1941 Deplorevole ritardo
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1941 Deplorevole ritardo
Diocesi di Alessandria Lettera Pastorale di S. E. Monsignor Nicolao Milone Per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica Vescovo di Alessandria e Conte Abbate dei SS. Pietro e Dalmazzo Quaresima 1941 Deplorevole ritardo Al Venerabile Clero Ed ai dilettissimi figli della città e della diocesi Salute e benedizione nel Signore Fratelli e Figliuoli dilettissimi, Ogniqualvolta uscendo di casa, io passo vicino al monumento Rattazzi, eretto nella piazza centrale della nostra città, non posso fare ricordare un avvertimento ben salutare, che a questo nostro concittadino, ministro dell’interno, rivolgeva un giorno S. Giovanni Bosco. Ce lo di Urbano a meno di quando era riferisce il Sacerdote Don Francesia della Congregazione Salesiana nella Vita del suo Santo Fondatore. Il ministro Rattazzi, che stimava molto D. Bosco e ben volentieri si intratteneva con lui, lo aveva ricevuto una volta in udienza al Ministero. La conversazione era stata non solo cordiale ma ancora abbastanza lunga, perché ogni qual volta l’usciere entrava per annunziare qualche altra visita, mentre D. Bosco si alzava in piedi per andarsene, il ministro lo faceva di nuovo sedere ed all’usciere sempre rispondeva: “Dite, che aspettino”. Finalmente ad un certo punto D. Bosco credette bene di licenziarsi per non essere di troppo peso a quanti aspettavano per essere ricevuti: si alzò in piedi, salutò cortesemente il ministro; ma ecco, mentre si avvia verso la porta, il ministro lo segue, lo ferma e, prendendolo affettuosamente per una mano, gli ripete con insistenza: “D. Bosco, mi dica ancora qualche cosa”. D. Bosco allora lo fissa amorevolmente negli occhi e poi col suo fare bonario gli dice: “Eccellenza, pensate a salvare la vostra anima”. A quelle parole il ministro abbassa la fronte, stringe più forte la mano a D. Bosco, mentre due grosse lacrime gli scendono dagli occhi. Fratelli e Figliuoli, quantunque io non sia un S. Giovanni Bosco e voi non siate delle Eccellenze e dei ministri, tuttavia a voi, che come Rattazzi siete alessandrini, ho rivolto ultimamente anch’io lo stesso salutare ammonimento. Colla lettera pastorale dell’anno scorso ha infatti ricordato a tutti voi il grande dovere che avete di salvare la vostra anima, e ve ne dava ancora le principali ragioni col dimostrarvi che questo è l’affare più importante, che è l’unico nostro affare, che è un affare irrimediabile, che è un affare che dipende unicamente da noi, di modo che terminava la mia lettera dicendovi: “Una cosa sola è necessaria, la salute della nostra anima: salvata l’anima, tutto è salvato: perduta l’anima, tutto è perduto: dunque quest’anima ad ogni costo si salvi”. Sarà stato messo in pratica questo mio salutare ammonimento? Lo spero di sì da molti, i quali per assicurare la salute della propria anima avranno certamente cercato col più grande impegno, sia di liberarsi dal peccato, come di moltiplicare le loro opere buone. Da altri invece pur troppo! non ancora. Volete saperne la ragione? Non è che abbiano messo in dubbio qualcuna delle verità sopraccennate, ma unicamente perché, trovandosi in stato di peccato, per provvedere alla salute della loro anima avrebbero dovuto cominciare con una buona confessione. Ora questa confessione l’hanno sempre ritardata: da Pasqua l’hanno rimandata alla chiusa del mese di Maria, poi alla festa del S. Cuore, indi ai Santi, in seguito a Natale ed ora dopo un anno sono ancora allo stesso punto di prima per continuare ancora così per molti anni avvenire. Far conoscere a costoro quanto sia deplorevole il loro ritardo a confessarsi, ecco lo scopo di questa mia lettera pastorale. A questo fine colla solita semplicità di forma e di parola esamineremo brevemente due verità riguardo al peccatore che differisce la sua confessione: 1° Lo stato miserando in cui permane: 2° I pericoli gravissimi, a cui si espone: due considerazioni che lo devono spingere a provvedere al più presto alla salute della sua anima. Così la lettera pastorale di quest’anno sarà il completamento di quella dell’anno scorso. Cominciamo dalla prima. I P er poco che uno vi rifletta fa sempre grandemente stupire la stoltezza che ha dimostrato Faraone, quel re dell’Egitto, di cui si parla nella Storia Sacra. Questo re, come sapete, si era ribellato apertamente ad un comando avuto da Dio. A Mosè, che appunto a nome di Dio gli aveva ordinato di lasciare in libertà il popolo d’Israele, nella sua superbia aveva risposto: “Ma chi è questo Dio che io debba ascoltare la sua voce?”: “Quis est Dominus, ut audiam vocem eius?” (Es 5, 2). “Io non lo riconosco, non ne voglio sapere ed Israele non