Untitled - Almagesto dello Smeraldo
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Untitled - Almagesto dello Smeraldo
Nel fortino di Camelot i coloni romani, dopo la ritirata delle legioni, resistono agli assalti delle tribù barbare. Il nuovo comandante dell'insediamento è Merlino Britannico, un capo giusto e capace, e tutti, celti e romani, si affidano a lui. Al suo fianco il cugino Uther Pendragon, futuro padre di Artù. I due valorosi condottieri sono nati lo stesso giorno e la loro amicizia ha radici salde e profonde. Sono come le due facce di una stessa moneta: Uther è il guerriero instancabile, Merlino il sottile stratega. Finché saranno insieme nessuno riuscirà a impadronirsi di Camelot. Ma un crimine esecrabile, un gesto che attenta alla vita stessa di Merlino, traccerà un solco profondo tra di loro e metterà a repentaglio la sopravvivenza della Colonia e il futuro dell'intera nazione britannica. www.edizpiemme.it Jack Whyte è poeta, regista cinematografico e romanziere. Nato in Scozia, vive da molti anni in Canada. Ha raggiunto uno straordinario successo con Le Cronache di Camelot, ormai considerate un bestseller in tutto il mondo. A questo ciclo appartengono anche i titoli La pietra del cielo, La spada che canta, Il sogno di Merlino, Il forte, sul fiume, Il segno di Excalibur, Le porte di Camelot e La donna di Avalon. L'autore sta lavorando a una nuova appassionante serie dedicata a Lancillotto, di cui è già disponibile in Italia il primo titolo: Il cavaliere di Artù. Della serie Le Cronache di Camelot hanno detto: «Una storia semplicemente straordinaria.» Rosamunde Pilcher «Uno splendido leggenda.» mix di realtà storica e La Stampa In sovraccoperta: Illustrazione di Silvia Fusetti VOLUME DLB 150 Titolo originale dell'opera: The Eagles' Brood © 1994, 1997 by Jack Whyte © 2005 Edizioni Piemme Economica © 1999 - EDIZIONI PIEMME S.p.A. 15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5 Tel. 0142/3361 - Fax 0142/74223 ISBN: 88-384-1024-0 www.edizpiemme.it Stampa: Rotolito Lombarda, Via Roma 115, Pioltello (Milano) A mia moglie, Beverley La leggenda della pietra caduta dal cielo Dal cielo notturno cadrà una pietra che cela una fanciulla nata da profondità tenebrose, una fanciulla i cui femminili misteri, nutriti dal fuoco, daranno vita a una spada scintillante, baluginante. Una spada fiammeggiante e splendente la cui potenza genera guerrieri. Ma quest'arma conterrà anche le astuzie di una donna e traccerà terribili fatti di uomini; darà il nome a un'epoca; incoronerà un re, che prenderà il nome da un popolo della montagna, che crede di essere stato generato dal seme di un drago; uomini vigorosi e feroci, eroici, prodi e forti, e nelle loro anime vi è grandezza. Questo re, questo monarca, potente oltre l'immaginabile, forgiato nella gloria, cantando un canto di spade, confondendo i mortali con magica follia, darà vita a una leggenda, e tuttavia non lascerà nessuno a condurre al trionfo il suo esercito dopo di lui. Ma la morte non svilirà mai il suo destino che, non morendo, vivrà per sempre, per essere ricordato. Nomi geografici La terra che i Romani chiamavano Britannia era soltanto la terra che noi oggi chiamiamo Inghilterra. La Scozia, l'Irlanda e il Galles erano separate e venivano chiamate rispettivamente Caledonia, Ibernia e Cambria. Esse non erano considerate parte della provincia della Britannia. Le antiche città della Britannia romana esistono ancora, ma oggi hanno nomi inglesi. Londinium Londra Verulamium St. Albans Alchester Glevum Gloucester Aquae Sulis Bath Lindinis Ilchester Sorviodunum Old Sarum Venta Belgarum Winchester Noviomagus Chichester Durnovaria Dorchester Isca Dumnoniorum Exeter La Colonia (Camelot) Camulodunum Colchester Lindum Lincoln Eboracum York Mamucium Manchester Dolocauthi Miniere d'oro del Galles Durovemum Canterbury Regulbium Reculver Rutupiae Richborough Dubris Dover Lemanis Lympne Anderita Pevensey Il tragitto del viaggio a Verulamium e del ritorno. Sono indicati i luoghi dei principali eventi della storia. Il viaggio di Merlino nelle terre di Lot all’inseguimento di Uther Prologo Non posso pensare a Camulod senza pensare ai cavalli. Erano ovunque, e dominarono la mia adolescenza. La vita di quel luogo si svolgeva completamente attorno a loro - a loro e agli uomini che li cavalcavano - e le prime immagini e i primi odori che ricordo sono quelli delle stalle. Quasi metà di tutta la cima della collina su cui si ergeva il forte era destinata alle stalle e alle corti per l'addestramento, e sulla pianura ai piedi della collina era stato creato un campus, un terreno vasto e spoglio per le esercitazioni. A una qualunque ora del giorno, ci si trovava fino a una dozzina di cavalieri, che facevano conversioni e manovre al passo, al piccolo galoppo, o al galoppo, e talvolta caricavano in formazioni concentrate e numerose, tanto che nei mesi d'estate una coltre di polvere stava sospesa sulla pianura e non si posava mai. I cavalli, e i rumori e gli odori dei cavalli, erano nella vita di Camulod un fatto costante e immutabile, e a ogni generazione i cavalli nascevano più grandi e più grossi di quelli che li avevano generati. Allora non lo sapevo, perché ero un ragazzo, e ai miei occhi diventavano sempre più piccoli. Quand'ero bambino, i cavalli dei soldati che ammiravo come divinità mi facevano sentire un nano. Quando avevo otto anni mi facevano ancora sentire minuscolo, finché non montai a cavallo. Ma da giovane, prossimo ormai alla statura di un uomo, scoprii che si erano ragionevolmente ridimensionati. Durante la mia adolescenza Publio Varro, mio prozio e tutore in assenza di mio padre, faceva lavorare a turni intere squadre di fabbri in sei diverse fucine, quattro all'interno del forte e due nella villa sulla pianura alla base della collina. Le fucine del forte erano totalmente dedicate ai bisogni della cavalleria. Due non producevano altro che ferri di cavallo, finimenti e armature. Una terza fabbricava solo chiodi, migliaia e migliaia di chiodi: chiodi per i ferri di cavallo e chiodi per la costruzione delle caserme, delle stalle e delle poste; chiodi corti e borchie per stivali; e ribattini per cinghie e corazze. In anni più recenti forgiavano anche il filo di bronzo e di ferro per gli anellini che uniti formavano le maglie delle corazze usate dai nostri cavalieri. La quarta fucina del forte produceva armi per i soldati a cavallo: lance, spade e pugnali, prodotti che ben si confacevano alla fucina più ampia e rumorosa. Sulla pianura più in basso, le fucine della villa rifornivano il resto della nostra Colonia di tutti gli attrezzi agricoli e gli arnesi e i mille e mille utensili necessari al lavoro quotidiano di una popolazione di più di quattromila persone. Oggi a Camulod il forte, le fucine e il vasto campo spoglio per le esercitazioni ai piedi della collina sono vuoti e spopolati. Le ville protette dal forte non esistono più. Sono bruciate, demolite, depredate, deturpate, i loro gloriosi mosaici sono disfatti, distrutti. I Coloni che vivevano lì sono morti, quasi tutti, i pochi derelitti superstiti sono sparsi ai quattro venti. Io solo rimango, vetusto per gli anni ma colmo di giovanili ricordi, nascosto sulle colline vicino alla Colonia, in solitario asilo, e di notte inveisco contro i cieli, e li ringrazio di giorno per avermi lasciato le mani, e la mente, intatte a sufficienza per comporre la mia storia. Non confido che gli uomini leggeranno le parole che scrivo. A nessuno tra i vivi vorrei farle leggere, e comunque pochi potrebbero farlo. Gli uomini che scorrazzano a piacimento per questa terra sono brutali, feroci nella loro inciviltà e orrendi nella loro pagana ignoranza. Non conoscono divinità all'infuori della Lussuria e dell'Ingordigia, nessun amore all'infuori della Sazietà, e le loro donne sono degne di tanta bassezza. L'arte di leggere e scrivere è morta in Britannia. E tuttavia scrivo, perché devo. Mia è l'unica voce rimasta, seppur muta e rassegnata a pochi scarabocchi sulla pergamena, che possa narrare ciò che fu un tempo e ciò che forse avrebbe potuto essere. Tutti i tesori che colmavano Camulod sono ridotti a quattro, e si trovano qui con me in questa piccola capanna di pietra. Uno è una finestra di vetro, incorniciata nel legno e fissata nel piombo; un vetro così chiaro e sottile da essere quasi trasparente. Venne fatta per la mia adorata prozia, la sorella di mio nonno, Luceia Britannico Varro, durante la mia adolescenza, e io ero lì quando la installarono in quella stanza buia ma adorata, il luogo che preferivo tra tutti i luoghi della casa, e che tutti chiamavamo la Stanza di Famiglia. Non mi stancavo mai di ammirare le trasformazioni create dalla luce di quella finestra, e con gioia la salvai anni dopo, intatta per miracolo, dalle rovine della casa nella quale ero cresciuto. Un altro tesoro, il secondo, è uno specchio di argento lucido e lucente, anch'esso della mia prozia. Lo conservo in memoria della sua stupefacente bellezza, che perdurò fino alla morte, avvenuta in tardissima età. L'ho mantenuto limpido e immacolato, ma in questi trent'anni non ho osato guardarci dentro. Suppongo che sia strano, ma in questi anni di solitudine mi sono chiesto spesso perché, di tutta quella gente, guerrieri e campioni e re e nobili, onorabili cavalieri nutriti e cresciuti in Camulod, i miei ricordi più teneri e tenaci siano delle donne, e della mia prozia in somma misura. Non è difficile, naturalmente, indovinare la risposta. Mia madre fu uccisa a pochi giorni dalla mia nascita, perciò non l'ho mai conosciuta, e mia zia Luceia prese il suo posto, diventando per me l'unica vera madre. Che anche le altre donne della Colonia godano nei miei ricordi di tanta considerazione è forse un riflesso della mia natura, o di un aspetto della mia natura che tenni nascosto per la maggior parte del tempo che trascorsi tra gli uomini di Camulod. La nostra era una comunità di uomini come tante altre e io, uomo tra uomini, vissi una vita di disciplina militare, amplificata e limitata ancora di più dal fatto che ero quello che ero: l'erede presuntivo al governo della Colonia. Credo che fosse una vita dura, in termini femminili, ma dal mio punto di vista di adolescente in crescita, con i privilegi di nascita e di rango, era una vita meravigliosa, piena di drammaticità, di eccitazione e di preparativi per tutte le informi Grandi Cose a venire. Le mie frequenti interazioni con le donne erano una preziosa e gelosamente serbata aggiunta a quella vita. La sola dolcezza, la sola bellezza che conobbi crescendo proveniva invariabilmente dalle gentilezze e dalle semplici cortesie delle donne della Colonia, e principalmente dalle donne di casa, scelte con cura da mia zia, che mi trattava come un giovane signore, eppure con un sincero rispetto e una considerazione che non ricevetti mai altrove, e nei quali io mi crogiolavo. Quella affabilità e quella stima si rivolgevano a me ragazzo a un livello intimo e profondo, insegnandomi a gioire di vivere tra le donne e, più tardi, a mostrare tale gioia alle donne che avrei amato. Sono piaceri che generano piacere, e ricordi duraturi. Il terzo tesoro è una Spada portentosa e scintillante, che è il mio più sacro dovere. È riposta al sicuro, dentro il pozzo nascosto sul retro della mia capanna. Il quarto e ultimo tesoro ha valore ai miei occhi e alla mia mente soltanto. È una minuscola montagna di fogli di papiro e di pergamena finissimi, coperti di quattro calligrafie nitide e distinte, una delle quali è la mia. Ora che sono vecchio e sdentato, mi sento spinto a continuare e completare la cronaca iniziata da mio nonno Caio Britannico quasi un secolo fa, e proseguita dal suo amico, il mio prozio Publio Varro. Anche mio padre, Pico Britannico, offrì in contributo alcuni suoi personali giudizi, seguendo in questo la familiare tradizione di lottare alla ricerca di parole per scrivere e descrivere la vita che abbiamo vissuto. Scribacchio fin da bambino, scimmiottando zio Varro, che passava ore ogni giorno a scrivere sui suoi libri di pergamena. Ma mi spaventerei se cedessi allo sgomento che provo quando apro i bauli pieni di papiri e pergamene e vedo l'immensa mole di ciò che resta del mio raccolto. Da anni ormai vaglio questi scritti: ne brucio la maggior parte, banalità, e metto da un canto gli elementi essenziali alla narrazione della mia storia. La prima incombenza è svolta, e le ceneri giacciono ammucchiate in un tumulo contratto e zuppo di pioggia davanti alla mia casa, qui nella mia valle segreta sulle colline. L'unico compito rimasto è sistemare questi avanzi in sequenza, e unirvi sufficienti dettagli che colleghino le poche lacune ancora presenti. Tutto ciò che mi serve per raggiungere la meta è il tempo, e tempo ne ho, in abbondanza. La longevità è il mio castigo; la fedeltà alla storia il mio fardello. Questa storia è mia, in larga misura, poiché io l'ho vissuta. Molto di ciò che ho scritto, però, e di cui non ho avuto diretta esperienza, l'ho scoperto semplicemente perché io sono Merlino, e gli uomini, credendomi un mago, mi temevano e non mi mentivano. Io non mi premurai di disilluderli: essere un mago temuto si confaceva ai miei scopi. Ebbi assicurata la solitudine, e quindi la libertà di fare ciò che dovevo, e insegnai bene a me stesso a non badare a quello che gli uomini pensavano di me. Insegnai bene a me stesso, ma fu tutt'altro che facile. Non fui sempre solo, né temuto e sfuggito dagli uomini. Da ragazzo, il mio nome era Cai, diminutivo di Caio Merlino Britannico, e la mia infanzia fu gaia, incontaminata da sofferenza e dolore. Da giovane, mi compiacqui di essere a capo della nostra Colonia, e la mia vita traboccò di risate, avventure, e amici. Poi conobbi le gioie e le angosce dell'amore, e sopravvissi a esse, riempiendo le mie giornate con il dovere, come facevano gli uomini a quel tempo, fino al mio quarantaduesimo anno. Solo allora appresi il terribile segreto che mi separava in eterno dalla vita degli altri uomini mortali, e mi attribuiva il rango di Stregone e tutti i dolori connessi alla solitudine. Nacqui nell'anno che portò la catastrofe in Britannia: il primo anno del nuovo, quinto secolo dalla nascita del Cristo, l'anno che per i cristiani è l'Anno Domini 401. Il mondo conosciuto dai nostri padri scomparve per sempre nel corso di quel fatidico anno, quando incominciò il grande cambiamento, ma l'orrendo significato del cambiamento penetrò nel mondo con lentezza. Non che le notizie si diffondessero adagio - le notizie calamitose viaggiano veloci - ma il cataclisma era così enorme, così travolgente nelle sue implicazioni, da sfidare ogni credenza. La gente, pur udendo le notizie e comunicandole ad altri, era riluttante ad accettare la verità. La verità era talmente spaventosa, talmente terrificante, che la gente non ne parlava. Non poteva digerirla. Non ci poteva credere. E tuttavia non poté evitarla a lungo, perché le strade deserte, che nessuno percorreva per miglia e miglia silenziose, attestavano quella verità. I bambini insolenti e irriguardosi che giocavano rumorosamente per le vie degli accampamenti disertati, attestavano quella verità. I pianti e i lamenti delle donne abbandonate, lasciate a migliaia su tutta la terra, attestavano quella verità. E il terrore delle popolazioni lungo le coste orientali e sudorientali, e nelle distese settentrionali sotto il grande vallo che Adriano aveva costruito, attestava quella verità. Le Aquile erano partite, volate via. Le Legioni erano state richiamate in patria. Gli Eserciti se n'erano andati, lasciandosi alle spalle solo una scheletrica presenza per mantenere una parvenza di forza mentre l'Impero combatteva altrove per la propria salvezza. Entro sei anni, anche le poche legioni rimaste indietro avevano seguito quel primo esodo, e dopo quattrocento anni di Pax Romana - pace romana, protezione e prosperità in Britannia - il paese era debole e indifeso, alla mercé dei suoi nemici. Libro Primo IMPLUMI I. Avevo sei anni quell'ultimo periodo del grande ritiro, e mi affacciavo alla vita nella Colonia di nome Camulod che, come Roma, era stata costruita su una collina e dedicata agli alti ideali su cui poggiava la Repubblica. Era stata la moglie di Publio Varro, la mia prozia Luceia, a voler dare alla Colonia il nome di Camulod, in onore di Camulodunum, il luogo di nascita di suo fratello e mio nonno, un antico luogo sacro a Lod, dio della guerra della tribù di Celti chiamati Trinovantes dai Romani. Oggi è solamente Colchester, che significa il forte sulla collina, ma suo fratello si era rifiutato di usare quel nome moderno, sfacciato, privo di grazia. Modificando il nome antico affinché si adattasse a una località nuova, Luceia Britannico aveva onorato il fratello e il suo monumento. Una delle prime lezioni che mi vennero impartite ancora giovanissimo, fu che le cose non erano sempre state così. Camulod non aveva sempre avuto tanti cavalli, e la sua economia non era sempre stata basata su di essi. Era stato mio padre a cambiare tutto, l'anno in cui nacqui. Mio padre era Pico Britannico, e aveva il titolo di legato, o generale. Era Supremo Comandante di cavalleria e Deputato in Britannia per il grande Flavio Stilicone, Comandante in capo degli Eserciti dell'Imperatore Onorio. Nell'anno della mia nascita, il 401 di Nostro Signore e il millecentocinquantacinquesimo anno di Roma, Alarico, condottiero dei barbari Visigoti, minacciava di invadere il cuore dell'Impero romano. Era penetrato fino a Milano, la città natale di Stilicone, prima che Stilicone riuscisse a radunare un esercito con un procedimento d'emergenza, ordinando a tutte le legioni non impegnate di ritornare in Italia per combattere l'invasore. Mio padre, amico intimo di Stilicone e suo leale collega e confidente, aveva risposto alla convocazione, e si era imbarcato immediatamente, con il grosso delle truppe e tutti i cavalli che poté trasportare, nel tempo e sulle imbarcazioni disponibili. I capi rimasti, non meno di seicentottanta animali di prima scelta, li lasciò alle cure di suo padre, mio nonno, il proconsul Caio Britannico, già nominato da Stilicone Legatus Emeritus - Comandante Supremo - delle Forze irregolari della Britannia sudoccidentale. La carica implicita nel titolo di mio nonno era il temporaneo governo del sud-ovest, e la protezione dei territori contro l'invasione, in attesa del ritorno delle Legioni imperiali a seguito della sconfitta di Alarico e dei suoi Visigoti. Ma quando arrivò la notizia della partenza di mio padre, mio nonno era morto, assassinato da un pazzo, e il mio prozio Publio Varro aveva assunto il comando della Colonia. Zio Varro sapeva che cosa Caio Britannico avrebbe voluto che facesse, così usò il sigillo di mio padre e inviò dei soldati ad accettare la consegna dei cavalli. L'immediato quintuplicarsi dei capi ebbe sulla Colonia un effetto rivoluzionario e permanente. Vittore, il maestro di scuderia, dovette aumentare dieci volte il numero dei mozzi di stalla e degli stallieri, e campi che prima venivano arati furono completamente e immediatamente destinati all'allevamento di bestiame. Le preoccupazioni espresse per la perdita di terreno arabile furono subito placate dalla consapevolezza che quel grande afflusso di cavalcature ci dava la possibilità di rivendicare terreni precedentemente abbandonati, e anche di dissodare nuove terre, perché i nostri soldati a cavallo erano abbastanza numerosi da permettere costanti pattugliamenti in piena forza, e una protezione continua per tutti i lavoratori impegnati nei campi. Furono però i soldati di fanteria a sopportare il maggiore impatto. Adesso che avevamo i cavalli, ogni uomo che volesse cavalcare poteva farlo, almeno per una parte del servizio. Ben presto sul nostro territorio le pattuglie appiedate appartennero al passato. Il nucleo centrale della fanteria venne ridotto da millecinquecento a ottocento uomini, distribuiti come truppe semi-permanenti di guarnigione a tre delle fattorie periferiche più vaste e al forte di Camulod. Come ho detto, la mia fu un'infanzia felice, e io crebbi in allegria, e venni foggiato nell'uomo che era mio destino essere da due tutori severi e amorevoli: i miei due prozii, Ullic, re dei Pendragon, e Publio Varro, signore di Camulod. La mia giovinezza fu egualmente divisa tra i colli e le montagne aspre e incantevoli della roccaforte dei Pendragon a nordovest, nel sud della Cambria, e la calma bellezza delle pianure boscose e delle foreste che, viste dalla cima della collina, si stendevano intorno a Camulod come un tappeto. I Celti di Ullic, il popolo delle colline, mi insegnarono a cacciare con una fionda e a tendere trappole. Mi insegnarono a tirare con l'arco e a pescare trote nei ruscelli a mani nude. Mi insegnarono a cantare e a pizzicare l'arpa, e ad amare la storia nei loro canti gloriosi, tanto che prima che la mia voce uscisse dall'adolescenza venivo salutato come un bardo di grandi speranze e, se non fossi stato quello che ero, i druidi mi avrebbero reclamato perché diventassi uno di loro. Trascorsi molto tempo tra i maestri druidi, apprendendo i sacri misteri e la dottrina delle tradizioni antiche, poiché essi rispettavano chi ero e sognavano per me grandi glorie. E mentre ero con loro, mi insegnarono a fare tutte quelle cose che deve saper fare un ragazzo: correre come il vento, miglio dopo miglio senza sosta; lottare e combattere a mani e piedi nudi; e scovare i nidi degli uccelli montani - il chiurlo e il piviere, le anatre e le oche selvatiche - per le succulente uova che contengono. Nutrirono nel mio spirito impaziente e inquisitivo la pazienza di appostare il cervo, e la forza di ignorare la timida, placida dolcezza e vedere solo il cibo in movimento. Ancor giovane mi ammaestrarono nel comando dei pony selvaggi delle loro montagne, e a sette anni nessun quadrupede poteva scrollarmi di dosso una volta che ero ben saldo in groppa. Là in quella terra incantevole, impetuosa e talvolta crudele, io ero sempre tranquillo, ma Uther, il fratello dell'anima mia, era nel suo elemento. Uther Pendragon e io eravamo ; cugini, nati, per una strana congiunzione stellare, lo stesso giorno, a meno di un'ora di distanza. Fin dall'infanzia in molte cose pensavamo come fossimo una sola persona, e lo davamo per scontato. Per tutta la vita, finché Uther visse, fummo simili, due facce della stessa medaglia, diversi forse nell'aspetto, ma appartenenti al medesimo stampo. Era l'amico più caro che avessi mai avuto: focoso, affettuoso, generoso e gentile, e tuttavia posseduto da un carattere primitivo, e da una fonte inesauribile di violenza elementare e incolta che sapeva spaventarmi, all'occorrenza, tant'era implacabile. Chi lo conosceva come amico adorava la terra su cui camminava. I nemici avevano terrore del suo nome, perché la sua furia era mortale e il suo odio assoluto. Scelse di non avere nemici viventi, e si dedicò a privarli tutti della vita, perché solo allora, diceva, poteva fidarsi di loro e sapere che cosa stavano facendo. A suo modo Uther Pendragon, re tra i suoi Celti, era molto più feroce delle orde che ambivano a sopraffare la nostra terra. Il mio destino era amarlo come un fratello, e averne paura per tutta la mia vita di uomo adulto, fino alla sua morte. Come ho detto, Uther conosceva e amava la violenza, ma il tradimento era una caratteristica che nessuno, nemmeno il suo nemico acerrimo, avrebbe pensato unito al suo nome. Nessuno tranne me, e io lo sospettai solamente, né fui mai in grado di individuare la verità, in suo favore o sfavore. Quaranta e più anni sono trascorsi dalla morte di Uther, e ancora mi chiedo se commise oppure no gli atti che la mia mente gli attribuì; solo a pensarlo capace di compierli la mia anima mi maledice. Ho giurato a me stesso che, in mancanza di prove, ho il dovere di ammettere che potrei sbagliare. Eppure, in fondo al cuore, so che Uther aveva un demonio nero e orrendo incatenato con forza nel baratro della sua anima. E tuttora mi domando se lo controllava sempre, o se a volte ne subiva il controllo. In qualche modo Uther non apparteneva a Camulod. Sopportava stoicamente, ma il suo cuore era sulle colline della sua patria, dov'era nato, figlio di Uric il re e di sua moglie Veronica, figlia di Publio Varro, e quindi nipote di re Ullic Pendragon. A differenza di me, era scarso negli studi, e non aveva interesse in alcun libro di alcun genere. Non diventò mai un letterato, ed era felice di lasciare a me gli esoterismi di testi e documenti. L'unica eccitazione per lui a Camulod era il forte, e la nostra cavalleria. Uther era un guerriero nato, e ogni minuto libero lo passava sul campo a esercitarsi o nelle stalle. Le mie ore più felici a Camulod, invece, trascorrevano nelle stanze private di Publio Varro. La stanza che chiamava Armeria era un paradiso per un ragazzo, piena di armi e corazze indescrivibili, raccolte in tutto l'Impero e oltre. Anche a Uther piaceva quella stanza, un tempo, ma se ne annoiò presto, quando scoprì che maneggiare i suoi tesori non ci era permesso. Io potevo rimanere lì seduto a fissare quelle esotiche fogge e sognare per ore e ore. Avevo perfino un sedile speciale, sul quale potevo sedermi solo io. Era una sorta di sella, sebbene insolita e sgraziata, con un alto schienale di legno e penzolanti appendici, costruita per un ragazzo e trovata su un cavallo appartenente a una banda di predatori franchi sconfitti. Il giovane cavaliere che montava quel cavallo portava abiti sontuosi e il torchio d'oro di un capo. La nostra gente pensò che si trattasse di uno storpio, e che quello strano congegno servisse per sostenere il corpo deforme sulla groppa del cavallo. Mio zio l'aveva custodito come un cimelio, una tra le tante peculiarità che lo avevano attratto nel corso di tutta la sua vita, e quell'oggetto rimase per anni inosservato nell'Armeria finché io non fui abbastanza cresciuto da riuscire a issarmici a cavalcioni. L'Armeria aveva enormi porte di legno rivestite di bronzo battuto e modellato a mano dallo stesso zio Varro. Le avevo viste installare quando ero appena un bambino, così come avevo visto posare il robusto pavimento di legno. Era l'unico pavimento di legno che avessi mai veramente osservato, e a mio zio piaceva molto. Diceva che teneva calda la stanza. Credetti che fosse matto, perché perfino io vedevo che a tenere calda la stanza erano un massiccio braciere nel focolare, e gli ipocausti del riscaldamento centralizzato che giravano per tutta la casa. Rammento che una sera gli chiesi come facesse il fumo, salendo per il camino, a impedire alla pioggia di entrare, e ricordo che rise di me e mi mostrò l'espediente utilizzato dai muratori nella costruzione del grande focolare. La canna fumaria era inclinata, e sfociava in un camino verticale, in modo che la pioggia non potesse entrare. Fu in un'occasione analoga che gli chiesi quale arma in quella stanza fosse il suo tesoro più prezioso. Mi guardò in silenzio, più a lungo di quanto chiunque altro mi avesse mai guardato, e poi si alzò, sovrastandomi come una torre. «Cai» mi disse, «sai che cos'è un segreto?» «Sì, zio» gli risposi, «una cosa speciale che non devi mai ; dire a nessuno, non importa quanto sia difficile, o quanto tu abbia voglia di dirlo.» Allora mi sorrise. «Un segreto è esattamente questo, Cai. Esattamente. Perché nel momento in cui cedi e riveli un segreto a un'altra anima vivente, chiunque essa sia, tu hai distrutto il segreto. Non è più un segreto.» «Lo so, zio.» «So che lo sai, Cai. È per questo che ho intenzione di condividere un segreto con te. Un segreto tra noi soltanto. Sei pronto?» Annuii, con il fiato sospeso nell'attesa. Mi osservò, stringendo gli occhi, e proseguì: «Io ho un segreto, Cai, che condivido solo con il mio compagno Equo. Adesso ne avrò un altro, che condividerò solo con te, ed è questo: il mio tesoro più prezioso in questa stanza non può essere visto. È celato agli occhi degli uomini». Frugai con lo sguardo tutta la stanza, scrutando ogni angolo buio. «Dove, zio?» «Questo è il secondo segreto, quello che condivido con Equo, ma lo condividerò anche con te, un giorno. Un giorno molto presto, te lo prometto. Allora sarai la terza persona al mondo a conoscere quel segreto. Ma prima che ciò avvenga, tu e io dobbiamo parlare.» Un giorno. Presto. Non oggi. La delusione doveva leggermisi in volto, perché mi sorrise ancora e mi arruffò i capelli. «Un giorno molto presto, te lo prometto. Quanti anni hai adesso, Cai?» «Sette, zio Varro» dissi, sapendo che lo sapeva. «E quando hai imparato a leggere?» «Quando ne avevo cinque.» «A dire il vero, ne avevi solo quattro. Ti piace leggere?» «Sì, zio.» Perché mi faceva quelle domande? Sapeva quanto mi piaceva leggere. «E che cosa preferisci leggere?» «I libri di nonno Caio.» «Vorresti leggere i miei libri?» Mi si spalancarono gli occhi. Che domanda stupida. Da mesi lo imploravo di lasciarmi leggere i suoi libri! «Sì, zio. Per favore.» «Benissimo, allora. Ti faccio un'altra promessa, qui e adesso, da uomo a uomo, tra me e te. Puoi iniziare a leggere i miei libri domani. Mentre li leggerai, ne parleremo, e potrai chiedermi tutto quello che vorrai. Risponderò a tutte le tue domande. Hai capito?» Annuii, senza osare aprire bocca. «Bene. Ora, questo è molto importante, perciò ascolta attentamente. C'è una domanda, una domanda di enorme rilevanza, che aspetterò che tu mi faccia, e quando sarai grande abbastanza... No! Lascia che mi esprima in modo diverso, perché è davvero molto importante... Quando comprenderai a sufficienza da pormi quella domanda, ti mostrerò il mio tesoro più prezioso. Ti sembra giusto?» Annuii ancora, soffrendo per la delusione. Quel "quando sarai grande abbastanza" mi risuonava nelle orecchie come una campana a morto, ma feci del mio meglio per nascondere i miei sentimenti. Il meglio di un ragazzino di sette anni. «C'è molto da imparare nei tuoi libri, zio?» Rise forte, con quella sua risata profonda e tonante. «Sì, Cai, credo di sì» disse. «Ma sono sicuro che imparerai in fretta, vero?» «Sì, zio.» «Bravo ragazzo! Adesso vieni a darmi il bacio della buonanotte. Dovresti già essere a letto, e domani inizierai a leggere i miei libri.» Infilai il piede sinistro nel cappio penzolante dello strano seggio, sollevai la gamba destra oltre l'alto schienale e mi lasciai scivolare sul pavimento. Zio Varro mi prese, mi lanciò in aria e mi baciò su entrambe le guance, come faceva tutte le sere a quell'ora. Poi chiuse la mia mano nel suo palmo indurito e mi accompagnò a cercare Uther e Occa, la serva che dormiva nella stessa stanza con noi. Ho tanti ricordi di zio Varro. Per ore e ore mi parlava, e parlava con me, che sono due cose affatto diverse. Mi insegnava tutto quello che sapeva di armi e corazze e strategia militare, incluso l'assedio. Mi raccontava di Alessandro, che gli uomini chiamarono il Grande, e del padre di Alessandro, Filippo di Macedonia, e di come insieme conquistarono il mondo. E mi affascinava con le storie dell'antica Roma della magnifica Repubblica dove, finalmente, un uomo poteva fare di sé quello che desiderava, affrancato nel suo diritto di essere ciò che voleva, e libero di portare armi per proteggere tale diritto. Si serviva di ogni artificio per illustrarmi come la Repubblica fosse stata distorta dagli uomini, e deformata perché si adattasse ai progetti e alle mire di pochi privilegiati, e come l'Impero che ne risultò fosse diventato canceroso, condannato dalla propria devastante malattia. Mi ammaestrò nell'arte del ferro, e di quelli che luì stesso definiva «altri, minori, metalli», tra i quali l'oro e l'argento, e io nella sua fucina trascorsi un intero inverno, quando avevo nove anni, ad apprendere a maneggiare il ferro, e a piegarlo alla mia volontà, perché il ferro, a detta di zio Varro, era il segreto dei fabbri ferrai. E poiché era mio zio Varro e il mio dio, ascoltavo avidamente le sue parole, assimilavo le sue lezioni e divoravo i suoi scritti. Non ho mai conosciuto mio nonno, Caio Britannico, ma sono cresciuto vedendo questa terra di Britannia attraverso i suoi occhi, in virtù della sua abilità nel trascrivere i propri pensieri. Da lui e da zio Varro appresi i motivi della distruzione dell'Impero prima ancora di sapere che cosa fosse l'Impero. Fui consapevole dell'Armageddon molto prima di sapere che nell'Armageddon ci dimoravo, e scorsi il destino dell'Altissimo Re prima che i suoi genitori si incontrassero. E durante tutto questo tempo in cui fui una spugna, in cui mi inzuppai di ogni goccia di cognizione disponibile, assorbendo l'essenza dello stupendo Sogno di mio padre e del suo amico Publio Varro, la vita che conducevo e la società autonoma e indipendente che mi attorniava mi protessero dal mondo. A Camulod pensavamo a noi stessi come Britanni, piuttosto che Romano-britannici o Celti, e nella mia gioventù, guidato da Publio Varro, attribuivo alla parola un significato unico, metallico, e immaginavo che un Britanno fosse una lega magistralmente ottenuta, la temperata fusione delle più forti caratteristiche della grandezza celtica e romana. Oltre la nostra Colonia, però, al di là del rifugio di Camulod, nell'altro mondo separato dalla Britannia al di là delle sue coste, la disintegrazione dell'Impero di Roma procedeva frenetica. La nostra terra non si riprese mai dalla perdita delle legioni richiamate da Stilicone nel 401. Cinque anni dopo, le poche legioni rimaste, sentendosi dimenticate e abbandonate, elessero come loro imperatore un uomo di nome Marco, che però venne assassinato da una fazione rivale, la quale a sua volta elesse Graziano. Pochi mesi dopo anche Graziano era morto, e un terzo candidato, Costantino III, fu proclamato Imperatore di Britannia. Fu lui ad assestare il colpo definitivo alla Britannia romana. Radunò tutte le truppe che poté trovare, riunì in una flotta le navi di tutti i porti e sbarcò con il suo esercito sul continente, disertando alfine per sempre la Britannia. Noi della Colonia chiamata Camulod, l'unico luogo in Britannia preparato a tale sviluppo, rimanemmo per mesi ignari dell'avvenimento, e quando ne venimmo a conoscenza ci ritrovammo sull'orlo del panico potenziali e improvvide vittime delle massicce forze d'invasione. A lungo, però - per quasi quattro anni - le razzie non aumentarono, perché erano davvero in pochi a credere che i Romani non sarebbero ritornati. Ma poi le malerbe infestarono le strade maestre, e gli accampamenti mostrarono i segni del tempo e dell'abbandono, e con il loro sgretolarsi i predatori incrementarono le razzie. Girò voce che la via per la Britannia era libera e sicura. luti, Danesi, Angli, Sassoni, Pitti e Scoti calarono su di noi in numero sempre maggiore, e la Britannia conobbe il saccheggio su una scala fino ad allora neppure immaginata. II. Avevo otto anni quando per la prima volta provai vero terrore e vero sgomento. Entrambe queste esperienze mi capitarono nel medesimo giorno, a pochi minuti l'una dall'altra, ed entrambe lasciarono su di me un'indelebile impressione. Uther e io avevamo come sempre trascorso la primavera e l'estate sulle colline, con il popolo di suo padre, e stavamo ridiscendendo a Camulod per trascorrere nella Colonia l'autunno e l'inverno. Eravamo scortati da un'agguerrita comitiva del popolo di re Ullic, a cavallo dei piccoli pony dal pelo lungo che venivano allevati sulle colline. Procedevamo piacevolmente, perché il tempo era bello; era ancora piena estate, e dell'autunno non si scorgeva alcun indizio. Proprio quel mattino eravamo sbucati sulla pianura, finalmente fuori dalle colline, e non mancavano più di venti miglia a Camulod quando facemmo una sosta per rifocillarci. Qualcuno aveva sondato con successo un ruscello montano poche miglia indietro, e i fuochi erano già accesi per cucinare il risultato della pesca. Essendo ragazzi e principi, né io né Uther dovevamo contribuire alla cucina, e a cavallo ci eravamo allontanati dai fuochi, giocando a lanciarci l'un l'altro una pietra avvolta in uno straccio. Ci imbattemmo così in un laghetto, che a gran voce pretendeva che lo esplorassimo. Era una pozza nera e profonda, in un luogo dove non avrebbe dovuto esserci nessuna pozza, su un tratto pianeggiante di terreno scoperto, in mezzo a un prato compatto e, verdeggiante. Decidemmo che era un laghetto magico, messo lì da una dea per accogliere le offerte delle persone che un tempo vivevano nei pressi. In quella terra era tradizione antica gettare offerte sacrificali nelle pozze e nei laghi, per propiziarsi la divinità che li abitava. E Uther voleva tuffarsi in fondo alla pozza alla ricerca dei tesori offerti alla dea. Bastava la proposta a farmi sentire a disagio. Anche solo parlare in quel modo sapeva di blasfemia, sebbene allora; non conoscessi la parola. Ma il rispetto lo conoscevo, e l'acqua sembrava profonda, e nerissima. Mentre me ne stavo seduto a fissarla, Uther era scivolato giù dal suo pony e aveva incominciato a svestirsi. «Uther! No!» dissi. «È troppo profonda. È pericoloso.» «Non essere stupido, Cai. È solo una pozza, e comunque ho caldo. Tu non vieni?» Scossi la testa. «Che cosa c'è? Hai paura? Non essere sciocco.» Ormai era nudo, e saltò in acqua, scomparendo con un tonfo fragoroso. Quando le increspature si attenuarono, lo vidi immergersi sempre più giù, sempre più in fondo, vidi il suo corpo pallido e inconsistente, e capii che l'acqua non era nera, ma chiara come il cristallo, e che il colore nero dipendeva dalla grande profondità. Vidi Uther risalire verso di me da quella profondità, infrangere la superficie e boccheggiando, allontanarsi i capelli dagli occhi con uno scatto del capo, «È profonda, profonda, profonda, Cai, e fredda, ma è meravigliosa! Vieni dentro!» Scossi di nuovo la testa, e lo guardai sorridere, riempirsi i polmoni d'aria e prepararsi a tornare giù. «Uther» dissi, «non raggiungerai mai il fondo. É troppo lontano. Vieni! fuori.» Invece di rispondermi, si rituffò, e io lo guardai rimpicciolire e poi voltarsi e schizzare in superficie rapido come un sughero. Questa volta nuotò fino a riva e tese la mano, e io lo tirai fuori. Rimase lì seduto per un poco, rabbrividendo, cianotico e con la pelle d'oca. «Ebbene?» lo provocai. «Trovato qualche tesoro?» Fece di no con la testa, battendo i denti. «Quanto sei sceso?» Si sfregò le mani su tutto il corpo per riscaldarsi, poi balzò in piedi e corse a tutta velocità intorno al perimetro della pozza, strillando allegramente con quanta voce aveva. Era un matto, ma un matto felice, e allora mi tolsi i vestiti e saltai in acqua. Era gelida! Ancora oggi, che lunghi decenni sono trascorsi, ricordo che fu un trauma. Ritornai a galla, ansimando, ma Uther si tuffò accanto a me, e mi tirò giù. Mi liberai di lui e risalii in superficie, e ripresi fiato cercandolo sotto di me, ma mi sorprese alle spalle e mi trascinò ancora sott'acqua, e quando infine il freddo ci sconfisse eravamo entrambi esausti e dovemmo aiutarci reciprocamente a riguadagnare l'argine, dove crollammo, tremanti. «É come un pozzo» disse Uther. «Che cosa vuoi dire?» «Profondo. Con pareti di sasso. Diritte.» «É probabile che sia un pozzo. Spiegherebbe la ragione per cui l'acqua è così limpida.» Non tremavamo più, e incominciavamo a godere il calore del sole. «Vuoi provare a raggiungere il fondo?» «No» rammento che dissi. «Non riusciremmo mai...» Uther mi interruppe, con la mano levata, il corpo in subitanea tensione. «Che cos'è?» Si drizzò a sedere e si girò a guardare dietro di noi. «Bastardi!» sputò. «Sassoni!» Mi voltai di scatto e guardai in direzione dell'accampamento, dove infuriava una battaglia nella quale i nostri erano in netta inferiorità numerica. Quattro sconosciuti dai capelli biondi si misero a correre verso di noi, con le armi in pugno, la bocca aperta in lascivi urli di guerra. Uther era già in piedi. «Svelto, Cai! Leviamoci di qui!» Annaspai tra i miei vestiti. «Lascia perdere i vestiti, prendi il coltello!» Uther si precipitò in groppa al suo pony. Io afferrai il coltello e corsi incontro alla mia cavalcatura, mi aggrappai alla criniera e mi issai a fatica sul dorso rovente e polveroso. I due animali si lanciarono al galoppo quasi di fermi. «Dividiamoci» gridò Uther. «Tu vai a destra!» Si buttò a sinistra e io incitai il mio pony nella direzione opposta, sbirciando da sopra la spalla che cosa avrebbero fatto i nostri inseguitori. Erano ovviamente sorpresi di vedere solo due ragazzini nudi. Dovevano essere stati attratti dai pony, perché non avrebbero potuto vederci, sdraiati in riva all'acqua, Quando ci eravamo divisi avevano smesso di correre, e ci fissavano, senza speranza alcuna di prenderci a piedi e comunque senza alcuna voglia di stancarsi a dare la caccia a degli infanti. Arrestai il mio pony e, sentendomi a distanza di sicurezza, rimasi a guardarli avvicinarsi al laghetto e trovare i nostri torchi, le pesanti collane d'oro che ci distinguevano come figli di capi. La scoperta fece loro decidere che forse inseguirci valeva la pena. Uno di loro, il più alto, lasciò cadere l'ascia e lo scudo, si tolse l'elmo e la tunica di pelliccia, e corse verso di me, Io attesi, sapendo che non avrebbe mai potuto competere con il mio lestissimo pony. Quando fu a circa venticinque passi rigirai la mia cavalcatura e le affondai i calcagni nei fianchi. Solo allora pensai a cercare Uther, ma non lo vidi da nessuna parte. Il limitare della foresta era lontano duecento passi. Vi diressi il mio pony, come una freccia, distanziando facilmente il mio inseguitore. Poi, a cinquanta passi dal riparo degli alberi, il cavallino incespicò e cadde, e io volai sopra la sua testa, sentendo lo schianto netto della zampa anteriore che si spezzava. Atterrai sulla schiena, senza fiato per la violenza dell'urto. Quando mi ripresi, con i gemiti del pony che mi echeggiavano nelle orecchie, il grosso sassone era vicino, respirava a fatica, e aveva un sorriso cattivo stampato sulla faccia. E mentre io lottavo per riuscire a respirare, venne ancora più vicino. Il pony mi aveva scagliato circa otto passi più avanti. L'uomo si fermò accanto all'animale urlante, estrasse un coltello, e si chinò a tagliargli la gola. Quella vista scatenò tutti i miei istinti di sopravvivenza, e mi misi a correre per quanto mi permettevano le mie gambe. Era rimasto assorto in quel gesto, perché quando sentii il suo grido avevo coperto metà della strada che mi separava dagli alberi, e allora sentii anche il rumore dei suoi passi di corsa, che mi incalzavano a ogni falcata delle sue lunghe gambe. Ancora davanti a lui arrivai al principio della foresta, e dopo il primo albero scattai a sinistra, e poi di nuovo a destra, e di nuovo dopo ciascun albero, cambiando direzione bruscamente e continuamente. Stavo correndo per la mia vita. Per fortuna la foresta era fitta, anche lì ai margini, e io ero piccolo, e potevo buttarmi a capofitto dove sapevo che il mio inseguitore non sarebbe passato. Piano piano e con costanza guadagnai terreno, avanzando a viva forza nelle folte sterpaglie, strisciando tra i rovi, finché seppi di averlo lasciato ad arrancare abbastanza indietro da concedermi un momento di respiro. Mi infilai sotto le radici di un grande albero spaccato dal fulmine, e mi acquattai terrorizzato dal fragore del mio cuore che superava il rumoroso approssimarsi del mio inseguitore. E allora ogni movimento cessò, e compresi che si era fermato ad ascoltare, e che aveva occhi e orecchie puntati sulla foresta tutt'intorno, ma io non sapevo quanto fosse vicino. Il silenzio crebbe e si protrasse fino a quando non lo sopportai più e mi alzai piano e con cautela sollevai la testa. Non lo vidi. E poiché avevo solo otto anni, feci una cosa molto stupida. Mi alzai di più per vedere meglio, credendo che se ne fosse andato, ed eccolo lì, che mi guardava da meno di trenta passi, da sopra l'ultimo boschetto che avevo attraversato. Mi vide quando io vidi lui e quando affondò nel folto io mi precipitai lontano, correndo con le ali ai piedi dopo quei pochi minuti di riposo. Corsi e corsi, scegliendo gruppi d'alberi ancora più fitti, incurante delle pungenti sferzate di rovi e ortiche e virgulti, finché fuori da un intrico di cespugli mi ritrovai in una radura erbosa di enormi e vecchie querce, con i rami soffocati dal vischio, la pianta che produce le piccole bacche sacre ai druidi. Lo sentivo troppo vicino e, in preda al panico, raccogliendo le mie ultime forze, mi lanciai sulla quercia più grande e mi arrampicai su in alto tra i suoi rami, cercando un nascondiglio tra i grovigli del vischio. Salii fino a non poter salire più in alto, e lì mi accovacciai, abbracciato a un ramo, e lo vidi entrare nella radura. Si fermò ai margini dello spiazzo erboso, e si guardò attorno, scrutando e ascoltando. Poi avanzò verso l'albero su cui mi ero arrampicato. Stavo quasi male per il terrore e per l'angoscia di perdere la presa e capitombolare giù dal ramo e cadere ai suoi piedi, e per la paura mi venne il singhiozzo. Mi sentì. Ammutolito dallo spavento lo vidi alzare la testa ed esplorare la chioma della quercia fino a trovarmi. Rammento ancora la sua espressione e quel sorriso orrendo, e il modo in cui mi fece cenno di scendere, parlandomi nella sua lingua pagana anche se sapevamo entrambi, lui e io, che avrebbe dovuto salire a prendermi. Fece tre tentativi prima di riuscire ad afferrarsi al ramo più basso, ma poi iniziò a salire con mosse sicure e sempre più rapide verso il mio trespolo. Io recitavo tutte le mie preghiere di bambino, e desideravo intensamente che si fidasse di un ramo troppo debole e cadesse, che fosse troppo grande e grosso per salire così in alto, qualsiasi cosa pur che la smettesse di avvicinarsi a me. E poi sentii il tonfo dei pesanti zoccoli di un cavallo, e lo vidi fermarsi di colpo e guardare giù. Il tronco dell'albero era tra me e i rumori, e vedevo solo il sassone, che si dimenticò subito di me e si diede a ridiscendere, un ramo dopo l'altro, quasi cadendo per la fretta di tornare a terra, e poi saltò e rotolò in avanti e si rialzò come un gatto, pronto alla fuga, con la spada in mano. Il rumore sordo degli zoccoli era sotto di me adesso, e d'un tratto c'era un uomo, su un cavallo fulvo gigantesco e scalpitante che scaraventò a terra il sassone. Il corpo dell'uomo non aveva ancora smesso di ruzzolare, che il cavaliere lo inchiodò a terra puntandogli la lancia in mezzo alle spalle, e il sassone si agitò e scalciò a lungo prima di rimanere finalmente immobile. Il cavaliere lasciò la lancia ritta in aria e si voltò a guardarmi, spostando il corpo di lato per riuscire a vedere dove mi trovavo. «Che cosa sei? Un dio dei druidi?» Non dissi niente, deglutii a fatica, e tentai di dominare il terrore che mi dilaniava. «Sei capace di scendere da solo?» Cercai di dire di sì, ma dalla mia bocca non uscì un suono. «Allora? Scendi. È morto. Sei al sicuro, adesso. Io non ho motivo di farti del male.» Ancora non mi mossi. Il mio soccorritore smontò e liberò la lancia dal corpo dell'uomo ucciso, facendo forza sul cadavere con un piede. Ripulì la lama nella tunica del morto e si riaccostò al cavallo, accarezzandogli il muso e parlandogli in tono sommesso, ma abbastanza alto perché potessi sentire quello che diceva. «Or dunque, Cavallo» disse, «qui c'è un ragazzo, un ragazzo senza vestiti, nascosto in cima all'albero sopra la tua testa. Te lo dico così non ti spaventi quando scende, perché ha un aspetto terribile e feroce. Ti prometto che non ti farà del male, Cavallo, se tu non farai del male a lui.» Si interruppe e guardò di nuovo verso di me. «Hai intenzione di scendere, ragazzo? Mi stai trattenendo dal mio pasto. Ho cavalcato per tutta la notte e oggi non ho ancora rotto il digiuno, e c'è un gustoso stufato di coniglio che si sta cucinando sul fuoco, a meno di mezzo miglio da qui. Forse tu non hai fame, ma io sto morendo, perciò mi farebbe un immenso piacere se tu scendessi e mi lasciassi ritornare al mio cibo.» Lentamente, scegliendo con cura gli appigli, scesi dal mio rifugio, e di colpo sentii tutti i tagli e i graffi che avevo accumulato nella fuga, e mi accorsi della corteccia abrasiva della quercia che mi aveva protetto. Quando raggiunsi l'ultimo ramo, il mio soccorritore balzò agilmente sul dorso del cavallo e si avvicinò al passo. Io penzolavo a circa tre piedi sopra di lui. Mi sorrise, e seppi che ero davvero in salvo. «Che cosa è successo? Chi era quell'uomo?» Indicò il cadavere. «Un sassone. Un predatore. Ci hanno sorpreso lontano dall'accampamento, mentre stavamo nuotando. Mi ha inseguito e io sono scappato.» «Deve averti dato la caccia a lungo. Perché l'ha fatto? Io ti avrei lasciato andare.» «Ha trovato il mio torchio.» «Ha trovato cosa?» «Ha trovato il mio torchio. La mia collana d'oro. Sapeva che sono il figlio di un capo, e voleva uccidermi.» «E così sei il figlio di un capo, eh? Non un semplice capitano, un vero capo! Sono colpito. Come ti chiami? E come mai il figlio di un capo celtico parla così bene latino?» Mi misi in posizione eretta e parlai con tutta la dignità che riuscii a trovare, determinato, nudo ed escoriato com'ero, a impressionare lo sconosciuto. «Sono di sangue romano. Il mio nome è Caio. Caio Merlino Britannico. Mio padre è un legato di Roma. Combatte al fianco di Stilicone.» L'effetto della mia dichiarazione fu benefico. Si strozzò. Sputacchiò e tossì, il suo cavallo si impennò innervosito e nascose alla mia vista il volto del cavaliere, che finalmente riacquistò il controllo della sua cavalcatura e di se stesso e si fermò, tornando a guardarmi con gli occhi spalancati e arrossati per il tanto tossire. «Perdonami» disse. «Mi è andata della saliva di traverso. Allora tuo padre è un legato? Beh, dovrebbe esserlo, per averti imposto il fardello di un simile nome. Merlino? Non è un nome romano. Almeno, non l'ho mai sentito prima.» «No» ammisi. «Hai ragione, non lo è. In realtà è Merlyn. È celtico.» «Capisco.» Scosse la testa, con un sorriso di sincera incredulità di cui persino io mi accorsi, e mi porse la mano destra. «Prendi la mia mano e salta in groppa qui davanti a me. Un uomo con un nome come quello deve cavalcare davanti.» Feci come mi diceva, e mi sostenne con il braccio sinistro. «Sai cavalcare, ragazzo?» «Sì, signore.» «Bene, allora tienimi la lancia e aggrappati alla criniera del cavallo. Saremo subito all'accampamento.» Non mentiva. Ebbi appena il tempo di raccontargli di Uther e della nostra fuga dal pozzo, che già sentivo il profumo del fuoco di legna, e sbucammo dagli alberi in un accampamento bene organizzato dove si stavano riposando altri cinque uomini. Mentre ci avvicinavamo al fuoco ci guardarono tutti incuriositi. «Generale» disse il mio soccorritore, «credo che dovresti fare la conoscenza di questo giovanotto. Dice di chiamarsi Caio Merlino Britannico.» Mi posò delicatamente a terra di fronte al fuoco, dove un gigante d'uomo in corazza nera di cuoio si alzò e mi sovrastò, fissandomi con una strana espressione. «Caio Merlino Britannico» disse il mio soccorritore, «questo è il legato Caio Pico Britannico.» Mio padre era tornato a casa. III. Non avevo mai conosciuto mia madre, ma sapevo molto di lei; anzi, tutto quello che ricordava chiunque l'avesse conosciuta. Sapevo che si chiamava Enid e che era la sorella del grande e barbuto re dei Celti della Cambria, Ullic Pendragon, il nonno di Uther. Avevo in mente un'immagine di lei, composta da frammenti di descrizioni che avevo raccolto sul suo aspetto: in quell'immagine era sempre alta e bellissima, dal passo ardito e lo sguardo fiero, con i lunghi capelli sciolti, neri come le ali di un corvo. Aveva zigomi alti e ampi e denti bianchi e scintillanti che balenavano a ogni risata, e i suoi occhi erano verdi come l'erba sugli stagni d'estate. Nella mia mente sentivo anche la sua voce, musicale e aggraziata, cantilenante come quella del popolo della montagna, eppure stranamente profonda e quasi roca, traboccante d'amore e di tenerezza per me. Sapevo molto di mia madre, ma l'avevo saputo da persone che erano contente di raccontare a un bambino orfano di madre tutto ciò che bramava sapere; persone ansiose di esprimere i loro desideri, piuttosto che le loro opinioni, dei ricordi legati a una donna morta da tempo. Mio padre, al contrario, era ancora perfettamente vivo, e il suo aspetto e le sue dimensioni facevano in modo che nessuno desiderasse parlare di lui a me, il suo unico figlio. Come fa un ragazzo a scoprire la vera natura del proprio padre? La vera natura dell'uomo, intendo dire? In realtà non la scopre. Almeno non riguardo le cose che il mondo ritiene importanti, perché quando un ragazzo è ancora un ragazzo, cose simili per lui non significano nulla. Ho scoperto mio padre solo dopo essere diventato uomo io stesso, e molto di quello che ho scoperto dopo la sua morte mi è stato rivelato, come ho già detto, semplicemente perché io sono Merlino. Quand'ero ragazzo, mio padre era una presenza mistica, quasi mitica alla periferia della mia vita. Era sempre ih guerra durante la mia infanzia e la mia adolescenza, e lo vedevo brevemente e sporadicamente, durante le sue rare visite a casa. Spalle larghe, torace ampio, muscolatura possente: Pico Britannico non era solo un uomo grande e grosso. In un mondo dove gli uomini normali erano alti cinque piedi e mezzo, lui si elevava al di sopra di sei piedi. Di mezza testa più alto del più alto dei suoi subordinati, era un soldato da capo a fondo, dentro e fuori. Era magnifico da guardare, con i capelli insolitamente dorati, la splendida tunica di lana bianca bordata da una spessa striscia nera, e la luccicante, lucidissima corazza nera di cuoio, e l'altrettanto nero equipaggiamento. Perfino la cresta sull'elmo era straordinaria, composta di ciuffi di crine di cavallo bianchi e neri alternati. L'unico tratto del suo abbigliamento che non rispettasse il rigido schema di colori era l'elsa di bronzo della spada corta che portava al fianco destro, la spada che gli aveva dato zio Varro quando per la prima volta si era unito alle legioni. Anche i suoi cavalli - sempre neri come il giaietto - venivano appositamente selezionati per la loro altezza, così che ovunque andasse era imponente, e attirava lo sguardo degli uomini per la sua grandezza, e per l'abbagliante biancore della morbida lana che foderava l'ampio mantello nero da guerra. Mio padre era un comandante agli occhi di tutti gli uomini, e i suoi soldati lo adoravano. Per il suo figlioletto, invece, era una figura che incuteva timore e sgomento. Parlava poco, perché una freccia gli aveva lacerato la gola prima che nascessi e l'aveva lasciato con un terribile tormento, e quando parlava le sue parole erano gravose e gutturali. Era però deciso a superare il suo difetto, e invecchiando lo sconfisse in larga misura. Portava i capelli lunghi, un'affettazione per coprire la brutta cicatrice dove la freccia gli aveva trapassato la bocca emergendo dalla nuca, e anche quello lo distingueva dai Romani al suo comando, tutti con i capelli corti. Quel primo giorno che lo incontrai, mi soggiogò completamente. Dopo avermi esaminato in silenzio, con gli occhi sbarrati pieni di stupore, mi sollevò per i gomiti come se fossi una piuma finché ci trovammo faccia a faccia. Poi si rilassò in un ampio sorriso, tutto denti bianchissimi, mi scosse dolcemente, e mi rimise a terra, ringhiando qualcosa che non compresi. I suoi uomini si fecero avanti a stringermi solennemente la mano, come a un uomo, mentre quello che mi aveva salvato riferiva la mia avventura quasi parola per parola come gli avevo detto che era accaduta. Quell'uomo era Tito, un amico di mio padre del quale avevo letto e sentito parlare. Un altro, Quinto Flavio, era inginocchiato accanto al fuoco, e badava allo stufato di coniglio che Tito pregustava durante il giro di pattugliamento intorno al campo, prima di trovarmi. Non appena Tito ebbe finito di raccontare la mia storia, mio padre mi guardò. «Uther?» ringhiò. «Dov'è?» Alzai le spalle, conscio della mia confusione. «Non so dove sia andato, signore.» «L'hanno seguito?» Di nuovo alzai le spalle. «Non lo so.» «Va bene. A cavallo!» Lasciammo il fuoco acceso. Flavio rovesciò la pentola sui carboni, e nell'aria vorticò una nuvola sibilante di fumo e ceneri. In pochi minuti eravamo tutti a cavallo, e stavamo ripercorrendo la strada per la quale Tito e io eravamo venuti. Questa volta cavalcavo di fronte a mio padre; la mia nudità era coperta dal suo lungo mantello, e mi sentivo bene, seppure preoccupato da quello che avremmo potuto trovare sulla scena dell'attacco. Emergemmo dalla foresta quasi nello stesso punto in cui ero entrato, e la prima persona che vidi fu Uther, completamente vestito, che cavalcava verso di noi con quattro uomini di suo padre. Ci scorse nel medesimo istante, e tirò le redini del suo pony facendolo impennare, pronto a fuggire da quella nuova minaccia, ma poi mi vide davanti a mio padre, e gridò allegramente il mio nome agitando la mia tunica sopra la testa. «Quello è Uther!» dissi. «Ha i miei vestiti.» Due degli uomini che erano con Uther riconobbero mio padre, e ci rimasero accanto quando ci unimmo al resto dei superstiti. Un soldato di mio padre si lasciò sfuggire un fischio di stupore. «Guarda che roba!» Per la prima volta vedemmo l'effetto degli archi lunghi di tasso di Ullic Pendragon se imbracciati da uomini addestrati e determinati. I corpi dei Sassoni erano ovunque. Arrivai fino a quattordici, e poi persi il conto. I Celti stavano estraendo le frecce da morti e feriti. La nostra comitiva aveva perduto quattro uomini, uccisi nell'attacco iniziale che li aveva colti di sorpresa. Nessuno era venuto a mancare dopo che gli arcieri avevano incominciato a combattere, e i Sassoni erano scappati terrorizzati dalle frecce contro le quali non potevano difendersi. Un guerriero delle colline descrisse ridendo l'accaduto. «Pensavano dì essere al sicuro, dentro le loro belle camicie a maglie, ma poi hanno visto che cadevano in tanti, che le nostre frecce attraversavano le belle camicie e tutto quanto. Avevano già combattuto contro degli arcieri, ma non gli era mai capitato niente di così letale come le nostre nuove frecce. Huw ne ha preso uno dritto in testa, e l'ha passato di netto, elmo compreso!» «Quanto era lontano?» chiese mio padre. «Non più di venti passi. Queste frecce passano da parte a parte un asse di quercia spesso un palmo a centosessanta passi.» Mio padre emise un grugnito di impazienza, e guardò i cadaveri disseminati sull'erba. Erano già stati privati di armi e corazze, e queste erano state ammucchiate vicino al fuoco di un bivacco. Huw, il comandante del gruppo di Celti, notò l'evidente impazienza del legato e gridò agli uomini nella loro lingua nativa di prepararsi a partire, e di mettere i corpi dei quattro uomini uccisi di traverso sui cavalli, per poterli poi seppellire. Tito fece un cenno verso il mucchio di armi e corazze. «Che cosa ne fate di quelle? Avete un carro per trasportarle?» «No» brontolò Huw. «E non possiamo tenerle. Avevo pensato di sotterrarle. Non posso lasciarle in giro.» Uther si intromise, e la sua voce parve fuori posto tra le voci degli uomini. «Offriamole alla dea del laghetto, laggiù, dove Caio e io siamo andati a nuotare. É molto profondo.» «Questa sì che è un'idea, ragazzo!.» Huw approfittò subito del consiglio e incaricò quattro uomini di trasportare il bottino e gettarlo nella pozza. «Mi spezza, il cuore vedere tanto spreco, ma un giusto sacrificio come ringraziamento per la vittoria non ha mai fatto male a