universita` degli studi di firenze

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universita` degli studi di firenze
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI
FIRENZE
FACOLTA’: MEDICINA E CHIRURGIA e SCIENZE DELLA
FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE
(abilitante alla professione sanitaria di Educatore Professionale) (classe
SNT/2)
“Dalla Fobia Scolare all' Hikikomori:
l'adolescente e il disagio sociale oltre i confini
nosografici e culturali.”
Relatrice:
Prof.ssa Maria Cristina Stefanini
Canditata:
Francesca Mussari
Correlatrice:
Ed. Prof.le Manuela Nardi
Anno Accademico 2010/2011
A tutti gli adolescenti
INDICE
INTRODUZIONE
3
CAP. 1 – ADOLESCENZA: PASSAGGIO, CRISI E SCOMPENSO
5
1.1 – Epistemologia ed excursus storico
1.2 – I Modelli di Comprensione
1.2.1 Il modello Fisiologico: la pubertà
1.2.2 Il modello Sociologico
1.2.3 Il modello Psicoanalitico
1.2.4 Il modello Cognitivo-Educativo
1.3 – L'adolescente e la famiglia
1.4 – L'adolescente a scuola
1.5 – Break-Down adolescenziale
5
7
8
10
11
15
16
18
20
CAP. 2 – L'ADOLESCENTE ODIENRO: DAL DISAGIO A NUOVE
PATOLOGIE
27
2.1 – Ansia, angoscia e paura
2.2 – Disturbi
2.2.1 Disturbo d'ansia generalizzato
2.2.2 Disturbo d'ansia da separazione
2.2.3 Fobia sociale
2.2.4 Inibizione Relazionale
2.3 – Fobia Scolare
2.3.1 Descrizione
2.3.2 Espressione sintomatica
2.3.3 Approccio pscicopatologio
2.3.4 Presa in carico ed evoluzione
27
29
29
31
33
35
35
35
36
39
40
CAP. 3 – HIKIKOMORI: dal Giappone all'Italia?
43
3.1 – Che cosa vuol dire Hikikomori
3.2 – Non è una malattia ma produce malattia
3.3 – Scuole speciali
3.4 – La dipendenza dalla madre
3.5 – La violenza simbolica del padre che non c'è
3.6 – La pazienza che cura
43
46
49
51
53
55
3.7 – Un fenomeno trasculturale?
58
CAP. 4 – CASI CLINICI
62
4.1 – Lia
4.2 – Sofia
4.3 – Somministrazione questionario Youth Self Report 11/18
62
67
70
CAP. 5 – L'EDUCATORE PROFESSIONALE E IL PROGETTO
EDUCATIVO NEGLI ADOLESCENTI
73
5.1 – Le competenze dell'Educatore Professionale, l'Équipe Multidisciplinare e
il Lavoro di Rete
5.2 – La Relazione Educativa
5.3 – L'importanza del gruppo terapeutico in adolescenza
5.4 – Il lavoro con la famiglia
73
78
80
84
CONCLUSIONI
86
APPENDICE
Appendice 1
Appendice 2
94
94
101
BIBLIOGRAFIA
107
SITOGRAFIA
110
INTRODUZIONE
L'interesse per le problematiche che riguardano il periodo adolescenziale è nato
dopo la mia esperienza di tirocinio diretto, svoltosi presso una delle U.F. SMIA
dell' Asl 10 di Firenze. Durante questo periodo ho avuto la possibilità di seguire
casi di adolescenti con grosse difficoltà nella regolare frequenza scolastica a causa
di disturbi d'ansia, tali da far supporre la presenza di Fobia Scolare, accompagnata
da sintomi di Inibizione Relazionale.
In particolare la mia attenzione si è rivolta a due casi di ragazze adolescenti, che
dopo il rifiuto di frequentare la scuola, si sono ritirate presso la propria abitazione,
ponendo le basi per un vero e proprio ritiro sociale. E proprio da questo è nato il
mio interesse ad analizzare la questione del ritiro sociale in adolescenza da un
punto di vista epidemiologico, fino a scontrarmi con il fenomeno giapponese,
tipicamente maschile, dell' Hikikomori.
Nel primo capitolo metterò a fuoco i nodi centrali del processo adolescenziale
partendo da come è cambiata l'adolescenza negli anni, passando poi ad un' analisi
teorica dei processi cognitivi e delle teorie psicoanalitiche, per poi descrivere le
dinamiche familiari e scolastiche tipiche del periodo, fino alla descrizione del
break-down adolescenziale.
Nel secondo capitolo descriverò i disturbi d'ansia che possono manifestarsi nel
disagio di questi adolescenti, fino alla definizione della Fobia Scolare.
Nel terzo capitolo invece descriverò il fenomeno dell'Hikikomori, dal punto di
vista sintomatologico e da come la società giapponese possa influire sul
manifestarsi di questo disagio.
Nel quarto capitolo parlerò dei due casi clinici sopra citati e della
somministrazione di un questionario Self Report ad un piccolo gruppo di
adolescenti in carico al servizio territoriale.
Il quinto capitolo invece sarà dedicato al ruolo dell'Educatore Professionale,
descrivendone le competenze e gli strumenti che può utilizzare nell'intervento
educativo in adolescenti con questo tipo di disagio.
La domanda che mi sono posta alla fine di questo lavoro è se non sia proprio la
società stessa a portare questa fascia di popolazione verso lo sviluppo di questo
disagio.
Come lo sono state le isteriche del primo novecento di Freud e le anoressiche
della fine del secolo scorso, mi chiedo dunque se i giovani in hikikomori
potrebbero diventare l'espressione di un nuovo disagio umano nella società post
capitalistica, ma piuttosto la negazione dell'adolescente stesso che si nega al
mondo esterno.
CAPITOLO 1
ADOLESCENZA: PASSAGGIO, CRISI E SCOMPENSO.
1.1.
Epistemologia ed excursus storico
La fase che va dalla pubertà alla giovinezza risulta cruciale per lo sviluppo umano
in quanto è connotata da una rapida trasformazione corporea, psicologica e
sociale. Gli studi effettuati sull'adolescenza in prospettiva storica sostengono che i
giovani hanno sempre dovuto affrontare questo periodo critico di trasformazione
fisica e sociale.
L'adolescenza come la intendiamo oggi, un gruppo sociale con caratteristiche e
specificità proprie che definisce un periodo di diversi anni della vita, sarebbe
apparsa nel XVIII e XIX secolo. Alcuni invece riconoscono che, l'adolescenza
come gruppo autonomo e d'opposizione al mondo degli adulti, sia nata solamente
dopo la seconda guerra mondiale.
Philippe Ariès ha scritto: <<il bambino passava direttamente dalle gonne delle
donne al mondo degli adulti. Bruciava le tappe della giovinezza o
dell'adolescenza. Da bambino diventava immediatamente un piccolo adulto
vestito come gli uomini o le donne, mischiato a loro, senza altra distinzione se non
la statura. Tra l'altro è probabile che nelle nostre società passate, i bambini
entrassero nella vita attiva degli adulti prima di quanto avviene nelle società
primitive e nelle nostre società attuali>> 1. Così fino all'Ottocento in occidente i
bambini venivano considerati tali finché non avevano appreso ciò che la loro
classe sociale riteneva fondamentale per diventare, appunto, un “piccolo adulto”.
Si deve riconoscere però, che a partire dall'antichità, il rimando alla giovinezza
esiste spesso sotto forma di appello alle virtù di forza e di coraggio nel caso di
addestramento militare o azioni di difesa per il proprio popolo. Nelle società
tradizionali, infatti, la figura dell'adolescente non era considerata, anzi
1
Ariès P., Padri e figli nell' Europa medievale e moderna, Edizioni La Terza, Roma 1991.
l'adolescenza era un periodo di addestramento alla socializzazione nel mondo
degli adulti, scandito da tappe culturalmente predefinite attraverso le quali
giungere al riconoscimento sociale dell'identità adulta.
L'adolescenza in alcune epoche storiche era anche più lunga di quanto non lo sia
adesso: A Roma si era puer sino a quindici anni, adulescens dai quindici ai
trent'anni. Nel rinascimento l'infanzia durava fino ai sette anni, la puerizia fino ai
quattordici e l'adolescenza dai quattordici ai ventuno. A Firenze nel 1427 l'età
media alla quale ci si sposava era di ventinove anni come lo dimostrano alcuni
studi effettuati sul catasto fiorentino dal 1427-29 2.
Il rapporto tra pubertà e adolescenza si fa più complesso se si prendono in
considerazione i dati provenienti dagli studi di antropologia culturale, riguardo i
riti ed i periodi di iniziazione.
In alcuni casi, il trapasso dall'infanzia all'età adulta avviene senza scosse e rimane
ignorato dalla società, mentre in altri casi i riti della pubertà portano con sé un
trapasso non dalla fanciullezza all'adolescenza, ma dalla fanciullezza all'età
adulta. La letteratura sull'argomento evidenzia il fatto che non sempre il rito di
iniziazione avviene in contemporanea con il momento della pubertà; inoltre
mentre la durata della pubertà è stabilita da fattori biologici, quella
dell'adolescenza è sociale ed è determinata dalle istituzioni e dalle norme che
vigono in un dato gruppo sociale. Esse possono coincidere, ma ciò non accade
necessariamente. Si afferma spesso che una delle caratteristiche del mondo
"moderno" è la scomparsa dell'iniziazione: al contrario nelle società tradizionali
esistono numerose varianti dei riti di iniziazione.
I riti di iniziazione relativi al passaggio dall'età dell'infanzia a quella adulta,
vengono celebrati alle soglie della pubertà e sanciscono l'ingresso ufficiale del
giovane nella comunità degli adulti. Tale passaggio viene rappresentato attraverso
una morte e una rinascita simbolica: il giovane muore nella sua vita infantile per
rinascere in un'esistenza di adulto. <<Nei riti iniziatici, l'adolescente maschio o
femmina impara a confrontarsi con i diversi contesti che dovrà governare una
volta adulto e viene modellato così da essere e sentirsi realisticamente adeguato a
2
D. Herlihy and C. Klapsch-Zuber, Les Toscans et leurs Familles, une étude du catasto florentin
de 1427, Paris 1978, (pag.614).
ruoli previsti e nelle relative appartenenze sociali: incontra perciò anche dolore,
frustrazioni e conflitti interni, tra le diverse parti del Sé, ed esterni, sociali,
insieme al festeggiamento della riconosciuta capacità di generare>> 3.
In Europa, verso la fine del XIX secolo prese vita una nuova figura di adolescente,
il quale poteva confrontarsi, e che ancora può, non più solamente con il mondo
degli adulti, ma anche con il gruppo dei pari. Questo avvenne grazie ai
considerevoli cambiamenti in campo economico e sociale, accompagnati da una
profonda evoluzione del sistema scolastico, aumentando gli anni della scuola
dell'obbligo e di conseguenza posticipando l'ingresso nel mondo del lavoro.
<<Oggi, nella nostra società, invece di festeggiare la pubertà e farsi carico della
trasformazione dei ragazzi e delle ragazze, il mondo adulto sembra preferire
lasciarli liberi di strapparsi o meno dall'universo infantile, e di scegliersi il loro
destino, che lo affrontino da soli o col gruppo dei pari: così si può sognare di non
scartare nessuno. Il rischio è di negare a molti di loro i punti di riferimento utili
per conquistare il Sé adulto con fatica, ma anche con il piacere della
consapevolezza e della responsabilità di essere diventati finalmente grandi>>4.
1.2.
I modelli di Comprensione
L'adolescenza, dal latino adolescere, “crescere”, è l'età della vita, compresa fra la
fanciullezza e l'essere adulto, nella quale si compiono i processi di crescita, di
formazione della personalità e di trasformazione fisica. Molto spesso si dice che
l'adolescente è allo stesso tempo bambino e adulto. Questo doppio movimento, da
una parte il rinnegamento della propria fanciullezza, e dall'altra la ricerca delle
propria
personalità
adulta,
costituisce
l'essenza
della
“crisi”
propria
dell'adolescente.5
L'adolescenza, più che ogni altra età della vita, mette il clinico nella condizione di
3
4
5
Cristiani C. 2008, “Compiti evolutivi e riti iniziatici: il contributo dell'antropologia culturale”
(pag. 45) in Maggiolini A. e Pietropolli Charmert (a cura di), Manuale di psicologica
dell'adolescenza: compiti e conflitti, FrancoAngeli, Milano 2004.
Loc. Cit.
Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Adolescenza e Psicopatologia, Masson editore,
Milano 1999.
confrontarsi con i modelli che egli stesso usa e lo costringe ad un continuo
riesame, in modo da valutare, caso per caso, la pertinenza del modello. <<Questo
va-e-vieni tra la pratica e la teoria, questo riesame permanente e necessario, fanno
la
ricchezza
della
pratica
clinica
nell'ambito
della
psicopatologia
dell'adolescenza>>6.
Le diverse teorizzazioni riguardanti l'adolescente, possono essere identificate in
quattro modelli principali: il modello fisiologico, il modello sociologico e
ambientale, il modello psicoanalitico e infine il modello cognitivo ed educativo.
Passerò ora ad esaminare in modo più approfondito ogni modello, sottolineando
che l'ordine in cui vengono esaminati non riguarda la preminenza dell'uno
sull'altro.
1.2.1.
Il modello Fisiologico: la pubertà.
La trasformazione del corpo, che corrisponde alla pubertà, si estende per un
periodo che va dai diciotto mesi ai due anni circa e questa trasformazione dipende
da un certo numero di ormoni.
La pubertà inizia mediamente verso gli undici anni nella femmina e verso i dodicitredici nel maschio, in questo caso per età non viene intesa l'età reale, ma l'età
fisiologica, la cosiddetta <<età ossea>>. In alcuni bambini vi è una leggera
differenza fra l'età cronologica e l'età ossea, anche
con l'assenza di una
condizione patologica. Questa differenza spiega anche la variabilità individuale
dell'età di comparsa dei segni puberali.
I limiti temporali per la comparsa della pubertà sono dagli otto ai quindici anni
nella ragazza e tra i dieci ai sedici nel ragazzo. Fuori da questi limiti si parla di
precocità o ritardo puberale.
E' stato dimostrato un regolare anticipo dell'inizio della pubertà: circa un anno
ogni venticinque anni. In meno di un secolo si è passati dai diciassette ai tredici
anni come età della comparsa del primo menarca. In media sembra che l'età del
primo menarca si sia fermata ai tredici anni per quanto riguarda i paesi
industrializzati. Questo ha messo difronte a considerevoli problemi a livello
6
Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Psicopatologia dell'adolescente, Masson editore,
Milano 1985 (pag.4).
sociale: i giovani si trovano ad avere a che fare con un corpo sessualmente
maturo, ma si trovano ancora in una condizione di dipendenza. L'anticipazione
della pubertà sembra sia dovuta ad un miglioramento delle condizioni igienico
sanitarie e alla dieta alimentare più completa.
La pubertà nella ragazza.
I primi segni posso essere rappresentati dallo sviluppo di un piccolo
rigonfiamento, appena sensibile ad un seno. Successivamente ci sarà un aumento
della dimensione dell'aureola, in concomitanza dello sviluppo del seno. Anche gli
organi genitali si modificano. Al tempo stesso si sviluppa la pelosità, prima al
pube e circa sei mesi dopo l'inizio della crescita del seno, si svilupperà la peluria
ascellare.
Si nota un discreto aumento della crescita e il corpo inizia a prendere sembianze
più femminili.
Le prime mestruazioni indicano la fine della pubertà da un punto di vista
fisiologico. Dopo le prime mestruazioni i cicli presentano solitamente delle
irregolarità sia per la durata che per l'abbondanza. Si ritiene che la ragazza entri
nella vita ginecologica adulta solo quando i cicli si regolarizzano. Questo processo
dura circa tre anni.
La pubertà nel ragazzo.
La pubertà nel maschio inizia con l'aumento del volume dei testicoli verso gli
undici anni circa. Vi è poi una modificazione degli organi genitali esterni. Si
denota un aumento della dimensione del pene, un plissettamento ed una
pigmentazione dello scroto. La prima peluria pubica compare lateralmente alle
radici delle cosce e sullo scroto. Ci vogliono circa quattro anni per far si che gli
organi genitali raggiungano l'aspetto adulto. La pelosità ascellare si sviluppa a
circa metà della pubertà, quella facciale e toracica compare verso i
sedici/diciassette anni. Le modificazioni mammarie non sono esagerate, si nota
una leggera tumescenza o gonfiore, che in alcuni casi può essere dolorosa. E' un
fenomeno del tutto normale, ma in alcuni ragazzi può diventare causa di forti
inquietudini.
La silouette del corpo cambia con un allargamento toracico, cambia anche il
timbro di voce.
La prima eiaculazione si manifesta in media verso i quattordici/quindici anni e,
come per le mestruazioni nella ragazza, segna la fine della pubertà.
La comparsa dell'acne sia nei ragazzi che nelle ragazze, nelle sue localizzazioni
più variabili, sicuramente sul viso, ma anche su dorso e torace, è sentita come una
vera e propria complicazione dalla maggior parte degli adolescenti.
Tutti questi avvenimenti possono provocare negli adolescenti angosce e produrre
disturbi psichici durevoli. Per questo è utile da parte degli operatori una
conoscenza almeno di base dei cambiamenti che investono l'adolescente, per
essere così in grado di poterli rassicurare e accompagnare in questo periodo di
cambiamento.
1.2.2.
Il modello Sociologico
La tesi che l'adolescenza non è un fenomeno universale è uno dei temi che
sicuramente più riguarda l'approccio culturale dell'adolescente. In questo non può
non essere citata Margaret Mead7 per i suoi lavori, anche se contestati, riguardo
per esempio gli abitanti di Samoa8 dove non esiste questa fase della vita: le
adolescenti samoane sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica,
identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi, e non soffrirebbero
delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Ella sosteneva che le
difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali (americane in
particolare), non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate
prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più
tradizionalisti e moralistici della cultura americana impongono.
É quindi possibile, secondo la Dott.ssa Mead, stabilire una connessione fra la
natura degli adolescenti e ed il grado di complessità della società che si considera:
più la società è complessa, più l'adolescenza sarà lunga e conflittuale.
Le caratteristiche dell'adolescenza cambiano quindi a seconda delle società per:
•la durata dell'adolescenza;
7
8
Antropologa statunitense di fama mondiale (Filadelfia 1901- New York 1978).
Mead M., Coming of Age in Samoa: A Psychological Study of Primitive Youth for Western
Civilization, 1928.
•i metodi di socializzazione adottati dell'individuo: nel nucleo familiare, in
istituzioni extrafamiliari, nel gruppo dei pari. Nelle nostre società contemporanee,
questi diversi modi di socializzazione esistono almeno allo stato potenziale
(soggiorno presso zii, collegi, comunità);
•i tipi di cultura. Secondo M. Mead (1972) si dividono in tre tipi di culture:le
culture posfigurative, dove i bambini apprendono soprattutto dai loro genitori; le
culture cofigurative, nelle quali sia adulti che bambini apprendono dai coetanei; e
le culture prefigurative, che si caratterizzano per il fatto che gli adulti apprendono
anch'essi dai loro bambini.
Nelle condizioni delle società occidentali attuali, l'adolescenza costituisce il punto
di incontro fra il mondo dei bambini e quello degli adulti, secondo Bruner <<essa
propone dei nuovi stili di vita meglio adattati a ciò che è percepito come un
insieme di condizioni nuove e mutevoli, a dei cambiamenti che essa afferma, a
torto o a ragione, di percepire meglio di coloro che si sono adattati allo stato di
cose precedente>>9. Quindi secondo Bruner si assiste ad un'inversione di
prospettiva: visto che il mondo attraversa continui cambiamenti, e l'adolescenza
come caratteristica fondamentale è cambiamento, diventa una sorta di modello
sociale e culturale, sia per i bambini che per gli adulti.
1.2.3.
Il modello Psicoanalitico
In questo paragrafo ho deciso di riportare con una sintetica ricostruzione storica
alcuni autori, scelti per il valore pionieristico dei loro studi o comunque per la loro
centralità nell'attuale letteratura psicoanalitica sull'adolescenza. Farò un
inevitabile riferimento a Sigmund Freud, continuando con Anna Freud, Erik
Erikson, Peter Blos, Donald Winnicot, i coniugi Laufer.
Sigmund Freud: l'adolescente innominato
L'unico testo nel quale Freud parla essenzialmente dell'adolescenza è Psicologia
del ginnasiale (1914), nel quale non compaiono mai i termini “adolescente” e
“adolescenza”. Freud preferisce utilizzare il termine “pubertà” in quanto secondo
9
Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Adolescenza e Psicopatologia, Masson editore,
Milano 1999 (pag 11).
lui è con la fine di essa che si raggiungono le definitive caratteristiche della vita
sessuale. L'assenza di termini che riportino all'adolescente, impone a Freud di
riferirsi o al “bambino” , inteso come padre dell'adolescente, oppure ad una
gioventù indefinita dal punto di vista anagrafico, ma che comunque trova
nell'infanzia le proprie radici e le proprie ragioni patologiche. Ribadiva che per lo
sviluppo della personalità sono indispensabili i primi sei anni di vita, concetto che
non trova più accoglimento nella psicoanalisi moderna, la quale sostiene che
proprio durante l'adolescenza, intesa come fase di passaggio inedito, si possa
quasi interamente riorganizzare le basi della propria personalità.
Anna Freud: meccanismi di difesa
Anna Freud individua due principali meccanismi di difesa che caratterizzano la
fase adolescenziale e che danno una chiave di lettura dei principali comportamenti
degli adolescenti: ”l'ascetismo” e “l'intellettualizzazione”.
L'ascetismo è descritto come <<...un soggetto impegnato in una lotta continua nei
riguardi dei propri impulsi aggressivi e sessuali. Una lotta che finisce per
coinvolgere anche il corpo dell'adolescente determinando in alcuni casi un
meccanismo difensivo che comporta il mancato appagamento dei bisogni
fisiologici primari, quali l'assunzione di alimenti e il sonno>> 10. Questi
adolescenti si tengono lontani dal godimento, fino ad opporsi agli istinti con
assolute proibizioni, fino ad non riconoscere i bisogni corporei più elementari
come l'alimentasi o il proteggesi dal freddo.
L'intellettualizzazione è una difesa che sposta su di un piano teorico ed astratto
tematiche che in realtà fanno parte della vita emotiva e quotidiana
dell'adolescente. Secondo A. Freud l'intellettualizzazione riguarda solitamente il
matrimonio, l'amore libero, il vagabondare, la religione, teorie politiche, la scelta
della professione e l'amicizia.
Questo meccanismo di difesa frequente nel periodo e nella classe sociale alla
quale apparteneva
Anna Freud, appare con molta meno frequenza fra gli
adolescenti di oggi. Coloro che si rivolgono ai servizi per l'adolescenza sono in
10
Lancini M., L'ascolto a scuola. La consultazione con l'adolescente, FrancoAngeli, Milano
2003 (pag. 116-117).
numero maggiore rispetto al passato e non tendono ad avvalersi di questo sistema
di difesa, vuoi per la diffusione dei massmedia o per la crisi dei sistemi ideologici,
con una conseguente perdita della riflessione individuale.
Erik Erikson
Erikson ha dominato la psicoanalisi americana fino agli anni settanta. Egli ha
inserito lo sviluppo del bambino e dell'adolescente in un complesso quadro di
adattamento dell'individuo all'ambiente sociale. La fase adolescenziale è
caratterizzata dalla ricerca di senso di identità che è importante per dare
significato alle scelte professionali, personali, sessuali; l’identità personale
permette di affrontare cambiamenti e mutamenti. Erikson individua otto tappe
evolutive fondamentali per lo sviluppo dell'individuo. Il rischio di questa fase è il
possibile crearsi di confusione circa i ruoli e l’identità, fino ad originare un senso
di dispersione, cioè insicurezza per le pressioni interne ed esterne dovute ai
cambiamenti fisici e psicologici. Questo possibile fallimento mette in discussione
la possibilità dell'adolescente di accedere alla vita adulta ed ad una prospettiva
mentale ed affettiva “genitale”.Secondo Erikson, si arriva alla fase successiva,
quella della post-adolescenza, solo quando si è sperimentato un sufficiente senso
di identità e una conseguente intimità con se stessi e con l'altro. La teoria di
Erikson si caratterizza per un approccio non deterministico all'adolescenza, in
quanto tutte le fasi di sviluppo precedenti all'adolescenza possono essere messe in
discussione e riorganizzate.
Peter Blos
Di Peter Blos è soprattutto nota la suddivisione in fasi dell'adolescenza. Anche se
la sua teoria in parte è considerata superata, viene considerata ammirevole come
sintesi dei vari punti teorici e clinici e ritenuta di grande utilità.
La prima fase è la pre-adolescenza. È caratterizzata da un aumento delle pulsioni,
legate alla pubertà. I maschi in questo periodo saranno più aggressivi nei confronti
delle femmine e si organizzeranno in “bande omosessuali”, mentre le femmine si
saranno già interessate e seduttive verso l'altro sesso, e si ritroveranno a
fantasticare storie d'amore e si difenderanno allo stesso tempo dalle tentazioni
regressive che le richiamano verso la madre, La seconda fase è quella della prima
adolescenza, nella quale sarà presente il conflitto insito nello svincolo dalla figure
parentali e l'importantissima formazione degli ideali dell'Io. In quest'ultimo caso è
importante per il maschio il gruppo dei pari, dove elabora valori, ideali e
comportamenti, ma importante è anche la funzione che ha lo sport, la musica,
anche la scuola. Nelle femmine invece, è importante la figura dell'amica del
cuore, l'esperienza dei primi innamoramenti, più fantasticati che vissuti realmente.
La terza fase è quella dell'adolescenza vera a e propria, la quale è caratterizzata
dalla ricerca del vero amore, facile per alcuni, meno facile e tormentata per altri.
Le fasi della tarda adolescenza e della post-adolescenza, sono per Blos poco
differenziate, ma punto principale di tali fasi è il conseguimento dell'identità
sessuale e genitale definitive.
Donald Winnicott
Winnicott pone grande attenzione al rapporto dell'adolescente con l'ambiente
sociale e proprio in quest'ottica individua i principali bisogni evolutivi
dell'adolescente. Winnicott descrive l’adolescenza come una fase in cui il soggetto
è impegnato nel compito di raggiungere l'indipendenza individuale, intesa come
forma evoluta e matura di dipendenza dall’altro. L’adolescente alterna uno
sprezzante spirito di indipendenza a spinte regressive verso la dipendenza infantile
e può vivere questa drastica alternanza di stati interni con grandissima angoscia.
L’adolescente ha inoltre precisi bisogni evolutivi:
•
una necessità ontologica di sfidare l’ambiente familiare da cui è
dipendente;
•
il bisogno di “pungolare” la società, mettendo in discussione ciò che è
vecchio e ripetitivo per aprirsi a nuovi scenari affettivi e antropologici;
•
l’imperativo di evitare quelle che Winnicott definisce false soluzioni , che
non consistono in un’effettiva elaborazione delle dinamiche intrapsichiche,
quanto piuttosto in un loro arresto (es. identificazione imitativa o
esperienze sostitutive).
L’adolescenza implica crescita, e questa richiede tempo. Mentre la crescita è in
progresso, la responsabilità deve essere assunta da figure genitoriali. Se le figure
genitoriali abdicano, allora gli adolescenti devono fare un salto nella falsa
maturità e perdere il loro bene più grande: la libertà di avere idee e di agire per
impulso. Un altro metodo che l'adolescente può utilizzare per calmare l'angoscia,
consiste in un'attività sessuale compulsiva, omosessuale o eterosessuale, spesso
masturbatoria, senza un reale incontro con l'altro.
