1941 Deplorevole ritardo

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1941 Deplorevole ritardo
Diocesi di Alessandria
Lettera Pastorale
di S. E. Monsignor
Nicolao Milone
Per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica
Vescovo di Alessandria e Conte
Abbate dei SS. Pietro e Dalmazzo
Quaresima 1941
Deplorevole ritardo
Al Venerabile Clero
Ed ai dilettissimi figli della città e della diocesi
Salute e benedizione nel Signore
Fratelli e Figliuoli dilettissimi,
Ogniqualvolta uscendo di casa, io passo vicino al monumento
Rattazzi, eretto nella piazza centrale della nostra città, non posso fare
ricordare un avvertimento ben salutare, che a questo nostro concittadino,
ministro dell’interno, rivolgeva un giorno S. Giovanni Bosco. Ce lo
di Urbano
a meno di
quando era
riferisce il
Sacerdote Don Francesia della Congregazione Salesiana nella Vita del suo Santo
Fondatore.
Il ministro Rattazzi, che stimava molto D. Bosco e ben volentieri si intratteneva
con lui, lo aveva ricevuto una volta in udienza al Ministero. La conversazione era
stata non solo cordiale ma ancora abbastanza lunga, perché ogni qual volta l’usciere
entrava per annunziare qualche altra visita, mentre D. Bosco si alzava in piedi per
andarsene, il ministro lo faceva di nuovo sedere ed all’usciere sempre rispondeva:
“Dite, che aspettino”.
Finalmente ad un certo punto D. Bosco credette bene di licenziarsi per non
essere di troppo peso a quanti aspettavano per essere ricevuti: si alzò in piedi, salutò
cortesemente il ministro; ma ecco, mentre si avvia verso la porta, il ministro lo segue,
lo ferma e, prendendolo affettuosamente per una mano, gli ripete con insistenza: “D.
Bosco, mi dica ancora qualche cosa”.
D. Bosco allora lo fissa amorevolmente negli occhi e poi col suo fare bonario
gli dice: “Eccellenza, pensate a salvare la vostra anima”. A quelle parole il ministro
abbassa la fronte, stringe più forte la mano a D. Bosco, mentre due grosse lacrime gli
scendono dagli occhi.
Fratelli e Figliuoli, quantunque io non sia un S. Giovanni Bosco e voi non siate
delle Eccellenze e dei ministri, tuttavia a voi, che come Rattazzi siete alessandrini, ho
rivolto ultimamente anch’io lo stesso salutare ammonimento. Colla lettera pastorale
dell’anno scorso ha infatti ricordato a tutti voi il grande dovere che avete di salvare la
vostra anima, e ve ne dava ancora le principali ragioni col dimostrarvi che questo è
l’affare più importante, che è l’unico nostro affare, che è un affare irrimediabile, che
è un affare che dipende unicamente da noi, di modo che terminava la mia lettera
dicendovi: “Una cosa sola è necessaria, la salute della nostra anima: salvata l’anima,
tutto è salvato: perduta l’anima, tutto è perduto: dunque quest’anima ad ogni costo si
salvi”.
Sarà stato messo in pratica questo mio salutare ammonimento? Lo spero di sì
da molti, i quali per assicurare la salute della propria anima avranno certamente
cercato col più grande impegno, sia di liberarsi dal peccato, come di moltiplicare le
loro opere buone. Da altri invece pur troppo! non ancora. Volete saperne la ragione?
Non è che abbiano messo in dubbio qualcuna delle verità sopraccennate, ma
unicamente perché, trovandosi in stato di peccato, per provvedere alla salute della
loro anima avrebbero dovuto cominciare con una buona confessione. Ora questa
confessione l’hanno sempre ritardata: da Pasqua l’hanno rimandata alla chiusa del
mese di Maria, poi alla festa del S. Cuore, indi ai Santi, in seguito a Natale ed ora
dopo un anno sono ancora allo stesso punto di prima per continuare ancora così per
molti anni avvenire.
Far conoscere a costoro quanto sia deplorevole il loro ritardo a confessarsi,
ecco lo scopo di questa mia lettera pastorale. A questo fine colla solita semplicità di
forma e di parola esamineremo brevemente due verità riguardo al peccatore che
differisce la sua confessione: 1° Lo stato miserando in cui permane: 2° I pericoli
gravissimi, a cui si espone: due considerazioni che lo devono spingere a provvedere
al più presto alla salute della sua anima.
Così la lettera pastorale di quest’anno sarà il completamento di quella
dell’anno scorso.
Cominciamo dalla prima.
I
P
er poco che uno vi rifletta fa sempre grandemente stupire la stoltezza che ha
dimostrato Faraone, quel re dell’Egitto, di cui si parla nella Storia Sacra.
Questo re, come sapete, si era ribellato apertamente ad un comando avuto da
Dio. A Mosè, che appunto a nome di Dio gli aveva ordinato di lasciare in libertà il
popolo d’Israele, nella sua superbia aveva risposto: “Ma chi è questo Dio che io
debba ascoltare la sua voce?”: “Quis est Dominus, ut audiam vocem eius?” (Es 5, 2).