lo lascerò in libertà” “Nescio Dominum et Israel non dimittam” (Es 5, 2). Così aveva risposto quel superbo a Mosè che gli parlava a nome di Dio: ma Iddio di questa sua superbia ed arroganza l’aveva in seguito punito unitamente ai suoi sudditi con una serie di castighi ben terribili e spaventosi, conosciuti comunemente nella storia sotto il nome “le dieci piaghe d’Egitto”, di cui eccone le principali. Dal fiume Nilo era uscita una grande quantità di rane, le quali, penetrando in tutte le loro abitazioni, col loro continuo gracidare specialmente durante la notte impedivano a tutti il riposo. Al tormento delle rane si aggiungeva poco dopo quello delle tante grosse mosche e zanzare, le quali, posandosi sugli uomini e sugli animali, li tormentavano di continuo colle loro punture dolorose in modo da formare sui loro corpi altrettanti tumori, che non tardavano ad aprirsi in tante piaghe purulenti. In seguito una nebbia fittissima per tre giorni continui aveva talmente oscurato il sole da non più distinguersi il giorno dalla notte: era caduta una fittissima gragnola, che in poco tempo aveva distrutti tutti quanti i raccolti, alla quale erano succedute locuste voracissime che avevano ancora divorato ogni resto di vegetazione. Oltre a ciò in tutte le case, compresa quella di Faraone, era morto all’improvviso il figlio primogenito. Davanti a così terribili castighi Faraone, finalmente rientrato in se stesso, aveva mandato a chiamare Mosè e l’aveva pregato che ottenesse dal Signore di essere liberato da tutti quei mali. Allora Mosè, vedendolo pentito e pronto ad eseguire il comando di Dio, subito si è dimostrato disposto ad accondiscendere alla sua preghiera: epperciò, rivolto al re, così gli dice: “Constitue mihi quando deprecer pro te”: “Stabiliscimi pure quando io dovrò pregare per te” (Es 8, 9). Ma sentite la stoltezza, insensataggine di Faraone! Invece di rispondergli che lo faccia subito, che subito preghi per lui per essere liberato al più presto da sì terribili castighi, quel re invece gli dice che aspetti, che ritardi ancora, che rimandi all’indomani: “Respondit: Cras”: “Risponde: Domani” (Es 8, 10). Commentando questa risposta, S. Ambrogio, questo grande Dottore della Chiesa, non può a meno di restarne profondamente indignato ed è costretto ad esclamare: “Oh stolto ed insensato che è mai! Si vede da una parte colpito dai castighi di Dio, si trova circondato da fitte tenebre, disturbato continuamente non ha più un momento di riposo, sente le punture delle zanzare ad ogni istante, osserva il suo corpo ricoprirsi di piaghe, si vede privato del raccolto dei suoi campi, ha ancora innanzi ai suoi occhi il cadavere del suo figlio primogenito morto all’improvviso, … si vede dall’altra offerto nello stesso tempo il mezzo sicuro per liberarsi da quei castighi e da quei mali … ed egli non vuole ancora saperne, mette dei ritardi, rimanda tutto all’indomani: Respondit: Cras. Ma perché non rispondere: Hodie, dire oggi stesso, anzi subito, in questo momento? Si potrebbe trovare una stoltezza maggiore di questa?”. Così esclama S. Ambrogio, e così pure, ne sono sicuro, dite anche voi nel vostro cuore: anche voi condannate la condotta di Faraone in quella circostanza, costretti a riconoscere la stoltezza della sua risposta. Ebbene, non diversamente fa il cristiano peccatore, quando differisce la sua confessione. In causa del suo peccato, reo verso Dio della stessa colpa di Faraone, punito parimenti di consimili castighi, anch’egli si regola colla medesima stoltezza. Osservate se non è vero. Ogni qual volta un cristiano commette un peccato mortale, anch’egli a somiglianza di Faraone, trasgredisce la santa legge di Dio, non ne vuol sapere di un suo comando. Se non colle parole, col fatto però a somiglianza di quel re superbo anch’egli va ripetendo apertamente: Ma chi è Iddio che io abbia da ascoltarne la sua voce? Io non ne voglio sapere: Nescio Dominum. Non è quindi a stupire, se Iddio lo punisce cogli stessi terribili castighi. Caduto nel peccato, la sua anima, questa vigna eletta di Dio, vinea electa, a somiglianza delle campagne d’Egitto viene a perdere in un momento tutti i suoi frutti, il merito cioè di tutte le opere buone già compiute pel passato: sembra solo più ad un giardino, prima ripieno di fiori e ricolmo di frutti, ma che in seguito sia stato devastato da una curiosissima tempesta. È il Signore stesso che ce lo dice. Parlando del peccatore, ci fa sapere che non saranno più contate pel Paradiso tutte le opere buone già compiute in passato: “Omnes justituae, quas fecerat, non recordabuntur” (Ez 18, 24). Caduto nel peccato, a somiglianza di Faraone, anche questo cristiano non ha più pace e tranquillità. Come quel re in qualunque