Moses e M. Elglé Laufer
I Laufer affermano che <<la principale funzione evolutiva dell'adolescenza è
l'instaurarsi dell'organizzazione sessuale definitiva, una funzione evolutiva che
passa attraverso processi difficili e delicati, il cui fallimento può provocare un
vero e proprio “breakdown evolutivo”, quasi sempre non passibile di risoluzione
spontanea e che solo un adeguato intervento clinico può fronteggiare e
risolvere>>11 .
Per questi autori il processo adolescenziale verte sostanzialmente intorno a tre
compiti "evolutivi": il cambiamento nelle relazioni con gli oggetti adulti, il
cambiamento nelle relazioni con il gruppo di coetanei e, soprattutto, il
cambiamento nella relazione con il proprio corpo nel contesto dello stabilirsi
dell'identità sessuale.
I Laufer ritengono che la crisi che si verifica nell'adolescenza sia sempre collegata
a un disturbo nel processo di stabilizzazione dell'identità sessuale e nella relazione
conflittuale che l'Io stabilisce con il proprio corpo sessuato. Il breakdown
costituisce in altri termini una vera e propria minaccia di rottura psicotica, quasi
permanente in adolescenza, che mette a rischio l'integrazione di un'immagine del
corpo fisicamente maturo all'interno della rappresentazione di sé, esprimendosi in
un rifiuto inconscio del corpo sessuato. Le pulsioni aggressive si intensificano e si
rivolgono contro il corpo sessuato ma anche contro il nuovo rapporto con gli
oggetti interni che la trasformazione puberale implica. Se invece accetta la propria
sessualità, dovrà integrare la nuova rappresentazione del proprio corpo nella
11
Laufer M. e E,. Adolescenza e breakdown evolutivo, Tr. It. Boringhieri, Torino 1984.
“fantasia masturbatoria centrale” che è un prodotto inconscio che proviene
dall'infanzia. Anche se l’adolescente si sente in pericolo di cedere ai desideri
regressivi, egli è consapevole inconsciamente che esiste una possibilità di scelta .
Le stesse fantasie masturbatorie rivelano la ricerca attiva di un oggetto sessuale
d’amore .
1.2.4.
Il modello Cognitivo-Educativo
Durante l'adolescenza si assiste ad una trasformazione delle strutture cognitive.
Piaget ha infatti descritto una nuova forma si intelligenza che viene a crearsi in
questo periodo, l'intelligenza operativa formale, la quale prende nome dalla fase
delle operazioni formali della teoria dello sviluppo cognitivo dello stesso Piaget.
Tra i dodici e i sedici anni si ha l'ultima fase intellettuale: dal punto di vista della
maturazione, ha termine in questi anni il periodo infantile, e inizia quello
giovanile. L'adolescente diventa, a differenza del bambino, <<...un individuo che
spinge il suo pensiero al di là del presente immediato, e costruisce teorie su
qualunque cosa, provando un compiacimento particolare nel soffermarsi in
considerazioni su ciò che non è>> (Piaget, 1947). Egli acquista la capacità di
pensare e di ragionare prescindendo dalla realtà del suo mondo e dalle sue stesse
convinzioni personali; l'adolescente, insomma, fa il suo ingresso nel mondo delle
idee e delle essenze, svincolato dal mondo del reale. Il linguaggio continua ad
arricchirsi e a svilupparsi, e così a sua volta costituisce un fattore di sviluppo del
pensiero e del comportamento cognitivo. L'ambiente fisico dell'adolescente
presenta ora sfumature nuove. Gli oggetti sono visti in rapporto al loro uso
appropriato, mentre le loro proprietà diventano rilevanti a seconda delle esigenze
della situazione. L'adolescente si rende conto che il valore degli oggetti dipende
interamente dal sistema di valori dell'uomo.
Altri autori invece ritengono che l'adolescenza è un periodo di apprendimenti
sociali e culturali, o un'età in cui l'essere umano non è ancora costretto a
conformarsi ad un ruolo definito e il continuo passare da un sistema di
identificazione all'altro permette loro altre prove. Questo stadio consente di
ottenere
il
senso
dell'individualità
e
dell'integrazione
sociale,
grazie
all'apprendimento.
1.3.
L'adolescente e la famiglia
Come già evidenziato nei precedenti paragrafi, Winnicott ha descritto molto bene
questo periodo di movimento e cambiamento, dichiarando che alla base di ogni
adolescenza c'è un assassinio, l'assassinio dei genitori. Si parla certamente di un
assassinio simbolico, dei genitori interiorizzati, cioè di come l'adolescente li
rappresenta al suo interno. E se alla base dell'adolescenza c'è questo assassinio
simbolico, è impossibile che non si ripercuota sulle relazioni tra i genitori e
l'adolescente.
Una delle costanti del dialogo fra genitori e figli è un'oscillazione tra
comprensione-incomprensione: in certi casi i figli adolescenti vogliono essere
capiti, ma in realtà hanno bisogno di non essere compresi dai genitori,
in altri
casi al contrario, hanno il bisogno di non essere capiti, pur desiderando di essere
compresi. È molto frequente che un genitore dica al figlio che lo comprende
esattamente, oppure che l'altro genitore affermi di non capirlo assolutamente. Ma
questo può succedere anche all'adolescente nei confronti dei genitori: magari un
genitore lo capisce di più rispetto all'altro, può essere anche una fase temporanea
o che magari riguarda solo specifiche situazioni.
Queste oscillazioni rapide degli adolescenti e delle loro opinioni derivano proprio
dal fatto che l'adolescente mentre chiede di essere compreso, teme anche di essere
messo a nudo, di essere svelato. Gli adolescenti possono passare ore a cercare di
convincere i loro genitori che non li capiscono, oppure a discutere sempre per la
stessa cosa, che sia un'idea politica, una questione filosofica o sportiva. Proprio
durante queste accese discussioni si possono soddisfare due bisogni nascosti
dell'adolescente: da una parte quello di provocare i propri genitori e dall'altra
quello di dipendere ancora da loro, chiarito oltretutto da questa ostinazione nel
continuare il dialogo in una incomprensione reciproca.
I genitori devono essere coscienti e accettare di essere l'oggetto contro i quali il
figlio adolescente riversa la maggior parte della sua aggressività. I genitori devono
sopravvivere, cioè non devono venir distrutti né abbattuti da questa aggressività;
non devono rinunciare alla propria funzione. Oltre a questa funzione di bersaglio,
hanno anche la funzione di proteggerli perché l'adolescente non è ancora cosciente
dei propri limiti. Devono controllare e badare sull'ambiente di sviluppo del figlio,
per far si che l'ambiente non lo metta davanti ad esperienze troppo dannose.
Il dialogo genitori-adolescenti ha la funzione di far affermare la propria differenza
all'adolescente, senza arrivare all'odio e allo stesso tempo di far riconoscere la
propria somiglianza senza però confondersi, perché per l'adolescente è difficile
differenziarsi dall'altro, soprattutto dalla propria famiglia, senza arrivare ad un
rifiuto di ciò che deriva proprio da essa.
L'adolescente deve affrontare un'alternativa paradossale: da un lato deve
distaccarsi dai suoi genitori per trovare la sua identificazione di adulto, ma
dall'altro egli potrà trovare le basi della sua identità attraverso la storia della
propria famiglia. Oltre ai genitori, possono svolgere una parte importante nel
dialogo con l'adolescente anche i nonni, gli zii e le zie.
I nonni permettono un inserimento nel tempo e nella storia, soprattutto nella storia
della famiglia. Senza questa terza generazione si rischia di vedere le relazioni dei
genitori e dei figli incentrate solo sulle interazioni attuali. Inoltre la funzione dei
nonni è anche quella di far scoprire ai nipoti, attraverso i racconti sul loro figlio, il
padre o la madre dell'adolescente, delle persone diverse, con i loro successi,
fallimenti ed esperienze.
Anche le zie e gli zii, permettono agli adolescenti di stabilire delle relazioni,
ancora più modulate, con diversi membri della propria famiglia. Molte volte
capita che l'adolescente in conflitto con i propri genitori venga accolto dagli zii.
Addirittura in alcune culture, soprattutto in Africa, è alla zia o allo zio che viene
affidato il compito di educare l'adolescente.
Ad oggi la valutazione dell'ambiente familiare di un adolescente in difficoltà, deve
essere inserita nell'insieme delle indagini cliniche. Le terapie familiari, hanno una
discreta efficacia quando vi è un adolescente in difficoltà nel gruppo familiare,
anche perché la malattia adolescenziale è spesso collegata con timori o minacce,
che siano reali o fantasmatiche, che pesano sull'unione familiare, non
necessariamente dei genitori, ma anche dei fratelli o dei nonni.
1.4.
L'adolescente a scuola
La scuola è un'esperienza che l'adolescente può utilizzare per acquisire nuovi
contenuti e nozioni, ma anche per apprendere su di sé, proprio per questo ha un
ruolo fondamentale nella ricerca dell'identità adulta da parte dell'adolescente. Gli
dà la possibilità di confrontarsi con compagni, docenti e materie di insegnamento,
così da poter misurare e ampliare le proprie possibilità e i propri limiti, insieme
alla propria capacità di affrontare le frustrazioni e le imposizioni.
Vari fattori influenzano una buona scolarità e tra questi quelli più significativi
sono legati allo sviluppo affettivo, all'intelligenza e alle dinamiche familiari.
Le trasformazioni da un punto di vista affettivo e relazionale durante
l'adolescenza, si riflettono sulla scolarità grazie ai nuovi interessi che suscita e al
desiderio di autonomia e di indipendenza che vi si collega. L'emergere di nuove
pulsioni sessuali, attraverso il meccanismo della sublimazione, si spostano sul
terreno culturale ed intellettuale. Questo cambio di polarità dell'energia permette
all'adolescente di trovare un campo di investimento per la sua curiosità, l'esercizio
del suo controllo e lo sviluppo dei suoi ideali. Allo stesso tempo, la ricerca della
propria autonomia e indipendenza, facilitano l'esplorazione di campi di interesse
personale, la ricerca di un autore nel quale identificarsi o un'ideologia. Conflitti
affettivi e relazionali troppo intensi, possono interferire sul rendimento scolastico,
perché l'adolescente potrebbe farvi convergere tutti quei comportamenti derivanti
dalla propria opposizione verso la famiglia.
Per quanto riguarda i fattori legati all'intelligenza, si parla della facoltà di
adattamento alle situazioni nuove, la facoltà di immagazzinare e di memorizzare
forme di conoscenze e della facoltà di astrazione, che rappresenta nella scolarità
una capacità indispensabile per una buona riuscita. Tutti questi cambiamenti fanno
parte dello sviluppo intellettuale del ragazzo, con l'entrata allo stadio del pensiero
astratto, a partire dai dodici-tredici anni. Questo tipo di pensiero è una condizione
necessaria per la continuazione di un percorso scolastico prolungato. L'accesso al
pensiero astratto negli studi e nell'insegnamento, può mettere in difficoltà alcuni
adolescenti per i quali l'accesso al pensiero concreto rimane più facile e
manipolabile. É quindi importante conoscere lo stile di pensiero che l'adolescente
utilizza, nella scelta di orientamenti scolastici piuttosto che altri.
Infine tra i molteplici fattori che influenzano il percorso scolastico, vi è la mancata
rappresentazione e consegna della scuola da parte dei genitori. In alcune famiglie
vi è una concentrazione quasi esclusiva dei genitori sul rendimento scolastico del
figlio adolescente, che si trasforma in studente e che diventa il principale
destinatario degli interventi educativi genitoriali. Il rendimento scolastico viene
considerato elemento fondamentale per valutare la qualità della relazione affettiva
e degli scambi narcisistici tra figlio e genitori. Il successo o l'insuccesso scolastico
vengono quindi tradotti in amore o odio, in appartenenza o rottura, e non vengono
considerati in base alla singola prestazione e al ruolo di studente, ma riguardano
tutta la persona. La scuola rimane quindi nelle mani dei genitori, solitamente della
madre, la quale ha investito narcisisticamente l'esperienza sociale scolastica,
anche più del padre, e diventa il campo in cui si gioca la partita fra dipendenza e
autonomia.
In alcuni casi il malessere e le difficoltà scolastiche adolescenziali possono
persistere ed organizzarsi in forme più patologiche come fobie scolari o rifiuti
ansiosi delle scuola: si tratta di fenomeni caratterizzati da angosce crescenti e crisi
che si manifestano in prossimità o all'interno dell'edificio scolastico. Approfondirò
nei capitoli successivi questo tipo di disturbi, in quanto
tema essenziale
dell'argomento di tesi.
1.5.
Break-Down adolescenziale
L'adolescente, impegnato nel suo processo di sviluppo, tende naturalmente a iperinvestire il mondo esterno (il paradosso delle relazioni familiari, i legami di
appartenenza ai gruppi e coloro che fanno parte della stessa dimensione sociale o
della stessa cultura del soggetto), il corpo e le sensazioni, a scapito del pensiero e
del mondo interno (l'uso dei meccanismi di difesa, la continuità psichica, il mondo
fantasmatico e l'organizzazione delle identificazioni e dei sistemi di idee),
nell'attesa di potersene pienamente appropriare.
Il mondo interno non è dunque in grado di tollerare o elaborare i conflitti specifici
dell'adolescenza (differenziazione, integrazione del corpo sessuato, piena
utilizzazione delle nuove capacità cognitive). Essi vengono esportati in ciò che
Jeammet
in Réalité interne, réalité externe (1980) ha chiamato "lo spazio
psichico allargato", per definire lo spazio costituito da coloro (persone, luoghi,
ideali, gruppi) ai quali l'adolescente affida inconsciamente questa o quella parte
delle sue istanze psichiche, in questo o quel momento della sua storia.
Allorquando appartiene a questo spazio, l'oggetto è investito di un ruolo
suppletivo e assicura, temporaneamente e funzionalmente, una "circolazione
psichica extra corporea", la cui importanza si rivela solo quando tale oggetto viene
a mancare1.
É quindi importante valutare lo spazio psichico allargato per comprendere gli
equilibri necessariamente instabili, prendendo in considerazione il contesto
familiare, il gruppo e il contesto sociale.
Di seguito riporterò varie definizioni di “crisi” adolescenziale:
•
Concezione sistemica - Thom R., 1976 : perturbazione temporanea dei
meccanismi di regolazione di un sistema, di un individuo o anche di un
insieme di individui, derivante da cause esterne o interne.
•
Concezione psicopatologica - Marcelli D., 1994 : fase temporanea di
disequilibrio e di sostituzioni rapide che rimettono in gioco l’equilibrio
normale o patologico del soggetto. La sua evoluzione è aperta, variabile e
dipende sia da fattori interni che esterni.
•
Ferrara M., Sabatello U., 1998 : situazione di passaggio rapido che può
evolvere in senso positivo o negativo e che, in età evolutiva, coinvolge
tanto il ragazzo che i familiari.
•
1
DSM IV : transient situational disorder.
Casoni A. (a cura di), Adolescenza liquida, Edup, Roma 2008 (pag 114).
Da queste definizioni possiamo rilevare come siano considerate delle costanti
l'elemento temporale della transitorietà, la messa in gioco dei precedenti equilibri
e la potenzialità evolutiva, potendo successivamente evolvere verso un assetto più
stabile e maturo o verso uno stato di vulnerabilità psicopatologica, sotto la spinta
di fattori sia interni che esterni2.
Se si mettono a confronto il concetto di crisi e di “scompenso”, la differenza che
emergerà sarà prevalentemente a carico delle caratteristiche psicopatologiche, in
quanto anche nello scompenso ci sarà un fattore tempo e il possibile
raggiungimento di nuovi equilibri, ma a caratterizzarlo, sarà una “frattura” del
senso di continuità e di integrità. Può essere a carico dell’ambiente familiare che
non riesce a far fronte ad elementi critici, ma evolutivi dell’adolescente.
Di seguito la definizione di scompenso psichico in età evolutiva da Stolorow e
Lachmann modificato:
Condizione in cui si manifesta, a diversi gradi di gravità e con
sintomatologia clinica multipla, una rottura parziale o totale del senso di
continuità del sé, talvolta del contatto con la realtà, della percezione del senso
comune, della possibilità di condividere emotivamente ed affettivamente con gli
altri eventi, anche semplici, della vita quotidiana.
Con entità variabile risultano compromessi:
•
la coesione strutturale – compaiono sentimenti di depressione,
devitalizzazione, angosce di frammentazione;
•
la stabilità temporale – la capacità di pensarsi come stabili nonostante i
cambiamenti impressi dalle circostanze e quelli fisici e affettivi propri
dell'età evolutiva e dell'adolescenza;
•
la coloritura affettiva – da cui dipende l'autostima e la modulazione
emotiva delle esperienze intrapsichiche e relazionali3.
Molto importante da considerare è un concomitante scompenso del contesto
Martinetti M.G. e Stefanini M.C., Approccio evolutivo alla neuropsichiatria dell'infanzia e
dell'adolescenza, Seid Editori, Firenze 2005.
3
Ibidem.
2
familiare, il quale non potrà essere sottratto ad una terapia familiare.
I coniugi Laufer propongono come principale chiave di lettura dello scompenso
che le problematiche in questa fase della vita derivino dalle modificazioni
corporee e che il break-down sia la rappresentazione delle varie condizioni
psicopatologiche, dai disturbi lievi alle psicosi e affermano: <<nel corso
dell'adolescenza, allorché il corpo diviene fisicamente sessuato, può verificarsi
che per il soggetto la sola maniera di conservare il proprio modo di essere, si tratti
di uomo o di donna, sia una frattura con il mondo esterno>>4.
Si può delineare così un crollo psichico nel corso del quale la personalità è
totalmente sommersa, incapace di funzionare, mentre l’adattamento alla realtà è
compromesso. La continuità psichica è rotta.
Facendo riferimento alla teoria dell'attaccamento, Fonagy e Target5, affrontando la
definizione di break-down adolescenziale, hanno evidenziato quei processi
maturazionali adolescenziali che risultano importanti in molti tipi di patologia
adolescenziale e che riguardano soprattutto la capacità di rappresentazione
mentale e la funzione riflessiva, quest'ultima intesa come la capacità a percepire e
vivere se stesso e gli altri come persone con pensieri e motivazioni dotate di
coerenza. Come ho già sottolineato nel capito precedente, in questo periodo
l'adolescente deve fare i conti anche con l'aumento della complessità cognitiva, in
quanto sta passando alla fase delle operazioni formali, la quale implica un
riassetto delle funzioni di monitoraggio affettivo fra figli e genitori, in un
momento in cui l'adolescente può essere in difficoltà ad organizzare le nuove
competenze cognitive e riflessive.
Durante questo percorso si può arrivare ad una fase di scompenso e gli Autori
sopra citati evidenziano processi maturazionali adolescenziali importanti in
diversi tipi di patologia adolescenziale:
•
salto al pensiero delle operazioni formali e la conseguente intensificazione
della pressione per la comprensione interpersonale. Lo sviluppo del
pensiero simbolico, nell’infanzia, è correlato alla crescita emozionale
4
5
Laufer M. e E,. Adolescenza e breakdown evolutivo, Tr. It. Boringhieri, Torino 1984.
Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, (V. lingiardi e M. Ammanniti a cura
di ), Cortina, Milano 2001.
nell’ambito delle relazioni di attaccamento;
•
pressione che porta alla separazione dalle figure genitoriali e dalle loro
rappresentazioni interne;
•
alcuni disturbi dell’affettività possono essere pensati come una inadeguata
consolidazione della capacità simbolica;
•
l’ipersensibilità
agli
stati
mentali
può
sopraffare
la
capacità
dell’adolescente nell’affrontare pensieri e sentimenti, a meno di una loro
manifestazione in sintomi somatici o in azioni fisiche. Questo può portare
ad un breakdown apparentemente critico nella capacità di mentalizzare
(ritiro sociale, ansia, agiti);
•
Il protrarsi delle difficoltà può dipendere sia dalla solidità delle strutture
psichiche dell’adolescente sia dalla capacità dell’ambiente di supportare
tale stato.
Da sottolineare che, se si considerano manifestazioni del disagio, si notano gli
stessi sintomi sia per la “crisi” che per lo “scompenso”, restando comunque come
principale elemento di differenziazione la “rottura psichica”.
Le manifestazioni del disagio in adolescenza possono riguardare:
•
disturbi centrati sul corpo: disturbi del comportamento alimentare (DCA),
disturbi somatoformi, disturbi psicosomatici, conversioni isteriche;
•
condotte agite: disturbi della condotta (comportamenti antisociali, fughe,
condotte auto/etero lesive e tentativi di suicidio), dipendenze;
•
disturbi del pensiero e delle percezioni: disturbi dissociativi, disturbo
ossessivo compulsivo, disturbi allucinatori e deliranti;
•
disturbi dell'affettività: depressione, disturbi bipolari, disturbi d'ansia.6
Relativamente alla modalità di manifestazione del disagio, alcuni aspetti formali
devono essere presi in considerazione, perché sostanziali per la tempistica e le
caratteristiche della presa in carico e necessari per attivare specifiche modalità
terapeutiche: l'urgenza e l'emergenza.
Martinetti M.G. e Stefanini M.C., Approccio evolutivo alla neuropsichiatria dell'infanzia
dell'adolescenza, Seid Editori, Firenze 2005.
6
e
Urgenza: situazione critica transitoria con alterazione del pensiero, dell’affettività
o del comportamento che il contesto non è in quel momento in grado di contenere,
e che richiede un’ intervento rapido e provvedimenti terapeutici immediati.
Emergenza: situazioni in cui gli aspetti psicopatologici si associano alle
problematiche psicosociali indotte da comportamenti abnormi (mancanza di
tutela), connessione con il concetto di urgenza che comporta la necessità di
risposta immediata.
Situazioni di emergenza-urgenza adolescenziali possono quindi individuarsi sia in
periodi di crisi legati a scompenso come rottura dell’equilibrio psicologico,
normale o patologico precedente, sia in crisi che si collochino nel processo
evolutivo dell’adolescente, rimane comunque necessaria un'adeguata valutazione
per la conseguente presa in carico dell'adolescente e della propria famiglia.
La valutazione comprenderà: approfondimento psicodiagnostico, valutazione
sintomatica con accertamenti medici, valutazione psicofarmacologica, presa in
carico ( integrazione se soggetti già in trattamento psicoterapico), valutazione
delle risorse ambientali. In media lo scompenso ha una durata di sei-otto
settimane, infatti <<...è di per sé iatrogena, in quanto fa sperimentare
all'adolescente vissuti di derealizzazione e depersonalizzazione, che si
accompagnano ad angosce di frammentazione; il perdurare di questo stato, risulta
un'esperienza che minaccia il sé, e induce, anche a distanza, stati di angoscia
legati alla possibilità di ricadute, o al perdurare di memorie non elaborate, spesso
iscritte a livello fisico>>6.
Oltre agli aspetti strettamente sintomatici, la crisi e/o lo scompenso sono valutati
anche relativamente allo scacco del processo adolescenziale, nel senso che se
l'entrata nel processo adolescenziale è determinata dalla crisi o dallo scompenso, il
vettore che fa dirigere verso l'uscita potrà effettuare movimenti diversi:
1) un movimento evolutivo, che permetterà una “progressione” del processo
adolescenziale, non dovuta esclusivamente dalle capacità adattative
dell'adolescente, ma anche dall'acquisizione delle funzione riflessiva e la
6
ibidem (pag. 319).
capacità di differenziare il mondo interno e il mondo esterno da permettere
così l'esame di realtà;
2) una situazione di stallo, nel tentativo di mettere in “moratoria” le spinte
adolescenziali, creando uno stato di equilibrio instabile, dove ogni
movimento progressivo o regressivo, mettono in una situazione di
angoscia (annientamento, inglobamento), a meno che non vi sia una
scissione, eliminando ogni conflittualità. La difficoltà a rappresentarsi dal
punto di vista strutturale e temporale, porta alla messa in atto di scenari
fantasmatici,
con
condotte
agite,
ma
anche
con
episodi
di
depersonalizzazione; anoressia mentale e tossicomania sono espressione
cliniche di questa condizione;
3) la posizione “regressiva” è caratterizzata da una disattivazione delle
problematiche adolescenziali, dove non è percepibile l'elaborazione del
lutto, non è percepita angoscia e si può arrivare ad un arresto prematuro
del processo adolescenziale perché i movimenti possibili sono
controevolutivi. L'adolescente non è capace di fare l'esame di realtà, anche
come conseguenza della messa in atto di meccanismi di difesa come la
scissione e l'idealizzazione.
Nel caso di adolescenti che presentano uno scompenso con le caratteristiche di
regressione o di moratoria, con determinati meccanismi di difesa, scissione,
diniego e proiezione, <<il pervenire ad un' alleanza e ad un setting individuale si
configura come un obbiettivo del percorso terapeutico, che può utilizzare
inizialmente uno spazio terapeutico allargato che possa assorbire dirompenze e
agiti, richiedendo un periodo di presa in carico in ambiente terapeutico>>7.
Risulta importante attivare gli interventi con i servizi territoriali di salute mentale,
affinchè la famiglia riprenda possesso dei compiti evolutivi del figlio adolescente
e che quest'ultimo possa tornare, almeno in parte, alla quotidianità, confermando
le proprie potenzialità evolutive.
7
Ibidem.
CAPITOLO 2
L'ADOLESCENTE ODIERNO: DAL DISAGIO A NUOVE
PATOLOGIE
Introduzione
In questo capitolo cercherò di descrivere le varie manifestazioni ansiose dell'età
adolescenziale, facendo particolare riferimento alla fobia scolare, la quale non è
ancora inserita in una ben precisa
classificazione diagnostica, in quanto il
manifestarsi di essa non è sempre un disturbo a se stante come nel caso delle fobie
specifiche, ma può corrispondere al disturbo d'ansia generalizzato quando
l'affrontare la competitività e la valutazione espone a possibili esperienze di
frustrazione per l'ideale perfezionistico; oppure al disturbo d'ansia da separazione,
quando prevalgono ansie abbandoniche e vissuti catastrofici nell'allontanamento
da casa; o a una fobia sociale, dove sono prevalenti gli aspetti di inibizione. In
alcuni casi la Fobia scolare è anche una manifestazione di sintomi depressivi
nascosti.
2.1. Ansia, angoscia,paura.
“L'ansia” è una delle emozioni fondamentali, dunque un'esperienza intrinseca
all'esistenza umana, presente nella vita quotidiana di tutte le persone nell'intero
arco del ciclo vitale: non rappresenta, quindi, un fenomeno patologico e si
manifesta in forme differenti nel corso dello sviluppo.
In generale l'ansia è caratterizzata da “un sentimento penoso associato ad un
atteggiamento di attesa di un evento imprevisto vissuto come inquietante”. E’ una
generale attivazione delle risorse fisiche e
mentali rispetto ad una possibile
minaccia non immediatamente identificabile. In questo senso l’ansia fisiologica
produce l' effetto di ottimizzare le prestazioni individuali favorendo attenzione e
concentrazione, le quali contribuiscono alla capacità di risolvere positivamente le
incognite presenti in una nuova situazione, con una grande influenza sui processi
adattivi. Solitamente la manifestazione dell'ansia viene accompagnata da una serie
di sintomi neurovegetativi, con secchezza delle fauci, tachicardia, sudorazione e
dilatazione pupillare.