nessuno e comunque non guasta mai.» «E i corpi? I Sassoni?» chiese ancora Tito. La smorfia di disprezzo che accompagnò la risposta di Huw fu piuttosto eloquente. «I corpi? Che quei bastardi marciscano dove si trovano. Lupi e corvi non ci metteranno molto a ripulirli.» Qualcosa lo distrasse, e la sua voce si levò in un urlo. «Avanti, gente! Vi sbrigate, o no? Mancano venti miglia a Camulod, e ci voglio arrivare con la luce del giorno! Muovete il culo!» Il leggero cipiglio di Flavio mostrava tutta la sua perplessità. «Camulod? Che cos'è mai?» «Noi chiamiamo così il nostro forte, signore» gli risposi. «Camulod.» Flavio guardò mio padre, che inarcò un sopracciglio e si strinse nelle spalle, senza dire niente. Lasciammo il campo coperto di cadaveri e partimmo di .buon passo per la Colonia. Mi ero rivestito, e il mio corpo era un ammasso dolorante per innumerevoli staffilate, lividi, escoriazioni e tagli accumulati durante la fuga. L'occhio destro era pesto e gonfio e avevo voglia di piangere, ma non osavo mostrare la mia debolezza. Tito si avvicinò. «Come ti senti, giovane Merlino? Stanco?» Mi sforzai di sorridere, e feci di sì con la testa. «Lo immaginavo» continuò. «Hai fatto una lunga corsa.» Annuii ancora. «Perché non cavalchi insieme a me? Così, se ti addormenti, non cadi da cavallo.» Doveva avere letto la gratitudine sul mio viso, perché accostò il cavallo al mio pony e mi sollevò davanti a sé. Io mi guardai attorno per vedere se qualcuno ridesse di me, ma nessuno badava a noi, e immediatamente mi addormentai, cullato dalle ferme braccia di Tito, il mio protettore. Mi svegliai molto tempo dopo al suono dei corni, ed ecco in lontananza le mura di Camulod, che incoronavano la collina e sovrastavano la vallata. Io ero un ragazzino irrigidito e indolenzito, e ricordo che ci volle tutta la mia determinazione, per non gridare di dolore quando Tito mi consegnò nelle mani accoglienti che mi reclamarono non appena arrivammo nella corte della villa di mio zio. La spossatezza mi sopraffece durante un bagno caldo. Non ricordo di essere stato messo a letto. Il mattino seguente, però, mi svegliai con tutto il mio consueto vigore, ben consapevole che mio padre, il legato Pico, era a casa. Speravo che ci rimanesse, e fu così. Questa volta era tornato a casa per sempre. Stilicone, il comandante in capo di mio padre, era stato richiamato dalla campagna contro gli Ostrogoti dal suo antico pupillo, l'imperatore Onorio, ed era rientrato, secondo gli ordini del suo padrone, solo per essere sommariamente giustiziato a causa di un presunto complotto che se fosse riuscito gli avrebbe permesso di usurpare il trono dell'Impero. Mio padre era rimasto ad affrontare gli Ostrogoti alla testa dell'esercito di Stilicone, ignorando completamente che i medesimi cospiratori che avevano eliminato Stilicone avevano condannato anche lui: Pico Britannico un giorno era un legato, e il giorno dopo era un fuorilegge ricercato. Grazie a un tempestivo avvertimento e alla lealtà dei suoi veterani, era fuggito prima dell'arrivo degli uomini inviati per ucciderlo. Con un piccolo gruppo di uomini e ufficiali aveva attraversato il continente, ed era ritornato in Britannia, dove adesso era al sicuro dallo scontento imperiale. Ma le speranze, che albergavo nel mio cuore di bambino, di stare da allora in poi con mio padre erano destinate a svanire. Dal momento del suo rientro a Camulod, le attività militari dell'intera Colonia si erano intensificate. Zio Varro rinunciò al supremo comando delle nostre forze a favore dì mio padre, che subito si prefisse di migliorare e di affinare il livello del nostro operato, dal rafforzamento delle difese della Colonia e dall'incremento delle opere di costruzione sulle mura, al sostenuto aumento della frequenza, e dell'accuratezza, dei pattugliamenti a cavallo nei territori circostanti. Nella primavera di quell'anno 409, la realtà di un'invasione su larga scala divenne innegabile. Avevamo notizie di gravi scorrerie lungo tutta la costa, e giungevano numerose voci di consistenti bande di razziatori - eserciti composti da molte navi di guerrieri - che saccheggiavano le città, uccidevano gli uomini e tenevano le donne per abusarne all'occasione, e poi fortificavano essi stessi le città, e se ne servivano come basi per sortite in altri luoghi della regione. Venimmo a sapere che era stata stabilita una base di quel genere a sudest rispetto a noi, in un villaggio situato sulla sommità di una collinetta e perciò protetto da attacchi di sorpresa. Secondo il rapporto che ci fece un prete errante, tre gruppi di razziatori avevano unito le loro forze, e avevano occupato e fortificato il villaggio, terrorizzando la regione per miglia tutt'attorno grazie alla posizione privilegiata. Ero nell'Armeria, intento ad ascoltare una conversazione tra mio padre e mio zio, quando giunse la notizia. Mio padre stava parlando, in quel suo modo lento e forzato, di costruire delle torri lungo le mura del forte per ospitare balista, scorpioni e altri pezzi di artiglieria di quelli usati dall'esercito di Stilicone. Le tecniche di assedio erano progredite notevolmente dai tempi delle campagne di Cesare in Gallia e in Iberia, ma le innovazioni più geniali venivano sviluppate per la difesa contro le macchine da assedio. I bastioni posti a intervalli lungo la cinta delle mura, sporgendo in fuori permettevano ai difensori di riversare sugli attaccanti una pioggia di fuoco micidiale, e l'efficacia dei bastioni aumentava con l'aumentare della loro frequenza lungo le mura. Come i forti della Costa Sassone, diceva mio padre. Il modo in cui erano costruiti li rendeva inespugnabili. Le macchine da assedio non si potevano avvicinare. A Camulod dovevamo fare lo stesso. Lungo la facciata dovevamo aggiungere torri che sporgessero in fuori - molto in fuori - per proteggere i punti più deboli delle nostre difese; torri che avrebbero concesso ai nostri soldati una costante supremazia, indipendentemente dagli sforzi degli aggressori; torri strategicamente erette sulle alture salienti della collina di Camulod, e dalle quali i difensori potessero guardare all'interno e in basso, verso i livelli inferiori. Fu a questo punto che Tito interruppe il discorso, introducendo un messaggero con notizie dei razziatori e della loro base fortificata a sud-est. Non appena lo vidi seppi che era uno di quei preti erranti che diffondevano il Vangelo del Cristo in tutta la regione, a tutti coloro che fossero disposti ad ascoltare. Era un uomo alto e magro, con la barba, una veste semplice e senza pretese e un bastone da pastore, simbolo della sua vocazione. Fissando estasiato lo splendore della stanza, si fece avanti a salutare i suoi due occupanti, ignaro della mia minuscola presenza sul pavimento dietro alla sedia di mio padre. Zio Varro e mio padre ascoltarono la sua storia senza interromperlo. Mio padre fece solo due domande: «Quanto dista questo posto? E quanti Sassoni ci sono?». L'uomo era incerto sulla distanza, che poteva essere tra le venti e le trenta miglia, ma in due giorni aveva contato personalmente non meno di duecento uomini dentro e fuori dal villaggio. Mio padre lo ringraziò e fece cenno a Tito, che accompagnò il prete da qualcuno che potesse mostrargli la strada per le cucine. Quando le porte si furono richiuse alle loro spalle, zio Varro parlò. «Venti o trenta miglia. Non sono troppo vicini. Non sono nemmeno vicini alle nostre terre.» «No, Publio, ti sbagli. Sono fin troppo vicini. Anche a cento miglia sarebbero troppo vicini.» «Che cosa vuoi dire? Per quella marmaglia sono tre giorni di marcia, forse quattro o cinque! Se sbarcassero domani a nord o a sud arriverebbero prima.» Mio padre scrollò le spalle. «Garantito. Ma non lo farebbero. A meno di essere disperati. Sarebbero troppo lontani dalla loro nave, la loro base. Non capisci? Questo è importante, Publio! Quegli animali si sono creati un campo base sulla terraferma. Hai sentito il prete. È fortificato. Significa che è resistente. Non devono preoccuparsi che qualcuno lo trovi e lo affondi. E hanno anche le donne. Con cibo e sesso a sufficienza, non avranno fretta di tornare da dove sono venuti. Dagli il tempo di rilassarsi e di godersela, e potrebbero decidere di rimanere. Dagli il tempo di rinforzarsi e di saccheggiare le campagne circostanti, e se ne andranno in cerca di nuovi terreni di caccia.» Tacque e scosse la testa, poi riprese. «Non mi piace per niente. Nemmeno un po'.» La porta si aprì e Tito rientrò nella stanza. «Ebbene, che cosa ne pensi, Tito?» Tito fece un cenno di assenso e parlò. «I Visigoti di Alarico, generale. Quando ci sono saltati addosso in Tracia. Mi sono scottato una volta, e diffido del fuoco.» «Bravo. Stavo pensando alla stessa cosa. Siediti, e dillo anche a Publio.» Tito si sedette, rivolgendosi a mio zio. «I Visigoti facevano così in Tracia, comandante. Prendevano d'assalto una città, uccidevano gli uomini, tenevano le donne, e le tenevano a bada minacciando i bambini. Poi si fingevano cittadini, cambiavano armi e vestiti. Siamo entrati in una di quelle città senza un dannato sospetto. Due giorni dopo, abbiamo incontrato Alarico faccia a faccia, e proprio quando meno ce lo aspettavamo e meno ne avevamo bisogno, quella gente ci ha attaccati alle spalle. Abbiamo quasi perso la battaglia, e avremmo potuto perdere molti più uomini e cavalli. Pensavamo di avere ripulito tutta la regione, ma quelli erano sempre stati lì. Un errore che ci è costato caro.» Mio padre parlò ancora, con la sua voce gutturale e quasi incomprensibile. «Una base sicura, Publio. Non ne hanno mai avuta una prima. L'hanno usata come una catapulta. Ci hanno quasi distrutti.» «E allora che cosa proponi?» chiese zio Varro. «Una spedizione. Annientiamo quei bastardi!» Mio zio era perplesso. «Facile a dirsi, ma come possiamo fare? Il prete dice che il villaggio è fortificato. Che cosa può fare la tua cavalleria contro le posizioni fortificate?» «Arcieri.» «Quali arcieri?» Mio padre assentì con enfasi. «Gli uomini di Ullic. Con i loro archi. Abbatterli come piccioni.» «Ma come, Pico? Non seguo la tua logica.» Zio Varro era confuso, e mio padre era sempre più frustrato per la propria incapacità di parlare con chiarezza. Alla fine sputò fuori una parola. «Inganno!» «Inganno? Ingannarli, vuoi dire? I Sassoni? Come?» «Farli uscire allo scoperto. La tattica di Alessandro. Coglierli di sorpresa. Attirarli fuori. Maledetta gola! Dammi qualcosa da bere, Tito. E anche qualcosa per scrivere.» Scrisse per quelle che mi parvero ore, mentre gli altri leggevano da sopra le sue spalle, e, leggendo, la loro eccitazione aumentava. A un certo punto zio Varro gli diede una manata sulla schiena, e con voce resa acuta dall'emozione disse: «Per Dio, Pico, potrebbe funzionare! Li terrorizzerà prima, e poi li attirerà verso la morte! É geniale! Dobbiamo avvertire immediatamente Ullic e Uric. Chissà quanti arcieri hanno adesso? Beh, lo sapremo presto. Sarà la nostra prima occasione di mettere alla prova i nostri due eserciti insieme». Mio padre parlò di nuovo, molto più distintamente. «Diglielo, montagne di frecce.» Arrivò re Ullic in persona, con mio zio Uric e cinquantaquattro arcieri. Gli ci vollero dieci giorni per radunare gli uomini e per prepararli. Andò Tito ad annunciare il piano. Portò con sé tre cavalli, e praticamente senza sosta fece in tre giorni un viaggio di quattro giorni su terreno montuoso, e poi tornò subito indietro precedendo gli uomini delle colline. Quando arrivarono, lo schema della campagna era stato definito, ed erano stati presi tutti gli accordi. La notte del loro arrivo si tenne un consiglio di guerra, dal quale Uther e io fummo banditi, e la spedizione partì presto il mattino seguente. Duecentottanta uomini uscirono da Camulod quel giorno, montati sul fior fiore delle nostre cavalcature. Uther e io li guardammo allontanarsi, la prima spedizione militare ufficiale di Camulod; la prima manifestazione di una forza nuova nella terra di Britannia. Mio padre cavalcava alla loro testa, con Tito e il padre di Uther. Re Ullic cavalcava più indietro, con il suo contingente di arcieri, montati per l'occasione sui nostri cavalli di maggiori dimensioni. Abituati ai pony di montagna, molti avrebbero sofferto in capo a quella cavalcata di quaranta miglia. Ognuno portava due faretre di frecce, a eccezione del re, ormai troppo vecchio per tendere il suo arco possente. In fondo al contingente cavalcava un gruppo di uomini molto diversi dagli altri per aspetto. Zio Varro aveva trascorso molto tempo a sperimentare un nuovo scudo adatto agli uomini a cavallo, fino da quando, anni prima, il suo scudo l'aveva ferito alla gamba durante l'attacco alla villa di Vegezio Sulla. Adesso la maggior parte della nostra cavalleria portava uno scudo ovale o rotondo imbracato dietro le spalle. Gli uomini alla retroguardia della colonna, invece, portavano tutti il grande, pesante scutum dei legionari romani, e ogni scutum aveva una varietà di lance e giavellotti infilati nelle cinghie di cuoio. Costituivano un'insolita aggiunta, ma la loro presenza aveva uno scopo. Uther e io salimmo in cima alle mura, e li vedemmo sparire tra gli alberi lontani. Rimanere a casa era per noi una 'delusione cocente, ma ci ripromettemmo che sarebbe giunto il giorno in cui non solo saremmo partiti, ma avremmo cavalcato alla testa di un esercito. IV. Camulod sembrava muta e abbandonata dopo la partenza delle truppe. Si erano portate via anche il piacere dei giochi che normalmente occupavano il nostro tempo libero, e così Uther e io andammo ognuno per le sue faccende, lui nelle stalle e io nell'Armeria di mio zio, dove mi appollaiai sulla mia sella e cedetti alla tentazione di immaginare la riuscita della spedizione con i pochi elementi che conoscevo del piano ideato da mio padre e dagli altri. Passarono due settimane prima che tornassero a casa, ammaccati e insanguinati, ma giubilanti e vittoriosi. La notte della rimpatriata Uther e io facemmo del nostro meglio per stare appiccicati ai condottieri che dovevano riferire tutto l'accaduto a zio Varro e agli altri membri del Consiglio ma quando furono tutti riuniti era molto tardi, e Occa ci trovò e ci trascinò a letto. Scappammo e ci nascondemmo, ma riuscimmo soltanto ad attirare l'attenzione di mio padre, che quella sera non aveva né il tempo né la pazienza di sopportare due bambini. Ci spedì a letto con un disgusto così profondo che non ci passò nemmeno per la mente, come di solito capitava, di spiare Occa che si preparava per la notte. Fummo informati della battaglia il mattino dopo, da Tito, ormai il migliore amico che io e Uther avessimo tra gli uomini adulti di Camulod... con l'eccezione, naturalmente, di zio Varro, il nonno di Uther. Tito si avvicinò a noi mentre stavamo combattendo con spade e scudi di legno, e rimase a guardare finché io non trovai un'apertura nella guardia di Uther e con il piatto della spada gli diedi una bella botta sulla testa, molto più violenta di quanto intendessi. Con un ruggito di rabbia, Uther buttò a terra le armi e mi si avventò contro a mani nude, gli occhi oltraggiati pieni di lacrime e di desiderio di sterminio, e in un attimo ci ritrovammo a terra, avvinghiati in una lotta mortale. Tito ci divise e ci trattenne, furenti e scalpitanti, uno a ciascuna estremità delle forti braccia. «Ehi» tuonò. «A che pro addestrarvi a combattere e a essere dei capi, se cercate di uccidervi a vicenda? Tra voi due non c'è spazio per i litigi!» D'un tratto piegò i gomiti, tirandoci a sé, guancia a guancia contro la sua faccia feroce, e ci fulminò con un'occhiata. «Credevo che voleste sentire come abbiamo sconfitto i Sassoni, ma se preferite perdere tempo a battervi, fate pure; io vado a trastullarmi con una donna.» Il nostro bisticcio fu subito dimenticato. «Racconta, Tito, racconta, per favore! Non facevamo sul serio» strillammo, quasi all'unisono. «Bene, siete certi di volere ascoltare tutta la storia? Potreste annoiarvi.» Protestammo di essere immuni alla noia, «D'accordo, allora, venite con me. Si sta facendo tardi e questa storia ha bisogno di un fuoco.» Lo seguimmo fuori dai cancelli sul pendio della collina, dove si fermò e si guardò intorno. «Laggiù.» Indicò un punto che era stato usato come bivacco. «C'è un cerchio per il fuoco, e dei tronchi per sedersi, ma non c'è legna. Andate, poppanti, e trovate del combustibile per le nostre fiamme.» Tornammo in un baleno con le braccia cariche della legna ammucchiata contro le mura. Nel frattempo Tito aveva trovato degli sterpi per accendere il fuoco, e aveva preso un ceppo di legna ardente da un fuoco vicino. Senza fiato per l'impazienza dell'attesa lo guardammo alimentare le braci con erba secca e ramoscelli, soffiare fino a trarne la fiamma e aggiungere legna affinché il fuoco continuasse a bruciare da solo. Finalmente si ritenne soddisfatto: depose sul fuoco dei grossi ceppi e si raddrizzò in tutta la sua altezza, scrutando nel crepuscolo incombente la pianura sottostante. Infilò i pollici nella cintola del gonnellino a strisce di cuoio e metallo, e si girò verso di noi. Nessuno aveva più detto una parola da parecchio tempo. Eravamo lì seduti e lo fissavamo, e aspettavamo che ci raccontasse la sua storia. «Da dove posso incominciare? A due gagliardi guerrieri come voi bisognerebbe raccontare tutto. Un giorno toccherà a voi guidare le nostre truppe.» Scherzava per metà - glielo leggevamo negli occhi ma poi divenne serio e si sedette su un tronco di fronte a noi, dall'altra parte del fuoco. Le fiamme danzavano alte, adesso, e i ceppi mandavano scoppiettanti scintille. Restammo a lungo ad ascoltare il crepitio della legna secca, e poi Uther si schiarì la voce. «La battaglia contro i Sassoni, Tito.» «Ah, sì. La battaglia contro i Sassoni! Ecco perché siamo qui.» Fece un'ennesima pausa, ricordando, mentre noi pendevamo dal suo silenzio, e non distoglievamo lo sguardo dal suo viso. «Quei Sassoni avevano una vera fortezza» disse infine. «Li osservavamo da un boschetto sul lato opposto della vallata, e credetemi, ne fummo impressionati. Il prete che ci aveva portato la notizia aveva detto che erano acquartierati in un villaggio fortificato su una collina. Speravamo che si fosse sbagliato, o che fosse stato impreciso come sarebbe normale per un civile, ed era così. Quel posto in realtà era costruito sull'estremità di una lunga cresta che si stendeva come un dito sopra a una palude. C'era una grossa differenza. Sapete dirmi perché?» Uther fu più lesto di me a rispondere. «Una collina è più facile da difendere di una cresta... contro di noi, almeno.» «Perché?» Tito era mortalmente serio, e il tono della sua voce era del tutto privo di condiscendenza. «Perché i nostri cavalli possono andare all'attacco lungo una cresta meglio di quanto non potrebbero fare dal basso di una collina.» «Ragazzo in gamba. E così un problema era risolto. Caio, qual era l'altro problema?» Pensai intensamente, per essere certo che la prima reazione fosse stata esatta. «La palude. Se ci fosse stata troppa acqua, non avreste potuto attraversarla.» «A quale scopo? Hai ragione, ma perché avremmo dovuto attraversare la palude?» «Per arrivare ai piedi della collina, costringere i Sassoni a scendere in campo contro di voi e distrarre la loro attenzione dalla cresta e dalla nostra cavalleria.» Spalancò gli occhi in scherzosa ammirazione. «Splendido! Un giorno sarai un grande generale, ragazzo mio.» «Non grande quanto suo padre» borbottò Uther, malignamente pensai, ma poi aggiunse: «Non ha le legioni». Tito sorrise. «Beh, forse no, ma adesso non le ha nemmeno suo padre, eppure il piano che ha ideato, e il modo in cui l'ha messo in atto, è stato una prova di intelligenza. Di più; è stato un colpo di genio, puro e assoluto.» Si spostò sul suo tronco in una posizione più confortevole e buttò dell'altra legna sul fuoco, incantandosi a guardarla prendere a fiammeggiare finché dovetti chiedere, nell'agonia della frustrazione: «Che cosa ha fatto, Tito?». «Perdonatemi» sorrise, «stavo ricordando. Osservammo dal bosco per circa un'ora, e poi tornammo dove ci eravamo, accampati, circa due miglia più indietro in una valle sicura. Gli uomini di Ullic trascorsero il resto di quel giorno e la notte a fare i loro preparativi. Un'ora dopo il calare delle tenebre, tuo padre mi mandò con una dozzina di uomini lungo la valle a controllare la compattezza del terreno. Pioveva forte da giorni.» «Come avete controllato?» chiesi. «Camminandoci sopra. Conosci un modo migliore?» «Ma non vi ha visti nessuno?» «Al buio? Ricorda che i nostri mantelli sono neri.» «Ma bianchi dentro.» «Non tutti. Solo quelli degli ufficiali. Ho scambiato il mio con quello di un soldato. Ci siamo anneriti la faccia, e a pie- di nudi abbiamo percorso tutto il fondo della valle fino alla base della cresta.» «E poi?» «Il terreno era bagnato, ma compatto. I nostri occhi erano abituati all'oscurità e non avemmo problemi. Tornammo al campo e io feci rapporto. Poi ricominciò a piovere, e piovve a dirotto senza interruzioni per tutta la notte, tuoni e lampi che spaventavano i cavalli, e tutto così impiastrato di fango che sarebbe stato impossibile combattere. Avevamo stabilito di attaccare all'alba, ma era un'impresa disperata. Dovemmo restarcene nascosti nel nostro campo e aspettare che il tempo cambiasse.» «Quanto avete dovuto aspettare?» chiese Uther, avido di dettagli quanto me. «Solo un giorno. A metà mattina le nubi si sono diradate, e c'è stato un sole abbagliante per il resto della giornata. Nel tardo pomeriggio il generale, Uric, re Ullic e io siamo tornati nel bosco all'estremità della valle. Il nostro tempismo era perfetto. Il giorno prima avevamo contato un'ottantina di uomini in campo nemico, ma il secondo giorno ci eravamo appena messi in posizione nel bosco, quando vedemmo almeno cento uomini avvicinarsi da est. Evidentemente tornavano da un giro di razzie. Avevano carri stracolmi, e file di donne legate una all'altra. Li vedemmo salire la collina ed entrare nell'accampamento, e assistemmo ai festeggiamenti che iniziarono subito dopo. Eravamo contenti di avere aspettato, perché sapevamo che al mattino sarebbero stati in molti ad avere la testa pesante per i postumi di una sbornia.» «E poi? Che cosa è successo?» Le sue pause di riflessione mi rendevano quanto mai impaziente. «Oh... Ritornammo al campo e correggemmo i nostri piani, e poi dormimmo per alcune ore. Appena prima di mezzanotte, il generale Pico partì con la sua cavalleria, per fare un largo tragitto circolare che molto prima dell'alba li avrebbe condotti sulla cresta a ovest della roccaforte. La notte precedente, mentre io ero nella valle con i miei uomini, aveva mandato degli esploratori a segnare la strada.» Guardò Uther. «Due ore dopo, re Ullic e Uric, tuo padre, partirono con i loro arcieri, e subito dopo partirono anche gli altri, e io rimasi con una scorta di venti uomini a cavallo, e mi appostai sul pendio della collina che avevamo utilizzato come punto di osservazione. E poi si trattò solo di attendere la luce del giorno.» Tito ridacchiò e scosse la testa. «Perché ridi?» gli chiesi. «Ricordavo. Non ho mai visto niente di così bello, e tra tutti io godevo della vista migliore. Era davvero magnifico.» Scosse ancora la testa, sorridendo beato. «Allora?» Uther era anche più impaziente di me. «Racconta!» «D'accordo. Che cosa accadde otto anni fa e poi di nuovo due anni fa, di cui sono al corrente tutti i Sassoni?» «Le legioni se ne sono andate.» «Esatto. Le legioni se ne sono andate. Immaginate perciò l'alba di un mattino d'estate, proprio quando gli uccelli iniziano a cantare, e c'è un campo di predatori sassoni, al sicuro dietro le mura di pietra sulla cima di una collina, e d'un tratto in lontananza sentono un suono che non si aspettano e che non vorrebbero mai sentire: il rullio di un tamburo. E lungo la valle sopraggiunge uno spettacolo che nessuno di loro avrebbe mai pensato di rivedere in Britannia. Una truppa di soldati romani. Legionari, a passo di marcia, in completa armatura, elmi, scudi, lance e mantelli, e al comando tre centurioni a cavallo. Un intero manipolo, centodieci uomini, in marcia lungo la valle. Improvvisamente il trombettiere lancia un segnale e tutti scattano a passo di corsa. Scommetto la mia migliore armatura da parata che in tre minuti dal primo battito di tamburo non c'era un solo sassone ancora addormentato. Ma poi, inaspettatamente, il centurione anziano scorge il campo sulla collina e da ordine di fermarsi. Tutto si ferma. I soldati sono quasi ai piedi della collina. Il centurione manda un soldato in esplorazione. I Sassoni sono quasi tutti nascosti sulle mura. Il soldato si avvicina, esita, avanza, si blocca, vede qualcosa di sospetto e si volta facendo cenno al manipolo di allontanarsi. Qualcuno dal campo scaglia una freccia. Lo manca, e il soldato si mette a correre giù per la collina. Il centurione anziano grida un ordine, i suoi uomini si girano, e di corsa tornano per dove sono venuti. Romani, che scappano! I Sassoni si riversarono giù dalle mura in un'onda compatta che ricopriva tutto il pendio della collina, e la ritirata si tramutò in una rotta; i legionari correvano verso le paludi alla massima velocità permessa dalle loro gambe. E i Sassoni li seguivano, diritti lungo il sentiero che passava in mezzo alle due file di arcieri nascosti sotto la copertura di erba e giunchi che avevamo approntato due sere prima. Quando i legionari ebbero raggiunto il punto concordato, la tromba suonò ancora, e gli arcieri gettarono la copertura e si disposero al massacro. I Sassoni erano intrappolati tra le due file di arcieri, ventisette su ciascun lato. I Celti scagliavano una freccia dopo l'altra, in un continuo tendersi degli archi, e il sassone più vicino doveva fare cinquanta passi di corsa sotto quella pioggia di frecce per poterli impegnare in un corpo a corpo.» Uther e io eravamo ammaliati. «Intanto» riprese a parlare Tito, «non appena il nemico si era messo a inseguire i legionari in fuga, la cavalleria aveva sferrato un attacco lungo la cresta senza trovare opposizione. Prendemmo quel posto al primo attacco e non perdemmo un uomo. Lo squillo di tromba che aveva fatto entrare in azione gli arcieri aveva anche dato al manipolo il segnale di rimettersi in formazione. Quando iniziarono a scarseggiare le frecce, una formazione a losanga di fanti perfettamente disciplinati era pronta all'assalto. I Sassoni corsero in direzione del loro accampamento, ma sulla vetta videro i nostri cavalieri. Quelli che mantennero un minimo di sangue freddo poterono solo correre verso la mia posizione, attraverso l'apertura appositamente lasciata su un lato dagli arcieri. Non ne erano rimasti più di trenta quando uscii allo scoperto con il mio squadrone per spazzarli via. Non ho nemmeno sporcato la spada di sangue.» «Li avete uccisi tutti?» chiesi con voce tesa. «Fino all'ultimo. Gli arcieri di tuo zio sono spietati. Nessun prigioniero.» «E le donne che erano nell'accampamento?» La domanda di Uther mi sorprese. Mi ero completamente dimenticato delle donne. «Le donne? Abbiamo dato loro del cibo e le abbiamo lasciate tornare a casa.» «E l'accampamento?» Per me, era molto più importante delle donne. «L'abbiamo distrutto completamente. Abbiamo abbattuto le mura. Non erano alte come le nostre, sembravano delle palizzate di pietra. Abbiamo sparpagliato le pietre. Nessuno lo riutilizzerà mai più come accampamento. E questo è tutto. Tranne per un'ultima cosa, l'idea di tuo padre, Caio. Abbiamo ammucchiato i cadaveri dei Sassoni in una enorme catasta, badando che portassero ancora elmo e armi. In futuro, chiunque troverà quel mucchio di ossa saprà che erano Sassoni e che sono morti in battaglia contro un esercito assai più possente di loro.» «Quanti erano, Tito?» chiese Uther. «Li hai contati?» «Sì, trecento, più una ventina. Probabilmente la notte prima era arrivato un altro grosso gruppo, dopo il primo che avevamo visto entrare con le donne.» Uther era impressionato. «E avete lasciato trecento uomini tutti in un mucchio?» «Una montagna di uomini morti, Uther Pendragon. Quel posto puzzerà per i prossimi cinque anni. Ma dimostrerà a chiunque che in questa terra non c'è spazio per i Sassoni vivi.» Rimasi lì seduto, a fissare il fuoco e a cercare di immaginare una catasta di trecento uomini morti. Chissà quante ossa! Quelli furono anni di cambiamenti per la nostra terra, incentrati, agli occhi dei comandanti della Colonia, su due necessità impellenti: il cibo e le armi. La prima spedizione punitiva, unita a un altro quasi simultaneo evento, segnò nella vita di Camulod l'inizio di una nuova fase, così come gli avvenimenti cruciali descritti nelle cronache di Caio Britannico e Publio Varro: il matrimonio di Varro e Luceia, che fu il principio di tutto, la decisione di fortificare la collina dietro la villa, il primo incontro con Ullic Pendragon, e le truppe a cavallo. L'altro evento capitale passò in gran parte inosservato tra la gente comune di Britannia. Solo il Concilio dei vescovi e i pochi centri governativi rimasti ne furono informati. Al principio dell'anno una delegazione di vescovi, agenti come messaggeri della Chiesa, era stata inviata su una delle ultime galee armate a implorare l'imperatore Onorio di intercedere per conto della Chiesa, e di mandare in Britannia delle truppe regolari che servissero come catalizzatore per le forze difensive dell'isola. La delegazione ritornò la primavera seguente, all'incirca nel periodo del nostro intervento sull'insediamento sassone, con la risposta di Onorio: la Britannia ;doveva organizzare le proprie difese e non cercare l'aiuto delle forze imperiali. Quel messaggio, unito alla distruzione dell'insediamento sassone - l'Incursione di Pico, così veniva chiamata - costrinse i Consiglieri di Camulod a riconoscere che in materia di difesa non potevano più mantenere una politica isolazionista. Avevamo scoperto l'esistenza della base sassone quasi per caso, e avevamo mandato una spedizione a liquidare una banda di centocinquanta nemici. Ci eravamo scontrati con una forza di più di trecento uomini, e c'era mancato poco che arrivassimo troppo tardi per ostacolare con successo la presenza nemica ormai sulla soglia di casa. La lezione era ovvia: allo scopo di prevenire l'insorgere di analoghe minacce così vicine a noi, i coloni di Camulod avrebbero dovuto estendere i pattugliamenti oltre l'attuale perimetro della Colonia, coprendo una superficie immensa, perché se Camulod era al centro di un cerchio, ogni miglio di raggio in più comportava un enorme aumento dell'area contenuta nel cerchio protetto. Era un imperativo scomodo, ma inevitabile; non c'erano alternative. Così città e villaggi che non avevano mai sentito parlare della Colonia vennero visitati da pattuglie di soldati disciplinati, e il nome di Camulod echeggiò per tutta la regione. Gli abitanti seppero di non essere più soli e indifesi. Vennero avvertiti di stare in guardia, e informati sul modo di trovare Camulod se avessero avuto impellente bisogno di soccorso armato. Uno dei primi risultati di questa nuova consapevolezza fu un drammatico afflusso di aspiranti coloni, per lo più totalmente privi delle qualifiche necessarie per essere ammessi nella Colonia. Arrivavano a centinaia, in cerca di asilo, e in centinaia dovevamo respingerli, non per durezza di cuore ma per necessità. Da quando avevamo fondato la Colonia, avevamo sviluppato un'economia fondata sull'approvvigionamento. Potevamo mangiare solo ciò che producevamo, e subito ci trovammo di fronte all'impossibilità di nutrire tutti coloro che si presentavano alle nostre porte. Filantropia e sopravvivenza non erano per noi concetti compatibili, Sistemammo un cordone di posti di guardia intorno alle nostre terre, con l'unica funzione di allontanare gente che non potevamo impiegare. Per gli uomini che si davano il cambio ai posti di guardia era una responsabilità terribile, che li investiva in effetti del potere di vita e di morte su tutti coloro che cercavano di entrare a Camulod. Molti, purtroppo, ne abusarono: qualunque donna darebbe il proprio corpo in cambio della vita, ed è raro il soldato semplice in grado di resistere alle astuzie sessuali di donne determinate e disperate, soprattutto donne giovani e provocanti. Poco dopo l'introduzione del cordone di guardia incominciammo a notare nella Colonia la presenza di un gran numero di giovani donne nubili, e dovemmo prendere severe misure disciplinari per fermare l'inondazione, o almeno ridurla a un rigagnolo, I giovani che si presentavano venivano giudicati in base alla loro attitudine come soldati, perché gli impegni che ci eravamo assunti avanzavano eccessive pretese principalmente sulle nostre risorse militari. Al riguardo mio padre fu inesorabile. Fin dall'inizio accettò solo i più forti, perché presumeva, e dimostrò ben presto di avere ragione, che avremmo avuto un'ampia possibilità di scelta. I soldati a piedi riassunsero presto un ruolo importante nella nuova Camulod, perché esaurimmo rapidamente i cavalli da destinare alle reclute. Entro un anno dall'avvio della nuova politica, erano stati stabiliti dei distaccamenti in mezza dozzina di accampamenti decentrati a varie distanze da Camulod. Questi 58 accampamenti, come gli accampamenti romani quattrocento anni prima, iniziarono ad attirare gruppi di coloni che dipendevano dalla sicurezza e dalla promessa di difesa e di sopravvivenza che gli accampamenti erano in grado di fornire. Di conseguenza vennero dissodati altri terreni, e seminati nuovi raccolti, e tutti beneficiammo di ulteriori scorte alimentari. Ai nostri cancelli si presentarono anche molti artigiani, con i loro utensili e i segreti della loro arte, e nessuno di questi fu mai respinto. Erano innegabilmente preziosi, e felici di lavorare per il benessere collettivo in cambio di una casa sicura. Secondo il mio pensiero, invece, il cambiamento più significativo prodotto dall'Incursione di Pico riguardò l'atteggiamento del popolo di Ullic nei nostri confronti. L'azione era stata il loro primo vero assaggio della potenza dei loro nuovi archi lunghi, strategicamente utilizzati in combinazione con una fanteria e una cavalleria disciplinate, e ne volevano ancora. Ma i cinquantaquattro arcieri che avevano partecipato alla spedizione erano gli unici che Ullic era in grado di fornire, e qualunque aumento nel loro numero dipendeva dalla disponibilità di legno per nuovi archi. La costruzione dei grandi archi era nelle mani capaci dell'anziano maestro Cymric, che aveva creato il primo, e dei suoi due figli, e ogni arco era un capolavoro unico. Quell'arma, e l'albero che ne era la fonte, divennero ben presto la forza che dominava il regno di Ullic. Quando i guerrieri ne appresero e ne conobbero il potere, non ci fu bisogno di dire loro di non rivelare ad altri il nome dell'albero. Il tasso divenne sacrosanto nello spazio di una notte, dal giorno in cui il primo arco venne completato, e la sua sacra inviolabilità contribuì alla nascita della leggenda che tutt'oggi lo circonda. Come albero, il tasso rientrava nella giurisdizione religiosa dei druidi, e in breve ogni druido si aggirò per la regione con l'assistenza di un bastone lungo sette piedi. Chiunque fosse stato abbastanza curioso, si sarebbe forse accorto che quei bastoni erano stranamente simili: erano tutti della stessa lunghezza e dello stesso diametro, ed erano tutti di legno di tasso. Ma nessuno se ne accorse, e i druidi continuarono a girare per la regione, tagliando i loro bastoni di tasso ovunque li trovassero, mentre nei sentieri nascosti tra colline e foreste, reconditi boschetti di tasso crescevano incustoditi, tranne che per l'occhiata puntuale e fugace di qualche druido errante. Ullic e Uric stabilirono per il loro popolo una nuova legge. Nessuno poteva possedere un arco. Ciascuno ne era custode per un certo periodo di tempo, e fintante che l'arco era in sua custodia, era responsabile delle sue condizioni e del suo buono stato; tutti gli uomini dovevano venire addestrati al suo uso, e tutti dovevano essere costantemente attenti nell'individuare arboscelli di frassino diritti, con cui poter fare frecce. Alla fine del secondo anno dopo l'Incursione, Uric aveva centoquattro archi lunghi e cinquecento arcieri bene addestrati, ma ancora non poteva prendere parte attiva alle nostre imprese militari. Era costretto a tenere i suoi archi sulla sua terra, dove potevano venire utilizzati per l'addestramento; gli archi corti che i suoi uomini avevano usato in passato non erano più adatti. Proprio come l'introduzione della spada lunga aveva richiesto dei cambiamenti nelle tecniche di addestramento, così l'arco lungo obbligava gli uomini di Ullic ad adottare nuove tecniche di addestramento. Ma il popolo delle colline era determinato a essere pronto per qualsiasi emergenza, e così organizzammo una catena di torri di segnalazione, seguendo il modello delle torri di guardia romane, affinché le nostre due comunità potessero comunicare rapidamente. A Camulod, Equo e Varro tennero costantemente al lavoro i loro armieri, per forgiare le nuove spade lunghe destinate agli uomini a cavallo, e le vecchie spade corte per la fanteria, e ancora una volta gli apprendisti furono assegnati alla fabbricazione di pesanti scudi per i soldati a piedi. Tutta Camulod risuonava dei martelli delle fucine e del fragore delle armi dei soldati alle esercitazioni, e infine tutti si abituarono al rumore e al continuo frastuono dei preparativi militari. Frattanto, io e Uther crescevamo in forza e in età, e io spulciavo invano i libri di mio zio alla ricerca della domanda che mi avrebbe autorizzato ad apprendere il suo grande segreto. V. I mesi diventarono anni, e disperavo talvolta di riuscire mai a porre a mio zio l'esatta domanda. Per tre anni lessi e rilessi appunti e cronache, e gli posi ogni domanda che mi si affacciò alla mente. Molto appresi di tecniche guerriere e strategie, della storia e delle lezioni del passato, e molto più appresi del carattere, della saggezza e della personalità del mio tutore. Ma non trovai la domanda che mi avrebbe fornito l'accesso al suo maggior segreto. Poi un giorno notai un'incongruenza che prima mi era sfuggita. Dapprincipio non fu altro che un impercettibile piccolo dubbio in fondo alla mia mente, ma la sua amorfa insistenza mi tormentava, e a lungo me ne adombrai senza tuttavia mettermi in cerca della sua origine. Nell'Armeria dello zio, Uther e io eravamo sottoposti a una regola cardinale: pur essendo i benvenuti, ci era proibito toccare i tesori ivi custoditi, e, pena l'esilio, ci era proibito dare sfogo alla nostra esuberanza con giochi materiali di qualunque genere. Il resto di Camulod ci offriva piena libertà e briosi divertimenti. Quella stanza era solo per lo studio. Poiché nei dintorni c'era sempre un adulto, normalmente non avevamo difficoltà a conformarci a quella regola, ma in una terrificante circostanza Uther mi fece lo sgambetto, così per scherzo, mentre trasportavo un pesantissimo libro. Caddi, ovviamente, ma caddi addosso al tavolino che reggeva la statua di nonno Caio, quella che zio Varro chiamava la Signora. Il tavolino si rovesciò e la statua colpì il pavimento con un orribile frastuono che ci paralizzò entrambi, perché le porte dell'Armeria erano aperte. Uther imprecò e annaspò per rimettere in piedi il tavolino, e io raddrizzai la statua consapevole del suo enorme peso - gemetti per lo sforzo di sollevarla abbastanza in alto, e Uther dovette aiutarmi a rimetterla sul tavolo - e consapevole anche della sgorbiatura nella superficie lucida del prezioso pavimento di legno di zio Varro. Quella sgorbiatura sembrava vasta e profonda come un burrone. Sapevo che l'avrebbero vista, e che non avevamo modo di nasconderla. Pensai di spostarci sopra il tavolino, ma il segno era lontano un buon passo, troppo lontano perché un trasferimento avventizio potesse passare inosservato. Lasciammo tutto così com'era. Riposi il libro che avevo preso e sgattaiolammo fuori di lì più in fretta che potemmo, aspettandoci a ogni passo di venire bloccati dalla voce irosa di un adulto. Come poi scoprimmo, nessuno aveva udito il rumore, nel corso della giornata nessuno si accorse del segno sul pavimento. Dopo lo spavento iniziale, ridacchiammo insieme dell'accaduto, ripensando al trauma subito e al rischio di incorrere nel dispiacere dello zio. Soltanto quella sera, prima di addormentarmi, divenni cosciente di una minuta incertezza, un'anomalia, un'irritante, indefinibile incongruenza sepolta nella mia memoria. Ero un ragazzo pratico, dotato di una mente logica e inquisitiva. Non mi piacevano i misteri e non tolleravo i misteri irrisolti, perciò il giorno seguente ripassai tutta la scena, più e più volte, esattamente come era successa. Io portavo il libro, Uther mi aveva fatto lo sgambetto, io ero caduto contro il tavolino, poi Uther aveva raddrizzato il tavolino, io avevo sollevato la statua in posizione eretta e insieme l'avevamo issata al suo posto sul tavolino. Allora avevo visto il buco nel pavimento ed ero stato colto dal panico perché era così evidente. Avevo raccolto il libro, che cadendo si era aperto ma era fortunatamente intatto, e l'avevo riposto, e poi eravamo scappati entrambi dalla stanza. Che cosa non andava? Perché tanti dubbi? L'unica cosa che infine mi venne in mente fu l'orrendo pensiero che il libro cadendo si fosse rovinato, e che io non avessi rilevato l'estensione del danno, giudicandolo insignificante rispetto al danno infetto al pavimento. Più ci pensavo, più quel pensiero mi raggelava. Conoscevo l'elevato valore che zio Varro attribuiva ai suoi libri. Per Uther non erano importanti, ma io non potevo non saperlo. Era la sgorbiatura nel pavimento che non era importante. Se zio Varro avesse scoperto che per l'irriverenza di uno sciocco ragazzino avevo rovinato, o anche solo sciupato, uno dei suoi preziosi libri, avrebbe potuto vietarmi per sempre di consultarli. Arrabbiato con Uther per la sua incosciente stupidità e mancanza di rispetto, corsi dalla mia stanza fino all'Armeria. Incontrai mio zio che ne usciva, bianco in volto e infuriato, seguito da un altrettanto pallido servitore. Mi fermai con una scivolata vedendolo piombare su di me, e chinai vergognoso il capo per accogliere la sua collera, ma lui mi ignorò, e passò oltre come se neanche ci fossi stato. Senza quasi osare credere alla mia buona sorte, entrai nell'Armeria deserta e mi diressi al tavolo e ai suoi preziosi libri. Erano ancora tutti lì, incluso quello che stavo cercando. Era uno dei libri di nonno Caio, e ricordavo di avere pensato, quel fatidico giorno, che da anni non mi ci immergevo, sebbene conoscessi l'intero testo ormai a memoria. Lo presi e lo esaminai con cura. Era assolutamente intatto; né un segno né un'imperfezione visibili. Con una sensazione di grande sollievo perché mi ero sbagliato e tutto era in ordine, avvicinai uno sgabello, mi misi comodo e aprii il libro a caso, ripiegando i pesanti fogli di pergamena sulle legature che li tenevano uniti, e iniziai a leggere dei dubbi del nonno sulle pietre del cielo, e su come le pietre potessero cadere dal cielo avvolte dalle fiamme. E allora la mia memoria fece un balzo e richiusi di schianto il libro e cercai tra gli altri finché non trovai quello che cercavo, ed ecco le parole, scritte come ricordavo nella chiara grafia del nonno: ...mi protesi per sollevarla. «Attento, Caio! È più pesante di quello che pensi» mi avvertì Publio. «Ecco, lascia che ti aiuti.» Insieme la sollevammo e la portammo, con qualche difficoltà, attraverso il cortile e dentro casa e la sistemammo nel mio studio sul tavolo accanto alla finestra... Quella era la fonte del mio mistero, l'anomalia che mi affliggeva! Non avevo mai visto il nonno, ma zio Varro era forte e massiccio, e tuttavia c'era voluta la forza di entrambi per portare la statua «con qualche difficoltà» dalla fucina dentro casa. Ma Uther e io l'avevamo sollevata dal pavimento, anche se con manifesta fatica, e l'avevamo rimessa sul tavolo. Avrei potuto portarla da solo per una breve distanza, se l'avessi presa saldamente, e non avevo il minimo dubbio che Uther e io assieme avremmo potuto trasportarla per la distanza che avessimo voluto. Ma Uther e io avevamo tre mesi meno di dodici anni. Zio Varro e mio nonno, ai tempi di cui scriveva mio nonno, erano uomini adulti, uomini grandi e forti. Per quanto ormai anziano, zio Varro era ancora più forte di me e Uther messi insieme. Mi alzai lentamente e mi accostai alla statua, tesi la mano e passai un dito sulla superficie fredda, rivedendo mentalmente altre frasi che parlavano di «curve generose», e seni e natiche «opulenti». Pensai a Occa e ai suoi grossi seni, al ventre e alle natiche. Erano opulenti. Ma per quello che ne sapevo io, la parola non si adattava alla forma della Signora. Sentii un movimento dietro di me e mi voltai, e vidi zio Varro che mi fissava, con una strana espressione che mi fece rinascere dentro la paura. «Zio?» Mi ignorò, si girò adagio e uscì dalla stanza e, mentre così faceva, io scorsi sulla sua guancia una striscia umida. Quella vista mi sconvolse e rimasi lì a bocca aperta a guardarlo che si allontanava. Sapevo che era successo qualcosa di brutto; non appena se ne fu andato corsi a scoprire che cosa. Incontrai Uther in un corridoio, che veniva a cercarmi per darmi la notizia. Equo, l'amico più caro di mio zio, era stato trovato morto nella fucina. Sembrava che stesse lavorando da solo, quando era morto, e che fosse caduto davanti all'incudine. Quando l'avevano trovato, la lama alla quale stava lavorando era fredda, ma prima di raffreddarsi si era aperta nelle gambe di Equo una strada bruciante fino all'osso. Uther si voltò e corse verso le stalle non appena si fu liberato della strabiliante notizia, supponendo che io gli sarei stato alle calcagna, impaziente quanto lui di vedere qualsiasi cosa ci fosse da vedere, ma io non accennai nemmeno a seguirlo. Le sue parole eccitate mi avevano repentinamente gettato in uno stato di completo terrore e disgusto incontenibile, e crollai a terra, stringendo forte le ginocchia tra le braccia mentre il sudore freddo della nauseabonda paura mi ammorbava la pelle rovente. Avevo sognato la morte di Equo due notti prima, ma la sua agonia era stata la mia! Rabbrividii d'orrore ricordando i tremendi dettagli del dolore straziante che mi aveva consumato e che mi aveva destato urlante nel buio della mia stanza. Una striscia di dolore incandescente mi era caduta di traverso sulle gambe, e mi aveva bruciato le cosce e l'inguine, e io avevo visto il fumo eruttare dall'atroce ferita, e avevo sentito il puzzo della mia stessa carne carbonizzata. Già da tempo ero ossessionato da simili sogni. Anzi, non ricordavo momento in cui non fossi stato turbato dall'informe ricordo di un terrore notturno. Quei sogni non capitavano con frequenza, ma quando capitavano mi svegliavo inorridito, sul punto di vomitare per la nausea e zuppo del sudore dell'abietta paura. Rammentavo di rado i particolari, ma invariabilmente soffrivo per ore, straziato dai brividi e dai crampi e da una nausea dolorosa. E sempre i sogni che erano stati informi tornavano in schegge e frammenti a ossessionarmi durante la veglia, inaspettatamente evocati da un incidente o da un caso che pareva risvegliarmi echi nell'anima e spaventarmi senza ragione. Adesso era successo di nuovo, ma questa volta non potevo negare la realtà. Equo, il gigante gentile e amichevole, il compagno di tutta la vita di zio Varro, era morto proprio nel modo che io avevo sognato! Immagini di Equo mi illuminarono a sprazzi la mente, e tutte lo ritraevano come l'avevo sempre conosciuto, al lavoro da solo con il suo benamato ferro nella penombra fuligginosa della sua fucina. Le scintille si levavano a spruzzi dal martello che affettuosamente foggiava il metallo riscaldato nella fornace e destinato a spade, punte per le lance e vomeri per gli aratri, e improvvisamente lo vedevo cadere, abbandonare le tenaglie e la loro preda rovente, e ancora sentivo il dolore e l'odore della carne bruciata. Non so per quanto tempo rimasi lì acquattato in atterrita solitudine, ma infine mi rialzai e uscii nella luce del pomeriggio. Nessuno tentò di fermarmi, e corsi per miglia, cercando invano di fuggire al terrore che portavo dentro di me. Mi sedetti poi sotto un albero e piansi, tremando per una colpa indefinita fino a quando il tremito nelle mie membra si placò. E per un poco dormii. Al mio ritorno a Camulod, però, non parlai a nessuno di quello che pensavo, o di quello che provavo, o di quello che avevo sognato. Avrebbero pensato che ero pazzo. A volte - in quelle rare occasioni in cui riuscivo a vincere le mie profonde reticenze quel tanto da riflettere brevemente sull'origine dei miei terrori - pensavo anch'io di essere pazzo. E così costrinsi me stesso a dimenticare l'intero incidente. Solo un'altra volta, quando zio Varro disse che Equo non poteva aver sentito male, perché il colpo apoplettico doveva averlo reso incosciente, provai il morso della colpa e della paura. Quell'episodio segnò nella nostra casa l'inizio di un tragico periodo. I druidi dicono che le morti avvengono a tre per volta e ora, alla mia veneranda età, devo ammettere che il tre mi è sempre parso un numero potente, dotato di mistiche propensioni, e mai più che nello strano frangente di quelle morti. Il vecchio vescovo Alarico, amico intimo e di antica data sia di mio nonno sia di zio Varro, morì nel sonno tre giorni dopo Equo, e la sua morte venne scoperta alla terza ora del mattino. Quel mese morì anche il mio prozio Ullic, il nonno di Uther, con la schiena spezzata per una caduta da una roccia. Per tutta la vita si era seduto su quella roccia, un masso sul pendio spoglio di una collina dal quale giurava di poter dominare tutto il suo regno. Dissero che si era alzato per discendere dal suo seggio, e che semplicemente era caduto all'indietro, come se con i talloni avesse mancato una sporgenza, che però non c'era. Non ci fu allegria nella nostra casa quell'inverno e per molto, molto tempo non ebbi l'opportunità di parlare a mio zio del mistero della statua. Solo in primavera mi ritrovai solo con lui, e con lui nella disposizione di spirito che potesse alfine lasciare spazio alla mia curiosità. Era quel genere di pomeriggio al quale mi ero abituato durante i lunghi mesi invernali. Zio Varro non aveva più scritto dal giorno della morte di Equo, accontentandosi di restare seduto immobile vicino al fuoco, con gli occhi distanti come se stesse vivendo altrove. I capelli, e anche la barba erano diventati bianchi, e sembrava molto vecchio. Quel giorno leggevo, e Uther era in giro per i fatti suoi, probabilmente nei boschi più in basso con qualche ragazza. Zia Luceia era entrata nella stanza e l'avevo a malapena sentita affaccendarsi intorno a mio zio. C'era stata menzione del "ragazzo", e poi se n'era andata. Poco dopo, mio zio parlò. «Che cosa stai facendo, Caio?» «Leggo, zio.» Era la prima volta da mesi che mi rivolgeva direttamente la parola. «Lo vedo, ragazzo. Che cosa leggi? É questo che voglio sapere.» «I tuoi libri, zio. Stavo leggendo della tua fucina a Colchester.» Mi sentii mancare quando mi resi conto che avrebbe immediatamente pensato a Equo, e temetti che si sarebbe nuovamente ritirato nei suoi pensieri, ma fui sorpreso. «E allora? Perché ti interessa?» «Ebbene, stavo rileggendo di quando hai trovato il pugnale che tuo nonno aveva fatto per te.» «Ah, il pugnale di pietra del cielo.» Tacque per un attimo, ricordando, e poi, proprio quando pensavo che si fosse scordato di me, parlò ancora. «Era bellissimo, Caio, l'oggetto più bello che avessi mai visto. Equo l'aveva nascosto, con tutti gli altri tesori che mio nonno aveva lasciato per me. Povero Equo! Sento la sua mancanza, Cai. Tu non hai mai visto quel pugnale, vero?» «No. L'hai seppellito assieme al nonno, quando io ero ancora piccolo.» «Già. Mi sembrava giusto.» «Zio?» «Sì? Che cosa?» «Perché hai seppellito il pugnale con il nonno? Doveva essere di grande valore.» Lo guardavo, ed ero felice di rivedere quel sorriso sincero e affettuoso, assente da troppo tempo su quel volto caro. «Credi che abbia sbagliato a seppellire l'oggetto che amavo di più con l'uomo che avevo amato di più?» Fece una breve pausa di riflessione. «Beh, probabilmente altri sarebbero d'accordo con te.» Ancora una pausa. «Chissà se riesco a spiegarti. Quel pugnale era un sogno, Cai. Un sogno divenuto realtà per tuo nonno e per me. Ma Caio Britannico aveva un altro sogno, anch'esso divenuto realtà.» «Camulod» dissi. «Camulod. La sua Colonia. Il mio pugnale, con quella lama così fulgida, mi sembrava incarnare tutto ciò che aveva spinto me e tuo nonno a realizzare i nostri sogni. Era la prova lucente che dalla mente degli uomini possono sorgere cose grandi e portentose, cose miracolose. Indicava a entrambi la via, e ci portò alla soddisfazione. Perciò, quando morì, mi parve giusto che dovesse portarlo con sé, dovunque andasse. Li ho seppelliti insieme, e non me ne sono mai pentito.» Mi fissò. «Ha senso, per te?» «Sì, zio, ma ho una domanda da farti. Posso fartela adesso?» «Certamente! Da quando hai bisogno del permesso per fare domande?» Non espressi alcun commento, ma procedetti con la domanda che da mesi mi rendeva perplesso. «Sai la statua? La Signora?» «La Signora del Lago. Che cosa vuoi sapere?» «Davvero è stata fatta con una pietra del cielo?» «Tu che cosa credi?» «Credo di sì. I libri, tuoi e del nonno, dicono di sì.» «E allora? Era questa la tua domanda?» «No, veramente no, ma...» Adesso che era giunta la mia occasione, non mi venivano le parole. «Ti ricordi la prima sera in cui nonno Caio vide la statua nella fucina?» «Perfettamente. Perché?» Se ne stava lì nella sua poltrona, e mi osservava incuriosito, con un sopracciglio alzato. «Nonno Caio dice nel suo libro che l'avete portata in casa in due, quella sera.» «Proprio così. É una signora pesante.» «Non è più tanto pesante, zio.» Si drizzò a sedere, mutò espressione, la coperta che gli avvolgeva le spalle scivolò via inosservata. Io deglutii a fatica e andai alla carica. «L'ho fatta cadere, un giorno, e poi l'ho alzata e l'ho rimessa sul tavolo. Ha fatto una sgorbiatura nel pavimento, laggiù.» Indicai il punto esatto, ma non lo degnò nemmeno di un'occhiata. «E allora? Che cosa vuoi dire, ragazzo?» «Solo che se è... se la statua fosse così pesante come diceva il nonno, io non dovrei riuscire ad alzarla.» «Forse ha esagerato un poco. É tutto?» «No, zio, non è tutto. Diverse volte, nei vostri libri, parlate entrambi della Signora come se fosse più... grassa... più grossa in qualche modo. E di conseguenza più pesante.» Feci silenzio, e zio Varro mi guardò con estrema serietà. «Te lo chiedo di nuovo, Caio. Che cosa vuoi dirmi?» Sentii una specie di timor panico. «Non lo so, zio Varro. Solamente che mi sembra strano, ecco tutto. Dovrebbe essere più grossa.» La sua voce era dolce e sommessa. «Caio, ricordi quel giorno di qualche anno fa quando ti dissi che avrei aspettato da te una certa domanda?» Annuii, con gli occhi sbarrati. «Bene, mi hai quasi fatto quella domanda. Vorresti provare a esprimerla con altre parole?» A un tratto lo seppi! La domanda era nel libro del nonno, non in quello di zio Varro! Avevo la bocca secca, e i miei pensieri correvano all'impazzata. Mille domande possibili mi attraversarono la mente in un lampo, e le respinsi tutte, tranne una, che sapevo essere proprio la domanda giusta. Tuttavia, prima di compromettermi con quella domanda, passai in rassegna ciò che sapevo. Aveva seppellito il pugnale di pietra del cielo con nonno Caio perché, diceva, il suo sogno si era avverato. Aveva fuso la pietra del cielo nella statua di metallo perché, diceva, non aveva ancora deciso quale uso farne. E adesso la statua era più leggera, molto più leggera, se io riuscivo a sollevarla, e il suo più grande tesoro era nascosto in quella stanza. «Zio?» Aprì di scatto gli occhi, vigile e attento. «Dopo avere fuso di nuovo la Signora, che cosa hai fatto con il metallo della pietra del cielo?» Ci fu un lungo silenzio prima che zio Varro si alzasse in piedi e mi mettesse una mano su ciascuna spalla. «Caio» disse con voce profonda, «a volte pensavo che non me l'avresti mai chiesto. Cominciavo a temere che non te ne saresti mai accorto, perché avevo coperto troppo bene le mie tracce. Portami i martelli di legno.» Confuso, ma tremendamente eccitato, andai subito alla parete opposta e staccai i due martelli di legno ai quali si riferiva. Di tutte le meraviglie contenute in quella grande stanza, erano gli oggetti più innocui, e già da tempo avevo chiesto ragione della loro presenza. Mi aveva risposto che erano solo dei ricordi, intagliati per lui da un vecchio amico, la riproduzione dei martelli che usava per battere l'argento. Attraversò la stanza a lunghi passi e chiuse i battenti della porta, e abbassò la sbarra perché nessuno entrasse. «Portali qui.» Andai da lui, fermo in mezzo al pavimento. «Dammene uno.» Ubbidii. «Adesso mettiti lì, di fronte a me. Più indietro, ancora. Adesso guarda a terra. Che cosa vedi?» «Il pavimento. La fine di un'asse. Come quella ai tuoi piedi. La stessa asse.» «Che altro?» «Le bullette che la fissano.» «Appoggia la punta del manico di quel martello sulla bulletta di sinistra.» Lo feci. Si adattava perfettamente. «Adesso spingi, con forza e fermezza.» Mi si spalancarono gli occhi quando la bulletta sprofondò nel pavimento, e la bulletta nell'angolo opposto dell'asse si alzò dalla sua sede. «Così è abbastanza! Adesso, afferra la bulletta sporgente e solleva.» L'asse si sconnesse dal pavimento con facilità, rivelando nel recesso sottostante una cassa oblunga di legno lucidissimo. Nel coperchio della cassa, a circa due terzi della lunghezza dalla mia posizione, era intarsiata una stella scolpita nell'argento, dalla quale si dipartivano lunghi e ondeggianti crini d'oro. Riconobbi immediatamente il significato di quel simbolo e rimasi imbambolato a guardarlo, e a domandarmi quale miracolo potesse occultare. Zio Varro interruppe la mia estasi rapita chinandosi a impugnare le estremità di una correggia di cuoio adagiate sulla superficie della cassa dalla sua parte. «Ehi» disse, «questa è solo la cassa. Tiriamola fuori.» Strinsi tra le mani la correggia dalla mia parte e insieme sollevammo la cassa. Non era pesante. Tenendola in equilibrio in mezzo a noi, la riportammo alla luce e la deponemmo con devozione su un tavolo. Con la punta delle dita accarezzai la polvere che la rivestiva, e fui stupito dalla setosa levigatezza del legno. «Tieni ferma la costa in rilievo sul fondo dalla tua parte.» Le mie dita cercarono e trovarono la costa in rilievo, e tennero ferma mentre zio Varro girava qualcosa e sbloccava coperchio. Quando vidi che cosa c'era dentro la cassa, un fiotto sangue alla testa mi fece quasi perdere i sensi. Ovviamente, era Spada. la il di la È qui accanto a me mentre scrivo. Gli uomini ne parlano da anni ormai, perfino gli uomini che oggi possiedono questa terra. Molti la cercano, e già qualcuno che pure vive in questa terra dubita della sua esistenza. Non è mai esistita una Spada come quella, dicono, se non nella mente di sognatori e menestrelli. Avrei potuto dire loro che si sbagliavano, ma non sapevano nemmeno che ero nei pressi, e se mi avessero visto mi avrebbero ucciso all'istante, così li lasciai nella loro ignoranza e nei loro dubbi. Molti hanno visto la