posto si trovasse era molestato dalle punture delle zanzare e disturbato dal gracidio delle rane, così il peccatore, dovunque si trovi, sia di giorno che di notte, sia da solo come in compagnia, sente sempre dentro di sé la puntura del rimorso e la voce della coscienza, che continuamente lo tormentano, lo straziano, lo rendono inquieto e agitato. In questo stato miserando, a somiglianza degli Egiziani, anch’egli non vede più il sole, il sole cioè della grazia, il sole della felicità: intorno a lui vi è l’oscurità della colpa, vi sono le tenebre del peccato, che gli impediscono di compiere opere meritorie pel Paradiso: vi è quella notte, in cui non è possibile il lavorare: “Venit nox, in qua nemo potest operari” (Gv 9, 4). Caduto nella colpa, macchiatosi del peccato, la sua anima, precisamente come il corpo degli Egiziani ricoperto di piaghe puzzolenti, si copre parimenti di una lebbra schifosa, che mentre la priva di quella grazia santificante che la rendeva candida e risplendente quasi angelo del Paradiso, le fa perdere il profumo dell’innocenza e della virtù e tramandare invece tutto all’intorno l’odore pestifero del vizio. Ferita a morte da questa colpa, quest’anima muore alla grazia, alla sua vita spirituale: per conseguenza anche questo cristiano viene parimenti a perdere questa figlia che gli appartiene, questa figlia primogenita. La sua condizione adunque è simile a quella di Faraone e del popolo Egiziano. Senonché, o mie cari, anche a questo cristiano, colpito da così terribili castighi, come un giorno a Faraone si presenta un altro Mosè che a nome di Dio è capace di liberarlo da questo stato miserando. Voi già sapete chi sia questo nuovo Mosè: è il Sacerdote, il Ministro di Dio là al tribunale della penitenza. Presentandosi al Confessore pentito sinceramente delle sue colpe e pregandolo che a nome di Dio lo assolva, il cristiano sa che il suo stato miserando cesserebbe in un momento. Non appena proferite dal Sacerdote le parole dell’assoluzione, “ego te absolvo a peccatis tuis”, la sua anima, questa figlia primogenita, morta alla grazia in causa del peccato, risusciterebbe a nuova vita: sarebbe in un istante libera dalla lebbra del peccato, riacquisterebbe l’ornamento della grazia di Dio e nello stesso tempo tutto il merito del bene già compiuto. Scomparse le tenebre causate dalla colpa, tornerebbe per lui a risplendere il sole della felicità ed il suo cuore godrebbe di nuovo la pace. Tutto questo egli lo sa e lo crede fermamente, perché è la fede che glie lo assicura. Sa che il Sacerdote, il Ministro di Dio è sempre pronto a riceverlo: sa che lo aspetta a braccia aperte là a quel tribunale di penitenza, da dove gli ripete di continuo le parole di Mosè: “Constitue mihi, quando deprecer pro te”: “Dimmi quando dovrò pregare per te per liberarli dal tuo stato così miserando?”. Ebbene, che cosa risponde a questo nuovo Mosè ed alle sue esortazioni il cristiano peccatore che differisce la sua confessione? A somiglianza di Faraone, invece di rispondere: Oggi, subito, anch’egli risponde: Domani, dimostrando così la medesima stoltezza di quell’antico re. Ma che cosa ho detto, la medesima stoltezza? Anzi una stoltezza ben peggiore. Quella di Faraone riguardava solamente la salute del suo corpo e la sua vita temporale, ma la stoltezza di questo cristiano riguarda la salute della sua anima, la sua vita spirituale ed eterna, e siccome l’anima è immensamente più preziosa che il corpo, ne viene per conseguenza che maggiore è la stoltezza, quando è quest’anima che si trascura. Faraone rimandava semplicemente all’indomani e non di più; ed infatti all’indomani Mosè pregava per lui e veniva liberato dai suoi castighi: ed invece tanti cristiani peccatori fino a quando rimandano la loro confessione? Dillo tu, o donna, che da molto porti nel cuore quella colpa che non ti decidi a confessare. Prima sempre lieta e contenta, frequente ai Santi Sacramenti, da quel giorno disgraziato, nel quale ti sei macchiata di quella colpa, non hai più avuto un momento di vera pace. Una voce segreta, insistente, importuna, la voce del rimorso si è fatta sentire nel fondo del tuo cuore: una voce che quando ti trovi sola, lontana dai rumori del mondo, la notte specialmente, continuamente ti accusa, ti rende inquieta, agitata, ti obbliga a sospirare ed a rimpiangere la felicità di prima. È ben vero che tante volte hai sentito il Sacerdote dal pulpito o dall’altare che ti invitava a fare la tua confessione: è ben vero che quest’invito l’hai ancora avuto dal buon esempio delle tue compagne, che vedevi accostarsi ai Santi Sacramenti, lo hai sentito tu stessa nel tuo cuore le tante volte: ma finora qual conto hai fatto di tutti questi inviti? Sono