarsi, a niente servono le insistenze dei genitori, se non a suscitare atteggiamenti aggressivi come tirare oggetti, sbattere le porte, o violenza fisica verso gli altri. La ragazza passa tutta la sua giornata chiusa nella propria stanza ad ascoltare la musica, guardare la tv, navigare su internet. Scende nella zona pranzo solo per piccoli spuntini. Durante questo periodo di ritiro, fu possibile notare anche dei cambiamenti riguardo all'alimentazione: assume solo una determinata selezione di alimenti e in quantità ridotte rispetto alle sue normali abitudini. La NPI, ritiene opportuno fare un tentativo di aggancio della ragazza con un Educatore Professionale (da ora E.P.) con un intervento domiciliare. È da qui che parte il progetto di intervento domiciliare concordato con NPI, E.P., Assistente Sociale e genitori. L'obiettivo di tale percorso è di cercare di conoscere Sofia nella sua globalità e convincerla della necessità di un aiuto terapeutico. Sofia sin dal primo incontro con l'E.P. si fa trovare chiusa nella propria stanza. I contatti avvengono attraverso la porta chiusa: la ragazza però risponde alle domande dell'E.P., seppur a monosillabi. L'E.P. farà vari tentativi per cercare una relazione con Sofia proponendole di giocare insieme ai video giochi su pc, cercando di instaurare un dialogo su argomenti potenzialmente interessanti, suggerendole spunti di riflessione riportati su carta e passati sotto la porta, e altro ancora. Tutto questo va avanti per circa due mesi, in questo periodo E.P. conosce le varie modalità di comunicazione della ragazza che passano da una comunicazione monosillabica (sì, no, boh) a vere e proprie risposte strutturate rispetto ad un pensiero, anche con cambi di modulazione del tono della voce. Ma sempre e comunque dietro la porta chiusa della sua stanza. Dopo questo periodo, così poco proficuo ai fini dell'obbiettivo prefissato, la NPI decide di agire in modo autorevole prima, e autoritario subito dopo. La dottoressa fa sapere a Sofia, tramite la madre, che andrà a trovarla a casa visto che lei ha deciso di non volere uscire per recarsi all'ambulatorio. Nell'occasione della visita fatta comunque a porta chiusa, la NPI comunica a Sofia che lei in quanto medico, non può lasciarla senza cure chiusa in casa e che se non decide di uscire, sarà lei a dover intervenire. Sofia non risponde. La mattina seguente la NPI, avendo già concordato con i genitori e con tutte le professionalità interessate, fa pervenire un'ambulanza per proseguire ad un ricovero obbligatorio presso una struttura ospedaliera che opera in situazioni di questo tipo. L'E.P. è presente ma decide di non farsi vedere dalla ragazza. Da questo momento comincia un percorso di cura, anche farmacologica, e di progetto riabilitativo. Dopo 15 giorni di ricovero la ragazza viene rimandata a casa, non fu possibile l'inserimento in comunità terapeutica come gli operatori si sarebbero auspicati, per problemi amministrativi. Di conseguenza l'equipe del territorio dovette ripensare un progetto territoriale ripartendo dal domicilio della ragazza. Il progetto prevedeva l'incontro con l'E.P. di riferimento due volte la settimana con l'obiettivo di creare una relazione sufficientemente significativa e di individuare e promuovere spazi di interesse. Nel frattempo la NPI si occupava di individuare una struttura idonea per permettere alla ragazza di fare un percorso riabilitativo più strutturato vista la scarsa possibilità dei genitori di poterla aiutare: per problematiche di tempo in quanto entrambi lavorano a tempo pieno, ma sopratutto per problematiche ti tipo emotivo vista anche la loro storia clinica. Viene così inserita in una struttura educativa concordando una presenza diurna, valutando la necessità per Sofia di mantenere i contatti con la propria famiglia. Questo progetto dura circa un anno e in questo periodo, seppur con fatica, Sofia riacquista alcune delle capacità comunicative e relazionali, instaurando contatti con i coetanei frequentanti la struttura, e partecipando alle attività proposte dagli educatori. Successivamente con l'Assistente Sociale viene concordato di farle provare una piccola esperienza lavorativa, visto il fallimento del rientro scolastico. Questa esperienza, anche se breve, porta Sofia a intraprendere dei rapporti con il mondo esterno, a mantenere un impegno e a confrontarsi con una quotidianità più strutturata. Sopraggiunta la maggiore età, la NPI e l'E.P. attivano il percorso necessario per l'invio al servizio di salute mentale degli adulti, dove Sofia andrà poche volte per poi non presentarsi più. Da notizie recenti sappiamo che oggi all'età di venti anni vive e lavora in un altra città italiana e, se pur con difficoltà, riesce a mantenere la propria vita sociale e di relazione. 4.3. Somministrazione del questionario Youth SelfReport 11/18 Nell'ottica di individuare la presenza di aree problematiche sul versante internalizzante ed esternalizzante dei comportamenti che possono manifestare adolescenti con disagio, ho sottoposto, dopo previo consenso informato dei genitori, il questionario Youth Self-Report 11/18, al gruppo terapeutico di adolescenti, in carico presso il servizio territoriale dove ho svolto il tirocinio universitario. Il gruppo è formato da otto adolescenti, di cui sei hanno aderito al questionario. I due rimanenti non hanno aderito perché non presenti il giorno della somministrazione. Di questi sei, tre sono femmine e tre maschi e la loro età va dai quattordici ai diciotto anni. Il Youth Self-Report 11/18 (YSR; Achenbach e Rescorla, 2001) è un questionario che ha lo scopo di raccogliere informazioni sia sulle competenze, sia sul funzionamento emotivo-adattivo, e di rilevare la presenza di eventuali aree problematiche nel versante internalizzante ed esternalizzante. Il Questionario YSR è composto di due parti principali: la Scala delle Competenze e la Scala dei Problemi. La Scala dei Problemi è formata da un elenco di 112 item, presentati sotto la forma di affermazioni relative a comportamenti e vissuti emozionali, rispetto ai quali il soggetto deve indicare se esse lo descrivano in modo accurato o meno, se un particolare vissuto gli appartenga o meno. I 112 item sono inclusi in otto sottoscale sindromiche: Ritiro, riguardante principalmente atteggiamenti di isolamento e di scarsa ricerca di contatto con gli altri; Lamentele Somatiche, che include malesseri fisici di varia natura, non sostenuti da cause mediche riconoscibili; Ansia/Depressione, che raccoglie item relativi a stati depressivi e stati d’ansia; Problemi Sociali, concernente essenzialmente difficoltà a rapportarsi con gli altri; Problemi di Attenzione, composta da item collegati a problemi di instabilità motoria e difficoltà attentive; Problemi del Pensiero, riguardante problemi dell’ideazione; Comportamento Deviante, relativa a condotte di tipo antisociale; ed infine, Comportamento Aggressivo, che include condotte e atteggiamenti caratterizzati da scarso controllo dell’aggressività. Tali sottoscale si raggruppano formando le Scale: Sindromiche Internalizzanti (Ritiro, Lamentele Somatiche, Ansia/Depressione), Esternalizzanti (Comportamento Deviante, Comportamento Aggressivo), Né Internalizzanti Né Esternalizzanti (Problemi Sociali, Problemi di Attenzione, Problemi del Pensiero). In relazione a tutte le scale e sottoscale descritte, un punteggio elevato indica difficoltà e problemi in tale area. I risultati del questionario hanno evidenziato una complessa lettura dei casi, in quanto cinque su sei sembrerebbero non consapevoli del proprio disagio o comunque neganti. Risultano in media nella normalità, anche se due di loro al limite della clinica, mentre solo uno sembra manifestare problematiche internalizzanti. Un dato più o meno comune a tutti e sei i casi, è il basso numero di relazioni amicali e, in un caso in particolare l'assenza totale, facendo dunque notare che neppure all'interno del gruppo terapeutico, sia riuscito a stringerne alcuna. I dati non offrono una visione precisa dei comportamenti dei sei adolescenti, ma offrono una visione significativa di come loro si vedono, ed è su questo che si lavora; un quadro più oggettivo delle loro difficoltà lo si potrebbe avere con altri questionari compilati dalla famiglia e dalla scuola (se frequentata). Dire che offrono comunque spunti di riflessione molto significativi: loro non si sentono in difficoltà, o almeno ci dicono che non sono in contatto con il loro disagio. Ritengo comunque il Youth Self-Report un valido strumento, che può essere impiegato nell'analisi delle aree funzionali e/o disfunzionali dell’adolescente, per tentare di chiarire quali siano i fenomeni influenzati dalla sola pressione dei compiti evolutivi propri dell’adolescenza e quali quelli dovuti a fattori esterni traumatici. In tal modo si agevola il riconoscimento di fattori di vulnerabilità individuale e di variabili di rischio o di protezione ed il loro legame con l’ambiente di vita del giovane. CAPITOLO 5 L'EDUCATORE PROFESSIONALE E IL PROGETTO EDUCATIVO NEGLI ADOLESCENTI In questo capitolo cercherò di definire quali sono le competenze che l'Educatore Professionale deve mettere in atto nell'elaborazione di un progetto riabilitativo e quali strategie ed interventi risultano fondamentali nell'ambito della riabilitazione educativa di soggetti adolescenti. 