“L'angoscia” invece, intesa come sensazione di estremo malessere accompagnata
da manifestazioni
somatiche neurovegetative e/o viscerali, si differenzia
dall'ansia riguardo all'intensità di espressione del fenomeno, in quanto
nell'angoscia comporta una sensazione di estremo malessere.
Un' ulteriore differenziazione viene effettuata per quanto riguarda “la paura” , che
è intesa come una sensazione di forte preoccupazione, di insicurezza, di angoscia,
che si avverte in presenza o al pensiero di pericoli reali o immaginari, è legata ad
un oggetto o a una precisa situazione, ricollegabile sia a un fatto dell’esperienza
sia a un evento nel processo educativo.
Indipendentemente dal livello di intensità con cui si può esprimere l'ansia, è
importante definire quando la presenza di quest'ultima crea un vero e proprio
disturbo.
L'ansia è normale quando l'individuo è in grado di esercitare un controllo su di
essa, conservando un buon esame di realtà e la capacità di mantenere una
posizione attiva, cercando soluzioni funzionali con le quali far fronte alle minacce
che causano lo stato ansioso. In questo caso l'individuo può trarre beneficio da
questa esperienza e realizzare un adattamento all'ambiente che sia per lui
soddisfacente. Una quota d'ansia limitata può essere incanalata in attività
socialmente accettate, come attività artistiche, intellettuali e sociali, e
rappresentare
per
l'individuo
una
fonte
di
curiosità
e anche di creatività. Nei casi in cui l'individuo non riesce a trovare soluzioni
adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose,
l'ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali ed assumere un carattere
patologico, determinando vissuti di impotenza e di passività nel controllo delle
proprie emozioni.
Un criterio differenziale tra la normale reazione d'allarme e l'ansia patologica è
rappresentato dal fatto che la prima amplifica le capacità operative del soggetto,
mentre la seconda le disturba e influisce negativamente sulle prestazioni. L'ansia
normale si distingue dall'ansia patologica anche su una base quantitativa: una
condizione ansiosa di elevata intensità può talvolta compromettere il piano sociale
e scolastico/lavorativo dell'individuo, causando una grande sofferenza. Quando
l'ansia diviene patologica, provoca distorsioni cognitive, come idee ossessive,
aspettative catastrofiche ed errori di attribuzione e causa la sovrastimolazione del
sistema nervoso e degli organi ad esso collegati. Assume inoltre caratteristiche
autoinvalidanti, tramite le quali l'individuo perpetua comportamenti disadattivi per
lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dal soggetto stesso come irrazionali e
inadeguati.
2.2.
2.2.1.
Disturbi
Disturbo d'ansia generalizzato
Criteri diagnostici DSM-IV:
A. Ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva), che si manifestano
per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, a riguardo di una
quantità di eventi o di attività (come prestazioni lavorative o scolastiche).
B. La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione.
C. L’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei sei sintomi
seguenti (con almeno alcuni sintomi presenti per la maggior parte dei
giorni negli ultimi 6 mesi). Nota Nei bambini è richiesto solo un item.
1) irrequietezza, o sentirsi tesi o con i nervi a fior di pelle
2) facile affaticabilità
3) difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria
4) irritabilità
5) tensione muscolare
6) alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno
o sonno inquieto e insoddisfacente).
D. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è limitato alle
caratteristiche di un disturbo in Asse I, per es., l’ansia o la preoccupazione
non riguardano l’avere un Attacco di Panico
(come nel Disturbo di
Panico, senza Agorafobia e con Agorafobia), rimanere imbarazzati in
pubblico (come nella Fobia sociale), essere contaminati (come nel Disturbo
ossessivo compulsivo), essere lontani da casa o dai parenti stretti (come nel
Disturbo d’Ansia di Separazione), prendere peso (come nell’Anoressia
Nervosa), avere molteplici fastidi fisici (come nel Disturbo di
Somatizzazione), o avere una grave malattia (come nell’Ipocondria) e
l’ansia e la preoccupazione non si manifestano esclusivamente durante un
Disturbo Post-traumatico da Stress.
E. L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente
significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di
altre aree importanti.
Questa sindrome è caratteristica negli adolescenti e più rara nell'infanzia. In
quest'ultima fascia di età è più facile che prevalga il Disturbo d'ansia di
separazione. Negli adolescenti affetti da disturbo d'ansia generalizzato si trova una
sintomatologia nel complesso più grave, con un elevato numero di sintomi, una
ben visibile manifestazione di sofferenza soggettiva. Inoltre si riscontra una
prevalenza
maggiore
nelle
femmine,
soprattutto
in
tarda
adolescenza,
manifestandosi con preoccupazioni relative ai compiti scolastici o alle prestazioni
in generale, un esempio possono essere le prestazioni sportive.
Solitamente gli adolescenti affetti da questo disturbo tendono al perfezionismo,
che crea tensione, la quale viene risolta o con l'evitamento , oppure con un
impegno eccessivo nelle attività. I soggetti che rientrano in questo quadro sono
insicuri e tendono a rifare le cose a causa di una scontentezza eccessiva e
richiedono eccessiva rassicurazione per le proprie prestazioni e preoccupazioni.
Si riscontra una elevata comorbilità con gli altri disturbi d'ansia e con i disturbi
depressivi.
I vari studi epidemiologici effettuati, mostrano risultati molto differenti sulla
prevalenza del disturbo in adolescenza. Una spiegazione potrebbe essere
probabilmente dovuta alla specificità del disturbo stesso, alla vasta sintomatologia
e all'elevata comorbilità con le altre patologie ansiose e depressive.
2.2.2.
Disturbo d'ansia da separazione
Criteri diagnostici DSM-IV:
A.
Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che
riguarda la separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato,
come evidenziato da tre (o più) dei seguenti elementi:
1) malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o
dai principali personaggi di attaccamento o quando essa è anticipata col
pensiero
2) persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei
principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro
qualche cosa di dannoso
3) persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento
spiacevole e imprevisto comporti separazione dai principali personaggi
di attaccamento (per es., essere smarrito o essere rapito)
4) persistente riluttanza o rifiuto di andare a scuola o altrove per la paura
della separazione
5) persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i
principali personaggi di attaccamento a casa, oppure senza adulti
significativi in altri ambienti
6) persistente riluttanza o rifiuto di andare a dormire senza avere vicino uno
dei personaggi principali di attaccamento o di dormire fuori casa
7) ripetuti incubi sul tema della separazione
8) ripetute lamentele di sintomi fisici (per es., mal di testa, dolori di
stomaco, nausea o vomito) quando avviene od è anticipata col pensiero
la separazione dai principali personaggi di attaccamento.
B.
La durata dell’anomalia è di almeno 4 settimane.
C.
L’esordio è prima dei 18 anni.
D.
L’anomalia causa disagio clinicamente significativo o compromissione
dell’area sociale, scolastica (lavorativa), o di altre importanti aree del
funzionamento.
E.
L’anomalia non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un
Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, di Schizofrenia, o di un altro Disturbo
Psicotico e, negli adolescenti e negli adulti, non è meglio attribuibile ad un
Disturbo di Panico Con Agorafobia.
La caratteristica principale di questo disturbo è l'ansia eccessiva in relazione alla
separazione da casa o dalle figure di attaccamento. Intense espressioni d'ansia
però possono verificarsi nel normale sviluppo del bambino dai tre mesi ai 6 anni e
talvolta possono ripresentarsi anche nella prima adolescenza, diventano però
patologiche quando sono persistenti e compromettono il percorso scolastico e la
vita sociale e di relazione.
Non si denotano distinzioni di sesso nella distribuzione del disturbo e la sua
prevalenza in adolescenza è stimata tra il 2,5% e 4%.
Se l'esordio avviene in adolescenza, saranno meno frequenti i molteplici incubi
sulla separazione, sull'essere rapito e la paura di andare a dormire senza la
vicinanza di un genitore. Saranno invece maggiormente presenti il rifiuto di
andare a scuola e lamentele somatiche come mal di testa, nausea, dolori allo
stomaco, vomito, le quali si presenteranno nei giorni di frequenza scolastica.
Data la specificità del disturbo d'ansia da separazione, l'esordio in adolescenza
può essere un fattore prognostico negativo, data la compromissione del
rendimento scolastico e delle relazioni sociali, ma anche per l'elevata comorbilità
con alcuni disturbi depressivi e con gli altri disturbi d'ansia. Spesso la fobia
scolare e il disturbo d'ansia da separazione si sovrappongono rendendo
difficoltosa la diagnosi differenziale, <<In ogni caso ricordiamo che veri e propri
quadri di fobia scolare in adolescenza sono estremamente rari e sintomatologie
che rimandano a questa sindrome generalmente appartengono a quadri
psicopatologici di maggiore gravità, come, per esempio, esordi depressivi o
schizofrenici>>1.
2.2.3.
Fobia Sociale
Criteri Diagnostici DSM-IV:
1
A.
Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali
nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile
giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di
ansia) in modo umiliante o imbarazzante. Nota Nei bambini deve essere
evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con
persone familiari e l’ansia deve manifestarsi con i coetanei, e non solo
nell’interazione con gli adulti.
B.
L’esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca
l’ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di panico causato
dalla situazione o sensibile alla situazione. Nota Nei bambini, l’ansia può
essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o con
l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari.
C.
La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. Nota Nei
bambini questa caratteristica può essere assente.
D.
Le situazioni temute sociali o prestazionali sono evitate o sopportate con
intensa ansia o disagio.
E.
L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i sociale o
prestazionale interferiscono significativamente con le abitudini normali
della persona, con il funzionamento lavorativo (scolastico) o con le attività
o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere
Ammaniti M., Manuale di psicopatologia dell'adolescenza, Raffello Cortina Editore, Milano 2002 (p. 277)
la fobia.
F.
Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
G.
La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di
una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione
medica generale, e non sono meglio giustificati da un altro disturbo
mentale (per es., Disturbo di panico con Agorafobia o senza Agorafobia,
Disturbo d’Ansia di Separazione, Disturbo da Dismorfismo Corporeo, un
Disturbo Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità).
H.
Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo
mentale, la paura di cui al Criterio A non è ad essi correlabile, per es., la
paura non riguarda la Balbuzie, il tremore nella malattia di Parkinson o il
mostrare un comportamento alimentare abnorme nell’Anoressia Nervosa o
nella Bulimia Nervosa.
Il soggetto teme quindi la possibile umiliazione o l'imbarazzo per la propria
reazione ansiosa durante l'esposizione sociale.
Per questo disturbo, come per i precedenti, i criteri diagnostici utilizzati per la
diagnosi della Fobia Sociale sono quelli utilizzati per gli adulti, fatto salvo delle
note riguardanti l'infanzia, fondamentali per definire il disturbo in quella fascia di
età: i bambini devono avere capacità relazionali e affettive soddisfacenti con il
gruppo dei familiari, avranno invece difficoltà a stabilirne sia con i coetanei che
con gli adulti al di fuori dalla famiglia, anche quando il rapporto non è
occasionale.
In adolescenza determinare quando l'ansia sia patologica o normale non è
semplice: molte volte atteggiamenti di timidezza tipici dell'adolescente sono stati
confusi con atteggiamenti patologici ed è per questo che si fa riferimento ai criteri
diagnostici del DSM-IV per poter effettuare la diagnosi.
Si stima che l'età media di insorgenza della Fobia Sociale sia nella prima
adolescenza. L'ingresso nella pubertà con tutte le problematiche tipiche di questo
periodo può far emergere situazioni già esistenti ma poco riconosciute. Spesso
infatti si riscontrano in questi adolescenti comportamenti nell'infanzia, come la
mancanza del gioco insieme ai coetanei, rifiuto per la scuola, timidezza esagerata
ed evitamento delle attività sociali proprie dell'età: tutti elementi che indicano una
continuità del disturbo e un fattore prognostico negativo. Nel caso in cui non vi
siano precedenti di questo genere nell'infanzia, la prognosi è più favorevole,
perché probabilmente collegata a situazioni, piuttosto che a caratteristiche
strutturali della personalità; in questo caso il decorso può migliorare
spontaneamente oppure presentarsi solo in modo episodico.
Questo disturbo è più frequente nei maschi che nelle femmine e questo sembra
dipendere dalla diversità in cui maschi e femmine affrontano la spinta per le
nuove esperienze anche dal punto di vista della socializzazione.
La depressione è frequente nei comportamenti che l'adolescente sviluppa per
alleviare l'ansia sociale, considerata quasi come un' autoterapia; l'uso di alcol e
sostanze stupefacenti è molto frequente e con conseguente rischio di dipendenza e
poliabuso.
2.2.4.
Inibizione Relazionale
L'inibizione è un fenomeno che taglia trasversalmente tutti i disturbi d'ansia.
Fallimenti scolastici e relazionali spesso sono attribuibili a questo fenomeno.
L'inibizione diventa disturbo quando limita l'acquisizione e l'attuazione di
possibili competenze.
Nell’inibizione relazionale ad essere compromessa è la socializzazione
dell’adolescente il quale soffre di un’eccessiva timidezza che lo porta a evitare un
gran numero di situazioni e contatti sociali, pur desiderandoli.
La vita fantasmatica è spesso molto ricca e vi è il timore che le fantasie possano
essere in qualche modo lette dalla persona che ne è oggetto.
Si ritiene che la timidezza sia legata al secondo processo di separazioneindividuazione e a una fragilità e labilità dei confini del Sé tipici dello sviluppo
pubertario. Si possono infatti osservare tutti i gradi di inibizione e di
corrispondente fragilità dei confini del Sé, da quella lieve, in cui i confini sono
solamente fonte di dubbio, a quella grave, in cui i confini sono percepiti
estremamente fragili e mal definiti portando talvolta al ritiro vero e proprio.
2.3. Fobia Scolare
2.3.1.
Descrizione
Sebbene la fobia scolare non sia direttamente menzionata all’interno del Manuale
diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, capita spesso di confrontarsi con
questo disagio. La fobia scolare o “rifiuto ansioso della scuola” descrive quelle
situazioni in cui il rifiuto di andare a scuola si accompagna a reazioni molto
intense di ansia e panico che presentano un vasto ventaglio di sintomi.
Il termine “fobia della scuola2” fu proposto per la prima volta nel 1941, da A.
Jonhson e coll. per descrivere <<dei bambini che, per motivi irrazionali, rifiutano
di andare a scuola e fanno resistenza con delle reazioni molto intense di ansia o
addirittura di panico se si cerca di forzarli ad andarci>>.
Il termine “fobia della scuola” divenne subito oggetto di controversie, riguardo al
significato fobico del sintomo e all'organizzazione psicopatologica sottostante.
Molti autori hanno contestato il termine “fobia”: Bowlby ed altri autori
prediligendo espressioni come “angoscia di separazione”; la Klein invece come
“distrurbo di panico”; nel DSM-III-R si trovava invece “rifiuto ansioso scolastico”
, ma per il DSM-IV alcuni casi di rifiuto della scuola soprattutto in adolescenza,
sono attribuibili a Fobia Sociale o a Disturbi dell'umore, piuttosto che ad Ansia da
Separazione. Ma come ho già sottolineato all'inizio di questo capitolo, il dibattito
sulla classificazione diagnostica della Fobia Scolare è ancora aperto.
La distribuzione fra i sessi è leggermente maggiore nei ragazzi: il rapporto
maschi-femmine è di 3:2.
L'età di insorgenza varia a seconda delle fasce di età: nell'infanzia si avranno
picchi tra i cinque e i sette anni, nella preadolescenza fra i dieci e gli undici anni,
nell'adolescenza fra i dodici e i quindici anni. In alcuni casi l'insorgenza può
manifestarsi alle scuole superiori o addirittura all'inizio dell'università. Per le
ragazze l'età di insorgenza potrebbe essere più elevata.
Sembra che ci sia un parallelismo fra il valore dato agli studi, sia sul piano
2
Il termine “Fobia della scuola” viene sostituito con i termini “Fobia scolastica” o “Fobia
scolare”. In questo elaborato userò il termine “Fobia Scolare”.
individuale che su quello familiare, e la frequenza della fobia scolare.
2.3.2.
Espressione sintomatica
L'espressione sintomatica acuta si manifesta soprattutto nelle vicinanze della
scuola: l'adolescente si agita, manifesta angoscia crescente. In alcuni casi il
malessere si manifesta solo in classe oppure in determinate lezioni, in altri casi il
malessere compare anche in prossimità della scuola o nel tragitto per
raggiungerla. Durante il mio tirocinio formativo ho assistito proprio a quest'ultimo
caso: insieme alla mia Tutor di tirocinio, l'Educatrice Professionale Manuela
Nardi, andammo a prendere a casa una ragazzina di 13 anni (la quale presenta un
quadro piuttosto chiaro di fobia scolare) per accompagnarla a scuola come
concordato nel progetto educativo di reiserimento scolastico. Proprio in prossimità
del cancello della scuola la ragazzina ha avuto una forte crisi di ansia con
tachicardia, sudorazione, crisi di pianto, angoscia e ha cercato di scappare.
L'educatrice professionale è riuscita a calmarla e dopo rassicurazioni sul fatto che
nessun professore avrebbe potuto interrogarla perché risultava ritirata e avrebbe
comunque fatto l'esame da privatista, promettendole che l'avremmo accompagnata
fino in classe, la ragazzina è riuscita ad entrare nel cancello della scuola. Il giorno
successivo però non si è presentata all'appuntamento con l'educatrice che avrebbe
dovuto accompagnarla di nuovo a scuola.
Se l'adolescente viene forzato nell'ingresso a scuola appaiono manifestazioni più
intense: crisi, violenza, agitazione e fuga. Nei rari casi in cui l'adolescente si lascia
convincere, come nel caso sopra citato, le crisi d'angoscia ricompariranno al
minimo rimprovero o alla prima discussione, anche con un compagno.
Le crisi di angoscia che non permettono all'adolescente di entrare in classe,
possono essere giustificate: per il terrore di una possibile interrogazione, per la
semplice paura che il professore gli chieda di leggere in classe ad alta voce, per il
poco interessamento agli insegnamenti scolastici accompagnato comunque da
angoscia, o ancora per la paura di frequentare i coetanei per il terrore di essere
rifiutato o di essere deriso.
In alcuni casi la fobia scolare resta un fattore isolato; in queste situazioni
l'adolescente risulta adeguato negli altri ambiti: riesce ad uscire, mantiene
relazioni con i pari, le attività sportive e le attività artistiche o culturali.
Nella gran parte dei casi si presentano altri sintomi: altre manifestazioni di tipo
ansioso come l'agorafobia, ansia da separazioni da almeno uno dei genitori, fobia
dei mezzi pubblici e fobia sociale e più queste manifestazioni sono intense più
l'adolescente si limiterà a vivere all'interno del proprio ambiente familiare. Nel
contesto domestico, più l'adolescente è pauroso, sottomesso, chiuso nel guscio
familiare, più potrà divenire pretenzioso, iracondo, tirannico e anche aggressivo
nei confronti dei familiari: può diventare violento verso un fratello o un genitore
che cercherà di comandare nelle azioni quotidiane. Sembra quasi che l'adolescente
voglia impossessarsi della vita familiare, la vuole comandare come un dittatore,
quasi come rivalsa su ciò che non riesce a fare nella vita extrafamiliare, che non
riesce a comandare e controllare; sintomi depressivi come crisi di pianto con idee
tristi persistenti, autodisprezzo, scarsa autostima, autosvalutazione, idee suicidarie
che quasi mai vengono messe in atto, idee di morte, indifferenza, chiusura in se
stessi, ritiro sociale, disinteresse anche per le attività in cui solitamente investiva,
disturbi del sonno soprattutto nell'addormentamento e nel risveglio notturno,
alterazione del ritmo sonno-veglia, disturbi dell'alimentazione con condotte
bulimiche o anoressiche, o perdita dell'appetito.
Alcuni autori parlano di “depressione mascherata” riguardo alle manifestazioni
sintomatiche di tipo depressivo presenti nei soggetti affetti da fobia scolare, come
se la fobia scolare fosse <<...una facciata piuttosto fragile che lascia facilmente
trasparire i sintomi depressivi e la problematica depressiva sottostante>>3.
Ci sono casi nei quali l'adolescente non manifesta nessun sintomo depressivo e il
disturbo sembra isolato alla sola scuola; molte volte però anche in questo casi,
durante gli incontri psicoterapici o educativi, emergono degli aspetti depressivi.
Alcune difficoltà nell'infanzia possono risultare un fattore prognostico negativo
nella manifestazione della fobia scolare in adolescenza: problemi scolastici come
angoscia da separazione eccessiva all'ingresso della scuola materna o elementare,
3
Ammaniti M. e Novelletto A.(a cura di), Adolescenza e psicopatologia, Masson, Milano 1999
(5° edizione) (p.408).
innumerevoli assenze durante l'anno scolastico aldilà della motivazione; disturbi
dell'alimentazione come l'anoressia, o del sonno (sonnambulismo, parasonnie,
rifiuto di andare a dormire); problematiche relative alle separazioni, solitamente
riguardanti separazioni dei genitori, malattie gravi dei genitori o del bambino tale
da richiederne il ricovero, decesso dei genitori. Difficilmente si tratta di
separazioni positive come gite scolastiche, vacanze da amici, soggiorni estivi ecc..
Importante è differenziare la fobia scolare dal disinteresse o disinvestimento
scolastico: l'adolescente con disinteresse per la scuola, non interrompe la
frequenza scolastica (almeno inizialmente), né tanto meno ha sentimenti di
angoscia.
Anche il rifiuto scolastico può essere frainteso e considerato fobia scolare. In
realtà il rifiuto scolastico deriva da una mancanza di interesse e di curiosità per gli
insegnamenti, con una conseguente interruzione scolastica, denominata da
processi di delusione sia da parte dello studente che da parte della scuola
(emarginazione, esclusione sociale).
2.3.3.
Approccio psicopatologico
Secondo Marcelli e Braconnier4 la fobia della scuola sembra essere una condotta
sovradeterminata che trova le sue origini a più livelli dell'organizzazione
strutturale. Un primo livello si riferisce alla sintomatologia fobica, in quanto lo
spostamento dell'angoscia sulla scuola, lascia l'adolescente libero dall'angoscia
nelle altre situazioni. Questa angoscia può anche essere legata alla problematica
edipica: ad un primo livello alla paura dell'insuccesso, o più indirettamente alla
paura per la nascita di una relazione affettiva; ad un secondo livello si può
cogliere nelle fobie scolastiche un profondo conflitto fra aggressività e senso di
colpa nei confronti dei genitori, legato al desiderio di autonomia proprio del
processo adolescenziale e alle corrispondenti preoccupazioni inconsce di restare
soli e senza protezione (quindi esposti a pericoli) o ferire i genitori con un
abbandono che potrebbe provocargli morte o invecchiamento.
Questa ambivalenza verso le figure genitoriali è messa in luce anche dai
4
Ammaniti M. e Novelletto A. (a cura di), Psicopatologia dell'adolescente, Masson, Milano 1983.
comportamenti aggressivi all'interno della famiglia, che si presentano in
concomitanza con la comparsa della fobia scolare: crisi di violenza verso oggetti e
verso i genitori, soprattutto dell'adolescente maschio verso la madre.
In adolescenza è nota l'importanza del gruppo dei pari, e il loro ruolo nella
costituzione dell'ideale gruppale, ideale di transizione tra l'Ideale dell'Io del
bambino e quello del futuro adulto. Per alcuni degli adolescenti con fobia scolare
sembra fondamentale evitare il confronto con il gruppo dei pari, perché esso
evidenzia in modo spietato il legame estremo di dipendenza con i propri genitori.
Questi adolescenti hanno relazioni strette con un amico che non appartiene al
gruppo classe, il più delle volte è un compagno conosciuto nelle classi precedenti
e questo lo si ritrova soprattutto nei maschi. Il significato di questa amicizia è da
ricercare nell'ambito del legame con il genitore dello stesso sesso, e rappresenta
un primo tentativo di distaccarsi dal legame edipico positivo appoggiandosi su un
legame edipico negativo.
Le dinamiche familiari delle famiglie di adolescenti con fobia scolare hanno
caratteristiche peculiari.
I padri sono spesso persone assenti o decadute dalla loro funzione paterna. È
frequente il loro allontanamento dalla famiglia a causa di divorzio o separazione,
oppure per questioni legate al tipo di lavoro svolto. Invece se i padri sono
presenti, molto spesso sono svalorizzati dalla madre, oppure malati o invalidi.
Molto spesso soffrono di depressione e di ansia cronica con tratti nevrotici
evidenti. Il ragazzo adolescente non si identifica in suo padre in modo
sufficientemente solido da utilizzare tale relazione edipica per compensare la
pesante influenza della relazione con la madre e cercare di liberarsi da essa.
Le madri sono spesso eccessivamente ansiose e in alcuni casi con tratti di
personalità nevrotici. Nella relazione madre-bambino si instaura un precoce
legame di interdipendenza, ma non è chiaro chi sia il primo ad instaurarlo.
Nelle madri di figli con fobia scolare è molto frequente una sindrome depressiva
più o meno cronica. Questo genera un senso di colpa nell'adolescente che desidera
l'autonomia, ma che si sente, e viene fatto sentire dalla famiglia, il responsabile
dell'accudimento della madre malata.
Questa situazione familiare è molto frequente e dà significato alla manifestazione
dei disturbi in adolescenza e alla loro progressiva fissazione.
<<...la fobia della scuola in adolescenza giustifica la relativa diversità delle
organizzazioni psicopatologiche sottostanti che sono state chiamate in causa.
Tuttavia essa frena ed ostacola i naturali processi evolutivi spiegando la prognosi
sociale sfavorevole>>.5
2.3.4.
Presa in carico ed evoluzione
Il trattamento di questo disturbo è senza dubbio problematico. Necessita di una
collaborazione multiprofessionale: neuropsichiatra, psicologo ed educatore
professionale sono le principali figure professionali che devono intervenire nella
valutazione e nel trattamento, altre figure professionali possono essere integrate a
seconda dei casi.
Il trattamento richiede tempo, e proprio per questo motivo molte volte i genitori
tendono a rinunciare se non vedono cambiamenti repentini. Molto spesso la
compliance è negata dall'adolescente, sia per lo stesso motivo che porta i genitori
a rinunciare e sia perché allontanamenti da casa, per esempio per la comunità
terapeutica, non sono accettati. Spesso anche l'inserimento scolastico graduale,
concordato fra adolescente ed educatore, non va a buon fine: in molti casi i
pazienti non si presentano all'appuntamento, si negano al telefono e si rinchiudono
nella propria stanza.
La richiesta terapeutica dei genitori è spesso collegata alla sola risoluzione dei
sintomi sia che si tratti di fobia scolare o comportamenti ad essa correlati.
La dimensione dei sintomi depressivi è solitamente l'unica sulla quale è possibile
lavorare, ma solo se i sintomi sono osservabili. La terapia con farmaci
antidepressivi o con farmaci che controllino l'ansia può essere una possibile
soluzione, ma associata ad una terapia individuale psicoterapica, educativa o
cognitivo-comportamentale.
Il ritorno a scuola può essere graduale e concordato, nei tempi e nelle modalità,
5
Ammaniti M. e Novelletto A.(a cura di), Adolescenza e psicopatologia, Masson, Milano 1999
(5° edizione) (pag.414).
con l'adolescente, i genitori e il personale scolastico.
Il ritorno a scuola è comunque più raro negli adolescenti che nei bambini.
Fattori prognostici positivi per un possibile ritorno a scuola sembrano essere:
essere figlio unico o mediano, essere un maschio preadolescente, aver avuto
separazioni nell'infanzia, non aver avuto problemi nell'inserimento alla scuola
materna o elementare.