passate tante care feste, tante belle occasioni e tu è da mesi che trascuri di confessarti. Dillo tu, o uomo, che da molto hai la mamma e la compagna di tua vita che insistono di tanto in tanto e ti supplicano affinché tu confessi. Alle loro amorevoli esortazioni hai sempre trovato scuse per sfuggire ed ora sono già varii anni che ti trovi col peccato sulla coscienza, morto alla grazia di Dio. E non è forse questa la condotta di non pochi fra i cristiani? Mentre con un poco di buona volontà, in meno di un quarto d’ora, presentandosi al Confessore, potrebbero riavere la pace, liberare il cuore dal peso che li opprime, riacquistare i loro meriti, risuscitare a nuova vita la loro anima, riconciliarsi con Dio … ed essi sempre ritardare, rimandare la Confessione da un anno all’altro! Ma dove è quell’ammalato, che sapendo che vi è un medico capace di guarirlo da quella malattia che tanto lo fa soffrire, non va subito a consultarlo per averne la medicina salutare? Dove è quel prigioniero, stretto da catene, rilegato in fondo ad un carcere, che assicurato che il suo re è pronto a perdonarlo, purché chiami perdono del suo delitto al ministro che gli invia a visitarlo, non si getta subito ai piedi dell’inviato del re per invocare quel perdono che gli aprirebbe la prigione e lo rimetterebbe in libertà? Dove è quel navigante che, assalito in alto mare da curiosissima tempesta che sta per colare a fondo il suo bastimento, non si getta subito su qualche tavola di salvamento e così arrivare ancora sano e salvo fino in porto? Ebbene, è proprio questo il caso nostro. Il Sacerdote al tribunale di penitenza è veramente il medico che ci guarisce dalla malattia del peccato, e la Confessione ne è la medicina. Il Sacerdote è il Ministro del perdono che Iddio ci manda a liberarci dalle catene del peccato. Infine la confessione, chiamata appunto secunda post naufragium tabula, è la tavola di salvamento per chi nel mare burrascoso di questo mondo ha avuto la disgrazia di far naufragio spirituale. Vedete adunque, come per lo stato miserando in cui volontariamente vuol perseverare, sia veramente da chiamarsi deplorevole ritardo quello del cristiano che, caduto nel peccato, non va a confessarsi al più presto e rimanda sempre la sua confessione. II A lla stessa conclusione si arriva, se noi in secondo luogo, come ho detto, consideriamo i pericoli gravissimi a cui il peccatore si espone col differire la sua confessione. Questi pericoli sono tre, di cui il primo è, che a far questa confessione gli potrebbe mancare il tempo a) – Al peccatore, che ritarda a riconciliarsi col Signore S. Caterina da Siena era solita a ripetere: “Tu aspetti il tempo, ma il tempo, non aspetta te”. Ed aveva ragione di dire così, perché, che cosa è mai la nostra vita, da che cosa dipende? Si legge nella Sacra Scrittura che, quando là a Babilonia il profeta Daniele, privo d’ogni sorta di cibo, si trovava rinchiuso nella fossa dei leoni, un angelo è comparso nella Giudea al profeta Abacuch mentre portava il pranzo ai mietitori ed a nome di Dio gli ha ordinato che portasse invece quel pranzo a Daniele in Babilonia. Ma, rispondendo il profeta: “Io non ho mai visto Babilonia e non so dove si trova la fossa dei leoni”: “Babylonem non vidi et lacum nescio” (Dn 14, 35), quell’angelo per ordine di Dio lo ha preso per i capelli, lo ha sollevato in aria e tenendolo in questo modo, lo ha trasportato fino a Babilonia ad eseguire il comando di Dio e poi, sempre sostenendolo per i capelli, lo ha riportato al luogo di prima, a Gerusalemme: “Apprehendit eum Angelus Domini in vertice et portavit capillo capitis sui” (Dn 14, 35). Durante adunque questo viaggio, tanto nell’andata come nel ritorno, la vita di quel profeta dipendeva ben da poco: guai se si fossero strappati i suoi capelli! Guai se quell’angelo avesse aperta per un momento la sua mano! Il profeta sarebbe andato incontro ad una morte repentina ed inevitabile. Fratelli e Figliuoli, non diversamente è di noi tutti in questo nostro viaggio da questa terra verso il cielo, da questa specie di Babilonia verso la Gerusalemme celeste. La nostra vita, quella vita sulla quale molti fanno tanto assegnamento, precisamente come quella di quel profeta, dipende ben da poco: oh! guai anche per noi, se si strappa quel capello, quel filo così debole da cui dipende tutta la nostra vita; guai se il Signore ci toglie la sua mano da sulla testa: anche noi andiamo incontro ad una morte subitanea ed improvvisa. E questo, notatelo bene, o Fratelli e Figliuoli, non solo in qualche speciale circostanza, ma ad ogni istante, ad ogni momento della nostra vita. Sì, persuadiamoci pure e non facciamoci illusioni: la morte ci sta sempre da vicino, cammina sempre