5.1. Le competenze dell'Educatore Professionale, l'Équipe Multidisciplinare e il Lavoro di Rete. L’Educatore Professionale è un operatore sanitario che si occupa di specifici progetti educativi e riabilitativi, volti all’inserimento o al reinserimento psicosociale di persone adulte e minori con disabilità fisica e/o mentale e di soggetti con problematiche di dipendenza. Egli programma, gestisce e verifica, all’interno dei servizi sociosanitari e delle strutture riabilitative, interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà, coinvolgendoli direttamente e dove possibile, insieme alle loro famiglie. La nascita dell’educatore professionale porta a riconoscerne, nella stessa definizione, il dato di professionalità propria di chi è chiamato a gestire un sapere educativo esperto e consapevole della responsabilità richiesta al compito. La professionalità è inscritta nella capacità di interrogarsi sulle “questioni educative” che egli stesso, e le organizzazioni nelle quali opera, è chiamato ad affrontare quando agisce nell’accoglienza, nella prevenzione, nell’ascolto, nella consulenza, nella presa in carico, nella riabilitazione e nell’accompagnamento al reinserimento dei diversi soggetti in condizioni di disagio. Lo impegna, dunque, a farsi carico dell’intenzionalità formativa e trasformativa di ogni intervento, della progettazione e della gestione di progetti educativi in strutture sociosanitarieriabilitative e socio-educative. Sergio Tramma23 definisce l'educatore professionale come un agente di cambiamento: l’Educatore trasforma richieste di inserimento (nella società) in possibilità. Quindi il proprio compito generale è quello di promuovere e sviluppare potenzialità (individuali e/o collettive). Le azioni nei confronti delle potenzialità si collocano su diversi piani: • sul piano promozionale: attraverso azioni educative finalizzate a rendere abili e autonomi i soggetti. • sul piano preventivo: far sì che le potenzialità riducano il rischio di non trasformarsi in atti. • sul piano riabilitativo: riconsegnare al soggetto il processo di trasformazione delle proprie potenzialità in atti reali e concreti. Il ruolo dell'Educatore Professionale oggi non può prescindere dal riflettere anche sui principi etici che caratterizzano un intervento educativo, e dall'analizzare gli aspetti deontologici che caratterizzano la propria professione. Questo per rispondere meglio alle domande relative al “perché fare”, al fine di delineare meglio i limiti e i confini, al di là dei quali un'azione educativa diviene eticamente incongrua da un punto di vista professionale. Il codice deontologico24 dell'Educatore Professionale individua le responsabilità che egli stesso ha nei confronti della propria professione, dell'utente, delle famiglie, dell'équipe, del datore di lavoro e della società. Quello della professionalità è un principio etico primario dal quale sottendono tutti gli altri principi. Nell’assunzione del ruolo di Educatore Professionale si presuppone il possesso di un sapere teorico e pratico, l’acquisizione di metodi e tecniche specifiche riconosciuti dalle leggi vigenti. Questo principio presuppone quindi una scelta non formale e non casuale a svolgere il lavoro educativo, il quale dovrà avvenire solo dentro progetti educativi realizzati con una équipe multidisciplinare, con la garanzia e la disponibilità a confrontarsi costantemente 23 24 Tramma S., L'educatore imperfetto, Carocci, Roma 2003. www.anep.it per verificare il proprio operato. Saprà anche considerare, nella relazione educativa, la distanza adeguata in ogni suo intervento, mantenendo un equilibrio tra il coinvolgimento professionale e il distacco personale, utile alla preservazione della relazione stessa e alla propria salute mentale. Per quanto riguarda il rapporto con l'adolescente, l'Educatore dovrà avvicinarsi al soggetto accettandolo, comprendendolo, proponendo e favorendo quei processi educativi al cambiamento che permetteranno una crescita personale positiva, un’integrazione sociale il più vasta possibile, un benessere e qualità della vita a cui tutti gli esseri umani hanno diritto. Il ragazzo che necessita dell’intervento educativo dovrà essere soggetto attivo in tutto il percorso, ed essere preso in carico nella sua globalità. L'Educatore nella presa in carico dell’adolescente, dovrà tener presente che la famiglia è il primo gruppo sociale; e di conseguenza l’intervento educativo opererà per il mantenimento, il sostegno, il potenziamento dei legami affettivi famigliari biologici o alternativi, laddove questo è possibile. L'educatore professionale nello svolgimento del proprio operato, dovrà orientare l'intervento non alla cura del sintomo, ma alla promozione delle risorse dell'utente e delle sue possibilità, promuovendo interessi, attività e riflessioni per aiutare quest'ultimo in uno sviluppo della personalità e delle potenzialità il più possibile consapevole al fine ultimo di aiutarlo a gestire il sintomo. La formulazione di progetti, la scelta degli obiettivi, la loro verifica intermedia e finale, non potrà non avvalersi del confronto costante con le altre figure professionali all'interno dell'èquipe multidisciplinare, quando direttamente o indirettamente coinvolti nel processo educativo in atto. Nei servizio di salute mentale per l'infanzia e l'adolescenza, l'èquipe multidisciplinare è solitamente composta da: neuropsichiatra infantile, psicologo clinico, educatore professionale e assistente sociale; e a seconda del tipo di intervento richiesto, potranno essere incluse altre figure sanitarie come quelle del logopedista, infermiere e psicomotricista. Risulta fondamentale l'integrazione fra le diverse figure professionali per rispondere meglio alle richieste dell'adolescente e per poter attuare tutti gli interventi che il progetto riabilitativo richiede nella sua complessità. L’èquipe svolgerà anche la funzione di controllo e sostegno sui suoi membri, condividendone le responsabilità e sostenendoli nei momenti di vicinanza confusiva con l’utente. L'educatore Professionale dovrebbe poter essere un operatore della globalità, un operatore che trova una sua definizione nella gestione continua di energie finalizzate al cambiamento, in modo che possa guidare l'utente attraverso un percorso che lo conduca dall'inespresso all'esprimibile, dalla dipendenza alla progressiva autonomia, dalla solitudine alla vita relazionale, dall'aridità alla coscienza dei sentimenti; tutto ciò nel rispetto dell'individualità, dei ritmi e dei modi dell'adolescente. Dovrebbe svolgere una funzione intermedia tra il soggetto e l'ambiente circostante, creando un codice comune e condiviso di comunicazione e tanto meglio può riuscire in questo compito quanto più conosce le dinamiche dei sistemi relazionali, riuscendo a rendere maggiormente intellegibile la complessità dei rapporti. È l'operatore della globalità, che prende in carico il paziente in ogni suo aspetto, che lavora al suo fianco nella vita quotidiana e media i cambiamenti attraverso la propria disponibilità, partecipazione e perseveranza critica. Prerequisiti importanti nella determinazione della professionalità dell'educatore professionale possono essere: 1. Presenza di energie vitali mobilizzabili. 2. Capacità di osservazione. 3. Creatività. 4. Elasticità e Plasticità. 5. Fermezza e Determinazione. 6. Capacità Empatiche. 7. Capacità di analisi dei vissuti propri e altrui. 8. Umiltà e Consapevolezza. 9. Volontà epistemofilica. Credo opportuno approfondire alcuni di questi concetti. Il termine “energie vitali mobilizzabili”, comprende tutti quegli aspetti che, progressivamente si sono depositati nel bagaglio antropologico. In altre parole è il patrimonio composto da emozioni, affetti, intelligenza, sensazioni, che ogni individuo esprime e condivide nelle relazioni con gli altri. La capacità di osservare appare in parte come una capacità innata, ma in parte essa è suscettibile di notevole miglioramento attraverso continue esperienze. L'Educatore Professionale si pone nei confronti del paziente adolescente come colui che, attraverso una partecipazione obbiettiva, osserva ciò che nel paziente muta in ragione dei diversi stati emotivi e ciò che appare immobile o bloccato, per definire una visione del soggetto il più possibile completa e dettagliata. Una buona osservazione è la base per un buon progetto riabilitativo educativo. L'osservazione consente di cogliere gli stati d'animo dell'adolescente, la sua modalità espressiva, per valutarne le competenze, per evidenziarne le aree di potenziale sviluppo e per poter formulare, portando il proprio contributo nell' équipe multidisciplinare, un piano riabilitativo mirato e realizzabile. Con volontà epistemofilica si intende invece la spinta che ogni individuo ha in sé ad ampliare il proprio sistema di conoscenze. È opportuno che l'educatore professionale tenga viva in sé questa pulsione, abbia cioè la volontà di porsi sempre domande e cercare risposte, in un percorso continuo di approfondimento e aggiornamento culturale. Per poter trovare soluzioni efficaci e durature ai problemi socio-educativi che gli si presentano, l’educatore deve saper cogliere e vedere, nella concretezza dei problemi, la dimensione della possibile risposta o della possibile azione da offrire (criterio della fattibilità del progetto). L’educatore deve saper agire in modo adeguato nella situazione personale, nel sistema comunitario e nei suoi processi di socialità, nella gestione delle relazioni interpersonali o delle possibili reti sociali. Deve rispondere alle problematiche che gli si presentano recuperando e rinforzando le risorse presenti nel nucleo familiare ed intorno ad esso, collaborando con la scuola anch'essa agenzia educativa e investendo sulle risorse presenti nel contesto territoriale (associazioni, centri di aggregazione e animazione, polisportive, ludoteche, ecc.). La connotazione di sostegno e di recupero si combina quindi con rilevanti valenze preventive, che derivano dalla promozione di capacità e di autonomie personali e familiari, dall’attivazione di risorse individuali e collettive, dalla creazione e dallo sviluppo di contesti e ambienti educativi. Il lavoro di rete deve essere allora inteso come collaborazione e scambio tra le diverse parti coinvolte nel progetto educativo, tali da permettere ai diversi attori il mantenimento di un linguaggio comune per il raggiungimento dei medesimi obbiettivi. La metodologia del lavoro di/in rete, per esempio, permette di promuoversi sul territorio come operatori che cercano il dialogo e la collaborazione partecipata della comunità per far fronte, in modo condiviso, ai vari problemi presenti nel quartiere, nella città. Tale competenza permette di vivere le potenzialità presenti sul territorio, pubbliche e private, formali ed informali, come fondamentali per agire nello spirito della partecipazione attiva e complementare. 