“Io non lo riconosco, non ne voglio sapere ed Israele non lo lascerò in libertà”
“Nescio Dominum et Israel non dimittam” (Es 5, 2). Così aveva risposto quel superbo
a Mosè che gli parlava a nome di Dio: ma Iddio di questa sua superbia ed arroganza
l’aveva in seguito punito unitamente ai suoi sudditi con una serie di castighi ben
terribili e spaventosi, conosciuti comunemente nella storia sotto il nome “le dieci
piaghe d’Egitto”, di cui eccone le principali.
Dal fiume Nilo era uscita una grande quantità di rane, le quali, penetrando in
tutte le loro abitazioni, col loro continuo gracidare specialmente durante la notte
impedivano a tutti il riposo. Al tormento delle rane si aggiungeva poco dopo quello
delle tante grosse mosche e zanzare, le quali, posandosi sugli uomini e sugli animali,
li tormentavano di continuo colle loro punture dolorose in modo da formare sui loro
corpi altrettanti tumori, che non tardavano ad aprirsi in tante piaghe purulenti. In
seguito una nebbia fittissima per tre giorni continui aveva talmente oscurato il sole da
non più distinguersi il giorno dalla notte: era caduta una fittissima gragnola, che in
poco tempo aveva distrutti tutti quanti i raccolti, alla quale erano succedute locuste
voracissime che avevano ancora divorato ogni resto di vegetazione. Oltre a ciò in
tutte le case, compresa quella di Faraone, era morto all’improvviso il figlio
primogenito.
Davanti a così terribili castighi Faraone, finalmente rientrato in se stesso, aveva
mandato a chiamare Mosè e l’aveva pregato che ottenesse dal Signore di essere
liberato da tutti quei mali.
Allora Mosè, vedendolo pentito e pronto ad eseguire il comando di Dio, subito
si è dimostrato disposto ad accondiscendere alla sua preghiera: epperciò, rivolto al re,
così gli dice: “Constitue mihi quando deprecer pro te”: “Stabiliscimi pure quando io
dovrò pregare per te” (Es 8, 9). Ma sentite la stoltezza, insensataggine di Faraone!
Invece di rispondergli che lo faccia subito, che subito preghi per lui per essere
liberato al più presto da sì terribili castighi, quel re invece gli dice che aspetti, che
ritardi ancora, che rimandi all’indomani: “Respondit: Cras”: “Risponde: Domani”
(Es 8, 10).
Commentando questa risposta, S. Ambrogio, questo grande Dottore della
Chiesa, non può a meno di restarne profondamente indignato ed è costretto ad
esclamare: “Oh stolto ed insensato che è mai! Si vede da una parte colpito dai
castighi di Dio, si trova circondato da fitte tenebre, disturbato continuamente non ha
più un momento di riposo, sente le punture delle zanzare ad ogni istante, osserva il
suo corpo ricoprirsi di piaghe, si vede privato del raccolto dei suoi campi, ha ancora
innanzi ai suoi occhi il cadavere del suo figlio primogenito morto all’improvviso, …
si vede dall’altra offerto nello stesso tempo il mezzo sicuro per liberarsi da quei
castighi e da quei mali … ed egli non vuole ancora saperne, mette dei ritardi, rimanda
tutto all’indomani: Respondit: Cras. Ma perché non rispondere: Hodie, dire oggi
stesso, anzi subito, in questo momento? Si potrebbe trovare una stoltezza maggiore di
questa?”.
Così esclama S. Ambrogio, e così pure, ne sono sicuro, dite anche voi nel
vostro cuore: anche voi condannate la condotta di Faraone in quella circostanza,
costretti a riconoscere la stoltezza della sua risposta.
Ebbene, non diversamente fa il cristiano peccatore, quando differisce la sua
confessione. In causa del suo peccato, reo verso Dio della stessa colpa di Faraone,
punito parimenti di consimili castighi, anch’egli si regola colla medesima stoltezza.
Osservate se non è vero.
Ogni qual volta un cristiano commette un peccato mortale, anch’egli a
somiglianza di Faraone, trasgredisce la santa legge di Dio, non ne vuol sapere di un
suo comando. Se non colle parole, col fatto però a somiglianza di quel re superbo
anch’egli va ripetendo apertamente: Ma chi è Iddio che io abbia da ascoltarne la sua
voce? Io non ne voglio sapere: Nescio Dominum.
Non è quindi a stupire, se Iddio lo punisce cogli stessi terribili castighi.
Caduto nel peccato, la sua anima, questa vigna eletta di Dio, vinea electa, a
somiglianza delle campagne d’Egitto viene a perdere in un momento tutti i suoi frutti,
il merito cioè di tutte le opere buone già compiute pel passato: sembra solo più ad un
giardino, prima ripieno di fiori e ricolmo di frutti, ma che in seguito sia stato
devastato da una curiosissima tempesta. È il Signore stesso che ce lo dice. Parlando
del peccatore, ci fa sapere che non saranno più contate pel Paradiso tutte le opere
buone già compiute in passato: “Omnes justituae, quas fecerat, non recordabuntur”
(Ez 18, 24).