ai nostri fianchi, pronta ad ogni istante a recidere colla sua falce il filo della nostra vita ed a vibrarci il suo colpo fatale. Per morire non è necessario che, colpita fa qualche bomba nemica, precipiti a terra la nostra casa di abitazione e venga a seppellirci fra le sue rovine: non è necessario che un forte terremoto venga ad aprirci sotto ai piedi la terra ed a sprofondarci nelle sue voragini: non è necessario che un esercito nemico penetri notte tempo nella nostra città o nel nostro paese e, pigliandoci all’improvviso, ci faccia passare tutti a fil di spada: non è necessario che si propaghi una malattia mortale e contagiosa, che in poco tempo ci mieta fra le sue vittime. No, la morte ci è molto più famigliare, la portiamo con noi: le stesse cose che servono alla vita possono servire alla morte. Il cibo che ci nutre, l’acqua che beviamo, l’aria medesima che respiriamo possono essere benissimo la causa della nostra morte. Un istante solo e la nostra vita è finita; cessa il nostro respiro, cessano i battiti del nostro cuore. Ecco che cosa sia mai la nostra vita: come ci dice lo Spirito Santo, è come un fiore, rigoglioso se volete, che lungo una strada fa bella mostra delle sue tinte e dei suoi colori, ma che strappato dal primo che vi passa, non tarda ad appassire ed a seccare: è come una nuvola risplendente, indorata se volete dai raggi del sole, ma che al primo soffio di vento subito scomparisce. E quanti esempi nella Sacra Scrittura non ci ricordano ad ogni istante questa grande verità? Quanti non ne vediamo morire all’improvviso, nel momento stesso in cui meno vi pensano? Mentre il re Baldassarre si trova nell’allegria di un convito, compare una mano misteriosa che là sulla parete della sala scrive la sua sentenza di morte: ciò nonostante si continua a banchettare ed ecco in quella stessa sera e in quel medesimo luogo Baldassarre e tutti i suoi vengono uccisi dall’esercito di Ciro, penetrato vittorioso nella città. Mentre Faraone, quel re d’Egitto di cui vi ho già parlato, nella sua superbia va ripetendo ad alta voce: “Voglio vendicarmi io di quel popolo d’Israele, che contro la mia volontà se ne parte dal mio regno” ed intanto coi suoi soldati insegue gli Ebrei fin dentro il mar Rosso pel sentiero aperto miracolosamente da Dio al suo popolo, quelle acque toccate dalla verga di Mosè tornano a riunirsi e Faraone con tutti i suoi incontra la morte in mezzo a quelle onde. Mentre il gigante Golia s’avanza contro il pastorello Davide quasi disdegnando di combattere contro un giovanetto, armato solo di un bastone e di una fionda, ecco che una pietra scagliata con forza dal suo giovane avversario lo colpisce in fronte ed egli cade a terra tramortito e gli vien tagliata la testa. Tanto la morte inganna e può prendere all’improvviso! Quanti uomini empi muoiono improvvisamente come Acan con le mani ancora piene della roba degli altri? (Gs 7, 24) Quanti disonesti, come Cosbi e come Zambri, sono colpiti da morte subitanea nell’atto stesso del peccato? (Nm 25, 8). E se per disgrazia capitasse anche così al cristiano che vive nel peccato? Dove allora troverebbe il tempo per fare una buona confessione e così provvedere alla salute eterna della sua anima? “C’è tempo”, egli va stoltamente ripetendo: c’è tempo, diceva anche quel tale, c’è tempo; ed intanto gli si strappava nel suo interno un’arteria, una vena ed in pochi minuti se ne partiva per l’altra vita: c’è tempo, diceva anche quell’altro, c’è tempo; ed intanto colpito da un sincope cardiaca cadeva a terra esanime: c’è tempo diceva anche quel terzo, c’è tempo; ed intanto caduto in una grave malattia, che in poco tempo gli toglieva la cognizione e la parola, moriva senza poter aggiustare le partite della sua anima macchiata di peccato. C’è tempo, c’è tempo! Oh! parole ingannatrici che sono la causa per la quale tanti sono adesso all’eterna perdizione; parole che addormentano il peccatore sull’orlo del precipizio, che non gli lasciano provvedere al suo stato deplorevole, che lo trascinano all’inferno; parole che saranno il suo tormento, la sua disperazione per tutta quanta l’eternità. Ecco il primo gravissimo pericolo a cui si espone il peccatore col ritardare la sua confessione, A provvedere con tal mezzo alla salvezza della sua anima gli potrebbe mancare il tempo. b) – Ad un secondo pericolo non meno grave si espone il peccatore che differisce sempre la sua confessione e la sua conversione a Dio, ed è che, quantunque non gli mancasse poi il tempo, però gli potrebbe mancare la grazia Il convertirsi a Dio infatti è un’opera che appartiene più a Dio, che all’uomo. È vero che da parte dell’uomo è necessaria la sua cooperazione alla grazia affinché la sua conversione si effettui: ma questa conversione del cuore, questa sincera penitenza è unicamente Iddio che la inspira e che colla sua grazia la rende efficace, conforme a quello che ha detto Gesù nel Vangelo: “Nemo venit ad me, nisi Pater traxerit eum”: “Vi è nessuno che venga a me e si converta, se Iddio, il mio Padre celeste, non lo attira colla sua grazia” (Gv 6, 44). Ora Iddio questa grazia la concede sempre a tutti? Non vi ha dubbio che, se si tratta di quella prima grazia che dai Teologi vien chiamata grazia sufficiente e che consiste in un’illuminazione dell’intelletto ed in un eccitamento della volontà in ordine alla vita soprannaturale ed alla vita eterna, la risposta deve essere affermativa. Questa grazia Iddio la concede sempre a tutti, nessuno escluso, perché Egli vuole che tutti si salvino, e noi sappiamo che la salute eterna non si può ottenere senza la grazia divina. Se molte volte questa grazia non raggiunge il suo effetto salutare, è unicamente perché l’uomo, che sotto l’influsso della grazia rimane sempre libero, non vi corrisponde o vi pone qualche ostacolo. Ma se si tratta di qualcuna delle altre grazie successive con cui Dio cerca di smuovere il peccatore dal suo letargo ed indurlo a mutar vita, possiamo ancora dire la stessa cosa? Oh! io non voglio qui esagerare il timore al peccatore e nello stesso tempo far torto all’infinita bontà e misericordia di Dio. La bontà di Dio è grande, immensa, infinita e non sta certamente a noi fissare dei limiti alla sua misericordia. Sappiamo però che, quantunque la sua bontà sia infinita, ha fissato il numero e la misura delle sue grazie a ciascuno di noi in particolare. Vi ha un tempo, in cui Iddio, a somiglianza di un buon pastore, va in cerca della pecorella smarrita, e con grande suo disagio e fatica va aggirandosi per ogni luogo chiamandola ad alta voce, e se ai suoi ripetuti richiami la sente rispondere belando, subito accorre a lei, se la prende sulle spalle, la porta giubilante all’ovile ed invita i suoi amici ed i vicini a far festa con lui; ma vi è anche un tempo, nel quale dice: “Allora mi invocheranno ed io non li esaudirò più”: “Tunc invocabunt me et non exaudiam” (Pr 1, 28). Vi ha un tempo in cui fa cercare Saulle dal profeta Samuele e lo fa ungere a re del suo popolo; ma vi è anche un tempo nel quale scaccia questo re dalla sua presenza, lo rigetta e proibisce persino a Samuele di intercedere in suo favore. Vi ha un tempo in cui Gesù colle finezze del suo amore cerca di far rientrare in se stesso il perfido Giuda, l’apostolo traditore, e là nel Cenacolo lo ammette alla mensa, lo comunica di sua mano, lo avvisa con dolcezza, gli lava persino i piedi, là nell’orto di Getsemani lo chiama col bel nome di amico e si lascia baciare da lui; ma vi è anche un tempo, nel quale allontana da lui la sua faccia e lo abbandona alla più funesta disperazione. Così vi è un tempo nel quale Iddio concede molte grazie particolari al peccatore per la sua conversione, ma vi è ancora un tempo in cui queste grazie Egli non le concede più. Iddio ripeterà allora ai peccatori: “Quaeretis me et in peccato vestro moriemini”: “Voi mi cercherete, ma vi toccherà morire nel vostro peccato” (Gv 8, 21). Sarà passato allora il tempo della sua misericordia e vi succederà quello terribile e spaventoso della sua giustizia.. Ma quando verrà questo tempo per ciascheduno di noi in particolare? Quando non ci sarà più dato contare sugli aiuti speciali della grazia di Dio? Oh! qui è veramente il caso di esclamare coll’Apostolo S. Paolo: “Quam incomprehensibilia judicia eius et investigabiles viae eius!”: “Come sono incomprensibili i giudizi del Signore ed investigabili le sue vie!” (Rm 11, 33). Sono segreti che appartengono a Lui solo e che l’uomo non potrà mai arrivare a conoscere. Gerusalemme dopo l’ascensione di Gesù al cielo, per quarant’anni ancora si è sentito ripetere l’invito dei suoi profeti: “Jerusalem, Jerusalem, convertere ad Dominum Deum tuum” ma poi quegli inviti sono cessati e Gerusalemme è andata incontro al suo castigo, alla più completa distruzione. Faraone, il re dell’Egitto, è stato invitato dieci volte ad arrendersi al comando di Dio e dopo è stato abbandonato nella sua ostinazione, che lo portò a perire con tutti i suoi soldati nelle acque del mar Rosso. Felice, il giudice di S. Paolo, ha sentito per due anni la voce del Signore e poi questa voce per lui è cessata. Quel giovane, di cui si parla nel Vangelo, è stato chiamato una sola volta: “Vieni e seguimi”, gli ha detto Gesù: ha esitato e non ha più avuto il secondo invito. Ora, e se mai col ritardare, il peccatore venisse a sorpassare questo tempo che Iddio gli ha fissato per usargli misericordia? Come potrà allora avere ancora la sua