5.2. La Relazione Educativa Per prevenire forme di disagio, bisogna intervenire e rispondere alle manifestazioni problematiche con tempestività. I segnali di disagio lanciati dagli adolescenti sono molti; sono i loro corpi che ci parlano, è il loro modo esibizionistico ed eccessivo di comportarsi, ma anche le loro estreme chiusure che ci comunicano una sofferenza, non attraverso le parole. Il linguaggio delle emozioni è un modo di comunicare che traspare dal rossore del viso, dal movimento fisico spesso ipercinetico, dal corpo martoriato dai piercing metallici, dai capelli rasati, dai pantaloni calati sotto i fianchi e tenuti da catene. Sono modi per differenziarsi da quel mondo degli adulti che non li comprende, sono forme per esprimere una propria nuova identità, sono la paura di non essere accettati. Per richiamare l'attenzione adulta, spesso gli adolescenti compiono azioni eclatanti, azioni vandaliche e distruttive, esprimendo una profonda rabbia. Il compito fondamentale delle diverse figure con cui il soggetto si relaziona (insegnanti, genitori ed ogni altro educatore o adulto) è quello di riuscire ad instaurare una comunicazione educativa che crei un particolare atteggiamento di disponibilità a incontrare l’altro attraverso una situazione centrata sulla relazione di aiuto e di incoraggiamento, attraverso l'attivazione e l'uso di strategie educative più adatte al raggiungimento dei diversi obiettivi formativi e pedagogici. Queste diverse figure che si relazionano con l'adolescente devono acquisire alcune competenze come la capacità di saper praticare un ascolto attivo e la disponibilità a mettere in discussione se stessi. Saper praticare un ascolto attivo permette all'adulto di osservare il soggetto in crescita in modo approfondito nella quotidianità, formando un'efficace modalità di sostegno affettivo che assume anche valore terapeutico. Partendo da queste situazioni empatiche, si può instaurare un'effettiva comunicazione e una reale comprensione del soggetto che si ha di fronte. Non è semplice entrare in comunicazione empatica con l'adolescente, soprattutto per tutti quei feed-back di chiusura (difensivi) che spesso l'adolescente attiva nella comunicazione con l'adulto, ma è di fondamentale importanza cercare di capire fino in fondo ciò che il ragazzo sta vivendo. Sapersi "mettere nei panni dell'adolescente", provando le stesse sensazioni e percependo le stesse emozioni, permette di superare il limite delle parole per arrivare davvero a capire il linguaggio emotivo. Un ambiente educativo, da una parte, integra e sostiene la fragile e indefinita struttura del sé del ragazzo che sta vivendo la propria metamorfosi identitaria, e dall'altra crea un clima di fiducia in cui sentirsi accolti e compresi. L’educatore deve porsi nei confronti dell'adolescente con un atteggiamento di ascolto per comprendere la condizione in cui egli si trova, evitando il giudizio e cogliendo gli aspetti più significativi dell'adolescente e del rapporto che ha con l’esterno. Le azioni utilizzabili dall’educatore nella relazione d’aiuto includono: • Instaurarsi di una relazione fra adolescente, famiglia e contesto ambientale cercando di mantenere aperti i canali di comunicazione. • Il “fare con” mirato ad attivare iniziative riabilitative e rieducative delle capacità compromesse. • Un lavoro di rete integrato fra: equipe multidisciplinare, famiglia, scuola e risorse del territorio, nel quale l'educatore professionale avrà il compito di tenere le fila e di promuovere la comunicazione fra i diversi attori. La relazione di fiducia tra l'adolescente e l'educatore professionale è il fondamento di tutte le attività riabilitative e pone le basi per ogni programma futuro. Essa deve essere caratterizzata da accettazione, mutualità, rispetto e interesse e permettere all'adolescente in difficoltà sia di esprimere i suoi sentimenti e le sue idee sia di fidarsi delle indicazioni e dei suggerimenti ricevuti. La relazione rappresenta una delle caratteristiche distintive della figura dell’educatore professionale e il modo attraverso il quale poter raggiungere gli obiettivi prefissati. Laddove non c’è relazione interpersonale non c’è la possibilità di dare seguito alle intenzioni educative e, conseguentemente, aspirare a ottenere dei cambiamenti. La relazione educativa è una relazione asimmetrica. Questo non significa che vi sia una posizione superiore (educatore) e una posizione inferiore (adolescente), né deve essere considerata un opera di “travaso” di contenuti da educatore ad educando, oppure come una disparità incolmabile di autorità. L'asimmetria va invece ricercata all'interno di una concezione dell'atto educativo come inscindibile e sistemico rapporto tra educatore ed educando. Il rapporto che si stabilisce si configura in termini di relazione sistemica (di relazione fra sistemi) asimmetrica. Cioè la relazione non risulta paritaria per quanto riguarda conoscenze, esperienze e patrimonio culturale. La particolare asimmetria della relazione di aiuto implica, a livello comunicativo, che uno dei due interlocutori tenti di comprendere il vissuto dell'altro per offrire a quest'ultimo oggetti ricavati dal proprio mondo interno, pensieri, sensazioni, emozioni, conoscenze e schemi teorici, che servano all'altro per sviluppare potenzialità di senso, capacità di significazione e per arricchire così il proprio vissuto in armonia con le proprie inclinazioni e attitudini personali. Nello stesso tempo, chi si pone nella prospettiva di offrire all'altro elementi di arricchimento dell'esperienza personale, stimolando ad un rapporto di reciprocità dall'esperienza dell'altro, può comunque arricchire il proprio mondo interno e il proprio orizzonte di conoscenze. L'asimmetria senza reciprocità sarebbe solo una forma di dominio sull'altro. 5.3. L'importanza del gruppo terapeutico in adolescenza La pratica del gruppo terapeutico sembra particolarmente fruttuosa e risponde ad un bisogno e ad una capacità elettiva dei pazienti adolescenti. Il gruppo è un metodo privilegiato per aiutare gli adolescenti in questi momenti difficili. Il motivo per cui alcuni ragazzi e ragazze adolescenti che non sono riusciti nei gruppi comuni possono adattarsi più agevolmente a un gruppo terapeutico è la libertà di azione e la mobilità senza restrizioni che esso fornisce. Le normali aggregazioni umane automaticamente sviluppano cristallizzazioni, rigidità, codici e pressioni sociali. Si presume o si erige che ogni partecipante ne segua i costumi, le convinzioni, le idee. Le deviazioni dalle norme sono tollerate solo nella misura in cui non minacciano il benessere psichico e la coesione del gruppo. Tali gruppi possono essere definiti come gruppi di “fissità sociale”, nei quali per essere accettati, l'individuo deve adattarsi, limitare la propria autonomia o conformarsi a norme definite o implicite. Il ragazzo con disagio trova difficile tale conformismo e finisce in conflitto con il gruppo. In un gruppo terapeutico non si trovano norme, l'unica regola richiesta è il rispetto reciproco, e le pressioni al conformismo sono rare e comunque tenui. Le decisioni vengono prese dal gruppo, si tratti anche della scelta di un luogo da visitare o l'acquisto di alimenti per la merenda. Il clima complessivo sostiene l'autonomia individuale e la collaborazione nasce spontaneamente. Poiché il comportamento disturbante e deviante è accettato dall'adulto educatore, i membri del gruppo ne seguono l'esempio diventando tolleranti gli uni verso gli altri. La conversazione e la collaborazione si formano su stimolazioni date dall'educatore attraverso discussioni di gruppo, attività mirate e esperienze comuni, tenendo comunque l'attenzione ai bisogni transitori dei singoli partecipanti. L’educatore è chiamato a gestire le dinamiche relazionali che si sviluppano all'interno dei gruppi che egli stesso ha progettato e realizzato in funzione di un obbiettivo. All’interno del gruppo l'educatore professionale deve tenere conto della compresenza di due aspetti caratteristici: 1. la componente razionale, centrata sugli obbiettivi; 2. la componente emotiva, legata alla strutturazione delle relazioni. Questo equilibrio fra le due componenti si raggiunge mantenendo: • Chiarezza rispetto all’obbiettivo. • Legami affettivi significativi. • Disponibilità ad inserire nuovi elementi. • Valorizzazione e gratificazione delle capacità del singolo. • Controllo delle componenti conflittuali. • Riflessione e confronto in gruppo solo per i problemi che riguardano il gruppo stesso e il rapporto individuo/gruppo. Solitamente nell'ambito di adolescenti con problematiche simili al caso clinico di Lia riportato in questo elaborato, l'accesso al gruppo deve effettuarsi dopo un determinato periodo di incontri individuali con l'educatore professionale, periodo nel quale l'educatore stesso deciderà insieme all'èquipe, se l'adolescente abbia raggiunto quella stabilità e quelle competenze tali da non destare disequilibrio nel gruppo già esistente, e in se stesso. Esempi di attività nei gruppi terapeutici-educativi di pazienti adolescenti con problematiche relazionali e comunicative, possono essere quelle che sono state svolte con il gruppo adolescenti del servizio dove ho svolto il tirocinio universitario del quale fa parte anche Lia. Gli educatori professionali del servizio hanno creato un gruppo formato da nove adolescenti che va avanti da circa due anni, con grande entusiasmo da parte degli operatori ma soprattutto da parte degli utenti. Da ottobre 2011 è partito il progetto, al quale anche io ho partecipato, “Il nostro orto”: comprende attività che riguardano l'agricoltura, come la potatura degli ulivi, la raccolta delle olive, la preparazione del campo per la semina, le uscite per l'acquisto del relativo materiale e tanto altro ancora. Sono state proposte anche attività manuali come la creazione della carta riciclata e la rilegatura di quaderni fatti a mano, portate avanti con la collaborazione di un volontario esperto. L'anno precedente invece era stato organizzato un corso di fotografia, con l'aiuto di due volontari qualificati, che aveva come tema principale “le emozioni”. Il corso si concluse con una mostra fotografica aperta alle famiglie degli adolescenti, dove i ragazzi illustrarono tutto il percorso fatto insieme al gruppo. Recentemente i ragazzi del gruppo, nei locali e con gli istruttori di una scuola di karate25, stanno svolgendo un lavoro sulla consapevolezza del proprio corpo, sulla percezione del proprio corpo in movimento nello spazio, facendo un lavoro individuale e a coppie. Le dinamiche gruppali intendono, per mezzo di stimoli adeguati, sollecitare tutte le opportunità di rielaborazione ed analisi. Nell’esperienza del gruppo, in ambito strettamente riabilitativo si annoverano i seguenti vantaggi: Aspetto Cognitivo • maggiore ricchezza di stimoli • autocorrezione attraverso il modello di confronto • possibilità di continua interrelazione tra i vari livelli di apprendimento • rafforzamento di attenzione, memoria, creatività ed in generale dei processi di reversibilità del pensiero. Aspetto Relazionale • maggiore contenimento della frustrazione attraverso la condivisione di emozioni • verifica della circolarità delle funzioni-ruoli all’interno del gruppo • scoperta della reciprocità dei ruoli e della solidarietà. L’uso della comunicazione nella relazione è lo strumento che viene proposto in questo lavoro per facilitare il rapporto degli adulti con gli adolescenti, nella loro veste di educatori. Fra le righe della comunicazione inter-gruppo, gli adolescenti cercano di cogliere negli adulti quei segnali che rispecchiano il modo in cui sono visti e giudicati e che possono essere d’aiuto per percepire e definire la loro identità in formazione. 