Fattori prognostici negativi invece sembrano essere: essere una femmina
adolescente, ultima di due o più figli, non aver vissuto separazioni nell'infanzia,
aver avuto problemi di separazione all'inserimento alla scuola materna o
elementare. Questi fattori indicano una possibile evoluzione in disturbi
psicopatici, ritiro o isolamento. Molto frequente può essere una sindrome
borderline.
In alcuni casi la fobia scolare può rappresentare l'inizio di un ritiro sociale che può
prendere le forme della cosiddetta sindrome giapponese di Hikikomori, che
tratterò in modo dettagliato nel prossimo capitolo.
Il caso del Giappone, dove il ritiro dalla scuola dovuto ad un “rifiuto scolastico
ansioso”, è esemplare riguardo alla problematica sociale della eccessiva
valorizzazione degli studi da parte della società e della famiglia. È noto infatti il
peso competitivo del sistema scolastico giapponese. I fattori scatenanti sembrano
essere: traslochi con cambio di sede scolastica, cambiamento del ciclo di studi,
non riuscire a soddisfare le aspettative dei genitori ed il bullismo.
CAPITOLO 3
HIKIKOMORI: dal Giappone all'Italia?
3.1.
Che cosa vuol dire Hikikomori?
La parola hikikomori in Giappone è una parola che spaventa. È considerata
<<...come una malattia incurabile che colpisce senza motivo e quando arriva
contagia lentamente tutta la famiglia rovinandone l'esistenza>>6.
La parola hikikomori fu coniata da Saito Tamaki7, psichiatra giapponese, che negli
anni ottanta, individuò un numero sempre maggiore di casi di ragazzi che per una
forma di fobia scolare o apatia verso la scuola, tagliavano tutte le comunicazioni
con il mondo sociale e si ritiravano nella propria stanza, rimanendovi per lunghi
periodi senza quasi mai uscire.
Come criterio diagnostico per definire lo stato di hikikomori, fu indicato un
periodo minimo di reclusione volontaria nella propria stanza per almeno sei mesi;
anche se dopo poco si resero conto che il periodo di ritiro durava anche per anni.
Molti dei giovani affetti da hikikomori condividono alcuni aspetti patologici con
chi soffre di taijin kyofusho. Questa patologia consiste fondamentalmente nel
mostrare un sentimento di vergogna e forte timidezza alla presenza degli altri.
I dati riportano che a fare hikikomori siano circa un milione di adolescenti, circa
1% della popolazione, e che il 90% sia di sesso maschile. Il ceto sociale di questi
adolescenti è solitamente medio-alto, vale a dire il padre laureato con posizione
dirigenziale e madre anch'essa laureata, solitamente casalinga.
Le ragazze in hikikomori sono solo il 10%. La chiusura in un mondo senza
6
7
Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008.
Tamaki Saito è nato nel 1961 a Iwate, si è laureato in medicina all'Università di Tsukuba
specializzandosi in psichiatria adolescenziale. E' da anni impegnato nell'assistenza e nel
trattamento di hikikomori, in tale ambito è uno degli esperti più qualificati. Attualmente è
Direttore Clinico del Sofukai Sasaki Hospital, una clinica privata di Chiba, non lontano da Tokyo;
ha pubblicato saggi di successo in ambito psicoanalitico, letterario, su tematiche culturali e sociali,
sull'arte moderna. Le frequenti apparizioni televisive e il coinvolgimento verso forme culturali
d'avanguardia hanno contribuito ad accrescere la sua fama in Giappone e nel mondo.
emozioni è propria del mondo maschile, così come tutti gli altri disturbi rispetto
alla fobia degli altri. Le ragazze in hikikomori non raggiungono un rifiuto totale,
non necessitano di una forma così estrema, solitamente infatti le forme di disagio
nelle adolescenti sono manifestate con anoressia e bulimia (il 2% delle ragazze
che frequentano le scuole superiori). Le ragioni per cui le ragazze praticano
hikikomori non sono le stesse dei ragazzi, loro non sono esasperate dalla pressione
sociale, ma piuttosto si sentono sole e isolate.
Un dato che mi sembra giusto sottolineare è che hikikomori non avviene in
famiglie con genitori separati o divorziati, o dove il padre vive all'estero per
trasferimento lavorativo, in giapponese tannshinfunin, ma si presenta in famiglie
con contesti normali.
Solitamente chi pratica hikikomori è figlio unico o il figlio maschio maggiore,
investito dalla tradizione culturale, di grosse responsabilità rispetto alla famiglia.
Il termine hikikomori significa ritirarsi, isolarsi, chiudersi; Tamaki Saito ha
tradotto il termine in inglese in sociale withdrawal, che significa “ritiro sociale”,
una volontaria reclusione, le cui cause sono da ritrovare nel sistema sociale e
familiare.
Carla Ricci, laureata in antropologia culturale ed etnologia, che da anni svolge
ricerca sul campo in Giappone dove si è specializzata in tematiche psico-sociali
portando a compimento diversi lavori sul disagio giovanile tra cui l'hikikomori,
nel suo libro “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”, si pone
l'obbiettivo di dimostrare che la principale causa attribuita all'hikikomori, il ritiro
scolastico appunto, non sia la vera causa per l'instaurarsi del fenomeno, ma che
essa rappresenti solo un piccolo tassello in un contesto di sofferenza molto più
ampio, di cui l'apparato sociale ne detiene la massima responsabilità e all'interno
del quale l'adolescente giapponese non sa come muoversi.
Questi adolescenti vengono considerati dall'opinione pubblica come dei malati, al
contrario di quello che invece sostengono i medici. È considerata una malattia
perché non è concepibile che una persona in buona salute voglia allontanarsi dalla
società e soprattutto dalla propria famiglia. In Giappone la separazione della
famiglia è un concetto nuovo, basti pensare alla divisione fisica della casa: fino a
pochi anni fa, ma in alcune case tuttora, non esistevano le porte per dividere le
stanze, ma solo scorrevoli di carta di riso, per trasformare l'ambiente da zona
giorno in zona notte.
Nei casi in cui questi adolescenti non vengono considerati malati, vengono
etichettati come viziati, senza senso del dovere, di rilevata importanza nel sistema
giapponese. Questa etichetta viene data anche ad altre tipologie di adolescenti: i
Neet e i Freeter.
I Neet, “Not in Employment, Education or Training”, sono quei giovani che non
studiano, non lavorano, non hanno qualifiche professionale. Non fanno sport, non
vanno al cinema, non leggono un libro. Dormono a lungo, vivono a casa dei
genitori e da essi sono mantenuti. Amano la comunicazione all'interno dei loro
gruppi ed utilizzano internet e cellulare. Il loro modo di rifiutare il sistema è
attraverso il “fare nulla”. L'espressione è stata utilizzata per la prima volta dal
governo della Granbretagna, che stimava, in termini di costi, l'immobilismo dei
suoi giovani. Il gruppo dei Neet racchiudeva ragazzi, che non lavoravano e non
studiavano, fra i sedici e i ventiquattro anni. Il fenomeno ha iniziato a girare per il
mondo e a prendere etichette diverse. In Francia si chiamano Nènè, in Spagna NiNi, in America anche se con un accezione un po' diversa, sono i Twixter, termine
che descrive il giovane intrappolato fra l'adolescenza e la giovinezza, in Giappone
viene tradotto in modo meno celato in “single parassita”.
E in Italia? La situazione è preoccupante. Sono 2 milioni e 100 mila i giovani
italiani (tra i 15 e 29 anni) a vivere da Neet, tradotto dai sociologi italiani come
“nullafacenti”. Rappresentano il 22,1 per cento dei giovani italiani.<<Colpa dello
scenario economico, certo: ma non solo. E così, da scettici e disincantati, i giovani
si trasformano in fannulloni>>. 8
I Freeter invece sono quei giovani che non vogliono un posto di lavoro fisso, non
vogliono entrare in una classica azienda giapponese con ruoli fissi e divisi per
categorie, vogliono invece lavori part-time per mantenersi, anche in molti casi
anch'essi sono aiutati dalla famiglia.
Questi due espressioni di disagio si discostano molto dall'hikikomori, perché
8
Minardi S., Vita da Neet, in <<L'Espresso>>, 14/07/2011, (pp.136-141).
quest'ultimi praticano un ritiro totale, quasi fino all'auto-annientamento. Sono visti
con maggiore disprezzo dalla società rispetto ai primi, perché chiudono il rapporto
con essa, negano la comunicazione. Come se fossero un elemento di disturbo
all'interno della società tanto legata al gruppo sociale.
I primi elementi che si possono rilevare riguardo all' hikikomori sono:
•
non è una malattia a se stante;
•
il periodo minimo per definire un adolescente in hikikomori è di almeno 6
mesi di ritiro sociale;
•
al momento in cui il ragazzo inizia l'hikikomori non risulta affetto da
nessuna malattia mentale, ritardo mentale e altre patologie mediche.
Questi elementi sono stati estrapolati da un lavoro effettuato da un gruppo di
ricerca istituito nel 2003 dal Ministero della Salute, al seguito di tre omicidi
commessi da persone che si sono dichiarate in hikikomori. Da qui l'ulteriore
disprezzo dell'hikikomori da parte della società.
3.2.
Non è una malattia ma produce malattia
Il ritiro in hikikomori avviene il più delle volte dopo un periodo più o meno
prolungato di assenza scolastica. Secondo i dati raccolti da Tamaki Saito, circa il
90% di ragazzi in hikikomori ha praticato l'assenza scolastica, di questo 90%, il
6% l' ha protratta per più di tre mesi.
Non è sempre chiaro definire le ragioni di questa assenza prolungata. In alcuni
casi tutto inizia da una bocciatura o dall'abbassamento del rendimento scolastico.
Il sistema scolastico giapponese è famoso per la sua severità. Gli esami di accesso
alle scuole superiori o all'università sono molto difficili e richiedono molti mesi di
preparazione, con un impegno giornaliero di dieci o più ore. La tensione che si
crea nel ragazzo è molto intensa e i casi di suicidio non sono rari se l'esito
dell'esame è negativo.
Ma un altro fenomeno che riconduce all'assenza scolastica è ijime, ovvero il
bullismo scolastico. Il fenomeno è strettamente collegato al rendimento scolastico:
per i ragazzi che hanno carenze scolastiche o sono più indietro rispetto al resto
della classe è molto più facile che subiscano ijime.
Il fenomeno in Giappone ha preso dimensioni considerevoli e sta destando
innumerevoli preoccupazioni. Molti bambini si suicidano perché non sopportano
l'esclusione dal gruppo, invece in hikikomori non si sceglie di morire, ma si rifiuta
tutto ciò che provoca la sofferenza.
Hikikomori non è una malattia, la malattia si manifesta quando la reclusione si
prolunga in modo eccessivo. Ci sono anche casi in cui la fobia sociale oltre a
presentarsi dopo il ritiro, sia già presente prima. Sintomi certi di una precedente
fobia sociale possono essere per esempio queste espressioni solitamente usate dai
ragazzi: se vedo persone in divisa avverto una grande ansia, se mi mischio ad altre
persone finisco per rovinare l'atmosfera, non ho mai niente di interessante da dire,
dato che il mio corpo puzza do sicuramente fastidio agli altri.
In Giappone è una patologia dalla quale sono affetti quasi esclusivamente
adolescenti e adulti maschi, riconducibile ad alcuni precisi aspetti della cultura
nipponica, uno di questi è lo stato d'animo della timidezza, parola che viene usata
anche per descrivere la vergogna. Sembra quindi che ragazzi particolarmente
timidi siano più a rischio di hikikomori, <<...manca però una chiave di accesso
che sembra rappresentato da una sorta di narcisismo derivato da una forma di
immaturità, che porta gli uomini a sentirsi feriti nell'orgoglio anche rispetto a
situazioni che, in uno stato emotivo normale risulterebbero sopportabili; la
timidezza si amplifica così in vergogna da cui prende corpo la paura verso gli
altri>>9.
Di seguito citerò due casi di ragazzi hikikomori dal libro “Ritiro sociale”di Saito
T., tradotti in italiano da Carla Ricci nel libro “Hikikomori adolescenti in
volontaria reclusione”10.
1° caso: giovane, 29 anni.
Si era dimostrato debole sia da ragazzino. Nella scuola media partecipava
alle attività sportive solo parzialmente e preferiva, potendo, stare da solo. Aveva
9
10
Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008 (pag 29)
Ibidem (pag 29-30).
momenti in cui rifiutava il padre, poi ritornava normale, almeno apparentemente.
Nella scuola superiore c'erano stati episodi in cui si era ubriacato ed era stato
violento. Dopo la laurea, aveva trovato un lavoro ma dopo un mese lo aveva lasciato;
aveva avuto altre esperienze lavorative ma in tutte aveva proseguito solo per
qualche mese. Quando interrompeva il lavoro, non diceva niente a nessuno, spariva
senza preavviso e non si presentava più. Dopo questi tentativi falliti, la sua vita è
continuata segregata in camera come hikikomori. Nel mese di maggio, all'età di 26
anni si è tagliato i polsi. Da allora ha fatto avanti ed indietro all'ospedale psichiatrico.
Successivamente in casa il suo comportamento è diventato violento ed il medico che
lo ha in cura riferisce che la situazione è sempre a rischio. Anche ora fa hikikomori e
continua a vivere in uno stato di inattività.
2° caso: giovane, 24 anni.
Già dall'adolescenza, aveva dimostrato di essere timido, problematico e
nervoso. Alle scuole superiori, una compagna di classe si lamentò del suo cattivo
odore. Come risultato diventò paranoico rispetto all'odore del suo corpo e cominciò
ad avere difficoltà con la scuola che dopo un anno abbandonò. Dopodichè, seppur
con molte difficoltà interpersonali, si cimentò in molti lavori che regolarmente lasciava
dopo un mese. Cominciò così gradualmente a ritirarsi dalle attività sociali.
Trascorreva tutto il tempo nella sua stanza. Smise di aver paura del suo odore, ma si
sviluppò in lui la patologia di mysophobia e divenne evidente la sua compulsione a
lavarsi. Questo stato di ritiro sociale durò per oltre 4 anni, fino a quando il ragazzo
insieme ai suoi genitori venne in ospedale per un trattamento.
Durante il passare del tempo rinchiusi nella propria stanza, i ragazzi sono invasi
da una incolmabile tristezza, che all'apparenza può sembrare anche pigrizia, ma se
così fosse con il passare del tempo proverebbero noia, ma i ragazzi hikikomori
non sono annoiati, sono piuttosto avvolti in una profonda inquietudine.
Riconoscono che <<...il loro comportamento è egoistico e troppo dipendente dai
loro genitori, sanno che dovrebbero lasciare la loro stanza e ritornare a scuola o
cercarsi un lavoro, tuttavia continuano hikikomori>>11.
Durante lo stato di hikikomori i ragazzi perdono la nozione del tempo, poiché non
è scandito da nessun avvenimento e varie possono essere le conseguenze: c'è chi
11
Saito T., Tr. Ritiro sociale, PHP Shinsho, Tokyo 1998.
si fissa di avere un brutto volto e vuole sottoporsi alla chirurgia plastica
obbligando i genitori ad occuparsi di tutto, ma il più delle volte non sono
soddisfatti del risultato e la reclusione continua; altri diventano ossessivi riguardo
all'igiene personale, si lavano talmente tante volte le mani fino ad arrivare ad uno
stato di abrasione tale da sembrare senza pelle, spesso obbligano la madre ad
occuparsi di questi azioni di pulizia ossessive e se si rifiuta molte volte passano
alla violenza. Comune a quasi tutti (81%) è l'inversione del ritmo sonno-veglia
con conseguenze biologiche per la non esposizione alla luce solare, e conseguenze
psicologiche nel sentirsi inferiore perché, mentre di giorno tutti sono a scuola o al
lavoro, lui dorme ed è inattivo.
In alcuni casi si assiste ad una regressione infantile abbastanza invasiva: emettono
la voce da bambino, cercano la madre, la vogliono toccare; la madre non
impedendo questo atteggiamento non fa altro che peggiorare le cose.
Vista la regressione come un desiderio infantile di possesso, viene spesso legata
alla violenza domestica, in Giappone intesa come la violenza del figlio verso i
genitori, soprattutto la madre. Questo fenomeno è molto frequente e difficile da
gestire, in quanto crea un sentimento di paura in tutta la famiglia. Il figlio con
questo comportamento vuole esprimere il suo risentimento verso i genitori, dando
a loro la colpa del dolore da cui non riesce a liberarsi.
Un desiderio di morte o una pianificazione del suicidio sono presenti circa nel
46% dei casi, in realtà il suicidio non viene quasi mai realizzato: <<il ragazzo in
hikikomori vuole vivere, ma non sa come>>12.
Quello che emerge dalla testimonianze di ex hikikomori è che non sanno quello
che gli sta accadendo, loro si sentono solo stanchi. In realtà i veri conflitti che
vivono sono: quello di non essere capace più di uscire di lì anche se lo
desideravano; quello di sentirsi in colpa per non essere stati attivi socialmente;
quello di sentirsi soli per aver perso tutti gli amici; quello di sentirsi dimenticati e
non capiti dagli altri. I ragazzi in hikikomori hanno un alto quoziente intellettivo,
hanno un' alta capacità di memorizzazione, ma quello che gli manca è un pensiero
12
Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli, Milano 2008 (pag.
32).
forte, critico, di esprimere un opinione personale, senza aver paura che sia
sbagliata o non adatta a chi si ha davanti.
3.3.
Scuole speciali
In Giappone sono nate numerose scuole “alternative” per far fronte alla richiesta
di numerosi genitori di studenti ritirati dalle scuole tradizionali, perché bocciati o
vittime di bullismo. Queste scuole chiamate free space o free school, sono circa
300 e svolgono programmi didattici come le normali scuole. Non è però previsto
un programma di recupero per ragazzi in hikikomori, cosa che invece avviene al
Free space wood “Fsw” .
È la madre che, quando ritiene che il figlio sia pronto per uscire dalla propria
stanza, contatta il Centro. Dopo che è stato concordato il percorso terapeutico, il
responsabile del Centro inizierà a fare delle visite quotidiane alla famiglia. Molto
probabilmente per i primi sei mesi, avrà colloqui esclusivamente con la madre,
dopo questo periodo è probabile che il ragazzo sia disposto ad uscire dalla sua
camera. Dopo un periodo in media di circa tre mesi, ma anche questo è molto
soggettivo, il ragazzo può decidere di voler uscire di casa e iniziare a frequentare
il Centro.
Il percorso riabilitativo può durare mesi e in alcuni casi anni. Inizialmente il
ragazzo cercherà di isolarsi il più possibile e per questo motivo avrà a
disposizione una stanza tutta per se. Nei momenti di incontro con gli altri ragazzi
nella sua stessa condizione, cercherà comunque di isolarsi e di essere il meno
visibile possibile.
È probabile che dopo qualche settimana inizi a scambiare qualche parola ed ad
ascoltare musica, successivamente può provare anche il desiderio di partecipare ad
attività sportive e quando il percorso riabilitativo inizierà ad avere un discreto
successo, l'obbiettivo sarà quello di aiutarlo ad avere la licenza per iniziare
qualche lavoretto part-time.
Una delle principali caratteristiche del centro è la mancanza di categorizzazioni:
non c'è la distinzione di ruoli in modo gerarchico, non c'è la definizione di chi si è
e delle cose che si devono fare. Questo perché in Giappone la differenziazione in
categorie è un elemento principale dell'organizzazione della società: tutti
appartengono ad una categoria. Un esempio lampante si ha quando ci di deve
presentare ad un altra persona: non si inizia con il nome ma con la posizione
sociale che si riveste, ha la funzione di status symbol ed indica il livello di rispetto
che le persone sono tenute a dare. Un altro esempio che per la nostra cultura
occidentale non è concepibile è di non chiamarsi per nome in famiglia. Marito e
moglie si chiameranno okasan e otosan cioè madre e padre e i figli fra di loro
onisan, ototo, onesan, imoto cioè fratello maggiore, fratello minore, sorella
maggiore, sorella minore.
Al Centro Fsw non ci sono categorizzazioni e questo porta un effetto positivo ai
ragazzi. Anche lo staff non si differenzia dai ragazzi, nessuna divisa, sono tutti
uguali, nessun appellativo e nessun distintivo di riconoscimento. Nessun chiede al
nuovo arrivato il proprio passato.
Nel Centro non ci sono programmi scolastici da seguire e neppure programmi per
le altre attività, questo all'inizio destabilizza i ragazzi, ma con il passare del tempo
saranno loro ad organizzare le proprie attività e a darsi delle regole, che
rispetteranno nella maggior parte dei casi.
Il problema sorge quando i ragazzi devono riaffacciarsi alla società, perché quello
che succede nel Centro non si verifica nella realtà sociale, è un grande limite,
perché la società giapponese richiede di appartenere ad una categoria e gli stessi
ragazzi vorrebbero appartenere ad una categoria ma sentono di non avere una
grande autostima.
3.4.
La dipendenza dalla madre
Un problema nel trattamento di ragazzi in hikikomori è la presa di coscienza da
parte della famiglia. Nel momento in cui la famiglia si accorge dei problemi del
figlio, dovrebbe chiedere subito l'intervento di un medico, in questo modo le cose
prenderebbero una strada differente e l'auto-reclusione del figlio nella propria
stanza si risolverebbe in tempi più brevi. Ma i motivi per cui questo non accade
sono molteplici.
Il giovane che sta male trova rifugio nella propria casa, nella propria famiglia,
come in un guscio protettivo: <<fuori si combatte, in casa ci si ripara>> 13. Prima
di descrivere il ruolo della madre negli adolescenti in hikikomori, voglio spendere
due parole per la profonda distinzione fra ciò che è dentro e fra ciò che è fuori
nella società nipponica. I giapponesi mantengono una netta divisione fra chi è
dentro e chi è fuori dagli specifici rapporti di famiglia e di gruppo. Riempiono di
attenzioni chi è uchi, cioè chi è dentro, e ignorano chi è soto, cioè fuori, in quanto
estraneo. La convinzione occidentale che tutti debbano essere considerati nello
stesso modo, che siano uchi o soto, all'interno o all'esterno della “rete”, sembra
strana per gran parte dei giapponesi. È come se avessero un doppio registro
psichico: uno per il mondo esterno, l'altro riservato alle persone con cui sono in
confidenza. I giapponesi riconoscono l'esistenza di una faccia pubblica, tatemae,
visibile quando si parla in modo formale, oppure con degli estranei. Una persona
esprime i propri sentimenti autentici, honne, solo tra gli amici più stretti, oppure
davanti a un bicchiere di sakè. La vita è così divisa in due ambiti: uchi e soto, due
confini fra i quali desiderano mantenere le distanze privilegiando naturalmente
uchi. Un segno che esprime l'importanza data al significato di uchi è per esempio,
il togliersi sempre le scarpe ogni volta in cui si entra in una casa o in ambiente di
incontro. La dicotomia dentro-fuori, dentro/pulito-fuori/sporco o dentro/sicurofuori/pericoloso, è in stretto collegamento fra chi fa hikikomori che starà soltanto
uchi/dentro.
Quando il giovane inizia il ritiro, la madre lo asseconda, lo lascia in pace, gli fa
solo qualche domanda nella speranza che tutto torni normale il prima possibile; il
padre è assente, la cosa importante per quest'ultimo è il lavoro per poter
mantenere la famiglia.
Il ritiro con il passare del tempo diventa totale, anche se oscilla fra fasi di
dipendenza e di aggressività verso i fratelli, ma sopratutto verso la madre.
Ed è con la madre che instaura un rapporto quasi morboso di dipendenza e
malsano, fino ad arrivare come ho già detto, anche a casi di regressione infantile.
È quando picchia i fratelli e la madre che la famiglia esasperata prende la
13
Sagliocco G. ( a cura di), Hikikomori e Adolescenza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011.
decisione di chiamare il medico. In alcuni casi limite, con ragazzi in hikikomori di
età superiore, il resto della famiglia è addirittura costretto a cambiare casa e le
minacce di morte da parte del figlio, sopratutto verso la madre, non sono rare.
In generale il rapporto madre e figlio si fortifica attraverso amae. Letteralmente
significa “dolcezza”, ma sottointende “una dolce dipendenza”. In tutto il mondo il
rapporto che si instaura fra la madre e il bambino appena nato è simbiotico, ma in
Giappone questo legame spesso non finisce mai. Un esempio lampante può essere
che in Giappone i bambini fino a circa dieci anni dormono nel letto con i genitori,
hanno la loro camera ma la usano solo per studiare. In occidente invece si fa di
tutto per abituare il prima possibile il bambino a dormire nella propria stanza. Il
comportamento della madre verso il bambino è di completa dedizione e il
bambino nella crescita acquisterà la consapevolezza della bontà della madre e di
quanto si sia sacrificata per lui, e non potrà sentire altro che un sentimento di
obbligo che verrà poi trasferito in tutte le relazioni sociali e durerà per tutta la vita.
Si pensi che in Giappone il fatto che un giovane rimanga a vivere in famiglia
anche fino a trenta-trentacinque anni non è un valore negativo, ma bensì un
sentimento di devozione filiale.
Secondo Carla Ricci questa relazione fondata su amae, anche se in Giappone è
considerata una prassi, prende altri risvolti: la madre fa troppo la madre e non fa
per niente la moglie.
La madre giapponese del ventunesimo secolo, sembra però incontrare alcune
difficoltà dovute all'assenza del padre, alla frequenza del figlio ad un regime
scolastico molto rigido e ad un forte sentimento di solitudine. Come conseguenza
la madre tende a iperproteggere il figlio, molto spesso idealizzato e sul quale ha
proiettato un certo grado di aspettative.
3.5.
La violenza simbolica del padre che non c'è
Il mondo maschile in Giappone è un mondo a parte. La crisi economica, con la
conseguente paura di perdere il posto di lavoro e la competitività, hanno creato
una condizione del mondo maschile al di fuori della norma: le amicizie si limitano
a quelle fatte in ambito lavorativo così come gli argomenti di cui parlare, nessuna
o quasi attività extra-lavorativa perché la stanchezza dopo il lavoro è tale da non
permetterla. In famiglia tutti i compiti sono effettuati dalla moglie, addirittura il
marito trasferisce integralmente il suo stipendio alla moglie la quale avrà il
compito di amministrare tutte le spese relative alla casa e alla famiglia. Di
conseguenza il marito non sa niente riguardo alla famiglia e quando è in casa
diventa quasi un ingombro. C'è un modo per chiamare i mariti che nel fine
settimana stanno a poltrire per casa: “una grande immondizia”.
Il numero dei divorzi in Giappone negli ultimi 25 anni è raddoppiato, una delle
cause è anche la sindrome chiamata RHS “Retired Husband Sindrome”: vengono
colpite più del 60% delle mogli di mariti andati in pensione; la moglie abituata a
vivere praticamente da sola per la maggior parte del tempo non riesce più a
condividere la quotidianità con il marito, con conseguenti stati depressivi e in
alcuni casi anche alcuni suicidi. Generalmente sembra che in apparenza la
famiglia funzioni bene, nessuno litiga, tutti educati, ma l'intimità della coppia è in
frantumi.
La società giapponese anche se sostiene la completa dedizione al lavoro del padre,
è consapevole che la mancanza della figura paterna sia una delle cause che
portano il ragazzo in hikikomori.