Spada, ma non vive più nessuno che l'abbia impugnata, tranne me. Entrò nella vita degli uomini comuni in un momento di pura magia, e da quel giorno in poi tutti gli uomini la credettero autenticamente magica; io suppongo che lo sia, se magica significa che non è di questa terra. Scrivo di uomini comuni e del modo in cui la Spada è entrata nella loro vita in un giorno d'estate, perciò ora dovrei pensare di essere straordinario, perché nella mia vita ci è entrata trenta e più anni prima che chiunque altro la vedesse. I miei occhi furono tra i primi ad ammirarne la bellezza; essa mi fu mostrata dall'uomo che la creò; io divenni l'ultimo Custode della Spada. So che questo, se non altro, farebbe di me un uomo straordinario. Oggi il mio nome viene bisbigliato tra paura e sgomento. Mago, mi chiamano; stregone. Ciò mi rende straordinario. Ho udito sette storie della mia morte, e anche questo mi rende straordinario, perché erano sette storie diverse di sette morti, e io siedo qui vivo e solo, vecchio pieno della malinconia di lunghi anni senza amici, transitorio guardiano del tesoro più grande del mondo. E so che se una banda di razziatori dovesse penetrare nel mio rifugio adesso, in questo istante, la vista del mio volto di vecchio li farebbe fuggire, urlando, dalla mia vista. Ciò mi rende davvero, e nel modo peggiore che posso immaginare, straordinario. Ma quel giorno nella mia mente di ragazzo non avevo idea di essere straordinario. Me ne stavo con le ginocchia molli e la bocca aperta a contemplare la magnificenza di quell'arma cullata in un letto scolpito nella pelle spazzolata di un vitello non nato, Vidi la mano di mio zio allungarsi e toglierla dal suo letto, e quando la sollevò vidi i riflessi sfrecciare lungo la lama. «Siediti. Vicino al fuoco.» A tentoni ritrovai la strada fino alla mia sedia, senza osare distogliere lo sguardo dalla letale bellezza di quella lama per paura che scomparisse. Mio zio si avvicinò e si sedette nella sua poltrona, di fronte a me. Appoggiò la punta sul pavimento di legno in mezzo a noi e tenne la Spada verticale, premendo la sommità del pomo con il polpastrello del dito indice, affinché io potessi ammirarne ogni profilo. «Ebbene?» mi chiese. Scossi il capo, perché non avevo parole da dire. I miei occhi non sapevano comprendere la purezza di quella lama. Era quasi incolore, e tuttavia era di lucido argento, liscio e immacolato e impeccabile. La luce del fuoco si diffondeva da essa in un modo mai visto. Nemmeno lo specchio più fine del metallo più lustro poteva riflettere il colore con tanta stupefacente perfezione. «Prendila» disse mio zio. «Non ti morderà, anche se potrebbe. Attento al filo. È più tagliente di qualunque cosa tu abbia mai toccato. Avanti, prendila.» Tesi il braccio e chiusi la mano intorno all'elsa, e ne sentii la consistenza contro il palmo. La faccia di mio zio era divisa in due da un sorriso enorme, che in seguito compresi essere il sorriso estatico e soddisfatto dell'artista e del creatore sublime. «Ti piace?» Di nuovo potei solo scuotere il capo. Adagio, iniziai a provarla. Seduto com'ero mi ci volle la forza di entrambe le braccia per sollevare la punta dal pavimento, ma poi la tenni in equilibrio e sentii il suo peso adeguarsi alla mia presa come una cosa viva. «É viva!» sussurrai. «Che nome le hai dato, zio?» «L'ho chiamata Excalibur.» «Excalibur?» ripetei, ancora in un sussurro. «Excalibur! È un bel nome. Per una bella spada.» Rise. «Già, guarda l'elsa. Vedi quel materiale grigio-nero che riveste l'impugnatura? É la pelle della pancia di un pesce mastodontico. Uno squalo. Me la sono fatta mandare anni prima che tu nascessi. Un pescatore in Africa la usava per avvolgere l'impugnatura dei suoi coltelli. Quella pelle non scivolerà mai dalla presa di un uomo, per quanto sudi. É sempre ferma e dura, e mai scivolosa. Come puoi vedere l'ho fissata con fili d'oro e d'argento intrecciati in una rete. Mi ci sono voluti cinque mesi solo per legare quell'elsa proprio come volevo.» «E questa?» chiesi. «La traversa? Come è stata fatta? É d'argento? È diversa dalla lama. Come l'hai fatta?» «È tutta d'un pezzo, ragazzo. Un segreto che ho appreso da mio nonno. Dammela, che ti faccio vedere.» Gli consegnai la Spada, e lui la tenne alta davanti a sé, continuando ad ammirarla mentre parlava. «Sai come si fa una spada, come si fanno tutte le spade. Qual è la difficoltà principale?» Semplice. «Unire l'elsa al codolo.» «E perché?» «Perché sono due pezzi differenti. Se la lama è corta e ampia, puoi fissare i lati dell'impugnatura dentro il codolo, È il modo migliore. Ma più la spada è grande, più è difficile attaccare saldamente l'elsa. Puoi giuntarla, e poi legarla con del filo metallico, oppure puoi praticare un buco per tutta la lunghezza dell'elsa, inserire il codolo, e poi legare tutto insieme a un pomo appesantito all'estremità contro il finale dell'impugnatura, appiattendoci contro il codolo come un rivettino.» Sorrise ancora, compiaciuto della mia conoscenza. «Bene! Ma c'è un altro modo, Caio, ed è quello che vedi. Riesci a indovinare come è stato fatto?» Riguardai la Spada con attenzione, cercando questa volta di ignorarne la bellezza e di vedere solo la sua costruzione. Aveva una traversa che si estendeva per quasi tutta l'ampiezza della mia mano di dodicenne su ciascun lato dell'elsa, e sui bracci della croce si aggrovigliavano le morbide linee di foglie e rami spinosi. L'elsa era lunga poco più del doppio di quella di una normale spada corta, ed era ricoperta, come ho già descritto, da pelle di squalo fissata da una rete di fili d'oro e d'argento. Il pomo, il pezzo estremo della Spada, era una conchiglia perfetta per forma e dettagli, e la raggiera del pettine era perfettamente simmetrica. All'apparenza il codolo non era mai sporto attraverso il pomo. L'intera creazione, traversa e tutto, era, come aveva detto mio zio, un unico pezzo. Mi scervellai a lungo cercando una spiegazione, e poi feci segno di no con la testa. «No, zio» dissi infine. «Vedo che è un pezzo unico, come hai detto, ma non capisco come ci sei riuscito. Come l'hai fatto?» Il suo sorriso esprimeva uno smisurato orgoglio. «Mio nonno mi lasciò una pergamena che illustrava il metodo scoperto da un suo amico nell'Africa settentrionale. È un metodo oscuro per colare figurine di metallo intere, un tempo molto usato da Parti e Medi...» Lo interruppi. «Per fare statue?» «Sì, qualcosa del genere.» «Oggi usano lo stesso metodo a Roma, vero?» «Quasi. Qualcosa del genere, come ti ho detto. Secondo il metodo romano, il metallo viene fuso in un crogiolo, colato in una serie di stampi e lasciato raffreddare, e i pezzi uniti formano una copia cava di metallo di quello che hai inteso duplicare.» Aveva risvegliato il mio interesse. «Come prepari lo stampo, innanzitutto?» gli chiesi. Si alzò e da uno dei molti tavoli che c'erano nella stanza prese un piccolo oggetto a forma di scatola che avevo visto tante volte da perdere cognizione della sua esistenza. Me lo lanciò e io lo afferrai come una palla, rischiando di farlo cadere a causa del peso inaspettato. «Quello è uno stampo. Se lo guardi attentamente, capirai da solo come aprirlo.» Lo stampo si apriva in due metà, da una delle quali sporgeva un emisfero d'ottone che mi era familiare. Lo liberai dalla sua sede, e nel palmo della mano mi cadde una mela d'ottone. «Te la ricordi?» La ricordavo. Ci avevo giocato da bambino. Annuii. «Adesso guarda dentro lo stampo. Ciascuna metà è una perfetta copia della superficie di metà della mela, fino al picciolo.» Mi tolse di mano lo stampo e mise insieme i due pezzi, indicando un foro otturato sulla sommità e una serie di fori più piccoli tutto intorno alla forma. «Se colassi piombo, argento, oppure oro fuso in questo stampo, e lo lasciassi raffreddare, aprendolo troverei una mela. Una ripulita e una lucidata e sarebbe perfetta come quella che hai in mano.» «Ed è così che hai fatto la Spada?» «No, certo che no! Solo l'elsa.» «Scusami, è quello che intendevo.» «Lo so, ma devi imparare a dire esattamente quello che intendi.» «Sì, zio. Ma, se il segreto è tutto qui, perché non lo abbiamo sempre usato?» «Non ho detto che il segreto è tutto qui. Ho detto che era quasi uguale al metodo generalmente usato. Il metodo che ho appreso è differente. Si basa su tecniche differenti, Oggi tutti colano in stampi di argilla, ed è quasi impossibile evitare che nel metallo fuso si formino delle bolle d'aria. Ecco perché i nostri stampi sono cavi. Quella mela che tieni in mano è massiccia, e così anche l'elsa della spada. Chiesi a padre Andros di scolpirmi un'elsa di legno. Io ne feci uno stampo di argilla e poi plasmai la stessa forma nella cera, in modo da avere una perfetta copia di cera dell'elsa di legno, mi segui?» Assentii con un cenno. «Bene. Poi infilai la copia di cera nella sabbia molto compatta, e versai il bronzo fuso nello stampo. Il bronzo fuse la cera e la sostituì, perfettamente, anche se non al primo tentativo. Quando mi convinsi che il metodo era perfetto, lo ripetei, questa volta con il codolo della spada inserito nella cera dentro lo stampo. Funzionò, alla fine, ma ci vollero cinque mesi e dieci tentativi perché riuscisse. Quell'elsa è assolutamente massiccia; metallo legato a metallo.» «Bronzo? Ma è d'argento.» «No, Caio. É argento battuto sul bronzo.» Tesi la mano e zio Varro mi restituì la Spada. Sollevai l'elsa e la osservai ancora, accuratamente e minuziosamente. Non c'era traccia di cuciture o giunture. «Come hai detto che si chiama, zio?» «Che cosa? La tecnica? Non ha nome, che io sappia, ma mio nonno scrisse che i popoli dell'Africa e dell'Asia Minore chiamano i loro stampi qalibr.» Quella parola suonava strana ed esotica, e mi faceva rizzare i peli sulle braccia. «Qalibr » dissi. «L'elsa è uscita da uno stampo. Exqalibr. Ecco da dove hai preso il nome!» La assaporai sulla lingua, e la pelle d'oca mi confermò che quello era il nome perfetto. «Ex-qalibr!» «Excalibur.» Mio zio sorrise, assecondandomi. «Sono contento che tu approvi, Caio.» VI. Da quando vidi Excalibur, non mi uscì più dalla mente. Le altre spade che avevo ammirato e desiderato per tanto tempo diventarono ai miei occhi opache e goffe. Avevo una spada di legno a lama lunga che era il mio tesoro, e quell'estate la portavo con me ovunque andassi, di traverso sulla spalla nel modo che era stato adottato dai nostri soldati a cavallo. Ricordo che la stringevo in pugno quando si levò il grido che annunciava il ritorno di mio padre e dei suoi uomini da un ennesimo interminabile giro di perlustrazione. Corsi a vederli scalpitare lungo la strada ed entrare nel forte, e ammirai come sempre l'imponenza e la maestosità di mio padre, il loro generale. Tito cavalcava con lui, e così anche Flavio e molti altri suoi ufficiali che avevo imparato a conoscere, e non appena vidi che c'erano tutti, corsi nell'Armeria di mio zio, nascosi la mia spada di legno tra i libri e finsi di leggere, ben sapendo che mio padre e i suoi ufficiali sarebbero venuti lì a fare immediato rapporto a zio Varro prima di andare ai bagni. Zio Varro arrivò poco dopo di me e si mise al lavoro al suo scrittoio, senza badare alla mia silenziosa presenza. Trascorsero alcuni minuti, e il rumore degli stivali chiodati precedette mio padre, Tito e Flavio, accompagnati da tre soldati che portavano ognuno un fardello. A un cenno di mio padre, posarono i loro carichi sul pavimento e uscirono. «Saluti, Publio» disse mio padre indicando i tre oggetti sul pavimento. «Guarda queste. Familiari?» Da sotto la fronte aggrottata osservai mio zio avvicinarsi ai tre oggetti, e spalancare gli occhi per la sorpresa. «La sella a sedia del ragazzo!» La sua voce era piena di meraviglia. «É lo stesso aggeggio, ma più grande. Dove le hai trovate?» «Sotto a tre Franchi. Le fissano al dorso dei cavalli e ci si siedono sopra. Le abbiamo provate anche noi. Inutili. Senza senso.» «Come? Che cosa vuoi dire?» «Che ci devi salire sopra! Non è possibile montare a cavallo in altro modo. Infili il piede in quel congegno - quel cappio penzolante - e fai passare la gamba sul dorso del cavallo. L'avevamo intuito già dopo il ritrovamento della prima sella anni fa, rammenti? Pensammo che quel ragazzo fosse storpio. A nessuno venne mai in mente che uomini fatti potessero aver bisogno di uno scalino per salire a cavallo. Quando ci sei sopra, la parte posteriore più elevata ti preme contro il deretano in un modo bizzarro. È scomoda, e non riesci nemmeno a stringere i fianchi del cavallo, per quanto è spessa.» Mio zio era perplesso; pensieri inconcludenti gli solcavano visibilmente il volto. «Eppure dici che cavalcano tutti su queste cose?» Mio padre si sedette pesantemente su una sedia, facendo stridere il cuoio della corazza. «Sì, sembra proprio di sì. Ne ho viste sette, ma ne ho prese solo tre. Con gli arcieri di Uric avremmo potuto averle tutte e sette.» Mio zio scrollava il capo con una smorfia di assoluta incomprensione. Toccò una delle ingombranti selle. «È strano, Pico. Mi chiedo quale sia il vantaggio nell'utilizzare queste cose. Ci deve essere qualche vantaggio. Non credi?» «Sì, sembrerebbe logico» si dichiarò d'accordo mio padre, parlando piano e con chiarezza. «Ma qualsiasi vantaggio ci sia, nessuno di noi riesce a immaginarselo. Ci abbiamo provato, ma non le sappiamo usare e non ne sappiamo indovinare lo scopo. Forse questi Franchi sono solo incapaci di andare a cavallo. Ma sospetto che la verità sia tutt'altra.» «Hai chiesto ai prigionieri di mostrarti come le usano?» «Nessun prigioniero. Hanno combattuto come furie e sono tutti morti. Le ho riportate per la tua collezione. Se non ti servono, buttale via.» Mio zio scosse la testa. «A me non servono, Pico. Ne ho già una, anche se piccola. Non so che cosa farmene di quelle più grandi.» Si inginocchiò accanto a uno degli inusitati aggeggi e passò la mano sul sedile, tentando invano di decifrarne lo scopo. Ma dovette arrendersi, e si rialzò in piedi. «Com'è stato il resto della perlustrazione?» Mio padre stava versando del vino per sé e per i suoi ufficiali. Scosse la testa, liquidando subito la domanda. «Piuttosto scorrevole. Niente, a parte quei Franchi. Quattro sono scappati, come ho detto. A parte quello, un giro lungo, pacifico e imperturbato. Sono pronto per un bagno caldo. Mi sembra che metà dei pidocchi di Britannia si stia accoppiando nei miei capelli.» «Andate, allora, tutti e tre, e lavatevi via la polvere del viaggio. Bentornati. Dirò ai cuochi di arrostire un cervo per stasera.» «Bravo» disse mio padre, sfoggiando uno dei suoi rari sorrisi. «Dì loro di cucinare qualcosa anche per gli altri!» Se ne andarono tutti e quattro, portandosi via il vino e ridendo tra loro, e mi lasciarono solo. Mi avvicinai alle strane "sedie" abbandonate sul pavimento e le esaminai. Erano esattamente come la mia, ma più grandi, a misura d'uomo. Un mite pomeriggio della primavera seguente zio Varro entrò nell'Armeria e mi trovò, appollaiato sulla mia sedia, che menavo fendenti con la spada di legno ai nemici immaginari che mi brulicavano attorno. Da quando avevo scoperto che la sedia era in realtà un arnese per cavalcare, avevo attaccato una corda che mi servisse da briglia, e l'avevo fatta passare davanti al cavalletto sul quale era montata la mia sedia. Prima ancora di accorgermi che mio zio era entrato nella stanza, lo sentii esclamare «Grande Mitra!» con voce sconvolta, e allarmato mi ero precipitato giù dalla sedia, pronto a venire punito per essermi abbandonato a giocose leggerezze in quella stanza sacrosanta. «Torna dov'eri, Caio! Torna sulla tua sedia.» Non c'era collera nella sua voce, solamente un'urgenza che non seppi definire. Sorpreso, risalii sulla mia sedia. Zio Varro continuava a parlare. «Fai quello che stavi facendo quando sono entrato.» Lo guardai confuso, ma dalla sua espressione compresi che non scherzava e, sentendomi particolarmente sciocco iniziai ad agitare la spada di legno con scarso entusiasmo. «No, no, no! Non così! Stavi combattendo, uccidendo degli uomini. Uno di loro era a terra, di fianco al tuo piede sinistro. Uccidilo ancora, con la medesima ferocia.» Decisi che non avrei mai capito le contraddizioni degli adulti, e feci come mi chiedeva. Avevo i piedi ben saldi dentro i loro sostegni, ed ero quasi in posizione eretta, con le "redini" strette nella mano sinistra. Aumentai la presa sulle redini per trovare l'equilibrio, e con tutta la mia forza roteai la spada di fronte a me e la calai a sinistra, dove avevo immaginato che un nemico mi avesse afferrato la caviglia. «Ecco! Così!» disse lo zio con voce carica di emozione. «Quando hai incominciato a stare in piedi a quel modo?» Sbattei le palpebre. «Non lo so, zio. Non arrivavo con i piedi ai sostegni. Devo essere cresciuto abbastanza, e adesso ci arrivo.» «Sì, ragazzo. Ci arrivi e ci stai ben dritto! E in quella posizione, sei in piedi come su una piattaforma!» Le sue ultime parole non significavano nulla per me, ma lui girò sui tacchi e quasi corse nel corridoio esterno, reclamando attenzione con tutta la potenza dei suoi polmoni. Un servitore esterrefatto si precipitò a vedere che cosa era successo, seguito da un soldato ugualmente allarmato. Mio zio puntò contro il soldato un dito accusatore. «Tu! Tu sei l'uomo che voglio! Trova il generale Pico e portalo qui immediatamente, e bada che venga solo! Nessun altro! Svelto, o ti levo la pelle di dosso!» L'uomo partì a passo di corsa e mio zio si rivolse al servitore che era rimasto a bocca aperta. «Che cosa c'è che non va? Il generale sarà qui tra poco. Porta del vino. Muoviti!» Ritornò da me, ancora ammutolito sulla mia sedia, mi fissò a occhi stretti e poi spostò lo sguardo lungo le pareti della stanza, posandolo infine su una mazza leggera, ma con la testa di ferro. Andò a staccarla dalla parete e me la portò. «Provala. É troppo pesante? Falla roteare.» Mi tolse di mano la spada di legno e la sostituì con la mazza da guerra. La feci roteare con una certa esitazione, giudicandola pesantissima ma non troppo grossa per me. La feci roteare ancora, con maggior forza. «Aspetta, Caio!» Prese da un tavolo un vaso di coccio pieno di fiori e lo mise a terra alla mia sinistra, tolse i fiori e lasciò con totale indifferenza che l'acqua dei gambi formasse una pozzanghera sul suo prezioso pavimento. «Ora» disse con voce fremente per l'eccitazione, «questo vaso è la testa di un uomo, coperta da un pesante elmo. Vediamo se riesci a farci un'ammaccatura.» Incrociò i miei occhi e sorrise. «Non sono impazzito, Cai. Solo fai come ti chiedo.» Indicai la mazza. «Con questa?» «Naturalmente. » «Ma lo romperò.» «È solo un vaso, e io voglio che tu lo rompa. Drizzati su quei pedali e fallo a pezzi, con tutta la tua forza. Avanti.» Con il primo e con il secondo colpo lo mancai, perché non ci mettevo sufficiente decisione, ma poi lessi il dispiacere sul volto di zio Varro, e così il terzo fu un vero colpo. Aggiustai il deretano sul sedile, afferrai le redini, ondeggiai leggermente per emulare il moto di un cavallo, e poi mi sollevai sulla punta dei piedi e sferrai un colpo al vaso con tutta la forza che avevo, tirando le redini con la mano sinistra per mantenere l'equilibrio. I frammenti del vaso schizzarono in ogni direzione, e l'acqua esplose in un lago di spruzzi sul legno lucido del pavimento. «Grande Giove!» La voce di zio Varro si abbassò per lo sgomento, e io temetti di aver fatto troppo bene. Da un altro tavolo prese un altro vaso e lo mise nello stesso punto, rovesciando con noncuranza i fiori sul pavimento. Quella era la sua sacrosanta Armeria! Lì dentro non avevo mai visto niente fuori posto e ormai stavo pensando che avesse davvero perso il senno, ma mi parlò ancora. «Proprio così, Cai. Quando tuo padre arriva, voglio che frantumi questo vaso come hai frantumato il primo. Con maggior forza, se puoi, tutta quella di cui disponi. Ecco che viene.» Sentimmo all'esterno il passo affrettato di mio padre, e poi entrò, e si fermò di scatto scivolando quasi al vedere quella carneficina sul pavimento normalmente immacolato. «Che cosa in nome di...?» Allora vide me con la mazza e il suo viso si accese di collera. «Che cosa hai fatto, ragazzo?» La sua voce era terribile, e io mi sentii mancare davanti alla furia che gli straripava dagli occhi. «Calma, Pico!» Mio zio era impaziente. «Il ragazzo non ha fatto nulla di male. Questo è opera mia. Adesso stai tranquillo e guarda, e impara. Impara a che cosa servono le selle a sedia dei cavalieri franchi che noi abbiamo giudicato inutili. Il ragazzo è a cavallo, i nemici lo circondano. Il vaso sul pavimento è la testa di un nemico aggrappato al suo piede. Fagli vedere, Cai.» Conscio in qualche modo che quello era un momento molto importante, sebbene non avessi idea di come o perché, ripresi il controllo di me stesso, raccolsi le mie forze e poi roteai la mazza una volta intorno alla testa, distesi le gambe, tirai forte le redini, mi sollevai in tutta la mia altezza staccando il didietro dal sedile, e schiantai il vaso in mille pezzi, schizzando acqua ovunque, fino sulle pareti. Quando il rumore dei frammenti che cadevano si spense, guardai mio padre. Aveva la bocca aperta, e gli occhi sbarrati, e io non sapevo che cosa stava succedendo. «Allora, Pico?» disse zio Varro con una bonaria nota di orgoglio. «Fallo ancora» disse mio padre con voce roca. Ripetemmo la scena, e a quel punto il clamoroso effetto che provocavo incominciava a piacermi. L'Armeria era uno scempio di macerie. Dopo il terzo vaso, mio padre arrancò verso una sedia e si sedette, senza mai distogliere lo sguardo da me. Zio Varro parlò di nuovo. «Un ragazzo di dodici anni, Pico! Pensa che cosa potrebbe significare per un uomo a cavallo.» «Tutto il corpo» disse mio padre, sottovoce come prima mio zio. «Ha usato tutto il corpo! Tutta la sua forza e tutta la sua potenza. Dal dorso di un cavallo! In piedi, sorretto e puntellato, sul dorso di un cavallo!» «Esattamente, Pico! E noi l'abbiamo messa da parte. Abbiamo avuto questa cosa, questo... sedile, in questa stanza per quattordici anni e non l'abbiamo mai visto!» Li ascoltavo, ed ero ancora intimorito e completamente confuso. Era accaduto qualcosa di essenziale, ma che cosa ancora non lo sapevo. «Sono i supporti per le gambe» disse mio zio. «Sono della lunghezza giusta adesso, e con i piedi ci arriva comodamente. Non c'è mai arrivato prima, ci è letteralmente cresciuto dentro. E le gambe di ogni uomo sono di una lunghezza diversa.» Mio padre continuò da lì, con un profondo borbottio come se stesse parlando fra sé. «Correggiamo l'equipaggiamento di ogni uomo secondo la lunghezza delle gambe... e avremo uno squadrone di cavalieri in grado di stare in piedi e colpire dal dorso di un cavallo! Una forza di cavalleria come non se n'è mai visto l'eguale!» «I Franchi l'hanno visto, Pico. Questa sella è loro.» Mio padre abbaiò la sua risata brusca, unica. «Sì, Varro, ma i Franchi non hanno spade lunghe come le nostre. E non hanno disciplina, né addestramento. Questa sella potrebbe renderci invincibili.» «Ci renderà invincibili, Pico. Ma significherà insegnare a tutti a cavalcare in un modo nuovo e diverso.» «E allora?» Per mio padre si trattava di un mero tecnicismo. «I Franchi ci riescono. Non può essere così difficile. Quanto ti ci vuole per costruire queste cose? E a proposito, come si chiamano?» Mio zio alzò le spalle. «Selle, suppongo. Non esiste un'altra parola in nessuna delle lingue che conosco. Costruirle? Non lo so. Quelle grandi le ho buttate.» Mi schiarii la voce e parlai. «Io so dove sono.» I due uomini mi guardarono. «Dove?» chiese zio Varro. «Uther e io le usiamo come sedie nel nostro posto segreto.» «Bene» disse zio Varro. «Riportale qui. Le smonteremo e vedremo esattamente come sono fatte, e poi costruiremo le nostre.» Il servitore che era stato mandato a prendere il vino era ritornato, e fissava stupefatto le condizioni della stanza, Mio zio finalmente si accorse di lui e lo aggredì. «Che cosa stai fissando? Non hai mai visto dell'acqua versata? Prendi la sedia del giovane mastro Caio e seguici, e poi torna qui e da' una ripulita a questo posto. Cai, vieni con noi alle stalle, Vediamo come ti trovi a sederti su quel seggio a dorso del tuo pony.» Fui la prima persona a Camulod a montare un cavallo con quella che fu poi conosciuta con il nome di sella con le staffe. Subito Uther impazzì di gelosia, ma gli insegnai come rilassarsi e padroneggiare quello strano nuovo sedile, e prima che il primo uomo di Camulod sapesse cavalcare sulla sella, noi due eravamo esperti, e ci toccò l'onore di essere istruttori generali. Ho già accennato alla mia convinzione che il numero tre abbia mistici poteri. Ho parlato di morti avvenute a tre per volta, ma la potenza della congiunzione trina non si limita alla sola morte; la triade sembra godere di eguale rilevanza nel raggruppamento degli eventi cruciali della vita. Tutti i grandi drammaturghi scrissero seguendo la credenza che una relazione tripartita è tra gli uomini elemento essenziale del conflitto eroico. Ristretto a due persone, il conflitto, per quanto violento, diventa meschineria tra rivali; è necessaria l'interazione di una terza persona per estendere il conflitto alla tragedia. Guardando indietro, vedo con chiarezza che la mia vita, e il destino della nostra Colonia, furono influenzati allora da una triade di avvenimenti che, combinati, mutarono per sempre la vita di tutti. La scoperta del segreto della sella e l'adozione dei supporti che chiamammo staffe fu il primo avvenimento; la mia scoperta della Spada, il secondo. Il terzo fatidico avvenimento era di natura molto diversa dai due che l'avevano preceduto. Camulod ricevette una visita dalla regione nel lontano sud-ovest, il luogo che la nostra gente chiama Cornovaglia perché si protende nel mare come un grande cornu, o corno. Emrys, il re del popolo di laggiù, si faceva chiamare duca di Cornovaglia, secondo l'antico titolo romano di dux, capo. Aveva sentito parlare di Camulod, e si era spinto a nord per verificare da solo l'esattezza delle dicerie. Era uno sbruffone sguaiato, nient'affatto amabile, che non faceva nulla per rendersi simpatico a zio Varro, e aveva un figlio corpulento, uno sbruffone sguaiato anche meno amabile di lui, che si chiamava Lot, Gulrhys Lot, che faceva ancora meno per rendersi simpatico a me o a Uther. Il nostro rapporto si basò quasi a prima vista sulla reciproca avversione. Lot aveva due anni più di noi e per la sua età era grande e grosso, e dal momento in cui zio Varro ci disse di prenderci cura di lui, si dedicò a farci capire chi di noi tre fosse il padrone e chi i servitori. Lo accompagnammo fuori dalla Sala del Consiglio fino nella corte dove, memore della rigorosa legge dell'ospitalità di mio zio, mi offrii di mostrargli il forte. Mi ignorò e si fermò a gambe divaricate, con i pugni chiusi sui fianchi, e osservò ogni cosa con un gran ghigno stampato sulla faccia. «Forte?» disse. «Chiamate forte questo buco? É come i canili che usiamo noi a casa per tenerci i cani.» Io guardai Uther e non dissi nulla. Mio cugino aveva un'espressione che avevo imparato a conoscere bene, e annunciava sempre guai. «Tenete i cani in un posto come questo?» chiese, apparentemente pieno di meraviglia. «I vostri cani?» «Già. I nostri cani.» Uther fece un profondo cenno di assenso, come accettando la spiegazione chiara e semplice di una faccenda complicata. «Così si spiega la puzza che ti sta intorno. Avete ceduto i vostri alloggi ai cani. Lodevole, Lot, ma stupido. Ovviamente adesso abitate nella porcilaia, con i maiali.» Ma Lot non era tipo da lasciarsi provocare a un'azione immediata. Fece un sorriso cattivo e si dondolò in avanti sulla punta dei piedi. «Che cosa puoi saperne tu dei maiali sani e robusti, piccola merda? I maiali sono troppo puliti per un mucchio di sterco romano raccolto in una fogna come te. Ho sentito dire che tua madre era una puttana di Roma che si vendeva ai mendicanti prima di cadere veramente in disgrazia abbassandosi fino a tuo padre Uric.» Ero sconvolto. Mai in vita mia avevo sentito un insulto più eccessivo. Uther impallidì. «Bastardo» disse con voce calma. «Sei morto. Non ti crescerà mai la barba. Resta qui e non muoverti. Cai, non permettergli di svignarsela.» Iniziò ad allontanarsi camminando all'indietro, poi si girò e corse verso la casa di zio Varro. «Dove stai andando, mucchio di sterco? A dirlo a tuo nonno?» gli gridò Lot. «Tu rimani lì!» gli urlò Uther di rimando, e scomparve dietro l'angolo di un edificio. «Bene» sogghignò Lot volgendo lo sguardo su di me. «Minaccia morte e poi scappa. Sono tutti così coraggiosi, i vostri uomini?» Lo fissai con un disgusto tale da non essere quasi in grado di parlare. «Tornerà» fu tutto quello che riuscii a dire all'inizio, e poi aggiunsi: «E quando torna, sei tu che farai meglio a scappare. Uther ti ucciderà.» «Uccidermi? Davvero? Morto stecchito? Sono terrorizzato. Forse farei meglio ad andarmene subito.» Anelavo a cancellare quel ghigno dalla sua faccia, ma sapevo che se avessi fatto un passo verso di lui me le avrebbe date di santa ragione. «Non ti piaccio, eh, ragazzino? Lo vedo da quella tua faccia slavata di romano.» «No» dissi, d'accordo con lui, «non mi piaci. Non mi piaci per niente.» «Perché no? Ci siamo appena conosciuti. Potremmo essere buoni amici. Potresti reggermi il pene mentre piscio, e se mi fossi proprio simpatico potrei anche lasciartelo scrollare.» Non credevo alle mie orecchie. Uther e io usavamo un linguaggio che ci avrebbe guadagnato una frustata da zio Varro, se mai ci avesse sentito, ma nessuno di noi due era mai stato così volgare come quel forestiero maleducato. Adesso capisco che anche allora a offendermi era il suo modo di pensare, non la scelta delle parole. Fece un passo rapido verso di me e io involontariamente mi ritrassi quando ringhiò: «Fai sparire quello sguardo dalla faccia, ragazzino, prima che ti faccia sparire la faccia dal cranio!». Non so che cosa avrei fatto se proprio in quel momento Uther non fosse riapparso da dietro l'angolo, stringendosi un fagotto al petto. Non sapevo che cosa quel fagotto contenesse, ma temevo il peggio, e mi si rivoltò lo stomaco. Andò diritto da Lot e lo guardò negli occhi. «D'accordo, bocca sacrilega, vieni con me.» Si voltò ed entrò nell'edificio più vicino, che io sapevo essere vuoto, perché non era finito e mancava ancora la paglia del tetto. Lot entrò baldanzosamente dietro di lui e io li seguii, lanciando occhiate a destra e a sinistra nella speranza di vedere qualcuno a cui chiedere di intervenire, ma non c'era nessuno. Quando entrai, Uther aveva già svolto il fagotto, scoprendo due delle letali spade corte di zio Varro. Ne impugnò una e con un calcio mandò l'altra ai piedi di Lot. «Spero che tu sappia come usarla, stronzo schifoso. É l'unica cosa che potrebbe tenerti in vita.» E così dicendo fece sibilare la spada in un breve arco. Io avevo la bocca secca. Conoscevo Uther e sapevo che pensava ogni parola che aveva detto. La morte aveva il suo stesso aspetto. Entrambi eravamo addestrati all'uso delle spade, bene addestrati, e lui era più che capace di uccidere. Mi intromisi. «No, Uther! Questo è male. Combattilo a mani nude. Ti aiuterò, se hai bisogno d'aiuto, ma non fare così. Lo zio ci fustigherà entrambi.» Uther mi guardò come se fossi ammattito. «L'hai guardato, quel bastardo? Quanto è grosso? Ci storpierebbe tutti e due. E poi, hai sentito quello che ha detto. Fatti da parte, Cai.» Non avevo scelta, ma non mi feci da parte. Sentii il peso di Lot piombarmi tra le spalle e catapultarmi verso Uther, e il fischio sibilante di una lama passarmi con violenza vicino alla testa. Caddi in malo modo, carponi, e battei forte la testa contro il muro, restando per un poco stordito e con la vista annebbiata. La vista ritornò poi, accompagnata a un sonoro ronzio nelle orecchie e dentro la testa, e dal rumore esterno, metallico, di spada che si schiantava contro spada. Sollevai incredulo la testa che mi girava vertiginosamente, e li vidi girarsi intorno nella postura acquattata dei combattenti. Lot era grosso il doppio di Uther, e senza dubbio conosceva la sensazione di una spada stretta in pugno Mentre li guardavo, prima che avessi il tempo di muovermi, affondarono ancora, e ancora il fragore delle lame infranse il silenzio. Combattevano con furia e durezza, e le spade scontrandosi mandavano scintille. Lot avanzava, servendosi del proprio peso e della propria altezza per costringere Uther a in dietreggiare, e poi ci fu un conflitto e udii un gemito profondo e vidi la lama della spada di Lot affondare nella coscia di Uther. In ginocchio dov'ero caduto, stordito e stupefatto, vidi sgorgare il sangue e fui colto dalla nausea; loro due se ne stavano lì, immobili, e poi Uther scattò in avanti con un sibilo, e affondò la spada nel petto di Lot. «Gesù Cristo del Cielo! Che cosa succede qui dentro?» Sentii il ruggito e vidi la sagoma enorme di mio padre oscurare lo spazio della porta, e vidi Lot vacillare e cadere, e poi fu tutto nero. Purtroppo, non rimasi privo di sensi abbastanza a lungo da evitare la collera di mio padre, o quella di zio Varro. Non faceva differenza alcuna che io non fossi personalmente coinvolto nel combattimento vero e proprio; per quanto li riguardava, ne ero stato complice e non avevo tentato di impedirlo. In realtà avevo tentato, ma sapevo di non avere tentato a sufficienza, perciò non potevo protestare la mia innocenza. Uther e Lot vennero portati via per ricevere le debite cure, e io venni condotto a viva forza dentro casa, per affrontare mio padre, il padre di Lot, il duca Emrys, e zio Varro. Sedevano fianco a fianco al lungo scrittoio di mio zio, e io dovetti stare in piedi davanti a loro dall'altra parte del tavolo. Circa un'ora era trascorsa dal combattimento, un'ora durante la quale io ero stato confinato sotto custodia nella mia stanza, forse perché temevano che avrei cercato di fuggire. A zia Luceia era stato proibito di venire a farmi visita prima del colloquio. Mi scortarono nell'Armeria come un prigioniero militare alla corte marziale. I tre uomini mi fissavano con fiero cipiglio, e dei tre il duca Emrys aveva lo sguardo più malevolo. Mio padre era ancora furioso, ma teneva la sua collera sotto controllo, il controllo più visibile e tenace che avessi mai visto. Avevo la sensazione che potesse balzarmi addosso di qua dal tavolo in qualsiasi istante. Zio Varro sembrava più turbato e ferito che arrabbiato. Mi guardò con grande solennità, e parlò. «Caio Britannico, oggi in questo luogo è stato commesso un torto gravissimo, e tu vi hai preso parte. Due ragazzi giacciono offesi e sanguinanti, gravemente feriti, forse prossimi alla morte. Tu sei l'unico che possa gettare luce sull'accaduto. Nella mia casa sono state violate le leggi dell'ospitalità, leggi sacrosante, come ben sai. Il duca di Cornovaglia, qui sotto il mio tetto, durante la sua permanenza è protetto da tali leggi. E così suo figlio, che si trova qui con lui. E adesso suo figlio giace ferito, trafitto da mio nipote come da un selvaggio sassone. È meglio che tu ci dica perché è successo, tenendo bene a mente che il castigo per un così scandaloso oltraggio dovrebbe essere la morte.» Quel lungo discorso, pronunciato in toni tanto innaturali da zio Varro, mi spaventò. Mi si contrasse lo stomaco, e dovetti deglutire per impedirmi di vomitare. ricordo ancora la terrificante sensazione di inadeguatezza che mi sopraffece. Non potei parlare, mossi solo le labbra. Nel silenzio parlò mio padre. «Ascoltami, ragazzo, e ascoltami bene. Vogliamo la verità che sta dietro a quest'insulto.» La sua voce, impacciata dalla ferita alla gola, era praticamente un ringhio, ma io l'avevo ormai frequentato abbastanza da capire chiaramente le parole sotto quei suoni gutturali. «Niente scuse. Niente interpretazioni. E niente bugie! Dicci esattamente che cosa è successo: che cosa è stato detto e fatto, e da chi a chi.» Mi si accapponò la pelle, Come potevo ripetere a quelle orecchie le parole che avevo udito? Fu allora che il duca Emrys parlò per la prima volta, e le sue parole furono intempestive per lo scopo che si prefiggevano, perché l'accento derisorio e sarcastico della sua voce stridula disperse il mio terrore e i miei dubbi come una doccia d'acqua fredda. «Non otterremo la verità da questa canaglia! Guardate la paura sulla sua faccia. Mio figlio sta morendo e voi pretendete la verità da uno dei due che l'hanno ucciso?» Aveva appena smesso di parlare quando gli risposi, con una voce forte e adirata che sorprese perfino me. «Non sono un bugiardo! Vi dirò che cosa è successo.» Guardai zio Varro, rivolgendomi a lui solo, e la grande rabbia mi donò un'eloquenza al di là dei miei anni. «Tu mi hai insegnato a rammentare con esattezza le parole, zio Varro, siano esse scritte o pronunciate. Anche i druidi mi hanno insegnato, nello stesso modo. Lot ha provocato il combattimento. Uther doveva ucciderlo per le cose che ha detto. Avrei dovuto ucciderlo anch'io, se fossi stato Uther, ma non lo sono.» Mio padre rispose al mio impeto, e già il suo tono era molto meno collerico. «Dicci che cosa è successo, ragazzo.» Io raccolsi i miei pensieri e riferii ogni cosa dall'inizio, fatti e conversazioni parola per parola come si erano susseguiti. Non dimenticai nulla, non omisi alcuna ingiuria, non aggiunsi nulla. Quand'ebbi finito, ci fu silenzio per un poco, e poi mio padre parlò: «Una brutta faccenda». Il duca Emrys ne convenne. «Sì, generale, una brutta faccenda davvero. Un ragazzo ucciso per avere sputato sentenze da ragazzo. Davvero una brutta faccenda.» «Non è stato ucciso nessuno, duca Emrys» disse mio zio, che aveva finalmente ritrovato il consueto tono di voce. «I ragazzi sono vivi entrambi, non certo grazie a loro, e grazie agli dei sono ragazzi, perché se quelle parole fossero state pronunciate tra uomini, allora la fine sarebbe stata la morte, senz'ombra di dubbio.» «Puah! Date troppa importanza alle parole!» La voce di Emrys era piena di disgusto. Mio padre si era alzato e si era scostato dal tavolo; a quella frase si voltò e si avvicinò al duca di Cornovaglia, e parlò con voce tanto più minacciosa perché sommessa e chiara nonostante la lesione alla gola. «Ascoltami bene, duca di Cornovaglia. Questo ragazzo è mio figlio. Il giovane Uther è mio nipote. La madre di Uther, la vittima delle sconce calunnie del tuo infame figlio, era la figlia di Publio Varro. Mia moglie era sorella del nonno del giovane Uther. Non conosco tuo figlio, ma so che non è compagnia adatta per nessuno dei miei figli. Se fosse qui, invece di essere a letto a sanguinare per i suoi peccati scurrili, avvicinerei il mio stivale al suo screanzato deretano. E che vadano al diavolo le leggi dell'ospitalità! Se desideri difendere l'onore del tuo maleducato marmocchio come Uther ha difeso l'onore di sua madre, sarò felice di uscire dalle mura in tua compagnia. Ho ascoltato fin troppo a lungo i tuoi motteggi e i tuoi insulti. Ti considero villano, prepotente, invidioso e nient'affatto simpatico. I nostri dottori guariranno alla svelta quella chiavica di tuo figlio. E quando sarà guarito, ti metterò alla porta io stesso. Non siete i benvenuti qui, né tu né tuo figlio. Ho parlato chiaramente? Hai capito bene? Metti in dubbio le mie parole?» Il duca Emrys, rosso in volto e con la mascella cadente, era rimasto seduto a fissare mio padre. Nel silenzio che seguì, io lo esaminai come avrei esaminato un insetto. Sapevo con certezza che non avrebbe raccolto la sfida di mio padre, ma non sapevo che cosa avrebbe fatto. I miei occhi non lo abbandonarono mai. Lo vidi lottare per nascondere la paura e poi sforzarsi di mettere insieme un poco di dignità che gli fosse di sostegno. Infine si girò verso mio zio e tentò di parlare in modo sprezzante. «Credevo che fossi tu il padrone qui. E questo è un esempio del tuo dominio? Permettere che i tuoi ospiti vengano maltrattati alla tua mensa?» Mio zio inspirò a fondo. «Troppo tardi, Emrys. Dimentichi che la dama in questione, la madre di Uther, era mia figlia. Inoltre, io qui sono il signore, non il padrone. Non ci servono simili distinzioni. Pico ha detto ciò che dovrei dire io, se non fossi il tuo ospite. Ora che è stato detto, mi accorgo che in coscienza non posso dissentire. Puoi andartene quando lo desideri. E sei pregato di non tornare.» Si alzò e lasciò il tavolo, e mio padre gli si affiancò. Passando mi fece un cenno e abbandonammo Emrys nella solitudine dell'Armeria. La ferita di Lot guarì rapidamente. Non era profonda e non aveva toccato punti vitali. Quattro giorni dopo Lot e suo padre se ne andarono. Uther zoppicò per un mese. E l'inimicizia che nacque quel giorno sopravvisse per anni e annientò migliaia di vite. VII. Mi stavo gustando un pasto a base di salsiccia fredda, formaggio, pane e birra fatta in casa, quando fuori nella via sentii chiamare il mio nome. Un pugno batté alla porta e la donna della casa mi guardò interrogativamente. Le feci un cenno affermativo e lei aprì la porta a un mio caposquadra, che entrò nella stanza e scattò sull'attenti non appena mi vide seduto a tavola. «Comandante Caio, signore, pensavo che stessi dormendo.» «Dormivo, ma adesso sto mangiando, come vedi. Che cosa c'è?» L'uomo aveva gli occhi spalancati per l'eccezionalità del messaggio. «Corriere, signore, da Camulod. Devi rientrare immediatamente. Mastro Varro giace morente.» Prima che avesse finito di parlare avevo rovesciato fragorosamente la sedia e mi ero alzato in piedi. «Dov'è il comandante Uther?» Scrollò le spalle, e nei suoi occhi lessi che aveva già tentato di trovarlo. «Sembra che nessuno lo sappia, signore.» «Dannazione a lui! Non è mai...» Mi interruppi, pentendomi delle mie parole nel momento stesso in cui mi sfuggivano di bocca. «Manda degli uomini a cercarlo nelle vinerie. É fuori servizio. Trovatelo, e in fretta!» «Sì, comandante.» Fece il saluto e si ritirò. Io raddrizzai la sedia e mi rimisi a sedere, ma il cibo non era più nei miei pensieri. Publio Varro era una presenza costante nella mia vita, L'idea che fosse malato mi risultava estranea eppure, se la sua malattia era così grave da esigere il nostro rientro, doveva davvero essere in punto di morte. Cercai di indovinare quanti anni aveva, ma non potei. Zio Varro era senza età, Gli altri uomini invecchiavano, ma lui no. L'unica volta che l'avevo visto indisposto era stato quando Equo, Ullic e il vescovo Alarico erano morti a breve distanza di tempo, Ma la gioia di mostrarmi Excalibur l'aveva riportato alla salute, a se stesso, di nuovo alla vita. E adesso era malato. Improvvisamente, senza alcuna ragione, seppi dove si trovava Uther. Lungo la strada verso la città ci eravamo fermati a una casa, un luogo che prima della partenza delle legioni era una mansio, un albergo ufficiale per viaggiatori e soldati. Ma funzionava ancora, e dava ristoro ai viaggiatori tanto coraggiosi o tanto disperati da affrontare le strade tra Glevum e Aquae Sulis. Il tizio che la gestiva era ben fornito di servette di facili costumi, e una o due avevano attratto lo sguardo errante di Uther. Sapevo che l'avrei trovato lì. Avevamo appena concluso il giro settentrionale di perlustrazione a Glevum, e dovevamo rimanerci tre giorni per far riposare i cavalli e consentire al nostro quartiermastro di acquistare gli articoli che non avrebbe trovato ad Aquae Sulis, la città che avremmo dovuto attraversare nel secondo tratto della nostra perlustrazione che ci avrebbe riportati a Camulod. Quello era il nostro primo giorno di rilassamento. E Uther per rilassarsi aveva bisogno di donne. Uther mi aveva sempre preceduto nelle questioni di donne e di sesso. Eravamo nati alla stessa ora dello stesso giorno, ma aveva aperto lui, passo per passo, la strada verso la maturità fisica e sessuale. Sua era stata la prima erezione, suo il primo pelo sul pube, sua la prima eiaculazione e, naturalmente, la prima penetrazione di un corpo femminile. Io restavo sempre indietro, e imparavo da lui, lasciavo che lui mi mostrasse come fare. In qualunque altro campo a eccezione della guerra, ero io il primo e Uther mi seguiva, ma per un adolescente non c'è attività della vita più cruciale di quella sessuale, e io mi sentivo costantemente tradito, condannato dal mio stesso corpo a essere sempre secondo. Pur essendo nel pieno della virilità, facevo un sogno in cui partecipavo con Uther a una grande orgia. Era un sogno diverso da quelli che chiamavo sogni del terrore: non cambiava mai ed era sempre chiaro. Eravamo circondati da voluttuose e dissolute bellezze; Uther giaceva supino, e rideva di sensuale piacere ostentando ai loro sguardi ammirati e alle loro carezze la sua mascolinità protesa e arrogante, e sempre una donna gli pettinava con le dita i peli del ventre nudo e gli stringeva il fallo. Il sangue mi pulsava ormai dietro agli occhi, mani sconosciute mi strattonavano gli abiti, e il mio seme minacciava di sgorgare, e allora sentivo le risate, e la vergogna di abbassare gli occhi sul mio corpo imberbe e sul minuscolo pene di un bambino. La mente ci può giocare strani scherzi. Il mio sviluppo, a qualsiasi livello, non ritardò mai più di un mese rispetto a Uther, e non ero meno equipaggiato di lui, né avevo problemi di prestazioni o difficoltà a soddisfare il desiderio di una donna, e tuttavia, nei meandri della mia mente, quella paura persisteva radicata e profonda. Ringraziai la donna che mi aveva dato da mangiare e lasciai sul tavolo qualche moneta d'argento. Il mio cavallo era legato appena fuori dalla porta. Montai in sella e scrutai la via deserta, cercando invano uno dei miei uomini. Due strade più a sud incrociai un gruppo di soldati a piedi, tutti ragionevolmente sobri. «Quinto» chiamai il più grosso. «Sono stato richiamato a Camulod con il comandante Uther per una questione di assoluta emergenza. Malattia in famiglia. Trova Dedalo, presentagli le mie scuse per non essermi fermato a contattarlo personalmente, e digli che da questo momento il comando è in mano sua. Il comandante Uther e io cavalcheremo soli. Dedalo finirà il giro di perlustrazione come stabilito. Digli che il comandante Varro sta morendo e dobbiamo fare ritorno anticipatamente. Ci sono fuori delle pattuglie in cerca del comandante Uther, ma credo di sapere dov'è, e non lo troveranno. Se mi sbaglio, ed è ancora qui a Glevum, lo aspetterò all'albergo dieci miglia a sud della città. Avrò con me dei cavalli in più, perciò digli di non perdere tempo. Capito?» Attesi che ripetesse parola per parola, poi gli restituii il saluto e spinsi il cavallo al galoppo fino al nostro deposito, dove presi altri due cavalli e del cibo prima di dirigermi fuori città. Ricordo che percorsi quelle prime dieci miglia sforzandomi di pensare a qualsiasi cosa che distogliesse la mia mente da zio Varro e da ciò che la sua morte avrebbe significato, Avevo diciotto anni e, sebbene quello fosse il mio quarto pattugliamento, era il primo che Uther e io comandavamo insieme senza esplicita supervisione. Forse la nostra prima responsabilità doveva essere verso la pattuglia, ma Dedalo era centurione anziano e mio padre gli aveva conferito l'autorità di ignorare i nostri ordini se avesse creduto in qualsiasi momento che Uther e io agissimo avventatamente. Mi aveva ferito nell'orgoglio pensare che eravamo comandanti solo di nome, ma l'intelletto mi aveva rassicurato che quell'ultimo pattugliamento con Dedalo sarebbe stato il nostro esame finale. E mi avevano appena comunicato che non potevamo completarlo. Era tardo pomeriggio quando mi avvicinai all'albergo e incominciai a provare una brutta sensazione, una sensazione che i maestri druidi della mia fanciullezza mi avevano insegnato a rispettare, poiché credevano che ciò che chiamiamo intuizione sia un dono naturale che l'uomo ha lasciato arrugginire. Ho sempre apprezzato l'importanza che davano a quell'insegnamento. Quel giorno quasi sicuramente mi salvò la vita. A circa cento passi mi fermai a guardare quel posto, rammentando che alcuni personaggi che avevo visto lì al nostro arrivo due giorni prima non mi erano piaciuti. Se Uther fosse entrato da solo, ed ero certo che fosse entrato da solo, perché lui era fatto così, assieme a un boccale di birra avrebbe potuto comprarsi un sacco di guai. Se invece non c'era entrato affatto e fossi arrivato io, montando un cavallo e portandone altri due, mi sarei comprato guai con la stessa moneta. La mia uniforme non mi avrebbe salvato, né mi avrebbe salvato un atteggiamento autoritario. Ero un uomo solo, che poteva essere spacciato alla svelta ed eliminato senza lasciare tracce. Una eventuale ricerca successiva non sarebbe approdata a nulla. Mi guardai attorno, ma non vidi il cavallo di Uther. Doveva essere in una costruzione adibita a stalla sul retro o di fianco all'edificio principale. Quasi mi convinsi che ero uno sciocco. Grazie a Dio non mi credetti. Lasciai la strada e passai tra gli alberi e intorno all'albergo senza essere visto, legai i cavalli al sicuro discosto dalla strada sul lato meridionale, e tornai indietro a piedi. Lasciai il mantello da guerra, lo scudo e la spada lunga con i cavalli e mi portai appresso solo la spada corta e il pugnale. L'elmo mi pesava sulla testa, e gli stivali chiodati risuonavano sull'acciottolato. Avanzai in mezzo all'ingresso del cortile principale e mi fermai a guardare con attenzione l'interno del cortile. Era deserto. Non c'era segno di vita. Attraversai rapidamente il cortile, e dirigendomi alla porta sentii rumori confusi e grida provenire dall'interno. Prima ancora di entrare sapevo che cosa avrei trovato, e rimpiansi di avere lasciato lo scudo con i cavalli. Sulla soglia feci una pausa, respirai a fondo, poi spalancai la porta ed entrai, spostandomi immediatamente con la schiena contro la parete. L'albergo era piuttosto simile a un fienile: una enorme stanza comune con della paglia sparsa a terra e tavoli su cavalletti disseminati qua e là perché la clientela potesse mangiare, o bere. Su un tavolo lungo appoggiato contro il muro alla mia destra c'erano anfore e barili di birra. Un massiccio camino aperto nella parete opposta ospitava spiedi per arrostire la carne. Proprio di fronte a me una larga scala di legno portava a un secondo piano, come un soppalco, che serviva da dormitorio e per intrattenersi con le donne. Uther aveva gettato un tavolo di traverso in cima alla scala, e con la spada in una mano e il pugnale nell'altra si affannava a difenderlo contro una feccia di otto o nove manigoldi disperati. Non sapevo da quanto tempo fosse in quella posizione, ma avevo la netta impressione che il divertimento fosse appena cominciato, altrimenti sarebbero state visibili molte più tracce di violenza. Uther non poteva comunque sperare di resistere a lungo contro tanti avversari; si erano tutti ammassati in cima alla scala, e si ostacolavano l'un l'altro, ma con un po' di pazienza l'avrebbero presto o tardi sopraffatto. Mentre analizzavo la situazione, una delle ragazze nel soppalco balzò sulla schiena di Uther, stringendogli le gambe intorno alla vita e cercando con le braccia di immobilizzarlo per impedirgli di difendersi. Un boato si levò con temporaneamente dai suoi assalitori e da Uther, che spezzò la presa della ragazza, se la strappò di dosso e se la fece passare sopra le spalle, buttandola giù verso i suoi aggressori. La ragazza atterrò con un grido in mezzo al gruppo di uomini, e se ne trascinò appresso uno oltre la fiancata della scala priva di protezione, andando a sfracellarsi sul pavimento di pietra. La paglia non attenuò la caduta, e giacquero entrambi immobili. Mi guardai attorno in cerca di qualcosa di meglio di una spada corta e di un pugnale, e riconobbi sul pavimento accanto a me la lancia di Uther. La raccolsi, ne saggiai il bilanciamento, e corsi su per la scala, sentendo la lama affondare tra le scapole del primo uomo che raggiunsi. Liberai la punta della lancia con uno strattone e trapassai i lombi di un altro uomo quando il primo non mi era ancora ruzzolato di fianco. Scattai a sinistra, spingendo e guidando la mia vittima oltre il bordo della scala, perdendo quasi l'equilibrio quando il peso del corpo disincagliò la li ma della lancia. Non si erano ancora accorti della mia presenza alle loro spalle. «Caio! Che cosa ti ha trattenuto?» Il ruggito di benvenuto di Uther annunciò a tutti il mio arrivo, e tutti come un solo uomo si voltarono verso di me. La spada lunga di Uther decapitò l'uomo più vicino, e lo zampillante cadavere senza testa venne mandato con un calcio a rotolare tra le gambe degli altri. Il proprietario dell'albergo, un misantropo guercio mi stava di fronte impugnando una spada romana. Gli ficcai la lancia nel ventre, appena sotto le costole, e con la morte negli occhi lasciò cadere la spada e afferrò l'asta della lancia, impedendomi di disimpegnarla. Perversamente torsi la lancia per piantare i barbigli, e tirai il corpo verso di me, spostandomi a sinistra per evitare di venire travolto e quasi precipitando di lato dalla scala. Rimasi lì ad agitare le braccia mentre i superstiti si riavevano dalla sorpresa. Vidi Uther conficcare la spada nella schiena di un altro, ma io ne avevo di fronte ancora tre, la spada di Uther era incastrata e io ero praticamente indifeso. Uno mi si scagliò addosso con un urlo nell'istante in cui ritrovavo l'equilibrio. Sentii fischiare un'ascia e saltai, indietro e all'infuori, flettendo le ginocchia nella speranza di atterrare senza rompermi una gamba. A mezz'aria vidi l'ascia penetrare nello scalino dove un secondo prima c'erano i miei piedi, e vidi Uther sollevare il tavolo che l'aveva protetto e spingere con esso i tre uomini rimasti sulla scala fino a farli cadere. Per pura fortuna atterrai come un gatto, carponi, e fui addosso al bastardo che aveva impugnato l'ascia prima che raggiungesse il fondo della scala. Nei miei pensieri non c'era clemenza. La punta della mia spada stridette contro il pavimento di pietra, e dovetti puntargli un piede sul petto per liberare la lama. Sentii un grugnito, un colpo secco, e un rantolo d'agonia quando Uther ne trafisse un altro, e poi passi di corsa e una porta sbattuta. Era finita. Crollai ansando sugli scalini, con la testa tra le ginocchia, e sentii di nuovo il rumore della porta. Alzai gli occhi, e vidi Uther in mezzo alla stanza, che mi sorrideva respirando a grandi boccate che gli sollevavano il petto. «Uno di loro è scappato» ansimò. «Che sollievo! Lascialo andare.» Ero troppo esausto per corrergli dietro. Uther venne a sedersi sugli scalini al mio fianco, piegò un braccio a gomito intorno al mio collo e strinse forte, con mio estremo disagio. Ero troppo stanco anche solo per reagire, e così rimasi lì seduto, contro di lui, fissando il pelo ricciuto sulle sue cosce a pochi pollici dalla mia faccia, annusando il suo odore familiare e ringraziando Dio perché ero arrivato quand'ero arrivato. Finalmente mi lasciò il collo e si appoggiò agli scalini, e il nostro respiro gradatamente ritornò normale. Dopo la pressione e la tensione del combattimento - la prima vera e propria lotta per la vita e per la morte nella quale fossi stato personalmente coinvolto mi sentivo debole come un neonato, e tremavo in tutto il corpo. Mi sedetti in posizione eretta e mi afferrai forte le mani nel tentativo di controllare il tremito, e solo allora mi accorsi del sangue. Era dappertutto, Ovunque guardassi vedevo sangue, in pozze e schizzi e lunghe strisce sulla paglia del pavimento. L'uomo che aveva cercato di uccidermi con l'ascia era a meno di tre piedi da me, di traverso sulle gambe del proprietario di quel posto, bizzarramente ritto a sedere, impalato sulla lancia spezzata di Uther. Evidentemente aveva spezzato l'asta cadendoci sopra, e la punta gli aveva attraversato la parte superiore del corpo. Tutto si annebbiò, e vomitai dove mi trovavo, tossendo e sputacchiando l'amaro fiele della vittoria. Quando riaprii gli occhi ero in ginocchio sul pavimento, e Uther mi stava togliendo l'elmo affinché l'aria fresca mi asciugasse la fronte surriscaldata e i capelli zuppi di sudore. «Ti senti meglio?» Annuii, tergendomi le labbra e il mento e sputando per levarmi di bocca l'acidità. «Bene» continuò. «Ho deciso che non voglio mai più che tu ti arrabbi con me. Sei un uomo spietato, cugino, quando sei arrabbiato. Hai ammazzato quattro di questi uomini.» Girai lo sguardo per quel macello. «Anche tu.» Sorrise. «Ah, ma io li ho uccisi tutti alle spalle, mentre stavano guardando te.» «Rammenta che anch'io li ho presi alle spalle. Per fortuna ho trovato la tua lancia sul pavimento.» Mi tremava la voce, «E per fortuna li tenevi tutti impegnati in cima alla scala. Se le cose fossero state diverse, adesso saremmo morti, tu e io,» «Sciocchezze. Non erano diverse e noi non siamo morti,» Sputai ancora. «Ho in bocca un saporaccio. Ho bisogno di bere qualcosa.» Mi alzai, andai al tavolo con i barili e mi versai una tazza di birra. Era stantia e priva di effervescenza, così amara e nauseabonda che non riuscii a mandarla giù; mi sciacquai la bocca e feci qualche gargarismo e poi sputai sul pavimento, sentendomi meglio a ogni secondo che passava. Mi guardai attorno e indicai la carneficina. «Che cosa facciamo?» Sentii un rumore sopra di me, alzai di scatto la testa e vidi due donne che ci fissavano dal soppalco, con grandi occhi pieni di spavento. «Altre amiche tue?» chiesi. Uther guardò in su e le vide. «Venite qui, svelte!» Quando ci ebbero raggiunti, rannicchiate una contro l'altra per il terrore, con gli occhi che guizzavano come impazziti da uno all'altro di noi, Uther sfoderò la spada. «Toglietevi quei vestiti!» Le donne ubbidirono, e davanti alla loro nudità Uther scosse lentamente la testa in malinconico divertimento. «Caio, riesci a credere che sono stato quasi ucciso per questo? Noi siamo stati quasi uccisi per questo, e so che tu non infileresti il mio dentro una di queste, tanto meno il tuo!» Le donne se ne stavano vicine, e lo fissavano impaurite, domandandosi se sarebbero morte o vissute, ma assolutamente certe di stare guardando in mio cugino la Morte personificata. «Tu!» disse, puntando la spada contro la più voluminosa. «Voltati. Guarda il mio amico.» La donna si girò verso di me, con le grosse mammelle pesanti contro le costole, il ventre tristemente flaccido sulla peluria del pube. «L'hai quasi fatto ammazzare, baldracca, ed è un principe! É quasi morto perché hai alimentato la mia concupiscenza con le tue grosse tette a mantice!» Con il piatto della spada le schiaffeggiò forte le natiche, facendole fare un salto per la paura e per il dolore, e facendole sgorgare le lacrime dagli occhi. «Allontanatevi dalla mia vista, tutte e due» ruggì. «Via! Via, via, via!» La più minuta allungò una mano verso i vestiti, ma Uther fece roteare di nuovo la spada, e la colpì di piatto su un fianco. «No! Prendete la vostra vita di furti e assassinii e accontentatevi! Niente vestiti. Rinascete, come dicono i cristiani. Procedete verso una nuova vita ignude come siete entrate in questa, e pensateci due volte prima di azzardarvi a tentare a morte un altro ottuso gaudente! Fuori!» Corsero via, saltellando terrorizzate per il pavimento disseminato di cadaveri, e uscirono nel crepuscolo incombente. Uther restò a guardarle con quel sorriso un po' pazzo che amavo, e poi fece scivolare la spada nell'anello della tracolla, in modo che la lama scendesse sulla schiena. «Ho fatto male a lasciarle andare, cugino? Hanno cercato di