Caduto nel peccato, a somiglianza di Faraone, anche questo cristiano non ha
più pace e tranquillità. Come quel re in qualunque posto si trovasse era molestato
dalle punture delle zanzare e disturbato dal gracidio delle rane, così il peccatore,
dovunque si trovi, sia di giorno che di notte, sia da solo come in compagnia, sente
sempre dentro di sé la puntura del rimorso e la voce della coscienza, che
continuamente lo tormentano, lo straziano, lo rendono inquieto e agitato.
In questo stato miserando, a somiglianza degli Egiziani, anch’egli non vede più
il sole, il sole cioè della grazia, il sole della felicità: intorno a lui vi è l’oscurità della
colpa, vi sono le tenebre del peccato, che gli impediscono di compiere opere
meritorie pel Paradiso: vi è quella notte, in cui non è possibile il lavorare: “Venit nox,
in qua nemo potest operari” (Gv 9, 4).
Caduto nella colpa, macchiatosi del peccato, la sua anima, precisamente come
il corpo degli Egiziani ricoperto di piaghe puzzolenti, si copre parimenti di una lebbra
schifosa, che mentre la priva di quella grazia santificante che la rendeva candida e
risplendente quasi angelo del Paradiso, le fa perdere il profumo dell’innocenza e della
virtù e tramandare invece tutto all’intorno l’odore pestifero del vizio. Ferita a morte
da questa colpa, quest’anima muore alla grazia, alla sua vita spirituale: per
conseguenza anche questo cristiano viene parimenti a perdere questa figlia che gli
appartiene, questa figlia primogenita.
La sua condizione adunque è simile a quella di Faraone e del popolo Egiziano.
Senonché, o mie cari, anche a questo cristiano, colpito da così terribili castighi,
come un giorno a Faraone si presenta un altro Mosè che a nome di Dio è capace di
liberarlo da questo stato miserando. Voi già sapete chi sia questo nuovo Mosè: è il
Sacerdote, il Ministro di Dio là al tribunale della penitenza. Presentandosi al
Confessore pentito sinceramente delle sue colpe e pregandolo che a nome di Dio lo
assolva, il cristiano sa che il suo stato miserando cesserebbe in un momento. Non
appena proferite dal Sacerdote le parole dell’assoluzione, “ego te absolvo a peccatis
tuis”, la sua anima, questa figlia primogenita, morta alla grazia in causa del peccato,
risusciterebbe a nuova vita: sarebbe in un istante libera dalla lebbra del peccato,
riacquisterebbe l’ornamento della grazia di Dio e nello stesso tempo tutto il merito
del bene già compiuto. Scomparse le tenebre causate dalla colpa, tornerebbe per lui a
risplendere il sole della felicità ed il suo cuore godrebbe di nuovo la pace.
Tutto questo egli lo sa e lo crede fermamente, perché è la fede che glie lo
assicura. Sa che il Sacerdote, il Ministro di Dio è sempre pronto a riceverlo: sa che lo
aspetta a braccia aperte là a quel tribunale di penitenza, da dove gli ripete di continuo
le parole di Mosè: “Constitue mihi, quando deprecer pro te”: “Dimmi quando dovrò
pregare per te per liberarli dal tuo stato così miserando?”.
Ebbene, che cosa risponde a questo nuovo Mosè ed alle sue esortazioni il
cristiano peccatore che differisce la sua confessione? A somiglianza di Faraone,
invece di rispondere: Oggi, subito, anch’egli risponde: Domani, dimostrando così la
medesima stoltezza di quell’antico re.
Ma che cosa ho detto, la medesima stoltezza? Anzi una stoltezza ben peggiore.
Quella di Faraone riguardava solamente la salute del suo corpo e la sua vita
temporale, ma la stoltezza di questo cristiano riguarda la salute della sua anima, la
sua vita spirituale ed eterna, e siccome l’anima è immensamente più preziosa che il
corpo, ne viene per conseguenza che maggiore è la stoltezza, quando è quest’anima
che si trascura.
Faraone rimandava semplicemente all’indomani e non di più; ed infatti
all’indomani Mosè pregava per lui e veniva liberato dai suoi castighi: ed invece tanti
cristiani peccatori fino a quando rimandano la loro confessione?
Dillo tu, o donna, che da molto porti nel cuore quella colpa che non ti decidi a
confessare. Prima sempre lieta e contenta, frequente ai Santi Sacramenti, da quel
giorno disgraziato, nel quale ti sei macchiata di quella colpa, non hai più avuto un
momento di vera pace. Una voce segreta, insistente, importuna, la voce del rimorso si
è fatta sentire nel fondo del tuo cuore: una voce che quando ti trovi sola, lontana dai
rumori del mondo, la notte specialmente, continuamente ti accusa, ti rende inquieta,
agitata, ti obbliga a sospirare ed a rimpiangere la felicità di prima. È ben vero che
tante volte hai sentito il Sacerdote dal pulpito o dall’altare che ti invitava a fare la tua
confessione: è ben vero che quest’invito l’hai ancora avuto dal buon esempio delle
tue compagne, che vedevi accostarsi ai Santi Sacramenti, lo hai sentito tu stessa nel
tuo cuore le tante volte: ma finora qual conto hai fatto di tutti questi inviti? Sono
passate tante care feste, tante belle occasioni e tu è da mesi che trascuri di confessarti.