25 “World Seido Karate Organization Italia” con sede a Sesto Fiorentino (FI). Il desiderio implicito è che il proprio sentimento di autostima ne esca rafforzato, che vi sia un sostegno, un incoraggiamento, un rinforzo psicologico , che vi sia l’accettazione e la comprensione del proprio modo di essere, che sia usato un linguaggio che rimandi un immagine positiva e di riconoscimento del proprio percorso di autonomia. 5.4. Il lavoro con la famiglia Nella complessa rete di interventi attuati intorno alle manifestazioni di disagio in adolescenza, il lavoro con la famiglia risulta avere la stessa importanza di quello fatto con l'adolescente. Il disagio psichico di un figlio fa piombare i genitori in uno stato di profonda prostrazione, ma fin dall'inizio, li spinge anche ad impegnarsi in prima persona nell'assisterlo e nel supportarlo. Le madri, le quali solitamente si comportano in maniera diversa rispetto agli altri membri della famiglia, perché si ritengono in dovere di fornire sostegno, assistenza e dedizione in misura maggiore; esse sentono infatti che la loro identità femminile dipende dal successo riportato nel ruolo materno e, condizionate da modelli culturali, si considerano le persone più affidabili per la gestione del figlio. I padri dimostrano una loro peculiare vulnerabilità di fronte ad un figlio problematico: quelli di cultura tradizionale hanno evidenti difficoltà a mantenere atteggiamenti protettivi e normativi e ad affrontare la perdita del loro ruolo rassicurante; quelli invece abituati all'interscambiabilità dei ruoli con la compagna, rendendosi partecipi all'educazione psico-fisica dei figli, sono più disposti a condividere il carico emotivo e assistenziale richiesto. I fratelli, forse perché all'esordio del disagio si trovano quasi sempre nella fase evolutiva, sono i più vulnerabili alle conseguenze. Essi sperimentano sentimenti di perdita sia per la disfunzione del fratello e sia per la ridotta energia e vitalità dei genitori e, se tali sentimenti non sono riconosciuti ed elaborati, rischiano di rimanere per molto tempo in una situazione luttuosa, fatta di sacrifici volutamente cercati per compensare l'angoscia materna e paterna. Fattore determinante per l'efficacia del progetto di riabilitazione educativa dell'adolescente è dunque la costruzione di un rapporto di partnership tra l'équipe multidisciplinare e la famiglia, alla luce del ruolo primario che questa espleta in ambito educativo. I benefici della collaborazione possono essere così sintetizzati: • coinvolgimento ed impegno reciproci nella risoluzione di problemi cruciali; • generale soddisfazione per decisioni assunte in modo collaborativo; • condivisione delle difficoltà, delle risorse, delle competenze e dei punti di forza; • aumento dell'efficacia delle strategie di intervento; • rapporti connotati da reciproca comprensione ed empatia; • aumento dell'empowerment di tutti i soggetti coinvolti. In molti casi si ritiene opportuno, oltre alla collaborazione, l'attuazione di interventi mirati con la coppia genitoriale, con l'obbiettivo di ridare valore al ruolo genitoriale restituendogli competenza. Si tratta quindi di lavorare sull'alleanza terapeutica cercando di alleviare il senso di colpa per i danni che ritengono avere inflitto al figlio e sostenendo la possibilità del loro aiuto nella crisi. Il lavoro integrato consente quindi da un lato di tutelare e agevolare la terapia con l'adolescente e, dall'altro di avviare un cambiamento psichico nei genitori stessi e contribuire al riassetto ambientale più idoneo per mantenere ed agevolare il processo evolutivo del ragazzo. CONCLUSIONI Alla fine di questo mio lavoro credo di dover fare alcune riflessioni sulla della coppia genitoriale e la società occidentale contemporanea per il loro ruolo nelle nuove emergenze di disagio adolescenziale, al fine di delineare le possibili caratteristiche comuni con la sindrome Hikikomori. La progressiva destrutturazione delle figure genitoriali e l'attrito causato dalla coesistenza nell'inconscio sociale con le rappresentazioni più arcaiche di tali figure, possono essere chiamati in causa nella spiegazione del disorientamento che attraversa l'odierna generazione di adolescenti, e che trova espressione in alcuni emergenti fenomeni di disagio. Risulta sempre più frequente che alle spalle dell'adolescente in difficoltà vi siano famiglie formalmente “regolari” dal punto di vista dei comportamenti sociali, e non “multi-problematiche” come solitamente siano portati a pensare, ma inadeguate dal punto di vista delle risorse educative e delle capacità genitoriali. Tutto ciò è da mettere in relazione con i comportamenti “adolescenziali” degli stessi genitori, tali da creare confusione nei ruoli generazionali proprio perché i genitori non riescono a rendere asimmetrica la relazione con il figlio adolescente. I segnali che vengono dall'adolescenza, sia riferiti ad un'accettabile “normalità” di condotte sia quelli francamente psicopatologici, mostrano una perdita di autorità e autorevolezza generalizzata rispetto al “contenitore” famiglia, che non può essere riferita solo alla perdita di ruolo del padre come molto spesso si pensa, o che comunque non si limiti solo a questo. L'eclissi del padre è dato ormai acquisito, non solo nei pensieri e nei racconti dei ragazzi e delle ragazze che chiedono aiuto ai servizi, ma nella società, nella cultura. Persino nella giurisprudenza: la categoria patria potestas si è estremamente modificata. Probabilmente ci troviamo di fronte ad una società che mette in crisi il “mandato culturale” che definisce il significato e orienta i compiti del padre. La conferma di questa apertura di riflessioni sulla figura paterna è data anche da una letteratura nascente su questo tema negli ultimi anni. Dopo l'innegabile eclissi della figura paterna, si manifesta la presenza della figura materna, figura centrale, in quanto unica presenza genitoriale rimasta: <<Siamo di fronte ad una crisi della funzione materna, resa macroscopica dalla sua solitudine come unica rappresentante dell'istituzione familiare. E, [...], di una madre che si trova di fronte al figlio nel momento dell'adolescenza>>26. A. Casoni sostiene che la famiglia contemporanea, non sia più triangolare, ma bensì binaria, una madre e un figlio. Molto spesso il padre oltre alla perdita della propria funzione genitoriale, non è presente neppure fisicamente, per obblighi lavorativi oppure per separazioni/divorzi. La madre si sente investita di grosse responsabilità nei confronti del figlio, solitamente manifesta comportamenti oppressivi e ansiosi verso di esso, fino all'instaurarsi nella diade madre-figlio, di un legame ossessivo e dipendente. In alcuni casi, anche se molto rari, sono stati riscontrati i presupposti per una Sindrome di Münchhausen. Anche nella relazione con la scuola, la madre di un figlio adolescente svolge un ruolo di primo piano, non solo perché è in prima linea nella contrattazione con i docenti e verifica i compiti scolastici, ma perché l'ingresso del figlio adolescente nel ruolo sociale di studente è sentito dalla madre come predittivo della relazione che il figlio intratterrà con il mondo del lavoro, della sua capacità di competizione sociale e di affermazione. L'investimento narcisistico che la madre effettua sul successo scolastico del figlio ne è spesso una testimonianza e documenta quanto il ruolo di madre in adolescenza sia sollecitato ad espandere la propria funzione di accudimento dall'area domestica allo spazio sociale. Sono molte quindi le caratteristiche comuni tra i genitori giapponesi e quelli italiani, di figli in hikikomori. La figura del padre è assente, il padre hikikomori è dedito al lavoro per la famiglia, il padre italiano è invece spogliato dalla sua figura autoritaria di un tempo, anch'esso spesso assente fisicamente. La madre italiana al contrario di quella giapponese, non esercita sui figli una violenza simbolica per il rispetto e la riconoscenza verso padre, ma piuttosto cerca di esauturarlo dalla sua figura di padre. 