grazia, quella grazia che gli è necessaria, per fare una buona confessione con cui provvedere alla salvezza dell’anima sua? Alcuni di voi conoscerete già certamente la disgrazia, che successe un giorno alla Sposa dei Sacri Cantici. Riferiamola in gran parte colle sue medesime parole, riportate dal Capo 5 del cantico dei Cantici. “Io dormiva tranquillamente nel mio letto, quando nella notte vengo svegliata da ripetuti colpi alla porta. Alzo la testa e mi accorgo che chi bussa è il mio Sposo; sento infatti la sua voce che mi chiama coi nomi più affettuosi: Aperi mihi, soror mea, amica mea, columba mea, immaculata mea: aprimi, o mia sorella, o mia amica, o mia colomba, o mia immacolata. Ancora mezza addormentata gli rispondo: Sono già a letto e mi sono già spogliata della mia tunica e delle altre mie vesti: come farò ora ad alzarmi ed a vestirmi di nuovo? Andando a letto ho lavato i miei piedi: come tornerò adesso a sporcarli? Expoliavi me tunica mea, quomodo induar illa? Lavi pedes meos, quomodo inquinabo illos? Ma seguitando lo Sposo a bussare, finalmente mi decido: mi alzo per andargli ad aprire, surrexi, ut aperiem dilecto meo: ma quando ho aperta la porta, ille declinaverat atque transierat, lo Sposo non vi era più e si era allontanato per quel poco che l’aveva fatto aspettare. Allora nella mia grande afflizione l’ho cercato dappertutto e non l’ho più trovato, l’ho chiamato e non mi ha risposto: quaesivi et non inveni illum, vocavi et non responsdit mihi”. La stessa cosa con più ragione può capitare a chi, invitato ripetutamente da Dio ad alzarsi dal suo stato di peccato, non lo fa prontamente e rimanda sempre la sua confessione. Anche Dio potrebbe allontanarsi da lui e lasciargli mancare la sua grazia, quando finalmente decidesse di farlo. Ecco il secondo pericolo al quale va incontro il peccatore che rimanda sempre la sua confessione: potrebbe mancargli la grazia. c) – Ma non basta ancora, o miei cari. A questi due percoli dobbiamo ancora aggiungere un terzo di non minore importanza ed è, che al peccatore per confessarsi, quantunque non mancasse poi il tempo, non mancasse poi la grazia, potrebbe mancare la volontà Caduto nel peccato, il cristiano sa che per liberarsene e così assicurare la salute della sua anima deve fare una buona confessione. Di questo ne è convinto ed al presente ne avrebbe la volontà di farla, solo che per negligenza o per qualche difficoltà ben sovente soltanto immaginaria la rimanda sempre ad un tempo avvenire. Ma allora, dimando io, l’avrà poi ancora questa volontà di confessarsi? Ah! Che tanto fa temere che questa buona volontà abbia da scomparire totalmente. Attendete, se non è vero. Quantunque costituiti da Dio liberi e padroni dei nostri atti ed operazioni, è però una verità confermata dalla nostra stessa esperienza che l’abitudine influisce molto su di noi. L’uomo vive di abitudini: l’abitudine ci rende come altrettanti schiavi, cosicché quanto più siamo abituati ad una cosa, tanto più troviamo difficile a lasciarla. Che se questo è vero parlando in generale di qualsiasi sorta di abitudini, è verissimo soprattutto riguardo alle cattive a causa dell’inclinazione al male lasciataci dal peccato originale. Dalle abitudini cattive sempre difficile la correzione: quanto più dura questa abitudine e tanto più si fa fatica a lasciarla. Stabilito questo, se al presente il peccatore incontra già tanta difficoltà a confessare il suo peccato da indurlo a differire la sua confessione, come non ne troverà maggiore ancora, quando questo peccato sarà passato in abitudine? Quando coll’abitudine ne sentirà meno l’avversione e la malizia? Quando il suo cuore vi sarà più attaccato e l’abito sarà più forte? “O male dilator”, “O cattivo indugiatore, gli grida S. Agostino, tu ripeterai con più insistenza domani quello che vai dicendo oggi: se ora non ti senti, se non hai voglia, ne avrai ancor meno in avvenire”. E con ragione questo Santo Dottore diceva così, perché, come ho detto, quanto più si va avanti nelle cattive abitudini, tanto più queste diventano prepotenti, cosicché maggiore è lo sforzo che si richiede dalla volontà per potersene liberare. Ricordate a questo proposito quanto è successo a Sansone, a quell’uomo così forte, di cui si parla nella Storia Sacra. La prima volta che Dalila, quella donna perversa che cercava di darlo nelle mani dei Filistei e che egli nondimeno stoltamente amava, lo ha legato con nerbi freschi e ancora umidi mentre dormiva, Sansone nello svegliarsi ha potuto facilmente liberarsene e mettere in fuga i suoi nemici, che d’accordo con Dalila erano venuti per imprigionarlo. Così pure la seconda volta quando Dalila lo ha legato con sette corde nuove, non mai state adoperate: così