Ma anche se c'è una mancanza fisica del padre, dall'altra parte c'è una eccessiva
presenza della figura patriarcale che egli costituisce. La presenza della figura
patriarcale si manifesta appunto, attraverso una “violenza simbolica 14”, una
violenza gentile, che può essere esercitata in molti modi: con la continua
narrazione dei successi del padre, sia lavorativi che scolastici, la sua completa
dedizione al lavoro per garantire un buon livello sociale alla famiglia ed anche la
14
La violenza simbolica è un termine coniato da Pierre Bourdieu sociologo contemporaneo di
fama internazionale. Di seguito riporto il significato che lui stesso ha riportato in un'intervista
(12/07/1993): <<La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una
forma di violenza che possiamo chiamare "dolce" e quasi invisibile. E' una violenza che svolge
un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni umane. Per esempio, nelle
rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un' azione di elevazione dove il
mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al
sapere, di cui il mittente è il portatore. E' una visione non falsa, ma che maschera l' aspetto di
violenza. La relazione pedagogica, per quanto possa essere attenta alle attese del ricevente,
implica un'imposizione arbitraria di un arbitrio culturale>>.
madre contribuisce a tutto questo, con il tacito intento che il padre diventi
l'esempio da seguire per il figlio. L'assenza fisica del padre fa anche in modo che
fra la madre e il figlio ci sia una forma di attaccamento tale da poter sviluppare un
esagerato narcisismo del figlio.
L'uomo giapponese è un uomo “malato di virilità” 15, per virilità in Giappone si
intende l'insieme di quei valori che definiscono “l'essere uomo”, un uomo
concentrato sul lavoro, calmo e forte, che non lascia trapelare nessuna emozione,
che parla poco ma che le sue parole, anche se poche, sono sentenze e dalle quali la
famiglia dipende sia economicamente che psicologicamente. Il “malato di virilità”
chiude tutti i rapporti intimi con la sua famiglia, con la scusa del lavoro pressante
e si sottrae al dialogo anche con se stesso. Si ritrova così incapace di esprimere le
sue emozioni. Secondo Saito Satoru, famoso psichiatra giapponese che si interessa
di malattie da stress, questa malattia di virilità si trasmette al figlio attraverso la
violenza simbolica, che lo porterà ad acquisire i valori del padre. È probabile
pensare che i ragazzi hikikomori, proprio come i padri, si ritirino in un mondo
senza emozioni, ma con una differenza sostanziale: il loro ritiro è una forma di
critica al sistema sociale, nel quale forse cercano di ritrovare quel mondo perduto
di emozioni.
3.6.
La pazienza che cura
La maggior parte dei genitori che hanno un figlio in hikikomori cercano di
nasconderlo.
Questo significa affrontare il problema e cercare di risolverlo da soli. Questo porta
ad una chiusura in se stessi, è frustrante e crea uno stato emotivo di grande
tensione, peggiorando anche la situazione in cui si trova il ragazzo e sicuramente
posticipando il possibile recupero.
Passano anche anni prima che la famiglia si rivolga al medico, a tal punto che il
ragazzo non sa più quali siano le ragioni del suo ritiro.
Interagire con il ragazzo non è mai semplice, è difficile che accetti l'aiuto di un
15
Saito Satoru, Virilità e Hikikomori, vol.18, Health Work Corporation, Tokyo 2001.
medico: la paura di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico è forte.
Molti genitori vorrebbero che il problema si risolvesse facilmente e non accettano
che il trattamento sia prolungato nel tempo. Alcuni genitori si sono affidati a
centri privati presso i quali si vendono trattamenti che producono cambiamenti
repentini, ma nella maggior parte dei casi peggiorano la situazione o peggio
ancora creano danni irreversibili come la morte. È il caso di un ragazzo di 26 anni,
ricoverato in modo coatto in una struttura privata di Nagoya: il ragazzo è stato
legato con delle catene ad una colonna in una stanza definita “la grande stanza”,
nella quale c'erano sia ragazzi che ragazze. Lo scopo era quello di farli uscire dal
ritiro facendogli condurre una vita di gruppo. Ovviamente non potevano uscire
dalla stanza perché chiusa a chiave. Il ragazzo dopo quattro giorni traumatizzato e
indebolito è morto. Questo è avvenuto il 18 aprile 2006.
Non servono luoghi specializzati in cui rinchiudere l'hikikomori, secondo Saito
Tamaki la cura è un'altra: la pazienza.
A volte servono anche dieci anni per un recupero da hikikomori.
Il ricovero dovrebbe avvenire solo in casi particolarmente gravi e mai in ospedale
psichiatrico, perché essendo un luogo estraneo crea al ragazzo un senso ancor più
grande di isolamento.
Oltre al terapeuta riveste un ruolo importante nel recupero anche la famiglia. Non
è un compito facile, è faticoso e sopportare la violenza, le parole di accusa, di odio
da parte del figlio non è semplice. Importante è trasmettere al figlio un senso si
sicurezza, difficilmente dato dal padre, il quale ritiene che quello del figlio sia
solo un comportamento di pigrizia. Ma l'approvazione del padre è sostanziale
anche solo per allentare il legame fra il ragazzo e la madre.
Iniziare a parlare con il ragazzo da dietro una porta può essere un punto di
partenza. Passerà molto tempo prima di ricevere una risposta, ma la tenacia è
fondamentale. Frasi come “vado a fare la spesa, ti serve qualcosa?” sono utili, con
il tempo risponderà. Importante però è non violare i suoi spazi, anche se la camera
è sporca e in disordine.
Tutto questo non è facile se il ragazzo in hikikomori è violento verso i familiari,
come ho già detto soprattutto verso la madre. Non è semplice aggressività perché
prima o poi finirebbe, ma una violenza piena di tristezza, come se volesse punire
la famiglia ritenendola responsabile del suo ritiro. In alcuni casi le famiglie
decidono, insieme al terapeuta, di rifugiarsi in un altra casa quando la situazione è
insopportabile. Secondo Saito Tamaki16, con il rifugio si è trovato un modo per
rigettare la violenza, per non sublimarla e non tollerarla e la cosa ha funzionato:
questo è il caso di una madre che per dieci anni ha subito violenze da parte del
figlio maggiore che pratica hikikomori, dopo il suo rifugio e cinque mesi di
terapia, non ha più esercitato violenza su di lei.
Lo stato di hikikomori cambia la percezione delle cose: anche l'amore e il sesso
sono considerati emozioni troppo forti e spaventano, cosa che in una normale
adolescenza creano interesse.
La gentilezza è la cura migliore, ed è quello che il ragazzo si aspetta, anche se non
risolve i problemi.
Una novità in Giappone sono le “rental onesan”, o meglio tradotte in “sorelle
maggiori in affitto”. Sono delle ragazze senza una specifica preparazione
professionale, ma che usano come strumento di lavoro la loro empatia. La “sorella
maggiore in affitto” rivolge le sue cure soltanto a ragazzi in hikikomori da meno
di un anno. Solitamente è la madre del ragazzo che la contatta. Viene chiamata
sorella maggiore perché rimanendo sempre nel tema dei ruoli sociali in Giappone,
è la sorella maggiore che si occupa dei fratelli più piccoli. Cerca di instaurare una
relazione con il ragazzo passandogli dei bigliettini sotto la porta, lasciando spesso
il suo numero di cellulare. Prima o poi il ragazzo le risponderà. Quando si instaura
una relazione, spesso riescono a portarli fuori. Questo è quello che Tamaki Saito
in una intervista pensa riguardo alle rental onesan17:
“In Giappone c'è un programma di volontariato gestito da un'associazione
chiamata New Start18. Anche dall'Italia molte persone partecipano all'iniziativa e vengono
16
Saito T., Tr. Ritiro sociale, PHP Shinsho, Tokyo 1998.
Intervista a Tamaki Saito del 12/04/2008: Appendice 1
18 La New Start è un'organizzazione no profit la cui sede centrale è in Giappone, una delle sedi è
anche Roma. L'organizzazione si propone di aiutare prevalentemente i giovani con difficoltà di
comunicazione e integrazione nella società. In genere sono i genitori a contattare la New Start e a
far partecipare il figlio alle attività del programma, pagando una quota. La New Start si propone
come un'estensione della famiglia e in questo senso prevede anche la figura della cosiddetta
"sorella (o fratello) in prestito", che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un
17
in Giappone da volontari a sostegno dei ragazzi hikikomori. Lei, Dottor Saito, cosa pensa
della New Start?
SAITO: Penso che la New Start sia ammirevole nella fase iniziale di sostegno. Tuttavia
manca di medici e consulenti specializzati e questo è il punto debole. Conosci le "rental
onesan"? Vanno a trovare lo hikikomori in casa e lo aiutano...
Ah, sì. Ne ho sentito parlare. Sono le "sorelle in prestito", chiamate dai genitori degli
hikikomori per aiutarli a superare l'isolamento.
SAITO: Sì. L'idea è una buona idea, ma mi pare che non abbiano alcuna formazione
specifica. Hanno un programma dai ritmi sostenuti, forse poco adeguato. Questo mi lascia
in dubbio, oltre al fatto che molti pazienti credono che vivere insieme o lavorare insieme
sia di per sé un processo terapeutico. Loro non si occupano dei ragazzi che rifiutano di
partecipare al programma. In questo senso vedo dei problemi. Comunque nel complesso
penso sia ammirevole quello che fanno.”
3.7.
Un fenomeno transculturale?
Per quanto le caratteristiche del fenomeno hikikomori rappresentino una risposta
fortemente correlabile alle influenze della società e della cultura nipponica, va
detto che il fenomeno del social withdrawal potrebbe essere riscontrato in altre
culture e realtà sociali. In letteratura vi è ampio dibattito sulla classificazione di
taluni atteggiamenti e comportamenti imputabili al ritiro sociale che potrebbero
essere etichettati come hikikomori.
Una dettagliata prospettiva interculturale del fenomeno hikikomori risulta oggi
ostacolata dal fatto che i comportamenti tipici di questi soggetti possono essere
ascritti ad una molteplicità di etichette mediche o sociali e quindi, ciò che in una
nazione può essere ritenuto un disturbo psicologico, in un'altra invece può essere
analizzato come fenomeno meramente sociologico. L'assenza di una definizione
universale del fenomeno ne impedisce quindi uno studio transculturale dei casi
effettivamente rispondenti alla condotta individuata.
L'assenza di una visione transculturale non impedisce di riconoscere l'esistenza
del fenomeno anche in Italia: in un articolo del 11 febbraio 2009 a cura di
Alessandra Mangiarotti19, si evidenzia come
all'associazione milanese
contatto con lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma.
19
Mangiarotti A. (11/02/2009), Chiusi in una stanza: gli hikikomori d‟Italia, Corriere della Sera,
”Minotauro”, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi hikikomori. Lo psichiatra
Pietropolli Charmet e lo psicoterapeuta Antonio Piotti spiegano:
«Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni».
Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani
hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni
'60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese,
ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti:
«Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è
troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All'origine c'è
poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da
regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di
gruppo».
A ciò si aggiunga un altro articolo20 della stessa giornalista nel quale lo
psicoterapeuta dell'età evolutiva Fulvio Scaparro, discutendo dell'incremento del
fenomeno del rifiuto scolastico, dichiara che il fenomeno hikikomori non è solo
giapponese, ma esiste anche in Italia e si caratterizza per un isolamento parziale:
esso “coincide con gli orari scolastici e la vita ricomincia quando la scuola
chiude”. Anche Carla Ricci21, conferma la presenza del fenomeno in Italia,
evidenziando come
<<anche l'Italia ha i suoi Hikikomori e […] questi sono in costante aumento. Le
diverse culture, peculiarità caratteriali e sistemi sociali ne plasmano differenti
forme, ma il contenuto è simile. Hikikomori quindi non è esclusività del
Giappone, ma è un frutto generato da una terra diventata sterile, da una società in
decadenza che avvilisce la speranza, espressione invece innata in ogni
individuo>>.
20
21
http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/11/Chiusi_una_stanza_gli_hikikomori_co_8_09
0211034.shtml.
Mangiarotti A. (11/02/2009), <<Vittime di fallimenti a scuola>>, Corriere della Sera,
http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/11/Vittime_fallimenti_scuola__co_8_09021103
6.shtml
Ricci C., Hikikomori. Narrazioni da una porta chiusa, Aracne, Roma 2009.
Dall'intevista rilasciata da Saito Tamaki a Claudia Pierdominici, lo psichiatra
giapponese afferma:
<<Io penso che il fenomeno hikikomori sia equivalente al fenomeno dei
giovani senza fissa dimora in Europa e in America. In entrambi i casi si
emarginano dalla società, con la differenza che in Giappone lo fanno restando
nelle loro case. Per questo non penso che il fenomeno possa estendersi ad altri
paesi. Ho ricevuto molte e-mail dall'Italia, in particolare dall'Italia e non da altri
paesi. Non so perché ma dall'Italia mi arrivano tante domande. Probabilmente dal
prossimo anno saremo in contatto con l'Università di Palermo, lì in molti
collaborano e studiano questo fenomeno. In Italia ci sono molte persone
interessate allo hikikomori. Un altro paese è l'Inghilterra. Sono stato intervistato
dalla BBC circa cinque anni fa e grazie a loro molte persone nel mondo sono
venute a conoscenza del fenomeno. Non si estenderà altrove, ma non c'è solo in
Giappone; anche in Corea gli hikikomori sono tanti. Oggi i paesi colpiti da questo
fenomeno sono il Giappone e la Corea, che sono aree di cultura confuciana, le cui
società hanno assimilato il Confucianesimo e in particolare il concetto di pietà
filiale. Sono culture in cui la pietà filiale è un valore molto enfatizzato. I genitori
accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto
dell'alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i
figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui
li chiamiamo "parasite singles", mentre in Italia si chiamano "mammoni"!>>.
Anche presso l'Unità Operativa di Pscicopalogia degli adolescenti (U.O.P.A.),
presente nel distretto Sanitario di Marano in provincia di Napoli, sono stati presi
in carico adolescenti con problematiche molto simili agli hikikomori giapponesi.
Come spiegano Maria Grazia Ciufferi diregente psicologo del U.O.P.A. DI
Marano e Francesca Mancini psicologa e psicoterapeuta, nel libro a cura di Silvia
Sagliocco22, anche presso il servizio dove lavorano si sono rivolti genitori i cui
figli manifestavano comportamenti di chiusura. Le ragazze con questo tipo di
22
Sagliocco G. ( a cura di), Hikikomori e Adolescenza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011.
problema hanno accettato subito di fissare un appuntamento con lo psicologo e
l'età di insorgenza è risultata inferiore (11-12 anni) rispetto ai maschi (14-15 anni).
Anche in questo caso gli adolescenti pervenuti al servizio sono prevalentemente
maschi. Il comportamento di chiusura è iniziato anche in questo caso con una
fobia scolare e una successiva resistenza a frequentare gli amici e gradualmente
l'adolescente diventa schiavo della propria vita sedentaria, del computer e della
televisione, fino ad arrivare a uscire dalla propria stanza sono per consumare i
pasti. Con il tempo può arrivare a vivere in un mondo virtuale on-line: in alcuni
casi non vogliono più farsi chiamare con il proprio nome ma con il loro
Nickname. Anche in questo caso, come in Giappone, la famiglia chiede aiuto
quando il figlio non ha più relazioni sociali e non frequenta più la scuola da mesi.
Il rapporto con la madre è intenso e spesso la madre protegge il figlio in modo
incondizionato. Un' altro aspetto in comune con la famiglia giapponese è la
mancanza della figura paterna.
Come primo strumento per interagire ritengono utile l'uso del telefono, in alcuni
casi della mail, così da non obbligare il ragazzo a lasciare la propria stanza. Come
in Giappone si risconta aggressività nei confronti dei familiari, soprattutto della
madre.
Come si può osservare dunque, il fenomeno rimane marcatamente nipponico,
seppur siano verificati casi clinici e/o sociali di soggetti aventi caratteri
comportamentali affini di varia entità e perciò non universalmente etichettabili.
Uno spaccato interessante è inoltre fornito direttamente dal web, che ormai
pullula di spazi virtuali, in cui gli hikikomori si manifestano “vivendo” la loro vita
ed esprimendo i loro interessi e le loro opinioni. Ne sono un esempio il celebre
social network Facebook™ che ospita numerosi gruppi e pagine create da persone
che si definiscono hikikomori, altri social network ed alcuni blog e forum.
CAPITOLO 4
CASI CLINICI
4.1. Lia
Lia è arrivata al servizio territoriale all'età di 12 anni, alla fine della prima media.
Il suo caso è stato riportato in equipe a maggio 2008 dalla psicologa del servizio.
Lia è figlia unica e unica nipote in quanto entrambi i genitori sono figli unici; vive
con il padre, che lavora in proprio come traslocatore, e la madre, che è casalinga.
La famiglia vive in un piccola casa confinante con la scuola media che Lia
avrebbe dovuto frequentare.
La problematica che i genitori,
in accordo con gli insegnati, portarono alla
psicologa, era il rifiuto di Lia di andare a scuola: la ragazzina da ormai diversi
mesi non frequentava più la scuola dell'obbligo, o la frequentava saltuariamente
con grossissime difficoltà. Fin dalle prime settimane di scuola iniziò a manifestare
una grossa difficoltà ad entrare nella propria classe, senza spiegare quali potessero
essere le motivazioni del suo rifiuto. Questo suo comportamento la costringeva a
passare le ore di scuola in corridoio; quando veniva forzata ad entrare in classe,
aveva crisi di pianto, palpitazioni e i tentativi degli insegnanti difficilmente
riuscivano a calmarla.
I professori come unica strategia adottarono il sistema di farle passare del tempo
nella stanza adibita per il sostegno, per evitare che stazionasse nel corridoio. Con
il passare del tempo la paura di entrare in classe si trasformò in paura di entrare a
scuola, fino ad un vero e proprio ritiro domiciliare.
Immediatamente la scuola attivò tutti i percorsi necessari affinchè i genitori, nel
prendere coscienza del problema, potessero rivolgersi ai servizi territoriali di
infanzia e adolescenza. Nel frattempo alcune professoresse, si offrirono
volontariamente per andare a prendere Lia a casa, vista la stretta vicinanza con la
scuola. Questi tentativi non portarono alcun esito, Lia si faceva trovare in pigiama
e chiusa in camera. Anche i pochi tentativi più coercitivi nel cercare di farla uscire
dalla propria stanza, portarono il solo esito di peggiorare la situazione, come il
manifestarsi di episodi di resistenza fisica da parte della ragazza.
Dal racconto fatto dai genitori emergeva che Lia è sempre stata una bambina
serena e contenta di andare a scuola, malgrado alcune difficoltà di apprendimento
e di un brutto rapporto con una delle maestre curricolari della scuola elementare,
che a loro dire aveva modi piuttosto severi.
Dopo la discussione in equipe multidisciplinare, fu ritenuto importante attuare un
intervento riabilitativo di tipo educativo, che fu accettato e condiviso anche dai
genitori nel colloquio di fine maggio 2008, in presenza della psicologa e
dell'educatore professionale (da ora in poi E.P.).
Dopodiché venne fissato il primo incontro con Lia che venne accompagnata dalla
madre e nel quale le fu presentato l'E.P..
L'obiettivo implicito dell'intervento educativo fu mirato al recupero di autostima e
motivazione per il rientro a scuola; l'obiettivo esplicitato con Lia fu quello di fare
esperienze nuove e significative insieme all'E.P., tutto questo in accordo con i
genitori.
I primi incontri con l'E.P. si svolsero presso il domicilio con l'obiettivo di
conoscere la ragazzina e farsi conoscere, in modo da creare i presupposti per una
relazione di fiducia. Le attività proposte erano di tipo ludico e potenzialmente
divertenti; Lia si coinvolgeva proponendo lei stessa dei giochi da tavolo da fare
insieme all'E.P..
Dopo circa un mese e mezzo l'E.P. propose alla ragazza di andare presso
l'ambulatorio. Lia accettò e vi si recò sempre accompagnata dalla madre, ogni
tanto usciva dalla stanza per verificare che fosse sempre fuori ad aspettarla e a
volte, a fine incontro prima di salutare l'E.P., la invitava ad entrare per farle vedere
ed informarla su cosa aveva fatto durante l'incontro.
Questo atteggiamento si è protratto per il periodo in cui gli incontri si sono svolti
presso l'ambulatorio, circa 4 mesi.
In tutti questi mesi l'E.P. notò grosse oscillazioni nel modo di comportarsi e di
relazionarsi di Lia nei suoi confronti e rispetto alle proposte che via via le faceva,
pur mantenendo costante e senza forzature la presenza agli incontri.
Lia riuscì a staccarsi dalla madre quando cominciarono a programmare incontri
esterni alla struttura e che la ragazzina accettò.
Con l'arrivo di settembre e l'imminente riapertura delle scuole, l'E.P. cominciò a
parlare con lei delle modalità per riprendere contatti con i professori e i nuovi
compagni, visto che la sua totale assenza dell'anno precedente l'aveva costretta a
ripetere la prima media. Lia alternava momenti di ascolto e interesse a momenti di
totale rifiuto verbalizzando: “che me ne frega a me, tanto io farò la casalinga”. In
tutto questo periodo ha continuato a mantenere anche lezioni private pomeridiane
di recupero scolastico per tre volte la settimana.
L'intervento è proseguito con proposte ludiche che potessero essere per lei
piacevoli e l'aiutassero a riattivare un area di interesse nel fare le cose. Lia in
questo aderì partecipando attivamente, alternando comunque momenti in cui
aveva bisogno di essere molto stimolata.
Il primo giorno di scuola in prima media come ripetente, Lia non si presentò,
come era presumibile che accadesse. Nello stesso pomeriggio aveva un incontro
con l' E.P. durante il quale sarebbero dovute uscire. L'E.P. la invitò invece ad
affrontare subito l'argomento. Lia disse più volte che non le interessava andare a
scuola e che non le piaceva, mantenendo però un atteggiamento ambiguo. Alla
fine dell'incontro l' E.P. le disse che la mattina seguente sarebbe andata a prenderla
a casa per poi accompagnarla a scuola.
La mattina seguente Lia si fece trovare chiusa a chiave in camera. La madre cercò
di farla uscire con la forza, ma non ci riuscì. L'E.P. cercò di tranquillizzarla
spiegandole che non l'avrebbe mai portata con la forza a scuola. Lia uscì dalla
camera si gettò sul divano, parlando a monosillabi e riuscì a rilassarsi solo quando
l'E.P. spostò la sua attenzione su una delle attività di grosso interesse per la
ragazza, le parlò della possibilità di andare al canile per fare un po' di volontariato,
concordando con lei giorni e orari.
Lia continuò per molto tempo a chiudersi in camera tutte le mattine per la paura
che qualcuno la portasse a scuola. In questo periodo non aveva nessuna relazione
con i coetanei, ad eccezione del gruppo pomeridiano di pallavolo, nel quale però
stava ben attenta che nessuno scoprisse che non frequentava la scuola e se c'era
qualcuno del gruppo classe dell'anno precedente si assicurava che nessuno ne
avrebbe parlato.
Considerando che a Lia piaceva molto l'attività sportiva, l'E.P. le propose di
andare a conoscere i compagni di scuola nell'ora di ginnastica, concordando il
tutto con le insegnanti, Lia aderì anche a questa proposta. Così lentamente riuscì a
tornare a scuola solo per le ore concordate.
Dopo la pausa di 15 giorni delle vacanze di Natale, Lia nuovamente si chiuse
presso il proprio domicilio, come se tutto il percorso fatto fino ad allora non ci
fosse mai stato.
Agli inizi di Marzo viene fatto un nuovo tentativo di rientro a scuola, concordando
con la ragazza e con la professoressa di riferimento, giorni e orari in base alle
materie preferite da Lia. Nonostante questi accordi, più volte discussi, la ragazza
non riuscì a tornare all'istituto. Ciò che continuava a portare avanti erano tutti gli
altri impegni ed interessi: due volte la settimana l'incontro con l'E.P., due volte la
settimana agli allenamenti di pallavolo con tanto di partita domenicale, tre volte la
settimana con l'insegnante privato per le ripetizioni.
I tentativi fatti fino a quel momento non portarono nessun progresso nell'ottica
della frequenza scolastica, mentre ci furono notevoli cambiamenti nella relazione,
nelle capacità comunicative, nella consapevolezza di sé e delle proprie difficoltà.
Cominciò a verbalizzare le sue paure rispetto alla scuola: paura di non essere
accettata, paura di sbagliare e di mettersi a piangere davanti alla classe. Riuscì ad
esprimere anche sentimenti di vergogna per non riuscire ad andare a scuola.
Venne ritirata da scuola e riuscì a passare in seconda media con l'esame da
privatista, accompagnata sempre dalla madre. Durante i giorni di esame tenne
aggiornata l'E.P. sui risultati.
Superati gli esami, in alcuni incontri individuali Lia parlò delle problematiche
relazioni rispetto i genitori. Con loro non riusciva a scherzare o parlare
semplicemente, i suoi rapporti erano migliori con altri genitori o con i propri
nonni. Lia si lamentava del fatto che i suoi genitori facessero sempre le stesse
cose; parlò del padre come una persona senza interessi, che passava tutto il suo
tempo sul divano, lo descrisse come un “buco nero”; le faceva promesse che poi
non manteneva, come quella di portarla in giro in bicicletta. La madre la
descriveva come una donna poco attenta alla cura personale, prettamente vestita
in tuta, non femminile e con poca attenzione per la casa.
L'E.P. programma un incontro di verifica con i genitori e la psicologa, è Lia stessa
che chiede all'E.P. di parlare con loro, con la speranza che si attivino con proposte
interessanti. Durante l'incontro si discute delle grosse difficoltà di Lia
nell'affrontare il confronto con la scuola e i suoi compagni, e viene richiesta
maggior collaborazione da parte della famiglia che ha una linea educativa
piuttosto permissiva e in parte collusiva, viene anche suggerito alla coppia di
promuovere attività piacevoli da fare insieme con la figlia, come gite domenicali.
Entrambi i genitori sono piuttosto poveri culturalmente, non hanno interessi, non
hanno relazioni sociali significative ed esprimono verbalmente il loro scarso
interesse per la carriera scolastica della figlia in quanto anche loro non hanno
proseguito gli studi dopo l'obbligo scolastico.
Da qui emerse negli operatori la consapevolezza di ripensare al progetto
riabilitativo educativo in quanto la famiglia non poteva essere una risorsa, e che,
malgrado rimanesse importante mantenere l'obiettivo del rientro scolastico,
diventava
prioritario
per
Lia,
promuovere
l'autostima,
l'autonomia,
la
consapevolezza delle proprie risorse e la conoscenza di nuove possibilità.
Per promuovere questi obbiettivi viene proposto alla ragazza l'inserimento nel
gruppo di adolescenti in carico al servizio, con problematiche simili a quelle di
Lia, la quale accettò. Il confronto con il gruppo dei pari le ha permesso di
diventare più adeguata nelle relazioni con i coetanei tanto da permettersi delle
uscite domenicali con le compagne della pallavolo.
Come primo obbiettivo, viene deciso, dall'E.P. insieme ad Ilaria, di cercare di
raggiungere una discreta autonomia dalla madre per lo spostamento a piedi di
brevi tragitti. Un primo passo fu quello di raggiungere l'ambulatorio a piedi da
sola, che dista circa 600 metri dalla sua casa. Da questo emerse la sua paura
nell'attraversare la strada. Quando dopo un paio di mesi riuscirà a farlo e
dichiarerà “sembravo un handicappata a non attraversare la strada da sola”.