uccidermi.» «No, Uther. Ti hanno solo irretito. Tutte e tre insieme non sarebbero riuscite a violentarti, ma solo una ti ha aggredito, e ha pagato per questo.» Mi osservava attentamente, con quel mezzo sorriso che gli indugiava sulle labbra. «Credi che sia stato troppo duro con loro?» «No, non troppo duro. Immagino che meritassero una punizione. Se la sono cavata con poco.» «Ma?» Scossi la testa. «Ma niente. Solo mi domando come faranno a procurarsi da mangiare, adesso che non hanno più un mezzo di sostentamento.» Uther grugnì. «Troveranno il modo. Che cosa avresti voluto che facessi, le dovevo portare con noi?» Raccolse il mio elmo e salì la scala fino al soppalco, dove prese il suo mantello, infilò l'elmo e imbracciò lo scudo prima di ritornare dov'ero rimasto ad aspettarlo. Mi restituì il mio elmo e disse: «Ti ho già detto come sono stato contento di vederti?». Annuii, e lui andò a prendere una lampada che bruciava di fianco ai barili di birra. «Sono sempre contento di vederti, Cai, ma oggi eri bellissimo. Di solito sei insignificante. Anzi, la maggior parte delle volte sei quasi brutto. Oggi, invece, eri magnifico. Pazzo furioso, ma magnifico.» Chiacchierando, spingeva a calci la paglia in un mucchio ai piedi della scala di legno. Finalmente decise che bastava e lasciò cadere la lampada piena d'olio, che si ruppe sulle pietre del pavimento. Le fiamme si diffusero rapide. «Questo non era comunque un posto adatto alla gente per bene.» Diede un'ultima occhiata ai corpi. «Che riposino in pace, come dicono i cristiani. Usciamo di qui. Perché ci .sei venuto, a proposito?» Fu come una doccia gelida. L'avevo scordato! «Varro sta morendo, Uther. Siamo stati richiamati a Camulod.» L'emozione violenta e improvvisa lo fece impallidire. «No... Non può essere, Cai. Non il nonno!» Potei solo scuotere la testa. La sua incredulità rispecchiava così fedelmente la mia da essere disarmante. «Dobbiamo sbrigarci. Ho portato due cavalli in più.» Lasciammo l'albergo e i suoi silenziosi ospiti alle fiamme crepitanti. Il cavallo di Uther era al sicuro in una delle costruzioni sul retro; glielo tenni fermo mentre lo sellava e stringeva il sottopancia dopo aver dato una ginocchiata nella pancia del cavallo per assicurarsi che non fosse ingannevolmente gonfia. Le prime volte ci era capitato di cadere di lato perché le cinghie non erano state correttamente allacciate. Uther balzò in sella e io dietro a lui, e lo diressi dove avevo nascosto gli altri animali. Gli diedi le redini di uno dei cavalli di riserva e ci dirigemmo a sud, evitando la strada per risparmiare gli zoccoli delle bestie. Da quando avevamo lasciato l'albergo non avevamo detto una parola, a parte poche brusche indicazioni, e il silenzio si prolungò per tre o quattro miglia al piccolo galoppo. Fu Uther a parlare per primo, interrompendo il corso dei miei pensieri e rivelando un lato di sé più serio e assennato. «É stata una scempiaggine, un'insensatezza. Avrebbero potuto uccidermi... mi avrebbero ucciso se tu non fossi arrivato. Non sarebbe stata una gran perdita, ma adesso mi rendo conto che tu e gli altri avreste perso tempo a rivoltare tutto il paese alla mia ricerca. É stato un gesto criminale e stupido. Perdonami, Cai. Non sparirò più senza prima lasciar detto dove possono trovarmi. Ma in nome di tutti gli dei romani, tu come facevi a sapere dov'ero?» «Corpi» dissi. «Corpi femminili e compiacenti. Li hai visti quando siamo passati la prima volta, e non ne hai potuto approfittare, e poi ti sei ritrovato con tre giorni di libertà a dieci miglia da loro. Non è stato difficile. Ti conosco, cugino. Ma hai ragione. É stato un comportamento stupido, ma dubito che la tua morte non sarebbe stata considerata una gran perdita. Non dal punto di vista di tuo nonno. Ai suoi occhi, sei stato cresciuto e addestrato per un fine, e non certo quello di farti ammazzare in un covo di ladri e di puttane.» Non disse nulla per un poco. «Quanto sta male? Quanto tempo abbiamo perso a causa mia?» «Non so quanto stia male, ma deve stare male davvero, o non ci avrebbero richiamati dal giro di perlustrazione. A questa velocità ci vorranno circa tre giorni per raggiungere Camulod, meno se ci priviamo del sonno. Il tempo perso non è stato più di un'ora, tutto considerato. Dovevo venire da questa parte e non ho perso tempo a cercarti a Glevum. Il combattimento è stato breve, sebbene sia parso lungo.» Mi alzai nelle staffe e guardai nella direzione dalla quale venivamo. Eravamo su un tratto di prateria che già mostrava di arrendersi alla foresta, e che doveva essere stato disboscato anni prima da un fattore, di certo ormai defunto. In lontananza, al di sopra degli alberi, c'era una cappa di fumo nero. Ricademmo nel silenzio, e continuammo a cavalcare, ognuno immerso nei propri pensieri. Cambiavamo regolarmente i cavalli e le miglia scorrevano alle nostre spalle. Quando scese l'oscurità, riportammo i cavalli sulla strada fiancheggiata dagli alberi, e proseguimmo alla luce della luna. Ci fermammo a dormire un poco dopo il tramonto della luna, e ripartimmo prima delle prime luci dell'alba; il secondo giorno ci fermammo solo a vuotare vescica e viscere. Ogni volta che scendevo dalla sella per questo o per quel motivo mi sembrava che non sarei più stato capace di camminare normalmente, e il pensiero di rimettere in sella il corpo indolenzito mi deprimeva. Ma lungo la strada non avemmo problemi, e a metà pomeriggio del terzo giorno giungemmo in vista di Camulod. L'ultima parte del viaggio si era svolta sui possedimenti della Colonia, e dai nostri avamposti avevamo appreso solo che Varro era caduto, e si era spezzato le gambe e le costole rotolando giù per il pendio della collina. Aveva i polmoni congestionati, e da otto giorni sputava sangue. Proseguimmo cupi in volto, e all'ingresso della villa fummo accolti da zia Luceia. Aveva un aspetto fragile, eppure indomito, e d sorrise tra le lacrime. La baciammo, e poi Uther parlò. «Come sta, nonna?» «Soffre molto. Ma è un uomo cocciuto, e non morirà prima di aver parlato a tutti e due.» Era così. Sapevamo entrambi che era inutile mettersi a dire sciocchezze, come che non sarebbe morto. «Possiamo andare subito da lui?» chiesi. «Certamente. È nel suo salottino.» La lasciammo e ci dirigemmo a rapidi passi verso la stanza che era stata il salottino anche di mio nonno. I nostri padri erano già lì, uno a ciascun lato del letto. C'era anche Patrico, il capo del Consiglio della Colonia, canuto e solenne. Avrei pianto quando vidi come era cambiato il mio prozio da quando eravamo partiti, appena due settimane prima. Era un uomo diverso, un estraneo al mio sguardo. Solo gli occhi, infossati in quel volto distrutto, avvizzito, devastato dal dolore, mi mostravano il Publio Varro che amavo, e anche gli occhi erano annebbiati dal dolore. «Uther» disse. «E Caio. Benvenuti a casa.» La sua voce era un rauco sussurro. Tese a ciascuno di noi una mano raggrinzita, più simile a un artiglio, e quando la strinsi nella mia vidi la pelle del polso un tempo possente pendere a pieghe e rughe dalle ossa. Mi premetti quella mano contro la guancia, e tra le due superfici sentii l'umidore delle mie lacrime. «A che cosa servono le lacrime, ragazzo? E così per tutti gli uomini. Tutti dobbiamo morire. Io ho vissuto molto più a lungo del dovuto, e ho vissuto bene. Siete stati molto a cavallo?» Feci segno di sì, incapace di parlare. «Lo immaginavo.» Il fruscio come di pergamena della sua voce conservava una traccia dell'antico buonumore. «Puzzate come dei cavalli, tutti e due. Caio, questo era il letto di tuo nonno. Se l'è goduto per anni prima di morire. Io ci sto solo da pochi giorni. E non ho intenzione di morirci con la puzza di sudore rancido di cavallo nelle narici.» Le sue dita strinsero dolcemente la mia mano. «Andate a farvi un bagno, tutti e due. Sarò ancora qui quando vi sarete ripuliti. Allora parlerò con ciascuno di voi singolarmente.» La sua mano premette dolcemente contro la mia. «Andate. Non morirò prima di aver parlato con entrambi, lo prometto. Pico, i bagni sono pronti?» «Certo, Varro. È mai successo che non lo fossero?» «Sì, una volta. Gli ipocausti erano bloccati. Ma tu non eri qui, a quel tempo.» Mio padre si rivolse a noi. «Fate come dice. Vi sentirete meglio. E trovate qualcosa da mangiare. Publio Varro ha bisogno di un po' di riposo.» A malincuore ci alzammo e ubbidimmo. Quando ritornammo, ristorati e profumati di pulito, trovammo al capezzale zia Luceia, che stringeva tra le sue la mano smagrita del marito. Publio Varro aveva gli occhi chiusi, ma li aprì udendo il rumore dei nostri passi, e ci sorrise. «Ah» sussurrò. «Così va meglio. Questi sono i ragazzi che conosco. Caio, vai con tua zia Luceia e tienile compagnia intanto che io parlo con Uther. Uther, vieni qui e siediti dove posso vederti.» Zia Luceia e io li lasciammo soli. Uscendo dalla stanza mi chiusi la porta alle spalle. Zia Luceia mi guidò attraverso la casa fino alla stanza di famiglia, il suo dominio, e mi fece cenno di sedermi su un divano. «Caio» disse. «Publio Varro non rimarrà con noi per molto, ormai.» Deglutii il tormentoso groppo che mi chiudeva la gola e le chiesi che cosa era accaduto. Si strinse nelle spalle in un gesto sorprendentemente simile a quello che avevo notato mille volte in suo marito. «Nessuno lo sa, Cai. Lui non vuole dirlo, e nessuno l'ha visto. Era stato tutto il pomeriggio qui alla villa e stava tornando al forte quando è successo. Sappiamo solo che era già buio, perché altrimenti qualcuno l'avrebbe visto.» Allora crollò, e si mise a piangere. Le andai vicino e la abbracciai, e ascoltai le sue parole di dolore. «É sempre stato un uomo forte e testardo. Troppo testardo per invecchiare come gli altri. Troppo testardo per confessare la perdita della forza o della giovinezza. Credo che abbia diretto il cavallo su per il pendio, invece di fare il giro più lungo, dalla strada. Credo che abbia perso l'equilibrio e che sia caduto da cavallo. Non ha mai accettato di usare una sella, diceva che aveva cavalcato a pelo per troppo tempo per cambiare abitudine. Comunque, un venditore ambulante l'ha trovato ai piedi della collina il giorno dopo di primo mattino. Il suo cavallo pascolava, illeso, poco lontano. Era lì da ore, bagnato fino all'osso, e freddo di rugiada.» Fece una pausa, e poi scosse la testa con violenza, spargendo ovunque le lacrime. «Non mi sono nemmeno accorta che non era tornato a casa. Cioè, mi sono accorta, ma non ci ho dato peso. Qualche volta dormiva qui alla villa, quando lavorava fino a tardi. Credevo che fosse qui. Come potevo immaginare che quel vecchio sciocco avrebbe cercato di scalare la collina come un dodicenne? E adesso sta per morire e io per tutta la vita che mi resta continuerò a chiedermi se avrei potuto trovarlo prima.» La abbracciai forte e tentai di rassicurarla dicendole che non avrebbe potuto fare niente, ma non era disposta a lasciarsi consolare tanto facilmente. «Oh, Cai» singhiozzò. «Non riesco a credere che una caduta l'abbia ridotto così. Tutta la sua carne si è sciolta! Non è rimasto nulla dell'uomo che amo, solo pelle e ossa e dolore e la forza interiore che non vuole lasciarlo morire!» «Lo so» dissi nei suoi capelli attraverso le lacrime. «Lo so. Ha una forza disumana. Non se ne andrà finché non vorrà andarsene.» «E quando vorrà, io rimarrò sola.» Le sue stesse parole la sconvolsero, la sentii irrigidirsi tra le mie braccia, e tendere le sue a spezzare la mia stretta affettuosa. Si alzò in piedi e con un lembo della stola si asciugò gli occhi, e io vidi la forza fluire in lei e farla sembrare più grande. Quando parlò, la sua voce era ferma e calma. «Basta» dichiarò repentinamente. «Per un giorno solo ci sono state lacrime e sciocche debolezze a sufficienza. Mio marito si sarebbe vergognato di me se avesse sentito la mia ultima considerazione.» Si girò e io vidi i suoi occhi pieni di calore. «Tuo zio è uno degli uomini migliori che siano mai esistiti al mondo. Tutto quello che ho, tutta la felicità che ho conosciuto, tutto proviene direttamente da lui. Ora che la sua vita è alla fine, toccherà a me e a te, Caio, e a Uther, e ai vostri figli e nipoti, fare in modo che la vita che ha vissuto e le meraviglie che ha compiuto non vengano dimenticate.» Mentre Luceia diceva queste parole, nella mia mente c'era Excalibur, perché io sapevo che in essa risiedeva l'immortalità di Varro. Il nome mi vibrò sulla punta della lingua, ma non gli detti voce, ricordando che solo cinque paia d'occhi l'avevano vista e conosciuta, a parte i miei. Quegli occhi appartenevano allo stesso Varro, ai suoi amici Equo e Plauto, a padre Andros - l'uomo che aveva disegnato lo stampo dell'elsa - e a mio nonno. Mi domandai allora se zia Luceia sapesse, ma non osai chiedere. Per quanto incredibile mi sembrasse allora, forse zio Varro l'aveva tenuta all'oscuro, Dopo tutto, e sopra a tutto, era una donna, e forse avrebbe visto in essa solo uno strumento per uccidere, e l'avrebbe disapprovata, malgrado l'orgoglio per una creazione tanto sublime. E così non chiesi, per il timore di ferirla con l'improvvisa conoscenza del segreto di suo marito. Tacqui. Scorgendo e fraintendendo la mia angosciata indecisione, Luceia mi strinse il braccio. «Tuo zio avrà presto finito con Uther. So che deve parlarti. Vai da lui, Caio. Aspetta fuori che Uther esca, e mandalo qui da me.» Quando imboccai il corridoio, Uther stava richiudendo la porta della stanza di mio zio. Si fermò e mi attese con espressione tetra. «Vuole vedere te, adesso.» «Come sta?» «Male, Cai. Molto, molto male.» «Zia Luceia ti aspetta nella stanza di famiglia.» Annuì e si allontanò. Io rimasi lì un momento con la mano sulla maniglia della porta, poi inspirai a fondo ed entrai. Questa volta, avvicinandomi al letto, compresi che cosa a prima vista mi fosse sembrato così sconvolgente, così diverso in lui. La barba era sparita, e quella mancanza aveva mutato completamente l'aspetto del suo viso. «Zio? Sei sveglio?» bisbigliai. «Sì, Caio, sono sveglio. Avvicinati.» Mi avvicinai e mi sedetti sulla sedia accanto al cuscino. «Zio? Ti sei tagliato la barba.» Il suo sorriso era spettrale, come la sua voce. «Non io, ragazzo. Quei dannati dottori. Non potevo tenerla pulita quando avevo la febbre. È una sensazione strana, come se fossi nudo.» Mi guardò di traverso. «Sei un uomo in gamba, Caio, o lo sarai tra breve. Adesso ascolta. Ho molto da dire e poco tempo. Ma io so quello che devo dire e tu no, perciò non interrompermi. D'accordo?» Feci cenno di sì e lui alzò gli occhi al soffitto, raccogliendo le forze. «Excalibur è tua. In sacra eredità. Nessun altro sa della sua esistenza, ora. Lasciala sotto il pavimento dove si trova. Lì è al sicuro. Proteggila a costo della vita, Cai. Quella lama fenderà catene di ferro. Ne ha la forza. È la spada di un re, di un imperatore. Tienila in custodia per l'Imperatore di Britannia. Non Uther. È troppo impulsivo, troppo violento. Non ne sa nulla.» «E zia Luceia?» Giacque in silenzio, meditando, concentrandosi, e poi riprese con maggior vigore. «No. È la cosa più eccelsa che ho fatto, e gliel'ho tenuta nascosta. Una simile conoscenza sarebbe stata troppo pericolosa per lei. Gli uomini scatenerebbero guerre per possedere Excalibur, Cai. Non permetterlo. Custodiscila in segreto. Un giorno, il tempo verrà. Riconoscerai il momento giusto, e riconoscerai l'uomo giusto. Se il tempo non sarà venuto prima della tua morte, consegna la Spada a qualcuno di cui ti fidi. Tuo figlio. Lo saprai. Hai ricevuto buoni insegnamenti. E hai imparato bene. Hai scoperto il segreto della Signora del Lago, Cai, e poi il segreto della sella. Un giorno scoprirai il segreto del Re. Lo riconoscerai a prima vista.» Trattenevo il fiato nello sforzo di ascoltare, e ogni parola si imprimeva a fuoco nella mia mente. «Tuo nonno Caio era il mio migliore amico. Lo sai. Era un sognatore, Cai, un grande sognatore. Nei suoi sogni osava maestosamente, e aveva la forza e il coraggio di far sì che i suoi sogni si avverassero...» Attesi, finché proseguì: «Diede inizio a un processo, Cai, a un'evoluzione che tu e i tuoi figli continuerete. Sognava - e intraprese - la rinascita della grandezza di Roma qui in questa Britannia. Voleva unire il suo sangue, il sangue del suo popolo, con il sangue del popolo di Ullic. Uther è il seme del suo progetto. E lo sei anche tu. Tieni d'occhio Uther, Cai; non ha la tua lungimiranza. Gli manca il tuo senso di giustizia. Tienilo a bada. Sarà re dei Pendragon quando morirà suo padre Uric, quando...». La sua voce si spense e poi si rianimò. «Fai di lui un buon re, Cai. Consiglialo. Ti ascolterà. Ha un grande amore per te.» Ci fu di nuovo una pausa, una lunga pausa, prima che l'esile voce riprendesse: «Usa i cavalli, Cai, e allevane altri. Tanti, tantissimi cavalli. I Sassoni non possono resistere a una carica di cavalleria. I cavalli, e le spade lunghe. Usale, e crea un esercito che le usi. Ti serviranno legioni. Creale. Tu sai come. E gli archi lunghi di Ullic. Le armi del popolo di Uther. Non trascurarli. Rappresentano il potere, ragazzo. Possono vincere le battaglie da lontano. Usali. È tutto quello che ho da dire. Adesso chiama tua zia e vai con Dio». Mi alzai per andarmene, ma le sue dita si strinsero sulle mie e mi tirarono giù verso di lui. «Avevo dimenticato. L'Armeria e tutti i suoi tesori sono tuoi. Uther lo sa. Là dentro c'è molto di cui si può ancora approfittare.» Chiuse gli occhi e allora fui certo che dormisse, ma quando mi rialzai per andare da zia Luceia mi fermò un'altra volta. Dovetti chinarmi vicino alle sue labbra per sentire, tanto si era affievolita la sua voce «Tuo nonno Caio vuole che tu usi il nome che ti ha dato tua madre...» Mi si rizzarono i capelli sulla nuca sentendolo usare il tempo presente, ma le sue dita abbandonarono lai mia mano, e improvvisamente spaventato corsi fuori per chiamare mia zia. Lei e Uther erano in piedi nel corridoio. Le feci un cenno, e Luceia corse al fianco di suo marito. Uther e io ci guardammo, condividendo senza parlare il reciproco dolore. Seppellimmo Publio Varro due giorni dopo, accanto al suo amico Caio Britannico. Quella notte Uther e io ci ubriacammo insieme, e ci confidammo quanto potemmo delle parole di Varro. Uther sarebbe diventato re. Io sarei stato il suo consigliere. Da quel giorno tutti, a eccezione dei miei familiari più intimi, mi conobbero con il nome di Merlino. Caio, il ragazzo, era morto con suo zio Publio Varro. Libro Secondo AQUILOTTI VIII. Ho trascorso anni a riflettere sugli avvenimenti che forgiano il destino degli uomini, e spesso sono giunto ad accettare l'evidenza dei miei cimenti, che con tutta la loro disperazione mostrano come lo zenit e il nadir della vita di ogni uomo, tutta la magnanimità e l'assurdità della vita in generale, siano dettati dal caso puro e semplice e dalla cieca coincidenza. L'immagine che più mi schernisce quando rimugino questi pensieri è la bocca di una donna. Ed è una visione che appartiene ai miei ricordi, non alla mia immaginazione. L'integrità di questa cronaca esige ora che io scriva degli avvenimenti che originarono quella particolare immagine, e i viottoli tortuosi e involuti che si irraggiarono, da una serie centrale di circostanze, a confondere i passi di tutto un popolo. Non sono certo, però, di poterlo fare con distacco, nemmeno dopo cinque decenni, perché le mie emozioni sono vive oggi quanto lo erano allora. Concedetemi perciò di incominciare adagio, e di tentare la ricostruzione di tali circostanze e della sciocca, infantile arroganza che condusse alla morte della mia giovinezza. Quattro anni erano trascorsi dalla morte di Publio Varro, e nel frattempo i due titubanti neofiti capitani richiamati da quel primo pattugliamento probatorio si erano evoluti in comandanti temerari e impudenti, ma competenti e capaci, delle truppe di cavalleria di Camulod, provati e collaudati in battaglia. Uther e io eravamo emersi da un crogiolo di dure esperienze trasformati in soldati di mestiere, guerrieri nel vero senso della parola. Eravamo diventati uomini, e nel perseguimento di quello stato avevamo fatto molto per costituire le legioni di cui - come ci aveva detto Publio Varro avremmo avuto bisogno nei giorni a venire. Uther era un gaudente, un libertino e un edonista. E lo ero anch'io. Ma nessuno dei due pensava a se stesso in quei termini. Perché avremmo dovuto? Ai tempi della nostra giovinezza il concetto di peccato carnale si limitava alle relazioni incestuose con i parenti stretti. Fu solo molto più tardi che i nuovi ecclesiastici monacali introdussero nella nostra bella isola la nozione della peccaminosità del piacere occasionale, e sono convinto che la usassero indiscriminatamente, come uno strumento per indurre la mente degli uomini ad accettare l'idea che le donne fossero esseri inferiori e ricettacoli di peccato. I loro sforzi furono vani, grazie a Dio, ma nel tentativo di imporre la loro volontà al nostro popolo causarono gravi afflizioni e molte sofferenze in ogni angolo della nostra terra, dove uomini di Dio e uomini di buona volontà lottavano contro gli incompatibili desideri di servire Dio prestando ascolto agli editti della sua Chiesa che ora pretendeva nientemeno che di soggiogare e privare dei diritti civili metà della nostra società - e di compiacerlo seguitando ad amare,; onorare e rispettare le fiere donne di Britannia, che da tempi immemori erano degne eguali dei loro uomini. Ma niente di tutto ciò si ripercuoteva sulla nostra gioventù. Come ho detto, eravamo libertini e, in merito al peccato carnale, completamente innocenti. Ugualmente innocenti; erano le giovani donne che condividevano la nostra vita e i nostri piaceri carnali. Per la maggior parte, erano attraenti e talvolta perfino belle forestiere che non avevano o avevano vaghi legami familiari all'interno della Colonia. Lavoravano per mantenersi, come facevano tutti, svolgendo durante il giorno l'attività più consona alla loro natura e capacità, e godendosi le sere e le notti secondo i piaceri per loro disponibili. In realtà erano la parte civile al seguito dell'esercito di Camulod e, come succede spesso a sostenitrici di tal fatta, molte trovavano tra i soldati della Colonia un compagno permanente. E come fanno ovunque i giovani, sempre si consideravano immortali, abili, sane e piene di vita e di amore e ammirazione per i soldati ugualmente giovani e sani che assicuravano loro sicurezza e prosperità in un tempo in cui la sicurezza e la prosperità erano lussi che in lungo e in largo per la Britannia nemmeno si sognavano. E così ci davamo reciprocamente piacere. Come noi eravamo insaziabili senza essere dei satiri, esse erano concupiscenti senza essere concubine; come noi eravamo riottosi senza brutalità, esse erano materialiste senza venalità. Nessuno criticava la nostra condotta, e nessuno provava o tradiva censura o sorpresa. Perché avrebbero dovuto? Uther e io vivevamo al massimo con tutti i nostri amici, eravamo i principi di Camulod e i portenti della tribù. Eravamo all'apice della nostra focosa giovinezza, ed eravamo invincibili in guerra. E quando non c'erano guerre da combattere, pattugliavamo duramente e a lungo, e lavoravamo duramente e a lungo agli onerosi compiti del Consiglio amministrativo, fondato dai nostri padri per il governo della Colonia, del quale eravamo entrambi membri. Che cosa poteva essere più naturale che trascorrere le sere e le notti a Camulod e altrove riempiendoci la pancia e vuotando i lombi a ogni occasione? Il cibo e il sesso dominavano la nostra esistenza fuori servizio, e il cibo aveva sul piacere sessuale solo la precedenza necessaria a mantenere la forza per generare nuovo seme. I vecchi sogni di inferiorità nei confronti di Uther avevano da tempo cessato di infastidirmi. Ero suo pari in dimensioni, resistenza e prontezza in qualsiasi momento. In quei giorni, l'impotenza era un fenomeno temporaneo indotto solo da un'eccessiva indulgenza, facilmente e rapidamente curato dal riposo e dalla vellicazione. Ero proprio in quello stato quando notai per la prima volta Cassandra. L'avevo già vista in precedenza, ma c'è un'enorme differenza tra vedere semplicemente una donna e notarla per davvero. Eravamo ritornati quello stesso giorno da un giro di perlustrazione lungo e tedioso, e lei faceva parte del bagaglio che avevamo raccolto nel corso della nostra avanzata. Uther, che procedeva separato dal corpo principale, l'aveva trovata in una radura nel fitto della foresta, nascosta dalla strada e accovacciata accanto ai cadaveri di due persone che supponemmo essere i suoi genitori. Non c'era accampamento, solo un rifugio raffazzonato di rami verdi e legna secca buttati insieme così che restavano in piedi a malapena intorno ai corpi supini. Non c'era traccia di lotta né di violenza, né c'era modo di dire come quei due fossero morti. Uther aveva dovuto trascinare la ragazza per un braccio e costringerla a seguirlo, e l'aveva issata sul suo cavallo e aveva cavalcato tenendola tra le braccia per i restanti due giorni di pattuglia. Era una cosuccia esile e smorta, con grandi occhi grigi e una bocca larga che dominava la piccola faccia appuntita. Ed era assolutamente silenziosa. Da quando l'avevamo trovata non aveva detto una parola. Mi ricordava un coniglietto spaventato, non guardava nessuno, e camminava come se si tenesse insieme con le proprie braccia. Al nostro ritorno a Camulod, si era rifiutata di lasciare Uther. Nessuno sapeva parlarle, nessuno sapeva penetrare il suo totale silenzio, e per tutto quel giorno si rifiutò risolutamente di abbandonare il fianco di Uther, anche quando le sue voglie lo condussero dove lei non avrebbe dovuto essere presente. Quella sera ci vide tutti e tre in quella che Uther chiamava la stanza dei giochi. Io ero appena stato servito da due delle nostre nubili e disponibili adoratrici di eroi, e mi ero adagiato come un imperatore su un letto di folte pellicce, con nel ventre quella sensazione di sazia vacuità che temporaneamente mi imponeva di non partecipare ai giochi. Giacevo sul dorso, con le mani comodamente intrecciate dietro la nuca, e osservavo le mie due compagne tentare invano di riportare in vita ciò che era morto, e volere l'impossibile con le teste unite e le dita titillanti, mordicchiando e stuzzicando con le labbra e con la lingua. Una serie di gemiti profondi e decisi da parte di Uther, alla mia sinistra, mi avvertì che stava rapidamente giungendo alla meta, e pigramente mi girai a guardare, scoprendomi nella piacevole posizione di vedere il suo fallo sprofondare e riemergere dalla ragazzotta che lo montava per lo stallone che era. Le natiche della donna vibravano e sussultavano nell'impegno di accoglierlo, e costituivano uno spettacolo notevole al mio sguardo clinico e cinico alquanto. A Uther le donne piacevano grosse. Fu allora che notai Cassandra, come Uther l'aveva chiamata. Era seduta sul bordo del mucchio di pellicce, e assisteva alla scena con la massima indifferenza, come se si fosse trattato di una cena. Mi sollevai su un gomito per vedere meglio, sottraendomi così alle cure delle mie assistenti, che ripresero le loro attività non appena mi fui riaccomodato. Come me, Uther aveva due compagne, quella che si stava tanto risolutamente impalando sul suo spuntone, e un'altra che in ginocchio dietro di lui gli reggeva le spalle in grembo, e i cui grossi seni gli servivano da appiglio per esercitare i necessari sforzi. La prima, che le stava di fronte, per stare in equilibrio a cavallo di Uther si afferrava saldamente alle sue spalle. Il volto di Cassandra era privo di espressione. Non mostrava desiderio, né interesse. I suoi occhi scivolavano senza emozione su quel quadro ansimante e mugolante. La vidi guardare il punto in cui un ventre sbatteva contro l'altro, e poi i seni dell'altra donna e le mani che li strizzavano, e allora la donna che reggeva Uther per le spalle aprì la bocca e sporse la lingua simile a un grosso serpente rosa luccicante di saliva. A quella vista la compagna raggiunse il culmine del piacere, e in un impeto di parossismo attirò l'altra verso di sé e risucchiò nella propria bocca la lingua protesa. Ma il movimento inopportuno la sottrasse alla carne che la penetrava, e ci fu un frenetico tafferuglio per reinserire il già zampillante membro prima che fosse troppo tardi. Mi sorpresi a ridere dell'involontaria pantomima, e riportai lo sguardo su Cassandra. La sua espressione non era mutata, ma mi accorsi che la ruvida stoffa grigia della semplice blusa si tendeva contro la sua coscia, evidenziandone le curve, e i miei lombi si contrassero di riflesso in un turgore che non sfuggì alle mie due amiche, le quali raddoppiarono gli sforzi e trovarono vita dove non ce n'era stata alcuna. La reazione, non voluta e non prevista, mi stupì, e mi indusse a considerare con maggiore attenzione quella strana giovane donna. Non aveva nessuno degli attributi che normalmente trovavo seducenti. Anzi, decisi, era quasi brutta. E di sicuro nella sua testa c'era qualcosa che non funzionava bene. Uther e la sua amazzone erano crollati, e io sentivo progredire la mia risurrezione. Lasciai Cassandra alle sue distratte osservazioni e ritornai alle vicende che si svolgevano sotto la mia cintola. Persi la nozione del tempo che trascorse da quel momento al momento in cui Uther chiamò il mio nome. Ma ero assorto: nella beata intimità che avevo raggiunto con le mie compagne, e che mi permetteva di passare da una all'altra con grande agio e celerità, e perciò lo ignorai e mi concentrai nel non concentrarmi troppo su alcunché. Ma Uther non voleva essere ignorato, e la sua insistenza infine mi distrasse. «Che cosa c'è, Uther? Che cosa vuoi?» «Vieni qui! Vieni qui e guarda.» «Sono occupato! Che cosa devo guardare?» «Vieni a vedere. Guarda che cosa ho qui!» Tentai di nuovo di ignorarlo, affondando la faccia in una dovizia di carne, ma la sua insistenza non si quietava, e dovetti rispondergli, almeno per farlo tacere. «Non mi importa che cos'hai tu» gli dissi, «ho cose mie a cui badare.» «Puoi finire dopo. Vieni a guardare questo.» Mi alzai con un sospiro e andai da lui, conscio della fresca aria notturna sulle parti umide del mio corpo. «Che cosa?» «Guarda qui. Hai mai visto niente del genere?» Certamente sì, ma stavo guardando la cosa sbagliata. Una delle sue due compagne si dedicava con la bocca al suo fallo eretto, e intanto si godeva la bocca dell'altra, che succhiava e aspirava tra le sue cosce languidamente divaricate. «Non quello! Questo, questo, questo!» Uther diresse la mia attenzione sul viso di Cassandra, stretto nella sua mano destra, che stringeva le guance tra pollice e indice in modo che le labbra sporgessero in una massa informe, soffice e carnosa. Al di sopra delle labbra arricciate, gli occhi continuavano a fissare Uther con la medesima, apparentemente sconclusionata docilità. «Guarda questa bocca, Caio. Non ti ricorda niente?» Guardai. Mi ricordava qualcosa. «Credo di sì» dissi, «ma non so che cosa. Lasciala andare.» Uther ritirò la mano, e la bocca ritornò normale. Era una bocca stupefacente, che occupava più di metà ampiezza del viso con labbra morbide e piene. La bocca, e quegli occhi che non si staccavano mai da quelli di Uther, eclissavano completamente il resto di lei. Desiderai che guardasse me, invece. «É una gran bocca» dissi, e Uther la strinse ancora da entrambe le parti, non tanto forte da farle male, ma abbastanza da comprimere le labbra nella forma voluta. «Per te a che cosa somiglia, Uther?» Uther scoppiò in una risata e lasciò la ragazza, voltandosi ad afferrare per i fianchi la ragazzotta che si stava facendo slinguazzare dall'amica. «A questa!» gridò, tirandola verso di sé con una mano e allontanando la compagna con l'altra. Ignorando le contrariate proteste di entrambe, trascinò e rigirò quella che voleva, sollevandole le gambe davanti a sé fino a metterla a faccia in giù, diagonalmente rispetto a lui, con la sua nudità verso l'alto e la testa ai suoi piedi. «Vieni qui e guarda!» Sorridendo, mi spostai dietro la sua spalla destra. La ragazza sulle sue ginocchia tentò di divincolarsi, ma Uther le mollò un sonoro ceffone sulle natiche. «Stai buona, donna, e allarga le gambe!» Strinse le labbra della vulva tra il pollice e l'indice della mano sinistra con sufficiente forza e pressione verso il basso da socchiuderle. «Ecco! Vedi? È più bagnata, ma è la stessa cosa!» «É anche più pelosa» confermai con un sorriso, «ma una rassomiglianza c'è.» Uther allungò la mano destra e strinse ancora una volta la bocca di Cassandra, spostando gli occhi da quelle labbra alle labbra che teneva strette nell'altra mano. «Uther! Mi fai male!» disse una voce proveniente dai suoi piedi. Le diede un altro schiaffo sul sedere. «E allora toglimi dalla faccia quel tuo culone bagnato, donna!» Improvvisamente congedata, la donna si allontanò da lui, facendogli da sopra la spalla una smorfia di rimprovero di cui Uther nemmeno si accorse. La sua amica invece se la trasse pigramente vicino, onde poter riprendere l'attività interrotta, Uther continuava a fissare la bocca di Cassandra. Lentamente, senza abbandonare la presa sul mento della ragazza, si alzò in piedi e le si mise di fronte, con la punta del pene sospesa a un pollice dalle labbra arricciate. Cassandra aveva spostato gli occhi verso l'alto, per seguire quelli di Uther, inclinando così la testa all'indietro. Uther le infilò le dita della mano sinistra tra i capelli con sufficiente dolcezza, e la costrinse ad abbassare il volto. «Ecco» disse, spingendosi leggermente in avanti, aprendosi uno spazio tra quelle labbra e introducendo appena la punta. La ragazza non reagì in alcun modo e Uther si ritrasse e ci riprovò, con maggiore fermezza. Ancora nessuna reazione, ma chiaramente i denti erano serrati, e gli impedivano l'accesso. La mia tumescenza si era ridotta a un bottoncino, e le mie due compagne di letto stavano a guardare con annoiato interesse. Cominciavo a sentirmi inquieto per quello che Uther stava facendo, anche se non avrei saputo dire perché. La ragazza si trovava lì di sua spontanea volontà, e Uther non le stava facendo del male in alcun modo. Tuttavia, mi sentivo a disagio. «Uther...» «Zitto, Caio! Osserva! Andiamo, bellezza, aprila.» Le pizzicò più forte le guance, costringendola a schiudere i denti. «Così va meglio. Così va bene...» Lo vidi penetrare nella sua bocca, scivolare dentro piano e poi ritrarsi, poi scivolare dentro ancora e lasciarle il mento e metterle la mano sulla testa, e allora lei lo morse. Seppi che l'avrebbe fatto un intero secondo prima che lo facesse, perché la stavo guardando negli occhi. Uther lanciò un urlo come un toro ferito, e si allontanò di scatto da lei, volando con le mani a cullare la parte offesa. Nell'istante che ebbi per guardare, non vidi sangue né i segni dei denti, ma qualsiasi ferita sarebbe stata troppo recente per avere avuto il tempo di sanguinare. Cassandra balzò in piedi, con i grandi occhi grigi che scintillavano, non sapevo se per paura, per rabbia o per soddisfazione. Uther urlò ancora e si scagliò verso di lei con il braccio levato per annientarla. Un colpo andò a segno, e la scaraventò dall'altra parte della stanza prima che potessi fermarlo. Agganciai un gomito al suo, gli gettai l'altro braccio intorno al collo, e lo buttai a terra, nell'unica mossa che poteva immobilizzarlo. Era in preda a una collera mostruosa, e lì per lì sarebbe stato capace di ucciderla. Per trattenerlo dovetti usare tutto il mio peso e tutta la mia forza. Si agitava e si dibatteva sotto di me come un demente, e poi all'improvviso smise e giacque inerte. Pensai che fosse un trucco e non allentai la pressione, ma quando parlò compresi che il pericolo era passato. «Va tutto bene, Cai. Puoi lasciarmi andare. Non le farò del male. Alzati.» Compresi che diceva la verità e lo liberai. Cercai la ragazza, ma era sparita. Le altre quattro fissavano noi due a occhi spalancati. «Dov'è andata?» Quella con la lingua lunga si strinse nelle spalle grassocce. «Non so. É corsa via.» Mi alzai e andai alla porta e guardai fuori nel cortile pieno di oscurità. Di Cassandra non c'era traccia. Sentii avvicinarsi i passi di una guardia e mi resi conto di essere nudo, così ritornai nella stanza e chiusi la porta. «Quella cagna. La troverò e le darò una lezione che non dimenticherà tanto in fretta.» Uther era seduto, ingobbito a esaminare il cosino che teneva tra le dita. «Me l'ha quasi staccato con quel morso! L'ammazzerò quella cagna.» «No, Uther» dissi con un sorriso. «Non l'ammazzerai. Non adesso. Ma per un attimo, prima, ho creduto che l'avresti ammazzata. Sanguina?» Controllò ancora. «No. Ma avrebbe potuto. Quella cagna!» «Andiamo, Uther! Non ha nemmeno morso forte. Stavo guardando. Sei più scosso e offeso che ferito, ammettilo. Il tuo orgoglio ha sofferto più del tuo uccello.» Mi fulminò con uno sguardo. «E tu che cosa ne sai? Tu non li hai sentiti, i suoi denti!» «Diamogli un'occhiata, allora. Sono rimasti dei segni?» Feci un passo verso di lui, ma lo nascose nella mano chiusa protettivamente a coppa, e io per il sollievo risi apertamente, dimentico del suo orgoglio. «Dalle dimensioni attuali, direi che te ne ha staccati tre quarti!» Solo allora mi accorsi che, era ancora sottosopra, e che non avrei dovuto prenderlo in giro. Mantenni però un tono leggero, sperando di mostrargli il lato buffo della situazione. Per l'orgoglio ferito non c'è cataplasma più efficace della capacità di ridere di se stessi «Ehi!» dissi. «Scherzavo! Probabilmente funzionerà bene come prima quando smetterai di pensarci. Ragazze, perché non provate a vedere se il bastone di Uther è ancora abbastanza robusto da potercisi appoggiare?» Erano ben disposte, e lo circondarono di nudità calde e impetuose, ma Uther non ne volle sapere. Le allontanò bruscamente e si alzò in piedi con fiero cipiglio, afferrò la tunica e se la infilò. «Ci vediamo domattina» disse in malo modo già sulla porta, e ci lasciò tutti e cinque a fissare esterrefatti la porta chiusa. Mi alzai e mi versai del vino dalla brocca che c'era sul tavolo. «Bene, signore» dissi. «Tornerà quando gli sarà passata.» Feci un silenzioso brindisi a tutte e quattro. «Nel frattempo, perché non cerchiamo di scoprire quante volte l'uno sta nel quattro?» Il fuoco bruciava basso, e nella stanza era rimasta accesa solo una lampada. Una di loro, quella con la lunga lingua rosa, la spense con un soffio quando mi avvicinai. IX. Mi sbagliavo. Uther non ritornò quella notte, e solo due persone avrebbero potuto vederlo nel corso della settimana che seguì. La prima era la guardia di servizio nel cortile, quando Uther uscì a precipizio dalla stanza dei giochi; l'altra era la ragazza, Cassandra. Mi svegliai il mattino successivo poco dopo l'alba e lasciai le mie quattro compagne addormentate in un intrico di membra. Non avevo avuto più di due ore di sonno, e quando finalmente mi ero arreso, almeno due ragazze erano ancora impegnate a darsi reciproco piacere. Mentre mi vestivo, notai che Uther non era tornato, ma in quel momento non mi parve importante. Andai alle stalle e galoppai fino alla villa; l'aria fresca e frizzante di quel gelido mattino mi schiarì le idee, e mi consentì di pregustare il calore umido e seducente dei bagni, dove l'acqua e il vapore avrebbero purificato il mio corpo degli eccessi della notte precedente. Una regolare seduta del Consiglio era prevista per mezzogiorno, e fino a quell'ora non avevo niente da fare, così trascorsi un'ora a vagare per la villa. Per molti anni era stata il cuore della famiglia Britannico, e oggi era un luogo silenzioso e disabitato, a malapena utilizzato da quando tutta la famiglia si era trasferita nel forte in cima alla collina, anche se i servitori la mantenevano in perfette condizioni come alloggio per gli ospiti e avevano cura dei magnifici bagni. Anche al forte c'erano i bagni, ovviamente, pratici, austeri, e appena funzionali, primitivi rispetto al lusso offerto dalle comodità di villa Britannico. Era mattino inoltrato quando risalii la collina fino al forte, dove indossai abiti più formali e mi diressi alle cucine per mangiare un boccone prima di prepararmi alla riunione del Consiglio. Sentii chiamare il mio nome, mi girai e vidi Lucano, il capo del personale medico, che guardava verso di me e mi faceva cenno. Mi fermai, perplesso, e lasciai che si avvicinasse. Era un abile chirurgo, il nostro chirurgo migliore infatti, ma avevo la convinzione che non fosse un uomo simpatico. Mi chiese se avevo visto Uther. «No, Lucano, non l'ho visto. Non lo vedo da ieri sera. C'è un problema? Posso aiutarti?» Aggrottò la fronte e si mordicchiò il labbro inferiore. «Sì, comandante, c'è un problema, ma non so...» «Non sai se posso aiutarti. Beh, non lo sapremo finché non mi dirai qual è il problema.» Sembrava ancora indeciso. «Ebbene? Andiamo, sputa!» Fece una smorfia. «Si tratta della ragazza, comandante.» Mi accigliai, senza capire il significato delle sue parole. «Quale ragazza, Lucano? Non so leggere nel pensiero.» «La donna, signore. Quella che il comandante Uther ha riportato con sé ieri.» Allora compresi. «Cassandra. Che cosa mi dici di lei?» «Si trova nel mio alloggio, comandante.» «Davvero?» Gli rivolsi un sorriso. «Otterrai poca collaborazione da lei, Lucano. Bada ai suoi denti.» Quell'uomo non aveva il senso dell'umorismo. Mi guardò con occhi torvi, le sopracciglia appesantite dalla disapprovazione. «È stata picchiata, comandante. Brutalmente, quasi a morte.» Mentre proseguiva smisi di respirare. «Alcuni soldati l'hanno trovata questa mattina, nelle stalle contro il muro occidentale. L'hanno portata da me. Pensavo che, siccome il comandante Uther è il suo protettore, bisognerebbe informarlo immediatamente, ma non sono riuscito a trovarlo. Quando ti ho visto, mi è venuto in mente che forse potevi sapere dov'era.» Sentivo un'acidità malsana alla bocca dello stomaco, ma la bugia mi venne alle labbra spontaneamente. «Non posso dirtelo. È partito dal forte ieri notte per una questione privata. Non so quando tornerà. Accompagnami dalla ragazza.» Lo seguii fino al suo alloggio, fermandomi solo per dire a uno degli uomini diretti alla Sala del Consiglio che avrei potuto tardare e che la seduta avrebbe dovuto iniziare senza di me e senza Uther. Lucano non aveva esagerato. La ragazza giaceva nuda su un lettino, nascosta alla vista da un paravento pieghevole. Era stata picchiata senza misericordia con un bastone, e le contusioni sulla sua pelle bianca avrebbero impiegato settimane a guarire. Il sangue era stato lavato via, e i tagli più slabbrati e profondi erano stati cuciti. I suoi occhi erano lividi e completamente chiusi dal gonfiore, e la sua bocca sbalorditiva, che fui immediatamente certo fosse stata la causa di tutto, era una massa frantumata e sanguinolenta. La troverò e le darò una lezione che non dimenticherà tanto in fretta! Al riudire la voce di Uther, mi si accapponò la pelle per il disgusto. Come aveva potuto fare una cosa simile a una ragazzina tutt'ossa? La mia mente non riusciva ad accettarlo, ma la prova mi stava di fronte, nuda e malmenata. «Le è stata fatta violenza?» «Credo che si possa dire così.» Colsi il sarcasmo nel tono della sua voce e lo aggredii come una furia. «Sessualmente, intendo, sciocco che sei! É stata violentata?» Gli occhi di Lucano erano gelidi. Mi ero fatto un nemico. «Sì, comandante. É stata stuprata e sodomizzata. Entrambe le cose con estrema brutalità. Sia l'ano sia la vagina sono malamente lacerati.» Sentii la stanza girarmi intorno. «Vivrà?» «Credo di sì, se lo vuole.» «Che cosa intendi dire?» Scrollò le spalle e inclinò la testa in un modo strano, stringendo le labbra. «Proprio quello che ho detto. Se desidera vivere, vivrà. C'è gente che muore semplicemente scegliendo di non vivere; Questa giovane donna ha subito un'esperienza terribile. É vero che è muta?» La guardai. «Non lo sappiamo. Non parla da quando l'abbiamo trovata vicino ai corpi di due persone che potevano essere i suoi genitori. Il comandante Uther ha pensato che potesse avere avuto una sorta di collasso emotivo per avere assistito alla loro morte.» «Com'erano morti?» «Non sappiamo nemmeno quello. Non c'erano segni di violenza, e non abbiamo visto niente che potesse indicare una malattia. Erano solo morti, e la ragazza era in ginocchio accanto a loro.» Lucano ripeté quel singolare gesto. «Suppongo che possa essere vero. Potrebbe aver subito un trauma psichico. I sistemi di difesa dell'organismo sono un fenomeno di cui praticamente nulla. Quando l'avete trovata?» non conosciamo Feci un rapido calcolo. «Sei giorni fa.» «Mmh...! Beh, anche se non era traumatizzata allora, lo è sicuramente adesso.» Il suo corpo giaceva sul lettino davanti a me. La pelle era bianca e la costituzione minuta, ma non era emaciata come avevo creduto. Le gambe erano sode e ben tornite, e il seno piccolo ma pieno e fermo. Sentii un altro rimescolio di desiderio, e un'ondata di ribrezzo per me stesso. «Ci sono ossa rotte?» «No. Nessuna frattura. Solo contusioni, come puoi vedere, sia davanti sia dietro. E forse delle emorragie interne. Chiunque abbia fatto questo è un animale.» «Già, non c'è dubbio. Come fai a sapere delle emorragie interne? La gente sanguina dentro?» Non ci avevo mai pensato veramente. Il suo sopracciglio alzato era un evidente sberleffo. «Sì, comandante, è questo che causa i lividi. A volte un forte colpo può rompere un vaso sanguigno importante, e provocare una grossa perdita di sangue all'interno delle cavità corporee.» «E che cosa significa?» Di nuovo l'alzata di spalle e quel gesto peculiare. «Significa che il paziente probabilmente morirà.» Sentii che la testa avrebbe potuto esplodermi, e mi premetti le tempie con la mano sinistra. «A che ora è successo, puoi dirlo?» «Durante la notte. Non sappiamo quando. Ma quando l’hanno trovata il sangue si era rappreso.» «E le guardie?» Parlavo a me stesso, più che con lui. «Non ha sentito niente nessuno? Dio sa se deve aver gridato.» «No, se è muta davvero, comandante.» Mi sfuggì un sospiro che era in parte un singhiozzo e distolsi lo sguardo dal corpo devastato della ragazza, lottando per tenere sotto controllo la rabbia e la ripugnanza, e voltai le spalle a Lucano finché non riuscii a dominare i muscoli del viso. Finalmente mi calmai abbastanza per nascondere l'inquieto malessere della mia anima e per parlare in tono pacato. «Grazie, Lucano. Hai fatto bene. Dove sono gli uomini che l'hanno trovata?» «Li ho rimandati alle loro faccende.» «Mmh...! Perciò la notizia avrà fatto il giro del forte, ormai. Chiunque ne sia responsabile saprà che è ancora viva. Voglio delle guardie fisse fuori da ogni porta che conduce a questo luogo. Provvederò io stesso. Non appena saprai se vivrà o no, voglio essere informato. Nel frattempo, rimarrai qui con lei. Non lasciarla sola nemmeno per un istante. É un ordine.» Lucano fece un cenno di assenso, e io mi costrinsi a proseguire. «Se il comandante Uther dovesse tornare oggi, lo manderò qui. Fai quello che puoi per lei, Lucano. Non ha fatto niente per meritarselo.» Nemmeno se gliel'avesse staccato con un morso, aggiunsi tra me. Lucano mi bloccò sulla porta. «Comandante?» «Sì? Che cosa c'è?» «Come conosci il suo nome?» Lo guardai accigliato, e poi capii. «Non lo conosco» gli dissi. «Non è il suo nome, è il nostro. Anche allora aveva un aspetto abbastanza tragico, per essere Cassandra di Troia, Uther le ha dato quel nome.» «Capisco.» Feci una smorfia, conscio di non avere sorrisi dentro di me. «No, Lucano, non capisci.» Perché non hai visto quello che ho visto io, aggiunsi mentalmente. All'esterno, alla luce del sole, l'immagine di quel corpo coperto di lividi continuò a tormentare i miei occhi. Iniziai a camminare verso la Sala del Consiglio, ma quando vidi altri consiglieri affollarsi in quella direzione e pensai alle arie fredde, noiose banalità all'ordine del giorno, seppi che nel mio attuale stato d'animo non avrei potuto affrontarle. Cambiai direzione e mi allontanai, sforzandomi di mantenere il volto inespressivo e la mente vuota, e di fare un cenno alle persone che mi salutavano a ogni passo. Mi ritrovai sotto l'impalcatura contro il muro interno, dove i muratori erano al lavoro per aggiungere nuovi alloggi addossati alle difese principali del forte. Rimasi lì seduto nella penombra per lungo tempo, ripensando a tutto quel pasticcio. Fossi stato il solo a conoscere le circostanze della faccenda, avrei serbato i miei dubbi finché non avessi potuto parlarne direttamente e privatamente con Uther, ma non ero il solo a sapere. Le nostre quattro consorti della notte precedente avevano assistito all'accaduto, e non avrebbero perso tempo a spifferare quello che sapevano. Colpito da un pensiero improvviso, mi alzai in fretta e ritornai alla stanza dei giochi. Non era ancora mezzogiorno. Mentre mi stavo avvicinando alla porta, questa si aprì e due delle ragazze uscirono. Le fermai con un sorriso rigido e insincero, a braccia aperte, e chiesi loro dove stessero andando. A mangiare, mi dissero. Non avevano ancora rotto il digiuno? No, si erano appena svegliate. E dov'erano le altre ragazze? Ancora a letto. Il mio sollievo quasi mi tradì, ma riuscii a controllarmi, come un mentitore incallito. Le feci voltare, le ricondussi nella stanza, dissi loro di spogliarsi un'altra volta, e promisi di ritornare di lì a poco con del cibo, del vino, un massaggiatore e Uther. Furono sorprese, ma compiacenti. Feci qualche moina alla ragazza con la lunga lingua rosa - non riuscii mai a ricordare il suo nome, ma non la dimenticai mai - e le chiesi se avesse gustato le altre due come quella che aveva condiviso con Uther. No, disse, ma era disposta a farlo, se erano disposte loro. Le mie due precedenti compagne si guardarono indecise, domandandosi che cosa avessi in mente, ma sistemai la faccenda offrendo una moneta d'oro a quella che avesse mostrato maggiore entusiasmo quando fossi tornato con Uther. Anche in una società in cui non si usa denaro, l'oro è un persuasore potente. Le lasciai a fare gli approcci del caso e mi diressi all'alloggio di Tito. Stava lavorando ai suoi registri, e al mio ingresso alzò gli occhi sorpreso. «Non dovresti essere nella Sala del Consiglio?» «Dovrei, ma è capitato qualcosa. C'è qualcuno in giro? Ho bisogno di parlarti da solo.» «Adesso?» «Immediatamente.» «Parla allora. Non c'è nessuno. Che cosa succede?» «Ti dirò tutto più tardi, Tito. Per il momento, posso solo chiederti di fidarti di me, e di fare per me qualcosa subito, senza spiegazione.» «É una domanda sciocca, Cai. Che cosa c'è? Che cosa hai bisogno?» «Una squadra di uomini assolutamente affidabili. Voglio che tu venga con me fino alla stanza dei giochi e che mi aiuti a rapire quattro donne.» «Solo quattro?» Sorrideva. «Sono serio, Tito. Ti dirò dopo di che cosa si tratta. Hai visto Uther oggi?» «No. Perché?» «Niente, non è importante adesso. Farai quello che ti chiedo?» Mi guardò per tre lunghi secondi cercando di valutare la portata delle mie parole e poi si alzò. «Mi ci vorrà un po' per mettere insieme degli uomini affidabili. Presumo che tu voglia uomini in grado di mantenere il silenzio.» «Sì, soprattutto. Devo mettere insieme alcune cose anch'io. Ci vediamo nella corte tra poco.» Quando aprii la porta ed entrai con Tito al seguito, le espressioni sul viso delle quattro ragazze variavano dal vivace interesse al disappunto. «Dov'è Uther? E dov'è il nostro cibo?» chiese quella con la lingua lunga. «Il cibo sta arrivando, ragazze. Uther ha lasciato il forte per una questione di emergenza. Adesso mettetevi a sedere, tutte quante, e ascoltate attentamente quello che devo dirvi. É importante.» Si sedettero e mi fissarono, cominciando a chiedersi che cosa stava succedendo. Io appoggiai una natica sul bordo del tavolo e le guardai, riflettendo su ciò che avrei detto loro, e su come gliel'avrei detto. Quelle giovani donne erano creature di piacere. Infilai una mano nella tunica e tirai fuori una borsa di cuoio, pesante e sfarzosa, e la lasciai cadere sul tavolo con un tonfo massiccio e metallico. «Oro» dissi. «Uther e io abbiamo una proposta da fare a voi signore.» Aprii i cordoni della borsa e rovesciai sul tavolo una cascata di monete d'oro. «Qui ci sono ottanta monete d'oro, venti per ciascuna di voi. É denaro sufficiente a sistemarvi per tutta la vita. Secondo il valore corrente, state guardando circa quarantamila denari d'argento.» Quattro paia d'occhi erano incollate al mucchietto di luccicanti monete. Tirai fuori un'altra borsa e versai una seconda cascata d'oro. «Altre venti ciascuna. Ma ci sono delle condizioni. Dovete guadagnarle.» Tutte e quattro insieme non avrebbero guadagnato venti monete d'oro nemmeno se avessero servito a letto un'intera legione per cinque anni. Lingua Lunga si umettò le labbra. «Quali... condizioni?» «Partite da Camulod adesso, immediatamente, senza salutare nessuno. Vi fornirò una scorta fino a Glevum.» Erano più di sessanta miglia. «Quando arriverete a Glevum, comprerete una casa, e la sistemerete per... diciamo i vostri propositi? ...e la terrete calda e accogliente per il comandante Uther e me e per il legato Tito, qui presente. Come sapete, siamo tornati ieri da un lungo giro di pattuglia. A Glevum non abbiamo trovato nessuno svago. Incominciavamo a sentirci attratti l'uno dall'altro.» Nessuna sorrise al mio tentativo di fare dello spirito. Una delle due che erano state le mie compagne mi chiese con voce roca: «Quando avremo il denaro?». «Adesso. É vostro non appena accettate i termini dell'accordo.» «Perché dovremmo partire subito? Che cosa sta succedendo qui?» chiese una, imbronciata, con voce sospettosa. «Succedendo?» La mia mente girava a vuoto. « É facile rispondere. Vi dirò che cosa sta succedendo, se davvero volete saperlo.» «Allora? Vogliamo davvero saperlo.» Mi schiarii la voce e mi lanciai alla carica con una menzogna improvvisata. «Uther e io eravamo a Glevum quando abbiamo deciso di farlo. Di mettere su una casa, intendo dire. Stamattina, a colazione, abbiamo concluso che se volevamo farlo, dovevamo farlo in fretta, oggi stesso. Il ritorno del generale Pico, mio padre, è atteso per oggi. Lo proibirebbe, categoricamente. Trascorre molto tempo con i preti cristiani, e parla dei piaceri della vita ultraterrena. Disapprova la nostra condotta con le donne, e gli verrebbe un colpo apoplettico se pensasse che abbiamo intenzione di mandare dei soldati di scorta per una simile impresa. Se partite adesso, immediatamente, quando lui arriverà non sarete più qui, e non lo saprà mai. Ma dovete partire adesso, e di nascosto, perché se qualcuno sospetta che cosa stiamo facendo, e il generale Pico lo viene a sapere, ci sottoporrà alla corte marziale e la nostra vita non varrà la pena di essere vissuta. Tantomeno la vostra.» Quella imbronciata non era ancora convinta. «Naturalmente» proseguii spudoratamente, «se l'idea non vi piace, potete rimanere qui e lasciare tutto come sta. Restituirò il denaro al tesoriere e ci scorderemo l'intera faccenda.» Raccolsi una manciata di monete e me ne lasciai scivolare alcune tra le dita. Funzionò. «Come ci arriviamo?» chiese una. «Io non so andare a cavallo.» «Non essere stupida, ragazza. Vi ci manderemo su un carro coperto, con i sedili e tutte le comodità. Ve ne andrete in fretta, ma con stile.» «E i vostri soldatini?» chiese Lingua Lunga. «Non avete paura che chiacchierino?» «No.» Sorrisi. «Non finché non saranno tornati. E poi, quando rischieranno di perdere il privilegio di farvi visite a Glevum e di mettersi nei guai con il generale, non avranno voglia di chiacchierare. E sono certo che faranno un viaggio piacevole, almeno all'andata.» Fu la sua volta di sorridere. Mezz'ora dopo erano sul carro, con le monete strette in pugno e razioni di cibo sufficienti per un esercito. Tito aveva dato istruzioni agli uomini della scorta, e insieme restammo a guardare la comitiva che usciva dai cancelli e scendeva lungo la strada. La stanza dei giochi di Uther era vuota. Pelli e pellicce e cuscini se n'erano andati a bordo del carro. Quando furono scomparsi alla vista, Tito si girò verso di me con l'accenno di un sorriso. «La mia pazienza non ti stupisce? Che cosa succede, Cai? Hai appena distribuito il riscatto di un imperatore. Di che cosa si tratta?» «Dicerie e reputazione, Tito, ecco di che cosa si tratta, Facciamo due passi dove nessuno ci possa ascoltare, e ti racconterò tutta questa spiacevole storia.» Mi osservava attentamente ora, e ragionava alla svelta, «Dov'è Uther, Cai? Qui c'è qualcosa che mi sfugge.» «Uh» grugnii. «Qui c'è qualcosa che puzza fin nelle narici di Dio, amico mio.» Scendemmo lungo la collina e io parlai per mezz'ora, e gli dissi tutto quello che sapevo. Ne fu sconvolto, e profondamente turbato come lo ero stato io. Quand'ebbi finito di parlare si fermò e mi prese per il gomito, mi fece voltare e mi guardò negli occhi. «Non penserai davvero che sia stato Uther?» Mi girai dall'altra parte e ripresi a camminare, lasciando che le mie parole lo raggiungessero da sopra la spalla. «Che cos'altro posso pensare, Tito? Ti ho detto ciò che ho visto e udito. Tutto punta a Uther, e Uther è sparito. Ho torto?» Mi si affiancò. «Devi averlo, Cai. Devi avere torto. Uther non può essere capace della bestiale ferocia di cui stai parlando.» «Lo so, Tito. L'avrei detto anch'io, prima di oggi. Ma devi ammettere che di ferocia è capace. L'hai visto infuriato; l'abbiamo visto entrambi. É capace di uccidere.» «Certo che è capace, in battaglia. Siamo capaci tutti.» Scosse la testa. «No, non ci credo. Avrebbe potuto picchiarla dopo che l'aveva morso, mentre era così arrabbiato, ma non in questo modo! Non a sangue freddo.» A un tratto il suo viso si rischiarò, e la speranza gli brillò negli occhi. «Ma hai detto che è stata stuprata, davanti e dietro. Non avrebbe potuto farlo, dopo quel morso.» Scossi la testa io, allora. «Non lo so, Tito. Non lo so. É venuto in mente anche a me, ma non so davvero con quanta violenza l'abbia morso. In quel momento ho pensato che fosse più offeso che ferito, ma non ne sono certo. Avrebbe potuto essere ancora in grado di farlo. E mi è venuta in mente un'altra cosa, anche se sto saltando a conclusioni avventate.» «Che cosa?» «É stata picchiata con un bastone. A quanto pare nessuno è riuscito a trovarlo.» Dovetti tacere, e pensare di nuovo a quello che stavo insinuando, prima di continuare. «Mi è venuto in mente che avrebbe potuto usare lo stesso bastone per penetrarla, così sarebbe sembrata vittima di uno stupro quando lui non avrebbe potuto stuprare nessuno per via del morso.» «Dolce Gesù, Cai! Stai facendo di lui una bestia rabbiosa!» «Non hai visto quella ragazza, Tito. Chiunque l'abbia ridotta così è una bestia rabbiosa!» «Ma semplicemente non è Uther!» Lo aggredii. «E allora chi è, Tito? Sei tu? Sono io? Mio padre? Qualcuno è stato! Qualcuno proprio qui a Camulod. Non me lo sto inventando. É successo!» Mi resi conto che stavo gridando, e abbassai la voce. «Quella ragazza è nell'alloggio di Lucano, Tito. Non è un parto della mia fantasia, e non lo è nemmeno quello che le è capitato. Qualcuno in questo forte l'ha brutalizzata come avrebbe fatto un animale selvaggio - peggio di un animale selvaggio - e l'ha lasciata per morta. Mi meraviglia che sia ancora viva, e mentre parliamo potrebbe benissimo essere morta. Spero di no. Se sopravvive, potrà identificare il suo aggressore.» «Come? Pensavo che fosse sorda e muta.» «Andiamo, Tito! Può