Dillo tu, o uomo, che da molto hai la mamma e la compagna di tua vita che
insistono di tanto in tanto e ti supplicano affinché tu confessi. Alle loro amorevoli
esortazioni hai sempre trovato scuse per sfuggire ed ora sono già varii anni che ti
trovi col peccato sulla coscienza, morto alla grazia di Dio.
E non è forse questa la condotta di non pochi fra i cristiani? Mentre con un
poco di buona volontà, in meno di un quarto d’ora, presentandosi al Confessore,
potrebbero riavere la pace, liberare il cuore dal peso che li opprime, riacquistare i loro
meriti, risuscitare a nuova vita la loro anima, riconciliarsi con Dio … ed essi sempre
ritardare, rimandare la Confessione da un anno all’altro!
Ma dove è quell’ammalato, che sapendo che vi è un medico capace di guarirlo
da quella malattia che tanto lo fa soffrire, non va subito a consultarlo per averne la
medicina salutare? Dove è quel prigioniero, stretto da catene, rilegato in fondo ad un
carcere, che assicurato che il suo re è pronto a perdonarlo, purché chiami perdono del
suo delitto al ministro che gli invia a visitarlo, non si getta subito ai piedi dell’inviato
del re per invocare quel perdono che gli aprirebbe la prigione e lo rimetterebbe in
libertà? Dove è quel navigante che, assalito in alto mare da curiosissima tempesta che
sta per colare a fondo il suo bastimento, non si getta subito su qualche tavola di
salvamento e così arrivare ancora sano e salvo fino in porto?
Ebbene, è proprio questo il caso nostro. Il Sacerdote al tribunale di penitenza è
veramente il medico che ci guarisce dalla malattia del peccato, e la Confessione ne è
la medicina. Il Sacerdote è il Ministro del perdono che Iddio ci manda a liberarci
dalle catene del peccato. Infine la confessione, chiamata appunto secunda post
naufragium tabula, è la tavola di salvamento per chi nel mare burrascoso di questo
mondo ha avuto la disgrazia di far naufragio spirituale.
Vedete adunque, come per lo stato miserando in cui volontariamente vuol
perseverare, sia veramente da chiamarsi deplorevole ritardo quello del cristiano che,
caduto nel peccato, non va a confessarsi al più presto e rimanda sempre la sua
confessione.
II
A
lla stessa conclusione si arriva, se noi in secondo luogo, come ho detto,
consideriamo i pericoli gravissimi a cui il peccatore si espone col differire la
sua confessione. Questi pericoli sono tre, di cui il primo è, che a far questa
confessione gli
potrebbe mancare il tempo
a) – Al peccatore, che ritarda a riconciliarsi col Signore S. Caterina da Siena
era solita a ripetere: “Tu aspetti il tempo, ma il tempo, non aspetta te”.
Ed aveva ragione di dire così, perché, che cosa è mai la nostra vita, da che cosa
dipende?
Si legge nella Sacra Scrittura che, quando là a Babilonia il profeta Daniele,
privo d’ogni sorta di cibo, si trovava rinchiuso nella fossa dei leoni, un angelo è
comparso nella Giudea al profeta Abacuch mentre portava il pranzo ai mietitori ed a
nome di Dio gli ha ordinato che portasse invece quel pranzo a Daniele in Babilonia.
Ma, rispondendo il profeta: “Io non ho mai visto Babilonia e non so dove si trova la
fossa dei leoni”: “Babylonem non vidi et lacum nescio” (Dn 14, 35), quell’angelo per
ordine di Dio lo ha preso per i capelli, lo ha sollevato in aria e tenendolo in questo
modo, lo ha trasportato fino a Babilonia ad eseguire il comando di Dio e poi, sempre
sostenendolo per i capelli, lo ha riportato al luogo di prima, a Gerusalemme:
“Apprehendit eum Angelus Domini in vertice et portavit capillo capitis sui” (Dn 14,
35).
Durante adunque questo viaggio, tanto nell’andata come nel ritorno, la vita di
quel profeta dipendeva ben da poco: guai se si fossero strappati i suoi capelli! Guai se
quell’angelo avesse aperta per un momento la sua mano! Il profeta sarebbe andato
incontro ad una morte repentina ed inevitabile.
Fratelli e Figliuoli, non diversamente è di noi tutti in questo nostro viaggio da
questa terra verso il cielo, da questa specie di Babilonia verso la Gerusalemme
celeste. La nostra vita, quella vita sulla quale molti fanno tanto assegnamento,
precisamente come quella di quel profeta, dipende ben da poco: oh! guai anche per
noi, se si strappa quel capello, quel filo così debole da cui dipende tutta la nostra vita;
guai se il Signore ci toglie la sua mano da sulla testa: anche noi andiamo incontro ad
una morte subitanea ed improvvisa.
E questo, notatelo bene, o Fratelli e Figliuoli, non solo in qualche speciale
circostanza, ma ad ogni istante, ad ogni momento della nostra vita.
Sì, persuadiamoci pure e non facciamoci illusioni: la morte ci sta sempre da
vicino, cammina sempre ai nostri fianchi, pronta ad ogni istante a recidere colla sua
falce il filo della nostra vita ed a vibrarci il suo colpo fatale.