26 Casoni A. (a cura di), Adolescenza liquida, Edizioni Edup, Roma 2008, (pag. 95). Il concetto di “vergogna” accomuna i giovani italiani con quelli giapponesi. L'accezione che però viene data alla vergogna è diversa. Nei giovani giapponesi questo senso di vergogna si manifesta quando, nel momento in cui entrano nella società, sono protagonisti di esperienze negative: molestie scolastiche, difficoltà nell'apprendimento, fallimenti nell'ambiente di lavoro. In Giappone, avere un buon profitto scolastico e trovare lavoro è una cosa considerata naturale, le persone che non sono brave a percorre questa strada, è molto facile che siano escluse dalla società. Di conseguenza, per le persone che per differenti problemi hanno avuto un tempo moratorio molto lungo, il momento dell'ingresso nella società diventa una fonte di stress e tensione molto forte. Le persone molto timide, ad esempio, e non molto disinvolte nelle relazioni con gli altri possono non rispondere a tutte le aspettative che la famiglia pretende da loro. Le aspettative della società e le eccessive aspettative dei genitori diventano le cause di hikikomori. Le cause di hikikomori si può così dire che derivano delle deformazioni e dai difetti della struttura della società. Quindi la vergogna è proporzionale all'insuccesso da un punto di vista scolastico e lavorativo, soprattutto se non si raggiunge quello che gli altri si aspettano. Il sentimento di vergogna negli adolescenti italiani è diverso, perché è diversa anche la strutturazione della società. La società nipponica è orientata quindi al successo scolastico e lavorativo per guadagnare un determinato status symbol, la società italiana invece si poneva questi obbiettivi fino alla fine degli anni '80: adesso invece viviamo nella “società dell'apparire”. La nostra vita quotidiana è bombardata da messaggi riguardanti la bellezza e i beni di lusso: stai nel gruppo se hai un certo abbigliamento e se hai una personalità esuberante. Gli adolescenti più timidi, hanno difficoltà ad integrarsi, non si sentono all'altezza del gruppo, non si sentono simpatici e piacenti come lo sono gli altri, e non sono in grado di instaurare relazioni con i coetanei, sviluppando la paura di sentirsi inadeguati. Da qui la tendenza alla fobia sociale e alle dismorfofobie27, fino all' autoreclusione. L'ingresso in adolescenza determina un cambiamento di specchio sociale; lo 27 Preoccupazioni eccessive relative alla forma del proprio corpo (statura ,peso sproporzioni fra le parti del corpo percepite come deformanti); ai tratti del volto ( occhi, naso, bocca, denti); caratteristiche della pelle, dei capelli, dei caratteri sessuali secondari ( seno, peluria, voce...); dimensione degli organi genitali, soprattutto nei maschi. sguardo di ritorno è quello del gruppo allargato, degli amici, della nuova famiglia sociale. In questo nuovo contesto il giudizio degli altri ha un potere molto elevato poiché può far precipitare il soggetto in quel particolare stato mentale che costituisce la “crisi acuta di vergogna”28. L'esperienza di questa crisi suscita vissuti profondi nell'adolescente: il soggetto ha un'esperienza di annichilimento e desidera sparire proprio perché ritiene che l'esperienza che ha vissuto e che ha suscitato la vergogna sia irreparabile. La crisi di vergogna conduce l'adolescente ad un ritiro nel proprio mondo interno, esercitato appunto, anche nella propria stanza. Si parla di vergogna narcisistica dell'adolescente: lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. I giovani giapponesi si autorecludono per scappare da regole troppo severe, mentre i giovani italiani lo fanno perché incapaci di gestire le relazioni sociali. Molte condotte sociali dei ragazzi attuali diventano comprensibili se si pensa che cerchino in tutti i modi di evitare il dolore della verifica di non essere all'altezza di un ideale dell'Io molto esigente e il conseguente sentimento di vergogna. Questi adolescenti rappresentano delle difficoltà a socializzare con gli altri e a diventare un membro di uno degli in-group29 presenti nella scuola. La prepotenza e l’isolamento sono normalmente le ragioni maggiori per cui decidono di lasciare la scuola. Un sentimento di “individualità”, in opposizione al sentimento dell’essere parte di un gruppo, può causare in loro la sensazione di essere diversi e per questo sbagliati. Credono inoltre di avere deluso la famiglia o che la famiglia abbia deluso loro. La ragione vera del loro assentarsi dalla scuola non è dettata dalla considerazione che la scuola non gli piace, ma dal fatto che non trovano un posto per se stessi all’interno di essa. Inoltre i nostri adolescenti problematici solitamente sono poco efficienti, sia sul piano scolastico che su quello del sociale, e spesso, ma non esclusivamente, si tratta di adolescenti che hanno seguito un processo di maturazione verso l’essere adulto che si differenzia dagli standard dalla cultura dominante. Quando si deve applicare il concetto di prevenzione a tematiche psicosociali e 28 29 Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000. Inteso come gruppo di appartenenza (Teoria dell'Identità Sociale). socio-pedagogiche, in età adolescenziale, non è possibile individuare chiaramente un unico fattore su cui è possibile intervenire. In una popolazione così facilmente condizionabile, è molto alto il rischio di influenzarla negativamente con una stigmatizzazione anticipata, data anche l’imprevedibilità delle risposte soggettive. Possiamo considerare il disagio adolescenziale come un fattore fisiologico, normale, non eliminabile, ma costitutivo di quella età, testimone di quella fase di transizione che porta all’età adulta. Prevenire in maniera invasiva o normativa il disagio evolutivo potrebbe significare bloccare il processo di crescita di un ragazzo, di cui la crisi adolescenziale non è solo un elemento costitutivo, ma ne è anche l’insostituibile motore. È necessaria perciò una prevenzione che accompagni il giovane senza che questa proponga dei propri valori, dei ruoli già definiti, ma che affronti i problemi per il significato specifico che assumono per ogni diverso ragazzo, con una modalità “transizionale”, mediatrice, e cioè che operi con il mutamento del giovane, in sintonia con il suo mondo interno. Appare evidente come, in letteratura e nella prassi operativa, ci sia stata in questi anni, un’evoluzione dal termine prevenzione a quello di “promozione”. Proprio a testimoniare la diversa concezione d’approccio al disagio giovanile che deve rimandare piuttosto all’idea di un sostegno, di uno stimolo delle risorse, di aiuto all’emancipazione della soggettività. Impostare progetti di intervento in un’ottica di promozione di salute comporta la scelta di operare in contesti di normalità, più che sulla patologia conclamata, sulla generalità della popolazione giovanile, sui loro bisogni e non solo sui soggetti problematici. La promozione deve agire facendo leva sui cosiddetti fattori protettivi, che si ritiene siano elementi capaci di esercitare un’azione di tutela degli equilibri psicologici e comportamentali di un individuo, soprattutto nelle situazioni di stress. Come frutto dell'esperienza fatta e delle riflessioni condivise con il gruppo operante nell'intervento educativo in soggetti adolescenti, le aree che devono essere rafforzate per attuare interventi di promozione, sono: • l'autostima, dando valore alla propria persona e al suo operare nell'ambiente; • l'autocontrollo, nella gestione degli impulsi; • l'adattamento al cambiamento e la fiducia nel futuro; • la capacità di interagire con l'altro e di creare una relazione, attraverso la tolleranza e l'elasticità. Come esempi pratici di promozione/prevenzione, innanzitutto si dovrebbero sensibilizzare di più gli insegnanti verso queste problematiche, proprio perché l'insegnante può interagire positivamente o negativamente sui fattori psicologici protettivi che si sviluppano nell’adolescenza. Certo deve essere un’insegnante attento e soprattutto formato a saper valutare e saper gestire le dinamiche relazionali che si stabiliscono tra ogni allievo e l’intero gruppo classe, e le dinamiche psicologiche che si proiettano sulla sua figura. L’insegnante, ben formato può aiutare a far crescere i propri allievi in modo che siano più robusti interiormente, senza per questo trasformarsi in psicologo, purché sappia lavorare anche con sé stesso, con le proprie emozioni. Poi si dovrebbe incrementare la presenza di Psicologi ed Educatori Professionali nelle scuole che, attraverso incontri individuali e di gruppo, possano individuare i ragazzi a maggior rischio e sostenerli, o semplicemente informarli e rassicurarli sulla possibilità di un aiuto, fuori dal nucleo familiare, disposto ad un ascolto senza giudizio, dove possano sentirsi liberi di esprimere le loro insicurezze ed essere accolti. Così come andrebbe fatta una grande opera d’informazione sulle famiglie, molte delle quali all'oscuro delle dinamiche proprie di questa fase della vita, e soprattutto di quelle del proprio figlio. Quindi sensibilizzare le famiglie al problema del disagio adolescenziale, organizzando per esempio gruppi di auto mutuo aiuto, con una figura professionale come l'Educatore Professionale, in qualità di mediatore. Un altro strumento di promozione potrebbe essere la Peer-Education definita dall' UNESCO come <<l'impiego di soggetti appartenenti ad un determinato gruppo (sociale, etnico, di genere) allo scopo di facilitare il cambiamento presso gli altri componenti del medesimo gruppo>>. Quasi sempre, tuttavia, essa viene intesa nella particolare accezione di “educazione tra coetanei”, che descrive le attività socio-educative di bambini e adolescenti rivolte ai pari età. Essa si dimostra vincente rispetto agli approcci pedagogici classici, soprattutto quando il messaggio veicolato ha per oggetto il “non fare”, come nel caso della prevenzione di un comportamento a rischio. E’ dimostrato che, in tali contesti, la prescrizione autoritaria può rivelarsi ininfluente o persino controproducente. La peereducation, al contrario, mette in gioco anche emozioni e competenze relazionali che consentono al messaggio informativo di pervenire al suo scopo. Il principio della sua efficacia risiede nell’attitudine, caratteristica degli adolescenti, a orientare i propri comportamenti non soltanto sulla scorta delle informazioni ricevute, ma anche in base a ciò che fanno i coetanei, e in particolare coloro che possono proporsi come figure di riferimento. L’educatore coetaneo è una persona che più di qualsiasi esperto ha accesso al mondo valoriale e simbolico dei giovani, decodifica il loro linguaggio e ha quindi l’abilità di stabilire un rapporto di fiducia e ascolto con i soggetti con cui entra in contatto. Nel caso di ragazzi che hanno già effettuato un ritiro sociale, anche come ritiro fisico nella propria abitazione, come strumento o strategia d'intervento si potrebbe pensare ad un gruppo di sostegno con l'uso di una chat-line e, vista la tendenza di questi ragazzi a comunicare solo attraverso il mondo virtuale, potrebbe essere un buon tentativo di intervento per instaurare una prima relazione di fiducia. Sicuramente la presa in carico tempestiva dei ragazzi reclusi o con serie problematiche relazionali, potrebbe preservare quella salute psichica che altrimenti verrebbe compromessa, evitando