puntare un dito.» «Oh, ovviamente. Che stupido.» «Deve vivere, Tito, perché non sono in grado di funzionare in modo appropriato con in mente questi sospetti e nessuna prova in un senso o nell'altro. Deve vivere per guardare Uther in faccia, e quando succede io devo esserci, e perciò devo far sì che rimanga in vita quando incomincerà a guarire.» Tito mi guardò corrugando la fronte. «Non capisco. Quello che dici non ha senso. Se incomincia a guarire, di certo sopravviverà.» Misi un freno alla mia impazienza e riuscii a non rispondergli in modo brusco. «Pensaci, Tito. Pensaci bene. Non abbiamo a che fare con una persona normale. Supponi di essere stato tu a fare questa cosa, e di pensare che la ragazza sia morta e che il tuo segreto sia salvo. E poi scopri che è viva e in punto di guarigione, e che potrà identificarti. Che cosa faresti?» «Scapperei.» Nella sua voce non c'era un minimo di esitazione. «Esatto. É una buona risposta, proprio quella che mi sarei aspettato da te, anche se dovresti correre veloce e lontano per essere al sicuro dalla giustizia di Pico. Ma supponi, per una qualunque di mille ragioni, di non potere, o non volere fuggire da Camulod. Che cosa faresti? Quale sarebbe la tua prossima mossa? Ricorda, stiamo parlando di una ragazzina inferma, sorda e muta, l'unica testimone che potrebbe condannarti. Che cosa potresti tentare di fare, allora?» Gli stavo mettendo le parole in bocca, ma dovevo farlo. «Tentare di ucciderla. Hai ragione, Cai. Dovremo proteggerla giorno e notte.» «Come, Tito?» «Che cosa vuol dire, come?» Era perplesso. «Chi metterai di guardia? É stato qualcuno in questo forte, non dimenticarlo.» Si rabbuiò. «Metteremo una doppia guardia.» «Per guardare le guardie? E se fossero coinvolti due o più uomini? Non lo sappiamo, e non possiamo permetterci di correre rischi.» Smise di camminare e mi fissò, «Tu mi spaventi, Caio. Mi stai dicendo che non posso fidarmi dei miei stessi uomini.» Gli posai una mano sulla spalla. «É anche peggio di così, Tito. In questa storia non possiamo fidarci di nessuno. In realtà è questo il crimine che è stato commesso qui. In questo forte, l'unica persona della cui innocenza posso essere assolutamente certo sono io. Io so di non essere stato. Posso essere certo anche del medico, Lucano, perché la sta tenendo in vita. E tu, amico mio, sei semplicemente te stesso, incapace di tanta bestialità. Mio padre e i suoi uomini sono di pattuglia. Quando torneranno, la proteggeranno loro. Fino ad allora, tocca a noi.» Feci una pausa. «É l'unica che può discolpare Uther, o condannarlo.» «Dannazione! Questa faccenda puzza come le fogne di Roma!» La sua voce traboccava di disgusto. «Che cosa facciamo? Come ci comportiamo? Hai qualche idea?» Sentii la sua ultima domanda solo per metà, perché eravamo rientrati nel forte e in lontananza avevo scorto l'inconfondibile sagoma di Daffyd, il mio migliore amico tra i druidi, che scompariva in direzione delle cucine. La sua vista suscitò nella mia mente un'associazione di immagini perfettamente formate, sentii in petto un grande sollievo, come se fossi stato liberato da un peso, e mi sentii subito molto meglio. Parlai a Tito da sopra la spalla. «Mi è appena venuta un'idea, Tito. Lasciami solo per un po' a rimuginarci sopra.» Si strinse nelle spalle e scosse la testa, poi sollevò le mani con i palmi rivolti all'esterno. «Spero che sia una buona idea, Cai. Abbine cura, perché Dio sa che ne abbiamo bisogno. Sarò nel mio cubiculum.» Lo guardai allontanarsi, poi ritornai sui miei passi nella solitudine dell'impalcatura contro le mura. Li, sicuro che nessuno dei muratori si sarebbe azzardato ad avvicinarsi o a disturbarmi, mi misi comodamente a riflettere sull'idea che mi era balenata, correggendola e adattandola finché non si fu trasformata in un realizzabile piano d'azione. La sicurezza di Cassandra era essenziale. Da essa dipendeva la fine dei miei dubbi, per quanto lievi, concernenti la colpa di mio cugino. Dovevano essere messi a confronto, se volevo continuare a vivere e a essere sano di mente. Ero convinto che la sua prima reazione nei confronti di Uther avrebbe stabilito immediatamente la sua innocenza o la sua colpa, e in entrambi i casi io sarei stato sollevato da quei tormentosi sospetti. Nel frattempo, però, fino al ritorno della pattuglia di mio padre, avevo l'impellente problema che avevo condiviso con Tito: chi avrebbe guardato le guardie? Non so quando mi fosse passata per la mente l'idea di una sparizione misteriosa, ma vi si era cristallizzata nel momento in cui avevo visto Daffyd in lontananza, perché sapevo che con lui ci sarebbe stato Mod, uno dei suoi due apprendisti, un adolescente snello, dall'aspetto androgino. Avevo subito pensato di sostituire Mod a Cassandra, e di organizzare la sostituzione in modo che nessuno se ne accorgesse. Quello era il fondamento del mio piano. Ma il piano e la sua attuazione erano rimasti sconnessi e indefiniti, e la loro informità pesante e massiccia si trovava nel mio stomaco come una massa di cibo non digerito. Analizzando a fondo la questione, e progettando mentalmente la linea di azione, i tasselli si composero fino all'ultimo in un mosaico convincente, e il mio entusiasmo si rafforzò. Avrei potuto fare poco da solo, ma avevo amici leali di cui potevo fidarmi, e il medico Lucano, sul quale potevo contare garantendogli la continuità del suo incarico. Sapevo che il mio piano poteva funzionare. Meno di un'ora dopo il mio arrivo sotto l'impalcatura, iniziai a mettere in atto il mio stratagemma. Convocai i miei amici nell'infermeria di Lucano, spiegai loro la situazione e che cosa mi proponevo di fare e mi assicurai il loro sostegno. Ludo, uno dei miei più vecchi amici a Camulod e il capo delle cucine del commissariato, avrebbe avuto nel rapimento una parte cruciale. Durante la nostra fanciullezza, Uther mi aveva spesso messo in guardia contro di lui, a causa della sua nota passione per i giovanotti del suo stesso sesso, ma Ludo non aveva mai tentato con me indelicati approcci, né io gli avevo mai dato motivo di risentirsi. Si impegnò nel mio progetto con assoluta e istantanea dedizione. Accettò di vuotare entro un'ora uno dei suoi ripostigli vicino all'infermeria, e di lasciarlo a mia disposizione. Lucano si occupò di trasferire Cassandra dal suo alloggio, e di nasconderla al sicuro nel ripostiglio non appena fosse stato vuoto. Mod avrebbe preso immediatamente il posto di Cassandra, celando la propria identità sotto lo stesso tipo di indumenti nei quali Lucano aveva avvolto la ragazza. Alcuni indumenti già della ragazza, macchiati del suo sangue, avrebbero amplificato l'effetto. Quando tutti questi passi fossero stati compiuti, in un'ora circa, io avrei fatto montare una guardia stretta sull'infermeria, notte e giorno, non senza prima essermi accertato che ogni guardia verificasse personalmente la presenza di Mod - credendolo Cassandra - e le sue penose condizioni. Al crepuscolo, Ludo avrebbe caricato un carro di "provviste" per le cucine della villa, e avrebbe trasportato la ragazza ferita ai piedi della collina, dove Daffyd l'avrebbe attesa per condurla in un luogo sicuro. Più tardi, nel cuore della notte, Mod sarebbe "scomparso" passando al buio attraverso la porta posteriore che dall'alloggio di Lucano conduceva alle cucine. Le guardie avrebbero cercato di prevenire un'intrusione nell'alloggio del medico; non avrebbero mai pensato di dover contenere una fuga. L'unica critica al mio piano venne da Lucano, che volle sapere dove avremmo portato la ragazza. Era decisamente contrario a muoverla, e dubitava che sarebbe sopravvissuta a un simile cimento, e quando rifiutai, protestando la necessità di tenere perfino tra noi il segreto della destinazione di Daffyd, si indispettì, In mancanza di alternative, dovette accondiscendere, suo malgrado, e affrontare come noi quella situazione di estrema urgenza. E così facemmo. Cassandra venne rimossa senza inconvenienti, e Lucano mise Mod al suo posto, avvolgendolo cosi abilmente in lenzuola e bendaggi insanguinati che la vista del suo corpo esile e inerte era sufficiente a ispirare pietà. Trascorsi il pomeriggio a diffondere capillarmente la notizia, innanzitutto al Consiglio, interrompendone la seduta, che la ragazza era sopravvissuta alla violenza subita, e che sarebbe stata sotto la protezione continua delle guardie da quel momento fino a quando non si fosse ripresa abbastanza da identificare il suo aggressore. Al tramonto, tutti nel forte erano a conoscenza dello stato della ragazza, e un flusso costante di curiosi scorreva davanti all'infermeria per osservare le impassibili guardie al loro posto. Al calare delle tenebre la ragazza venne trasportata fuori da Camulod su un carretto carico di pelli di pecora, ceste e casse, e Tito e io distraemmo le guardie del secondo turno quel tanto da permettere a Mod di fuggire dall'infermeria. Molte ore dopo, durante il quarto e ultimo turno di guardia, quando l'oscurità era assoluta, mi presentai un'altra volta all'ingresso dell'infermeria, e mi intrattenni con il comandante delle guardie sul motivo del suo incarico. Era uno dei più abili e fidati veterani di mio padre, il nostro centurione anziano e quindi a Camulod l'equivalente del nobile e antico rango di primus pilus. Provavo un'intensa sensazione di colpa a ingannarlo in quel modo, ma avevo stabilito che a quel punto era necessario un tocco finale per cementare e sigillare l'elemento misterioso di ciò che avevamo fatto e speravamo di ottenere. Gli chiesi di passare in rassegna le guardie insieme a me, e poi rimasi a parlare con lui per qualche minuto. «Un brutto affare, questo, Popilio.» «Sì, comandante» brontolò. «Brutto fino al midollo, ma la ragazza adesso è al sicuro. Nessuno le farà più del male, e se guarirà punterà il dito contro il bastardo che le ha fatto questo. Se è uno dei miei, gli strapperò le palle prima di vederlo morire.» Gli credetti implicitamente; tacqui e lasciai che il silenzio tra noi si prolungasse, e poi gli feci una domanda: «Credi nei sogni, Popilio?». Era un vecchio soldato, troppo vecchio per rispondere impulsivamente a una simile domanda. «Sogni, comandante?» disse poi, meditabondo. «Credo che esistano, perché sogno. Ma non è questo che mi stai chiedendo, vero? Non credo che abbiano importanza. Non credo in quelle storie di magia. Qualche volta faccio dei sogni, ma spesso non me li ricordo. Perché vuoi saperlo?» La sua risposta mi sorprese, perché anch'io ricordavo di rado i miei sogni, ed era la mancanza di quei ricordi, la loro incompletezza, che mi aveva spinto a fare quello che stavo facendo. Mi girai a guardarlo nella luce tremolante delle torce murali ai lati della porta, con un sorriso umile e triste. «Perché ho fatto un sogno stanotte che mi ha svegliato completamente, tant'era vivido nella mia memoria, e perciò sono qui.» «Un incubo?» Nella sua voce c'era un tono di ruvida comprensione, come se gli incubi gli fossero familiari. «No, no, non era un incubo. Non c'era paura. Ho sognato una tempesta, venti forti e ululanti, e una luce rossa e accecante. Nella luce avanzava una figura con un lungo mantello nero e un cappuccio alto e puntuto. Portava in braccio la ragazza, fuori attraverso i cancelli del forte. È ridicolo, 'naturalmente, ma questo dannato pasticcio mi ha ossessionato per tutto il giorno, e quando mi sono svegliato di soprassalto il sogno sembrava molto reale. Tanto reale, a dire il vero, che ho dovuto venire qui e accertarmi che tutto andasse bene.» Popilio sorrise e annuì. «Va tutto bene, comandante, ma so come ti senti. Sogno anch'io a volte, te l'ho detto. Strane cose, i sogni. Ma la ragazza non è andata da nessuna parte, e nessuno è entrato nell'edificio. Lucano dorme nella stanza con lei.» «Mmh... Ovviamente hai ragione. Forse sono troppo apprensivo. Vado a cercare di dormire ancora un poco. Se succede qualcosa di particolare o di insolito, mandami subito a chiamare, capito?» «Lo farò, comandante. Buonanotte a te.» «Buonanotte, Popilio.» E così nacque la prima storia degli arcani e magici poteri di Merlino, perché quando trovarono il lettino vuoto, Popilio era lì per ricordare la nostra conversazione, e non perse tempo a informare tutti. Ancora oggi non so che cosa mi spinse a fare ciò che feci quella notte, perché allora non avevo idea che un giorno sarei stato qualcosa di diverso da quello che ero allora, un soldato. Ma qualcosa dentro di me mi disse che cosa fare, e io lo feci. Conducemmo un'indagine, naturalmente, sulla sparizione della ragazza, ma contro le preoccupatissime guardie non furono presi provvedimenti disciplinari. Avevo badato a organizzare le cose in modo che in qualsiasi momento della notte ci fossero abbastanza uomini di guardia da precludere eventuali accuse di negligenza, collusione, o corruzione. La ragazza era scomparsa da un luogo sottoposto a vigilanza continua mentre il suo medico dormiva a portata di mano. Non era uscita da nessuna delle porte dell'infermeria e nessuno era entrato nell'infermeria dall'ultima volta in cui l'avevano vista le guardie durante il terzo turno, quando Tito e io avevamo controllato di persona. Lucano giurò che quando l'aveva visitata non era in grado di camminare. Popilio giurò che non era stata rapita durante il suo turno di guardia, anche se il comandante Merlino gli aveva raccontato di avere sognato che la ragazza era stata rapita tra le ire di una tempesta da una figura ammantellata. Dichiarò che già prima era stato vigile al suo posto - e nessuno dubitava di lui e dei suoi uomini - ma che in seguito era stato ancora più sollecito nel suo incarico. La scomparsa della ragazza ferita era, e rimase, un mistero. Diventò parte della leggenda della Colonia, e nessuna delle persone coinvolte rivelò mai la verità fino a ora. Era il nostro segreto. Essendo un druido, Daffyd conosceva il luogo che definivo la mia valle segreta; era, ed era sempre stata, una valle sacra a lui e alla sua razza, che considerava alberi, colline incoronate da alberi, e avvallamenti pieni di alberi l'ambiente naturale dei loro antichi dei. Uther, invece, non aveva idea dell'esistenza di quella valle, anche se ero stato spesso seriamente tentato di condividere con lui il mio segreto. Se non l'avevo mai fatto era perché l'avevo promesso a zio Varro, che un giorno mi aveva mostrato la valle per la prima volta e me l'aveva donata, dicendomi che ogni uomo aveva bisogno di un luogo segreto dove essere se stesso, per se stesso. Ci sarebbero stati momenti, mi assicurò, in cui sarei stato felice di fuggire dalla mia vita pubblica per riposare in solitudine, recuperare le forze e raccogliere i miei pensieri. Solamente lì, mi disse, sarei stato al sicuro da Uther. Non avevo capito che cosa intendesse con la parola "sicuro", e così mi spiegò che un giorno Uther sarebbe stato re, e che re e imperatori sono padroni crudeli, convinti che i loro crucci diano loro il diritto di ordinare in ogni momento la vita altrui. Quel luogo, mi disse, quella valle, avrebbe potuto essere il mio solo rifugio in tutto il mondo, ma solo se ne avessi custodito gelosamente il segreto. Lì avrei potuto trovare di tanto in tanto la pace, lasciando che Uther sbraitasse e delirasse fino al mio ritorno. Gli avrebbe fatto bene, mi disse suo nonno, rendersi conto che c'era almeno un uomo nel suo regno in grado di mantenersi indipendente dal re. Uther non era ancora re, ma le parole di suo nonno si erano già dimostrate veritiere. Dopo la morte di mio zio avevo creduto che il segreto appartenesse a me solo, finché un giorno avevo aperto gli occhi da un buon sonno e avevo visto mio padre che mi guardava, Veniva lì a pescare quand'era ragazzo, mi disse. Pescammo insieme quel giorno, e gli raccontai quello che mi aveva detto zio Varro. Il suo unico commento fu che Varro era stato un uomo saggio, e da allora mio padre non si avvicinò più a quel luogo. Anche lui me l'aveva offerto, perché fosse solo mio. Nel corso degli anni avevo costruito una robusta capanna di pietra sul margine dell'acqua, con un bel tetto, resistente alle intemperie, di tegole di argilla rossa che avevo recuperato, poche alla volta, da un grande mucchio rimasto per anni dietro a uno degli edifici annessi a villa Britannico. Adoravo dormire lì accanto al piccolo lago, cullato dal dolce suono della cascatella. Nel corso degli stessi anni avevo anche cambiato di continuo la via d'accesso all'unico passaggio, in modo che nessun sentiero rivelasse il mio rifugio a occhi profani. E adesso me ne stavo fuori dalla porta della capanna con Mod, e fissavo la luce gialla della lampada che splendeva attraverso il vetro traslucido della finestra che avevo costruito nel muro. Mi ci era voluto molto tempo per fare quella finestra, dieci pezzi di vetro spesso, saldati con il piombo e accuratamente fissati dentro una cornice di legno. Era un'ottima finestra, lasciava passare la luce e teneva fuori il maltempo. Tenevo la mano sinistra sulla spalla del giovane Mod, e per chissà quale ragione ero riluttante a entrare. Alla fine Mod torse il collo e mi guardò di sotto in su. «Entriamo?» «Sì, Mod, entriamo.» Feci un passo avanti e aprii la porta con una spinta. La stanza era piccola, e tre persone la affollavano. Tumac, il più giovane dei due apprendisti di Daffyd, dormiva su un mucchio di pellicce contro il muro, e Daffyd era seduto accanto al lettino, e nutriva Cassandra con un cucchiaio. Quando ci sentì entrare si voltò e sorrise. La ragazza non dava segno di essersi accorta della nostra presenza. Non ci sentì entrare e i suoi occhi erano coperti da una striscia di tessuto bianco. Attraversai la stanza e abbassai lo sguardo su di lei. La sua bocca era ancora un disastro, ma il gonfiore sembrava leggermente diminuito. «Come sta?» gli chiesi. «In via di guarigione. Ha molto dolore davanti a sé, ma è il dolore della guarigione.» «Quanto le ci vorrà per guarire completamente?» «Una settimana, due settimane, forse tre.» «Perché ha gli occhi coperti?» Allungò una mano e prima di rispondermi sistemò meglio un angolo della benda. «Per protezione. Sono terribilmente gonfi. Sul tessuto c'è dell'unguento.» «Perché? La vista è stata danneggiata?» «Non credo, ma non posso esserne certo.» Mi guardò. «Ma tu come stai, Merlino? Mi sembri sfibrato.» «Sto abbastanza bene, Daffyd. Ho solo bisogno di dormire. Non ho dormito molto queste ultime notti.» «Uther è tornato?» «No.» «E non hai nessuna idea di dove possa essere andato?» «Nessuna.» Daffyd scrollò il capo e continuò a versare una specie di brodaglia tra le labbra della ragazza. «Che cosa le dai da mangiare?» gli chiesi. «Solo il succo bollito di alcune erbe. É troppo debole per sopportare qualcosa di più forte. Forse domani lesserò un coniglio e inizierò a darle del brodo.» Posò per un attimo il cucchiaio e si girò verso di me. «Credi davvero che Uther abbia fatto questo?» Mi sedetti sulla sedia di legno vicino al tavolo. «Non lo so, Daffyd. Non so che cosa pensare. E più ci penso più mi confondo.» Guardai la ragazza e sentii nei suoi confronti un'ondata di rabbia e di risentimento. La sua improvvisa intrusione nella nostra vita aveva sconvolto ogni cosa. Era apparsa dal nulla, non annunciata, e la sua presenza era bastata a distruggere lo schema della mia vita. A causa di quella ragazza, il mio più caro amico era diventato nella mia mente un mostro e tutta la Colonia era stata gettata nello scompiglio. Cassandra era il suo degno nome, messaggera di morte e rovina. E poi, inaspettatamente com'era venuta, quella sensazione passò, e io rimasi a guardare una tragica ragazzina che non aveva avuto controllo alcuno sui colpi che il destino le aveva inferto. Da rabbia e ripulsione le mie emozioni si mutarono in compassione e interessamento. Mi resi conto di essere estenuato. D'un tratto l'idea di sdraiarmi e chiudere gli occhi fu irresistibile. «Daffyd» dissi. «Devo dormire. In questo istante.» «Lo so, mio giovane amico. Speravo che te ne accorgessi anche tu.» Indicò un angolo vuoto. «Sdraiati laggiù.» Andai dove Tumac dormiva e presi una pelliccia dal mucchio, ma prima di abbandonarmi del tutto alla tentazione, parlai ancora con Daffyd. «Per quanto tempo puoi rimanere con lei, Daffyd?» «Per il tempo in cui avrà bisogno delle mie cure. Perché? Pensavi che la lasciassi sola?» «No, ma forse ti aspettavi che rimanessi io con lei, e non posso. Devo essere a Camulod domani mattina presto. Arriverà mio padre, e non voglio che sappia questa storia da nessun altro che da me.» «É comprensibile. Dormi, e non preoccuparti. La ragazza riceverà le cure necessarie.» «Grazie, amico mio.» Distesi la pelliccia sul pavimento, mi sdraiai e caddi addormentato prima di riuscire ad avvolgermela intorno. X. Quando entrai a Camulod il mattino seguente incontrai Tito, stanco e insolitamente irritabile, che attraversava la corte principale. Mi disse subito che mio padre era ritornato dal giro di pattuglia poco prima dell'alba e mi aveva cercato, e c'era un tono nella sua voce che poco mancava fosse di biasimo. Lo ringraziai e non feci commenti sul suo contegno inconsueto, di cui avevo vagamente intuito la ragione. Portai il mio cavallo alle stalle e andai immediatamente da mio padre, che stava scrivendo certi documenti nel suo studio. Alzò gli occhi da quello che stava facendo, mi indicò una sedia, e io mi sedetti. Terminò finalmente un documento, lo sigillò e lo diede alla guardia alla porta, con l'ordine di consegnarlo al legato Tito. «Tito?» chiesi. «Non potresti semplicemente dirgli quello che vuoi?» Prima di rispondermi chiuse con cura la porta. «Ci sono cose che devono essere scritte... è necessario, per il bene dell'ordine... e per un eventuale futuro riferimento.» E avendo detto questo, ritornò flemmaticamente al suo tavolo e si sedette. «Ora. Per favore, con meno parole che sia possibile... che cosa, per Ade, è accaduto qui durante la mia assenza?» Parlava con estrema lentezza, combattendo la tendenza a biascicare le parole alla quale lo costringeva la lesione alla gola. «Che cosa hai saputo?» «Niente a cui potessi credere. Pettegolezzi... assassinio e stregoneria. Tito è stato... innaturalmente taciturno. Mi ha detto in faccia che avrei dovuto aspettare te. Ho aspettato, Sto aspettando.» Incominciai dal principio e gli raccontai tutta la storia di come avevamo trovato la ragazza e l'avevamo condotta a Camulod, e poi dell'aggressione e della sua scomparsa. Non gli mentii, omisi solamente la scena nella stanza dei giochi e il rapimento dall'infermeria. Quando ebbi finito rimase a guardarmi a lungo. «Bene» disse infine, inceppandosi su quell'unica parola. «Questo è ciò che sanno i soldati. E ora... Che cosa è successo realmente? Dov'è Uther? Come ha fatto la ragazza a sparire... dall'infermeria? Perché...» Si interruppe e si raschiò la gola, poi continuò con cautela. «Perché tutto questo interesse... in primo luogo... per una trovatella muta che si ficca nei guai? In questa storia c'è più... C'è più di quello che hai... raccontato.» Sospirai e incominciai da capo, raccontandogli questa volta tutto l'accaduto, senza tralasciare alcun dettaglio. Mentre parlavo, si alzò e misurò a lunghi passi la piccola stanza, mordendosi l'interno del labbro inferiore. I suoi commenti e le sue domande furono lapidari e mirati. «La ragazza è nella tua valle?» «Sì. É l'unico luogo sicuro che conosco.» «Sicuro da Uther, vuoi dire.» «Sì.» «Sei convinto che sia stato lui.» Non era una domanda. Non dissi nulla. «Perché?» Tacqui ancora. «Perché sei così disposto a credere che Uther... tuo cugino carnale... il tuo migliore amico... che conosci letteralmente da tutta la vita... abbia potuto commettere... questo abominio che hai descritto? Voglio una risposta, Caio.» Mi strinsi nelle spalle con gesto impotente. «Non ho scelta, padre. Non voglio crederci, ma tutte le prove indicano Uther. Non c'è un'altra persona sospettabile in tutto il forte!» «L'hai verificato?» «Che cosa? Che non ci siano altri sospetti? Certo, padre. Chiunque fosse di servizio quella notte, chiunque fosse sveglio o in piedi o in giro è stato interrogato a fondo, e la sua versione controllata. Solo i movimenti e le attività di Uther non possono essere giustificati.» «Dov'è Uther?» «Dimmelo tu, padre. Dov'è? Perché è sparito proprio adesso? Prima o più tardi sarebbe stato accettabile, ma se n'è andato pochi istanti dopo la ragazza e da allora nessuno l'ha più visto né sentito.» «Che cosa significa questa ragazza per te?» «Per me?» Ero sorpreso. «Nulla. Assolutamente nulla. Non ho avuto niente a che fare con lei, a parte averla fatta portare via dall'alloggio di Lucano quella notte.» « É graziosa? Attraente?» «Che cosa c'entra? Attraente? No, non è attraente. É scialba, magra, insignificante. Straordinariamente poco attraente, a dire il vero.» «Sei in collera con lei. Perché?» «Che cosa?» riflettei e mi resi conto di essere in collera con la ragazza. «Non so perché sono in collera con lei. Non è colpa sua, in effetti. Sono risentito con lei perché se non fosse stata dov'era quando c'era, niente di tutto questo sarebbe accaduto.» «Forse, e forse no.» Tacque per un momento, e mi chiesi che cosa avesse voluto dire con quelle parole. Poi si diresse allo scrittoio e prese un coltello che vi stava appoggiato. Ne saggiò l'equilibrio e poi lo lanciò con forza contro la porta chiusa, e il coltello si piantò vibrando nel legno massiccio. Mio padre andò alla porta, estrasse il coltello e ne esaminò la punta, sempre evidentemente immerso in pensieri profondi. Infine si voltò verso di me. «Tieni» disse facendogli compiere un lento arco verso di me, con l'elsa in avanti. «L'ho portato per te. É equilibrato per il lancio... perfettamente. Un giro completo ogni venti passi, se lo alzi in modo corretto.» Rimase in silenzio, mentre io esaminavo il coltello da vicino, e poi chiese: «Hai mai sentito parlare di concedere a qualcuno il beneficio del dubbio?». «Vuoi dire a Uther?» Lo guardai negli occhi. «Gliel'ho già concesso sbarazzandomi delle quattro donne. E tenendo per me i miei sospetti, tranne che con Tito. Doveva conoscerli, se volevo che mi aiutasse. Il mio problema con il beneficio del dubbio, padre, il mio solo problema, è definire che dubbio. Non sono certo di averne.» «Certo che ne hai. Se non ne avessi, non saresti così turbato.» Annuii, accettando la verità. «Hai ragione. Ma i miei dubbi sono tutti emozionali. La prova di cui devo tenere conto non lo è. I nudi fatti non lasciano adito a dubbi.» «Quali nudi fatti? Non ne hai.» Mi lasciò a bocca aperta e tornò a sedersi al tavolo. «Gli unici fatti che hai sono questi.» Levò un dito per ognuno dei punti che elencava. «La ragazza è stata, aggredita. Tu hai preso provvedimenti per proteggerla. E questi sono gli unici fatti. La spiegazione di quello che è accaduto tra il momento in cui la ragazza è fuggita dalla stanza e quando è stata ritrovata il mattino seguente sono supposizioni... pure congetture. Niente fatti.» «Ma l'evidenza...» «Quale evidenza? Nessuna evidenza, a eccezione delle ferite riportate dalla ragazza. Nulla che possa indicare chi, quando o perché.» «Sì, invece! Uther...» «Uther...» Si schiarì di nuovo la voce con insofferenza; da tempo non lo vedevo tanto frustrato a causa della propria voce. «Uther se n'è andato poco dopo la ragazza. È tutto quello che sai. Qualsiasi altra cosa tu senta... o creda... si basa sulla tua personale interpretazione delle circostanze.» Abbassai gli occhi sul coltello che tenevo in mano e lo scagliai contro la porta. La colpì di piatto e rimbalzò fino quasi ai miei piedi, e io rimasi con gli occhi fissi a terra senza vederlo. Mio padre parlò ancora, e la sua voce era gentile. «Come dicevo, devi alzarlo correttamente. Una questione di equilibrio, Cai. Come ogni altra cosa. Ammettilo. Tutto quello che puoi puntare contro Uther è la tua interpretazione delle circostanze. È stato un fatto orribile... non lo giustifico in alcun modo, maniera, o forma. Il suo autore verrà punito. Se è stato Uther, non troverà in me indulgenza alcuna. Ma ai miei occhi sei ben lontano dal dimostrarne l'implicazione, per non parlare della sua colpevolezza. La tua interpretazione non è altro che questo... un fatto non dimostrabile. Puoi provare soltanto che Uther lasciò la stanza dopo la fuga della ragazza, e per tua stessa ammissione non sembrava intenzionato a inseguirla.» Raccolsi il coltello e lo soppesai, digerendo faticosamente le parole di mio padre, lottando contro l'impulso di urlargli che lui non c'era, che non aveva visto quello che avevo visto io. La frustrazione mi montò dentro e di nuovo lanciai il coltello contro la porta, e questa volta la punta penetrò nel legno per almeno mezzo pollice. Andai a liberare la punta, e attesi di essere calmo prima di riaffrontare mio padre. «Molto bene, padre. Riconosco la verità delle tue parole. Ho solo la mia interpretazione di quello che ho visto e udito. Aiutami, dunque! Come interpreti l'evidenza?» «In totale assenza di testimoni, non la interpreterei.» Vide la mia replica prendere forma, e mi anticipò con un gesto della mano. «Totale, ho detto, Caio, totale! Abbiamo un testimone. Possiamo provare la verità. La ragazza saprà. Forse non saprà chi l'ha aggredita... se non è stato Uther... ma saprà se è stato Uther oppure no!» Rimasi con le spalle alla porta, con lo stomaco contratto per la tensione. «Hai fatto una cosa giusta, Caio, a spostarla dall'infermeria.» Una lunga pausa. «A essere sincero, sembra che tu abbia fatto tutte cose giuste. Hai agito bene.» Indicò la sedia su cui mi ero seduto entrando. «Siediti. Voglio raccontarti una storia. Potrebbe dimostrare il mio punto di vista.» Si alzò e andò a dire alla guardia fuori dalla porta che non desiderava essere interrotto, poi tornò e si sedette .allo scrittoio, premette le mani palmo contro palmo e se le .esaminò minuziosamente. Dopo alcuni minuti strinse le labbra e mi guardò con un'espressione strana e una piega tra le sopracciglia che rivelava un'intensa concentrazione. Io rimasi immobile, aspettando che incominciasse, e quando mi accontentò c'era nella sua voce qualcosa di nuovo. Non so spiegare che cosa fosse, e allora ne ero quasi inconsapevole, ma pendevo dalle sue labbra, e avevo dimenticato le sue difficoltà di parola. «Caio...?» esordì. La sua voce si affievolì nell'incertezza, poi si schiarì bruscamente; mi sorrise. «La storia che ti sto per raccontare forse ti sconvolgerà, ma solo perché è capitata a me e io sono tuo padre. Se fosse capitata a un altro, potresti accettare la sua versione senza commentare o giudicare, ma ne dubito. So che se la raccontassero a me... la mia prima reazione sarebbe di incredulità. Ma sono tuo padre, ed è successo a me. Voglio che tu non nutra alcun dubbio. È successo.» Incominciavo a chiedermi dove volesse andare a parare, ma l'attesa non fu lunga. «Riportai questa ferita alla gola l'anno in cui nascesti. Lo sapevi?» Annuii, e proseguì. «Fu quasi mortale... avrebbe dovuto esserlo. Era una brutta ferita. Ricordo che da ragazzo avevi paura di me, la mia voce ti spaventava. Te lo leggevo negli occhi... Ma con il passare degli anni ti sei abituato al suono della mia voce e ora a malapena noti la sua stranezza. Ho ragione?» Annuii ancora, e mi rivolse un esile sorriso. «Ma forse invecchiando parlo meglio, non lo so e non ho modo di giudicare. Ma per i primi tre anni da quando presi quella freccia in bocca, Caio, non dissi una parola. Scrivevo... ogni cosa. E studiavo un linguaggio dei segni in modo che i miei ufficiali e i miei uomini comprendessero e ubbidissero istantaneamente a ogni ordine. Ma sto divagando. Il nocciolo del discorso è questo: durante la mia convalescenza in seguito a quella ferita, strangolai un uomo a mani nude. Aveva cercato di uccidermi, cercava di uccidermi quando lo strangolai.» Mi mossi sulla sedia. Ne avevo letto un accenno sui libri di mio zio, ma non conoscevo la storia. «Venni ferito in una scaramuccia con i Pitti del nord, che erano scesi attraverso il Vallo approfittando dell'ultima breccia di quell'anno. Erano scesi molto più a sud del previsto, e ci imbattemmo in loro molto in anticipo sui nostri calcoli. Uno di loro mi scagliò una freccia in bocca. Avevo la bocca aperta in quel momento. Gridavo ordini... Comunque, quella per me fu la fine della battaglia, e avrebbe dovuto essere anche la mia fine. Tito prese il mio posto e li mise in rotta, e li rispedì al nord a leccarsi alcune profonde ferite. Eravamo nel nord della Britannia, nei pressi della città di Lindum... tra qui e Danum, praticamente. Nessuno si aspettava che vivessi, ma li sorpresi tutti e mi lasciarono infine alla villa di un certo Marco Aurelio Ambrosiano, un nobile romano di antica famiglia che si era ritirato dalla vita pubblica a Roma per vivere nella sua villa in Britannia. Era un uomo anziano e nobile; in quei giorni pochi suoi compatrioti erano nobili quanto lui.» Interruppe la narrazione per andare ad aprire un piccolo scrigno, dal quale trasse una fiaschetta di idromele e due coppe di corno. « É presto» disse, «ma parlare tanto mi asciuga e mi irrita la gola.» Mescé per entrambi e mi porse una coppa prima di sedersi a sorseggiare il suo idromele, tenendolo per un poco in bocca e poi lasciandoselo scivolare piano in gola. « É buono» mormorò, bevendone un altro sorso. «Beh, come sai, la nostra non è una stirpe dappoco. Ambrosiano mi accolse in casa sua e la sua gente aiutò la mia nel prendersi cura di me. Io non sapevo nulla della sua cortesia, poiché ero in punto di morte, e in quel punto giacqui per-più-di un mese. Mi nutrivano con dei liquidi, grazie a tubi di intestino animale che i nostri segaossa mi inserivano nella gola attraverso le narici. Mi consideravano tutti un miracolo vivente. Avrei dovuto morire subito. Sopravvissi. Avrei dovuto morire in seguito, di fame, perché non potevo mangiare. Sopravvissi ancora, per merito di quel medico pazzo! E sai che oggi non ricordo nemmeno il suo nome?» «Perdesti molto peso?» «Sì, certo, ma non quanto potresti pensare. Quel medico mi nutriva costantemente: brodi ristretti, latte e miele, perfino birra! Quando finalmente iniziai a mangiare pane in poltiglia nel latte caldo non ero Ercole, ma non ero nemmeno uno scheletro. Comunque, la mia storia... Una notte mi svegliai, o passai in uno stato di dormiveglia, e mi accorsi che nella mia stanza c'era qualcuno. Nella semioscurità vidi ai piedi del letto una sagoma che si disponeva a colpirmi con una spada. Rotolai di lato, non so nemmeno io dove trovai la forza o la rapidità, e la lama mi affondò nel fianco. Il mio aggressore cadde su di me e io lo afferrai per la gola e cercai con tutte le mie forze di strangolarlo. Lo sforzo mi causò un dolore che non avevo mai sentito, ma non cedetti e strinsi fino a quando non ce la feci più e svenni. Poco tempo dopo, come avveniva due volte ogni notte, vennero nella mia stanza a controllare le mie condizioni, e mi trovarono con le mani chiuse intorno al collo del mio ospite, Marco Aurelio Ambrosiano.» Mi si strinse lo stomaco per l'orrore. «Ambrosiano? Ma perché? Hai detto che era un vecchio!» «Aveva sessantanove anni, ed era debole.» «Ma perché mai avrebbe fatto una cosa simile?» «Ottima domanda, una domanda che si ponevano tutti, incluso me.» «Era impazzito? Uscito di senno? Così semplicemente?» Mio padre, impassibile, alzò le spalle. «Il verdetto fu questo. Non avevo mai conosciuto quell'uomo, almeno non mentre ero cosciente. Ero stato ospite in casa sua per più di tre mesi, e in tutto quel tempo non mi ero mosso dal letto. Era passato qualche volta a farmi visita durante il primo mese della mia permanenza, ma dormivo sempre o ero privo di sensi, e così aveva smesso di venire. Sembra che il giorno prima avesse affilato la sua spada. E si era comportato stranamente, aveva evitato là sua famiglia e i suoi servitori ed era rimasto chiuso nelle sue stanze per parecchi giorni prima del fatto. La mia innocenza non venne mai messa in dubbio. Mi trovarono ancora avviluppato in lenzuola e coperte, e sanguinavo dalla ferita al fianco. Trovarono una lampada accesa sul pavimento in corridoio dietro l'angolo della mia stanza, e la guaina della sua spada dove l'aveva lasciata, nella sua stanza... L'evidenza era schiacciante. Aveva perso il senno e tramato la mia morte con sufficiente anticipo da aver preso la spada che era appesa nel suo salottino, e da assicurarsi che il filo fosse abbastanza tagliente da uccidere. Poi aveva aspettato fino a notte fonda, aveva sfoderato la spada e lasciato la guaina sul letto, ed era strisciato nella mia stanza appoggiando la lampada nel corridoio perché la luce non mi svegliasse, e per poter ritornare rapidamente nella sua stanza dopo avermi ucciso.» Ero perplesso. «Ma non ha senso, padre. Perché te?» «Non aveva senso per nessuno, Cai, ma la follia ha il proprio senso. Mi fecero i complimenti per i miei riflessi, infermo com'ero, e tutta la faccenda venne messa a tacere. In seguito recuperai le forze molto in fretta, e dopo quindici giorni mi alzai dal letto. Dopo altri quindici giorni, ero di nuovo in servizio. Servizio di guarnigione, naturalmente. Ero ancora troppo debole per salire a cavallo e non ero in grado di parlare.» «Perché non ti hanno fatto ritirare?» «Ci hanno provato. Non gliel'ho permesso. Ricordati che non avevo superiori. Ero il deputato di Stilicone in Britannia, e Stilicone era reggente dell'Impero. Quando riuscirono a lamentarsi con lui era troppo tardi. Fummo richiamati a combattere contro Alarico e i suoi Visigoti, e c'era necessità di ogni uomo disponibile, anche di un ufficiale muto.» Ero sconcertato e insoddisfatto di quella storia sconclusionata. Ed ero deluso. Se c'era un parallelo con la situazione attuale, mi era sfuggito. « É una storia portentosa, padre, ma che cosa ha a che fare con il caso di Uther?» Mi rivolse un sorriso lento e privo di umorismo. «Niente, in superficie, Caio. In profondità invece tutto. Stavamo parlando di evidenza e di circostanze. Nel caso di Uther le circostanze lasciano supporre la sua colpa. Se non fosse per le circostanze che lo fecero uscire da quella stanza con un motivo per aggredire la ragazza, non si sospetterebbe assolutamente il suo coinvolgimento in una simile sozzura.» «E allora?» dissi, esitante. «Sono circostanze importanti.» « É vero. Te lo concedo. Marco Ambrosiano ha attentato alla mia vita e per questo è morto. É stato accusato post mortem di follia, perché le circostanze delle sue azioni imponevano che fosse folle. Io non gli avevo fatto nessun torto. Ma considera il seguito. Come posso spiegarti?» Si pizzicò il labbro inferiore, e continuò. «Ero in casa sua da più di tre mesi. Era un uomo anziano. Aveva una bellissima figlia di tredici o quattordici anni, non di più. Avevo sentito i medici parlare di lei con parole di meraviglia. I suoi capelli erano così bianchi da sembrare d'argento. Mi avevano detto che era una vera bellezza, di quelle per cui gli uomini combattono. Sebbene fossi gravemente ferito, sotto ogni altro aspetto ero in buone condizioni. La ferita era alla bocca e al collo. Il resto del mio corpo dopo un mese funzionava normalmente. Non ero di molto maggiore di te adesso. Capisci?» Annuii. «Hai mai visto la ragazza?» «No, ma era stata nella mia stanza, e avevo udito la sua voce. Era venuta un paio di volte, con i suoi servitori. A ogni modo, avevo fatto un sogno... un sogno ricorrente. Sempre lo stesso, e sempre molto... piacevole. Dormivo profondamente ogni notte, ma una notte sognai che mi svegliavo e venivo, beh, "cavalcato" suppongo che sia la parola migliore, da una donna. Attraverso le bende non potevo vederla, e non potevo muovermi. Mi portava a completa soddisfazione e se ne andava, senza un suono, senza un rumore, e io mi riaddormentavo. Quando mi svegliai ricordai il sogno e mi controllai per vedere se era successo realmente, ma non c'era alcun indizio che qualcosa fosse accaduto. Era stato piacevole, estremamente piacevole, ma era un sogno abbastanza normale, e non ci pensai più... Diverse notti dopo capitò ancora, e ancora non c'erano tracce che fosse stato reale; anzi, quella seconda volta dubitai perfino di avere sognato. Circa una settimana dopo capitò un'altra volta, e nel caso che tu stia pensando che ti sto facendo perdere tempo, ti garantisco di no. Poi capitò ogni notte per una settimana e poi a notti alterne per un'altra settimana. In alcune di queste occasioni ero a malapena consapevole, in altre il sogno era alquanto vivido. E una particolare notte, che mi avevano tolto le bende, c'era la luna e vidi l'amante dei miei sogni.» «Sua figlia!» «No, e ne fui piuttosto deluso, perché mi ero convinto che fosse lei, l'amante dei miei sogni. Ma quella era una sconosciuta. Un sogno vero. Non l'avevo mai vista prima. Non la vidi chiaramente, ma vidi abbastanza da rendermi conto che non la conoscevo. Era solo una donna in un sogno.» «E il sogno non cambiava mai?» «Mai. Mi imponevo di svegliarmi e mi ritrovavo dentro di lei. Non ricordavo mai di essermi riaddormentato.» «L'hai mai detto a nessuno?» Mi sorrise con ironia. «Che cosa? Che facevo dei sogni erotici?» «E allora? Che cosa accadde?» Scosse brevemente il capo. «Niente. I sogni cessarono, e io li dimenticai. Circa una settimana dopo, il mio ospite mi aggredì.» Inarcai le sopracciglia. «Non hai mai più fatto quel sogno?» «Mai più. Dalla notte dell'aggressione, il mio sonno si fece più leggero, come puoi bene immaginare. Udivo ogni rumore in quella casa. Le forze mi ritornarono con sempre maggiore rapidità e me ne andai da lì in poche settimane.» «Che cosa ne fu della figlia?» «Partì, dopo il funerale, e andò a vivere presso dei parenti a Danum. Non la rividi mai più.» «E allora qual è il significato della storia? Come ha fatto il vecchio a scoprire che sognavi sua figlia? Era stregoneria?» Sbuffò. «Sì, in un certo senso. In realtà non scoprì mai che sognavo sua figlia. Non seppe mai che facevo dei sogni.» Inspirò una grande quantità d'aria attraverso le narici. «Ma c'è un seguito a questa storia. Molti mesi dopo, poco prima di lasciare Lindum per tornare a Londinium e poi salpare per l'Italia, vidi una donna che somigliava alla donna dei miei sogni tanto da turbarmi. Eravamo in un'affollata piazza del mercato e la vidi al di sopra della folla che ci separava. Tentai di raggiungerla ma non ci riuscii. Allora tentai di seguirla, ma la persi per strada in una ressa di persone, così tornai al mercato e trovai il mercante alla cui bancarella aveva fatto acquisti. Gli scrissi un biglietto, chiedendogli chi era.» Mi guardò negli occhi. «Quel tizio non sapeva leggere, E io non potevo parlare. Dovevo trovare qualcuno che sapesse fare entrambe le cose. Scoprii che era la giovane vedova di Marco Ambrosiano. Ed era incinta.» I peli sulle braccia e sulla nuca mi si rizzarono per lo stupore. Dovetti cambiare anche espressione, perché mio padre abbaiò la sua risata brusca e breve. «Una rivelazione stupefacente, eh? Fui stupefatto anch'io, allora. Quella donna era colpevole di omicidio, e io ero lo strumento che lei aveva usato, e tuttavia le circostanze non la includevano affatto. Il vecchio doveva essere pazzo per il dolore e per l'orgoglio ferito, ma non era più folle di me. Mi nutrivano attraverso dei tubi. Attraverso gli stessi tubi, ogni notte venivo drogato e usato come toro da monta, ma Ambrosiano non poteva saperlo... In qualche modo aveva scoperto che sua moglie si divertiva con me, e in quelle circostanze non aveva altra scelta che di credere che io fossi il suo compiacente compagno.» Fece una breve pausa, e mi osservò acutamente prima di continuare con enfatici scatti, «Non nego che avrei potuto essere condiscendente, se avessi avuto voce in capitolo, ma il vecchio interpretò l'evidenza secondo ciò che sentiva, e concluse che gli stavo mettendo le corna sotto il suo tetto mentre approfittavo della sua ospitalità. Se fossi stato in lui, avrei potuto risolvere diversamente la faccenda, ma il bastardo in quel letto sarebbe morto!» Si sporse sul tavolo e mi prese il coltello di mano. «Come avresti interpretato i "nudi fatti" se fossi stato in lui, Caio?» Ero mortificato, e la mia voce era ridotta a un sussurro dall'enormità di ciò che solo in quel momento comprendevo e valutavo in tutta la sua portata. «Capisco che cosa vuoi dire, padre.» «Lo spero. E non perdere di vista il fatto che se ne avessi avuta la possibilità avrei potuto essere il suo amante consenziente. Il punto è che non ne ho avuto la possibilità, e non ho avuto scelta. Malgrado tutta l'evidenza del contrario, in ultima analisi io non ero colpevole del peccato per il quale il marito mi ha condannato.» Nascosi la faccia tra le mani e mi passai le dita tra i capelli, inspirando a fondo. «E tutto questo a che punto ci lascia con Uther?» Mi rispose la voce più gentile che avessi mai sentito dalle labbra di mio padre. «Ad aspettare di vedere come reagirà la ragazza quando starà bene e potrai metterla a confronto con lui.» «E se è colpevole?» «Chi sbaglia paga.» «E poi?» Mio padre bevve quel che restava del suo idromele e si alzò, prendendo l'elmo per indicare che il nostro colloquio era finito. «E niente, Caio. Sai bene quanto me che chi violenta una donna sotto il mio comando paga con la morte.» XI. Ancora oggi mi riesce difficile credere che il confronto tra Uther e Cassandra non sia mai avvenuto. Non ho spiegazione che un giudice razionale possa dichiarare perfettamente plausibile. Accadde semplicemente che, per un motivo o per l'altro, non si trovarono mai faccia a faccia in mia presenza. Il primo e più importante di questi motivi fu l'avere ricevuto informazioni a sostegno di un più che ragionevole dubbio concernente la colpa di Uther nientemeno che da zia Luceia, la quale non aveva il minimo sospetto che Uther potesse essere coinvolto nella faccenda. Venni convocato nelle sue stanze il pomeriggio del giorno in cui mio padre mi raccontò la sua storia, e mi presentai da lei afflitto dai sensi di colpa per averla negli ultimi tempi troppo trascurata. Zia Luceia era ormai molto vecchia, e di rado si avventurava fuori dalle stanze di famiglia, come era solita chiamare i locali in cui viveva. Dall'età di sei o sette anni, attraverso le descrizioni nei libri di mio zio, avevo conosciuto un'altra Luceia. L'avevo incontrata quando aveva venticinque anni, prima di diventare la moglie di Publio Varro, e così era rimasta su quelle pagine nel corso degli anni, emancipata e incontaminata dal loro passaggio. In realtà erano trascorsi da allora più di quarantacinque anni, e sebbene la Luceia Britannico di oggi mostrasse più che una lieve somiglianza con la bella donna dai capelli corvini di cui avevo letto nei libri, i suoi capelli adesso erano bianchi come la neve, e il suo viso, ancora bellissimo nei tratti scolpiti e negli alti zigomi, era profondamente scavato dal tempo. Non la vedevo dal giorno in cui eravamo tornati dal servizio di pattuglia, quando mi ero fermato a renderle visita obbligatoria a conferma del nostro avvenuto rientro. Quel pomeriggio la trovai seduta alla luce della finestra che era il suo più grande vanto, un'apertura molto più splendida di quella nella mia capanna, fatta di quattro enormi e perfettamente combacianti fogli di vetro così fine da essere quasi trasparente. Non appena sentì i miei passi si girò, e attese un bacio a braccia levate. La abbracciai e mi strinse con affetto. «Oh, che bella sensazione quando non sei tutto coperto dall'armatura! Ti proibisco di indossare l'armatura quando vieni a trovarmi, anche se probabilmente significherà che non ti vedrò più del tutto, adesso che ti ho dato una scusa.» Accolsi il rimprovero così com'era inteso, con dolcezza. «Mi dispiace, zietta. So di averti trascurata, ma sono stato davvero impegnato. Stanno succedendo tante cose.» Mi sciolse dalla sua stretta ma continuò a tenermi per le braccia, inclinandosi appena all'indietro per potermi guardare negli occhi. «Dio, come mi sono familiari quelle parole! Era il ritornello preferito di Publio Varro! Ma almeno lui tornava a casa da me, ogni tanto. Non era come te, che te ne stai lontano e spezzi il cuore di una vecchia donna mentre cerchi di spezzare l'imene di una donna giovane.» «Zia Luceia!» «Non chiamarmi zia Luceia! So tutto di te, giovanotto. E non hai bisogno di fingerti scandalizzato. Uno dei pochi privilegi di essere vecchia è che non devi preoccuparti di quello che pensa la gente, e un altro è che ti ricordi ancora com'è essere giovane. Preferiresti che fingessi di non ricordare com'è la vita? O di non avere mai conosciuto la passione o l'amore di un uomo? Sarebbe un disonore per me, e lo sarebbe per Publio Varro. Vieni!» Mi afferrò per un polso e mi tirò giù verso di lei. «Inginocchiati, ragazzo, ho delle cose da dirti.» Sorridendo, mi inginocchiai davanti a lei, e lei si sporse verso di me, rivolgendo le sue parole diritte nei miei occhi, «Io - sono - viva! Ci credi, nipote?» Risi forte. «Certo che ci credo, zietta. Perché? Tu no?» «Oh, sì, nipote, ci credo, ma sono circondata da troppe persone che sembrano non crederci. Mi camminano intorno in punta di piedi come se non ci fossi, o come se fossi addormentata, o gravemente ammalata, e avessero paura di disturbarmi. Peggio ancora, sembra che qualcuno pensi che sono un mobile che resta dove lo mettono e non comunica altro che la sua presenza, e tacitamente! Mmh...!» Scosse la testa e batté un piede a terra per sottolineare le sue parole. «Ma io so che cosa succede qui» continuò. «So più di quanto creda la maggior parte della gente. Per esempio, so di quella povera ragazza nelle stalle.» Quasi mi si fermò il cuore a quell'inattesa rivelazione. La guardai a lungo, tentando di celare il mio sgomento, mentre lei mi sorrideva con un'espressione di puro trionfo. Come l'aveva scoperto? E quanto aveva scoperto? Con voce forzatamente calma, le chiesi: «Che cosa sai, zietta? Che cosa sai di lei?». «So chi è stato.» Inghiottii il groppo che mi si era improvvisamente formato in gola. «Allora sai più di chiunque altro. Chi è stato?» «Remo.» «Chi?» Quel nome non significava assolutamente nulla per me. «Remo. Il prete.» «Quale prete, zietta?» «Quel prete strano. Lo conosci! Remo, quello con gli occhi gelidi. É un uomo malvagio, quello.» Respirai a fondo. «Zia Luceia, non ho idea di chi, o di che cosa, tu stia parlando.» «E invece sì, Caio, oppure ti sei dimenticato di lui. Sto parlando del prete, il prete cristiano di nome Remo. Almeno, lui si fa chiamare prete. L'hai conosciuto qui, il giorno che sei tornato dal tuo ultimo pattugliamento.» Rammentai allora che durante la mia ultima visita c'era un prete nella stanza, ma non gli avevo prestato attenzione, non più di quanto avrei fatto con un qualunque altro ecclesiastico, e cioè l'avevo ignorato. Zia Luceia riceveva in continuazione visite di ecclesiastici in cerca di elemosine e carità, e avevo smesso da tempo di badare a loro. Erano semplicemente una consuetudine nella vita di zia Luceia. Era una donna molto religiosa. Deglutii ancora, a fatica. «L'hai definito malvagio. Perché?» «Perché odia le donne.» Mi rilassai, e un sorriso superiore mi illuminò il volto. «Andiamo, zietta! Conosco almeno una dozzina di uomini a cui non piacciono le donne, e non per questo sono malvagi.» La faccia di Ludo mi era balzata subito in mente. «Caio, ascoltami» disse spazientita per la mia maschile ottusità. «Ascolta quello che ti dico. Conosco gli uomini, che cosa gli piace e che cosa non gli piace. Quello odia le donne. Non sa celare il suo odio. Tenta di dissimularlo, ma è più forte di lui. Non sto insinuando che quell'uomo sia effeminato. Sto dicendo che è depravato.» Il sorriso si era tramutato in un cipiglio. «Zietta, ricordo di averlo visto, ma non ricordo nulla di lui. Chi è? Dove posso trovarlo? E perché pensi che abbia potuto fare una cosa simile? Voglio dire, che le donne non gli piacciano, che le odi addirittura, è una cosa, ma picchiare una ragazza fino quasi ad ammazzarla per nessun altro motivo che quello è una cosa completamente diversa. In particolare se si tratta di un prete cristiano.» Zia Luceia raddrizzò le spalle e si diede quasi con sussiego a lisciare una piega dell'abito. «Conosci il vescovo Patrizio?» Annuii, e lei continuò. «É un uomo piacevole, e benintenzionato, ma non vale la metà del suo predecessore, il vescovo Alarico.» Alarico era stato un caro e vecchio amico della mia prozia e di tutta la famiglia, e lo conoscevo bene grazie ai loro scritti. «Me ne sono accorta subito la prima volta che l'ho visto, ma non potevo certo condannarlo per questo. Dio ne ha creati pochi come Alarico. Patrizio sarà un vescovo capace, ma non è illuminato. Non sa capire gli uomini come sapeva farlo Alarico. Comunque, Patrizio è venuto a trovarmi, e ha portato con sé questo Remo. Non mi piacque già allora. Mi disturbava, ma non dissi niente a Patrizio. Remo è tornato lo stesso giorno in cui siete tornati tu e Uther, e l'ho mandato via. Normalmente non sono né scortese né inospitale, ma mi ha profondamente offeso e così l'ho cacciato. Gli ho detto di lasciare immediatamente casa mia e questo forte, e di non tornare mai più. Ho minacciato di chiamare le guardie e di farlo scortare fuori dai cancelli, ma se n'è andato prima che potessi farlo.» Ero impressionato. Quell'uomo doveva essere un vero zotico per avere un simile effetto su mia zia, che era la persona più affabile che conoscessi. «Che cosa ha fatto per offenderti cosi gravemente?» «Era se stesso, ecco tutto. Ha rifiutato di accettare una bevanda dalle mani di una delle ragazze al mio servizio. Le ha fatto volare via la coppa dalle mani e le ha detto di stargli lontano, che era impura! Impura, Caio! In casa mia!» «Capisco. E allora che cosa hai fatto?» «L'ho buttato fuori. Gli ho detto di andarsene immediatamente, non solo da casa mia, ma da Camulod. Non era il benvenuto qui e non lo sarebbe mai stato.» «E hai minacciato di chiamare le guardie?» «Sì.» «Ma non l'hai fatto?» «No.» Scosse la testa. «Te l'ho detto, non ce n'è stato bisogno. Se n'è andato.» «E poi? Questo è tutto?» «No, non proprio. É tutto quello che è successo, ma c'era un altro particolare che allora ho trascurato perché non mi sembrava importante: zoppicava leggermente, e invece che a un bordone si appoggiava a un bastone insolito, robusto e scolpito per adattarsi alla sua mano.» «Dolce Gesù! Perché hai aspettato tanto per dirlo?» Al mio tono scandalizzato sollevò il capo di scatto in muta protesta, con un'espressione che tradiva uno strano miscuglio di risentimento e di colpa, e l'asprezza della sua risposta mi dimostrò quanto fosse profondamente consapevole di non aver parlato prima. «Perché solo questo pomeriggio ho saputo che la ragazza è stata picchiata con un bastone. Quando l'ho saputo, ti ho mandato a chiamare immediatamente. Era pomeriggio inoltrato quando quel tale Remo se n'è andato da qui. Quasi il crepuscolo. Mi viene in mente adesso che avrebbe potuto attardarsi qui al forte per trascorrere la notte nelle stalle.» «Avrebbe potuto!» Ero già in piedi. «Zietta, hai fatto bene a pensare al bastone e a dirmelo. Quanto bene, non lo saprai mai. Ma vorrei che tu avessi chiamato subito le guardie. Scusami, adesso, devo trovare quell'uomo.» La baciai sulla guancia e quasi corsi via. Una perquisizione dell'intero forte, unita a interrogatori intensivi, ci procurò solo cinque persone che avevano visto il prete, e tutte lo avevano visto dirigersi verso l'alloggio di zia Luceia. Nessuno l'aveva visto ripartire, e nessuno l'aveva più visto in seguito. Inviai le pattuglie a perlustrare i nostri territori, ma la ricerca era senza speranza. Aveva avuto tre giorni e tre notti per allontanarsi, e non trovammo tracce di lui, né allora né mai più sulle nostre terre. La dimostrazione della sua esistenza aveva tuttavia stabilito nella mia mente un ragionevole dubbio sulla colpevolezza di Uther, e ne ero felice. C'era un altro sospetto, l'unico, per quanto ne sapeva zia Luceia, e io non sottovalutavo il suo giudizio. Malgrado tutto ciò, il secondo motivo per cui tralasciai di mettere a confronto Uther e Cassandra fu che a Camulod la vita ritornò presto normale, vale a dire che arrivò un messaggero implorando il nostro aiuto contro una banda di razziatori sassoni nel sud-est. Mio padre era appena tornato da un giro di pattuglia, e così andai io, con una colonna volante, a fare il possibile contro gli invasori. Ma quando arrivammo sul posto erano salpati da tempo, e dopo essere rimasti un giorno ad aiutare gli abitanti del villaggio a rimettere insieme la loro vita, facemmo ritorno al forte. Uther si era ripresentato durante la mia assenza accompagnato da venti arcieri di suo padre, non aveva detto a nessuno dov'era stato ed era già ripartito, questa volta per una perlustrazione dei nostri territori sudoccidentali. Ero contento di averlo mancato per parecchie ore, perché nonostante i miei ragionevoli dubbi non mi entusiasmava l'idea di incontrarlo faccia a faccia senza avere risolto tutte le mie incertezze. «Com'era?» chiesi a mio padre. «Lo stesso di sempre, semplicemente Uther. Nessun apparente senso di colpa, se è questo che intendi.» « É quello che intendo. Gli hai raccontato la storia?» «Sì, l'ho fatto.» «Come ha reagito?» «Era sconvolto, e preoccupato, sinceramente, secondo me. Ma non ha creduto alla storia della magica sparizione. Sapeva che c'entravi tu.» «Come faceva a saperlo?» «Non sapeva niente, Cai. Ha solo detto che puzzava come uno dei tuoi trucchi.» «Quali trucchi?» Rammento il tono di innocenza offesa, prima che subentrasse un altro pensiero. «Non gli hai detto come abbiamo fatto, vero, padre? Non gliel'hai detto?» «No, non gliel'ho detto, e lui non me l'ha chiesto.» «Chissà se l'ha chiesto a Tito?» «L'ho domandato a Tito. Non gliel'ha chiesto.» «È così» alzai le spalle, sollevando l'armatura affinché si assestasse, «sconvolto, preoccupato, e senza colpa. Meglio per Uther.» Scossi la testa. «Sarò felice quando questa faccenda sarà finita, in un modo o nell'altro.» Il giorno dopo andai a cavallo fino alla valle per controllare le condizioni di Cassandra. Speravo di trovarla migliorata, e lo era. Lo vidi nel momento stesso in cui aprii la porta della capanna. Era seduta contro il muro, e si nutriva da sé con un cucchiaio dalla ciotola che Daffyd le teneva vicino. Guardai all'interno della stanzetta. «Salve, Daffyd. Dove sono i ragazzi?» «Salve a te, principotto. Se ne sono andati. Li ho spediti a casa giorni fa. Mi facevano diventare matto, confinati qui dentro come un paio di donnole selvatiche.» «Come sta?» Mi fissava al di sopra della spalla di Daffyd e i suoi occhi erano enormi, molto più grandi di quanto ricordassi. I lividi si stavano riassorbendo, e la sua faccia era tutta screziata di giallo sfumato di blu. Aveva alcune piccole croste sulle sopracciglia, e intorno alla bocca dove si erano spaccate le labbra. «Sta guarendo. Non credi che abbia un aspetto migliore?» «Sì, è vero. Come sono i denti?» Non so che cosa mi avesse spinto a fare quella domanda. «Oh, morderà ancora. Ci sono ancora tutti. Due dondolavano un poco, ma si stanno consolidando. É giovane e sana e si ripara in fretta.» «Bene. Ossa rotte?» «No, e i suoi occhi sono a posto, prima che tu me lo chieda. Ma è sorda, e muta, come sospettavamo. Tieni, vieni qui e reggile la ciotola. Devo fare pipì.» Presi la ciotola e Daffyd uscì, e sentii il fiotto di urina contro il muro della capanna. Da vicino, il viso della ragazza era uno stupefacente enorme livido, dalla fronte al