Per morire non è necessario che, colpita fa qualche bomba nemica, precipiti a
terra la nostra casa di abitazione e venga a seppellirci fra le sue rovine: non è
necessario che un forte terremoto venga ad aprirci sotto ai piedi la terra ed a
sprofondarci nelle sue voragini: non è necessario che un esercito nemico penetri notte
tempo nella nostra città o nel nostro paese e, pigliandoci all’improvviso, ci faccia
passare tutti a fil di spada: non è necessario che si propaghi una malattia mortale e
contagiosa, che in poco tempo ci mieta fra le sue vittime. No, la morte ci è molto più
famigliare, la portiamo con noi: le stesse cose che servono alla vita possono servire
alla morte. Il cibo che ci nutre, l’acqua che beviamo, l’aria medesima che respiriamo
possono essere benissimo la causa della nostra morte. Un istante solo e la nostra vita
è finita; cessa il nostro respiro, cessano i battiti del nostro cuore.
Ecco che cosa sia mai la nostra vita: come ci dice lo Spirito Santo, è come un
fiore, rigoglioso se volete, che lungo una strada fa bella mostra delle sue tinte e dei
suoi colori, ma che strappato dal primo che vi passa, non tarda ad appassire ed a
seccare: è come una nuvola risplendente, indorata se volete dai raggi del sole, ma che
al primo soffio di vento subito scomparisce.
E quanti esempi nella Sacra Scrittura non ci ricordano ad ogni istante questa
grande verità? Quanti non ne vediamo morire all’improvviso, nel momento stesso in
cui meno vi pensano?
Mentre il re Baldassarre si trova nell’allegria di un convito, compare una mano
misteriosa che là sulla parete della sala scrive la sua sentenza di morte: ciò nonostante
si continua a banchettare ed ecco in quella stessa sera e in quel medesimo luogo
Baldassarre e tutti i suoi vengono uccisi dall’esercito di Ciro, penetrato vittorioso
nella città.
Mentre Faraone, quel re d’Egitto di cui vi ho già parlato, nella sua superbia va
ripetendo ad alta voce: “Voglio vendicarmi io di quel popolo d’Israele, che contro la
mia volontà se ne parte dal mio regno” ed intanto coi suoi soldati insegue gli Ebrei
fin dentro il mar Rosso pel sentiero aperto miracolosamente da Dio al suo popolo,
quelle acque toccate dalla verga di Mosè tornano a riunirsi e Faraone con tutti i suoi
incontra la morte in mezzo a quelle onde.
Mentre il gigante Golia s’avanza contro il pastorello Davide quasi disdegnando
di combattere contro un giovanetto, armato solo di un bastone e di una fionda, ecco
che una pietra scagliata con forza dal suo giovane avversario lo colpisce in fronte ed
egli cade a terra tramortito e gli vien tagliata la testa.
Tanto la morte inganna e può prendere all’improvviso!
Quanti uomini empi muoiono improvvisamente come Acan con le mani ancora
piene della roba degli altri? (Gs 7, 24) Quanti disonesti, come Cosbi e come Zambri,
sono colpiti da morte subitanea nell’atto stesso del peccato? (Nm 25, 8).
E se per disgrazia capitasse anche così al cristiano che vive nel peccato? Dove
allora troverebbe il tempo per fare una buona confessione e così provvedere alla
salute eterna della sua anima? “C’è tempo”, egli va stoltamente ripetendo: c’è tempo,
diceva anche quel tale, c’è tempo; ed intanto gli si strappava nel suo interno
un’arteria, una vena ed in pochi minuti se ne partiva per l’altra vita: c’è tempo, diceva
anche quell’altro, c’è tempo; ed intanto colpito da un sincope cardiaca cadeva a terra
esanime: c’è tempo diceva anche quel terzo, c’è tempo; ed intanto caduto in una
grave malattia, che in poco tempo gli toglieva la cognizione e la parola, moriva senza
poter aggiustare le partite della sua anima macchiata di peccato.
C’è tempo, c’è tempo! Oh! parole ingannatrici che sono la causa per la quale
tanti sono adesso all’eterna perdizione; parole che addormentano il peccatore
sull’orlo del precipizio, che non gli lasciano provvedere al suo stato deplorevole, che
lo trascinano all’inferno; parole che saranno il suo tormento, la sua disperazione per
tutta quanta l’eternità.
Ecco il primo gravissimo pericolo a cui si espone il peccatore col ritardare la
sua confessione, A provvedere con tal mezzo alla salvezza della sua anima gli
potrebbe mancare il tempo.
b) – Ad un secondo pericolo non meno grave si espone il peccatore che
differisce sempre la sua confessione e la sua conversione a Dio, ed è che, quantunque
non gli mancasse poi il tempo, però gli
potrebbe mancare la grazia
Il convertirsi a Dio infatti è un’opera che appartiene più a Dio, che all’uomo. È
vero che da parte dell’uomo è necessaria la sua cooperazione alla grazia affinché la
sua conversione si effettui: ma questa conversione del cuore, questa sincera penitenza
è unicamente Iddio che la inspira e che colla sua grazia la rende efficace, conforme a
quello che ha detto Gesù nel Vangelo: “Nemo venit ad me, nisi Pater traxerit eum”:
“Vi è nessuno che venga a me e si converta, se Iddio, il mio Padre celeste, non lo
attira colla sua grazia” (Gv 6, 44).