forse anche l'ingresso nella patologia mentale degli adulti. Infine, se la realtà del disagio adolescenziale non può e non deve essere negata, nello studio di tale realtà bisognerà attrezzarsi di strumenti critici che apprezzino la complessità del fenomeno, e che rifuggano da ogni riduzionismo, soprattutto quando si tende a collegare il disagio ai tratti della personalità individuale e al contesto familiare, dove si svolgono le vicende evolutive. Non si può quindi negare che quel disagio diffuso sia di origine culturale e che attraversa la nostra società, tagliando trasversalmente le tradizionali categorizzazioni di età, sesso, classe sociale. Di questo disagio diffuso devono prenderne atto e mobilitarsi, i professionisti che operano nel settore psicologico : <<...Ma è sempre ai nostri servizi che le famiglie, la scuola, i quartieri, il mondo del lavoro, la giustizia, tutti in situazione di crisi, indirizzano ogni giorno centinaia di bambini e di giovani. I nostri servizi sono così diventati un po' alla volta una specie di imbuto in cui si riversa la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea>>. La caratteristica plasticità della personalità degli adolescenti, li rende dei recettori molto sensibili al disagio di una società, all'interno della quale per loro è sempre più difficile riconoscere punti di orientamento e identità alle quali avvicinarsi. Da qui viene da chiedersi se gli adolescenti possano essere considerati come indicatori del disagio che attraversa la nostra società, e portatori di quelle problematiche che forse in un futuro prossimo, possono diventare fenomeni di disagio più generalizzati: un segnale predittivo che va ascoltato e decodificato nell'oggi. APPENDICE 1 Intervista a Tamaki Saito sul fenomeno "Hikikomori" di Claudia Pierdominici premessa di Gianfranco Palma Quando pochi mesi fa mi hanno chiesto consiglio su come rintracciare alcuni colleghi giapponesi confesso di essermi sentito in difetto di conoscenza di fronte a una realtà "altra" rispetto a quella in cui la psichiatria opera in Italia e per esteso in Occidente. In breve, per una fortunata serie di coincidenze, grazie alla collaborazione della Prof.ssa Giuliana Carli(1), è stato possibile mettersi in contatto il Dott. Tamaki SAITO(2), esperto della patologia relativa al fenomeno denominato hikikomori(3), attraverso il quale si è palesata la complessità culturale del Giappone ed i risvolti nelle diverse espressioni psicopatologiche. In particolare i modelli sociali e culturali presenti in una determinata società connotano le sofferenze individuali e ne determinano il percorso; in questo caso la sofferenza dell'individuo può oscurarsi all'interno di una società intrinsecamente collettivistica, strutturata piramidalmente e condizionata nelle relazioni interpersonali dal principio di amae, o dipendenza parentale.(4) Dall'intervista che il collega ha rilasciato nasce la necessità di riconsiderare il contesto che genera l'autoreclusione, hikikomori, alimentando il dubbio legittimo che il crescente disagio giovanile riscontrabile nella quotidianità a noi nota possa assumere via via modalità e incidenza altrettanto rilevanti anche da noi. Quelli che il Dott. Saito definisce "mammoni", sembrano condividere parzialmente alcuni punti del disagio caratterizzante il fenomeno giapponese, ma ricordano anche i NEET (acronimo per No Employment, Education, Training), i giovani allo sbando nella società inglese. L'intervista che segue apre alla possibilità di un confronto più ampio sul "lontano", in termini culturali, legislativi, metodologici, e nel contempo suggerisce l'esistenza di denominatori comuni riconoscibili che necessitano di approfondimento. Inoltre i rapidi cambiamenti della società italiana sul versante della multiculturalità ci pongono l'esigenza di un approccio nuovo sul piano operativo e soprattutto sul piano del nostro atteggiamento mentale. In questa visione allargata si apre uno spazio di riflessione sui rapporti tra strutture linguistiche e modalità di costruzione del pensiero e delle rappresentazioni mentali: le forme di espressione psicopatologica hanno una matrice comune indipendentemente dalle evoluzioni socioculturali o esistono configurazioni diverse a seconda dei processi di costruzione del linguaggio e del pensiero? Ringrazio la Prof.ssa Giuliana Carli, per il supporto linguistico e le stimolanti conversazioni che hanno reso possibile realizzare questo contributo, e la Dott.ssa Claudia Pierdominici(5) autrice dell'intervista. L'intervista di Claudia Pierdominici L' intervista che segue mi è stata rilasciata da Dott. Saito il 12 aprile 2008, a Tokyo. In quell'occasione ho avuto modo di constatare la disponibilità e l'immediatezza del Dott. Saito, cui sono grata, durante una piacevole conversazione seduti al tavolo di una caffetteria. Il mio interesse per il fenomeno dello hikikomori è abbastanza recente, ma da subito ho ritenuto fondamentale stabilire un contatto con chi di questo argomento si occupa da tempo e per questo può guidarci alla comprensione di una realtà che, seppure lontana nello spazio, incuriosisce e pone degli interrogativi importanti. E' con questo pensiero e, naturalmente, grazie alla cortesia del Dott. Saito, che è stata possibile una diretta esperienza su un aspetto problematico della società giapponese; mi auguro di proseguire, condividendo le preziose informazioni ricevute, con chi come me ha un interesse per il Giappone e la sua attualità. Dottor Saito, a quando risale il primo episodio di hikikomori? SAITO: La prima volta che mi sono imbattuto nel fenomeno dello hikikomori è stato quando, diventato psichiatra, ho incontrato il mio primo paziente. Questa è stata la mia esperienza. A quel tempo i pazienti hikikomori erano tanti ma, dato che questo nome non esisteva ancora, noi chiamavamo il fenomeno Apatia o Sindrome di Apatia. In base alla sua esperienza si può dire che negli ultimi anni lo hikikomori stia aumentando? Se sì, perché? SAITO: Il numero di hikikomori sta aumentando. In Giappone se ne contano circa 1 milione e questo numero è in crescita. Perché questo? La ragione è che una persona una volta diventata hikikomori si isola dalla società e non riesce a reinserirsi da sola. Perché è molto difficile uscire dall'isolamento. Le persone colpite da hikikomori restano tali e via via la schiera si infoltisce. Un esempio è la dispersione scolastica(6): i ragazzi che smettono di frequentare la scuola diventano hikikomori. In Giappone questi ragazzi sono 127.000. Di questi circa il 10% diventano hikikomori e ogni anno la percentuale di nuovi casi è sempre la stessa. Praticamente non si registrano casi di ritorno spontaneo alla normalità. Il numero di hikikomori cresce per questa ragione. Se un genitore di un ragazzo hikikomori venisse da lei per un consiglio, cosa gli direbbe? SAITO: Io ho scritto dei libri sullo hikikomori il cui intero contenuto riguarda consigli per i genitori. Quindi lei dice di comprare il libro?! SAITO: Ah, ah! Sì, comprate il libro! Comunque ora mi spiego meglio. I genitori rimproverano il figlio hikikomori, ma cercare di persuaderlo solo attaccandolo non aiuta a modificare la situazione. Per questo il mio primo consiglio è quello di accettare la condizione del ragazzo e di farlo vivere serenamente in casa. Così facendo migliora il rapporto genitore-figlio e lo hikikomori parla al genitore dei suoi problemi e del suo dolore. E' da qui che può decidersi ad andare in terapia o ricorrere a un ricovero. Se perdura il conflitto tra genitori e figli è impossibile trovare una soluzione. In Giappone c'è un programma di volontariato gestito da un'associazione chiamata New Start(7). Anche dall'Italia molte persone partecipano all'iniziativa e vengono in Giappone da volontari a sostegno dei ragazzi hikikomori. Lei, Dottor Saito, cosa pensa della New Start? SAITO: Penso che la New Start sia ammirevole nella fase iniziale di sostegno. Tuttavia manca di medici e consulenti specializzati e questo è il punto debole. Conosci le "rental onesan"? Vanno a trovare lo hikikomori in casa e lo aiutano... Ah, sì. Ne ho sentito parlare. Sono le "sorelle in prestito", chiamate dai genitori degli hikikomori per aiutarli a superare l'isolamento. SAITO: Sì. L'idea è una buona idea, ma mi pare che non abbiano alcuna formazione specifica. Hanno un programma dai ritmi sostenuti, forse poco adeguato. Questo mi lascia in dubbio, oltre al fatto che molti pazienti credono che vivere insieme o lavorare insieme sia di per sé un processo terapeutico. Loro non si occupano dei ragazzi che rifiutano di partecipare al programma. In questo senso vedo dei problemi. Comunque nel complesso penso sia ammirevole quello che fanno. Purtroppo il Giappone è un paese con un'alta percentuale di suicidi(8). Com'è questa percentuale tra gli hikikomori? SAITO: Molto bassa. Spesso gli hikikomori mi dicono che vogliono morire ma non ce la fanno perché il loro narcisismo li salva. Una salutare forma di autocompiacimento impedisce loro di togliersi la vita, vorrebbero ma non possono. Per questo la percentuale dei suicidi è bassa. In Giappone c'è un qualche tipo di aiuto da parte del Ministero della Sanità o da parte di altre istituzioni? Se sì, in che misura? Se no, perché? SAITO: Questo è molto importante. L'aiuto c'è. In tutte le prefetture(9) ci sono centri per la salute mentale e l'assistenza sociale che si occupano anche di hikikomori. Le strutture a livello locale esistono, ma in Giappone ci sono pochissimi specialisti con una buona formazione, e a causa di ciò il sostegno risulta insufficiente. Quindi le strutture di sostegno lavorano bene ma, mancando ancora gli specialisti, gli interventi non sono del tutto efficaci. Il Sofukai Sasaki Hospital, dove lei lavora, è una clinica privata o un ospedale pubblico? SAITO: E' una clinica privata(10). Secondo lei c'è una possibilità che il fenomeno hikikomori si estenda al resto del mondo o lo si deve considerare un fenomeno tipicamente giapponese? SAITO: Io penso che il fenomeno hikikomori sia equivalente al fenomeno dei giovani senza fissa dimora in Europa e in America. In entrambi i casi si emarginano dalla società, con la differenza che in Giappone lo fanno restando nelle loro case. Per questo non penso che il fenomeno possa estendersi ad altri paesi. Ho ricevuto molte e-mail dall'Italia, in particolare dall'Italia e non da altri paesi. Non so perché ma dall'Italia mi arrivano tante domande. Probabilmente dal prossimo anno saremo in contatto con l'Università di Palermo, lì in molti collaborano e studiano questo fenomeno. In Italia ci sono molte persone interessate allo hikikomori. Un altro paese è l'Inghilterra. Sono stato intervistato dalla BBC circa cinque anni fa e grazie a loro molte persone nel mondo sono venute a conoscenza del fenomeno. Non si estenderà altrove, ma non c'è solo in Giappone; anche in Corea gli hikikomori sono tanti. Oggi i paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, che sono aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il Confucianesimo(11) e in particolare il concetto di pietà filiale. Sono culture in cui la pietà filiale è un valore molto enfatizzato. