Lo psicologo dell`emergenza

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Lo psicologo dell`emergenza
PSICOLOGIA
Lo psicologo
dell’emergenza
L’esperienza di una veronese, che ha vissuto una settimana
a S. Felice sul Panaro
D
opo gli eventi sismici di fine maggio scorso - nei territori delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto – all’interno
dei campi allesititi dalla Protezione Civile hanno
operato anche gli psicologi dell’emergenza.
Ne parliamo appunto con uno psicologo dell’emergenza, la Dott.ssa Loretta Berti che da Verona
è partita per lavorare con la Protezione Civile a
San Felice sul Panaro, nel campo affidato alla Regione Veneto.
Chi è lo psicologo dell’emergenza?
Si potrebbe definirlo un professionista dell’emergenza, uno psicologo che è membro di un’associazione di volontariato, iscritta nelle liste delle associazioni di Protezione Civile (PC). Io, per esempio,
appartengo all’associazione Psicologi per i Popoli
del Veneto, sezione regionale della Federazione
nazionale. Si parte da Verona, Padova, Belluno e
Vicenza quando è attivato il nostro intervento dal
Dipartimento di PC nazionale.
È uno psicologo preparato a portare con sè competenza professionale, ma in concreto - per avere le
mani libere e lavorare al fianco dei colleghi dell’emergenza (tecnici, logisti, sanitari, ecc.) - anche di-
sposto a portare lo zaino carico di abiti adatti, scarpe e tutto ciò che serve “sul campo”.
Lo psicologo dell’emergenza utilizza modelli di conoscenza profonda del funzionamento psicologico dell’individuo, della comunità e dei soccorritori
coinvolti in un evento critico (disastro, calamità naturale, incidente). L’intervento mira a favorire il ritorno all’equilibrio compromesso, a prevenire la comparsa di problemi psicologici conseguenti all’evento.
Ancora, aiuta a comprendere cosa sta succedendo,
cosa mi sta succendendo e cosa posso fare. Per esempio, insieme allo psicologo si può dare significato alla
paura, ciò che permette di chiedere aiuto quando è
importante saperlo fare, ma si può anche pensare a
quali risorse si hanno da utilizzare.
Cosa ti ha spinto ad interessarti di psicologia
dell’emergenza?
Conclusa la mia formazione universitaria, ho incrociato - a dire le verità quasi per caso - un master ed
esperienze professionali, che mi hanno permesso di
familiarizzare con strumenti e colleghi della psicologia
dell’emergenza. A distanza di anni, ancora mi sento a
mio agio a lavorare con lo zaino e mi sento utile quando vedo gli effetti di questo tipo di intervento”.
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Ci descrivi lo zaino?
L’importante è prepararlo bene perché, un peso eccessivo impedisce di camminare!
È uno zaino sempre pronto, pensato per tempo e in
gruppo. Ma è preparato senza conoscere la destinazione: bambini, ragazzi, adulti, anziani, ingegneri, vigili del fuoco, cuochi, infermieri....con chi e a
fianco di chi dovrò fare lo psicologo? E che psicologo dovrò essere? E dove?
Avrò bisogno della capacità di osservazione psicologica e psicosociale, per individuare le persone più
in difficoltà, ma anche chi può essere una risorsa
per la comunità colpita. Devo poter entrare in contatto con delicatezza ma rapidità, con la sofferenza
e il bisogno di supporto. Non può mancare la competenza nel lavoro di équipe multiprofessionale
che in emergenza, anche per lo psicologo, diventa
squadra. Insomma, lo psicologo deve sapersi muovere all’interno dell’organizzazione dei soccorsi, co72 : settembre, ottobre 2012
noscerne ed utilizzarne la terminologia, per poter
lavorare e, importantissimo, per non intralciare.
Tornando allo zaino, per alleggerirlo posso lasciare
a casa la mia competenza di psicoterapeuta perchè
in un turno non c’è tempo, nè poltrona idonea ad
una psicoterapia. Anzi, è importante ricordarsi di
lasciare un po’ di spazio perchè quando si usa lo
zaino si arricchisce l’esperienza e ci si porta a casa
sempre qualcosa di importante.
É uno zaino, infine, da tenere sempre pronto, anche se ci si augura di non doverlo usare mai.
A giugno però è servito
Si, a fine giugno sono stata una settimana a Campo Piscina, uno dei cinque campi di accoglienza per
la popolazione nel comune di San Felice sul Panaro.
Sono arrivata con una collega un sabato mattina, alla
quarta settimana di presenza della mia associazione
in uno spazio che ospitava circa 300 persone. Insieme
a noi è arrivato anche il cambio per la squadra dei volontari, quindi un po’ di tempo lo abbiamo dedicato al
passaggio di consegne da parte dei colleghi in partenza e a “dare un primo sguardo”. Mi sono subito resa
conto che c’erano tanti sguardi ad incrociarsi.
Mi ha colpito il gran numero di bambini, che nonostante il caldo giocava in quella che dava l’idea di essere la piazza, dove tutti si passa e tutti ci si ritrova. È
proprio lì, di fianco alla segreteria, di fronte alla tenda
mensa, alla tenda per i giochi dei bambini e alla tenda
per l’incontro degli adulti, c’era anche la postazione
degli psicologi. Qualche sedia da campeggio, un paio
di tavolini e un po’ di riparo dal sole cocente creano
uno spazio accogliente, attorno al quale ruota gran
parte del lavoro degli psicologi. Qui si può raccontare
il proprio terremoto, si può chiedere “ma è normale
che....?” o “come posso fare a...?”, e quando le risposte
non ci sono, si trova qualcuno con cui condividere
l’attesa. Qui c’è anche lo spazio per inventarsi nuove
abitudini che scandiscono il giorno e rendono il campo più familiare. C’è il momento dei mattinieri che
danno il buongiorno, delle mamme con i passeggini,
della lettura dei quotidiani, delle signore della partita
a carte dopo pranzo, dei bambini che si fermano a
disegnare, delle due chiacchiere a fine giornata e della
buonanotte dei ragazzi più giovani, che rientrano in
campo dopo una serata con gli amici in paese.
Quando si arriva sul campo per il turno, un pensiero è chiaro: “abbiamo solo una settimana”...lo sappiamo noi, che poi torniamo a casa, e lo sanno loro,
che hanno già visto nuovi amici ripartire.
La cosa strana è che nel campo siamo veloci solo a
fare amicizia, perchè in realtà tutto rallenta. Sono
lente le code per la mensa, per la doccia, le attese di
risposta dalla segreteria, dalle verifiche di agibilità.
Noi e loro: nel campo ci sono due gruppi?
Già, inevitabile...noi che abbiamo scelto di dormire in
tenda e loro no. Noi che abbiamo portato il necessario
per una settimana e loro che non sanno bene di cosa
possono disporre e per quanto tempo dovrà bastare.
Eppure è una condivisione forte, le emozioni ti entrano dentro anche se non vuoi, anche se non te ne
accorgi. E poi le porti con te…
Una parola per rappresentare l’esperienza?
Intensità. Come professionista è stata intensa l’agenda per numero di colloqui, gruppi, riunioni,
scambi con i “colleghi soccorritori.
Come persona, è stata una settimana intensa per
quantità e qualità di incontri, quelli veri, nei quali si
entra subito nel vivo, senza tanto girarci intorno.
Dott.ssa Loretta Berti
[email protected]
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