mento. Teneva gli occhi fissi nei miei, e non accennava a voler riprendere a mangiare. Mossi appena la ciotola verso di lei, per mostrarle che doveva continuare a mangiare, ma lei continuava a fissarmi e i suoi occhi si riempirono di lacrime, gettandomi in uno stato di costernazione. Le lacrime femminili mi hanno sempre innervosito e, con quella donna specialmente, proprio non sapevo che cosa fare. Guardavo sgomento quelle grosse gocce che sembravano stare eternamente sospese alle ciglia prima di rotolare sulle guance ingiallite; cercai freneticamente qualcosa per asciugarle, vidi un panno accanto a me e con goffi gesti le tamponai il viso. A quel contatto si ritrasse e, rendendomi conto di quanto il viso dovesse farle male mi ritrassi anch'io, per simpatia, e allora attraverso le lacrime mi sorrise e il mio stomaco si ribaltò. Non avevo mai visto prima il suo sorriso, né avevo mai visto prima un sorriso che potesse eguagliarlo. Le trasformava il volto, lo illuminava dall'interno, livido e macchiato com'era, e lo inondava di eterea bellezza. Fui disfatto all'istante. Ancora oggi, dopo decenni, rammento che quel sorriso tremulo, lento e doloroso aveva decretato che non cercassi mai più un sorriso in nessun'altra donna. Nemmeno il fatto che il movimento le straziasse le morbide labbra e la facesse trasalire di dolore spezzò l'incantesimo. Ero già perduto, Abbassò gli occhi sulla ciotola che avevo abbandonato, e allora la ripresi e gliela porsi di nuovo. Ricominciò a mangiare, o sorseggiare, con la stessa delicatezza di un fauno che beve a una pozza. Persi la nozione del tempo e rimasi li seduto, estasiato, finché la ciotola non fu vuota, e lei batté il cucchiaio sulla ciotola e mi sorrise, riportandomi alla realtà. «Credevo che la ritenessi brutta, ragazzino» disse Daffyd da dietro di me, ma non distolsi gli occhi da quel viso colorato di giallo. «Infatti, ma non l'avevo mai vista sorridere. Dovevo essere cieco.» «Già, o preoccupato, forse. Comunque, dal modo in cui ti guarda, sembra che nemmeno lei ti trovi troppo orripilante.» «Mmh....» Non perdevo di vista la sua faccia. «Daffyd, come... Come vanno le sue... Altre lesioni?» «Gli orifizi? Stanno guarendo. Starà bene, fisicamente, almeno. La sua mente... non lo so, Merlino. Ho visto donne che erano state violentate in guerra, alcune in modo brutale. La maggior parte ha superato il trauma. Ma in vita mia ho visto solo due donne oggetto di una violenza cieca, trattate così per nessun motivo apparente. Nessuna è più stata la stessa.» Sentii la morsa del gelo all'imboccatura dello stomaco. «Che cosa vuoi dire? In che modo? Chi era stato? Lo stesso uomo?» «No, no, era successo a distanza di anni.» Si allontanò dal tavolo e dedicò la sua attenzione al fuoco nel piccolo focolare aperto, soffiando cautamente sulle braci e aggiungendo un ramo alla volta finché il fuoco tornò a bruciare allegramente. Io rimasi seduto a guardare Cassandra, che ricambiava il mio sguardo. Finalmente soddisfatto, Daffyd tornò a parlare con me. «Il primo era veramente pazzo. Completamente posseduto. Si buttò in uno strapiombo e si ammazzò e fu una liberazione. L'altro, anni dopo, non fu mai preso. Mai saputo chi fosse.» «Quanto tempo fa è stato, Daffyd?» «L'ultimo? Oh, ormai devono essere passati dieci anni.» «Hai detto che il primo era posseduto. Credi nella possessione?» Mi guardò severamente, flettendo un sopracciglio. «Chiunque non ci creda è uno sciocco.» «Allora credi nella malvagità.» Zia Luceia aveva detto che Remo era malvagio. «Certo che ci credo. Se credi nella bontà, ragazzo, devi credere nella malvagità.» Non mi sentivo a mio agio con quella sua vaga definizione della bontà contrapposta alla malvagità. Guardai di nuovo Cassandra. Era l'antitesi di tutto ciò che stavo cercando di affrontare. Scossi la testa nella ferma negazione di quello che Daffyd aveva appena detto. «No» dissi, «l'opposto di buono è cattivo, Daffyd. La malvagità va molto oltre la semplice cattiveria. È tutta un'altra cosa.» Daffyd mi fissava stranito. «Che cosa stai cercando di dire, Merlino?» Potei solo scrollare il capo. «Non lo so, Daffyd. Ma questo...» Feci un cenno verso la silenziosa ragazza sul letto. «Mi sembra che chiunque sia davvero malvagio non possa essere degno di vivere.» «Quante persone così, persone davvero malvagie, credi che ci siano a questo mondo, ragazzo?» «Davvero malvagie? Non so nemmeno questo, ma non possono essercene molte. Io non ne ho mai conosciuta una.» Qualcosa scattò nella mia memoria. «No, aspetta! Sbaglio. Una l'ho conosciuta. Una persona.» I miei ricordi ribollivano, e sgranavano una lunga serie di immagini collegate. «Quando Uther e io eravamo ragazzi, conoscemmo Lot, il figlio del duca di Cornovaglia. Lui e Uther combatterono, e tentarono reciprocamente di uccidersi. Non era una lotta tra ragazzi, Daffyd. Si affrontarono con le spade e rimasero feriti entrambi. Mio padre li divise prima che potessero uccidersi. Ripensandoci adesso, ricordo che Lot era malvagio... profondamente, incredibilmente perverso, fino in fondo, per il puro piacere di esserlo... cattivo in modo quasi inconsapevole, ma senza la grazia dell'inconsapevolezza, perché sapeva esattamente che cosa stava facendo.» «Mmh...! Provi le stesse cose nei confronti di Uther?» «Uther? Per gli dei, no!» Ero sinceramente scandalizzato. Daffyd sorrise appena. «Sono contento di sentirtelo dire, ragazzo. Lot di Cornovaglia, eh? Buffo, che tu abbia pensato proprio a lui. Non sei il primo che ne parla in quel modo. È un cattivo elemento, siamo d'accordo. Si fa chiamare re Lot adesso. Governa da quel forte che il suo vecchio padre si è fatto costruire dopo aver visto Camulod. Un posto notevole, dicono.» Il tono con cui aveva menzionato il forte di Lot mi incuriosiva. «L'hai visto? Il forte?» Si piegò su se stesso in uno sprezzante diniego. «No, mai stato da quelle parti. Ho cose migliori da fare con il mio tempo, io. Ma l'hanno costruito proprio in riva al mare, dicono, sul punto più alto di un'isola che è scogliere su tutti i lati. Nessun modo di prenderlo, dicono. È una roccaforte, non c'è dubbio.» «E ha un nome, questa fortezza?» Scosse la testa. «No, che io sappia, ma non mi interessa nemmeno, ragazzo. A ogni modo, è un luogo insolito. Forse lo vedrai con i tuoi occhi, un giorno.» «Forse, Daffyd, ma spero di no. Non sarei il benvenuto.» «Già» grugnì. «Oso dire che hai ragione. I conquistatori sono di rado i benvenuti, ovunque vadano.» «Conquistatori? Perché hai usato questo termine? Mi hai appena detto che è imprendibile.» «No, ragazzo» ribatté. «Stai iniziando a dimenticare tutte le lezioni che ti ho insegnato. Hai già dimenticato come usare le orecchie. Io ho detto che dicono che non c'è modo di prenderlo, ma chi lo dice? E comunque, se la gente vuole dare loro ascolto, chiunque essi siano, allora nessuno ci proverà mai e quel forte non verrà mai preso, e così sarebbe davvero imprendibile, non sei d'accordo?» Mi osservava. Annuii. «Credo di sì.» «Bene, allora, perché quello che ho detto, e quello che tu hai pensato che io avessi detto, non erano affatto la stessa cosa. Ma ti dirò un'altra cosa, e ascoltami bene: laggiù da quelle parti non c'è molta terra coltivabile, e se Lot di Cornovaglia è un maiale, o un re, grosso come dicono, presto o tardi si troverà sulla tua strada. Ha un popolo da nutrire, perciò arriverà più probabilmente presto che tardi. E quando arriverà - bada che non sto dicendo se arriverà dovrai insegnargli a stare al suo posto, ricorda quello che dico.» XII. Poche battaglie sono più infruttuose di quelle amare e silenziose che un uomo innamorato conduce con le poche parole a sua disposizione. Le odi che scrissi a celebrazione di Cassandra e della nuova vita alla quale mi introdusse erano pietose, ma io seguitavo a lottare, cieco di fronte alla verità: non esistono parole adatte a descrivere quello che provavo. Cassandra, invece, non aveva bisogno di parole. Il suo era un mondo senza parole, un mondo di totale semplicità nel quale i suoi sentimenti splendevano chiari attraverso i suoi occhi, e permeavano tutto il suo essere. Dopo quella prima occasione in cui mi sorrise, mi costrinsi a stare lontano dalla valle per un'intera settimana. Dovevo essere severo con me stesso, perché ogni giorno trovavo cento e una buone ragioni per andarci. Per sette giorni fui ossessionato dalla visione di quegli enormi occhi grigi. Quando tornai, le contusioni erano completamente svanite dal suo volto, e mi ritrovai a fissarla spudoratamente, e a chiedermi come avevo potuto giudicarla scialba e non attraente. Quella volta rimasi tre giorni, e i momenti più felici di quei giorni furono i suoi pasti, quando la nutrivo perché era ancora troppo debole per drizzarsi a sedere sul mucchio di pelli, e per mangiare senza aiuto. Mi guardava raramente e sembrava inconsapevole del mio costante scrutinio del suo viso, che per me era diventato ormai il più bello del mondo. Tornai ancora dopo una settimana e, pur essendo sempre molto debole, era tuttavia in grado di camminare. Da quel momento migliorò ogni giorno, e presto sparì ogni traccia delle lesioni che aveva subito. Sparì anche l'estrema malinconia che l'affliggeva da quando l'avevamo trovata accanto ai corpi di quelli che supponevamo essere i suoi genitori. Costituiva per me un'assoluta delizia. Era evidente che Daffyd l'aveva salvata. Lui l'aveva riportata alla vita, non solo dall'abisso di dolore per le offese subite, ma dal lutto che l'ammantava. E poi, mentre cavalcavo verso la valle un mattino di otto settimane dopo il suo ritrovamento, ebbi una sorpresa. Ero sempre assillato dalla necessità di variare il mio accesso alla valle. Quella volta avevo scelto la via più lunga, dirigendomi da Camulod verso nord, e voltando a est e poi a sud in un ampio arco, non appena ero stato al sicuro fuori vista dalle mura. Quell'approccio indiretto richiedeva due ore di viaggio in più rispetto all'alternativa più breve, e tendevo a servirmene solo in caso di bel tempo, poiché non seguiva nessun sentiero e attraversava diversi tratti di terreno depresso e paludoso che durante o dopo il brutto tempo avrebbero potuto essere impercorribili. Ma una volta intrapreso quel tragitto, non dovevo più preoccuparmi di non essere visto: ero lontano dai confini della fattoria più vicina, e la regione era talmente inospitale da costituire una ben misera attrazione per il visitatore casuale. A parte le zone depresse e paludose, il resto del percorso era caratterizzato da fitti boschi e distese di rocce. Solo vicino alle basse colline che racchiudevano la mia valle e il suo prezioso segreto, la terra si gonfiava dolcemente al riparo degli alberi, fino ad accogliermi tra pendii erbosi e vallate boscose poco profonde. Quel giorno il sole del primo mattino si era fatto caldo sulle mie spalle e sul dorso del mio cavallo, cullandomi e annullando i miei pensieri, distogliendo la mia attenzione dal paesaggio e concedendo alla mia cavalcatura di procedere a proprio piacimento. Ripresi bruscamente conoscenza intravedendo un subitaneo e fugace biancore che si spostava veloce nella valle alla mia destra. La mia reazione fu istintiva, nonostante l'immediata confusione dei pensieri. Tirai subito le redini, contrassi ogni muscolo per mantenere immobile me stesso e la mia cavalcatura mentre scrutavo la zona in cui avevo visto, o percepito, un movimento. Esposto sul fianco della collina, incapace di decidere la mia prossima mossa, ero sul punto di cedere al panico. Non distinguevo movimento alcuno nella valle, ma il battito frenetico del cuore mi pulsava nelle orecchie, e lottando contro l'irrazionale terrore della scoperta mi sforzai di controllare il respiro e la paura. Anche se fossi stato visto, riflettei, non era successo niente di irreparabile; ero a un miglio, quasi due miglia dalla mia destinazione, e potevo ancora scegliere fra tre direzioni, ognuna delle quali mi avrebbe portato lontano dalla valle nascosta. E mentre me ne stavo lì, in preda all'agonia, vidi sul fondo della valle una forma umana, vestita di bianco, che come un lampo si allontanava, protetta dal fitto fogliame. Scorsi solo una breve immagine del fuggitivo, e forse fu la velocità con cui scomparve alla mia vista che mi attirò all'inseguimento, giù per la collina a rotta di collo, con le redini allentate in modo che il cavallo scendesse il pendio secondo il suo discernimento. Raggiungemmo rapidamente il fondo, e puntai il cavallo in direzione del fuggitivo, lasciandolo libero di stabilire tra gli alberi una rotta facile e spedita, e concentrandomi nell'evitare i rami bassi. Una svolta a sinistra intorno al grosso tronco di una quercia ci condusse sul margine di un valleggio ripido e stretto, che cadde a precipizio sotto di noi quando il mio cavallo si lanciò su per la china, estendendo e gonfiando i muscoli fino a portarci venti e più passi al di sopra del fondo vallivo. Dove il terreno ridiventava pianeggiante tirai le redini, e perlustrai la fenditura che si apriva sotto di me alla ricerca della mia preda. Dopo il roboante fragore dei pesanti zoccoli del mio cavallo su rocce e sparse zolle erbose, non sentivo altro che il suo sonoro ansimare e il cigolio della mia sella e dei finimenti. Solo gradatamente divenni conscio del profondo silenzio. Nemmeno il canto degli uccelli disturbava la quiete assoluta, e nulla si muoveva. Stavo per voltare il cavallo e ridiscendere a cercare altrove, quando udii una specie di lontano brontolio provenire dall'unico grosso albero in quella piccola gola, a un centinaio di passi alla mia sinistra. Guardai in quella direzione e vidi uno spettacolo stupefacente. Avevo letto sui libri di mio zio di creature che vivevano in Africa sugli alberi e si arrampicavano così in fretta che sembravano volare da un ramo all'altro. Proprio una di quelle creature si parò davanti ai miei occhi, vestita con abiti umani, una corta tunica di un bianco immacolato e lucente. Naturalmente, non appena mi riebbi dalla sorpresa iniziale e i miei occhi si adeguarono alla distanza, mi accorsi che era un ragazzo, ma non avevo mai visto un ragazzo arrampicarsi in quel modo. Sotto il mio sguardo esterrefatto, si sollevò in piedi senza sforzo su un ramo robusto alto da terra, poi si rannicchiò, si raccolse carponi e si lanciò in un grande balzo fino ad afferrare un altro ramo più alto, si dondolò un poco e poi divaricò le gambe e le chiuse intorno al ramo e con un agile volteggio vi si sedette cavalcioni, a una vertiginosa altezza sul fondo roccioso della foresta. Senza nemmeno guardarsi attorno ripeté l'intera sequenza e continuò a salire, a volare sembrava, finché i rami del grande albero si fecero così vicini che poté usarli come i pioli di una scala, e praticamente corse verso l'alto fino a sparire del tutto tra il fitto fogliame sulla sommità dell'albero. La ragione mi diceva che era solo un ragazzo, ma quando lo persi di vista dovetti reprimere un brivido di superstizioso terrore, di paura antica e informe risvegliata dal ricordo di storie di driadi e spiriti della foresta. E poi, mentre ero lì seduto immobile, ridiscese, calandosi di ramo in ramo e di fronda in fronda come cadendo senza freno, eppure controllando e sincronizzando perfettamente ogni movimento e ogni salto così che di nuovo mi si accapponò la pelle, non più per paura ma per incredula ammirazione. Dalla biforcazione più bassa balzò destramente a terra, e scomparve tra i cespugli prima che mi svegliassi e spingessi il cavallo all'inseguimento. Come il tuono, io e il mio cavallo raggiungemmo il fondo della valle e ci buttammo a coprire la distanza che ci separava dal ragazzo in fuga, e intanto io mi domandavo chi potesse essere. Sbucammo al galoppo dal riparo di una folta macchia di arbusti e ancora costrinsi il mio cavallo ad arrestarsi, così repentinamente che scivolò a zampe dritte, e il posteriore quasi gli strisciò per terra mentre io mi ergevo sulle staffe sbalordito. Davanti a noi, la parete del burrone si levava in verticale per trenta passi e più, e, sul piano erboso alla base, il ragazzo si era fermato a fissare il dirupo che lo sovrastava. Prima che potessi fare un gesto il ragazzo saltò su e iniziò a inerpicarsi sulla parete di erba e sassi. Ci separavano non più di trenta passi e un leggero schermo di foglie, ma sapevo che non mi aveva né visto né sentito avvicinarmi, e non si era accorto di me. Affondai i calcagni nei fianchi del cavallo e allora, proprio mentre stavo balzando in avanti, il ragazzo smise di arrampicarsi e guardò di lato, permettendomi per la prima volta di vederlo in volto. Era Cassandra! Quella rivelazione mi sconvolse. Il suo nome mi salì alle labbra, incitai il cavallo, ma lei aveva già compiuto la sua scelta e diretto tutta la sua concentrazione sulla parete del dirupo e sulla scalata. Gridai, sapendo che non poteva udirmi. Agitai selvaggiamente le braccia, ma la sua concentrazione era assoluta. In men che non si dica aveva raggiunto il ciglio del dirupo, ed era sparita senza girarsi neppure una volta. Ma avevo avuto tutto il tempo di osservarla, e di chiedermi come avessi mai potuto, anche se fossi stato a cento passi, scambiarla per un ragazzo. Amaramente deluso dalla sua fulminea scomparsa oltre il ciglio del dirupo, conscio di non avere nessuna speranza di raggiungerla, e tuttavia traboccante di gloriosa euforia, mi sedetti sotto la parete rocciosa e pensai a lei: i muscoli scolpiti delle gambe lunghe e snelle sotto il gonnellino rimboccato e infilato nella cintura della tunica, e la forma del suo : corpo più volte fermo durante l'ascesa, il peso perfettamente distribuito, gli occhi che esaminavano la roccia in cerca dell'appiglio successivo, tutto di lei mi dava una dolorosa fitta alla gola. Che genere di ragazza era quella? Come e dove aveva imparato a fare quelle acrobazie? Da dove veniva? E dove sarebbe scomparsa, quando si fosse ripresa completamente da quell'esperienza atroce? Una cosa mi era spaventosamente chiara. Il suo corpo si era già ripreso completamente, e quel giorno non avevo visto indizi di altri danni, né alla mente né allo spirito. Alla fine mi diressi alla valle nascosta, con il cuore e i pensieri ancora in subbuglio, e mi fu stranamente difficile avvicinarmi alla casetta di pietra. Cassandra era lì, e c'era anche Daffyd. Quando entrai, Cassandra sollevò lo sguardo e mi fece un cenno di saluto, poi continuò a raschiare e conciare quella che mi parve la pelle di un coniglio. Si era tolta la tunica bianca e indossava il semplice abito di stoffa grossa che portava normalmente. Daffyd borbottò qualcosa, e anche lui continuò a lavorare a qualsiasi cosa che avesse richiesto quel pomeriggio la sua attenzione. Mi sentivo a disagio, anche se la concentrazione di entrambi mi lasciava libero di guardare Cassandra come meglio desideravo. I capelli sciolti le ricadevano sul viso, mostrando solo il profilo di uno zigomo. La morbida pienezza di un seno era allusione sufficiente a interferire con il mio respiro. La linea della coscia sotto l'abito era nitida e pura come la volta dell'arcobaleno. Mi sentivo colpevole e miserabile, e ancora oggi non so perché, e dì lì a poco presi congedo e tornai a casa in uno stato per metà di tristezza e per metà di intollerabile eccitazione. Sapevo che era guarita. Sapevo che l'amavo. E sapevo che non avevo modo di dirglielo, di corteggiarla, o di tenerla vicino a me. Un mattino, di ritorno da una parata antelucana, mi stavo dirigendo al mio alloggio quando vidi Daffyd venirmi incontro. Lo fissai perplesso, chiedendomi che cosa facesse a Camulod, così lontano dalla sua pupilla. «Daffyd» dissi, incredulo. «Che cosa stai facendo qui? Dov'è Cassandra?» «A casa, ragazzo! Nella valle.» «Da sola? Che cosa ti salta in mente?» «Mi salta in mente il lavoro che devo fare, e i doveri che ho trascurato.» «Che cosa? Che cosa significa?» Strizzò gli occhi e scosse la testa in un gesto di biasimo. «Merlino, ho detto che sarei rimasto con la ragazza finché avesse avuto bisogno di me. Adesso non ha più bisogno di me, e spero che invece altri abbiano bisogno. Mod e Tumac, tanto per cominciare. In queste ultime settimane mi sono disinteressato della loro istruzione. Saranno inselvatichiti come l'erica. Probabilmente dovrò batterli per farli rientrare nei ranghi.» Lo guardavo ancora con la bocca aperta; la gente si muoveva intorno a me, i calzari chiodati risuonavano sui ciottoli; finita la parata, i soldati si disperdevano. In cielo non c'era una nuvola, sarebbe stata una giornata calda. Un merlo cantava poco lontano, e io quasi bisbigliavo per la pressante necessità di rimproverare Daffyd senza che nessuno sentisse le mie parole. «Ma l'hai lasciata tutta sola là fuori?» Mi guardò come se avessi perso la ragione, e non fece nessun tentativo di abbassare la voce. «Fuori dove, ragazzo? Non è "fuori" da nessuna parte. Se ne sta acquattata al sicuro in una casetta di pietra con un focolare e un tetto robusto in una valle che è segreta come non lo è certo questo posto.» Costernato dal volume della sua voce, lo presi per un braccio e lo tirai da parte, in un angolo tra i muri di un edificio dove nessuno ci avrebbe urtati o sentiti, «Per l'amore di Gesù, Daffyd, tieni bassa la voce. Ricorda che c'è in gioco la vita della ragazza!» Liberò il braccio dalla mia stretta e sistemò le pieghe della lunga cappa, lanciando occhiate casuali ai passanti e deplorando l'irriguardoso utilizzo della preghiera di mia zia, che sulle mie labbra era diventata una bestemmia. «Per l'amore di Gesù, eh?» mormorò a denti stretti. «Io sono un druido, ragazzo. Che cosa vuoi che ne sappia dell'amore di Gesù? Ma la ragazza è ben nascosta. Nessuno andrà a disturbarla, tranne forse tu.» Si schiarì la voce e continuò: «É una ragazza forte, la tua Cassandra, e anche sana come un cavallo, adesso. Non è necessario avere cura di lei. Non più». Cambiò espressione e mi sorrise, stringendomi la spalla con una mano. «Là nella tua valle è felice, Merlino. Forse più felice di quanto lo sia da tempo. Chissà? Ha cibo e una pozza limpida per il pesce e per l'acqua e sa prendere in trappola i conigli meglio di me. É felice. Niente e nessuno la minaccia. Si aspetterà che tu vada a trovarla. Il resto dipende da te. Ricordati, però, che cosa ha passato. Adesso si fida di te, ma chissà che cosa pensa degli uomini? Capisci che cosa voglio dire? Se la tratti con gentilezza, e con dolcezza, farai di lei una donna eccellente e completa, ma corrile dietro come uno dei tuoi grossi stalloni in fregola e non mi riterrò responsabile per quello che le farai, o che lei farà a te. Rammenta, Merlino. Quella giovane donna è stata ferita in modi che tu e io non possiamo neppure immaginare, e tanto meno capire. Mi ascolti?» «Sì, Daffyd, ti ascolto. So che cosa vuoi dire. Sei certo che abbia abbastanza cibo?» «Cibo? Quella? Ruberebbe il miele alle api! Starà bene. La prossima volta che passi da quelle parti, portale della farina e un po' di sale. É tutto quello di cui ha bisogno. E non preoccuparti. Ha una casa che è il luogo ideale per lei. Lascia che se la goda per un poco e poi vai a trovarla. Ma stai attento, Merlino. Non ferirla.» Mi sentii offeso. «Credi che potrei?» «So che potresti, senza averne l'intenzione, perciò vacci piano. Adesso devo andare e, da come sei vestito, devi andare anche tu.» «No, ho finito. C'è stata una parata. Ho un po' di tempo libero prima di un incontro con mio padre.» «Allora vai per la tua strada, ragazzo, e lasciami andare per la mia.» Lo ringraziai ancora e lo guardai allontanarsi, poi tornai al mio alloggio, con la mente piena di un'unica verità: la donna che era diventata il cuore della mia esistenza era sola nella mia valle, ignota a chiunque al mondo a eccezione di Daffyd, Mod, Tumac, e mio padre, e mi aspettava. Amavo quella piccola valle segreta da tutta la vita, e ora era diventata la casa del mio amore e nulla avrebbe potuto essere più appropriato. Nel corso di quella mattina, le persone con cui ebbi a che fare dovettero chiedersi se fossi malato, dimentico com'ero del luogo in cui mi trovavo e di quello che stavo facendo. La mia valle e il suo prezioso segreto carpivano tutta la mia concentrazione. Non abbandonarono mai la mia mente, e un capriccio con il quale mi trastullavo da più di una settimana divenne realtà. Era la mia valle, il mio luogo sacro e segreto, con la sua cascata sommessa e guizzante e la sua pozza profonda, con i suoi scogli muscosi, l'erba verdeggiante e una superba barriera di alberi, annidata in mezzo all'anfiteatro delle colline, e sentivo che doveva avere un nome che riflettesse la sua pacifica solitudine e il suo mistico isolamento. La chiamai Avalon, come il favoloso luogo di leggende. Quello stesso giorno, poco dopo mezzogiorno, pieno di una quasi dolorosa impazienza che mi rendeva incapace di sopportare il tedio delle mie mansioni quotidiane, delegai i miei ultimi compiti a un subordinato e uscii da Camulod, e andai lontano a sud prima di dirigermi, compiendo un lungo giro, verso la mia valle e Cassandra. Sembrava che mi si fossero aggrovigliate le viscere quando raggiunsi l'ingresso della valle e iniziai a scendere tra le alte file di cespugli che fiancheggiavano il sentiero. Avevo trascorso il viaggio cercando di immaginare l'espressione che sarebbe apparsa nei suoi occhi alla mia vista. Avrebbe mostrato piacere o collera, o peggio ancora indifferenza? I dubbi mi spossavano. Invano tentai di convincermi che ero uno sciocco, e che mi comportavo come un imberbe ragazzino consumato d'amore. Ma la ragione non trovava posto tra speranze e paure. A volte vedevo il suo viso illuminarsi di piacere, e allora mi sentivo euforico e spensierato, ma per lo più la vedevo sfoggiare un'interminabile serie di cipigli, sguardi spenti e occhiate di riprovazione e di scontento. Ma tutta la mia agonia non era nulla in confronto alla disperazione che mi sopraffece quando raggiunsi il fondo della valle, perché la valle era deserta e abbandonata. Nemmeno un filo di fumo si levava dal comignolo per diradarsi sull'acqua, e su tutta la scena gravava quel senso di vuoto che rivela la totale assenza dell'uomo. Stupefatto e incredulo, sentii dentro di me un vuoto immenso risuonare di funebri rintocchi. Il cavallo, senza più la guida dei miei muscoli improvvisamente inflacciditi, avanzò piano verso la casetta, si fermò a pochi passi dalla porta, e chinò la testa a pascolare, mentre io fissavo disperato le muscose tegole rosse del tetto. Il rumore dell'erba strappata, amplificato dal pesante silenzio che mi circondava, era assordante. Con le gambe irrigidite, liberai i piedi dalle staffe e smontai, appoggiandomi al cavallo con tutto il mio peso prima di riuscire a raddrizzarmi e dirigermi alla porta della capanna. La porta si aprì lentamente al mio tocco, ed entrai nella luce fioca piena di ombre, così sicuro che fosse disabitata che quasi non vidi il panno disteso sul tavolino, sagomato dalle forme che copriva. Mezzo passo mi avvicinò al tavolo; sollevai il panno, e scoprii un piatto di legno, un coltellino affilato, una coppa di terracotta, una caraffa di vino, bassa e chiusa, un pezzo di pagnotta e una mezzaluna di salsiccia secca. Senza capire, mi chiesi perché, dopo essersi preparata il pasto, se ne fosse andata senza mangiare. Ci volle del tempo perché nella mia confusione si facesse strada l'idea che non era scappata, e che quel pasto attendeva il suo ritorno. La mia disperazione si tramutò all'istante in euforia, e spaventai il mio povero cavallo precipitandomi fuori dalla capanna e facendo rimbalzare la porta sui suoi cardini. Era lì, da qualche parte! Stordito dal sollievo mi misi a girare su me stesso come un ubriaco, rimirando la sommità delle colline come se potessi indovinare la sua presenza dall'aria che ci separava. Alle mie spalle sentii un pesce saltare nel lago, un tonfo forte e chiaro, mi voltai e vidi le increspature irraggiarsi dal punto in cui si era rituffato. Mentre guardavo, un altro tonfo infranse l'acqua a pochi passi dal primo, ma questa volta vidi che nulla aveva preceduto quel tonfo repentino e singolare, né un vorticare dell'acqua, né un lampo di colore, nient'altro che quel solitario, imprevisto, verticale impatto sull'acqua. Allora osservai e attesi, che cosa non lo sapevo. E poi colsi un movimento indistinto e i miei occhi fecero in tempo a mettere a fuoco la frattura, l'acqua spaccata da un sasso cadente! Qualcuno sull'altra riva lanciava ciottoli da dietro i cespugli. Guardai attentamente, con gli occhi bene aperti adesso, e vidi un movimento, e un altro sasso formare un arco altissimo e librarsi nel cielo prima di iniziare la caduta. Il sasso non aveva ancora colpito la superficie che già stavo correndo lungo la riva, immemore di corazza e gambali. Lei era là, dall'altra parte del lago, e si prendeva gioco di me. Feci il giro del lago e mi buttai nella densa vegetazione di alberi e cespugli, e allora scorsi un altro guizzo sul pendio sopra di me e udii quel che mi parve un gridolino di gioia e di esaltazione. Volevo cantare forte la mia esultanza, ma andai con determinazione alla carica del pendio, sapendo che avrebbe sentito il rumore e intuito la velocità del mio avvicinamento, e poi improvvisamente fui schiacciato dalla consapevolezza che non avrebbe sentito. In pochi minuti, attaccandomi a ogni passo ai polloni che crescevano fitti tra i pioppi tremuli e le betulle, fui prossimo alla sommità del ripido argine. Mi fermai e ascoltai con attenzione, ma non udii nulla. Il silenzio era assoluto. Procedetti con maggiore cautela. Un fagiano si alzò in volo da sotto i miei piedi, sorprendendomi tanto che scivolai, persi l'equilibrio e mi sedetti pesantemente, ruzzolando poi all'indietro fino ad appoggiarmi contro il tronco di una betulla. Questa volta udii distintamente un risolino femminile provenire da un punto sopra e davanti a me. Di nuovo mi gettai all'inseguimento, ma non vidi né sentii più nulla della mia preda, a eccezione dell'impatto violento ; di un sasso ben mirato contro il dorso della mia corazza, che mi fece ridiscendere dalla cima di una collina e mi indirizzò verso i cespugli sul pendio alle mie spalle. Un'ora dopo, frustrato e arrabbiato, rinunciai alla caccia e ritornai alla capanna. Il mio cavallo pascolava sempre vicino alla porta, ma sella e coperta erano state tolte, e un fumo leggero saliva dal comignolo. Dominando l'orgoglio e la dignità offesi, tirai un bel respiro e socchiusi piano la porta. La capanna era ancora vuota. Un piccolo fuoco ardeva nel braciere del focolare. Cassandra aveva mangiato. Piatto, coltello, coppa e caraffa erano stati accomodati a mio beneficio sul lato del tavolo più vicino a me, insieme ai resti del pane e della salsiccia. Mangiai lentamente, soffocando il mio risentimento, deciso ad aspettarla con pazienza. Ma non venne. Quando il giorno iniziò a cedere il passo alla sera mi arresi e uscii a sellare il cavallo. Un mazzolino di fiori gialli, tenuti insieme da uno stolone, era posato sul sedile della sella. Lo presi e lo annusai, respirando a fondo il profumo fragile e dolce, poi lo misi da parte per sellare la mia cavalcatura. Lo raccolsi prima di risalire in sella e poi indugiai un poco, strofinandomi sulle labbra i petali setosi. Quando diressi il mio cavallo verso casa mi sentivo in pace, soddisfatto sotto molti aspetti sebbene senza alcuna prova: Cassandra era vicina, e mi osservava; era autosufficiente e cercarla sarebbe stato inutile; si sarebbe presentata da sola quando fosse stata pronta a farlo, indipendentemente dai miei desideri; non era maldisposta nei miei confronti; e non aveva intenzione di lasciare la valle. Fischiettai per tutta la strada fino a Camulod. Nulla di ciò che ho da dire renderà mai giustizia all'amore, alla gioia e all'intimo splendore degli anni che seguirono. In quei primi giorni, Cassandra diventò la mia vita e tutto quello che dalla vita volevo, e io ero suo e tutto quello di cui lei sembrava aver bisogno. Ma la responsabilità è un fardello irrinunciabile dell'età adulta; anch'io avevo il mio fardello, e la mia coscienza non mi permetteva di ignorarlo. Cassandra e Avalon erano la mia vita segreta e tutto il mio mondo privato, ma c'era anche il mondo di Camulod, e non potevo trascurarlo. Cassandra sapeva sempre quando dovevo farvi ritorno, e non tentò mai di trattenermi, ma ogni volta che dovevo lasciarla nella nostra valle di Avalon, la separazione diventava per me più difficile. Tentai di portarla con me solo una volta. Salii a cavallo e la sollevai davanti a me, e quando la cinsi con un braccio intorno alla vita, la visione di Uther che la teneva nello stesso modo mi fece sussultare. Quel giorno avevo giurato a me stesso che avrei scoperto la verità, perché Uther era tornato a Camulod e io volevo che il confronto avesse luogo. Cassandra si adagiò tra le mie braccia quando il cavallo risalì l'angusto sentiero alberato, e li rimase, appagata, finché non lasciammo il riparo degli arbusti, oltre il ciglio della valle che celava la sua casa. Quando vide le torri di Camulod in cima alla collina, a miglia di distanza al di là della vallata, e si rese conto che proprio lì ero diretto, si irrigidì, afferrò le redini e fece fermare il cavallo. Con dolcezza allontanò il braccio che le stringeva la vita, e scivolò agilmente a terra, dove rimase con il viso rivolto verso di me. Sorpreso, e leggermente contrariato, le feci cenno di montare a cavallo, che per me era importante, ma mi bastò un'occhiata a quel suo sguardo calmo e inflessibile per convincermi di ciò che avrei dovuto sapere. Cassandra non desiderava andare a Camulod, e nemmeno vedere le sue torri in lontananza sulla collina. Il mio cuore era pieno d'amore per lei, e di vergogna per il significato che Camulod aveva assunto ai suoi occhi. Decisi allora che la colpa o l'innocenza di Uther non erano importanti. Era accaduto in un'altra vita. Se l'avessi messa a confronto con lui in quel momento, e fosse stato colpevole, avrei strappato la crosta da una ferita appena risanata. Se invece non fosse stato colpevole l'avrei comunque inutilmente costretta a rivivere quell'esperienza, e forse l'avrei perfino messa pericolosamente vicino al vero criminale. Cassandra non meritava nulla di tutto ciò. Smontai e lasciai che il cavallo brucasse a lato del sentiero, e abbracciati ripercorremmo il sentiero tortuoso e segreto fino ad Avalon. Mentre camminavamo insieme lungo il sentiero mi si agitò nella mente un altro pensiero, impuro e già formato. Se, come ormai ero quasi giunto a credere, Uther era innocente di qualsiasi violenza commessa ai danni di Cassandra, non avevo alcun desiderio di esporre lei a lui, o lui a lei. Quando la giudicavo brutta, lei era affascinata dal mio galante cugino e a me non importava. Adesso che mi ero perduto nella sua bellezza, non potevo sopportare l'idea di vederla guardare Uther come aveva fatto un tempo. Come ero immancabilmente solito fare quando lasciavo la valle, guidai il cavallo dietro la collina, tenendola tra me e il forte e facendo il giro da sud-est. Aggiungevo così un'altra ora a un viaggio di un'ora, ma ero più che mai determinato a non farmi seguire e a non farmi vedere uscire da Avalon. Quel giorno avevo completato la deviazione, e mi stavo avvicinando all'ultimo boschetto prima della valle aperta, quando udii un suono che mi sconvolse e che mi fece spingere il cavallo a un galoppo sfrenato. Mio padre sapeva sempre dov'ero quando non ero a Camulod, e avevamo concordato un segnale per cui potesse convocarmi immediatamente in caso di bisogno. Intorno alla pianura di Camulod c'erano tre alte colline. Entrambi sapevamo che solo una mi interessava, ma non volevamo che si sapesse che-mi trovavo sempre vicino allo stesso punto, e perciò in caso di emergenza avrebbe inviato un cavaliere in cima a ognuna delle tre colline, e ogni cavaliere avrebbe portato con sé una di quelle pietre attaccate a una corda che lanciavano uno strido acutissimo e di cui Vegezio Sulla si era servito per zittire un Consiglio rumoroso molto prima della mia nascita, quelle pietre fischianti o sibilanti che i barbari oltre il Reno usavano come missili. Il segnale non era mai stato utilizzato prima, e non lo fu mai più, ma quando lo udii ero già a più di due terzi della strada verso il forte. Affrontai subito al galoppo la strada che saliva la collina, e salendo incrociai i soldati che scendevano in squadroni e truppe a unirsi ai ranghi dell'esercito che si stava radunando sul grande campus, il terreno per le esercitazioni ai piedi della collina. Il fatto che dalla corte scendessero già divisi in formazione significava che qualsiasi fosse la causa di quel tumulto doveva essere gravissima. Portai il cavallo sul pendio, lasciando la strada agli squadroni di soldati, e continuai a salire; alla mia destra vidi la cavalleria avvicinarsi dalla villa e dalle fattorie confinanti. Mio padre era già in riunione con Uther, Tito, Havio, Popilio il centurione anziano della fanteria, e parecchi altri, tra i quali riconobbi Gwynn, il capitano degli arcieri di Uric. Si voltarono tutti al mio ingresso nell'Armeria, e vidi che tutti erano completamente equipaggiati per la battaglia. Malgrado la tensione del momento notai che Uther, che mi dava le spalle quando entrai, indossava un nuovo mantello rosso con un drago imponente ricamato in oro, e capii subito a chi apparteneva il grande stendardo nuovo che avevo visto fuori nella corte. «Che cosa succede?» chiesi attraversando la stanza. «Merlino!» Il sorriso di Uther era il sorriso che avevo sempre conosciuto e amato. «Torni per magia! Dove sei stato?» «A cavalcare» risposi seccamente. «Padre?» Mio padre fece un brusco cenno di saluto. «Ci attaccano... in doppia forza, sembra. Il nostro allevamento è stato saccheggiato. I cavalli rubati. Un attacco da nord, dall'estuario del fiume - Gwynn ci ha dato notizia di una flotta che risale la corrente - e un attacco da sud e da ovest.» «Sud e ovest?» Guardai Uther. «Ma è...» «Sì, cugino» concluse Uther per me. «Il nostro amico d'infanzia, Lot di Cornovaglia. A quanto pare la Cornovaglia non è più abbastanza grande per lui.» Ricordai le parole pronunciate da Daffyd solo pochi mesi prima. «Che cosa cerca?» «Quello che cerca e quello che troverà sono due cose alquanto differenti.» Mio padre ci interruppe entrambi battendo di piatto la lama della spada sul tavolo. «Signori! Abbiamo del lavoro da fare, e non c'è tempo per chiacchiere oziose. Caio, Gwynn dice che a nord è approdata una flotta di più di cento galee.» «Cento!» Ero perplesso «Ma significa più di tremila uomini!» «Grazie, ce n'eravamo accorti.» Tacqui, e mio padre continuò. «Gwynn pensa che siano Iberni. Chiunque siano, non avrebbero potuto scegliere un momento peggiore per attaccarci. Abbiamo già sostenuto pesanti perdite nel sud-ovest. L'esercito nemico conta armeno quattrocento uomini, e possiede una cavalleria abbastanza forte da invadere le fattorie più decentrate e rubare le nostre mandrie di cavalli.» «Come lo sappiamo?» Speravo di non sentire quello che mi disse. «Perché due dei nostri uomini sono sopravvissuti e ci hanno informato.» «Due? E basta?» «E basta. Gli altri sono tutti morti.» Non potevo crederci. «Padre, avevamo più di duecento uomini di stanza laggiù!» «Era ieri, Caio. Oggi non ne abbiamo alcuno. In qualsiasi modo ci sia riuscito, Lot ha sferrato un attacco di sorpresa nell'oscurità prima dell'alba. Da quello che mi hanno detto i superstiti, i nostri uomini sono stati massacrati prima che avessero il tempo di reagire.» «Come hanno fatto i due superstiti a scappare?» «Non sono scappati. Uno era diretto al campo principale con dei dispacci per me. L'altro tornava da una visita alla madre morente. Si sono incontrati sulla strada verso ovest e hanno proseguito insieme. Sono arrivati in vista del campo poco dopo il sorgere del sole e hanno visto che cosa era successo.» «Quanti nemici hanno contato?» «Approssimativamente quattrocento, tutti a cavallo e pronti a ripartire, nella nostra direzione.» «I nostri uomini sono stati visti?» «Pensano di no.» Passai in rassegna i volti dei miei compagni. «Qual è il nostro piano?» «Non abbiamo tempo di preparare nulla di troppo elaborato. Uther e Havio gli andranno incontro con cinquecento soldati a cavallo. Affronteranno l'esercito di Lot come e quando se lo troveranno di fronte. Sarà la nostra cavalleria disciplinata contro la loro mancanza di disciplina.» Feci una smorfia. «Speriamo! Avrei detto che ci voleva una manovra ben disciplinata per sorprendere il nostro campo. Chi era al comando?» «Lucio Sato.» «Come pensavo. Era un uomo in gamba.» La mia mente era completamente assorta nella comprensione della logistica di quello che ci aspettava. Alla fine annuii, soddisfatto perché sapevo che cosa fare. «Allora Uther e Flavio affronteranno gli uomini di Lot a sud- ovest. E gli altri? A nord? Quanto tempo abbiamo?» In risposta mio padre guardò Gwynn. Il gigantesco celta si strinse nelle spalle. «Abbiamo sfiancato i cavalli per arrivare là, e quando siamo ripartiti la flotta era ancora in acqua. Non possono essere sbarcati prima di ieri pomeriggio. Significa che non possono arrivare qui prima di domani.» «Vuol dire che non li avete visti sbarcare? Allora come sappiamo che hanno intenzione di attaccarci? Possono essere sbarcati sulla costa settentrionale dell'estuario. Forse cercano ancora le miniere d'oro.» «No.» Gwynn scosse enfaticamente la testa. «Ci abbiamo pensato. Se gli Scoti fossero venuti in questa direzione, sarebbero stati accesi i fuochi di segnalazione. Abbiamo visto i fuochi questa mattina lungo il tragitto.» Mi rivolsi a mio padre. «E allora?» «Partiamo immediatamente. Se tutti e tremila vengono in questa direzione, li bloccheremo nella valle a quindici miglia a nord di qui, quella con il pantano. È una trappola naturale. Li lasceremo entrare e gliela chiuderemo addosso.» Si girò verso Uther e Flavio. «Voi due potete andare. Buona fortuna e che Mitra, il dio dei soldati, cavalchi con voi.» «Aspettate!» Li fermai prima ancora che facessero il saluto. Si voltarono tutti e due a guardarmi. «Padre, perché mandi solo cinquecento uomini?» «Contro quattrocento? Perché sono abbastanza.» «Non sono d'accordo. E se Uther ci pensa onestamente, capirà perché. Sono in quattrocento e procedono rapidamente. Il loro morale è alto, ricordate che hanno già trucidato un contingente dei nostri.» Mio padre corrugò la fronte. «Che cosa stai cercando di dire, Caio?» «Io non sto cercando di dire niente. Io credo che dovremmo mandare con Uther e Flavio anche i duecento di Tito. Settecento contro quattrocento. Diamo agli uomini di Lot un assaggio della nostra superiorità numerica. E poi lasciamo che provino a combattere contro la nostra tattica sul campo. Annientiamoli adesso che ne abbiamo l'opportunità. Non sanno che noi sappiamo del loro arrivo. Insegniamo loro a non invadere la nostra Colonia. Annientiamoli, padre, adesso!» Uther intervenne, cupo in viso. «Possiamo farlo con le truppe che abbiamo. Non ce ne servono altre.» «Sii ragionevole, Uther» scattai. «Dimentica la gloria, e pensa ai rischi! Quella gente è pericolosa. Se Gulrhys Lot si è alleato con gli Scoti iberni non possiamo permettere a nessuno dei suoi uomini di fuggire. Prendi duecento uomini in più e distruggilo.» Uther guardò mio padre, che mi rispose in sua vece. «Capisco la tua obiezione, ma avremo bisogno di quei duecento uomini a cavallo su a nord.» «No, padre, non ne avremo bisogno. Unendo i tuoi uomini e i miei abbiamo sempre quattrocento cavalieri. Se vuoi intrappolare gli Scoti nella valle, possiamo portare i nostri quattrocento uomini alle loro spalle e spingerli incontro alla fanteria appostata. Gli Scoti non hanno cavalli. Possiamo nascondere duemila e più soldati appiedi tra gli alberi ai lati della strada che esce da quella valle, e metterne un altro migliaio ad aspettarli quando supereranno la collina dall'oro lato. Possiamo attaccarli di fronte, alle spalle, e sui fianchi contemporaneamente. Se arriviamo là in tempo!» Gli occhi di mio padre mandavano lampi. «Hai ragione, Caio!» Presa la decisione, si rivolse a Tito. «Tito, prendi il comando assieme a Uther e Flavio. Tra tutti e tre, spazzate via Lot dal vostro cammino. Noi porteremo gli altri nella valle su a nord. E adesso «moviamoci, signori, non abbiamo tempo da perdere.» Mentre uscivamo dalla stanza, nella corte esterna le trombe iniziarono a squillare. Mio padre teneva per il braccio il grande Gwynn e gli parlava animatamente. Mi fermai accanto a loro. «Padre, io mi devo armare. Ti raggiungerò nella corte.» Mi fece un cenno di assenso e io mi girai per uscire dalla stanza, e allora esitai e guardai a terra. Ero in piedi sull'asse più corta del pavimento, l'asse che celava Excalibur. Sentii un brivido improvviso al pensiero di portare in battaglia quella spada lucente. «Che cosa c'è, Caio?» La voce di mio padre era impaziente. «Niente, padre.» Ripresi a camminare. «Mi era venuta in mente una cosa, ecco tutto. Niente di importante.» Quando mi precipitai fuori dal mio alloggio, cercando di allacciarmi il mantello intorno al collo, mio padre e gli ufficiali anziani erano tutti a cavallo. Corsi al mio cavallo, un enorme morello fresco e riposato, e avevo già un piede nella staffa quando mio padre mi chiamò. Mi voltai a guardarlo. «Un momento, Caio.» Spinse il suo cavallo verso di me. «Volevo dirtelo allora, ma ero distratto e me ne dimenticai. Un giorno, circa un mese fa, eravamo in piedi faccia a faccia, e stavamo discutendo qualcosa, e mi accorsi che dovevo quasi alzare gli occhi per fissarli nei tuoi...» Sorrise, e nel suo volto lessi amore e orgoglio. «Quasi, ho detto. Intendimi bene. Non ho mai dovuto alzare gli occhi per guardare in faccia nessuno, a parte quand'ero bambino, ma il fatto è, figlio mio, che ormai sei alto, e grande e grosso, quanto me.» Fece un cenno a qualcuno, e vidi un soldato avvicinarsi a me con un ampio mantello nero da guerra di traverso sulle braccia. «Domani avremmo fatto una cerimonia» continuò mio padre, «ma questo è un momento buono come un altro. Stendardi nuovi per te e per Uther. Il suo è un drago d'oro, il tuo è questo.» Il soldato che reggeva il mantello lo aprì con uno svolazzo e me lo presentò. La fodera interna era bianca, come per il mantello di mio padre, ma sull'esterno nero era disegnato in sfarzosi ricami d'argento un enorme orso rampante, con le zampe anteriori levate a mostrare i poderosi artigli. Era magnifico. Non trovavo parole, perché mio padre e io avevamo quasi litigato poco tempo addietro a causa di una creatura come quella, lui arrabbiato perché affrontandola avevo messo avventatamente in pericolo la mia vita, e io perché voleva sminuire la mia vittoria solitaria sul mostro. Quello era un ramo d'ulivo. «Indossalo» gridò mio padre. «I nostri nemici devono imparare a temerlo prima possibile.» Tra uno scroscio di risate slacciai il mio semplice mantello, e il soldato mi aiutò a indossare quello nuovo. Quando lo affibbiai, i soldati nella corte levarono una possente acclamazione e io mi sentii maestoso. Montai in sella e al mio fianco apparve un altro soldato con uno scudo decorato con un orso d'argento, e una lunga lancia dall'asta nera. Li presi e mi sedetti eretto e fiero sul mio grande morello. Mio padre alzò il braccio e i cavalli scalpitarono, e si avvicinò un altro soldato, portando il mio nuovo stendardo nero e argento. Il generale Pico abbassò il braccio, le trombe squillarono, e uscimmo a cavallo dai cancelli di Camulod, ancora una volta diretti in guerra. Dalla strada fuori dai cancelli dominavamo la pianura sottostante, dove i nostri tremila soldati a piedi stavano già avanzando in coorti di cinquecento uomini ciascuna. La polvere ci offuscava la vista, ma sapevamo tutti di assistere a un fatto fenomenale: il più numeroso esercito che la nostra Colonia avesse mai radunato per un attacco offensivo. Avevamo duecento uomini da vendicare, e non volevamo fallire. Libro Terzo RAPACI XIII. Dal mio posto di osservazione al limitare del bosco vidi da lontano il mio decurione esploratore uscire da un folto di cespugli e farmi cenno. Parlai da sopra la spalla. «Ecco il segnale. Sono passati. Andiamo.» Spinsi il mio cavallo al passo lungo la valletta simile a una gola che ci aveva nascosti tra due creste. Dietro a me, quattrocento uomini cavalcavano in doppia fila. Attraversai l'ampio sentiero battuto dagli Scoti iberni e contai cento passi prima di voltare il cavallo a sinistra verso il ripido pendio che saliva fino alla cresta. I miei uomini si allinearono a sinistra in attesa del mio comando. Guardai la sommità della cresta davanti a me e contai ancora fino a cento, lentamente. Sapevo che cosa c'era dall'altro lato della cresta e non volevo compromettere troppo presto la nostra posizione. Finalmente diedi il segnale, spingemmo i cavalli su per il pendio e arrivammo sulla cresta che sovrastava la valle. In quattrocento, una doppia fila di uomini e cavalli, duecento per fila, occupavamo adesso la strada che gli Iberni avevano seguito fino in fondo alla valle. Mi fermai, accarezzando il collo del cavallo e rimirando la scena che si stendeva davanti a me. La maggior parte delle valli in quella regione si allungava da est a ovest, allargandosi verso la costa. Eravamo rivolti a sud in una valle che invece si approfondiva allontanandosi dalla costa verso l'interno. Era larga circa due miglia dal lato in cui ci trovavamo fino alla sommità della cresta opposta. Una fitta foresta la ostruiva all'interno verso est e copriva il pendio della collina di fronte a noi, ma sul nostro lato la collina era spoglia e verde, come il fondo della valle, che si levava gradatamente in direzione del mare alla nostra destra rastremandosi poi tra le alte scogliere. Era il fondo della valle che ci aveva fatto scegliere quel posto per la nostra azione; una trappola mortale, come aveva detto mio padre. La strada attraversava perpendicolarmente la valle e proseguiva verso sud, da cresta a cresta, e più di mezzo miglio correva lungo il fondo pianeggiante della valle, fiancheggiata su ogni lato da erba dall'aspetto innocente che copriva acquitrini infidi e profondi capaci di inghiottire una truppa di cavalieri e i loro cavalli senza lasciarne alcuna traccia. Sull'altro lato di quel tratto pianeggiante, la strada ricominciava a salire verso sud, attraverso alberi sempre più fitti che la assediavano da ogni parte fino a farla somigliare a una galleria. Dal punto in cui ero seduto a cavallo non vedevo nessun segno dei duemila uomini che avevamo nascosto tra gli alberi. Adesso il tempismo era cruciale. Prima che ci muovessimo, i nostri avversari dovevano avere superato il punto di non ritorno. Dovevano essere circondati dagli acquitrini, in modo che quando li avessimo attaccati alle spalle non avrebbero potuto disporsi su una linea di difesa. Volevamo indurli al panico. Ma gli acquitrini erano nemici nostri quanto loro. Dovevamo fermarci prima degli acquitrini, e prima ancora dovevamo far correre quegli Iberni lungo la strada davanti a loro e in mezzo agli alberi con i duemila uomini nascosti, e fuori dalla valle dove mio padre aspettava con altri mille uomini per ricevere quelli che fossero sfuggiti alla trappola. Levai alto il braccio con lo scudo e attesi il momento propizio, godendo la tensione dei muscoli del braccio e della spalla. L'esercito nemico era un grosso bruco nero sulla strada sotto di noi; più di metà era già sul tratto che attraversava gli acquitrini. Abbassai il braccio, squillarono le trombe, e avanzammo al passo. L'effetto fu istantaneo: quelli della retroguardia che udirono le nostre trombe si girarono e ci videro arrivare, e nonostante il rumore della nostra avanzata li sentimmo gridare e avvertire gli uomini che li precedevano, e vedemmo il bruco dimenarsi terrorizzato. Rompemmo il passo per un piccolo galoppo, e la nostra linea posteriore si spostò tra gli uomini della prima linea formando una solida barriera. Nella retroguardia nemica apparvero segni di effettivo disordine: gli uomini avevano aumentato il passo, incalzando e urtando quelli più avanti. Ma non tutti erano in preda al panico. Alcuni uomini si staccarono dalla colonna e iniziarono a organizzare linee di difesa, ma era troppo tardi. La mia scelta del tempo era stata perfetta. Erano negli acquitrini. Le linee che cercavano di allargarsi sui fianchi si dibattevano nel fango, gli uomini scivolavano e cadevano impotenti, risucchiati dalla palude. E allora li mettemmo in rotta. Avevo ordinato ai trombettieri di suonare senza posa, e in quel momento i miei uomini iniziarono a urlare. La velocità della nostra avanzata era andata costantemente aumentando, ed eravamo a meno di trecento passi dalla retroguardia nemica, e a circa duecentocinquanta passi dagli acquitrini. Non c'era un solo uomo dell'esercito avversario che non sapesse che eravamo alle loro spalle. La crescente pressione da dietro si trasmetteva visibilmente alla colonna larga non meno di sei uomini e lunga cinquecento. Lo spazio tra gli uomini in marcia diminuì fino a sparire, e l'avanguardia ruppe i ranghi e corse via dalla calca, diretta all'apparente salvezza di un'altra valle che si apriva tra gli alberi in fondo alla strettoia. Tutta la colonna era in precipitosa fuga quando fermai i miei cavalieri appena prima degli acquitrini. Rimanemmo lì seduti a guardare l'ondata frangersi e spezzarsi sulla cresta della collina, dove i nemici in fuga si trovarono di fronte due coorti romane riunite in manipoli pronti ad accoglierli. Mentre l'esitazione fatale li spingeva in un mucchio, i nostri uomini nascosti li colpirono da entrambi i lati. Militarmente, suppongo che sia stato un grande successo. Fu un massacro spaventoso, perché il nemico, ammassato sulla strada, era impossibilitato a rispondere all'attacco combinato dei nostri uomini che sbucavano dai boschi. Noi, la cavalleria, eravamo serviti allo scopo. Adesso dovevamo solo osservare e aspettare eventuali tentativi di ritirata nella nostra direzione. All'inizio ci furono una dozzina, forse una ventina di uomini che ripiegarono dalla galleria della morte che quella strada era diventata. Quando videro che li aspettavamo si fermarono. Ma non erano in una posizione di immediato pericolo, e il loro numero crebbe fino a circa duecento, ammassati in un grande gruppo sulla strada, a mezza via tra noi e i boschi. Dopo un poco, i fuggitivi iniziarono ad arrivare in numero sempre minore, fino a cessare completamente. Invece di affrontarci, alcuni tentarono disperatamente di scappare attraverso gli acquitrini che fiancheggiavano la strada, ma l'uomo che andò più lontano fece meno di cento passi prima di cadere per l'ultima volta. Portava sgargianti colori, rosso e verde, ma quando svanì non era altro che un grumo nero. Mi rivolsi a Catone Achmed, il mio luogotenente. «Quanti credi che siano?» «Due, forse trecento. Difficile contarli, comandante.» «Diciamo trecento. Su tremila.» Li guardai, rammentando Publio Varro. «Sei cristiano, Catone?» «Sì, comandante, a Camulod.» «Che cosa vuoi dire?» Lo fissai. «Non qui?» Sorrise, imbarazzato. «Mitra è il dio dei soldati, comandante. Non mi ha mai abbandonato in battaglia.» «Capisco. Il cristianesimo può essere scomodo quando si tratta di uccidere. Talvolta penso che i druidi abbiano ragione. I loro dei non sono così permalosi. Sembrano più vecchi, convivere con loro è più semplice.» Ricordai che Publio Varro aveva descritto il proprio dilemma di fronte a tre iberni legati su una spiaggia sassosa. Erano indifesi, ma cattivi e pericolosi. Ucciderli sarebbe stato un omicidio, secondo la fede cristiana, ma se li avesse liberati avrebbero ucciso altre persone, e non poteva portarli con sé. Io ne avevo di fronte trecento, adesso, e non avevo arcieri appostati in cima al dirupo che mi sollevassero dalla responsabilità di compiere una scelta. «Chissà se la Chiesa cristiana vanterà mai dei soldati tra le sue schiere?» Catone mi guardò come se fossi impazzito. Non aveva idea di che cosa mi passasse per la mente. «Catone» continuai, «questi uomini ci affronteranno. Non voglio ucciderli, ma non possiamo prendere trecento prigionieri.» «Allora lascia che combattano, comandante.» «Potrebbero non avere voglia di combattere. A vederli, non si direbbero granché belligeranti.» «Prendili come schiavi, allora.» «A Camulod? Non abbiamo schiavi, e non ne abbiamo bisogno. Gli schiavi sono una malattia. Richiama all'attenzione i trombettieri.» Anche l'assassinio è una malattia, mi diceva la mia mente, e uccidere questi uomini sarebbe un assassinio. Anche se decidessero di combattere, sarebbero morti prima ancora di iniziare. Mi chiedevo quanti ne fossero usciti dall'altra parte dei boschi, e come se la stessero passando. Un unico squillo di tromba mi diede l'attenzione di ogni uomo. Alzai la voce. «Al prossimo segnale, vi disporrete intorno a me in un cerchio, aperto verso gli acquitrini. Quegli uomini entreranno nel cerchio. Lo voglio profondo un uomo. Se decidono di combattere, un uomo ogni due dalla mia sinistra e dalla mia destra comporrà immediatamente tre formazioni a punta di freccia, una dietro di me, una dietro al luogotenente Catone e una dietro al luogotenente Maripone. Che questi uomini si facciano riconoscere ora.» Mentre in un rimescolio di interesse i soldati si contavano a partire dalla mia sinistra e dalla mia destra, io girai il mio cavallo, chiedendo a Catone e a Maripone di seguirmi, e tornai indietro fino a essere settanta passi buoni dal punto in cui la strada emergeva dagli acquitrini sulla terraferma. Feci cenno al trombettiere e un altro squillo diede inizio al comporsi delle formazioni secondo i miei ordini. «Maripone» dissi, «voglio che tu ti metta qui alla mia destra, a metà tra me e la fine della linea. Prendi posizione trenta passi indietro rispetto al cerchio. Catone, fai lo stesso alla mia sinistra.» Feci un altro cenno al trombettiere, e un altro squillo riportò a me l'attenzione di tutti. Alzai di nuovo la voce. «Quando le punte di freccia saranno formate, due squilli saranno il segnale per gli uomini ancora rimasti nel cerchio di indietreggiare immediatamente e di mettersi in formazione dietro alla mia punta. Voglio una formazione compatta, quattro ranghi di cinquanta uomini. Quando il blocco sarà disposto, muoverò la mia formazione a destra, sgomberando il terreno. È chiaro?» Li vidi annuire. Avevano capito. Alzai ancora di più la voce. «Voglio intimidire quegli uomini, ma non combatterli a meno che non ci siamo costretti. Se tentano di attaccare una sezione del cerchio durante la formazione delle punte di freccia, quella sezione indietreggerà e cercherà di evitarli senza permettere loro di fuggire. Ricordate che sono appiedati. Dovranno corrervi dietro. Li aspetteremo qui. Senza parlare. Senza muoverci. Che vedano la nostra disciplina.» Mi rivolsi al soldato che era dietro a me, alla mia destra, e reggeva il mio stendardo. «Vieni con me.» Spinsi il mio cavallo fino davanti al cerchio e lì mi fermai. Nel pugno d'uomini alla testa del gruppo sulla strada c'era del fermento. Alla fine un uomo enorme, che superava di tutta la testa e le spalle i suoi compagni, si staccò dagli altri e avanzò con passo deciso verso di me. I suoi compagni lo seguirono, e io rimasi ad aspettarli. L'uomo in testa al gruppetto camminava con fare altezzoso, e quando fu più vicino vidi che era sbarbato. La cosa mi sorprese, perché gli esponenti del suo popolo che avevo