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell'alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo "parasite singles", mentre in Italia si chiamano "mammoni"! Sì, proprio così...mammoni! SAITO: Ecco, se pensiamo che una parte di questi "parasite singles" è destinata a diventare hikikomori il fenomeno è più facile da capire. Pensando all'hikikomori come a una patologia sociale si può dire che potrebbe estendersi anche in America o in Europa. A riguardo, non pensa siano utili confronti con gli altri paesi, scambi internazionali o provvedimenti comuni? SAITO: Penso sia giusto considerare l'hikikomori una patologia sociale. Tuttavia, data la differenza tra le culture, in America e in Europa penso che siano pochi e che non aumentino in modo considerevole. Il motivo è che i genitori americani ed europei mandano via di casa il figlio adulto e quindi il figlio non può diventare hikikomori. In Giappone restano in casa anche a trenta, quarant'anni e i genitori continuano a provvedere a loro. Non penso che il fenomeno possa andare oltre il Giappone e la Corea. Comunque parlare di scambi internazionali ha senso. Per quanto riguarda i miei pazienti, ce ne sono alcuni che grazie a viaggi all'estero e al contatto con stranieri hanno superato l'hikikomori, quindi credo che gli scambi internazionali siano utili a tal fine. Un po' come fa la New Start con l'Italia, io, che ho un programma diverso, faccio scambi di pazienti con la Corea. Attraverso lo scambio culturale, frequentando l'Università in Corea, abbiamo avuto casi di guarigione di hikikomori giapponesi. E ora passiamo all'ultima domanda. Facendo un confronto tra Italia e Giappone possiamo notare che le cause del disagio giovanile sono le stesse (bullismo nelle scuole, mancanza di interessi o di modelli in famiglia, ecc.). Tuttavia in Italia non esiste un fenomeno simile allo hikikomori. Un giovane in Italia, piuttosto che chiudersi nella propria stanza, è più facile che reagisca al suo disagio sociale finendo nella microcriminalità, drogandosi o avendo disturbi alimentari quali l'anoressia e la bulimia. I giapponesi, che vivono in una società più attenta al gruppo e all'armonia, invece di reagire in modo concreto, sembrano preferire il silenzio. Lei cosa ne pensa? SAITO:Queste diversità sono interessanti. Anche in Giappone ci sono molti casi di Anoressia e Bulimia nervose, ma non al livello dell'Italia. La foto di quella modella anoressica sui giornali italiani dimostra che probabilmente la situazione è seria. In Italia ce ne sono di più. Nei paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell'Italia, ce ne sono. No? Non ne ho mai sentito parlare. Forse sì. SAITO: Nei paesi in cui i rapporti familiari sono importanti anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c'è il problema dell'"amae" (dipendenza parentale). In Giappone senz'altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possonopensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c'è un dogma religioso, la gente non ha un credo, noi crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori e forse è una condizione tipicamente giapponese. Note: 1) Giuliana CARLI è docente di Lingua e Letteratura Giapponese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università "Sapienza" di Roma. 2) Tamaki SAITO è nato nel 1961 a Iwate, si è laureato in medicina all'Università di Tsukuba specializzandosi in psichiatria adolescenziale. E' da anni impegnato nell'assistenza e nel trattamento di hikikomori, in tale ambito è uno degli esperti più qualificati. Attualmente è Direttore Clinico del Sofukai Sasaki Hospital, una clinica privata di Chiba, non lontano da Tokyo; ha pubblicato saggi di successo in ambito psicoanalitico, letterario, su tematiche culturali e sociali, sull'arte moderna. Le frequenti apparizioni televisive e il coinvolgimento verso forme culturali d'avanguardia hanno contribuito ad accrescere la sua fama in Giappone e nel mondo. 3) Il termine "hikikomori" , contrazione di shakaiteki hikikomori (ritirarsi dalla società) fu coniato negli anni '80 ad indicare un fenomeno socialmente preoccupante emerso in Giappone circa dieci anni prima. Trattandosi a tutti gli effetti di una se-clusione dal contesto sociale, si è scelto qui di tradurre il termine con auto-isolamento (hikikomori è la forma sostantivizzata di due verbi: hiku, indietreggiare, e komoru, isolarsi, nascondersi; in giapponese, e ormai nelle altre lingue, hikimomori indica sia il fenomeno che il soggetto colpito da tale fenomeno). Laddove si riscontri una tendenza all'auto-isolamento per almeno sei mesi, soprattutto nella fascia d'età dai 14 ai 30, si parla di hikikomori. Il primo passo verso questa particolare condizione sembra essere l'abbandono scolastico, seguito dal rifiuto graduale di qualsiasi contatto con l'ambiente esterno. A causa di questo auto-isolamento, benché il soggetto non parta da una condizione di svantaggio mentale, lo hikikomori può arrivare a soffrire di malattie mentali secondarie quali antropofobia, paranoia, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione. 4) Amae è entrato nel lessico analitico-sociologico come sinonimo di "dipendenza" o di "indulgenza" nelle relazioni interpersonali che caratterizzano la società giapponese, in primis le relazioni parentali, dalle quali ci si aspetta un certo grado di soddisfazione emotiva, secondo la teoria ampiamente diffusa da Takeo DOI in Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina Editore, 1971. 5) Claudia PIERDOMINICI ha conseguito la laurea in Lingue e Culture del Mondo Moderno presso l'Università "Sapienza" di Roma. L'intervista da lei realizzata sarà parte della tesi di specializzazione in corso di stesura sullo stesso argomento. 6) Il Giappone ha avuto un picco di rifiuto della frequenza scolastica nel 2001 con con 138.722 casi registrati , rispetto ai 122.255 del 2005; sempre nel 2005 gli episodi di bullismo sono stati 34.038. In totale i casi di abbandono scolastico nella scuola secondaria inferiore e superiore relativi al 2005 ammontano a 76.693, pari ad una percentuale del 2,1%; questo dato è rilevante in relazione all'altissimo grado di scolarizzazione riscontrabile in Giappone. 7) La New Start è un'organizzazione no profit la cui sede centrale è in Giappone, nelle prefetture di Chiba e Yamanashi. Possiede altre sedi secondarie in Italia, nelle Filippine e in Australia. L'organizzazione si propone di aiutare prevalentemente i giovani con difficoltà di comunicazione e integrazione nella società. Ha la finalità di migliorare la loro capacità di interagire e di renderli indipendenti dalla famiglia, assegnando loro piccoli incarichi o lavori e organizzando con soggiorni in una sede all'estero. In genere sono i genitori a contattare la New Start e a far partecipare il figlio alle attività del programma, pagando una quota. La New Start si propone come un'estensione della famiglia e in questo senso prevede anche la figura della cosiddetta "sorella (o fratello) in prestito", che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un contatto con lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma. 8) Secondo i dati forniti dalla National Police Agency il numero totale dei suicidi in Giappone per il 2007 è stato di 33.093, in aumento rispetto agli anni passati, (dopo il totale di 34.427 raggiunto nel 2003). Dai dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità il Giappone è la seconda nazione, dopo la Russia, con la più alta percentuale di suicidi. Tra le varie fasce di età la percentuale maggiore si registra tra gli uomini con età superiore ai 60 anni.. Negli ultimi anni si è verificato un forte incremento anche per il gruppo d'età inferiore ai 19 anni, il cui numero di suicidi è salito da 608 nel 2005 a 623 nel 2006. Sembra esistere una correlazione tra suicidi e bullismo nelle scuole. 9) Il Giappone è suddiviso in otto zone geografiche, ognuna delle quali è a sua volta organizzata in prefetture. Le prefetture del Giappone sono 47 e furono stabilite dal governo Meiji nel 1871 in sostituzione delle precedenti province. Rappresentano pertanto degli enti locali con competenze su base territoriale. 10) Le cliniche private, come anche le strutture pubbliche, funzionano in Giappone col sistema assicurativo sanitario. Secondo una legge entrata in vigore nel 1961 ogni cittadino giapponese deve essere coperto da un'assicurazione sulla salute che possa coprire gran parte delle spese mediche e assicurare al cittadino la possibilità di essere curato indipendentemente dal reddito. 11) Originario della Cina, il Confucianesimo è l'insieme delle dottrine etico-politiche predicate da Confucio (551?