Ora Iddio questa grazia la concede sempre a tutti? Non vi ha dubbio che, se si
tratta di quella prima grazia che dai Teologi vien chiamata grazia sufficiente e che
consiste in un’illuminazione dell’intelletto ed in un eccitamento della volontà in
ordine alla vita soprannaturale ed alla vita eterna, la risposta deve essere affermativa.
Questa grazia Iddio la concede sempre a tutti, nessuno escluso, perché Egli vuole che
tutti si salvino, e noi sappiamo che la salute eterna non si può ottenere senza la grazia
divina. Se molte volte questa grazia non raggiunge il suo effetto salutare, è
unicamente perché l’uomo, che sotto l’influsso della grazia rimane sempre libero, non
vi corrisponde o vi pone qualche ostacolo.
Ma se si tratta di qualcuna delle altre grazie successive con cui Dio cerca di
smuovere il peccatore dal suo letargo ed indurlo a mutar vita, possiamo ancora dire la
stessa cosa?
Oh! io non voglio qui esagerare il timore al peccatore e nello stesso tempo far
torto all’infinita bontà e misericordia di Dio. La bontà di Dio è grande, immensa,
infinita e non sta certamente a noi fissare dei limiti alla sua misericordia. Sappiamo
però che, quantunque la sua bontà sia infinita, ha fissato il numero e la misura delle
sue grazie a ciascuno di noi in particolare.
Vi ha un tempo, in cui Iddio, a somiglianza di un buon pastore, va in cerca
della pecorella smarrita, e con grande suo disagio e fatica va aggirandosi per ogni
luogo chiamandola ad alta voce, e se ai suoi ripetuti richiami la sente rispondere
belando, subito accorre a lei, se la prende sulle spalle, la porta giubilante all’ovile ed
invita i suoi amici ed i vicini a far festa con lui; ma vi è anche un tempo, nel quale
dice: “Allora mi invocheranno ed io non li esaudirò più”: “Tunc invocabunt me et
non exaudiam” (Pr 1, 28).
Vi ha un tempo in cui fa cercare Saulle dal profeta Samuele e lo fa ungere a re
del suo popolo; ma vi è anche un tempo nel quale scaccia questo re dalla sua
presenza, lo rigetta e proibisce persino a Samuele di intercedere in suo favore.
Vi ha un tempo in cui Gesù colle finezze del suo amore cerca di far rientrare in
se stesso il perfido Giuda, l’apostolo traditore, e là nel Cenacolo lo ammette alla
mensa, lo comunica di sua mano, lo avvisa con dolcezza, gli lava persino i piedi, là
nell’orto di Getsemani lo chiama col bel nome di amico e si lascia baciare da lui; ma
vi è anche un tempo, nel quale allontana da lui la sua faccia e lo abbandona alla più
funesta disperazione.
Così vi è un tempo nel quale Iddio concede molte grazie particolari al
peccatore per la sua conversione, ma vi è ancora un tempo in cui queste grazie Egli
non le concede più. Iddio ripeterà allora ai peccatori: “Quaeretis me et in peccato
vestro moriemini”: “Voi mi cercherete, ma vi toccherà morire nel vostro peccato”
(Gv 8, 21). Sarà passato allora il tempo della sua misericordia e vi succederà quello
terribile e spaventoso della sua giustizia..
Ma quando verrà questo tempo per ciascheduno di noi in particolare? Quando
non ci sarà più dato contare sugli aiuti speciali della grazia di Dio? Oh! qui è
veramente il caso di esclamare coll’Apostolo S. Paolo: “Quam incomprehensibilia
judicia eius et investigabiles viae eius!”: “Come sono incomprensibili i giudizi del
Signore ed investigabili le sue vie!” (Rm 11, 33). Sono segreti che appartengono a
Lui solo e che l’uomo non potrà mai arrivare a conoscere. Gerusalemme dopo
l’ascensione di Gesù al cielo, per quarant’anni ancora si è sentito ripetere l’invito dei
suoi profeti: “Jerusalem, Jerusalem, convertere ad Dominum Deum tuum” ma poi
quegli inviti sono cessati e Gerusalemme è andata incontro al suo castigo, alla più
completa distruzione. Faraone, il re dell’Egitto, è stato invitato dieci volte ad
arrendersi al comando di Dio e dopo è stato abbandonato nella sua ostinazione, che lo
portò a perire con tutti i suoi soldati nelle acque del mar Rosso. Felice, il giudice di S.
Paolo, ha sentito per due anni la voce del Signore e poi questa voce per lui è cessata.
Quel giovane, di cui si parla nel Vangelo, è stato chiamato una sola volta: “Vieni e
seguimi”, gli ha detto Gesù: ha esitato e non ha più avuto il secondo invito.
Ora, e se mai col ritardare, il peccatore venisse a sorpassare questo tempo che
Iddio gli ha fissato per usargli misericordia? Come potrà allora avere ancora la sua
grazia, quella grazia che gli è necessaria, per fare una buona confessione con cui
provvedere alla salvezza dell’anima sua?