Nell'ambito delle attività del gruppo adolescenti, sono previste due uscite con
pernottamento fuori casa per due o più notti. Quando a Lia venne proposta l'uscita
di tre giorni, la ragazza accettò. Durante la prima notte però vennero fuori le
difficoltà della ragazza nel passare la notte fuori casa: non riuscì a dormire, era
agitata e piangeva, sintomi riconducibili ad un attacco d'ansia. La mattina
seguente, dopo aver avuto un colloquio con l'E.P. che riuscì a tranquillizzarla,
decise comunque di farsi venire a prendere dai suoi genitori. Qualche mese dopo,
venne proposto ai ragazzi del gruppo un soggiorno estivo di una settimana e Lia si
rifiutò di aderire a tale iniziativa. L'E.P. chiamò i genitori della ragazza per un
colloquio, durante il quale ai genitori venne spiegata la situazione e l'importanza
della partecipazione al soggiorno della figlia, i quali però si limitarono a dire che
non avrebbero potuto portarla con la forza.
Da notare che solo durante le uscite la ragazza riusciva a staccarsi dalla madre.
Lia oggi ha 15 anni, è riuscita a superare l'esame di terza media da privatista, ma
insieme ai propri compagni di classe.
L'obbiettivo del reinserimento scolastico non è stato raggiunto e probabilmente
non lo sarà mai. All'inizio della prima superiore, nella riunione di equipe fu deciso
di proporre ad i genitori un blando aiuto farmacologico, con ansiolitici, per
cercare di aiutarla nell'inserimento scolastico. I genitori accettarono, ma anche con
l'assunzione dei farmaci, Lia non è mai riuscita a frequentare la scuola.
Per quanto riguarda gli obbiettivi riferiti al raggiungimento dell'autonomia e delle
competenze, risultano ad oggi adeguate all'età.
Continua a frequentare il gruppo adolescenti, riesce a dormire fuori casa senza
difficoltà nei soggiorni proposti al gruppo, ha recuperato delle buone capacità
relazionali con i coetanei e negli incontri con gli operatori di riferimento, sta
riflettendo sulle sue possibilità lavorative e formative future.
4.2.
Sofia
Quando al servizio di infanzia e adolescenza territoriale si comincia a parlare di
Sofia, aveva 15 anni e mezzo e avrebbe dovuto frequentare la seconda liceo. E' la
madre a rivolgersi al servizio per chiedere supporto per la propria figlia che ormai
da mesi si è ritirata da scuola e chiusa in casa; oltretutto cominciando ad avere
atteggiamenti aggressivi nei confronti dei familiari. I genitori raccontano che la
figlia è sempre stata molto capace sul piano del rendimento scolastico, mentre
rispetto ai rapporti con i coetanei è sempre stata una ragazza piuttosto riservata.
Dai racconti emerge anche di un periodo durante la scuola materna in cui Sofia ha
manifestato mutismo selettivo con i coetanei. All'epoca non si rivolsero al servizio
territoriale ma ad uno psicomotricista privato.
La coppia genitoriale è separata e Sofia vive con la madre e un fratello più
piccolo, vede il padre settimanalmente. Entrambi i genitori sono di cultura elevata
e apparentemente benestanti. Dai colloqui
risulta che entrambi, per motivi
diversi, soffrono di depressione tanto da dover ricorrere, saltuariamente, a cure
farmacologiche.
La Neuropsichiatra infantile (da ora NPI) del territorio invita, con lettera scritta, la
ragazza a presentarsi ad un appuntamento presso il suo ambulatorio,
appuntamento al quale Sofia non si è mai presentata. Neppure nelle successive
occasioni in cui viene invitata a presentarsi, a niente servono le insistenze dei
genitori, se non a suscitare atteggiamenti aggressivi come tirare oggetti, sbattere le
porte, o violenza fisica verso gli altri.
La ragazza passa tutta la sua giornata chiusa nella propria stanza ad ascoltare la
musica, guardare la tv, navigare su internet. Scende nella zona pranzo solo per
piccoli spuntini. Durante questo periodo di ritiro, fu possibile notare anche dei
cambiamenti riguardo all'alimentazione: assume solo una determinata selezione di
alimenti e in quantità ridotte rispetto alle sue normali abitudini.
La NPI, ritiene opportuno fare un tentativo di aggancio della ragazza con un
Educatore Professionale (da ora E.P.) con un intervento domiciliare. È da qui che
parte il progetto di intervento domiciliare concordato con NPI, E.P., Assistente
Sociale e genitori. L'obiettivo di tale percorso è di cercare di conoscere Sofia nella
sua globalità e convincerla della necessità di un aiuto terapeutico.
Sofia sin dal primo incontro con l'E.P. si fa trovare chiusa nella propria stanza. I
contatti avvengono attraverso la porta chiusa: la ragazza però risponde alle
domande dell'E.P., seppur a monosillabi.
L'E.P. farà vari tentativi per cercare una relazione con Sofia proponendole di
giocare insieme ai video giochi su pc, cercando di instaurare un dialogo su
argomenti potenzialmente interessanti, suggerendole spunti di riflessione riportati
su carta e passati sotto la porta, e altro ancora.
Tutto questo va avanti per circa due mesi, in questo periodo E.P. conosce le varie
modalità di comunicazione della ragazza che passano da una comunicazione
monosillabica (sì, no, boh) a vere e proprie risposte strutturate rispetto ad un
pensiero, anche con cambi di modulazione del tono della voce. Ma sempre e
comunque dietro la porta chiusa della sua stanza.
Dopo questo periodo, così poco proficuo ai fini dell'obbiettivo prefissato, la NPI
decide di agire in modo autorevole prima, e autoritario subito dopo. La dottoressa
fa sapere a Sofia, tramite la madre, che andrà a trovarla a casa visto che lei ha
deciso di non volere uscire per recarsi all'ambulatorio. Nell'occasione della visita
fatta comunque a porta chiusa, la NPI comunica a Sofia che lei in quanto medico,
non può lasciarla senza cure chiusa in casa e che se non decide di uscire, sarà lei a
dover intervenire. Sofia non risponde.
La mattina seguente la NPI, avendo già concordato con i genitori e con tutte le
professionalità interessate, fa pervenire un'ambulanza per proseguire ad un
ricovero obbligatorio presso una struttura ospedaliera che opera in situazioni di
questo tipo. L'E.P. è presente ma decide di non farsi vedere dalla ragazza.
Da questo momento comincia un percorso di cura, anche farmacologica, e di
progetto riabilitativo. Dopo 15 giorni di ricovero la ragazza viene rimandata a
casa, non fu possibile l'inserimento in comunità terapeutica come gli operatori si
sarebbero auspicati, per problemi amministrativi. Di conseguenza l'equipe del
territorio dovette ripensare un progetto territoriale ripartendo dal domicilio della
ragazza.
Il progetto prevedeva l'incontro con l'E.P. di riferimento due volte la settimana con
l'obiettivo di creare una relazione sufficientemente significativa e di individuare e
promuovere spazi di interesse.
Nel frattempo la NPI si occupava di individuare una struttura idonea per
permettere alla ragazza di fare un percorso riabilitativo più strutturato vista la
scarsa possibilità dei genitori di poterla aiutare: per problematiche di tempo in
quanto entrambi lavorano a tempo pieno, ma sopratutto per problematiche ti tipo
emotivo vista anche la loro storia clinica. Viene così inserita in una struttura
educativa concordando una presenza diurna, valutando la necessità per Sofia di
mantenere i contatti con la propria famiglia.
Questo progetto dura circa un anno e in questo periodo, seppur con fatica, Sofia
riacquista alcune delle capacità comunicative e relazionali, instaurando contatti
con i coetanei frequentanti la struttura, e partecipando alle attività proposte dagli
educatori. Successivamente con l'Assistente Sociale viene concordato di farle
provare una piccola esperienza lavorativa, visto il fallimento del rientro scolastico.
Questa esperienza, anche se breve, porta Sofia a intraprendere dei rapporti con il
mondo esterno, a mantenere un impegno e a confrontarsi con una quotidianità più
strutturata.
Sopraggiunta la maggiore età, la NPI e l'E.P. attivano il percorso necessario per
l'invio al servizio di salute mentale degli adulti, dove Sofia andrà poche volte per
poi non presentarsi più.
Da notizie recenti sappiamo che oggi all'età di venti anni vive e lavora in un altra
città italiana e, se pur con difficoltà, riesce a mantenere la propria vita sociale e di
relazione.
4.3.
Somministrazione del questionario Youth SelfReport 11/18
Nell'ottica di individuare la presenza di aree problematiche sul versante
internalizzante ed esternalizzante dei comportamenti che possono manifestare
adolescenti con disagio, ho sottoposto, dopo previo consenso informato dei
genitori, il questionario Youth Self-Report 11/18, al gruppo terapeutico di
adolescenti, in carico presso il servizio territoriale dove ho svolto il tirocinio
universitario. Il gruppo è formato da otto adolescenti, di cui sei hanno aderito al
questionario. I due rimanenti non hanno aderito perché non presenti il giorno della
somministrazione. Di questi sei, tre sono femmine e tre maschi e la loro età va dai
quattordici ai diciotto anni.
Il Youth Self-Report 11/18 (YSR; Achenbach e Rescorla, 2001) è un questionario
che ha lo scopo di raccogliere informazioni sia sulle competenze, sia sul
funzionamento emotivo-adattivo, e di rilevare la presenza di eventuali aree
problematiche nel versante internalizzante ed esternalizzante. Il Questionario YSR
è composto di due parti principali: la Scala delle Competenze e la Scala dei
Problemi. La Scala dei Problemi è formata da un elenco di 112 item, presentati
sotto la forma di affermazioni relative a comportamenti e vissuti emozionali,
rispetto ai quali il soggetto deve indicare se esse lo descrivano in modo accurato o
meno, se un particolare vissuto gli appartenga o meno. I 112 item sono inclusi in
otto sottoscale sindromiche: Ritiro, riguardante principalmente atteggiamenti di
isolamento e di scarsa ricerca di contatto con gli altri; Lamentele Somatiche, che
include malesseri fisici di varia natura, non sostenuti da cause mediche
riconoscibili; Ansia/Depressione, che raccoglie item relativi a stati depressivi e
stati d’ansia; Problemi Sociali, concernente essenzialmente difficoltà a rapportarsi
con gli altri; Problemi di Attenzione, composta da item collegati a problemi di
instabilità motoria e difficoltà attentive; Problemi del Pensiero, riguardante
problemi dell’ideazione; Comportamento Deviante, relativa a condotte di tipo
antisociale; ed infine, Comportamento Aggressivo, che include condotte e
atteggiamenti caratterizzati da scarso controllo dell’aggressività. Tali sottoscale si
raggruppano formando le Scale: Sindromiche Internalizzanti (Ritiro, Lamentele
Somatiche, Ansia/Depressione), Esternalizzanti (Comportamento Deviante,
Comportamento Aggressivo), Né Internalizzanti Né Esternalizzanti (Problemi
Sociali, Problemi di Attenzione, Problemi del Pensiero). In relazione a tutte le
scale e sottoscale descritte, un punteggio elevato indica difficoltà e problemi in
tale area.
I risultati del questionario hanno evidenziato una complessa lettura dei casi, in
quanto cinque su sei sembrerebbero non consapevoli del proprio disagio o
comunque neganti. Risultano in media nella normalità, anche se due di loro al
limite della clinica, mentre solo uno sembra manifestare problematiche
internalizzanti. Un dato più o meno comune a tutti e sei i casi, è il basso numero
di relazioni amicali e, in un caso in particolare l'assenza totale, facendo dunque
notare che neppure all'interno del gruppo terapeutico, sia riuscito a stringerne
alcuna.
I dati non offrono una visione precisa dei comportamenti dei sei adolescenti, ma
offrono una visione significativa di come loro si vedono, ed è su questo che si
lavora; un quadro più oggettivo delle loro difficoltà lo si potrebbe avere con altri
questionari compilati dalla famiglia e dalla scuola (se frequentata). Dire che
offrono comunque spunti di riflessione molto significativi: loro non si sentono in
difficoltà, o almeno ci dicono che non sono in contatto con il loro disagio.
Ritengo comunque il Youth Self-Report un valido strumento, che può essere
impiegato nell'analisi delle aree funzionali e/o disfunzionali dell’adolescente, per
tentare di chiarire quali siano i fenomeni influenzati dalla sola pressione dei
compiti evolutivi propri dell’adolescenza e quali quelli dovuti a fattori esterni
traumatici. In tal modo si agevola il riconoscimento di fattori di vulnerabilità
individuale e di variabili di rischio o di protezione ed il loro legame con
l’ambiente di vita del giovane.
CAPITOLO 5
L'EDUCATORE PROFESSIONALE E IL PROGETTO
EDUCATIVO NEGLI ADOLESCENTI
In questo capitolo cercherò di definire quali sono le competenze che l'Educatore
Professionale deve mettere in atto nell'elaborazione di un progetto riabilitativo e
quali strategie ed interventi risultano fondamentali nell'ambito della riabilitazione
educativa di soggetti adolescenti.
5.1.
Le competenze dell'Educatore Professionale,
l'Équipe Multidisciplinare e il Lavoro di Rete.
L’Educatore Professionale è un operatore sanitario che si occupa di specifici
progetti educativi e riabilitativi, volti all’inserimento o al reinserimento
psicosociale di persone adulte e minori con disabilità fisica e/o mentale e di
soggetti con problematiche di dipendenza.
Egli programma, gestisce e verifica, all’interno dei servizi sociosanitari e delle
strutture riabilitative, interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle
potenzialità dei soggetti in difficoltà, coinvolgendoli direttamente e dove
possibile, insieme alle loro famiglie.
La nascita dell’educatore professionale porta a riconoscerne, nella stessa
definizione, il dato di professionalità propria di chi è chiamato a gestire un sapere
educativo esperto e consapevole della responsabilità richiesta al compito. La
professionalità è inscritta nella capacità di interrogarsi sulle “questioni educative”
che egli stesso, e le organizzazioni nelle quali opera, è chiamato ad affrontare
quando agisce nell’accoglienza, nella prevenzione, nell’ascolto, nella consulenza,
nella presa in carico, nella riabilitazione e nell’accompagnamento al reinserimento
dei diversi soggetti in condizioni di disagio. Lo impegna, dunque, a farsi carico
dell’intenzionalità
formativa
e
trasformativa
di
ogni
intervento,
della
progettazione e della gestione di progetti educativi in strutture sociosanitarieriabilitative e socio-educative.
Sergio Tramma23 definisce l'educatore professionale come un agente di
cambiamento: l’Educatore trasforma richieste di inserimento (nella società) in
possibilità. Quindi il proprio compito generale è quello di promuovere e
sviluppare potenzialità (individuali e/o collettive).
Le azioni nei confronti delle potenzialità si collocano su diversi piani:
•
sul piano promozionale: attraverso azioni educative finalizzate a rendere
abili e autonomi i soggetti.
•
sul piano preventivo: far sì che le potenzialità riducano il rischio di non
trasformarsi in atti.
•
sul piano riabilitativo: riconsegnare al soggetto il processo di
trasformazione delle proprie potenzialità in atti reali e concreti.
Il ruolo dell'Educatore Professionale oggi non può prescindere dal riflettere anche
sui principi etici che caratterizzano un intervento educativo, e dall'analizzare gli
aspetti deontologici che caratterizzano la propria professione. Questo per
rispondere meglio alle domande relative al “perché fare”, al fine di delineare
meglio i limiti e i confini, al di là dei quali un'azione educativa diviene eticamente
incongrua da un punto di vista professionale. Il codice deontologico24
dell'Educatore Professionale individua le responsabilità che egli stesso ha nei
confronti della propria professione, dell'utente, delle famiglie, dell'équipe, del
datore di lavoro e della società.
Quello della professionalità è un principio etico primario dal quale sottendono
tutti gli altri principi. Nell’assunzione del ruolo di Educatore Professionale si
presuppone il possesso di un sapere teorico e pratico, l’acquisizione di metodi e
tecniche specifiche riconosciuti dalle leggi vigenti. Questo principio presuppone
quindi una scelta non formale e non casuale a svolgere il lavoro educativo, il quale
dovrà avvenire solo dentro progetti educativi realizzati con una équipe
multidisciplinare, con la garanzia e la disponibilità a confrontarsi costantemente
23
24
Tramma S., L'educatore imperfetto, Carocci, Roma 2003.
www.anep.it
per verificare il proprio operato. Saprà anche considerare, nella relazione
educativa, la distanza adeguata in ogni suo intervento, mantenendo un equilibrio
tra il coinvolgimento professionale e il distacco personale, utile alla preservazione
della relazione stessa e alla propria salute mentale.
Per quanto riguarda il rapporto con l'adolescente, l'Educatore dovrà avvicinarsi al
soggetto accettandolo, comprendendolo, proponendo e favorendo quei processi
educativi al cambiamento che permetteranno una crescita personale positiva,
un’integrazione sociale il più vasta possibile, un benessere e qualità della vita a
cui tutti gli esseri umani hanno diritto. Il ragazzo che necessita dell’intervento
educativo dovrà essere soggetto attivo in tutto il percorso, ed essere preso in
carico nella sua globalità. L'Educatore nella presa in carico dell’adolescente,
dovrà tener presente che la famiglia è il primo gruppo sociale; e di conseguenza
l’intervento educativo opererà per il mantenimento, il sostegno, il potenziamento
dei legami affettivi famigliari biologici o alternativi, laddove questo è possibile.
L'educatore professionale nello svolgimento del proprio operato, dovrà orientare
l'intervento non alla cura del sintomo, ma alla promozione delle risorse dell'utente
e delle sue possibilità, promuovendo interessi, attività e riflessioni per aiutare
quest'ultimo in uno sviluppo della personalità e delle potenzialità il più possibile
consapevole al fine ultimo di aiutarlo a gestire il sintomo.
La formulazione di progetti, la scelta degli obiettivi, la loro verifica intermedia e
finale, non potrà non avvalersi del confronto costante con le altre figure
professionali all'interno dell'èquipe multidisciplinare, quando direttamente o
indirettamente coinvolti nel processo educativo in atto.
Nei servizio di salute mentale per l'infanzia e l'adolescenza, l'èquipe
multidisciplinare è solitamente composta da: neuropsichiatra infantile, psicologo
clinico, educatore professionale e assistente sociale; e a seconda del tipo di
intervento richiesto, potranno essere incluse altre figure sanitarie come quelle del
logopedista, infermiere e psicomotricista. Risulta fondamentale l'integrazione fra
le diverse figure professionali per rispondere meglio alle richieste dell'adolescente
e per poter attuare tutti gli interventi che il progetto riabilitativo richiede nella sua
complessità.
L’èquipe svolgerà anche la funzione di controllo e sostegno sui suoi membri,
condividendone le responsabilità e sostenendoli nei momenti di vicinanza
confusiva con l’utente.
L'educatore Professionale dovrebbe poter essere un operatore della globalità, un
operatore che trova una sua definizione nella gestione continua di energie
finalizzate al cambiamento, in modo che possa guidare l'utente attraverso un
percorso che lo conduca dall'inespresso all'esprimibile, dalla dipendenza alla
progressiva autonomia, dalla solitudine alla vita relazionale, dall'aridità alla
coscienza dei sentimenti; tutto ciò nel rispetto dell'individualità, dei ritmi e dei
modi dell'adolescente. Dovrebbe svolgere una funzione intermedia tra il soggetto
e l'ambiente circostante, creando un codice comune e condiviso di comunicazione
e tanto meglio può riuscire in questo compito quanto più conosce le dinamiche dei
sistemi relazionali, riuscendo a rendere maggiormente intellegibile la complessità
dei rapporti. È l'operatore della globalità, che prende in carico il paziente in ogni
suo aspetto, che lavora al suo fianco nella vita quotidiana e media i cambiamenti
attraverso la propria disponibilità, partecipazione e perseveranza critica.
Prerequisiti importanti nella determinazione della professionalità dell'educatore
professionale possono essere:
1. Presenza di energie vitali mobilizzabili.
2. Capacità di osservazione.
3. Creatività.
4. Elasticità e Plasticità.
5. Fermezza e Determinazione.
6. Capacità Empatiche.
7. Capacità di analisi dei vissuti propri e altrui.
8. Umiltà e Consapevolezza.
9. Volontà epistemofilica.
Credo opportuno approfondire alcuni di questi concetti.
Il termine “energie vitali mobilizzabili”, comprende tutti quegli aspetti che,
progressivamente si sono depositati nel bagaglio antropologico. In altre parole è il
patrimonio composto da emozioni, affetti, intelligenza, sensazioni, che ogni
individuo esprime e condivide nelle relazioni con gli altri.
La capacità di osservare appare in parte come una capacità innata, ma in parte essa
è suscettibile di notevole miglioramento attraverso continue esperienze.
L'Educatore Professionale si pone nei confronti del paziente adolescente come
colui che, attraverso una partecipazione obbiettiva, osserva ciò che nel paziente
muta in ragione dei diversi stati emotivi e ciò che appare immobile o bloccato, per
definire una visione del soggetto il più possibile completa e dettagliata. Una
buona osservazione è la base per un buon progetto riabilitativo educativo.
L'osservazione consente di cogliere gli stati d'animo dell'adolescente, la sua
modalità espressiva, per valutarne le competenze, per evidenziarne le aree di
potenziale sviluppo e per poter formulare, portando il proprio contributo nell'
équipe multidisciplinare, un piano riabilitativo mirato e realizzabile.
Con volontà epistemofilica si intende invece la spinta che ogni individuo ha in sé
ad ampliare il proprio sistema di conoscenze. È opportuno che l'educatore
professionale tenga viva in sé questa pulsione, abbia cioè la volontà di porsi
sempre domande e cercare risposte, in un percorso continuo di approfondimento e
aggiornamento culturale.
Per poter trovare soluzioni efficaci e durature ai problemi socio-educativi che gli
si presentano, l’educatore deve saper cogliere e vedere, nella concretezza dei
problemi, la dimensione della possibile risposta o della possibile azione da offrire
(criterio della fattibilità del progetto). L’educatore deve saper agire in modo
adeguato nella situazione personale, nel sistema comunitario e nei suoi processi di
socialità, nella gestione delle relazioni interpersonali o delle possibili reti sociali.
Deve rispondere alle problematiche che gli si presentano recuperando e
rinforzando le risorse presenti nel nucleo familiare ed intorno ad esso,
collaborando con la scuola anch'essa agenzia educativa e investendo sulle risorse
presenti nel contesto territoriale (associazioni, centri di aggregazione e
animazione, polisportive, ludoteche, ecc.). La connotazione di sostegno e di
recupero si combina quindi con rilevanti valenze preventive, che derivano dalla
promozione di capacità e di autonomie personali e familiari, dall’attivazione di
risorse individuali e collettive, dalla creazione e dallo sviluppo di contesti e
ambienti educativi. Il lavoro di rete deve essere allora inteso come collaborazione
e scambio tra le diverse parti coinvolte nel progetto educativo, tali da permettere
ai diversi attori il mantenimento di un linguaggio comune per il raggiungimento
dei medesimi obbiettivi.
La metodologia del lavoro di/in rete, per esempio, permette di promuoversi sul
territorio come operatori che cercano il dialogo e la collaborazione partecipata
della comunità per far fronte, in modo condiviso, ai vari problemi presenti nel
quartiere, nella città. Tale competenza permette di vivere le potenzialità presenti
sul territorio, pubbliche e private, formali ed informali, come fondamentali per
agire nello spirito della partecipazione attiva e complementare.
5.2.
La Relazione Educativa
Per prevenire forme di disagio, bisogna intervenire e rispondere alle
manifestazioni problematiche con tempestività. I segnali di disagio lanciati dagli
adolescenti sono molti; sono i loro corpi che ci parlano, è il loro modo
esibizionistico ed eccessivo di comportarsi, ma anche le loro estreme chiusure
che ci comunicano una sofferenza, non attraverso le parole. Il linguaggio delle
emozioni è un modo di comunicare che traspare dal rossore del viso, dal
movimento fisico spesso ipercinetico, dal corpo martoriato dai piercing metallici,
dai capelli rasati, dai pantaloni calati sotto i fianchi e tenuti da catene. Sono modi
per differenziarsi da quel mondo degli adulti che non li comprende, sono forme
per esprimere una propria nuova identità, sono la paura di non essere accettati. Per
richiamare l'attenzione adulta, spesso gli adolescenti compiono azioni eclatanti,
azioni vandaliche e distruttive, esprimendo una profonda rabbia.
Il compito fondamentale delle diverse figure con cui il soggetto si relaziona
(insegnanti, genitori ed ogni altro educatore o adulto) è quello di riuscire ad
instaurare una comunicazione educativa che crei un particolare atteggiamento di
disponibilità a incontrare l’altro attraverso una situazione centrata sulla relazione
di aiuto e di incoraggiamento, attraverso l'attivazione e l'uso di strategie educative
più adatte al raggiungimento dei diversi obiettivi formativi e pedagogici.
Queste diverse figure che si relazionano con l'adolescente devono acquisire alcune
competenze come la capacità di saper praticare un ascolto attivo e la disponibilità
a mettere in discussione se stessi. Saper praticare un ascolto attivo permette
all'adulto di osservare il soggetto in crescita in modo approfondito nella
quotidianità, formando un'efficace modalità di sostegno affettivo che assume
anche valore terapeutico. Partendo da queste situazioni empatiche, si può
instaurare un'effettiva comunicazione e una reale comprensione del soggetto che
si ha di fronte. Non è semplice entrare in comunicazione empatica con
l'adolescente, soprattutto per tutti quei feed-back di chiusura (difensivi) che spesso
l'adolescente attiva nella comunicazione con l'adulto, ma è di fondamentale
importanza cercare di capire fino in fondo ciò che il ragazzo sta vivendo.
Sapersi "mettere nei panni dell'adolescente", provando le stesse sensazioni e
percependo le stesse emozioni, permette di superare il limite delle parole per
arrivare davvero a capire il linguaggio emotivo.
Un ambiente educativo, da una parte, integra e sostiene la fragile e indefinita
struttura del sé del ragazzo che sta vivendo la propria metamorfosi identitaria, e
dall'altra crea un clima di fiducia in cui sentirsi accolti e compresi. L’educatore
deve porsi nei confronti dell'adolescente con un atteggiamento di ascolto per
comprendere la condizione in cui egli si trova, evitando il giudizio e cogliendo gli
aspetti più significativi dell'adolescente e del rapporto che ha con l’esterno. Le
azioni utilizzabili dall’educatore nella relazione d’aiuto includono:
•
Instaurarsi di una relazione fra adolescente, famiglia e contesto ambientale
cercando di mantenere aperti i canali di comunicazione.
•
Il “fare con” mirato ad attivare iniziative riabilitative e rieducative delle
capacità compromesse.
•
Un lavoro di rete integrato fra: equipe multidisciplinare, famiglia, scuola e
risorse del territorio, nel quale l'educatore professionale avrà il compito di
tenere le fila e di promuovere la comunicazione fra i diversi attori.
La relazione di fiducia tra l'adolescente e l'educatore professionale è il
fondamento di tutte le attività riabilitative e pone le basi per ogni programma
futuro. Essa deve essere caratterizzata da accettazione, mutualità, rispetto e
interesse e permettere all'adolescente in difficoltà sia di esprimere i suoi
sentimenti e le sue idee sia di fidarsi delle indicazioni e dei suggerimenti ricevuti.
La relazione rappresenta una delle caratteristiche distintive della figura
dell’educatore professionale e il modo attraverso il quale poter raggiungere gli
obiettivi prefissati. Laddove non c’è relazione interpersonale non c’è la possibilità
di dare seguito alle intenzioni educative e, conseguentemente, aspirare a ottenere
dei cambiamenti.