incontrato in passato portavano barbe intere o lussureggianti baffoni. Quando fu più vicino ancora, e vidi perché non aveva peli sul viso, la sorpresa si mutò in sconcerto. Era solo un ragazzo! Un ragazzo gigantesco, ma per età pur sempre un adolescente. Intorno a lui aleggiava un barbarico sfarzo: indossava una tunica gialla bordata di rosso, il torace massiccio era protetto da una corazza di bronzo, e gambali di pelliccia gli avvolgevano i polpacci robusti; al braccio sinistro, sopra al polso, portava un bracciale d'oro battuto, e il torchio d'oro di un capo celtico gli adornava il collo. Una spada alquanto lunga pendeva da una cinghia buttata a tracolla sulla spalla destra. Quando raggiunse il confine degli acquitrini tra le punte dell'anello formato dai miei uomini, si fermò e percorse con lo sguardo il cerchio aperto, da sinistra a destra, prima di riportare gli occhi su di me. Il suo volto era inespressivo. Gli uomini alle sue spalle si erano fermati insieme a lui. Nessuno muoveva un muscolo. Alla mia destra un cavallo sbuffò forte e scalpitò, morso da un insetto. Il silenzio si prolungò, e poi il ragazzo imberbe allungò una mano dietro a sé e tolse dalla tracolla un'ascia di guerra. La roteò piano tenendo la lama nella destra e afferrò l'impugnatura con la sinistra, dietro la nuca. Avanzò ancora, e si fermò a circa dodici passi da me, mentre i suoi uomini si aprivano a ventaglio formando un semicerchio opposto a quello dei miei. Ovviamente aveva dato gli ordini prima di avvicinarsi. Non aveva distolto gli occhi da me. «È così» disse. «É tempo per noi tutti di morire.» I suoi occhi pieni di disprezzo andarono da me al cerchio dei miei uomini. «Vedrete che non esiteremo a portarci appresso un po' di compagnia.» Mi accorsi con stupore che parlava nella sua lingua e che tuttavia lo comprendevo con facilità. Pronunciava alcune parole in modo diverso, era diverso l'accento, ma il linguaggio fondamentale era lo stesso del popolo di Uric. Scelsi le parole con cura e gli risposi nella sua lingua. «Se desiderate morire, possiamo accontentarvi in fretta» dissi. «Ma chiediti prima se è davvero necessario.» Restò a bocca aperta per la meraviglia. Era evidente che stava parlando a se stesso. «Come mai uno stronzo romano come te parla la lingua dei Re?» «La lingua dei Re? I Romani la chiamano la lingua dei barbari, che io sappia. Ma noi non siamo Romani.» Corrugò appena la fronte, e i suoi occhi guizzarono incerti dalla mia armatura alle insegne. «Non siete Romani? Che cosa significa? Siete vestiti come Romani. Agite come Romani. Chi siete, allora, se non siete Romani?» Strinsi l'asta della lancia e tirai le redini del cavallo che cercava di sottrarsi alle mosche. «Siamo i possessori di questa terra» dissi. «E voi siete predatori. Forse siamo vestiti come Romani e combattiamo di certo come Romani, ma siamo Britanni, preoccupati solo di difendere le nostre case, il nostro popolo e le nostre terre da quelli come voi, invasori d'oltremare.» Sollevò la testa altera. «Invasori, eh?» Scrollai le spalle. «Invasori, pirati, predatori, non fa differenza. Non appartenete a questo luogo e venite in guerra, perciò, come hai detto, è tempo per voi di morire.» Si acquattò in posizione d'attacco e i suoi uomini si prepararono a imitarlo. «Venite a ucciderci, allora, se potete.» Gli sorrisi dall'alto del mio cavallo. «Oh, possiamo. Non dubitarne.» Iniziai ad alzare il braccio per dare il segnale di ingaggiare battaglia, ma mi fermò. «Aspetta!» Abbassai il braccio. «Ebbene?» Si bagnò le labbra e guardò di nuovo i miei uomini in cerchio, tutti con gli occhi puntati su di me. «Prendici prigionieri!» Sorrisi mio malgrado, ammirando l'impudenza di quel ragazzo. «Prigionieri? Trecento uomini? Non puoi dirlo seriamente! Che cosa ce ne faremmo di trecento prigionieri? Dovremmo passare il resto della nostra vita a farvi la guardia in attesa che vi ribelliate e cerchiate di scappare?» Scossi la testa. «No, non credo che sia una buona soluzione...» Mi interruppe. «Non dovrete trattenerci a lungo. Re Lot pagherà per la nostra libertà.» Allora risi forte. «Lot? Re Lot? A quel bruco immondo sono spuntate ali di farfalla? Re Lot!» Smisi di ridere e scossi di nuovo il capo. «Sei due volte pazzo, gigante. Pazzo a pensare che a quell'animale importi se vivete o morite, e pazzo a pensare che vi venderemmo a lui per permettergli di usarvi ancora contro di noi.» Il ragazzo riprese a parlare con enfasi e convinzione. «Pagherà il nostro riscatto, lo giuro! Deve farlo! Non ha altra scelta.» Le sue parole mi fecero riflettere. Calmai di nuovo il mio cavallo e guardai il gigante negli occhi. «Tu mi incuriosisci. Lot, da quel poco che so di lui, avrà sempre un'altra scelta. Ma prosegui. Dimmi che cosa intendi.» Si bagnò ancora le labbra e lasciò cadere a terra la testa dell'ascia, raddrizzandosi dalla posizione di attacco. «Io sono Donuil, nobile principe del popolo che i Romani chiamano Scotii. Mio padre Athol è Ard Righ, Alto Re. Mia sorella Ygraine è promessa sposa a Lot di Cornovaglia, e Lot e mio padre hanno stretto un'alleanza: lui ci aiuta nelle nostre guerre; noi lo aiutiamo nelle sue. Questo era il nostro primo combattimento in suo nome.» «Non è andato molto bene, vero?» Alzai il braccio e il nostro cerchio si divise come avevo ordinato, lasciando un anello di uomini a cavallo dietro ai quali si disposero tre grandi formazioni a punta di freccia, con la punta rivolta all'interno. Il gigante osservò i miei uomini eseguire gli ordini come macchine, e il suo viso perse un po' del suo altezzoso colorito. Tre singoli squilli di tromba mi avvisarono che la manovra era stata portata a termine, e alzai nuovamente il braccio. Il resto del cerchio si ruppe e formò un massiccio blocco quadrato dietro la mia punta di freccia. Il giovane gigante mi guardò con espressione desolata. «É tempo di morire, amico mio» dissi. «Non possiamo permetterci di lasciarvi in vita, e inoltre, con un po' di fortuna, mio cugino Uther ha già ucciso Re Lot. Combattete lealmente, e addio.» Di nuovo feci per alzare il braccio e di nuovo mi fermò. «Tuo cugino Uther? Allora tu devi essere Merlino.» Chinai leggermente il capo. «Lo sono.» «Dicono che sei un uomo di buon senso e di onore.» «Davvero?» Un sorriso asciutto mi tirò le labbra, e rimpiansi di dover uccidere quel ragazzo. «E chi lo dice? Lot di Cornovaglia non sa nulla di buon senso o di onore, e sono sorpreso di sentire che i suoi alleati fan mostra di conoscerli.» «Ho sentito i druidi parlare di te.» Stavo diventando impaziente, e quella situazione iniziava a mettermi a disagio. Non avevo nessuna voglia di fare amicizia con un nemico prima di ucciderlo. «Dove vuoi arrivare?» La mia voce rifletteva la mia impazienza. «Farò un patto con te, Merlino.» Nei suoi occhi vidi la disperazione, e sentii un informe rimescolio di disgusto. «Che patto dovrei fare con te?» chiesi con un mezzo ghigno che mi era involontariamente salito alle labbra. «Vita! Vite... I tuoi uomini e i miei.» «Prosegui» dissi, «ti ascolto.» Deglutì a fatica e guardò gli uomini raccolti alle sue spalle. Erano cupi in volto, ma in segno di rispetto per il figlio del loro re mantenevano un silenzio assoluto. Il ragazzo parlò. «Sono morti in molti. Il mio popolo non si riavrà mai da questa perdita. Siamo battuti.» Sospirò rabbrividendo di raccapriccio. «Se dobbiamo morire adesso moriremo, ma porteremo con noi parecchi dei tuoi uomini.» «Ebbene? É il rischio dei soldati.» Strinsi le labbra. «Sto ancora aspettando che tu mi dica dove vuoi arrivare.» «Ecco: combatti con me, da uomo a uomo, a piedi. Se vinco io, lasci andare liberi me e i miei uomini, sulle nostre imbarcazioni e in patria. Hai la mia parola d'onore che non sentirai più parlare di noi.» Sollevai un sopracciglio. «E se vinco io?» Alzò le spalle. «Allora i miei uomini si ritirano, lasciando qui le loro armi.» «E tornano in patria comunque? Lo chiami un patto? Vinci tu in entrambi i casi.» Scosse la testa, una scossa breve e violenta. «No! Tu vinci. Tutti i tuoi uomini rimangono vivi, ma in ogni caso tengono le loro armi. Se i miei uomini tornano a casa senza, saranno disonorati per sempre.» «Disonorati per sempre? Perché?» Alzò di nuovo le grosse spalle. «É l'usanza del nostro popolo. La codardia è imperdonabile.» «E allora perché mai proponi una soluzione simile?» Mi guardò, e nei suoi occhi lessi la verità. «Penso di poterti battere. Ma anche se perdo, i miei uomini rimarranno in vita. Continueranno la mia razza.» Decisi improvvisamente che quel giovanotto mi piaceva. Aveva una dignità che mi ricordava il mio prozio Ullic. Riflettei sulla sua offerta e la mia mente andò subito oltre. Era grande e grosso e forte abbastanza da sconfiggermi, ma quello non mi preoccupava. Sentivo che se avessimo combattuto, la vittoria sarebbe stata mia, ma poi ricordai il recente rimprovero di mio padre per quell'insulso confronto con l'orso. Nel combattimento che il giovane celta proponeva, uno dei due doveva morire, e le probabilità di cadere erano eque per entrambi. Sarei stato un irresponsabile a correre un simile rischio di fronte alle mie truppe. Scossi la testa. «No» dissi. «Ma ho una proposta alternativa. Arrenditi, da solo, a me personalmente, come mio prigioniero. Se accetti, scorterò i tuoi uomini alle loro imbarcazioni e li rimanderò in patria, con le loro armi. Tu rimarrai in ostaggio per la loro buona condotta.» Mi guardò accigliato. «Senza un combattimento?» «Il combattimento l'hai avuto.» Indicai la strada alle sue spalle. «Hai perso, ricordi?» Si strinse nelle spalle e guardò l'ascia che giaceva a terra. «Non ho scelta, vero? Per quanto tempo mi terrai prigioniero?» Non ci avevo nemmeno pensato. Lo feci subito. «Cinque anni» gli dissi. «Se alla fine di quel periodo non avremo avuto altri contrasti con il tuo popolo, ti lascerò andare.» «Cinque anni?» Era atterrito. «Cinque anni di schiavitù? Incatenato come un orso?» Scossi lievemente la testa. «Non ho parlato di incatenarti. Sarai mio prigioniero. Secondo il patto iniziale mi hai dato la tua parola che i tuoi uomini partiranno e non torneranno. E dal tuo atteggiamento mi è parso di potermi fidare di quella parola. E sarei pronto a fidarmi ancora, se promettessi di non tentare la fuga, e di trascorrere con me il tuo tempo di prigionia.» «A servire te?» «A servire con me.» Socchiuse gli occhi come per cercare di vedere oltre i miei, nella mia mente. Poi fece un breve cenno di assenso. «D'accordo. Ma lascia andare i miei uomini.» «Lo farò. Si è salvato qualcuno dall'altra parte dei boschi?» «Non lo so.» Aveva gli occhi tristi. «Lo scopriremo» dissi. «Se con le truppe di mio padre ci fossero dei sopravvissuti, sarebbero legati anche loro dal tuo patto?» Socchiuse ancora gli occhi. «Sì. Sono il popolo di mio padre.» «Bene; allora è meglio che andiamo a vedere se c'è qualcuno ancora vivo. Spiega ai tuoi uomini che cosa sta succedendo. Io lo spiegherò ai miei.» Mi rivolsi al mio vessillifero e parlai nella mia lingua. «Portami qui i luogotenenti Catone Achmed e Maripone.» Quando arrivarono dissi loro dell'accordo. Maripone non disse niente, ma Catone era preoccupato. «Comandante, puoi fidarti di un uomo come quello? Di un pirata?» Annuii. «Credo di sì, Catone. Non è un pirata nel senso comune del termine. È un inviato di suo padre, il re degli Scoti. Comunque, il tempo proverà il mio torto o la mia ragione, e intanto abbiamo evitato di perdere degli uomini inutilmente. Voglio mandare duecento uomini a scortarli fino alla costa. Voi li guiderete. Non penso che avrete difficoltà lungo la strada, ma se così fosse, mi aspetto che vi comportiate di conseguenza. Se non mantengono la parola data, sterminateli. Li disarmeremo prima della partenza e terrete le loro armi sotto custodia. Caricatele sulle loro imbarcazioni, e quando saranno partiti tornate direttamente alla Colonia.» «E permetteremo loro di tenere le armi? Davvero?» Era visibilmente sorpreso. «Sì.» Mi sfuggì un piccolo sorriso. «Quando gli uomini saranno a bordo, riconsegnate loro le armi.» Era ancora dubbioso, ma non sollevò obiezioni; si strinse nelle spalle e disse solo: «Il comandante sei tu, comandante». Il sorriso si ingrandì. Gli diedi istruzioni di trattenere i prigionieri nell'eventualità di altri arrivi o di ulteriori ordini, e ritornai al mio giovane prigioniero, che aveva finito di parlare con i suoi uomini. «Hai detto loro che potranno tenere le armi?» gli chiesi. «Sì. Ho detto loro che le riavranno quando saranno a bordo delle navi.» «Esatto. Ho dato istruzioni al comandante della scorta che li riaccompagnerà alle loro navi. Sono al corrente delle condizioni del tuo stato di ostaggio?» «Sì. Sono al corrente.» «Bene. Spero che abbiano di te grande stima. Adesso chiedi loro di buttare a terra le armi, tutte in un mucchio, e di allontanarsi. I miei uomini le caricheranno più tardi su uno dei nostri carri di commissariato. Sai cavalcare?» «No.» «Allora spero che cammini svelto. Andiamo a controllare l'entità del massacro più avanti, nei boschi. Dovrai venire con me. Non sarà un tragitto piacevole, ma se dall'altra parte qualcuno dei tuoi uomini è ancora vivo, dovremmo cercare di arrivarci prima che decidano di giustiziarli tutti.» «Che cosa ti ha preso in nome di Dio per stringere uno stupido patto con un selvaggio culonudo?» Mio padre aveva sfiancato il cavallo per arrivare in cima a una collinetta e aspettarmi, e mi aveva accolto così prima che avessi il tempo di fermarmi, ma non ero impreparato. «Forse proprio il nome di Dio, padre.» Il suo cavallo si impennava, inquieto, e saltellava di lato per evitare il mio. «Che cosa vorresti dire?» Quasi mi ringhiava contro. «Risparmiami le tue stravaganze, Caio. Non è il momento di fare sofismi.» «Non intendevo farne, padre. Parlavo seriamente.» Mi girai a guardare i suoi prigionieri ammassati e miserrimi, circondati dai soldati. A prima vista stimai il loro numero almeno uguale a quello dei miei prigionieri, forse qualche decina in più. Scrollai le spalle. «Più di duemila uomini hanno imboccato quella strada, e solo trecento sono tornati indietro. Non sapevo in quanti erano arrivati dalla tua parte, ma sapevo che più di mille erano morti in quella trappola.» «E allora?» Non aveva pazienza per seguire il mio ragionamento. «Ebbene? Che cosa stai dicendo? Ti sembra strano? Erano soldati, Caio. I soldati si aspettano di morire.» «Non così, signore. Non i soldati. Quelli erano uomini, I soldati erano i nostri, e hanno attaccato di nascosto, a tradimento.» Mio padre era completamente sconcertato, e pensava che avessi perduto il senno. «E poi?» chiese, incredulo. «Avresti preferito che fossero morti loro? I nostri uomini?» «No! Mi fraintendi. Dammi almeno la possibilità di spiegarti.» Slegai il sottogola e mi tolsi l'elmo per la prima volta quel giorno. «Vuoi ascoltarmi?» «Ne dubiti?» «No, padre. Perdonami.» Mi passai una mano tra i capelli, fradici e appiccicati dal sudore. «So quello che voglio dire, ma non so da dove incominciare.» Smontai da cavallo e mi sedetti sull'erba e mio padre fece lo stesso, lasciandomi il tempo di raccogliere i pensieri. Finalmente, mi misi a parlare. «Noi siamo cristiani, padre, non è così? Ci dicono di amare il nostro nemico, di porgere l'altra guancia. Naturalmente non possiamo farlo, nella vita, ma possiamo provarci. Non possiamo dichiararci cristiani se passiamo sopra a un massacro inutile e non necessario. Sei stato tu a insegnarmi ad assumermi personalmente la responsabilità delle mie azioni.» Mi interruppi, e pensai meglio a quello che volevo dire. «Credo di voler dire che ho scelto di non essere responsabile della morte secondo me inutile di trecento uomini sconfitti, più i miei uomini che sarebbero morti nel corso dello sterminio.» Lo guardai, aspettandomi che mi interrompesse, ma non disse nulla e io continuai. «Immagino che tu avessi esattamente lo stesso genere di problema, quando sono arrivato, ho ragione? Oppure li avresti fatti ammazzare dai tuoi soldati su due piedi, a sangue freddo?» Corrugò la fronte e gli si assottigliarono le labbra, ma mi affrettai a proseguire prima che potesse rispondere. «È pura retorica, ovviamente. Se avessi avuto tale intenzione, non li avresti presi prigionieri. In ogni caso, il giovane Donuil ha proposto una soluzione. La sua vita, in servitù, come ostaggio per l'assenza dei suoi uomini dalla nostra terra. Mi è sembrata una proposta onesta.» «Da quale punto di vista?» La voce di mio padre era più calma, adesso. Strappai un lungo filo d'erba e ne mordicchiai l'estremità più morbida. «Dal punto di vista storico, suppongo. Della nostra storia. Roma ha dato l'esempio secoli fa, e ha continuato a farlo da allora. Meglio, ho pensato, lasciarli andare con la loro vita, e responsabili della vita del loro principe, piuttosto che sterminarli e attendere rappresaglie.» Si succhiava un labbro, e aveva gli occhi fissi nei miei. «E tu credi che questo principe, questo Donuil, manterrà la parola data?» «Sì, padre. Io credo di sì.» Si girò su un fianco e armeggiò con la cintura cercando di sistemarsela più comodamente, ma ci riuscì solo in parte, e finì per estrarre il pugnale dal fodero e osservarne la punta. «Vortigern» disse. «Scusami?» «Vortigern. É il nome di un uomo. Un condottiero del nord-est. Ne hai sentito parlare?» Feci segno di no. «No. Mai. Avrei dovuto? Chi è?» Mio padre ficcò in terra il pugnale, con forza, e poi lo ritirò, e il rumore sabbioso, estraneo, della terra che grattava contro la lama di ferro, mi fece allegare i denti. «Vortigern sta facendo quello che fai tu» disse. «Sta mettendo a rischio la sua vita e la vita del suo popolo fidandosi di un popolo straniero che non ha idea di che cosa sia la fiducia. La ragione mi dice che l'idea della fiducia, come la concepiamo noi, dev'essere per loro un concetto del tutto sconosciuto.» Fece una pausa e mi guardò e poi, vedendo la mia incomprensione, pulì la lama sull'orlo della tunica e continuò a spiegare. «Le terre di Vortigern sono sulla costa nordorientale, nella zona che ha subito le scorrerie più gravi e il trattamento più rude da parte degli invasori sassoni. Lui e il suo popolo li hanno combattuti per anni, ma ogni anno arrivavano nuovi predatori, mentre gli uomini migliori di Vortigern venivano eliminati a ritmo costante. Infine ha preso un accordo con un uomo di nome Hengist, un capo sassone che tornava ogni anno. Gli disse che avrebbe dato ai Sassoni della terra, terra da coltivare e su cui vivere, se in cambio lo avesse aiutato a difendere la sua terra e la loro da altri predatori.» «E allora?» dovetti chiedere. «Ha accettato?» Pensai a lungo che non mi avrebbe risposto, ma poi alzò le spalle e sospirò. «Sì, ha accettato.» «Beh, è splendido» dissi, pieno di entusiasmo. Mio padre mi guardò con una strana espressione, in parte di compassione e in parte di insofferenza. «Credi? E che cosa accadrà domani, o tra un anno, o un altr'anno ancora, quando i Sassoni che ha invitato a vivere con lui vorranno andare in patria e tornare con moglie e figli e fratelli e familiari? E che cosa succederà quando tutti i loro amici e le loro famiglie arriveranno qui e non ci sarà abbastanza terra da coltivare per tutti?» Sbattei le coltiveranno.» palpebre. «Diboscheranno altra terra e la «Sì, Caio, lo faranno. E il loro numero aumenterà e ne avranno bisogno dell'altra, e un giorno decideranno che non c'è più posto per Vortigern e per il suo popolo, perché la sua terra sarà diventata la loro terra, e cacceranno Vortigern e i suoi discendenti, vivi, se sono fortunati.» Parlando aveva alzato la voce; tacque, ritrovò la sua pazienza, e riprese con un tono più basso. «Vortigern sta facendo un gioco suicida, Caio. Non sta solo accogliendo degli stranieri nella sua terra. Sta consentendo l'ingresso incontestato a una razza straniera, a una cultura straniera, a un popolo incivile e selvaggio intrinsecamente ostile alle sue tradizioni e al suo modo di vivere. Presto o tardi Vortigern perderà tutto. È inevitabile. Lo capisci?» Annuii. «Sì, padre, capisco, adesso che me lo spieghi con tanta chiarezza. Ma non capisco che rapporto abbia con la mia decisione nei confronti di questo giovane capitano celtico. Non lo sto invitando a venire qui e a coltivare la mia terra. Non riesco a convincermi di aver preso la decisione sbagliata.» Mio padre si strinse le guance tra i palmi delle mani e si alzò. La sua decisione era presa. «Molto bene, Caio. Sei mio figlio e sei un soldato. Non solo; sei un uomo a sé stante, con il diritto di esprimere i suoi personali giudizi. Io ho i miei dubbi, ma se sbagli non ti dirò che te l'avevo detto. Spero solo che imparerai dal tuo sbaglio, se ne hai fatto uno. Come intendi procedere, adesso?» Faticai a non mostrare il mio sollievo, e mi alzai in piedi con la massima indifferenza, rimettendomi in testa l'elmo. Mio padre riusciva ancora a farmi sentire come un bambino. «Chiederò a Donuil di parlare ai tuoi prigionieri e di spiegare loro la situazione. Non dovrebbero esserci difficoltà, poiché non hanno alternative. Sono dei barbari, ma credo che non difettino di onore. Li scorterò fino alla costa e li rimanderò in patria. Poi ritorneremo a Camulod. Saremo non più di tre giorni dietro di voi.» «Quanti ne liberiamo in tutto?» «Seicento qui, cinquecento sulla costa, di guardia alle navi.» «Millecento uomini...» Scosse di nuovo la testa. «Spero che tu abbia ragione, Caio, perché se sbagli ti mangeranno vivo.» «Lo so, padre. Credo di avere ragione.» Annuì. «Bene, non tardare più di tre giorni, o ti dichiarerò morto.» Sorrisi. «Non sarà necessario, comandante. A proposito, quanti uomini abbiamo perso su quella strada?» «Meno di cento» disse, guardandosi intorno. «Ne abbiamo perso uno per dieci di loro. Niente male come scambio, considerate le circostanze.» «No» dissi. «Suppongo di no.» Mi scrutò attentamente. «Che cosa c'è?» «Oh, niente. Questa è la mia prima grande battaglia, per numero di uomini coinvolti. Sto ancora cercando di adeguarmi all'idea di millecento o milleduecento vite spente con un soffio come lampade nello spazio di un'ora. Millecento. Sono un mucchio di cadaveri. Daranno da mangiare a un mucchio di vermi.» Aggrottò appena la fronte. «Senza il tuo accordo sarebbero stati il doppio! Ma hai ragione. Non sarà una strada piacevole da percorrere nei prossimi mesi. Ma non credo che tu abbia perso di vista che cosa sarebbe successo a Camulod se li avessimo lasciati attraversare illesi questa valle.» Ne convenni. «Dovevamo farlo, lo so, ma non è per questo un'esperienza meno rivoltante.» Infilai un piede nella staffa e montai a cavallo. «Finché popoli come gli Scoti e i Pitti, e i Sassoni, ci vedono come vittime deboli e indifese in una terra senza guida, questo genere di carneficina continuerà. Ma mi stupisce che Lot di Cornovaglia scenda così in basso da chiamare degli invasori che lo aiutino.» Mio padre si schiarì ironicamente la voce, e notai meravigliato che le sue parole si facevano sempre più chiare e distinte con il passare del tempo. «Beh, figlio mio, posso garantirti che Lot non direbbe di se stesso che scende in basso per raggiungere i suoi scopi. Quello punta in alto. Ambisce al dominio. Lot di Cornovaglia vede se stesso come Alto re di Britannia, temo.» Salì a cavallo. «Alto re di Britannia? Lot di Cornovaglia? Tu scherzi, padre.» Ma nel viso cupo di mio padre non c'era allegria. Si raschiò la gola e sputò, e parlò ancora. «No, per gli antichi dei, non scherzo. Mi hanno consegnato dei brutti rapporti su di lui. Vuole conquistarci tutti.» «Allora la sua ambizione lo ucciderà, perché deve fare i conti con Uther, con me e con te, e non è abbastanza uomo per nessuno di noi. Chissà come se la starà passando Uther in questo momento?» Mio padre si voltò sulla sella a guardare il suo esercito che lo stava aspettando. «Lo scopriremo presto» disse, distrattamente. «Vai a portare i tuoi prigionieri fino al mare. E non metterci troppo tempo. Ti aspettiamo a Camulod.» XIV. Di fatto, arrivammo a Camulod solo un giorno dopo padre. Portai il principe Donuil a incontrare i suoi uomini subito dopo aver concluso il colloquio con mio padre, e la gioia con cui accolsero il giovane meritava di essere vista, Spiegò loro le condizioni alle quali aveva comprato le loro vite e fece loro promettere di onorare il suo impegno. Ci furono poche discussioni. Il giorno seguente raggiungemmo la costa dove avevano ormeggiato la loro flotta. I miei quattrocento uomini a cavallo scortavano settecento Scoti. Donuil si recò personalmente a parlare con gli uomini di guardia alle navi, e io gli concessi di farlo senza scorta. Rimase lontano per più di un'ora e tornò con un veterano brizzolato grande quasi quanto lui. Arrivarono in vista del nostro schieramento e si fermarono, e io andai loro incontro a cavallo. L'uomo grande e grosso insieme a Donuil parlò per primo. «Mio nipote mi ha esposto l'accordo che ha preso con te, Merlino Britannico, e io non ho altra scelta che attenermi alle sue e alle tue condizioni.» Tacque e io attesi che continuasse, cosa che fece dopo essersi raschiato la gola e avere sputato. «Sia chiaro che se avessimo saputo di dover affrontare dei Romani, ci saremmo comportati molto diversamente!» Non potevo lasciargliela passare liscia, perché il suo contegno implicava che se si fossero comportati diversamente avrebbero potuto batterci. «Che cosa significa? Avete perso più di mille uomini. Siete avanzati in terra straniera senza nemmeno mandare avanti degli esploratori. Siete fortunati a essere ancora vivi, e ancora più fortunati a essere pronti a salpare verso casa con tutte le vostre armi e l'onore intatto.» L'uomo avvampò. «Lo so. Non intendevo sminuire il vostro valore. Ma stavamo andando a raggiungere re Lot. Secondo le sue chiacchiere non eravate altro che una banda d: malviventi che minacciavano l'esistenza del suo regno. C: aveva detto che eravate feccia.» Grugnii. «Beh, se feccia siamo, siamo feccia ben disciplinata.» «Già, e straordinariamente onorevole. Io sono Fergus fratello di re Athol e zio di Donuil. Mio nipote mi ha detto come vi siete comportati e come l'avete trattato. Riferirò le vostre condizioni a mio fratello Athol, e sono qui per giurare il mio impegno solenne a non importunarvi più per cinque anni da questa data.» Feci un cenno di assenso, accettando il suo impegno, e lui continuò: «Fra cinque anni da oggi ritorneremo in questo luogo a pretendere il nostro principe Se è vivo e sta bene, lo prenderemo con noi e ripartiremo» «Lo sarà.» «Sarà meglio, nobile romano! Abbi buona cura di lui perché se non sarà qui il giorno convenuto, ogni uomo sulla nostra isola ti dichiarerà guerra, e nessuno stratagemma ro mano vincerà quella guerra per te.» Lo guardai dritto negli occhi. «Se il vostro principe rispetta la parola che mi ha dato non gli verrà fatto alcun male né per mia mano, né per mano di nessuno del mio popolo.» L'uomo non staccò gli occhi dai miei. «Bada che non gì venga fatto del male per mano di nessuno, sia esso amico e nemico.» Un sorriso addolcì le mie parole. «Vuoi continuare a minacciarmi in eterno, oppure possiamo prendere congedo?» Annuì. «Così sia. È nelle tue mani.» Donuil non aveva ancora parlato. Si girò verso lo zio e lo abbracciò, e insieme dal pendio di una collina guardammo suo zio e i suoi uomini imbarcarsi e salpare, ogni nave con una nave vuota al traino. Quando la flotta si fu ridotta alla grandezza di un giocattolo, mi girai a osservare il mio giovane prigioniero. Era eretto, diritto come una lancia, con gli occhi fissi sulla flotta lontana, e il suo viso non rivelava il minimo indizio di quali pensieri gli passassero per la testa. Comprendevo il suo stato d'animo, perché immaginavo quali sarebbero stati i miei sentimenti se fossimo stati uno al posto dell'altro. «Principe Donuil» dissi. « É ora. Dobbiamo tornare a Camulod. Puoi cavalcare dietro a uno dei miei uomini.» Mi guardò con occhi vuoti e inespressivi. «Camminerò.» «Così sia.» Diedi il segnale alle mie truppe in attesa e iniziammo il lungo viaggio verso casa. Fece a piedi ogni passo del cammino, con andatura instancabile e costante, al lato sinistro del mio cavallo. In un'occasione, durante l'attraversamento di un terreno paludoso, gli dissi di aggrapparsi alla mia staffa, ma si limitò a rivolgermi un'occhiata e tenne le mani lungo i fianchi. Non dicemmo più una parola. Quando ci accampammo la prima e la seconda notte accettò il cibo in silenzio e poi si sdraiò a dormire nel punto che gli indicai, e dovette dormire profondamente perché avevamo spinto i nostri cavalli a un passo sostenuto, che significava velocità spietata per un uomo a piedi. Non appena arrivammo a Camulod, consegnai il mio prigioniero alla custodia di un centurione, con l'ordine di confinarlo, senza catene, in una delle celle che tenevamo per i trasgressori da poco, e lì lo lasciai per ventiquattr'ore, dandogli tempo di riflettere sulla prigionia in senso stretto mentre io sbrigavo le questioni che si erano accumulate durante la mia assenza. Uther non era tornato dalla sua incursione contro Lot, ma aveva rimandato indietro i legati Tito e Flavio con duecento dei quattrocento uomini al loro comando. Deluso per non essere riuscito a trovare Lot sulle nostre terre, Uther aveva deciso di inseguirlo fino in Cornovaglia se fosse stato necessario, ma non poteva privare Camulod di tre dei suoi comandanti anziani per un compito che poteva venire efficacemente svolto da uno solo. Aveva preso metà delle loro truppe in aggiunta ed era penetrato nella penisola sudoccidentale con una forza di cinquecento uomini. Da quel momento di lui non si era saputo più nulla. Mio padre era preoccupato. Al suo ritorno, dopo aver parlato con i due legati, aveva convocato una riunione immediata del Consiglio per discutere tutto quello che era accaduto dopo la nostra partenza, e per stabilire uno stato di preallarme al forte e in tutta la Colonia. Quando arrivai con la mia cavalleria, aveva tutto sotto controllo. Stava riorganizzando la fanteria, che aveva avuto ventiquattr'ore di riposo ed era pronta a tutto, e io fui felice di scoprire che per me non c'era quasi nulla da fare. Provvidi rapidamente alle poche incombenze minori che mi spettavano, e fui libero di andare nella mia valle nascosta, da Cassandra. Lo lasciai detto a mio padre e uscii dal forte a cavallo proprio mentre le ombre si allungavano nel tardo pomeriggio. Nonostante l'ora tarda, il sole era ancora caldo, e cavalcando sudavo copiosamente. Il sudore mi gocciolava da sotto la fascia dell'elmo sulla fronte e scendeva a bruciarmi gli occhi; altri rivoletti tormentatori mi solleticavano gli impluvi della schiena e del petto sotto la pesante corazza. Eppure non trovavo strano recarmi a un convegno amoroso con armi e armatura, e se ci avessi pensato allora avrei faticato a ricordare il tempo in cui andavo ovunque, anche a Camulod, senza quei pesanti e ingombranti impedimenti. La mia armatura, dall'elmo agli stivali, mi era abituale come la mia pelle, tanto che mi rendevo conto di averla - e che fosse scomoda - solo quando la toglievo, o ne toglievo una parte. Si avvicinava la sera quando il mio cavallo sbucò dallo stretto sentiero attraverso i cespugli nella tranquillità di Avalon. Cassandra mi volgeva le spalle, e fissava l'acqua nella pozza ai suoi piedi. L'istinto doveva averla avvertita che qualcuno la stava osservando, perché si girò e mi vide. Pur nel crepuscolo incombente scorsi nei suoi occhi il piacere di vedermi. Mi corse incontro sul breve tratto di erba verde, con i denti scintillanti in un sorriso di benvenuto, e io la guardai dall'alto del mio cavallo, sentendo che le guance mi si gonfiavano in un sorriso. Si fermò proprio di fronte a me e con un gesto delle mani mi diede il benvenuto, e mi invitò a scendere di sella. Posai i piedi a terra e subito mi prese per mano e mi tirò in direzione della capanna. Lasciai che mi guidasse e io mi tirai appresso il cavallo, e davanti alla porta lo lasciai libero di pascolare. La stanza era piena di fiori. Vasi e ciotole di boccioli ricoprivano ogni superficie disponibile, e il loro profumo gravava dolcissimo nell'aria. Un piccolo fuoco bruciava nel camino, ma non c'era un filo di fumo, e ancora una volta fui grato a mio zio per avermi insegnato il segreto della canna fumaria. Cassandra mi fece fermare in mezzo alla stanza e mi prese entrambe le mani, tenendomele a braccia tese e ammirandomi dalla testa ai piedi. Io feci lo stesso con lei, e tuttora non so come avevo potuto considerarla brutta. Sollevò le mani a slegarmi l'elmo e me lo sfilò, lo posò sul tavolo e poi slacciò il mantello nuovo, e passò le dita ammirate sul grande orso d'argento ricamato prima di piegarlo e appoggiarlo accanto all'elmo. Poi mi tolse il cinturone e il gonnellino di strisce di cuoio, e rimasi con indosso solo la tunica lunga fino al ginocchio. Non aveva mai fatto prima una cosa simile, e io stetti lì come un bue, sorridendo compiaciuto, senza fare il minimo movimento per aiutarla, felice che mi accudisse. Quando mi ebbe tolto tutta l'armatura mi sorrise, mi diede un colpetto nello stomaco, parve volare fino alla porta, e corse fuori. Sorridendo, e chiedendomi che cosa avesse in mente, la seguii con calma, solo per accorgermi che era già a metà strada dal sentiero per il quale ero appena arrivato. Evidentemente, dovevo seguirla. Respirai a fondo e partii all'inseguimento, pensando di raggiungerla facilmente, ma quando sperimentai il mio primo fiato grosso, a meno di metà del sentiero ripido e angusto, iniziai a rendermi conto che quella giovane donna non si sarebbe fatta raggiungere facilmente; non solo rimaneva invisibile davanti a me, ma i suoi movimenti erano anche assolutamente silenziosi. Accettai la sfida, allungai il passo e controllai scrupolosamente la respirazione, intuendo che la vittoria non sarebbe giunta tanto presto. Ansimavo forte, e mi mancava quasi il fiato, quando arrivai in cima al sentiero, nello spiazzo sulla sommità della collina. Cassandra mi aspettava, sorridendo allegramente, a cento passi da me sul lato opposto del cocuzzolo. Non appena capì che l'avevo vista, si girò e scomparve di nuovo giù per la collina. Repressi l'impulso di imprecare, mi fermai per parecchi battiti a riprendere fiato, e la seguii. Nel corso dell'ora successiva ricevetti un'umiliante lezione di forma fisica e autosufficienza, e le arrivai vicino solo due volte, e ogni volta solo perché lei me lo permise. La prima volta mi ero fermato, ancora senza fiato, a chiedermi dove fosse andata, e mi piombò sulle spalle da un albero, buttandomi a terra e giù per una ripa erbosa. Mi strinse forte a sé con le braccia e rotolammo insieme, e le mie narici si riempirono della sua calda fragranza, capelli e sudore e fiori selvatici, mischiata all'aroma pungente dell'erba schiacciata e della terra asciutta e acre e friabile. Ci arrestammo in fondo alla ripa, io sdraiato sulla schiena incapace di respirare, con una mano sulla sua coscia nuda, e lei seduta a cavalcioni sul mio petto, che mi sorrideva. Prima che potessi muovermi o riprendermi o emettere un suono, Cassandra rise piano, mi arruffò i capelli e corse via, e non ansimava nemmeno! Poco dopo uscì a tuffo da sotto un cespuglio, chiuse le braccia intorno alle mie ginocchia e mi ributtò a terra, ma questa volta non si fermò ad assaporare la vittoria, né a celebrare la mia sconfitta, e sfrecciò via di nuovo. A quel punto, in un ultimo, disperato tentativo di salvaguardare i pochi pietosi frammenti di dignità rimastimi, abbandonai la caccia e ritornai sui miei passi, imponendomi una corsa leggera fino alla valle. Passarono solo alcuni istanti, e vidi Cassandra che correva agilmente al mio fianco, con gli occhi fissi sul sentiero. Riconoscendo la futilità di qualsivoglia ragionamento, e comunque di ogni tentativo di comunicare con lei a mio modo, continuai a correre senza guardarla. Durante il pacato rientro alla capanna, però, sentii che la spossatezza e la frustrazione e la rabbia defluivano dal mio corpo con lenta costanza, così che arrivai alla fine del tragitto ritemprato e solo piacevolmente stanco. Cassandra si fermò in riva al laghetto e mi guardò con gli occhi scintillanti, il colorito roseo e la pelle lucida di sudore. Si girò e corse nel lago, avanzando con l'acqua alle ginocchia fino a dove era abbastanza profondo, e allora si tuffò e si mise a nuotare. La seguii a breve distanza, e l'acqua era meravigliosa. Più tardi uscimmo rabbrividendo e corremmo nella capanna, e Cassandra prese due coperte, e poi mi trascinò alla sedia di legno accanto al fuoco, e mi tirò e spinse finché mi sedetti. Si inginocchiò, avvolta nella coperta, e attizzò e alimentò il fuoco, stuzzicando le fiamme e aggiungendo grossi pezzi di legna secca. Accese una candela al fuoco e se ne servì per accendere tre lampade a olio, e per tutto quel tempo io fui contento di starmene lì a tremare e ad ammirarla, bevendo ogni suo movimento, ogni fugace immagine della tunica bagnata che le aderiva al corpo sotto la coperta, e fremendo dal desiderio di prenderla per la vita e di baciare quel portento di bocca dalle grandi labbra turgide. Di fronte all'evidente piacere che le dava la mia presenza, le uniche cose che tenevano le mie mani lontane da lei erano l'avvertimento di Daffyd e il ricordo di quello che le era stato fatto. Il suo corpo era guarito, ma le ferite erano ancora fresche nella sua mente. Mi accontentavo di guardarla, e di chiedermi se il tumulto delle mie emozioni fosse solo concupiscenza inappagata, accentuata e aggravata dallo sforzo fisico a cui ero stato sottoposto, oppure la magia di cui parlavano gli uomini chiamandola amore. Mi ero creduto a conoscenza di entrambi, perché da anni frequentavo il piacere carnale, e nutrivo amore per molte persone, per lo più di sesso maschile, con l'unica eccezione di Luceia. Quello che ora sentivo nella mente e nel corpo, però, somigliava ben poco all'amore che provavo per la mia prozia. Il calore del fuoco ci asciugò in fretta. Fuori calò il crepuscolo, e la luce unita del fuoco e delle lampade crebbe, gettando ombre danzanti sulle pareti della capanna. Era una costruzione semplice e grezza alla luce del giorno, ma ora, nel buio della sera, assumeva un calore e un aspetto confortevole che erano deliziosi, quasi magici. Cassandra ripose la coperta che la copriva e prese dal tavolo il mucchio dei miei indumenti e della mia armatura per spostarlo in un angolo. Era un fagotto voluminoso, e feci per alzarmi e aiutarla, ma vide il mio gesto e scosse la testa, indicandomi con la mano di restare dov'ero, così mi rilassai e continuai a osservarla. Sgomberò il tavolo e da una fila di scatole su uno scaffale tirò fuori pane, formaggio, mele e vino, e dispose tutto sul tavolo davanti a me. Sentii l'acquolina sotto la lingua e mi resi conto di non avere mangiato niente dall'alba. Lei mangiò poco, ma mi guardò trangugiare il mio cibo, muovendo gli occhi dal piatto alla mia bocca a ogni boccone. Volli dividere il cibo con lei, ma sorrise e fece di no con la testa, apparentemente soddisfatta di vedermi mangiare. Quando fui sazio allontanai il piatto. Mi riempì la coppa di vino, e ritirò sullo scaffale il pane e il formaggio avanzati. Fuori ormai era buio. La luce del fuoco era indebolita. «Ascolta» dissi quando fuori un usignolo iniziò a cantare. Non fece attenzione, né alla mia parola né al canto dell'uccello, e di nuovo si abbatté su di me il durissimo ricordo di tutta la bellezza del mondo che le era preclusa. Sapevo che era sorda, e l'avevo accettato, ma fino a quel momento non avevo capito che non avrebbe mai potuto godere del canto di un uccello. Sentii un groppo in gola e mi si offuscarono gli occhi, e subito mi fu accanto, con gli occhi grandi di spavento e angoscia alla vista delle mie lacrime. Scossi forte la testa e feci per asciugarle con il polso, ma mi fermò e mi asciugò le guance con le morbide dita. Sul suo volto leggevo la domanda: Perché piangi, Caio Merlino? Soffocai il dolore e cercai di sorriderle, e non fu difficile. Fu difficile invece conciliare le differenze che percepivo tra il maschiaccio scatenato che mi aveva battuto e umiliato quel pomeriggio e la persona pudica e gentile che adesso era così evidentemente paga di dividere con me la casa e il focolare. Mi prese per mano e mi ricondusse alla sedia accanto al fuoco, mi fece sedere e sedette lei stessa ai miei piedi, fissando lo sguardo nel fuoco e tenendo la mia mano nella sua e appoggiando la guancia contro il dorso della mia mano. Sentivo la soavità del suo viso contro la mia mano con ogni fibra del mio essere, e osai allora muovere appena la punta di un dito, estasiato dal contatto con la sua pelle. Per quanto minuscolo fosse quel gesto, Cassandra si girò e mi sorrise, mi strinse la mano e mise fine alla libertà di quel dito. Non ho idea di quanto tempo restammo seduti così, silenziosi e immobili, ma il calore del fuoco mi assopì, e io feci trasalire entrambi destandomi con un sussulto quando i muscoli del collo si rilassarono e la testa mi cadde in avanti. Mi costrinsi a svegliarmi del tutto e con estrema riluttanza mi alzai per andare, odiando il pensiero di lasciare Cassandra e di tornare a Camulod da solo. Mi fissò intensamente mentre mi dirigevo all'angolo in cui giaceva la mia armatura, e allora si alzò e tese le mani per aiutarmi a rivestirmi. Mi stavo allacciando in vita il gonnellino di cuoio; prese la fibbia in una mano e l'estremità della cinghia nell'altra, e mi guardò seria. Le sorrisi e tirai dentro la pancia, ma lei non accennò nemmeno a infilare la cinghia nella fibbia. Scosse la testa, invece, e mi rivolse un'espressione interrogativa. Supposi che mi stesse chiedendo se dovevo andarmene così presto, e mimai la stanchezza e il bisogno di dormire, indicai la porta e per associazione Camulod. In risposta, si girò verso la pila di pellicce che era il suo letto, sempre tenendo strette le cinghie del mio gonnellino. Ma sapevo di non poter dormire lì. Non ero abbastanza forte. Feci di no con la testa e sorrisi ancora, e lei lasciò cadere a terra il gonnellino. Aveva un atteggiamento determinato che mi sorprese. La guardai andare in fretta al focolare e mettere altra legna sulle braci, poi tornare da me, raccogliere il gonnellino e rialzarsi e fissarmi negli occhi. Deliberatamente, come sfidandomi a fermarla, gettò il gonnellino di strisce di cuoio nell'angolo e mi prese con fermezza le mani, trascinandomi, nient'affatto riluttante, verso il suo letto, dove mi strattonò fino a farmi sedere. Allora mi mise una mano sul petto e mi spinse indietro sulle pellicce, e iniziò a disfare i lacci dei miei sandali. Mi rilassai e la lasciai fare, divertendomi immensamente e lottando arduamente per tenere separato il piacere di guardarla e godermi le sue cure dal desiderio sessuale che mi incitava ad afferrarla e ad affondarmi con lei nell'intimità delle soffici pellicce. Il primo era consentito; il secondo assolutamente no. Era a capo chino, intenta a disfare il nodo che stringeva il sandalo sinistro; mi sollevai sui gomiti, per meglio gustare la vista della sua bellezza nella luce lambente del fuoco. Decisi che la prossima volta le avrei portato da indossare qualcosa di più pregiato e di più morbido della sua semplice tunica di stoffa. Il nodo si sciolse, e fui finalmente libero di sgranchirmi le dita dei piedi; vedendomi muovere le dita in quel modo Cassandra rise forte. Quel suono mi sconvolse, perché era la prima volta che lo udivo, ed ero stupito di sentirla ridere come una qualsiasi altra donna, in un gorgoglio di note liquide e chiare, di grande purezza e beltà. «Cassandra!» dissi, ma come sempre non prestò attenzione. Le sfiorai il capo e mi guardò incuriosita, e la risata le illuminava ancora tutto il viso. «Hai riso!» Vide le mie labbra muoversi e inclinò la testa di lato come un cucciolo di cane, e ancora mi sopraffece il dolore per l'impossibilità di comunicare con lei. Il ricordo della risata rimaneva un sorriso; sorridendole a mia volta scossi la testa, per dirle che non era importante. Mi prese le mani e mi fece inginocchiare. Non opposi resistenza. Poi fece uno strano gesto che mi lasciò interdetto. Si accorse della mia incomprensione e ripeté il gesto, incrociando le braccia davanti a sé e alzando le mani lungo i fianchi, e capii che voleva che mi togliessi la tunica. In un attimo fui travolto dall'imbarazzo, e feci rigorosamente di no con la testa. L'impercettibile cenno del capo e il lieve inarcarsi delle sopracciglia dissero Perché no?, con la stessa chiarezza che se avesse parlato. Potei solo stringermi nelle spalle per mostrarle la mia impotenza. Intenzionalmente inclinò il capo dall'altro lato, e scrutò a fondo il mio viso, poi si alzò in piedi e con lentezza si sfilò la blusa, senza mai staccare gli occhi dai miei. Ammirai stupefatto tanta bellezza. Aveva acquistato peso, e perso ogni traccia delle lesioni che tempo prima avevo fissato inorridito. Allora, il suo corpo straziato mi era parso magro e denutrito; adesso davanti a me c'era un'altra donna. I suoi seni, seppur non grossi, erano pieni e tondeggianti, il ventre era liscio e piatto e senza difetti. Teneva i piedi leggermente divaricati, e solo un cieco avrebbe potuto ignorare la profusione ricciuta tra le cosce sode e formose. Sapevo di essere rimasto a bocca aperta, rapito nello splendore di quella vista. E poi, rapida come il baleno che quasi non la vidi, si chinò, afferrò la prima pelliccia della pila e si infilò sotto, tirandosela fino al mento in modo che solo il viso perfetto con quegli occhi enormi e quelle labbra restò visibile al mio sguardo, e ancora non mi mossi, malgrado il sangue mi martellasse nelle orecchie. Supina, gli occhi incatenati ai miei, sollevò piano la coltre di pelliccia in un esplicito invito a unirmi a lei. Quando finalmente mi decisi, e tesi la mano verso il lembo della pelliccia, lo lasciò cadere e scosse la testa e indicò con il mento la mia tunica. La tolsi, sentendomi strano, non ridicolo, ma insicuro, perché Daffyd mi aveva esortato a non fare nulla che potesse ferirla nel corpo o nella mente. Mi diressi verso di lei, con nient'altro indosso che le brache di tela, e di nuovo mi fermò levando il palmo e puntando seccamente tre volte il dito indice. Feci un cenno di assenso e andai a spegnere le lampade; al mio ritorno la coltre era sollevata, e cautamente mi sdraiai a riposare accanto a lei. Le pellicce odoravano di rose e di lavanda silvestre, e mi domandai come fosse riuscita a ottenere quel risultato. A casa a Camulod avevamo soffici lenzuola, ma durante le campagne militari usavamo ancora le pelli. Le mie puzzavano ancora di selvatico dopo anni che le usavo. Alla luce tremolante del fuoco vedevo chiaramente il suo viso, ma il mio per lei doveva essere in ombra. Mi sdraiai sul fianco sinistro, per poterla guardare, e lei si mosse un poco verso di me, appoggiando una gamba soffice e calda contro il mio ginocchio piegato. Trattenni il respiro, senza osare ancora credere che tutto ciò stesse realmente accadendo. Giacqui lì immobile, a ubriacarmi della sua bellezza, mentre il mio ginocchio, l'unico punto di contatto, bruciava di fuoco squisito. Restammo così a lungo, finché il mio respiro si normalizzò e il mio sorriso si addolcì, e allora sentii la sua gamba ritrarsi dal mio ginocchio, e la delusione fu amara prima che mi accorgessi delle sue intenzioni. Si sollevò sul gomito destro e con la mano sinistra aprì il fermaglio dei capelli, che le caddero sul volto in una copiosa cascata. Il gesto espose i suoi seni alla mia vista a meno di una spanna di distanza, e contemplai la tensione della pelle e i poggioli rosa dei capezzoli. Tese la mano verso di me e seguì il profilo della mia guancia in una carezza lieve come una piuma, e per l'infinita tenerezza mi si chiuse la gola. Le sue dita quasi senza peso scesero dal mento al collo e lungo lo sterno. Tutto il mio corpo fu percorso da un brivido. Cassandra vide che smisi di respirare e dovette sentire il mio involontario irrigidimento, perché sorrise ancora e aumentò di un soffio la pressione del dito indice, continuando la sua strada fino all'ombelico. Avevo lo stomaco teso come un tamburo. La sua mano rifece il delizioso viaggio fino a racchiudere come in una coppa la spalla destra, e poi spinse e mi costrinse a sdraiarmi sulla schiena. Chiusi gli occhi e la pressione dei suoi seni sul mio petto mi diede un fremito; il soffice, umido, incredibile tepore della sua splendida bocca coprì le mie labbra, e io compresi che in tutti i baci della mia vita avevo cercato quel bacio. Sono vecchio, ormai, e rammento quella notte al di qua di un abisso di cinquanta e più anni, ma il ricordo di quel baciò mi da ancora la pelle d'oca e nella mia memoria fa cantare gli usignoli. In tutti i suoi scritti, a parte quando parlava di Febe, la sorella del suo amico Equo, e di Cilla Titens, e di alcuni intimi ricordi del suo matrimonio, Publio Varro tenne per sé ciò che pensava delle sue donne, così come mio nonno Caio. Mio padre in poche occasioni mi parlò di amore e di piacere, con i modi diretti di un soldato, ma io non parlai mai a nessuno d'amore. Ero considerato celibe, e infatti lo divenni. Ma ho conosciuto un amore che trasformò la mia vita e plasmò l'uomo che sarei diventato, e oggi non mi imbarazza, scrivere dell'amore che sorse quella notte, mi fece rinascere in un mondo di colori brillanti e stupefacenti sfumature, cambiò la mia vita e rimodellò le fondamenta della mia virilità. Fu la notte più meravigliosa di tutta la mia vita, e l'attraversai come un mondo di fiabe e di pura fantasia, desiderando che la sabbia del tempo fluttuasse come la lanugine del cardo negli zefiri estivi, e lottando con forza, ribellandomi con rabbia, ogni volta che un errante pensiero di Camulod e di quell'altra, più piccola, vita tormentava i margini della mia coscienza per ricordarmi cose non fatte e doveri non compiuti. Le ore passavano piano, colme di oscurità increspata e prodigiosa e gioie arcane quali mai avevo immaginato. Evitai l'ora della resa dei conti - l'ora del risveglio - con tutta la mia determinazione. Ma ci fu un momento in cui non potei rimandare più a lungo. Camulod e i miei doveri mi aspettavano, e dovevo andare. Cassandra mi aiutò a vestirmi e mi accompagnò al cavallo tenendomi un braccio intorno alla vita. Mi sentivo in colpa per aver lasciato quella povera bestia tutta la notte con addosso la sella. Strinsi il sottopancia e mi voltai per dire addio alla mia amata, ma era svanita. Guardai tutto intorno, perlustrai con gli occhi tutta la valle. Non la vidi, eppure sapevo che mi stava osservando, e che non voleva mostrarmi le lacrime della separazione. Montai in sella e mi allontanai al passo, e tornai nel mondo degli uomini e delle loro preoccupazioni e dei loro dolori. XV. La porta dello studio di mio padre era aperta e la sentinella di servizio mi salutò con efficienza. Restituii il saluto e oltrepassai la soglia, battendo piano le nocche sullo stipite. Mio padre era allo scrittoio nella solita posizione, con la testa china su un rapporto da finire. Alzò gli occhi e mi degnò di un grugnito. «Ah! Sei tornato, bene. Siediti. Sarò da te in un momento.» Tolsi l'elmo e mi misi comodo a osservare l'austerità spartana della stanzetta in cui il generale Pico Britannico trascorreva tante ore di lavoro. Misurava meno di quattro passi buoni in lunghezza per altrettanti in larghezza, e non conteneva altro che il tavolino di mio padre, due sedie, due casse di legno bordate di ferro, e il suo sgabello. Lungo la parete di fondo correva una doppia fila di scaffali con qualche libro rilegato, una pigna di rapporti e delle mappe arrotolate. Il cinturone, l'elmo e il mantello erano appesi a pioli di legno a lato della porta, e un grosso secchio di cuoio ai suoi piedi serviva da ricettacolo per qualsiasi cosa non volesse tenere in giro. Guardai a lungo il tavolo sgangherato al quale stava scrivendo; faceva parte di mio padre, come tutto quello che possedeva. Lungo e stretto, si chiudeva a formare una cassa profonda due spanne e poggiava su due cavalletti pieghevoli che rientravano in apposite scanalature sotto la superficie del tavolo. Si chiudeva a chiave con una serratura a cilindro caricata a molla, e seguiva mio padre ovunque andasse, sul carro di commissariato. Durante le campagne, occupava nella tenda lo stesso posto che occupava lì nel suo studio. Alla parete alle sue spalle, sopra ai due scaffali, era appesa una semplice croce di legno, un dono del suo vecchio amico, il vescovo Alarico, e per l'ennesima volta mi meravigliai per la forza della fede degli uomini che avevano trasformato quel simbolo di infamia e degradazione in un simbolo di trionfo e d'amore. Agli occhi dei Romani la croce non aveva mai avuto niente di ammirevole. Fin dall'inizio dei tempi rappresentava la condanna più atroce che si potesse infliggere a un criminale. La morte sulla croce significava una morte lenta per gradi di consumata agonia, mentre la forza di gravita attirava inesorabilmente il corpo della vittima, strappando le ossa dalla loro sede, lacerando giunture e tendini, arroventando il cervello con un dolore che non dava tregua fino alla morte, che subentrava per sete e per fame più spesso che per altre cause, e morire di sete e di fame è un modo lento di morire. Dicevano che Cristo era morto in tre ore, inchiodato alla croce. Se era vero, era stato fortunato, e quasi non aveva conosciuto il dolore della crocifissione. Alcuni urlavano per giorni. Era stato fortunato o l'avevano aiutato. La lancia gli aveva trafitto il costato prematuramente, e forse era stata scagliata con forza eccessiva. Avrebbe dovuto essere una prova, per vedere se nelle vene dei condannati il sangue scorreva ancora: se il sangue scorreva, c'era vita, e finché c'era vita il corpo restava sulla croce. Ho sentito gente dichiarare che erano stati i chiodi a ucciderlo. Non è vero. Chiodi confitti nei polsi e nelle caviglie possono storpiare e menomare, ma non causano la morte. E comunque sarebbe stata una morte troppo misericordiosa per un uomo condannato alla croce. Altri dicevano che la flagellazione aveva causato la morte. Era verosimile, specialmente se quell'uomo era debole, ma quell'uomo era il Figlio di Dio. Come poteva, allora, essere debole? E poi conoscevo l'abilità dei flagellatori romani. La loro arte aveva secoli di tradizione, e sapevano con precisione fino a che punto spingersi senza provocare danni fatali. La voce di mio padre interruppe i miei pensieri. «Come sta la tua trovatella?» Ritornai di colpo al presente. «Cassandra? Oh, sta bene.» Cercai di sembrare indifferente, e di non tradire le mie emozioni. Ma non ci riuscii, perché mio padre inarcò subito un sopracciglio. «Sta... bene, dici? Mi fa piacere. E quando starà bene abbastanza da venire a farci visita qui a Camulod?» «Io... io non so, padre.» Con l'espressione più solenne, affinché pensasse che avevo ancora delle notevoli riserve sul suo stato di salute generale, dissi: «Non saprei. È ancora... debole, in un certo senso». «Già. E decisamente forte in certi altri, a quanto vedo.» Il suo tono di voce era pesantemente ironico, e arrossii. «Mi hai mandato a chiamare?» «Sì, infatti. Per diversi motivi, il primo dei quali è in realtà il meno importante. Quel barbaro, lo scoto. Che cosa intendi fare con lui?» «Fare con lui?» La domanda mi coglieva impreparato. «Che cosa vuoi dire?» Mi guardò con gli occhi spalancati in un atipico stupore, e ammise: «Non lo so che cosa voglio dire. Speravo che mi aiutassi tu a definire che cosa voglio dire. Sei riuscito ad appiopparci una bocca in più da sfamare, e la responsabilità di sorvegliare quest'uomo per anni. Mi auguro che tu abbia una vaga idea di che cosa significa. Ci hai pensato?». Malgrado lo stupore, il suo cipiglio indicava che la faccenda meritava di essere presa in seria considerazione. Annuii. «Certo che ci ho pensato.» «E poi?» Scrollai le spalle, e tentai di sembrare convinto. «Ho deciso di offrirgli l'opportunità di trascorrere il suo tempo qui in modo utile.» «Come, in nome di Dio? Quell'uomo è un barbaro, e un nemico!» Era quasi un latrato. Scrollai di nuovo le spalle, mi accorsi della ripetizione e cercai inutilmente di reprimere il movimento prima che fosse completo. «Non lo so ancora.» «Non come soldato, allora?» «No... non lo so. Forse, o forse come una specie di servitore.» «Un servitore? Caio, quell'uomo è un guerriero e il figlio di un re, e uno scoto, per di più. Cercare di farne un servitore sarebbe come addestrare un lupo adulto a fare il cane da guardia a un bambino! Non è nella sua natura essere un servitore. Non si sottometterà mai.» «Beh, allora forse come soldato.» «Addestrato secondo i nostri sistemi?» Quasi trasalii a tanto disprezzo. «Nello stesso modo in cui i Romani hanno insegnato ai loro nemici il modo di sconfiggerli? Te lo dico io, ragazzo, tu insegna a quell'uomo a combattere come noi, e lui tornerà in patria e insegnerà ai suoi il modo di sconfiggerci.» Scossi la testa. «No, padre, non lo farà. Non sono così stupido da allevarmi una serpe in seno. Ho intenzione di parlare con lui, oggi. L'ho messo dentro non appena siamo arrivati per dargli il tempo di riflettere sulla prigionia. Spero che ascolterà ragione e che capirà di avere più da guadagnare a lavorare con noi che a marcire in una cella. Vedremo. Ti informerò più tardi del risultato dell'incontro. Di che cos'altro volevi discutere?» «Uther» ringhiò. «Non si sa ancora niente di lui. Incomincio a essere in ansia.» «Perché?» Io non avevo nemmeno iniziato a preoccuparmi. «Niente nuove significa buone nuove, in questo caso. Se Uther fosse stato ucciso o sconfitto, lo sapremmo. Gli uomini di Lot sarebbero ovunque, ubriachi di vittoria.» Mio padre non sembrava convinto. «Forse hai ragione» disse. «Padre, sai che ho ragione. Uther li ha ricacciati indietro e, conoscendo Uther, gli sta alle calcagna come un cane aizzato contro un orso. Li manderà a casa in Cornovaglia e poi tornerà a prendere altri uomini per tenerceli, confinati nella loro roccaforte di legno. Vedrai. Sarei pronto a scommetterci.» Mi guadagnai un'occhiata fulminante e un brusco avvertimento. «É esattamente quello che stai facendo, ragazzo.» «Ebbene» dissi, cambiando argomento, «chi vivrà vedrà. Che altro c'è?» «Questo!» Indicò la pergamena che aveva di fronte con un gesto di disgusto, e seppi che eravamo giunti al nocciolo del nostro incontro. «Vittore è morto da quanto tempo, ormai? Dieci anni? Da quando è morto, nessuno è stato capace di fornirmi un rapporto conciso sulla nostra forza equestre. Nessuno. Ho qui quattro rapporti. Quattro separate risposte alle stesse domande: quanti capi possediamo in tutto e come procede il nostro programma di allevamento? Le risposte sono tutte diverse, non ce n'è una che si avvicini all'altra. Le due più lontane implicano una differenza di seicentoventi capi. Seicento venti! Quando sono tornato in Britannia con Stilicone non c'erano tanti cavalli in tutta la Colonia. Adesso possiamo perderne seicentoventi senza nemmeno accorgercene, secondo i nostri mastri stallieri!» «Quale cifra credi che sia la più accurata?» gli chiesi. «Ne abbiamo così tanti da lasciarcene sfuggire seicento?» Scosse la testa, frustrato. «Caio, non ho modo di saperlo! É per questo che sono così infuriato. Io non ne ho idea, e non ce l'ha nessun altro.» Le immagini delle mandrie di cavalli che ormai sembravano ovunque sulle nostre terre si