Alcuni di voi conoscerete già certamente la disgrazia, che successe un giorno
alla Sposa dei Sacri Cantici. Riferiamola in gran parte colle sue medesime parole,
riportate dal Capo 5 del cantico dei Cantici.
“Io dormiva tranquillamente nel mio letto, quando nella notte vengo svegliata
da ripetuti colpi alla porta. Alzo la testa e mi accorgo che chi bussa è il mio Sposo;
sento infatti la sua voce che mi chiama coi nomi più affettuosi: Aperi mihi, soror
mea, amica mea, columba mea, immaculata mea: aprimi, o mia sorella, o mia amica,
o mia colomba, o mia immacolata. Ancora mezza addormentata gli rispondo: Sono
già a letto e mi sono già spogliata della mia tunica e delle altre mie vesti: come farò
ora ad alzarmi ed a vestirmi di nuovo? Andando a letto ho lavato i miei piedi: come
tornerò adesso a sporcarli? Expoliavi me tunica mea, quomodo induar illa? Lavi
pedes meos, quomodo inquinabo illos? Ma seguitando lo Sposo a bussare, finalmente
mi decido: mi alzo per andargli ad aprire, surrexi, ut aperiem dilecto meo: ma quando
ho aperta la porta, ille declinaverat atque transierat, lo Sposo non vi era più e si era
allontanato per quel poco che l’aveva fatto aspettare. Allora nella mia grande
afflizione l’ho cercato dappertutto e non l’ho più trovato, l’ho chiamato e non mi ha
risposto: quaesivi et non inveni illum, vocavi et non responsdit mihi”.
La stessa cosa con più ragione può capitare a chi, invitato ripetutamente da Dio
ad alzarsi dal suo stato di peccato, non lo fa prontamente e rimanda sempre la sua
confessione. Anche Dio potrebbe allontanarsi da lui e lasciargli mancare la sua
grazia, quando finalmente decidesse di farlo.
Ecco il secondo pericolo al quale va incontro il peccatore che rimanda sempre
la sua confessione: potrebbe mancargli la grazia.
c) – Ma non basta ancora, o miei cari. A questi due percoli dobbiamo ancora
aggiungere un terzo di non minore importanza ed è, che al peccatore per confessarsi,
quantunque non mancasse poi il tempo, non mancasse poi la grazia,
potrebbe mancare la volontà
Caduto nel peccato, il cristiano sa che per liberarsene e così assicurare la salute
della sua anima deve fare una buona confessione. Di questo ne è convinto ed al
presente ne avrebbe la volontà di farla, solo che per negligenza o per qualche
difficoltà ben sovente soltanto immaginaria la rimanda sempre ad un tempo avvenire.
Ma allora, dimando io, l’avrà poi ancora questa volontà di confessarsi? Ah!
Che tanto fa temere che questa buona volontà abbia da scomparire totalmente.
Attendete, se non è vero.
Quantunque costituiti da Dio liberi e padroni dei nostri atti ed operazioni, è
però una verità confermata dalla nostra stessa esperienza che l’abitudine influisce
molto su di noi. L’uomo vive di abitudini: l’abitudine ci rende come altrettanti
schiavi, cosicché quanto più siamo abituati ad una cosa, tanto più troviamo difficile a
lasciarla. Che se questo è vero parlando in generale di qualsiasi sorta di abitudini, è
verissimo soprattutto riguardo alle cattive a causa dell’inclinazione al male lasciataci
dal peccato originale. Dalle abitudini cattive sempre difficile la correzione: quanto
più dura questa abitudine e tanto più si fa fatica a lasciarla.
Stabilito questo, se al presente il peccatore incontra già tanta difficoltà a
confessare il suo peccato da indurlo a differire la sua confessione, come non ne
troverà maggiore ancora, quando questo peccato sarà passato in abitudine? Quando
coll’abitudine ne sentirà meno l’avversione e la malizia? Quando il suo cuore vi sarà
più attaccato e l’abito sarà più forte? “O male dilator”, “O cattivo indugiatore, gli
grida S. Agostino, tu ripeterai con più insistenza domani quello che vai dicendo oggi:
se ora non ti senti, se non hai voglia, ne avrai ancor meno in avvenire”.
E con ragione questo Santo Dottore diceva così, perché, come ho detto, quanto
più si va avanti nelle cattive abitudini, tanto più queste diventano prepotenti, cosicché
maggiore è lo sforzo che si richiede dalla volontà per potersene liberare.
Ricordate a questo proposito quanto è successo a Sansone, a quell’uomo così
forte, di cui si parla nella Storia Sacra.
La prima volta che Dalila, quella donna perversa che cercava di darlo nelle
mani dei Filistei e che egli nondimeno stoltamente amava, lo ha legato con nerbi
freschi e ancora umidi mentre dormiva, Sansone nello svegliarsi ha potuto facilmente
liberarsene e mettere in fuga i suoi nemici, che d’accordo con Dalila erano venuti per
imprigionarlo. Così pure la seconda volta quando Dalila lo ha legato con sette corde
nuove, non mai state adoperate: così pure la terza, quando ha intrecciato i capelli di
lui con della tela, che poi ha fissato con un grosso chiodo al pavimento. Ma quando
finalmente questa donna, venuta a conoscenza del segreto della forza di lui, gli ha
recisi i capelli mentre dormiva e lo ha legato, oh! allora Sansone non è più stato
capace a liberarsene, cosicché è caduto nelle mani dei suoi nemici, che, dopo averlo
accecato, lo hanno incatenato e fatto un loro schiavo.