La relazione educativa è una relazione asimmetrica. Questo non significa che vi
sia una posizione superiore (educatore) e una posizione inferiore (adolescente), né
deve essere considerata un opera di “travaso” di contenuti da educatore ad
educando, oppure come una disparità incolmabile di autorità. L'asimmetria va
invece ricercata all'interno di una concezione dell'atto educativo come inscindibile
e sistemico rapporto tra educatore ed educando. Il rapporto che si stabilisce si
configura in termini di relazione sistemica (di relazione fra sistemi) asimmetrica.
Cioè la relazione non risulta paritaria per quanto riguarda conoscenze, esperienze
e patrimonio culturale.
La particolare asimmetria della relazione di aiuto implica, a livello comunicativo,
che uno dei due interlocutori tenti di comprendere il vissuto dell'altro per offrire a
quest'ultimo oggetti ricavati dal proprio mondo interno, pensieri, sensazioni,
emozioni, conoscenze e schemi teorici, che servano all'altro per sviluppare
potenzialità di senso, capacità di significazione e per arricchire così il proprio
vissuto in armonia con le proprie inclinazioni e attitudini personali. Nello stesso
tempo, chi si pone nella prospettiva di offrire all'altro elementi di arricchimento
dell'esperienza personale, stimolando ad un rapporto di reciprocità dall'esperienza
dell'altro, può comunque arricchire il proprio mondo interno e il proprio orizzonte
di conoscenze. L'asimmetria senza reciprocità sarebbe solo una forma di dominio
sull'altro.
5.3.
L'importanza del gruppo terapeutico in adolescenza
La pratica del gruppo terapeutico sembra particolarmente fruttuosa e risponde ad
un bisogno e ad una capacità elettiva dei pazienti adolescenti.
Il gruppo è un metodo privilegiato per aiutare gli adolescenti in questi momenti
difficili. Il motivo per cui alcuni ragazzi e ragazze adolescenti che non sono
riusciti nei gruppi comuni possono adattarsi più agevolmente a un gruppo
terapeutico è la libertà di azione e la mobilità senza restrizioni che esso fornisce.
Le normali aggregazioni umane automaticamente sviluppano cristallizzazioni,
rigidità, codici e pressioni sociali. Si presume o si erige che ogni partecipante ne
segua i costumi, le convinzioni, le idee. Le deviazioni dalle norme sono tollerate
solo nella misura in cui non minacciano il benessere psichico e la coesione del
gruppo. Tali gruppi possono essere definiti come gruppi di “fissità sociale”, nei
quali per essere accettati, l'individuo deve adattarsi, limitare la propria autonomia
o conformarsi a norme definite o implicite. Il ragazzo con disagio trova difficile
tale conformismo e finisce in conflitto con il gruppo.
In un gruppo terapeutico non si trovano norme, l'unica regola richiesta è il rispetto
reciproco, e le pressioni al conformismo sono rare e comunque tenui. Le decisioni
vengono prese dal gruppo, si tratti anche della scelta di un luogo da visitare o
l'acquisto di alimenti per la merenda. Il clima complessivo sostiene l'autonomia
individuale e la collaborazione nasce spontaneamente. Poiché il comportamento
disturbante e deviante è accettato dall'adulto educatore, i membri del gruppo ne
seguono l'esempio diventando tolleranti gli uni verso gli altri. La conversazione e
la collaborazione si formano su stimolazioni date dall'educatore attraverso
discussioni di gruppo, attività mirate e esperienze comuni, tenendo comunque
l'attenzione ai bisogni transitori dei singoli partecipanti.
L’educatore è chiamato a gestire le dinamiche relazionali che si sviluppano
all'interno dei gruppi che egli stesso ha progettato e realizzato in funzione di un
obbiettivo.
All’interno del gruppo l'educatore professionale deve tenere conto della
compresenza di due aspetti caratteristici:
1. la componente razionale, centrata sugli obbiettivi;
2. la componente emotiva, legata alla strutturazione delle relazioni.
Questo equilibrio fra le due componenti si raggiunge mantenendo:
•
Chiarezza rispetto all’obbiettivo.
•
Legami affettivi significativi.
•
Disponibilità ad inserire nuovi elementi.
•
Valorizzazione e gratificazione delle capacità del singolo.
•
Controllo delle componenti conflittuali.
•
Riflessione e confronto in gruppo solo per i problemi che riguardano il
gruppo stesso e il rapporto individuo/gruppo.
Solitamente nell'ambito di adolescenti con problematiche simili al caso clinico di
Lia riportato in questo elaborato, l'accesso al gruppo deve effettuarsi dopo un
determinato periodo di incontri individuali con l'educatore professionale, periodo
nel quale l'educatore stesso deciderà insieme all'èquipe, se l'adolescente abbia
raggiunto quella stabilità e quelle competenze tali da non destare disequilibrio nel
gruppo già esistente, e in se stesso.
Esempi di attività nei gruppi terapeutici-educativi di pazienti adolescenti con
problematiche relazionali e comunicative, possono essere quelle che sono state
svolte con il gruppo adolescenti del servizio dove ho svolto il tirocinio
universitario del quale fa parte anche Lia. Gli educatori professionali del servizio
hanno creato un gruppo formato da nove adolescenti che va avanti da circa due
anni, con grande entusiasmo da parte degli operatori ma soprattutto da parte degli
utenti. Da ottobre 2011 è partito il progetto, al quale anche io ho partecipato, “Il
nostro orto”: comprende attività che riguardano l'agricoltura, come la potatura
degli ulivi, la raccolta delle olive, la preparazione del campo per la semina, le
uscite per l'acquisto del relativo materiale e tanto altro ancora.
Sono state proposte anche attività manuali come la creazione della carta riciclata e
la rilegatura di quaderni fatti a mano, portate avanti con la collaborazione di un
volontario esperto. L'anno precedente invece era stato organizzato un corso di
fotografia, con l'aiuto di due volontari qualificati, che aveva come tema principale
“le emozioni”. Il corso si concluse con una mostra fotografica aperta alle famiglie
degli adolescenti, dove i ragazzi illustrarono tutto il percorso fatto insieme al
gruppo.
Recentemente i ragazzi del gruppo, nei locali e con gli istruttori di una scuola di
karate25, stanno svolgendo un lavoro sulla consapevolezza del proprio corpo, sulla
percezione del proprio corpo in movimento nello spazio, facendo un lavoro
individuale e a coppie.
Le dinamiche gruppali intendono, per mezzo di stimoli adeguati, sollecitare tutte
le opportunità di rielaborazione ed analisi.
Nell’esperienza del gruppo, in ambito strettamente riabilitativo si annoverano i
seguenti vantaggi:
Aspetto Cognitivo
•
maggiore ricchezza di stimoli
•
autocorrezione attraverso il modello di confronto
•
possibilità di continua interrelazione tra i vari livelli di apprendimento
•
rafforzamento di attenzione, memoria, creatività ed in generale dei
processi di reversibilità del pensiero.
Aspetto Relazionale
•
maggiore contenimento della frustrazione attraverso la condivisione di
emozioni
•
verifica della circolarità delle funzioni-ruoli all’interno del gruppo
•
scoperta della reciprocità dei ruoli e della solidarietà.
L’uso della comunicazione nella relazione è lo strumento che viene proposto in
questo lavoro per facilitare il rapporto degli adulti con gli adolescenti, nella loro
veste di educatori.
Fra le righe della comunicazione inter-gruppo, gli adolescenti cercano di cogliere
negli adulti quei segnali che rispecchiano il modo in cui sono visti e giudicati e
che possono essere d’aiuto per percepire e definire la loro identità in formazione.
25
“World Seido Karate Organization Italia” con sede a Sesto Fiorentino (FI).
Il desiderio implicito è che il proprio sentimento di autostima ne esca rafforzato,
che vi sia un sostegno, un incoraggiamento, un rinforzo psicologico , che vi sia
l’accettazione e la comprensione del proprio modo di essere, che sia usato un
linguaggio che rimandi un immagine positiva e di riconoscimento del proprio
percorso di autonomia.
5.4.
Il lavoro con la famiglia
Nella complessa rete di interventi attuati intorno alle manifestazioni di disagio in
adolescenza, il lavoro con la famiglia risulta avere la stessa importanza di quello
fatto con l'adolescente.
Il disagio psichico di un figlio fa piombare i genitori in uno stato di profonda
prostrazione, ma fin dall'inizio, li spinge anche ad impegnarsi in prima persona
nell'assisterlo e nel supportarlo. Le madri, le quali solitamente si comportano in
maniera diversa rispetto agli altri membri della famiglia, perché si ritengono in
dovere di fornire sostegno, assistenza e dedizione in misura maggiore; esse
sentono infatti che la loro identità femminile dipende dal successo riportato nel
ruolo materno e, condizionate da modelli culturali, si considerano le persone più
affidabili per la gestione del figlio.
I padri dimostrano una loro peculiare vulnerabilità di fronte ad un figlio
problematico: quelli di cultura tradizionale hanno evidenti difficoltà a mantenere
atteggiamenti protettivi e normativi e ad affrontare la perdita del loro ruolo
rassicurante; quelli invece abituati all'interscambiabilità dei ruoli con la
compagna, rendendosi partecipi all'educazione psico-fisica dei figli, sono più
disposti a condividere il carico emotivo e assistenziale richiesto.
I fratelli, forse perché all'esordio del disagio si trovano quasi sempre nella fase
evolutiva, sono i più vulnerabili alle conseguenze. Essi sperimentano sentimenti di
perdita sia per la disfunzione del fratello e sia per la ridotta energia e vitalità dei
genitori e, se tali sentimenti non sono riconosciuti ed elaborati, rischiano di
rimanere per molto tempo in una situazione luttuosa, fatta di sacrifici volutamente
cercati per compensare l'angoscia materna e paterna.
Fattore determinante per l'efficacia del progetto di riabilitazione educativa
dell'adolescente è dunque la costruzione di un rapporto di partnership tra l'équipe
multidisciplinare e la famiglia, alla luce del ruolo primario che questa espleta in
ambito educativo. I benefici della collaborazione possono essere così sintetizzati:
•
coinvolgimento ed impegno reciproci nella risoluzione di problemi
cruciali;
•
generale soddisfazione per decisioni assunte in modo collaborativo;
•
condivisione delle difficoltà, delle risorse, delle competenze e dei punti di
forza;
•
aumento dell'efficacia delle strategie di intervento;
•
rapporti connotati da reciproca comprensione ed empatia;
•
aumento dell'empowerment di tutti i soggetti coinvolti.
In molti casi si ritiene opportuno, oltre alla collaborazione, l'attuazione di
interventi mirati con la coppia genitoriale, con l'obbiettivo di ridare valore al ruolo
genitoriale restituendogli competenza. Si tratta quindi di lavorare sull'alleanza
terapeutica cercando di alleviare il senso di colpa per i danni che ritengono avere
inflitto al figlio e sostenendo la possibilità del loro aiuto nella crisi. Il lavoro
integrato consente quindi da un lato di tutelare e agevolare la terapia con
l'adolescente e, dall'altro di avviare un cambiamento psichico nei genitori stessi e
contribuire al riassetto ambientale più idoneo per mantenere ed agevolare il
processo evolutivo del ragazzo.
CONCLUSIONI
Alla fine di questo mio lavoro credo di dover fare alcune riflessioni sulla della
coppia genitoriale e la società occidentale contemporanea per il loro ruolo nelle
nuove emergenze di disagio adolescenziale, al fine di delineare le possibili
caratteristiche comuni con la sindrome Hikikomori.
La progressiva destrutturazione delle figure genitoriali e l'attrito causato dalla
coesistenza nell'inconscio sociale con le rappresentazioni più arcaiche di tali
figure, possono essere chiamati in causa nella spiegazione del disorientamento che
attraversa l'odierna generazione di adolescenti, e che trova espressione in alcuni
emergenti fenomeni di disagio.
Risulta sempre più frequente che alle spalle dell'adolescente in difficoltà vi siano
famiglie formalmente “regolari” dal punto di vista dei comportamenti sociali, e
non “multi-problematiche” come solitamente siano portati a pensare, ma
inadeguate dal punto di vista delle risorse educative e delle capacità genitoriali.
Tutto ciò è da mettere in relazione con i comportamenti “adolescenziali” degli
stessi genitori, tali da creare confusione nei ruoli generazionali proprio perché i
genitori non riescono a rendere asimmetrica la relazione con il figlio adolescente.
I segnali che vengono dall'adolescenza, sia riferiti ad un'accettabile “normalità” di
condotte sia quelli francamente psicopatologici, mostrano una perdita di autorità e
autorevolezza generalizzata rispetto al “contenitore” famiglia, che non può essere
riferita solo alla perdita di ruolo del padre come molto spesso si pensa, o che
comunque non si limiti solo a questo.
L'eclissi del padre è dato ormai acquisito, non solo nei pensieri e nei racconti dei
ragazzi e delle ragazze che chiedono aiuto ai servizi, ma nella società, nella
cultura. Persino nella giurisprudenza: la categoria patria potestas si è
estremamente modificata. Probabilmente ci troviamo di fronte ad una società che
mette in crisi il “mandato culturale” che definisce il significato e orienta i compiti
del padre. La conferma di questa apertura di riflessioni sulla figura paterna è data
anche da una letteratura nascente su questo tema negli ultimi anni.
Dopo l'innegabile eclissi della figura paterna, si manifesta la presenza della figura
materna, figura centrale, in quanto unica presenza genitoriale rimasta: <<Siamo di
fronte ad una crisi della funzione materna, resa macroscopica dalla sua solitudine
come unica rappresentante dell'istituzione familiare. E, [...], di una madre che si
trova di fronte al figlio nel momento dell'adolescenza>>26.
A. Casoni sostiene che la famiglia contemporanea, non sia più triangolare, ma
bensì binaria, una madre e un figlio. Molto spesso il padre oltre alla perdita della
propria funzione genitoriale, non è presente neppure fisicamente, per obblighi
lavorativi oppure per separazioni/divorzi. La madre si sente investita di grosse
responsabilità nei confronti del figlio, solitamente manifesta comportamenti
oppressivi e ansiosi verso di esso, fino all'instaurarsi nella diade madre-figlio, di
un legame ossessivo e dipendente. In alcuni casi, anche se molto rari, sono stati
riscontrati i presupposti per una Sindrome di Münchhausen.
Anche nella relazione con la scuola, la madre di un figlio adolescente svolge un
ruolo di primo piano, non solo perché è in prima linea nella contrattazione con i
docenti e verifica i compiti scolastici, ma perché l'ingresso del figlio adolescente
nel ruolo sociale di studente è sentito dalla madre come predittivo della relazione
che il figlio intratterrà con il mondo del lavoro, della sua capacità di competizione
sociale e di affermazione. L'investimento narcisistico che la madre effettua sul
successo scolastico del figlio ne è spesso una testimonianza e documenta quanto il
ruolo di madre in adolescenza sia sollecitato ad espandere la propria funzione di
accudimento dall'area domestica allo spazio sociale.
Sono molte quindi le caratteristiche comuni tra i genitori giapponesi e quelli
italiani, di figli in hikikomori. La figura del padre è assente, il padre hikikomori è
dedito al lavoro per la famiglia, il padre italiano è invece spogliato dalla sua figura
autoritaria di un tempo, anch'esso spesso assente fisicamente. La madre italiana al
contrario di quella giapponese, non esercita sui figli una violenza simbolica per il
rispetto e la riconoscenza verso padre, ma piuttosto cerca di esauturarlo dalla sua
figura di padre.
26
Casoni A. (a cura di), Adolescenza liquida, Edizioni Edup, Roma 2008, (pag. 95).
Il concetto di “vergogna” accomuna i giovani italiani con quelli giapponesi.
L'accezione che però viene data alla vergogna è diversa. Nei giovani giapponesi
questo senso di vergogna si manifesta quando, nel momento in cui entrano nella
società, sono protagonisti di esperienze negative: molestie scolastiche, difficoltà
nell'apprendimento, fallimenti nell'ambiente di lavoro. In Giappone, avere un
buon profitto scolastico e trovare lavoro è una cosa considerata naturale, le
persone che non sono brave a percorre questa strada, è molto facile che siano
escluse dalla società. Di conseguenza, per le persone che per differenti problemi
hanno avuto un tempo moratorio molto lungo, il momento dell'ingresso nella
società diventa una fonte di stress e tensione molto forte. Le persone molto timide,
ad esempio, e non molto disinvolte nelle relazioni con gli altri possono non
rispondere a tutte le aspettative che la famiglia pretende da loro. Le aspettative
della società e le eccessive aspettative dei genitori diventano le cause di
hikikomori. Le cause di hikikomori si può così dire che derivano delle
deformazioni e dai difetti della struttura della società. Quindi la vergogna è
proporzionale all'insuccesso da un punto di vista scolastico e lavorativo,
soprattutto se non si raggiunge quello che gli altri si aspettano.
Il sentimento di vergogna negli adolescenti italiani è diverso, perché è diversa
anche la strutturazione della società. La società nipponica è orientata quindi al
successo scolastico e lavorativo per guadagnare un determinato status symbol, la
società italiana invece si poneva questi obbiettivi fino alla fine degli anni '80:
adesso invece viviamo nella “società dell'apparire”. La nostra vita quotidiana è
bombardata da messaggi riguardanti la bellezza e i beni di lusso: stai nel gruppo
se hai un certo abbigliamento e se hai una personalità esuberante. Gli adolescenti
più timidi, hanno difficoltà ad integrarsi, non si sentono all'altezza del gruppo, non
si sentono simpatici e piacenti come lo sono gli altri, e non sono in grado di
instaurare relazioni con i coetanei, sviluppando la paura di sentirsi inadeguati. Da
qui la tendenza alla fobia sociale e alle dismorfofobie27, fino all' autoreclusione.
L'ingresso in adolescenza determina un cambiamento di specchio sociale; lo
27
Preoccupazioni eccessive relative alla forma del proprio corpo (statura ,peso sproporzioni fra le
parti del corpo percepite come deformanti); ai tratti del volto ( occhi, naso, bocca, denti);
caratteristiche della pelle, dei capelli, dei caratteri sessuali secondari ( seno, peluria, voce...);
dimensione degli organi genitali, soprattutto nei maschi.
sguardo di ritorno è quello del gruppo allargato, degli amici, della nuova famiglia
sociale. In questo nuovo contesto il giudizio degli altri ha un potere molto elevato
poiché può far precipitare il soggetto in quel particolare stato mentale che
costituisce la “crisi acuta di vergogna”28. L'esperienza di questa crisi suscita
vissuti profondi nell'adolescente: il soggetto ha un'esperienza di annichilimento e
desidera sparire proprio perché ritiene che l'esperienza che ha vissuto e che ha
suscitato la vergogna sia irreparabile. La crisi di vergogna conduce l'adolescente
ad un ritiro nel proprio mondo interno, esercitato appunto, anche nella propria
stanza.
Si parla di vergogna narcisistica dell'adolescente: lo scarto tra il loro desiderato e
il reale è troppo forte. I giovani giapponesi si autorecludono per scappare da
regole troppo severe, mentre i giovani italiani lo fanno perché incapaci di gestire
le relazioni sociali.
Molte condotte sociali dei ragazzi attuali diventano comprensibili se si pensa che
cerchino in tutti i modi di evitare il dolore della verifica di non essere all'altezza di
un ideale dell'Io molto esigente e il conseguente sentimento di vergogna.
Questi adolescenti rappresentano delle difficoltà a socializzare con gli altri e a
diventare un membro di uno degli in-group29 presenti nella scuola. La prepotenza
e l’isolamento sono normalmente le ragioni maggiori per cui decidono di lasciare
la scuola. Un sentimento di “individualità”, in opposizione al sentimento
dell’essere parte di un gruppo, può causare in loro la sensazione di essere diversi e
per questo sbagliati. Credono inoltre di avere deluso la famiglia o che la famiglia
abbia deluso loro. La ragione vera del loro assentarsi dalla scuola non è dettata
dalla considerazione che la scuola non gli piace, ma dal fatto che non trovano un
posto per se stessi all’interno di essa. Inoltre i nostri adolescenti problematici
solitamente sono poco efficienti, sia sul piano scolastico che su quello del sociale,
e spesso, ma non esclusivamente, si tratta di adolescenti che hanno seguito un
processo di maturazione verso l’essere adulto che si differenzia dagli standard
dalla cultura dominante.
Quando si deve applicare il concetto di prevenzione a tematiche psicosociali e
28
29
Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
Inteso come gruppo di appartenenza (Teoria dell'Identità Sociale).
socio-pedagogiche, in età adolescenziale, non è possibile individuare chiaramente
un unico fattore su cui è possibile intervenire. In una popolazione così facilmente
condizionabile, è molto alto il rischio di influenzarla negativamente con una
stigmatizzazione anticipata, data anche l’imprevedibilità delle risposte soggettive.
Possiamo considerare il disagio adolescenziale come un fattore fisiologico,
normale, non eliminabile, ma costitutivo di quella età, testimone di quella fase di
transizione che porta all’età adulta.
Prevenire in maniera invasiva o normativa il disagio evolutivo potrebbe
significare bloccare il processo di crescita di un ragazzo, di cui la crisi
adolescenziale non è solo un elemento costitutivo, ma ne è anche l’insostituibile
motore. È necessaria perciò una prevenzione che accompagni il giovane senza che
questa proponga dei propri valori, dei ruoli già definiti, ma che affronti i problemi
per il significato specifico che assumono per ogni diverso ragazzo, con una
modalità “transizionale”, mediatrice, e cioè che operi con il mutamento del
giovane, in sintonia con il suo mondo interno.
Appare evidente come, in letteratura e nella prassi operativa, ci sia stata in questi
anni, un’evoluzione dal termine prevenzione a quello di “promozione”. Proprio a
testimoniare la diversa concezione d’approccio al disagio giovanile che deve
rimandare piuttosto all’idea di un sostegno, di uno stimolo delle risorse, di aiuto
all’emancipazione della soggettività.
Impostare progetti di intervento in un’ottica di promozione di salute comporta la
scelta di operare in contesti di normalità, più che sulla patologia conclamata, sulla
generalità della popolazione giovanile, sui loro bisogni e non solo sui soggetti
problematici.
La promozione deve agire facendo leva sui cosiddetti fattori protettivi, che si
ritiene siano elementi capaci di esercitare un’azione di tutela degli equilibri
psicologici e comportamentali di un individuo, soprattutto nelle situazioni di
stress.
Come frutto dell'esperienza fatta e delle riflessioni condivise con il gruppo
operante nell'intervento educativo in soggetti adolescenti, le aree che devono
essere rafforzate per attuare interventi di promozione, sono:
•
l'autostima, dando valore alla propria persona e al suo operare
nell'ambiente;
•
l'autocontrollo, nella gestione degli impulsi;
•
l'adattamento al cambiamento e la fiducia nel futuro;
•
la capacità di interagire con l'altro e di creare una relazione, attraverso la
tolleranza e l'elasticità.
Come esempi pratici di promozione/prevenzione, innanzitutto si dovrebbero
sensibilizzare di più gli insegnanti verso queste problematiche, proprio perché
l'insegnante può interagire positivamente o negativamente sui fattori psicologici
protettivi che si sviluppano nell’adolescenza. Certo deve essere un’insegnante
attento e soprattutto formato a saper valutare e saper gestire le dinamiche
relazionali che si stabiliscono tra ogni allievo e l’intero gruppo classe, e le
dinamiche psicologiche che si proiettano sulla sua figura. L’insegnante, ben
formato può aiutare a far crescere i propri allievi in modo che siano più robusti
interiormente, senza per questo trasformarsi in psicologo, purché sappia lavorare
anche con sé stesso, con le proprie emozioni.
Poi si dovrebbe incrementare la presenza di Psicologi ed Educatori Professionali
nelle scuole che, attraverso incontri individuali e di gruppo, possano individuare i
ragazzi a maggior rischio e sostenerli, o semplicemente informarli e rassicurarli
sulla possibilità di un aiuto, fuori dal nucleo familiare, disposto ad un ascolto
senza giudizio, dove possano sentirsi liberi di esprimere le loro insicurezze ed
essere accolti.
Così come andrebbe fatta una grande opera d’informazione sulle famiglie, molte
delle quali all'oscuro delle dinamiche proprie di questa fase della vita, e
soprattutto di quelle del proprio figlio. Quindi sensibilizzare le famiglie al
problema del disagio adolescenziale, organizzando per esempio gruppi di auto
mutuo aiuto, con una figura professionale come l'Educatore Professionale, in
qualità di mediatore.
Un altro strumento di promozione potrebbe essere la Peer-Education definita dall'
UNESCO come <<l'impiego di soggetti appartenenti ad un determinato gruppo
(sociale, etnico, di genere) allo scopo di facilitare il cambiamento presso gli altri
componenti del medesimo gruppo>>. Quasi sempre, tuttavia, essa viene intesa
nella particolare accezione di “educazione tra coetanei”, che descrive le attività
socio-educative di bambini e adolescenti rivolte ai pari età. Essa si dimostra
vincente rispetto agli approcci pedagogici classici, soprattutto quando il
messaggio veicolato ha per oggetto il “non fare”, come nel caso della prevenzione
di un comportamento a rischio. E’ dimostrato che, in tali contesti, la prescrizione
autoritaria può rivelarsi ininfluente o persino controproducente. La peereducation, al contrario, mette in gioco anche emozioni e competenze relazionali
che consentono al messaggio informativo di pervenire al suo scopo.
Il principio della sua efficacia risiede nell’attitudine, caratteristica degli
adolescenti, a orientare i propri comportamenti non soltanto sulla scorta delle
informazioni ricevute, ma anche in base a ciò che fanno i coetanei, e in particolare
coloro che possono proporsi come figure di riferimento. L’educatore coetaneo è
una persona che più di qualsiasi esperto ha accesso al mondo valoriale e simbolico
dei giovani, decodifica il loro linguaggio e ha quindi l’abilità di stabilire un
rapporto di fiducia e ascolto con i soggetti con cui entra in contatto.
Nel caso di ragazzi che hanno già effettuato un ritiro sociale, anche come ritiro
fisico nella propria abitazione, come strumento o strategia d'intervento si potrebbe
pensare ad un gruppo di sostegno con l'uso di una chat-line e, vista la tendenza di
questi ragazzi a comunicare solo attraverso il mondo virtuale, potrebbe essere un
buon tentativo di intervento per instaurare una prima relazione di fiducia.
Sicuramente la presa in carico tempestiva dei ragazzi reclusi o con serie
problematiche relazionali, potrebbe preservare quella salute psichica che
altrimenti verrebbe compromessa, evitando forse anche l'ingresso nella patologia
mentale degli adulti.
Infine, se la realtà del disagio adolescenziale non può e non deve essere negata,
nello studio di tale realtà bisognerà attrezzarsi di strumenti critici che apprezzino
la complessità del fenomeno, e che rifuggano da ogni riduzionismo, soprattutto
quando si tende a collegare il disagio ai tratti della personalità individuale e al
contesto familiare, dove si svolgono le vicende evolutive. Non si può quindi
negare che quel disagio diffuso sia di origine culturale e che attraversa la nostra
società, tagliando trasversalmente le tradizionali categorizzazioni di età, sesso,
classe sociale. Di questo disagio diffuso devono prenderne atto e mobilitarsi, i
professionisti che operano nel settore psicologico : <<...Ma è sempre ai nostri
servizi che le famiglie, la scuola, i quartieri, il mondo del lavoro, la giustizia, tutti
in situazione di crisi, indirizzano ogni giorno centinaia di bambini e di giovani. I
nostri servizi sono così diventati un po' alla volta una specie di imbuto in cui si
riversa la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea>>.