- 479 a.C.). Secondo questa dottrina, nata allo scopo di mantenere l'ordine sociale nella Cina di quel tempo, le virtù-chiave che l'uomo deve perseguire sono il dovere filiale, l'altruismo, comportamento sociale, e la lealtà-fedeltà verso lo Stato. Nel Confucianesimo ha un ruolo fondamentale la ritualità dei comportamenti e in particolare il rito del culto degli antenati. La sua introduzione in Giappone risale circa alla metà del VII secolo, tempo in cui ci fu una massiccia adozione delle pratiche culturali cinesi; il Confucianesimo ha profondamente influenzato la cultura giapponese da quando fu stigmatizzata come dottrina di stato in epoca Tokugawa (16031867) e fino al XIX secolo. APPENDICE 2 YSR/11-18 - Narrative Report ID: 1- B BIRTH DATE: 14/12/94 AGE: 17 GENDER: MALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by b to obtain his perceptions of his competencies and problems. B reported that he participates in one sport and that he has interests in two hobbies. He belongs to two social organizations, teams or clubs. B reported that he has one job or chore. B's responses indicate that he has two or three close friends and that he sees friends one or two times a week outside of regular school hours. B rated his school performance as average in language arts, average in social studies, average in math, and average in science. He rated his performance in two additional subjects as above average and above average. B's Total Competence score was in the normal range for self-reports by boys aged 11 to 18. His scores on the Activities and Social scales were both in the normal range. On the YSR problem scales, b's Total Problems and Internalizing scores were both in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles) for boys aged 11 to 18. His Externalizing score was in the normal range. His scores on the Withdrawn, Somatic Complaints, Anxious/Depressed, Social Problems, Thought Problems, Delinquent Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in the normal range. His score on the Attention Problems syndrome was in the borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that b reported more problems than are typically reported by boys aged 11 to 18, particularly attention problems. B's profile of problems on the YSR was significantly similar to the Withdrawn profile type. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: MECHANIC MOTHER'S WORK: HOUSEWIFE EDUCATION: 4° SUPERIORE ID: 2- C BIRTH DATE: 25/02/1996 AGE: 16 GENDER: MALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by c to obtain his perceptions of his competencies and problems. C reported that he participates in no sports and that he has interests in two hobbies. C reported that he has no jobs or chores. C's responses indicate that he has no close friends and that he sees friends less than once a week outside of regular school hours. C rated his school performance as above average in language arts, average in social studies, average in math, and below average in science. Because some competency items were not rated, a Total Competence score was not calculated for c. Because of missing information, c had no score on the Social scale. His score on the Activities scale was in the clinical range below the 2nd percentile. On the YSR problem scales, c's Total Problems and Internalizing scores were both in the clinical range above the 90th percentile for boys aged 11 to 18. His Externalizing score was in the normal range. His scores on the Somatic Complaints, Delinquent Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in the normal range. His scores on the Withdrawn, Social Problems, and Attention Problems syndromes were in the clinical range above the 98th percentile. His scores on the Anxious/Depressed and Thought Problems syndromes were in the borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that c reported more problems than are typically reported by boys aged 11 to 18, particularly withdrawn behavior, problems of anxiety or depression, problems in social relationships, thought problems, and attention problems. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: PLUMBER (IDRAULICO) MOTHER'S WORK: ASSISTANT COOK EDUCATION: 1° SUPERIORE ID: 3- D BIRTH DATE: 12/06/1997 AGE: 14 GENDER: FEMALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by d to obtain her perceptions of her competencies and problems. D reported that she participates in three sports and that she has interests in one hobby. She belongs to two social organizations, teams or clubs. D reported that she has no jobs or chores. D's responses indicate that she has two or three close friends and that she sees friends one or two times a week outside of regular school hours. D rated her school performance as below average in language arts, average in social studies, average in math, and below average in science. D's Total Competence score was in the clinical range below the 10th percentile for self-reports by girls aged 11 to 18. Her scores on the Activities and Social scales were both in the normal range. On the YSR problem scales, d's Total Problems and Externalizing scores were both in the clinical range above the 90th percentile for girls aged 11 to 18. Her Internalizing score was in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles). Her scores on the Withdrawn, Somatic Complaints, Social Problems, Thought Problems, and Delinquent Behavior syndromes were in the normal range. Her scores on the Anxious/Depressed, Attention Problems, and Aggressive Behavior syndromes were in the borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that d reported more problems than are typically reported by girls aged 11 to 18, particularly problems of anxiety or depression, attention problems, and problems of an aggressive nature. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: WAREHOUSEMAN (MAGAZZINIERE) MOTHER'S WORK: CLEANING LADY EDUCATION: 3° MEDIA ID: 4- E BIRTH DATE: 08/09/1995 AGE: 16 GENDER: FEMALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by e to obtain her perceptions of her competencies and problems. E reported that she participates in two sports and that she has interests in two hobbies. She belongs to no social organizations, teams or clubs. E reported that she has one job or chore. E's responses indicate that she has two or three close friends and that she sees friends three or more times a week outside of regular school hours. E rated her school performance as average in language arts, average in social studies, average in math, and below average in science. She rated her performance in two additional subjects as average and below average. E's Total Competence score was in the clinical range below the 10th percentile for self-reports by girls aged 11 to 18. Her score on the Activities scale was in the borderline clinical range (2nd to 5th percentiles), and her score on the Social scale was in the normal range. On the YSR problem scales, e's Total Problems and Internalizing scores were both in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles) for girls aged 11 to 18. Her Externalizing score was in the normal range. Scores on all rated syndrome scales were in the normal range. E's profile of problems on the YSR was significantly similar to the Withdrawn profile type. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: RETIRED PERSON MOTHER'S WORK: OFFICE WORKER EDUCATION: 2° SUPERIORE ID: 5- F BIRTH DATE: 13/03/1994 AGE: 18 GENDER: MALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by f to obtain his perceptions of his competencies and problems. F reported that he participates in three sports and that he has interests in two hobbies. He belongs to one social organization, team or club. F reported that he has two jobs or chores. F's responses indicate that he has two or three close friends and that he sees friends one or two times a week outside of regular school hours. F rated his school performance as average in language arts, average in social studies, below average in math, and above average in science. He rated his performance in three additional subjects as average, average, and above average. F's Total Competence score was in the borderline clinical range (10th to 16th percentiles) for self-reports by boys aged 11 to 18. His scores on the Activities and Social scales were both in the normal range. On the YSR problem scales, f's Total Problems, Internalizing, and Externalizing scores were all in the normal range for boys aged 11 to 18. Scores on all rated syndrome scales were in the normal range. F's profile of problems on the YSR was significantly similar to the Somatic Complaints profile type. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: SHOP ASSISTANT MOTHER'S WORK: SCHOOLTEACHER EDUCATION: 3° SUPERIORE ID: 6- G BIRTH DATE: 06/11/1996 AGE: 15 GENDER: FEMALE INFORMANT: SELF DATE: 26/03/2012 The Youth Self Report (YSR) was completed by g to obtain her perceptions of her competencies and problems. G reported that she participates in three sports and that she has interests in two hobbies. She belongs to two social organizations, teams or clubs. G reported that she has two jobs or chores. G's responses indicate that she has four or more close friends and that she sees friends three or more times a week outside of regular school hours. G did not rate her school performance in any subject areas. Because some competency items were not rated, a Total Competence score was not calculated for g. Her scores on the Activities and Social scales were both in the normal range. On the YSR problem scales, g's Total Problems and Internalizing scores were both in the clinical range above the 90th percentile for girls aged 11 to 18. Her Externalizing score was in the normal range. Her scores on the Withdrawn, Somatic Complaints, Thought Problems, Attention Problems, Delinquent Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in the normal range. Her scores on the Anxious/Depressed and Social Problems syndromes were in the borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that g reported more problems than are typically reported by girls aged 11 to 18, particularly problems of anxiety or depression and problems in social relationships. G's profile of problems on the YSR was significantly similar to the Social Problems profile type. OTHER INFORMATION FATHER'S WORK: HOUSE MOVER MOTHER'S WORK: HOUSEWIFE EDUCATION: NO SCHOOL BIBLIOGRAFIA American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV). Tr. it., Masson, Milano 1996. Ammaniti M e Novelletto A. (a cura di) , Psicopatologia dell'adolescente, Masson, Milano 1983. Ammaniti M. e Novelletto A.(a cura di), Adolescenza e psicopatologia, Masson, Milano 1999 (5° edizione). Ammaniti M., Manuale di psicopatologia dell'adolescenza, Raffello Cortina Editore, Milano 2002. André C. e Légeron P., La paura degli altri, Einaudi, Torino 2000. Ariès P., Padri e figli nell' Europa medievale e moderna, Edizioni La Terza, Roma 1991. 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