La stessa cosa può capitare al cristiano, quando non si libera subito dal peccato
e vi dorme sopra. Quest’abitudine perniciosa, a guisa di Dalila con Sansone, viene
legandolo sempre di più: ogni peccato che commette è come una corda nuova che lo
stringe, conforme a quello che dice lo Spirito Santo nel libro dei Proverbi: “Funibus
peccatorum suorum constringitur impius”: “L’empio vien legato dalle corde delle sue
colpe” (Pr 5, 22); epperò nello svegliarsi dal letargo del suo peccato potrebbe
succedere anche a lui di non aver poi più la forza bastante per liberarsene e così, a
somiglianza di Sansone, verrebbe anch’egli a cadere nelle mani del suo nemico, il
demonio, il quale parimenti dopo averlo accecato nell’anima, lo farebbe suo schiavo.
Il peccato è come un grosso peso che uno porta sulle spalle. Come chi porta un
grosso peso e non lo posa mai, anzi l’aumenta ancora sempre, non va guari che si
sente stanco e gli mancano le forze, così chi ritarda a deporre per mezzo della
confessione il fardello delle sue colpe, che anzi con nuovi peccati aumenta ancora
sempre, finisce per trovarsi senza forza; la sua volontà di risorgere si affievolisce
sempre più, per poi mancare del tutto, che è appunto il terzo gravissimo pericolo a cui
si espone; potrebbe mancare la volontà.
Riconoscente dunque, o Fratelli e Figliuoli, quanto sia deplorevole il ritardo a
confessarsi, sia per lo stato miserando in cui si continua a rimanere, sia per i tre
pericoli gravissimi a cui uno si espone: potrebbe mancare il tempo, potrebbe mancare
la grazia, potrebbe mancare la volontà per la confessione. Lasciate perciò che io
scongiuri quanti si sono resi colpevoli di questo deplorevole ritardo e dica ad essi:
“Per carità, non continuate per questa strada che potrebbe condurvi all’eterna
perdizione; ma mentre siete ancora in tempo, provvedete quanto prima alla salute
eterna della vostra anima con una buona confessione. Ne avete appunto un’occasione
propizia in questi giorni. Siamo entrati in Quaresima, questo tempo di penitenza, e fra
poco saremo a Pasqua. Quale più bella occasione per accostarsi ai Sacramenti della
Confessione e della Comunione e così adempiere al vostro dovere di cristiani? Non
lasciatevi rimuovere da qualche difficoltà, il più delle volte soltanto apparente, che
potreste avere.
Si legge al capo 14 del libro dei Giudici che, mentre Sansone si recava alla città
di Tamnata per prendere parte ad un convito, per la strada s’incontrò in un leone, che
ruggendo cercava di impedirgli il passo: ma egli non si lasciò far paura dalla belva e,
forte come era, si avventò contro di lei ed in poco tempo la distese morta al suolo.
Dopo alcuni giorni ripassando per quella strada, con sua meraviglia trovò che nella
bocca di quel leone uno sciame di api vi aveva depositato del miele, che egli raccolse
e portò a casa, gustandone coi suoi genitori tutta la dolcezza.
A somiglianza di Sansone, anche voi dovrete fra poco prender parte ad un
convito: il convito è la Santa Comunione, chiamata appunto Sacrum Convivium. Ad
impedirvelo si presenterà innanzi a voi un altro leone ruggente, leo rugiens, come lo
chiama l’Apostolo S. Pietro. Non abbiate paura, affrontatelo con coraggio,
accostatevi ai Santi Sacramenti e nel ritornare a quella mensa eucaristica, a
somiglianza di Sansone, sentirete anche voi tutta la dolcezza di quel pane celeste di
cui vi siete nutriti, dolcezza che sarà pur gustata dai vostri cari.
In questa ferma fiducia, a chiusa della mia lettera non mi rimane che
raccomandarvi la preghiera e ripetervi con S. Paolo: “Sine intermissione orate”:
“Pregate senza alcuna interruzione (1Ts 5, 17). Alle preghiere consuete per il Papa,
per il Re, per il Capo del Governo, per le autorità tutte che ci reggono, unite in
quest’anno una preghiera quotidiana per i nostri soldati che combattono, affinché il
Signore li assista, li aiuti, li sostenga, infonda loro coraggio e li porti alla vittoria
finale, come è nella sicura attesa di tutti.
Certo che questa preghiera la farete, supplico il Signore a darvene la meritata
ricompensa, mentre con affetto paterno vi benedico in nome del Padre e del Figliuolo
e dello Spirito Santo. Così sia.
Alessandria, 24 Febbraio 1941, festa di S. Mattia ap.
+ Nicolao Milone, Vescovo
Can. B. Marchetto, Segretario