La caratteristica plasticità della personalità degli adolescenti, li rende dei recettori
molto sensibili al disagio di una società, all'interno della quale per loro è sempre
più difficile riconoscere punti di orientamento e identità alle quali avvicinarsi. Da
qui viene da chiedersi se gli adolescenti possano essere considerati come
indicatori del disagio che attraversa la nostra società, e portatori di quelle
problematiche che forse in un futuro prossimo, possono diventare fenomeni di
disagio più generalizzati: un segnale predittivo che va ascoltato e decodificato
nell'oggi.
APPENDICE 1
Intervista a Tamaki Saito sul fenomeno "Hikikomori"
di Claudia Pierdominici
premessa di Gianfranco Palma
Quando pochi mesi fa mi hanno chiesto consiglio su come rintracciare alcuni
colleghi giapponesi confesso di essermi sentito in difetto di conoscenza di fronte a
una realtà "altra" rispetto a quella in cui la psichiatria opera in Italia e per esteso in
Occidente. In breve, per una fortunata serie di coincidenze, grazie alla
collaborazione della Prof.ssa Giuliana Carli(1), è stato possibile mettersi in
contatto il Dott. Tamaki SAITO(2), esperto della patologia relativa al fenomeno
denominato hikikomori(3), attraverso il quale si è palesata la complessità culturale
del Giappone ed i risvolti nelle diverse espressioni psicopatologiche. In
particolare i modelli sociali e culturali presenti in una determinata società
connotano le sofferenze individuali e ne determinano il percorso; in questo caso la
sofferenza dell'individuo può oscurarsi all'interno di una società intrinsecamente
collettivistica, strutturata piramidalmente e condizionata nelle relazioni
interpersonali dal principio di amae, o dipendenza parentale.(4)
Dall'intervista che il collega ha rilasciato nasce la necessità di riconsiderare il
contesto che genera l'autoreclusione, hikikomori, alimentando il dubbio legittimo
che il crescente disagio giovanile riscontrabile nella quotidianità a noi nota possa
assumere via via modalità e incidenza altrettanto rilevanti anche da noi. Quelli che
il Dott. Saito definisce "mammoni", sembrano condividere parzialmente alcuni
punti del disagio caratterizzante il fenomeno giapponese, ma ricordano anche i
NEET (acronimo per No Employment, Education, Training), i giovani allo sbando
nella società inglese.
L'intervista che segue apre alla possibilità di un confronto più ampio sul
"lontano", in termini culturali, legislativi, metodologici, e nel contempo
suggerisce l'esistenza di denominatori comuni riconoscibili che necessitano di
approfondimento.
Inoltre i rapidi cambiamenti della società italiana sul versante della
multiculturalità ci pongono l'esigenza di un approccio nuovo sul piano operativo e
soprattutto sul piano del nostro atteggiamento mentale. In questa visione allargata
si apre uno spazio di riflessione sui rapporti tra strutture linguistiche e modalità di
costruzione del pensiero e delle rappresentazioni mentali: le forme di espressione
psicopatologica hanno una matrice comune indipendentemente dalle evoluzioni
socioculturali o esistono configurazioni diverse a seconda dei processi di
costruzione del linguaggio e del pensiero?
Ringrazio la Prof.ssa Giuliana Carli, per il supporto linguistico e le stimolanti
conversazioni che hanno reso possibile realizzare questo contributo, e la Dott.ssa
Claudia Pierdominici(5) autrice dell'intervista.
L'intervista di Claudia Pierdominici
L' intervista che segue mi è stata rilasciata da Dott. Saito il 12 aprile 2008, a
Tokyo. In quell'occasione ho avuto modo di constatare la disponibilità e
l'immediatezza del Dott. Saito, cui sono grata, durante una piacevole
conversazione seduti al tavolo di una caffetteria. Il mio interesse per il fenomeno
dello hikikomori è abbastanza recente, ma da subito ho ritenuto fondamentale
stabilire un contatto con chi di questo argomento si occupa da tempo e per questo
può guidarci alla comprensione di una realtà che, seppure lontana nello spazio,
incuriosisce e pone degli interrogativi importanti. E' con questo pensiero e,
naturalmente, grazie alla cortesia del Dott. Saito, che è stata possibile una diretta
esperienza su un aspetto problematico della società giapponese; mi auguro di
proseguire, condividendo le preziose informazioni ricevute, con chi come me ha
un interesse per il Giappone e la sua attualità.
Dottor Saito, a quando risale il primo episodio di hikikomori?
SAITO: La prima volta che mi sono imbattuto nel fenomeno dello hikikomori è
stato quando, diventato psichiatra, ho incontrato il mio primo paziente. Questa è
stata la mia esperienza. A quel tempo i pazienti hikikomori erano tanti ma, dato
che questo nome non esisteva ancora, noi chiamavamo il fenomeno Apatia o
Sindrome di Apatia.
In base alla sua esperienza si può dire che negli ultimi anni lo hikikomori stia
aumentando? Se sì, perché?
SAITO: Il numero di hikikomori sta aumentando. In Giappone se ne contano circa
1 milione e questo numero è in crescita. Perché questo? La ragione è che una
persona una volta diventata hikikomori si isola dalla società e non riesce a
reinserirsi da sola. Perché è molto difficile uscire dall'isolamento. Le persone
colpite da hikikomori restano tali e via via la schiera si infoltisce. Un esempio è la
dispersione scolastica(6): i ragazzi che smettono di frequentare la scuola
diventano hikikomori. In Giappone questi ragazzi sono 127.000. Di questi circa il
10% diventano hikikomori e ogni anno la percentuale di nuovi casi è sempre la
stessa. Praticamente non si registrano casi di ritorno spontaneo alla normalità. Il
numero di hikikomori cresce per questa ragione.
Se un genitore di un ragazzo hikikomori venisse da lei per un consiglio, cosa gli
direbbe?
SAITO: Io ho scritto dei libri sullo hikikomori il cui intero contenuto riguarda
consigli per i genitori.
Quindi lei dice di comprare il libro?!
SAITO: Ah, ah! Sì, comprate il libro! Comunque ora mi spiego meglio. I genitori
rimproverano il figlio hikikomori, ma cercare di persuaderlo solo attaccandolo non
aiuta a modificare la situazione. Per questo il mio primo consiglio è quello di
accettare la condizione del ragazzo e di farlo vivere serenamente in casa. Così
facendo migliora il rapporto genitore-figlio e lo hikikomori parla al genitore dei
suoi problemi e del suo dolore. E' da qui che può decidersi ad andare in terapia o
ricorrere a un ricovero. Se perdura il conflitto tra genitori e figli è impossibile
trovare una soluzione.
In Giappone c'è un programma di volontariato gestito da un'associazione chiamata
New Start(7). Anche dall'Italia molte persone partecipano all'iniziativa e vengono
in Giappone da volontari a sostegno dei ragazzi hikikomori. Lei, Dottor Saito,
cosa pensa della New Start?
SAITO: Penso che la New Start sia ammirevole nella fase iniziale di sostegno.
Tuttavia manca di medici e consulenti specializzati e questo è il punto debole.
Conosci le "rental onesan"? Vanno a trovare lo hikikomori in casa e lo aiutano...
Ah, sì. Ne ho sentito parlare. Sono le "sorelle in prestito", chiamate dai genitori
degli hikikomori per aiutarli a superare l'isolamento.
SAITO: Sì. L'idea è una buona idea, ma mi pare che non abbiano alcuna
formazione specifica. Hanno un programma dai ritmi sostenuti, forse poco
adeguato. Questo mi lascia in dubbio, oltre al fatto che molti pazienti credono che
vivere insieme o lavorare insieme sia di per sé un processo terapeutico. Loro non
si occupano dei ragazzi che rifiutano di partecipare al programma. In questo senso
vedo dei problemi. Comunque nel complesso penso sia ammirevole quello che
fanno.
Purtroppo il Giappone è un paese con un'alta percentuale di suicidi(8). Com'è
questa percentuale tra gli hikikomori?
SAITO: Molto bassa. Spesso gli hikikomori mi dicono che vogliono morire ma
non ce la fanno perché il loro narcisismo li salva. Una salutare forma di
autocompiacimento impedisce loro di togliersi la vita, vorrebbero ma non
possono. Per questo la percentuale dei suicidi è bassa.
In Giappone c'è un qualche tipo di aiuto da parte del Ministero della Sanità o da
parte di altre istituzioni? Se sì, in che misura? Se no, perché?
SAITO: Questo è molto importante. L'aiuto c'è. In tutte le prefetture(9) ci sono
centri per la salute mentale e l'assistenza sociale che si occupano anche di
hikikomori. Le strutture a livello locale esistono, ma in Giappone ci sono
pochissimi specialisti con una buona formazione, e a causa di ciò il sostegno
risulta insufficiente. Quindi le strutture di sostegno lavorano bene ma, mancando
ancora gli specialisti, gli interventi non sono del tutto efficaci.
Il Sofukai Sasaki Hospital, dove lei lavora, è una clinica privata o un ospedale
pubblico?
SAITO: E' una clinica privata(10).
Secondo lei c'è una possibilità che il fenomeno hikikomori si estenda al resto del
mondo o lo si deve considerare un fenomeno tipicamente giapponese?
SAITO: Io penso che il fenomeno hikikomori sia equivalente al fenomeno dei
giovani senza fissa dimora in Europa e in America. In entrambi i casi si
emarginano dalla società, con la differenza che in Giappone lo fanno restando
nelle loro case. Per questo non penso che il fenomeno possa estendersi ad altri
paesi. Ho ricevuto molte e-mail dall'Italia, in particolare dall'Italia e non da altri
paesi. Non so perché ma dall'Italia mi arrivano tante domande. Probabilmente dal
prossimo anno saremo in contatto con l'Università di Palermo, lì in molti
collaborano e studiano questo fenomeno. In Italia ci sono molte persone
interessate allo hikikomori. Un altro paese è l'Inghilterra. Sono stato intervistato
dalla BBC circa cinque anni fa e grazie a loro molte persone nel mondo sono
venute a conoscenza del fenomeno. Non si estenderà altrove, ma non c'è solo in
Giappone; anche in Corea gli hikikomori sono tanti. Oggi i paesi colpiti da questo
fenomeno sono il Giappone e la Corea, che sono aree di cultura confuciana, le cui
società hanno assimilato il Confucianesimo(11) e in particolare il concetto di pietà
filiale. Sono culture in cui la pietà filiale è un valore molto enfatizzato. I genitori
accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto
dell'alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i
figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui
li chiamiamo "parasite singles", mentre in Italia si chiamano "mammoni"!
Sì, proprio così...mammoni!
SAITO: Ecco, se pensiamo che una parte di questi "parasite singles" è destinata a
diventare hikikomori il fenomeno è più facile da capire.
Pensando all'hikikomori come a una patologia sociale si può dire che potrebbe
estendersi anche in America o in Europa. A riguardo, non pensa siano utili
confronti con gli altri paesi, scambi internazionali o provvedimenti comuni?
SAITO: Penso sia giusto considerare l'hikikomori una patologia sociale. Tuttavia,
data la differenza tra le culture, in America e in Europa penso che siano pochi e
che non aumentino in modo considerevole. Il motivo è che i genitori americani ed
europei mandano via di casa il figlio adulto e quindi il figlio non può diventare
hikikomori. In Giappone restano in casa anche a trenta, quarant'anni e i genitori
continuano a provvedere a loro. Non penso che il fenomeno possa andare oltre il
Giappone e la Corea. Comunque parlare di scambi internazionali ha senso. Per
quanto riguarda i miei pazienti, ce ne sono alcuni che grazie a viaggi all'estero e al
contatto con stranieri hanno superato l'hikikomori, quindi credo che gli scambi
internazionali siano utili a tal fine. Un po' come fa la New Start con l'Italia, io, che
ho un programma diverso, faccio scambi di pazienti con la Corea. Attraverso lo
scambio culturale, frequentando l'Università in Corea, abbiamo avuto casi di
guarigione di hikikomori giapponesi.
E ora passiamo all'ultima domanda. Facendo un confronto tra Italia e Giappone
possiamo notare che le cause del disagio giovanile sono le stesse (bullismo nelle
scuole, mancanza di interessi o di modelli in famiglia, ecc.). Tuttavia in Italia non
esiste un fenomeno simile allo hikikomori. Un giovane in Italia, piuttosto che
chiudersi nella propria stanza, è più facile che reagisca al suo disagio sociale
finendo nella microcriminalità, drogandosi o avendo disturbi alimentari quali
l'anoressia e la bulimia. I giapponesi, che vivono in una società più attenta al
gruppo e all'armonia, invece di reagire in modo concreto, sembrano preferire il
silenzio. Lei cosa ne pensa?
SAITO:Queste diversità sono interessanti. Anche in Giappone ci sono molti casi
di Anoressia e Bulimia nervose, ma non al livello dell'Italia. La foto di quella
modella anoressica sui giornali italiani dimostra che probabilmente la situazione è
seria. In Italia ce ne sono di più. Nei paesi in cui la famiglia ha una grande
importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La
pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell'Italia, ce ne sono.
No?
Non ne ho mai sentito parlare. Forse sì.
SAITO: Nei paesi in cui i rapporti familiari sono importanti anche se il figlio si
emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c'è il
problema dell'"amae" (dipendenza parentale). In Giappone senz'altro è importante
il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore;
per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa
possonopensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere
sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c'è un dogma religioso, la
gente non ha un credo, noi crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di
come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere
disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori e forse è
una condizione tipicamente giapponese.
Note:
1) Giuliana CARLI è docente di Lingua e Letteratura Giapponese presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Università "Sapienza" di Roma.
2) Tamaki SAITO è nato nel 1961 a Iwate, si è laureato in medicina all'Università di
Tsukuba specializzandosi in psichiatria adolescenziale. E' da anni impegnato
nell'assistenza e nel trattamento di hikikomori, in tale ambito è uno degli esperti più
qualificati. Attualmente è Direttore Clinico del Sofukai Sasaki Hospital, una clinica
privata di Chiba, non lontano da Tokyo; ha pubblicato saggi di successo in ambito
psicoanalitico, letterario, su tematiche culturali e sociali, sull'arte moderna. Le frequenti
apparizioni televisive e il coinvolgimento verso forme culturali d'avanguardia hanno
contribuito ad accrescere la sua fama in Giappone e nel mondo.
3) Il termine "hikikomori" , contrazione di shakaiteki hikikomori (ritirarsi dalla società) fu
coniato negli anni '80 ad indicare un fenomeno socialmente preoccupante emerso in
Giappone circa dieci anni prima. Trattandosi a tutti gli effetti di una se-clusione dal
contesto sociale, si è scelto qui di tradurre il termine con auto-isolamento (hikikomori è la
forma sostantivizzata di due verbi: hiku, indietreggiare, e komoru, isolarsi, nascondersi;
in giapponese, e ormai nelle altre lingue, hikimomori indica sia il fenomeno che il
soggetto colpito da tale fenomeno). Laddove si riscontri una tendenza all'auto-isolamento
per almeno sei mesi, soprattutto nella fascia d'età dai 14 ai 30, si parla di hikikomori. Il
primo passo verso questa particolare condizione sembra essere l'abbandono scolastico,
seguito dal rifiuto graduale di qualsiasi contatto con l'ambiente esterno. A causa di questo
auto-isolamento, benché il soggetto non parta da una condizione di svantaggio mentale, lo
hikikomori può arrivare a soffrire di malattie mentali secondarie quali antropofobia,
paranoia, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.
4) Amae è entrato nel lessico analitico-sociologico come sinonimo di "dipendenza" o di
"indulgenza" nelle relazioni interpersonali che caratterizzano la società giapponese, in
primis le relazioni parentali, dalle quali ci si aspetta un certo grado di soddisfazione
emotiva, secondo la teoria ampiamente diffusa da Takeo DOI in Anatomia della
dipendenza, Raffaello Cortina Editore, 1971.
5) Claudia PIERDOMINICI ha conseguito la laurea in Lingue e Culture del Mondo
Moderno presso l'Università "Sapienza" di Roma. L'intervista da lei realizzata sarà parte
della tesi di specializzazione in corso di stesura sullo stesso argomento.
6) Il Giappone ha avuto un picco di rifiuto della frequenza scolastica nel 2001 con con
138.722 casi registrati , rispetto ai 122.255 del 2005; sempre nel 2005 gli episodi di
bullismo sono stati 34.038. In totale i casi di abbandono scolastico nella scuola
secondaria inferiore e superiore relativi al 2005 ammontano a 76.693, pari ad una
percentuale del 2,1%; questo dato è rilevante in relazione all'altissimo grado di
scolarizzazione riscontrabile in Giappone.
7) La New Start è un'organizzazione no profit la cui sede centrale è in Giappone, nelle
prefetture di Chiba e Yamanashi. Possiede altre sedi secondarie in Italia, nelle Filippine e
in Australia. L'organizzazione si propone di aiutare prevalentemente i giovani con
difficoltà di comunicazione e integrazione nella società. Ha la finalità di migliorare la
loro capacità di interagire e di renderli indipendenti dalla famiglia, assegnando loro
piccoli incarichi o lavori e organizzando con soggiorni in una sede all'estero. In genere
sono i genitori a contattare la New Start e a far partecipare il figlio alle attività del
programma, pagando una quota. La New Start si propone come un'estensione della
famiglia e in questo senso prevede anche la figura della cosiddetta "sorella (o fratello) in
prestito", che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un contatto con
lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma.
8) Secondo i dati forniti dalla National Police Agency il numero totale dei suicidi in
Giappone per il 2007 è stato di 33.093, in aumento rispetto agli anni passati, (dopo il
totale di 34.427 raggiunto nel 2003). Dai dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità
il Giappone è la seconda nazione, dopo la Russia, con la più alta percentuale di suicidi.
Tra le varie fasce di età la percentuale maggiore si registra tra gli uomini con età
superiore ai 60 anni.. Negli ultimi anni si è verificato un forte incremento anche per il
gruppo d'età inferiore ai 19 anni, il cui numero di suicidi è salito da 608 nel 2005 a 623
nel 2006. Sembra esistere una correlazione tra suicidi e bullismo nelle scuole.
9) Il Giappone è suddiviso in otto zone geografiche, ognuna delle quali è a sua volta
organizzata in prefetture. Le prefetture del Giappone sono 47 e furono stabilite dal
governo Meiji nel 1871 in sostituzione delle precedenti province. Rappresentano pertanto
degli enti locali con competenze su base territoriale.
10) Le cliniche private, come anche le strutture pubbliche, funzionano in Giappone col
sistema assicurativo sanitario. Secondo una legge entrata in vigore nel 1961 ogni
cittadino giapponese deve essere coperto da un'assicurazione sulla salute che possa
coprire gran parte delle spese mediche e assicurare al cittadino la possibilità di essere
curato indipendentemente dal reddito.
11) Originario della Cina, il Confucianesimo è l'insieme delle dottrine etico-politiche
predicate da Confucio (551?- 479 a.C.). Secondo questa dottrina, nata allo scopo di
mantenere l'ordine sociale nella Cina di quel tempo, le virtù-chiave che l'uomo deve
perseguire sono il dovere filiale, l'altruismo, comportamento sociale, e la lealtà-fedeltà
verso lo Stato. Nel Confucianesimo ha un ruolo fondamentale la ritualità dei
comportamenti e in particolare il rito del culto degli antenati. La sua introduzione in
Giappone risale circa alla metà del VII secolo, tempo in cui ci fu una massiccia adozione
delle pratiche culturali cinesi; il Confucianesimo ha profondamente influenzato la cultura
giapponese da quando fu stigmatizzata come dottrina di stato in epoca Tokugawa (16031867) e fino al XIX secolo.
APPENDICE 2
YSR/11-18 - Narrative Report
ID: 1- B
BIRTH DATE: 14/12/94
AGE: 17
GENDER: MALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by b to obtain his perceptions of his
competencies and problems. B reported that he participates in one sport and that
he has interests in two hobbies. He belongs to two social organizations, teams or
clubs. B reported that he has one job or chore. B's responses indicate that he has
two or three close friends and that he sees friends one or two times a week outside
of regular school hours. B rated his school performance as average in language
arts, average in social studies, average in math, and average in science. He rated
his performance in two additional subjects as above average and above average.
B's Total Competence score was in the normal range for self-reports by boys aged
11 to 18. His scores on the Activities and Social scales were both in the normal
range.
On the YSR problem scales, b's Total Problems and Internalizing scores were both
in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles) for boys aged 11 to 18.
His Externalizing score was in the normal range. His scores on the Withdrawn,
Somatic Complaints, Anxious/Depressed, Social Problems, Thought Problems,
Delinquent Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in the normal
range. His score on the Attention Problems syndrome was in the borderline
clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that b reported
more problems than are typically reported by boys aged 11 to 18, particularly
attention problems. B's profile of problems on the YSR was significantly similar
to the Withdrawn profile type.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: MECHANIC
MOTHER'S WORK: HOUSEWIFE
EDUCATION: 4° SUPERIORE
ID: 2- C
BIRTH DATE: 25/02/1996
AGE: 16
GENDER: MALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by c to obtain his perceptions of his
competencies and problems. C reported that he participates in no sports and that
he has interests in two hobbies. C reported that he has no jobs or chores. C's
responses indicate that he has no close friends and that he sees friends less than
once a week outside of regular school hours. C rated his school performance as
above average in language arts, average in social studies, average in math, and
below average in science.
Because some competency items were not rated, a Total Competence score was
not calculated for c. Because of missing information, c had no score on the Social
scale. His score on the Activities scale was in the clinical range below the 2nd
percentile.
On the YSR problem scales, c's Total Problems and Internalizing scores were both
in the clinical range above the 90th percentile for boys aged 11 to 18. His
Externalizing score was in the normal range. His scores on the Somatic
Complaints, Delinquent Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in
the normal range. His scores on the Withdrawn, Social Problems, and Attention
Problems syndromes were in the clinical range above the 98th percentile. His
scores on the Anxious/Depressed and Thought Problems syndromes were in the
borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that c
reported more problems than are typically reported by boys aged 11 to 18,
particularly withdrawn behavior, problems of anxiety or depression, problems in
social relationships, thought problems, and attention problems.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: PLUMBER (IDRAULICO)
MOTHER'S WORK: ASSISTANT COOK
EDUCATION: 1° SUPERIORE
ID: 3- D
BIRTH DATE: 12/06/1997
AGE: 14
GENDER: FEMALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by d to obtain her perceptions of her
competencies and problems. D reported that she participates in three sports and
that she has interests in one hobby. She belongs to two social organizations, teams
or clubs. D reported that she has no jobs or chores. D's responses indicate that she
has two or three close friends and that she sees friends one or two times a week
outside of regular school hours. D rated her school performance as below average
in language arts, average in social studies, average in math, and below average in
science.
D's Total Competence score was in the clinical range below the 10th percentile for
self-reports by girls aged 11 to 18. Her scores on the Activities and Social scales
were both in the normal range.
On the YSR problem scales, d's Total Problems and Externalizing scores were
both in the clinical range above the 90th percentile for girls aged 11 to 18. Her
Internalizing score was in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles).
Her scores on the Withdrawn, Somatic Complaints, Social Problems, Thought
Problems, and Delinquent Behavior syndromes were in the normal range. Her
scores on the Anxious/Depressed, Attention Problems, and Aggressive Behavior
syndromes were in the borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These
results indicate that d reported more problems than are typically reported by girls
aged 11 to 18, particularly problems of anxiety or depression, attention problems,
and problems of an aggressive nature.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: WAREHOUSEMAN (MAGAZZINIERE)
MOTHER'S WORK: CLEANING LADY
EDUCATION: 3° MEDIA
ID: 4- E
BIRTH DATE: 08/09/1995
AGE: 16
GENDER: FEMALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by e to obtain her perceptions of her
competencies and problems. E reported that she participates in two sports and that
she has interests in two hobbies. She belongs to no social organizations, teams or
clubs. E reported that she has one job or chore. E's responses indicate that she has
two or three close friends and that she sees friends three or more times a week
outside of regular school hours. E rated her school performance as average in
language arts, average in social studies, average in math, and below average in
science. She rated her performance in two additional subjects as average and
below average.
E's Total Competence score was in the clinical range below the 10th percentile for
self-reports by girls aged 11 to 18. Her score on the Activities scale was in the
borderline clinical range (2nd to 5th percentiles), and her score on the Social scale
was in the normal range.
On the YSR problem scales, e's Total Problems and Internalizing scores were both
in the borderline clinical range (83rd to 90th percentiles) for girls aged 11 to 18.
Her Externalizing score was in the normal range. Scores on all rated syndrome
scales were in the normal range. E's profile of problems on the YSR was
significantly similar to the Withdrawn profile type.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: RETIRED PERSON
MOTHER'S WORK: OFFICE WORKER
EDUCATION: 2° SUPERIORE
ID: 5- F
BIRTH DATE: 13/03/1994
AGE: 18
GENDER: MALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by f to obtain his perceptions of his
competencies and problems. F reported that he participates in three sports and that
he has interests in two hobbies. He belongs to one social organization, team or
club. F reported that he has two jobs or chores. F's responses indicate that he has
two or three close friends and that he sees friends one or two times a week outside
of regular school hours. F rated his school performance as average in language
arts, average in social studies, below average in math, and above average in
science. He rated his performance in three additional subjects as average, average,
and above average.
F's Total Competence score was in the borderline clinical range (10th to 16th
percentiles) for self-reports by boys aged 11 to 18. His scores on the Activities
and Social scales were both in the normal range.
On the YSR problem scales, f's Total Problems, Internalizing, and Externalizing
scores were all in the normal range for boys aged 11 to 18. Scores on all rated
syndrome scales were in the normal range. F's profile of problems on the YSR
was significantly similar to the Somatic Complaints profile type.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: SHOP ASSISTANT
MOTHER'S WORK: SCHOOLTEACHER
EDUCATION: 3° SUPERIORE
ID: 6- G
BIRTH DATE: 06/11/1996
AGE: 15
GENDER: FEMALE
INFORMANT: SELF
DATE: 26/03/2012
The Youth Self Report (YSR) was completed by g to obtain her perceptions of her
competencies and problems. G reported that she participates in three sports and
that she has interests in two hobbies. She belongs to two social organizations,
teams or clubs. G reported that she has two jobs or chores. G's responses indicate
that she has four or more close friends and that she sees friends three or more
times a week outside of regular school hours. G did not rate her school
performance in any subject areas.
Because some competency items were not rated, a Total Competence score was
not calculated for g. Her scores on the Activities and Social scales were both in
the normal range.
On the YSR problem scales, g's Total Problems and Internalizing scores were both
in the clinical range above the 90th percentile for girls aged 11 to 18. Her
Externalizing score was in the normal range. Her scores on the Withdrawn,
Somatic Complaints, Thought Problems, Attention Problems, Delinquent
Behavior, and Aggressive Behavior syndromes were in the normal range. Her
scores on the Anxious/Depressed and Social Problems syndromes were in the
borderline clinical range (95th to 98th percentiles). These results indicate that g
reported more problems than are typically reported by girls aged 11 to 18,
particularly problems of anxiety or depression and problems in social
relationships. G's profile of problems on the YSR was significantly similar to the
Social Problems profile type.
OTHER INFORMATION
FATHER'S WORK: HOUSE MOVER
MOTHER'S WORK: HOUSEWIFE
EDUCATION: NO SCHOOL
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