pure la terza, quando ha intrecciato i capelli di lui con della tela, che poi ha fissato con un grosso chiodo al pavimento. Ma quando finalmente questa donna, venuta a conoscenza del segreto della forza di lui, gli ha recisi i capelli mentre dormiva e lo ha legato, oh! allora Sansone non è più stato capace a liberarsene, cosicché è caduto nelle mani dei suoi nemici, che, dopo averlo accecato, lo hanno incatenato e fatto un loro schiavo. La stessa cosa può capitare al cristiano, quando non si libera subito dal peccato e vi dorme sopra. Quest’abitudine perniciosa, a guisa di Dalila con Sansone, viene legandolo sempre di più: ogni peccato che commette è come una corda nuova che lo stringe, conforme a quello che dice lo Spirito Santo nel libro dei Proverbi: “Funibus peccatorum suorum constringitur impius”: “L’empio vien legato dalle corde delle sue colpe” (Pr 5, 22); epperò nello svegliarsi dal letargo del suo peccato potrebbe succedere anche a lui di non aver poi più la forza bastante per liberarsene e così, a somiglianza di Sansone, verrebbe anch’egli a cadere nelle mani del suo nemico, il demonio, il quale parimenti dopo averlo accecato nell’anima, lo farebbe suo schiavo. Il peccato è come un grosso peso che uno porta sulle spalle. Come chi porta un grosso peso e non lo posa mai, anzi l’aumenta ancora sempre, non va guari che si sente stanco e gli mancano le forze, così chi ritarda a deporre per mezzo della confessione il fardello delle sue colpe, che anzi con nuovi peccati aumenta ancora sempre, finisce per trovarsi senza forza; la sua volontà di risorgere si affievolisce sempre più, per poi mancare del tutto, che è appunto il terzo gravissimo pericolo a cui si espone; potrebbe mancare la volontà. Riconoscente dunque, o Fratelli e Figliuoli, quanto sia deplorevole il ritardo a confessarsi, sia per lo stato miserando in cui si continua a rimanere, sia per i tre pericoli gravissimi a cui uno si espone: potrebbe mancare il tempo, potrebbe mancare la grazia, potrebbe mancare la volontà per la confessione. Lasciate perciò che io scongiuri quanti si sono resi colpevoli di questo deplorevole ritardo e dica ad essi: “Per carità, non continuate per questa strada che potrebbe condurvi all’eterna perdizione; ma mentre siete ancora in tempo, provvedete quanto prima alla salute eterna della vostra anima con una buona confessione. Ne avete appunto un’occasione propizia in questi giorni. Siamo entrati in Quaresima, questo tempo di penitenza, e fra poco saremo a Pasqua. Quale più bella occasione per accostarsi ai Sacramenti della Confessione e della Comunione e così adempiere al vostro dovere di cristiani? Non lasciatevi rimuovere da qualche difficoltà, il più delle volte soltanto apparente, che potreste avere. Si legge al capo 14 del libro dei Giudici che, mentre Sansone si recava alla città di Tamnata per prendere parte ad un convito, per la strada s’incontrò in un leone, che ruggendo cercava di impedirgli il passo: ma egli non si lasciò far paura dalla belva e, forte come era, si avventò contro di lei ed in poco tempo la distese morta al suolo. Dopo alcuni giorni ripassando per quella strada, con sua meraviglia trovò che nella bocca di quel leone uno sciame di api vi aveva depositato del miele, che egli raccolse e portò a casa, gustandone coi suoi genitori tutta la dolcezza. A somiglianza di Sansone, anche voi dovrete fra poco prender parte ad un convito: il convito è la Santa Comunione, chiamata appunto Sacrum Convivium. Ad impedirvelo si presenterà innanzi a voi un altro leone ruggente, leo rugiens, come lo chiama l’Apostolo S. Pietro. Non abbiate paura, affrontatelo con coraggio, accostatevi ai Santi Sacramenti e nel ritornare a quella mensa eucaristica, a somiglianza di Sansone, sentirete anche voi tutta la dolcezza di quel pane celeste di cui vi siete nutriti, dolcezza che sarà pur gustata dai vostri cari. In questa ferma fiducia, a chiusa della mia lettera non mi rimane che raccomandarvi la preghiera e ripetervi con S. Paolo: “Sine intermissione orate”: “Pregate senza alcuna interruzione (1Ts 5, 17). Alle preghiere consuete per il Papa, per il Re, per il Capo del Governo, per le autorità tutte che ci reggono, unite in quest’anno una preghiera quotidiana per i nostri soldati che combattono, affinché il Signore li assista, li aiuti, li sostenga, infonda loro coraggio e li porti alla vittoria finale, come è nella sicura attesa di tutti. Certo che questa preghiera la farete, supplico il Signore a darvene la meritata ricompensa, mentre con affetto paterno vi benedico in nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Alessandria, 24 Febbraio 1941, festa di S. Mattia ap. + Nicolao Milone, Vescovo Can. B. Marchetto, Segretario