susseguirono rapide nella mia mente. «Dev'esserci sicuramente qualcosa che possiamo fare per rimediare!» Picchiò il pugno sulla superficie dello scrittoio. «C'è. Voglio che tu, personalmente, faccia un censimento del nostro bestiame, a partire da ora. Voglio un dettagliato calcolo dei capi di bestiame nella Colonia, in particolare dei cavalli, ma anche delle vacche. Per quanto riguarda i cavalli, ho bisogno di sapere quanti cavalli da battaglia abbiamo, rispetto ai cavalli da lavoro, e poi mi servono informazioni sulle nostre scuderie: quanti stalloni, fattrici e puledre; quanti castrati; quanti puledri e quanti appena nati; tutto quello che puoi scoprire. E lo voglio leggere in un rapporto scritto, che elenchi nei particolari tutte le nostre risorse, fino al numero delle cavalle gravide.» Mi puntò contro un dito, per sottolineare quello che stava per dire. «Questo compito non è delegabile, Cai, è troppo importante. Devo avere delle cifre di cui potermi fidare. La tua presenza e la tua autorità conferiranno ufficialità a questo censimento, ed è esattamente così che voglio che sia percepito. È di importanza vitale. Voglio i risultati non appena possibile. Di quanto tempo ritieni di avere bisogno?» Mi alzai. «Del tempo necessario, immagino. Di certo non meno di una settimana e probabilmente due, visitando tutte le fattorie periferiche e controllando i capi di ognuna. Potrebbe volerci anche di più. Attualmente abbiamo un sacco di cavalli.» «Parlami di cifre accurate, Cai, non di sacchi. Va bene. Inizia subito, con i cavalli che ci sono qui nel forte e nelle stalle. E sii accurato, Caio. Voglio che tu prenda nota di ogni singolo capo.» Feci un cenno di assenso, lo salutai, e me ne andai nell'Armeria a raccogliere i miei pensieri e a fare i debiti piani. Due ore dopo convocai un segretario e gli consegnai l'editto che avevo preparato, con l'ordine di farne venti copie con il mio sigillo. Era un semplice editto rivolto ai comandanti di ogni campo della Colonia, e ai signori di ogni fattoria, affinché radunassero tutto il loro bestiame in previsione di una mia visita ispettiva entro pochi giorni. Quando il segretario se ne andò mi permisi di rilassarmi e di sbadigliare, e di ripensare ai piaceri di cui avevo goduto la notte prima, e di assaporare l'immagine di Cassandra che mi bruciava nitida nella mente. Nel corso del mio sogno a occhi aperti ricordai il mio proposito di portarle qualcosa di bello da indossare, balzai in piedi e andai direttamente a casa di mia zia Luceia. Fu così contenta di vedermi che fui assalito dal consueto senso di colpa per non avere trascorso più tempo con lei. Mi colmò di attenzioni, mandò a prendere del vino, e mi fece sedere nella sua poltrona più comoda. Chiacchierò per un poco allegramente delle sue faccende domestiche e poi mi domandò la ragione della mia visita. Mi resi conto allora che aveva saputo fin dall'inizio, con quella irritante perspicacia così frequente negli anziani, che ero venuto a chiederle un favore. Ora so che fui un ingenuo a non accorgermi che aveva capito subito il mio intento. Ero stato così insolitamente timido al mio arrivo che non doveva essere stato necessario un grande sforzo mentale per intuire che c'entrava una donna. Giocò per un poco a indovinare chi potesse essere. Sapeva che non avevo difficoltà ad attrarre una qualsiasi delle donne disponibili nella Colonia, e quando le ebbi assicurato che non ero nei guai con un marito geloso e non dedicavo le mie attenzioni a una ragazza troppo giovane, rimase piuttosto perplessa. Ero sul punto di confessare la verità quando improvvisamente esclamò: «Aspetta! Ho trovato!». Le si illuminò il viso. «La ragazza. Come si chiama! La ragazza misteriosa scomparsa dalla stanza sotto gli occhi delle guardie dopo essere stata così selvaggiamente picchiata e violentata. Come si chiama? Cassandra! Ecco. Ce l'hai tu, vero?» Annuii con un mesto sorriso, ammirando una volta di più la sua sagacia, e incominciai esitante a spiegarle le circostanze della sparizione di Cassandra. Non le nascosi nulla, nemmeno i miei sospetti su Uther, che costituivano una confessione spaventosa di fronte al suo amore incrollabile per il nipote. Ascoltò impassibile, e quand'ebbi finito rimase in silenzio, senza giudicare Uther e senza condannare me per la mancanza di fiducia nella famiglia, anche se si trovò più a suo agio di me con la filosofia di mio padre sul beneficio del dubbio. «Dimmi» chiese infine. «Che cosa senti per Uther? Provi rabbia nel tuo cuore?» Scossi lentamente la testa. «Non credo, zietta. Non rabbia. Confusione, soprattutto. I tuoi sospetti nei confronti del prete Remo hanno molto più senso dei miei sospetti nei confronti di Uther. Vorrei che avessimo trovato quell'uomo, ma non è così, e il dubbio rimane. Uno di questi giorni dovrò mettere Uther faccia a faccia con Cassandra. È l'unico modo per poterne essere certo, e il solo pensiero mi sgomenta.» Dovevo fare un'altra confessione, ed era il mio amore per Cassandra. La balbettante ammissione intenerì il cuore della mia prozia e tramutò la mia faccia in una bacca rossa. L'espressione di zia Luceia era assolutamente seria e benevola. Desideravo portare Cassandra a Camulod e farla vivere con lei? Ne sarebbe stata deliziata. Le spiegai le mie riserve al riguardo, l'opportunità e la convenienza di proteggere Cassandra in segretezza, invece del mio egoismo e della mia troppo razionale paura di perderla, e zia Luceia le accettò. «Dunque, se non cerchi un rifugio per lei, che cosa sei venuto a chiedermi?» Mi schiarii la voce. «Vestiti. Ha solo un indumento, zietta, ed è una cosuccia misera e grezza. Speravo che fossi disposta a darle qualche tuo abito vecchio, che le andrebbe sicuramente bene.» Sorrise dolcemente, e mi guardò con un'espressione di lieve incredulità. «Vestiti? Tutto qui? Beh, capisco. Se deve passare l'inverno là fuori avrà bisogno di più di una semplice blusa. Vieni con me. Dammi il braccio, e andiamo a vedere se c'è qualche straccio che posso darle.» La sorressi per il braccio, notando il suo fragile peso, e la seguii nel suo guardaroba, dove scoperchiò un baule dopo l'altro, tutti pieni di indumenti femminili. «Di che colore ha gli occhi?» «Grigi.» «E i capelli?» «Biondi.» «Biondi! Non sai fare di meglio?» «Non credo. Non sono gialli, e non sono dorati. Sono biondi.» Passò rapidamente in rassegna il contenuto dei bauli, gettandomi di tanto in tanto un vestito finché ne ebbi le braccia colme. Allora si fermò. «Ecco» disse. «Questi per un poco le dovrebbero bastare. » «Tutti questi? Zia Luceia, sono bellissimi! Sono fin...» Mi interruppe bruscamente. «Troppo belli? É quello che stavi per dire?» Annuii, subito a disagio. «Vergognati, Caio Britannico. Vorresti farmi credere che ami questa ragazza, e poi mi dici che queste cose sono troppo belle per lei? Se con indosso una semplice blusa possiede quello che ci vuole per affascinarti, nipote, allora queste cose non sono abbastanza belle per lei.» Fece una pausa, guardandomi di traverso, poi arricciò il naso e si girò in fretta, non prima però che scorgessi nei suoi occhi un guizzo di divertimento. «Dovrò fare la conoscenza di questa giovane donna» disse da sopra la spalla. «Se non vuole venire da me, allora troverò il modo di andare io da lei. Ora, quelli sono tutti abiti leggeri. Avrà bisogno di qualcosa di lana per il freddo, e io ho proprio quello che ci vuole.» Attraversò la stanza e si mise a scegliere un altro visibilio di vestiti, tutti più pesanti di quelli che avevo sulle braccia, e il mio carico divenne sempre più voluminoso. Terminò con un magnifico, caldo mantello con cappuccio di spessa lana bianca che avrebbe impedito l'accesso alla più violenta tempesta invernale. Finalmente, fu soddisfatta. «Bene. Porta tutto nella stanza di famiglia. Ludmilla sistemerà gli abiti in un baule, e tra un'ora potrai mandare un soldato a prenderlo. Dovrebbe stare sul posteriore del tuo cavallo, così non avrai problemi per trasportarlo. Ha bisogno di nient'altro?» Non mi venne in mente nient'altro, ringraziamenti che lei rifiutò con un cenno. e mi profusi in «Adesso dammi un bacio e lasciami tornare ai miei impegni. Ho compagnia in arrivo.» Le sorrisi. «Un amante segreto?» «No. Un prete.» «Ancora preti, zietta? Non ne hai avuto abbastanza?» «Non essere impertinente. Dammi un bacio e vattene.» Ubbidii, sentendomi molto meglio di quando ero arrivato. Tornai al mio alloggio e chiamai l'uomo di guardia, e gli dissi di farmi portare il mio prigioniero sotto scorta, e di mandarmi immediatamente il legato Tito. Quando sentii la scorta avvicinarsi a passo di marcia, avevo firmato le copie dei miei ordini per il censimento dei capi di bestiame e stavo finendo di dare istruzioni a Tito, che rivolse un'occhiata curiosa al giovane gigante scoto, mi salutò brillantemente e se ne andò a iniziare il computo dei capi nel forte. Guardai il mio prigioniero. Stava in posizione eretta, il ritratto dell'orgoglio e dell'indifferenza, e fissava un punto sopra la mia testa. La sua scorta era rigorosamente sull'attenti. «Grazie» dissi, «potete aspettare fuori.» Si ritirarono chiudendo la porta. Lasciai lì in piedi il giovane Donuil e ritornai ai documenti, dando loro un'ulteriore superflua scorsa. Poi mi appoggiai allo schienale e accavallai le gambe. «Ebbene, principe Donuil, che cosa pensi di Camulod, finora?» Non rispose; mi alzai e andai alla finestra, voltandogli deliberatamente le spalle, conscio di avere lasciato la spada sul tavolo alla sua portata. Le imposte erano aperte, e rimasi qualche minuto a osservare la vita che si svolgeva all'esterno. Dietro di me non ci fu un suono, né un movimento. Mi girai. Non aveva mosso un muscolo. Incrociai le braccia di fronte a me e gli parlai di nuovo, caricando la mia voce con una punta di malumore. «Tieni il broncio per farmi dispetto? O sei già pentito dell'accordo? La tua presenza qui ha risparmiato la vita di più di mille uomini. Hai intenzione di celebrare l'avvenimento trascorrendo cinque anni in silenzio? E in una cella?» Ancora nessuna risposta. Mi risedetti e lo guardai in silenzio, pronto ad aspettare con calma. Non avevo da perdere altro che il tempo, e il tempo era dalla mia parte. Il silenzio si protrasse e crebbe fino ad avvicinarsi al punto in cui tacere diventava una questione di orgoglio, ma ero preparato a quell'eventualità. Poco prima che giudicassi giunto quel momento, presi un martelletto di legno e percossi il piatto di ottone sul mio tavolo. La porta si aprì immediatamente e la guardia entrò nella stanza. «Comandante?» «Chiedi al centurione delle guardie di mandarmi subito un messaggero.» La guardia uscì e tornammo al gioco dell'attesa, e io mi dedicai a uno dei codici di mio zio finché non bussarono alla porta. «Avanti!» Entrò un soldato. «Mi manda il centurione Terzio, comandante.» «Bene. Vai per favore all'abitazione di mia zia, Luceia Varro, e ritira un baule per me. Se non è pronto, aspetta che lo sia e portalo al mio alloggio. Sei atteso.» «Sì, comandante.» Uscì anche lui, e allora parlai un'altra volta al principe Donuil. «É ovvio che non hai niente da dire. Desideri ritornare nella tua cella?» Nemmeno l'ombra di una reazione, così proseguii: «Avevo pensato di offrirti una sistemazione migliore, ma poiché non hai alcuna intenzione di essere civile, devo desumere che ti trovi bene nel tuo presente alloggio. Mi sorprende. Cinque anni possono essere lunghi, dietro le sbarre». Avevo colpito nel segno. Corrugò la fronte e mi guardò in tralice. «Che genere di sistemazione migliore?» Resistetti all'impulso di sorridere. «Un alloggio aperto, per cominciare. Forse non adatto a un principe, ma sufficientemente comodo per un principesco prigioniero.» «Che cosa dovrei fare?» La sua voce era appesantita dal sospetto, dall'incertezza di non sapere che cosa avrei preteso da lui in cambio di un rilassamento nella sorveglianza. «Se dovessi accettare questo alloggio migliore, che cosa ti aspetteresti da me?» Sollevai una spalla. «Poco più di quello che hai già promesso. Ho la tua parola che non tenterai la fuga. Adesso, in cambio della tua collaborazione, potrei concederti una stanza, con relative intimità e riservatezza.» «Collaborazione?» Dal suo tono di voce sapeva che ero sul punto di dire che cosa volevo. «In che cosa consisterebbe questa collaborazione?» «La fine di questo tuo risentimento, innanzitutto. Non occorre, e genera solo antipatia e sospetto.» Sbattè le palpebre e tacque per un momento, ovviamente confuso e riluttante a dimostrarlo. «E poi? Cos'altro?» «La disponibilità a contribuire alla vita di questa Colonia mentre ne fai parte.» «Contribuire? Contribuire sotto quale forma?» «Un lavoro, non necessariamente servile. Contribuiamo tutti, ognuno secondo le sue capacità.» Sembrava scettico. «Perfino tu?» «Certo!» risi. «Perfino mio padre, il generale. Non ci sono parassiti a Camulod.» Non riuscii a classificare la sfumatura del suo tono di voce. «Che cosa fa tuo padre?» «È amministratore e comandante in capo delle nostre forze. Presiede il Consiglio dei Governatori della Colonia.» «E tu, che cosa fai?» «Aiuto mio padre. Aggiorno i documenti. Comando un reggimento. E conto i cavalli.» Era chiaramente stupito. «Tu che cosa?» «Conto i cavalli. Sono appena stato incaricato di fare il censimento di tutti i cavalli posseduti dalla Colonia.» «Avete così tanti cavalli?» I suoi occhi erano pieni di meraviglia. «Quanto tempo ci vorrà?» Feci una smorfia per evidenziare la mia ignoranza al riguardo. «Non lo so. E non ne ho la minima idea. Una settimana, forse due, se non capitano imprevisti, come un'altra invasione.» «Che cosa potrei fare?» chiese, con espressione corrucciata. «Non sono stato addestrato a eseguire nessun lavoro del genere che descrivi, e non farò lavori manuali come uno schiavo.» «Non pensavo che l'avresti fatto, e non ti chiedo di farlo, ma ci deve essere qualcosa che sai fare. Hai pratica con il ferro?» «Vuoi dire se so lavorarlo? No.» «Sai leggere e scrivere?» «No.» «Sai rilassarti?» Sbarrò gli occhi, e gli indicai la sedia che gli stava davanti. «Siediti, sei troppo alto per continuare a guardarti da sotto in su.» Lentamente si sedette; presi la spada che c'era sul tavolo, la sfoderai e gliela misi di fronte. «Guardala» dissi. «Questa spada è stata fatta dal mio prozio, Publio Varro, un mastro fabbro. Era un soldato e un fondatore di questa Colonia, ma ha lavorato i metalli con le mani per tutta la vita, e non se ne è mai vergognato.» Rinfoderai la spada. «Ogni uomo ha capacità che sono esclusivamente sue, Donuil. Nella nostra Colonia chiediamo che ogni uomo utilizzi le sue capacità a beneficio di tutti, ottenendo in cambio il diritto di vivere qui, e di condividere la prosperità della Colonia. Dando il tuo contributo ti guadagneresti il tuo mantenimento, né più né meno. Non ti sarà chiesto di fare nulla che ti metta in imbarazzo o che ti faccia sentire in colpa in alcun modo. Se, per esempio, il tuo popolo dovesse invadere di nuovo le nostre terre, non ti verrebbe chiesto di combattere contro di esso; un simile evento ti metterebbe comunque in una brutta posizione, poiché la tua presenza qui significa che siamo in pace con l'Ibernia per cinque anni.» «No! Questo non è vero» disse con sollecitudine, scuotendo decisamente la testa. «Siete in pace con il mio popolo, ma non con tutti i miei compatrioti. Sulla nostra isola ci sono molti re, e pochi sono amici. Il fatto che mi tieni come ostaggio non significa nulla per gli altri re. Non hanno simpatia per me o per il mio popolo. Combattono contro di noi come combattono contro la Britannia.» «Mmh...!» Mi mordicchiai il labbro inferiore, come se non ci avessi pensato. «Potrebbe essere imbarazzante. Come sapremo che i futuri invasori non appartengono al tuo popolo?» Il giovane tenne alta la testa. «Lo stendardo di mio padre è una galea nera in campo d'oro. Sventola su tutte le nostre navi. Il mio popolo starà lontano da voi e dalle vostre terre.» «Bene» assentii. «Ti credo. Ma abbiamo cambiato discorso. Sei disposto a riflettere sull'idea di prendere parte in qualche modo alla vita di Camulod?» Mi guardò negli occhi. «Sì, Caio Merlino, ma c'è un problema.» «Quale?» «Non conosco la vostra lingua romano-britannica. Tu sei l'unica persona che ho incontrato finora con cui posso parlare. » «Allora dovrai lavorare con me finché non avrai appreso la nostra lingua. Ti irriterebbe? » Sul suo volto si aprì un sorriso, adagio ma senza riluttanza. «No, penso di no. » «Bene, allora non è un problema. Quanti anni hai? » «Diciassette. Quasi diciotto. » Feci un fischio di sorpresa. «Sei grande e grosso per la tua età. Rifletti sulla mia proposta. Pensa a che cosa potresti fare che secondo te mi sia d'aiuto e domani ne riparleremo. » In quel momento la porta si aprì di colpo e mio padre, cupo come il tuono, entrò a lunghi passi nella stanza. Quando vide che ero in compagnia si bloccò, e guardò alternativamente me e Donuil senza salutare nessuno. «Caio. Quando hai finito, vieni nel mio alloggio. » Se ne andò improvvisamente com'era venuto, e mi chiesi che cosa potesse averlo tanto turbato. Mi rivolsi al mio prigioniero. «Così sia. Fino a domani avrai tempo di pensare a quello che ti ho detto. Nel frattempo, ti farò assegnare dal legato Tito una stanza tutta per te. Sei libero di muoverti per il forte, ma stai attento. Ricorda che non conosci la lingua. Anzi, forse è meglio che tu non ti faccia vedere da solo finché non ti avrò mostrato in giro. Farò anche questo domani. Adesso devo andare da mio padre a scoprire che cosa è successo vieni con me. Lungo la strada ti lascerò da Tito e gli dirò di sistemarti.» Andai alla porta e la tenni aperta, e quando mi passò davanti lo fermai appoggiandogli una mano sul braccio. «Benvenuto a Camulod» gli dissi con un sorriso «Credo che qui ti piacerà, quando ti sarai abituato.» Gli offrii la mano, e me la strinse senza esitazione. XVI. Mi ci volle quasi mezz'ora per trovare Tito e spiegargli che cosa desideravo che facesse riguardo a Donuil. Avvicinandomi allo studio di mio padre pensavo che la sua collera doveva ormai avere avuto il tempo di sbollire, e che sarebbe stato più obiettivo nei confronti di qualsiasi cosa l'avesse fatto infuriare. «Dove sei stato?» sbottò quando attraversai la soglia. Lo guardai sorpreso. «Perdonami. Ho provveduto all'adeguato alloggiamento del mio prigioniero.» «Quale alloggiamento? Dovrebbe essere in una cella. Abbiamo cose più gravi di cui preoccuparci, altro che la comodità e il benessere di un invasore straniero.» Decisi di non insistere. «Che cosa succede, padre? Non ti ho mai visto così sconvolto.» «Sconvolto? Non sono sconvolto! Sono turbato e inquieto, e a corto di pazienza con gli sciocchi, ma non sono sconvolto!» «Oh! Benissimo, allora, che cosa ti preoccupa e ti turba?» Non avevo pensato di chiudermi la porta alle spalle, forse perché la sua stizza mi aveva colto alla sprovvista. Mio padre era normalmente il più imperturbabile degli uomini, per natura freddo e assennato, ma nei suoi infrequenti attacchi di collera sapeva essere implacabile. Mi passò davanti e chiuse lui stesso la porta. Mi girai a guardarlo, e notai lo sforzo che faceva per calmarsi prima di rivolgermi la parola. «Siediti, Caio. Questo non ha niente a che fare con te. Ho bisogno del tuo consiglio. Tu sei molto più equilibrato di me in queste faccende.» Sentii le mie sopracciglia sollevarsi. Che cosa mai, in nome di Dio, poteva avere avuto su di lui un effetto simile? Ero felice e sollevato di sapere che non aveva niente a che fare con me, perché ciò lasciava anche Cassandra fuori dalla sua collera. Mi sedetti e lo guardai ritornare di fronte a me, dietro la sua grossa sedia di legno con i braccioli. Si sporse leggermente in avanti e afferrò i braccioli. "Preti!» disse, quasi sputando la parola. «Dimmi dei preti, Caio.» Ero sbigottito. «Che cosa posso dirti, padre? Non so quasi nulla di loro. Vivono per predicare la parola di Dio agli uomini.» «Sì, ma che cosa sono? Che genere di creature?» «Che cosa intendi dire, creature? Sono preti! Uomini!» Mi interruppe bruscamente, fendendo l'aria con il taglio della mano. «No! No, Caio, non è così. Non lo accetto. Non sono uomini. Non nel senso che tu e io attribuiamo agli uomini. Quel bastardo zoppo, Remo, quello che non sei riuscito a trovare dopo che la ragazza è stata picchiata, era un uomo? Non credo!» Ero completamente frastornato, e alzai le mani con un sorriso che sperai disarmante. «Ehi, padre, non ti seguo. Non ho idea di che cosa tu stia parlando. Per favore! Parti dal principio e dimmi che cosa è successo. Ne sono completamente all'oscuro.» Girò intorno alla sedia e si sedette, fregandosi la faccia con le mani. Sbattè le palpebre, distendendosi la pelle intorno agli occhi come per sforzarsi di rimanere sveglio. «Hai ragione, Caio, hai ragione, sto reagendo in modo irrazionale. Perdonami. Questa bestia mi è balzata addosso che era già cresciuta. Avrei dovuto accorgermi prima, ma ho preferito ignorare le avvisaglie.» Attesi, lasciando che riordinasse i suoi pensieri, e finalmente i suoi lineamenti scomposti si rilassarono, e i suoi occhi assunsero un'espressione meditativa. E attesi ancora, malgrado fosse chiaro che si era immerso così profondamente nelle sue riflessioni da avere dimenticato la mia presenza. Poi diedi un lieve colpo di tosse e dissi: «I preti, padre?». «Che cosa? Oh sì, i preti. Trafficano in potere, Cai. Trafficano in potere.» «Certo» confermai. «Il potere di Dio.» Mi scoccò un'occhiata piena di compassione. «Dio ci ha poco a che fare, Caio. Il potere è potere. Esiste da e per se stesso. E il potere di dominare la mente degli uomini è il potere più letale di tutti. Perché pensi che debbano esistere i preti?» Scossi leggermente la testa e mio padre continuò. «Non lo sai? Allora lascia che ti faccia un'altra domanda. Quando hai conosciuto qualcuno che avesse parlato direttamente con Dio? Non a Lui, ma con Lui?» «Mai.» Percepii l'incredulità nella mia voce. «Perché no?» «Perché Dio non parla agli uomini direttamente.» Con aria di trionfo mio padre abbatté il pugno chiuso sul tavolo. «Esatto, Caio! Mai direttamente! Solo attraverso i preti. E che il dio si chiami Baal o Moloch o Giove o Elios, ha i suoi preti per dichiarare agli uomini la propria volontà. Possiamo parlare di falsi dei e falsi preti, ma non è mai esistito un dio senza preti. I preti accettano i sacrifici per conto del dio, e plasmano la mente dei suoi adoratori secondo i loro desideri. Non ne sono mai stato realmente consapevole, ma vedo sempre i preti con le mani tese, a pretendere sacrifici o a declamare accuse.» Strinsi gli occhi. «Che cosa stai dicendo, padre?» «Sto dicendo che i preti - tutti i preti - sono mercanti di potere. Trafficano nello sfruttamento, e sfruttano la mente degli uomini.» Non ero d'accordo. «No, poteva essere vero nei tempi antichi, padre, ma oggi non è così. Non so pensare al vescovo Alarico come a uno sfruttatore.» «Nemmeno io, e non lo era. Ma poteva essere l'unica eccezione a conferma della regola. Non ho mai incontrato nessuno come lui, mai.» Fece una breve pausa, ripensando ad Alarico. Quando riprese, la sua voce era più controllata, non meno collerica ma rigorosamente trattenuta. «Nel mondo oggi gira una nuova razza di preti, Caio, e si moltiplicano come vermi. Si definiscono cristiani, ma credo che abbiano poco in comune con la fede cristiana. Secondo i loro dettami, gli uomini come il vecchio vescovo Alarico erano eretici e miscredenti, peccatori che fuorviavano le loro greggi, per usare l'immagine del pastore che a loro piace tanto.» Le mie parole erano piene di disprezzo. «É ridicolo! Il vescovo Alarico era l'uomo più devoto e santo che io abbia mai conosciuto!» «Sì, lo era. Non c'è dubbio.» Il consenso di mio padre veniva dal cuore. «Ma quegli zeloti dallo sguardo feroce che adesso spadroneggiano a Roma dicono che Alarico era un peccatore. Lui e tutti quelli come lui. Seguaci di Pelagio!» «Che cosa?» Ero stupefatto. «Ma significherebbe metà dei vescovi di Britannia!» «Più di metà.» Ero in un mare di confusione, e cercavo invano di dare un senso a quello che udivo. Mio padre proseguì con voce piatta e priva di emozione. «A quanto pare i cristiani di Roma hanno fatto progressi negli ultimi anni. Noi in Britannia abbiamo avuto pochi contatti con la gerarchia ecclesiastica da quando diciotto anni fa Onorio ci ha detto di badare ai fatti nostri. Dalla rivolta dei Burgundi in Gallia pochi anni dopo, e lo sterminio indiscriminato dei preti, non ci sono stati contatti tra i nostri vescovi e quelli di Roma. I Burgundi mangiano i preti cristiani. E le cose sono cambiate.» «Quali cose? Come?» Mio padre emise un profondo grugnito di gola. «Ti do tre nomi: Paolo, il santo di Tarso; Pelagio, l'avvocato di Britannia; Agostino, il vescovo di Ippona. È tutto quello che ti serve. Tre uomini, e in tre hanno dato origine a quella che forse è la più grande lotta per il potere in tutta la storia dell'uomo, una lotta che eclissa gli intrighi politici di tutti gli imperatori messi insieme.» «Pelagio?» Ero perplesso. «Non vedo la connessione. Pelagio non è un prete. È un avvocato, come hai detto, e un tuo amico. Ti ho sentito spesso parlare di lui.» Mio padre mosse appena il capo. «Non proprio un amico. L'ho incontrato una volta e ho trascorso del tempo con lui. Mi ha fatto una grande impressione.» «Lo so» dissi. «Ho letto il resoconto che ha fatto zio Varro della conversazione che aveste vent'anni fa, quando tornasti in Britannia. Pelagio e Agostino erano in conflitto già allora, secondo quel resoconto.» «È vero. E il conflitto continua tuttora. Sembra che Agostino abbia denunciato Pelagio al vescovo di Roma - che adesso, a proposito, si fa chiamare Papa, reclamando per sé la supremazia su tutti gli altri vescovi - chiedendone la scomunica per eresia. Il caso ha avuto vicende alterne per parecchi anni, ma Agostino ha vinto. Pelagio è stato scomunicato e tutte le sue dottrine, il suo credo e le sue teorie sono stati dichiarati eretici... Rammento quella conversazione con Varro, ma non sapevo che l'avesse trascritta. Mi piacerebbe leggerla. Ce l'hai ancora?» Annuii, e la mia mente corse subito al luogo in cui quel libro era conservato. «Certo. Te lo porterò questa sera. É in uno dei codici nell'Armeria. Ma quando è successo tutto questo, padre? Quando c'è stata la scomunica? E che cosa ha a che fare con Paolo di Tarso?» «Niente... e tutto. Gli insegnamenti di Paolo vengono utilizzati come mezzi per un fine, e ne discuteremo più tardi. Qui nella Colonia l'importante per noi - per te, per me, per tutti noi - è che Pelagio è stato dichiarato fuorilegge, eretico, e tutte le sue dottrine eresia. Significa che tutti noi che seguiamo i suoi principi siamo esclusi dalla salvezza. Praticamente l'intera popolazione di quest'isola su cui viviamo!» Scossi la testa. «Io sono un soldato, padre, non un teologo. Non capisco che cosa ci sia di così peccaminoso o terribile nelle teorie di Pelagio.» «Credi che io sia diverso da te? Ma intuisco l'errore per cui è stato condannato. Ha osato ergersi contro Agostino di Ippona. Pelagio è un umanista, Caio. Crede nella dignità dell'uomo, nella responsabilità, individuale, nella libertà di scelta e nel libero arbitrio! Si è condannato da sé, con le proprie parole, perché le sue dottrine scalzano l'autorità dei preti. Se dai all'uomo il diritto di parlare di Dio secondo i suoi termini, di portare Dio in cuor suo e di trattare equamente con lui, per ciò che lo riguarda, neghi la necessità dei preti! Ecco perché Pelagio è stato scomunicato! Il vescovo Alarico e la sua gente hanno insegnato la parola del Cristo a noi in Britannia. Predicano amore e misericordia infinita, e sostengono che niente nessun peccato - è imperdonabile. Ma adesso gli uomini di Dio a Roma hanno decretato che Pelagio è imperdonabile. L'hanno dannato per avere osato dissentire dalle loro idee. Questa è politica, Caio; qui non si parla dell'amore di Dio. Nella loro ambizione di esercitare il potere sugli uomini, quei vescovi hanno condannato alla perdizione eterna dell'anima la maggior parte della gente comune di tutto il mondo, a meno che il mondo non si penta e faccia come dicono i vescovi, e cioè cambi la propria fede! Forse non fa molto effetto detto così, ma quando inizio a pensare che cosa implica, ho paura fino in fondo all'anima.» La sua voce si spense nel silenzio. «Ma possono farlo, padre? Sono così potenti, questi vescovi?» «Chi può contraddirli? Si fanno chiamare Padri della Chiesa. Sostengono di parlare con la piena autorità di Dio e dei suoi santi.» «Incluso Paolo di Tarso?» «Incluso Paolo di Tarso.» «Qui c'è sotto dell'altro, padre, almeno per me. Che cosa c'è di così importante riguardo a Paolo?» «Le donne.» Mio padre pronunciò quella parola con enfasi estrema. «Tra tutti gli evangelisti, Paolo è il misogino, quello che odia le donne. Sembra che ci sia la tendenza, ormai affermata, a prestare molto più credito oggi che in passato alle sue parole.» «Come può essere? Che cosa vuol dire?» Inspirò con forza. «È di moda tra gli ecclesiastici romani denigrare le donne in generale. È una moda cresciuta sotto i Cesari, quando i pederasti e gli omosessuali ottennero la loro ostentata uguaglianza, e si è rafforzata dopo che alcune donne romane delle famiglie più in vista hanno incominciato a speculare in capitali azionari e proprietà immobiliari. Ma di recente si è oltremodo diffusa. Oggi a Roma, grazie alle macchinazioni degli ecclesiastici, le donne sono considerate progenie e serve del Diavolo, dedite alla dannazione degli uomini.» Non avevo mai sentito mio padre parlare con tanta eloquenza e vigoria di un argomento non militare. Ero sbalordito. «Tu scherzi, padre! Non può essere altrimenti.» Mi guardò in faccia. «No, Cai, non scherzo. Tra i nuovi ecclesiastici l'abitudine attuale è condannare le donne, con sempre maggiore virulenza.» «Ma perché?» «Come posso saperlo? Perché ciò fa al caso loro, suppongo. La Chiesa di Roma è caratterizzata, fin dai tempi più antichi da una gerarchia prevalentemente maschile. Forse adesso gli anziani cercano di cristallizzare la loro egemonia. Non conosco i motivi occulti, Caio, ma è così.» Fece una pausa, trapassandomi con lo sguardo. «In realtà tu non credi a quello che ti sto dicendo, vero?» Dovetti riconoscerlo, perché non potevo proprio convincermi che avesse ragione. Che fosse serio e che credesse nel proprio giudizio, non dubitavo, ma il buon senso pretendeva che avesse torto. «Scuoti la testa quanto vuoi, Caio, ma disilluditi. È la verità. Queste cose stanno accadendo, e sono arrivate fino a Camulod. Quell'indecoroso disastro ieri sera in sala da pranzo ne è la prova.» «Quale disastro? Di che cosa stai parlando?» «Come puoi non saperlo? C'è stata quasi una rissa qui ieri sera per questa faccenda. Come puoi non esserne al corrente?» «Ieri sera ero via. Sono tornato stamattina, ho parlato con te e sono stato indaffarato finora. Che cosa è successo?» «Buon Dio, Cai! Devi tenerti più informato su quello che succede. Ho passato tre ore questo pomeriggio a parlare con preti di entrambe le fazioni, i nostri britanni e i loro romani o pelagiani e ortodossi come dicono questi zeloti! Hanno dato un ultimatum, a me e a tutti noi: salvezza o dannazione, alle condizioni della Chiesa di Roma, senza ricorsi o processi. Ecco che cosa è successo!» Ero sconcertato e lo ammisi. «Mi dispiace, padre. Non avevo idea. Abbiamo scelta?» Dal modo in cui aprì la bocca compresi che avrebbe gridato volentieri qualche improperio, ma poi rinunciò, e abbassò lo sguardo sul tavolo. Continuai a parlare. «Che cosa possiamo fare? Sembra che la linea di battaglia tra le due scuole di pensiero sia già stata tirata chiaramente. Siamo forse in una posizione da poter discutere?» Emise un sospiro lungo e sofferto. «Non lo so, Cai. Proprio non lo so. L'unica cosa che so con qualche certezza è che tutta la questione si è sollevata in un attimo, anche se è stata in fermento per anni. Credo che sia la questione più grave e spiacevole che dovremo affrontare nel corso della nostra vita, o della vita dei nostri figli. In che modo vivremo la nostra vita e adoreremo il nostro Dio da oggi in poi?» Tacque ancora brevemente, e poi riprese: «Vorrei che mio padre fosse ancora vivo. La sua mente era adatta ad astrazioni come questa. La mia no. Come posso sottoporre questo problema al Consiglio? Ci costringerà a discutere per anni. Se accettiamo i dettami del Papa di Roma e del vescovo di Ippona, dobbiamo - categoricamente dobbiamo - abbandonare in assoluto tutte le regole secondo le quali finora ci hanno insegnato a vivere. Ciò comporta la condanna certa del vescovo Alarico e dei suoi seguaci, che in buona fede adottarono gli insegnamenti di Pelagio. Ma su un piano molto più sottile comporta la resa della nostra volontà ai comandi degli uomini di Roma, ed era a questo che Pelagio era contrario fin dal principio. La sua opinione e la sua paura era che i cosiddetti uomini di Dio si stessero assumendo gli attributi di Dio. Prendevano gli insegnamenti del Cristo e li interpretavano secondo le loro esigenze. E Pelagio aveva ragione, Cai! Aveva ragione! E hanno dimostrato che aveva ragione scomunicandolo. L'hanno condannato in eterno senza possibilità di salvezza. Il Cristo di cui seguono i comandamenti non giustificherebbe mai un castigo così estremo. Eppure questi uomini, che si dice vivano a Roma nel lusso, si sono arrogati il potere di dire agli altri come vivere, e di condannarli alla perdizione se non ubbidiscono». Si fermò, e trasse un altro profondo respiro. «Gli insegnamenti di Pelagio sono semplici. In lui non c'è niente che vada contro il Cristo. Ci insegna che dobbiamo scegliere tra le leggi di Dio e l'immoralità. Dice che sta a noi scegliere di seguire il Cristo o respingerlo. Dice che siamo fatti a immagine di Dio, con l'innata capacità di aspirare a unirci alla schiera celeste di Dio. Questa innata capacità è al centro della controversia. La nostra volontà è libera, così com'era libera la volontà di colui che chiamiamo Satana. Le tentazioni che affrontiamo sono le stesse che ha affrontato Lucifero. Ma Pelagio ci da la speranza in noi stessi, e la dignità, e la coscienza del merito.» Ero affascinato da quel nuovo aspetto di mio padre, e ascoltavo, rapito, le sue parole. «I seguaci di Agostino di Ippona, invece, ci negano la possibilità del merito. Siamo nati nel peccato, dicono, già condannati al nostro destino, a meno che ci sottomettiamo ai loro metodi, implorando la loro intercessione presso il Divino affinché ci conceda la grazia.» Gli stava rimontando la collera. Picchiò la mano sul tavolo e si raddrizzò in tutta la sua altezza. «Devi provvedere a qualche faccenda di particolare importanza, adesso?» Mi strinsi nelle spalle. «No, niente che non possa aspettare fino a domani.» «Bene. Usciamo di qui e andiamo a farci una cavalcata. Voglio gridare e farneticare e sfogare la mia rabbia, e non c'è niente da guadagnarci a farlo dove mi possono sentire. Ti dispiace?» «Nient'affatto. Fai strada.» Mentre in silenzio ci dirigevamo alle stalle e sellavamo i nostri cavalli, ripensai a tutto quello che mio padre aveva detto e al conflitto che così improvvisamente l'aveva travolto. Sapevo che era importante, ma non sapevo che l'ora appena passata e l'ora seguente avrebbero avuto su di me un tale effetto da influenzare nel corso degli anni a venire l'evoluzione di un intero paese. Lasciammo il forte e prendemmo la strada nuova che conduceva alla villa, ma ai piedi della collina la abbandonammo e voltammo a sud verso il limitare della foresta. Cavalcavamo in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, finché il silenzio della foresta ci avvolse e tutti i rumori di Camulod si persero lontano alle nostre spalle. Attraversammo una serie di fitti boschi, che ci impegnò entrambi a cercare di rimanere in sella, e sbucammo in una radura bellissima con vaste distese erbose ombreggiate da magnifici faggi. Doveva essere un luogo sacro ai druidi. I miei amici druidi non erano cristiani, e perciò non dovevano preoccuparsi della salvezza o della vita eterna. Qualcuno si era di recente convertito al cristianesimo, e tuttavia conduceva una vita ben poco diversa rispetto a prima. I nuovi ordini di Roma sarebbero stati male accolti da coloro che erano stati convertiti proprio grazie alla compatibilità della dottrina umanitaria di Pelagio con la pacata benignità delle tradizioni druidiche. Alcuni avrebbero potuto trovarsi al forte la sera precedente, e assistere a quella che mio padre aveva descritto come una rissa, e forse ne sarebbero rimasti suggestionati. Quando forse per la decima volta ebbi ripensato alle parole di mio padre, non riuscii più a sopportare il suo silenzio. «Padre?» Si girò verso di me. «Che cosa è successo ieri sera? Hai detto che è quasi scoppiata una rissa. Che cosa l'ha provocata? Chi era coinvolto?» «I preti l'hanno provocata, preti cristiani in lotta contro preti cristiani. Io non c'ero. Stavo mangiando nel mio alloggio con Tito e Flavio. Siamo stati interrotti da un messaggero inviato dal tuo amico Ludo. La sala da pranzo comune era affollata, come sempre a quell'ora, e quando dei preti arrivati quel pomeriggio si sono rifiutati di sedersi allo stesso tavolo con due druidi tuoi amici, è nata una discussione. Popilio, il centurione anziano, era nella sala. Si è offerto di farli sedere a un altro tavolo dove c'erano già degli altri preti. Si sono rifiutati di sedersi anche con loro, e uno si è messo a urlare di anatema e dannazione. Popilio ha cercato di farlo stare zitto, ma le parole si sono susseguite e quei due gruppi di preti sono venuti alle mani! Riesci a immaginarlo? Beh, quando il povero Popilio ha ritrovato la sua presenza di spirito, la sala da pranzo era degenerata in un campo di battaglia. Non posso biasimarlo. Certo non prevedeva un simile scoppio di violenza da parte degli ecclesiastici, e poi diretta contro altri ecclesiastici. La situazione gli è sfuggita di mano troppo in fretta. Ma quel Ludo è uno sveglio. Non appena ha visto da che parte soffiava il vento, mi ha fatto avvisare. Quando sono arrivato, la guardia li aveva tutti sotto custodia.» «E che cosa hai fatto?» «Li ho messi tutti sotto chiave per la notte.» «In cella?» Inorridivo al pensiero, ma mio padre liquidò bruscamente le mie apprensioni. «Dove avrei dovuto metterli? Nel mio alloggio?» «Buon Dio! Non riesco a immaginare dei preti che si mettono le mani addosso.» «Non ci riuscivo nemmeno io. Ma oggi ho trascorso tre ore con quella gente, e adesso non ho nessuna difficoltà a immaginarlo. Per quanto ne so è stata la prima volta, ma temo che non sarà l'ultima. Nemmeno prendendo le dovute precauzioni.» Mio padre tirò le redini, e io feci lo stesso, e poi parlò a voce bassa e vibrante. «Caio, ascolta. Questa nuova banda di preti, sette individui in tutto, ha provocato deliberatamente quell'indecoroso disastro ieri sera. Oggi hanno rivolto le loro lingue affilate e la loro intolleranza contro di me. Contro di me! Sono venuti nel mio forte ed è mio, a tutti gli effetti - e hanno preteso la mia ospitalità, ne hanno abusato in flagrante arroganza, e hanno trattato me come un criminale per avere osato rinchiuderli, e come un pagano scomunicato per avere osato dissentire dalle loro opinioni e convinzioni. Mi hanno detto che devo ripulire Camulod; fare piazza pulita di tutte le donne del forte; e chiudere le porte di Camulod in faccia a tutti i preti che non giurino di abiurare Pelagio e le sue dottrine. E che devo riconoscere i miei errori con umiltà e implorare il loro perdono per i miei peccati!» La sua voce tremava di rabbia. «E poi!» continuò, «quando avrò chiesto e ricevuto il loro perdono, e quando mi sarà stato accordato il diritto alla salvezza, dovrò dare inizio a una serie di... indagini sulla fede e sulle convinzioni di ognuno dei nostri coloni, e fare tutto il possibile perché si conformino alle nuove dottrine! Tutto il possibile, capisci, inclusa l'espulsione dalla Colonia.» Mi stava dicendo più di quello che volevo sentire. «Quale è stata la tua reazione?» «La mia reazione? Ho dovuto rimandarla, la mia reazione. Non ricordo di essermi mai sentito così impotente in tutta la mia vita. Avrei potuto prenderli e togliere loro la pelle dalle ossa a frustate, Cai, ma non avrei mutato di una virgola il loro atteggiamento. Non avevo il potere di cambiarli. Quegli uomini sono convinti di avere ragione, e credono che il resto del mondo abbia torto. In loro non c'è dare, nessun compromesso, nessuna gentilezza, nessuna umanità. Sono zeloti. Fanatici. Sono tutta una nuova razza di preti, e mi spaventano, non per me stesso ma per il mondo che cercano di conquistare e di dominare e di modificare. E si chiamano cristiani.» Sospirò, rumorosamente, un misto di rabbia e indignazione. «Quattrocento anni hanno prodotto molte trasformazioni nella Parola del Cristo. Ricordi la storia di Gesù sulla montagna, quando ha predicato la beatitudine degli umili, dei puri di cuore, di coloro che cercano la giustizia? Ebbene, quella storia e i concetti che esprime contrastano stranamente con il comportamento che hanno oggi quegli uomini di Dio. Il Figlio del falegname è stato perso di vista, Caio. Le sue parole vengono reinterpretate e "migliorate". Gesù, il Cristo, parlava d'amore e di pace. Adesso all'interno della sua Chiesa le fazioni si fanno la guerra, e si condannano a vicenda con odio acerrimo e intolleranza. L'amore è caduto in disgrazia.» «E così non hai detto niente quando ti hanno inveito contro?» Mi gettò un'occhiata che parlava da sola, e negli occhi dì mio padre Pico vidi anche Pico il legato. «No, non proprio, Ma non ho detto niente di avventato, niente in preda alla rabbia. Ho detto loro che avrei preso in considerazione le loro parole, che ci avrei riflettuto, e avrei dato presto una risposta. E nel frattempo li ho rimandati in cella, e ho dato ordine alle guardie che non permettessero loro di parlare a nessuno finché non avessi preso una decisione.» «E poi?» «E cosa?» «Hai preso una decisione?» «Sì, ho preso una decisione.» Piantò i calcagni nei fianchi del cavallo e ci muovemmo. «Ma solo in questi ultimi minuti, discorrendo con te.» La sua voce si affievolì, e io non vidi lo scopo di commentare il valore del mio contributo alla discussione. Cavalcammo fianco a fianco in silenzio per un poco e poi ricominciò a parlare. «Uno di loro mi disse di un nuovo stile di vita seguito oggi all'interno della Chiesa. Si chiama monachesimo. Prevede il definitivo ritiro dalla vita pubblica. Coloro che vi aderiscono vivono nei monasteri, comunità di clausura di soli uomini, che si dedicano completamente alla penitenza. Quegli uomini mortificano la loro carne, Cai. Si mortificano costantemente davanti al loro Dio, che è una contraddizione in termini: un Dio cristiano severo e inflessibile come loro. Il piacere terreno di qualunque genere per loro è anatema. Le donne sono strumenti del Diavolo, utilizzate da Satana per adescare gli uomini e distrarli dal cammino verso la salvezza. Che cosa ne pensi?» Dovetti sorridere. «Zia Luceia ne sarebbe impressionata.» Latrò la sua breve e brusca risata, e il suo senso dell'umorismo si riaffermò all'istante. «Sì, lo credo anch'io, Caio. L'arroganza di questi uomini mi sbalordisce. Dal mio punto di vista, tutto quello che fanno disubbidisce apertamente a quel Cristo gentile e umano che mi hanno insegnato a riverire e adorare.» «Allora che cos'hai deciso, padre?» Mi guardò di traverso, e spinse il suo cavallo più vicino al mio. «Credo che la decisione presa anni fa di seguire le idee di Pelagio fosse la decisione corretta. Questi zeloti parlano del pelagianismo come se fosse onanismo. Io lo considero l'unico modo sano e decente in cui un uomo responsabile e fiero può vivere la propria vita... con il libero arbitrio e l'integrità della sua fede individuale. Se sbaglio, quando morirò ne sopporterò le conseguenze. Frattanto, vivrò la mia vita secondo i dettami della mia coscienza, e non tollererò che nessuno, uomo o donna che sia, sotto la mia giurisdizione venga calunniato, angariato o perseguitato per le sue idee religiose. Quei sette preti lasceranno le nostre terre domani sotto scorta. Non li minaccerò. Se torneranno, verranno costretti a ripartire. E sarà così finché non saranno vecchi e stanchi.» Sospirò. «Ho vissuto per più di cinquant'anni per sentirmi dire che sono condannato come eretico. E a dirmelo è un uomo cencioso e sudicio che offende le mie narici e la mia sensibilità... Io scelgo di vivere come ho sempre vissuto, forse come un eretico, forse no. Ma almeno io sopporto il mio odore. Se è peccato mortale fare il bagno, ridere, godere la vita con moderazione e onorare le donne, allora temo che dovrò continuare a vivere nel peccato. Sono troppo vecchio per cambiare.» Mi sentii gonfiare d'orgoglio e d'amore per quell'uomo che mi aveva generato. «Quei preti sono sconsiderati. Ma sono anche pericolosi. Nel mondo si sta svolgendo una guerra imponente per il dominio, Caio. Queste persone sono i proseliti dei mercanti di potere. Se il nuovo Papa verrà qui personalmente da Roma per convincermi che sbaglio, lo ascolterò, ma dovrà portare argomentazioni più ragionevoli di quelle che mi hanno portato i suoi scagnozzi. Andiamocene a casa. Devo parlare a quei preti." Non mi attraversò la mente, né allora né mai, che mio padre potesse avere torto. Mio nonno e Publio Varro avevano vissuto la loro vita come modelli di probità, in nobiltà e dignità naturali, e avevano cresciuto mio padre. E così avvenne che quando il ragazzo che sarebbe stato il mio pupillo subì la mia influenza, io gli insegnai secondo le antiche tradizioni dell'antica Roma, e della Roma repubblicana, e secondo le idee del vecchio vescovo Alarico e di Palagio, e secondo le idee che regnavano a Camulod ai tempi di mio padre e di suo padre, e che non erano le idee della nuova Roma. Il ragazzo a cui feci da maestro apprese la pulizia, la semplice religiosità, la disciplina e la vita di un guerriero. Apprese a godere la bontà della vita, a godere e ad apprezzare la bontà e la forza delle donne, e ad accettare per vere l'intrinseca nobiltà e la bontà dell'uomo. XVII. Alla decima ora del mattino seguente assistetti a quello che fu probabilmente l'evento più portentoso che mai avvenne nella Sala del Consiglio di Camulod, un'occasione che, ai miei occhi almeno, fa sembrare incontestabilmente piccole tutte le glorie a venire nei giorni del regno di Artù, e indubbiamente tutte le influenzò. Era una riunione - quasi un rituale - che, seppure in sé modesta, avrebbe segnato per sempre il corso della vita nella provincia di Britannia. Mio padre aveva convocato una riunione plenaria del Consiglio, e aumentato la compagnia con il complemento degli ufficiali della guarnigione, inclusi i dieci membri anziani della Centuria, gli aspiranti ufficiali. Tutto il personale militare era stato avvertito di presentarsi in uniforme da parata, e l'assemblea era variopinta e sgargiante. Nella Sala del Consiglio erano stati aggiunti posti a sedere per fare accomodare la straordinaria affluenza di pubblico, e il cerchio di cinquanta e forse più uomini occupava quasi l'intera circonferenza della Sala; il centro era vuoto, e in fondo al cerchio c'era un segmento libero per consentire l'ingresso del gruppo di preti. Furono tutti puntuali. Mio padre iniziò a delineare la situazione a beneficio dei parzialmente informati e dei completamente disinformati, che erano davvero pochi. Poi annunciò che era giunto a una decisione unilaterale, e che la sua decisione sarebbe stata vincolante per tutti i membri della Colonia per il successivo periodo di ventiquattr'ore, al termine del quale sarebbe stato pronto ad ascoltare obiezioni e ad accettare compromessi in risposta a un'opposizione intelligente e informata. Fino a quel momento, però, la sua decisione e l'imposizione di detta decisione sarebbero state assolute. Continuò dicendo che aveva invitato i presenti affinché assistessero alla comunicazione della sua decisione sui preti in visita, in modo che nessuno, sia nel Consiglio sia nel personale della guarnigione, potesse lamentarsi di non essere a conoscenza degli sviluppi. Dopo aver detto tutto questo, ordinò che i preti venissero condotti sotto scorta nell'assemblea. A commento e critica di quest'ordine ci fu un sonoro mormorio, che mio padre scelse di ignorare e, nell'intervallo che seguì, il mormorio crebbe e si mantenne costante. Notai che mio padre faceva molta attenzione a non incrociare lo sguardo di nessuno dei membri dell'assemblea. Qualcuno gridò il suo nome, ma mio padre lo ignorò, e si voltò invece a chiamarmi con un cenno. Mi avvicinai e mi chinai verso di lui. «Mi dispiace solo che Uther non sia tornato. Di tutta questa gente, è quello che a maggior diritto avrebbe dovuto essere consultato.» «Non lasciarti affliggere troppo dalla sua assenza» gli dissi con un sorrisetto. «Conosciamo entrambi Uther abbastanza bene da sapere che non contesterà il tuo giudizio, se non a causa del tuo eccessivo ritegno. Se fosse stato qui e avesse subito l'oltraggio che tu hai dovuto subire, questi preti oggi sarebbero alquanto malridotti.» Ritornai al mio posto e un improvviso silenzio si diffuse dall'ingresso verso l'interno della sala, mentre i sette preti venivano introdotti nel cerchio. Il centurione Popilio avanzò alla testa dei sei uomini di scorta che riunirono i preti nel centro del cerchio, e poi si fermò. Nella stanza il silenzio era assoluto e mio padre, che come tutti era seduto, lo infranse senza alzarsi. «Grazie, centurione Popilio. Puoi licenziare i tuoi uomini, ma chiedi loro di rimanere qui fuori. Tu puoi unirti a noi. C'è un posto per te.» Popilio salutò ed eseguì gli ordini del suo generale, dando istruzioni agli uomini di rimanere a portata di voce. Mentre la scorta lasciava la sala, osservai francamente incuriosito i preti in piedi davanti a noi. Erano tutti giovani, e tutti indossavano una tonaca nera lacera e sporca, legata in vita con della corda. Fu all'abbigliamento che istintivamente attribuii quell'aura di uniformità che percepivo intorno a loro. Mi ci volle un momento per ridefinire la reazione iniziale. C'era sicuramente un'uniformità, ma non aveva niente a che fare con gli abiti; era negli occhi, ed era quasi indescrivibile. La prima parola che mi venne in mente era furore, ma con il procedere dell'esame la cambiai con arroganza, poi disdegno, poi intolleranza, e infine fanatismo, anche se avevo udito quell'espressione solo il giorno precedente, da mio padre. Qualsiasi cosa significasse quell'espressione nei loro occhi, la trovai sconcertante, anzi quasi paurosa. Allora rammentai il nome dei fanatici ebrei dei tempi biblici, i seguaci di Simone Zelota, gli zeloti, uomini che sarebbero stati felici di morire per le convinzioni che sentivano di avere nel sangue. Bastava guardarli per capire che credevano, nel profondo del cuore, di essere i padroni, e che noi tutti fossimo loro subalterni. Non c'era deferenza né cortesia apparente nel loro contegno. Si guardavano attorno nell'assemblea con sogghigni di sfida. E poi il loro capo fece un lungo passo in avanti e si rivolse a mio padre con un tono altisonante e prepotente che nessuno nella sala dell'assemblea poté fare a meno di udire. «Suppongo, Pico Britannico, dalla folla che hai qui riunito, che tu abbia deciso di rendere pubblica la tua rinuncia all'eretico Pelagio e ai suoi malaccorti insegnamenti, e di cercare il perdono della Santa Madre Chiesa!» Qualcuno nel cerchio trattenne il respiro con un sonoro sibilo, ma il prete continuò: «Devo però avvisarti che, alla luce del trattamento inflitto a me e a questi miei confratelli, che con me hanno condiviso le tue prigioni, la clemenza che cerchi potrebbe venirti concessa con maggiore lentezza. Mettere le mani addosso agli inviati del Santo Padre a Roma e insidiarli non è il modo migliore per cercare il favore della Chiesa». L'oratore, un uomo alto e scarno che avrebbe potuto avere una qualsiasi età tra i venticinque e i trentacinque anni, aveva una voce che straziava le orecchie. Il volto era così emaciato da parere cadaverico, e sapevo che il suo alito sarebbe stato rancido e nauseabondo. Mio padre lo percorse con lo sguardo dall'orlo della veste alla punta dei capelli e parlò come se il prete non avesse ancora aperto bocca. «Ho radunato qui questa gente per assistere alla comunicazione della decisione che vi ho promesso durante il nostro ultimo incontro.» Fece una pausa, soppesando le parole. «Io qui sono il comandante, Comandante in capo di questa Colonia. In termini di anni, sono vecchio, anche se per grazia di Dio sono ancora giovane e in buona salute...» «Bada a te, Britannico! Sei scomunicato! Non parlare della grazia di Dio riferita a te stesso. Blasfemo!» Tanta irruenza scandalizzò l'assemblea. Mio padre ristabilì il silenzio con un gesto, inspirò a fondo e trattenne il fiato fino quasi a scoppiare, e poi rilasciò l'aria compressa in modo graduale e perfettamente udibile. Io, che conoscevo tutti i segni, non l'avevo mai visto così arrabbiato. Il prete alto non si scompose; la sua faccia era una maschera di sfrontatezza e di arrogante intransigenza. Finalmente mio padre pronunciò parole lente e sibilanti, con un tono di voce basso e nefasto. «Prete, ascoltami bene senza fraintendere. Non mi piacciono le minacce, né fatte né ricevute. E non mi piacciono i giudizi affrettati. Soprattutto, non mi piacciono le cattive maniere. Sei qui per ascoltare la mia decisione su una faccenda di grande importanza, e per il Cristo crocifisso, Figlio del Dio vivente, la ascolterai in educato silenzio, dovessi imbavagliarti e legarti mani e piedi!» Di nuovo placò la reazione assembleare, questa volta di approvazione, con un'occhiata di implacabile collera, e il sostegno spontaneo subito si tacque. Riportò lo sguardo sui preti. «Adesso ascoltatemi! Ieri ho sopportato le vostre offese e il vostro vilipendio per ore... ma era ieri. Oggi è il mio turno di parlare, e una qualunque interruzione non solo sarà sgradita, ma non verrà tollerata! Come ho detto, vi imbavaglierò e vi legherò se mi costringete a farlo. La scelta è vostra.» Si fermò in attesa di una reazione e, non ricevendone nessuna, continuò. «Io sono un soldato. Quando ero un giovane soldato non avevo tempo per seguire la religione. Invecchiando, però, ho fatto qualche studio sulla dottrina cristiana, e in particolare sulla sua diffusione in Britannia. É stata, in gran parte, una religione romana, che si è propagata, nel corso degli anni, attraverso gli insediamenti romani e la civiltà romana. Il popolo di Britannia non è, o non è stato fino a periodi recenti, prevalentemente cristiano. Negli ultimi anni, da quando Roma si è ritirata, ha avuto altro a cui pensare. La sopravvivenza, per esempio... Il popolo di questa terra è assediato dagli invasori. A nord, a sud, a est e a ovest devono lottare contro Pitti, Sassoni, Angli, luti, Franchi e Scoti. Tutti vengono per uccidere, conquistare e depredare, saccheggiare e distruggere. Nessuno ha il minimo riguardo per il popolo di Britannia se non come pecora da sacrificio. In tutta la Britannia troverete templi dedicati agli antichi dei, ancora in uso. La presenza della Chiesa Cristiana in questa terra è tenue, quando c'è. La sua esistenza è dovuta esclusivamente agli sforzi dei vescovi di Britannia, uomini come il nostro vescovo Alarico, la cui santa compassione e il cui altruismo hanno dato speranza a coloro che lo conoscevano. Quando un uomo, o una donna, non può sperare di mantenere nulla in proprio possesso per nessun lasso di tempo, allora la coscienza della dignità e del valore personali, della sua stessa integrità, diventa speciale. Il vescovo Alarico e i suoi compagni hanno lavorato duramente perché il popolo di questa terra rimanesse affrancato dalla disperazione. Gli hanno insegnato l'amore, la carità, e la fede nella misericordiosa onnipotenza di Dio e di Suo Figlio, Gesù... Hanno offerto al popolo la speranza della felicità al di là della squallida e spiacevole vita su questa terra, e hanno adottato i principi di Pelagio perché credevano che i suoi insegnamenti e le sue convinzioni fossero giusti e buoni agli occhi di Dio.» Fece un'altra pausa, e tale era il potere del suo discorso che nessuno tentò di interromperlo. Continuò: «Lasciate che lo ripeta. Alarico e i vescovi suoi compagni credevano che le opinioni e le dottrine di Pelagio fossero buone e giuste agli occhi di Dio. Per diretta associazione, Alarico e quelli come lui non videro dicotomia alcuna tra i principi di Pelagio e la parola stessa del Cristo». Il prete alto fece per parlare, ma venne bloccato dal violento fendente della mano di mio padre. «E ora» proseguì mio padre con voce piatta e controllata, meditata e lenta, "ora, nello spazio di tre brevi giorni, ci viene ordinato - non chiesto di accettare l'asserzione gratuita - non il fatto - che Pelagio è un apostata, che i suoi insegnamenti sono peccaminosi, e che il nostro benamato amico e mentore, il vescovo Alarico di Verulamium, era un peccatore, fuorviato e inetto, irresponsabile e incompetente... Ci viene comandato di abiurare la nostra fede presumibilmente empia; di accettare la vostra inconsistente assicurazione che tutto il nostro modo di vivere è un errore; di ammettere, sotto pena di eterna dannazione, che il vostro modo di adorare il nostro Dio è il modo giusto e l'unico modo; e di implorare la vostra clemenza. Ci viene richiesto di rivedere la nostra intera struttura sociale e di relegare le nostre donne in uno stato inferiore completamente estraneo a noi in quanto Celti e Romani in primo luogo, e alle tradizioni sociali del popolo di Britannia.» La voce di Pico era l'unico suono udibile nella stanza. Sì fermò un momento perché i presenti recepissero quello che aveva detto, e proseguì. «Tutto ciò l'avete reso perfettamente chiaro ieri. Dolorosamente chiaro. E ieri vi dissi che avrei riflettuto sulle vostre parole e sul vostro messaggio e che sarei arrivato a una decisione su come da oggi in avanti procederà la vita in questa Colonia. Nel frattempo, siete stati tenuti divisi dalla mia gente. Imprigionati, come avete preferito dire. Permettetemi di osservare che le leggi dell'ospitalità in questa Colonia e in questa terra sono sacrosante, e vincolano sia l'ospite sia il visitatore... Siete stati voi a forzare la mia mano nella faccenda della detenzione, provocando sotto il mio tetto un conflitto non necessario, ingiustificato, e senza precedenti. Dopo il mio colloquio di ieri con voi ho pensato di prolungare tale detenzione, allarmato dall'effetto che il vostro zelo intollerante avrebbe potuto avere su questa nostra gente, gente semplice, non usa alle sofisticherie, all'oratoria e alla semantica. É con la mente rivolta ai bisogni e alla generale prosperità del popolo della nostra Colonia che ho meditato sulle vostre parole e ho preso la mia decisione. Ho detto di essere un soldato. Non sono un filosofo, e non sono un teologo, ma nel bene e nel male ho la responsabilità del benessere di questa Colonia, e credo nell'adempimento delle responsabilità individuali. Credo perciò che sia mia responsabilità prendere ulteriori informazioni su questi immensi cambiamenti dei quali voi recate notizia, e cercare conferma, presso il più alto livello di autorità al quale posso accedere, che tali cambiamenti siano il risultato di attenta riflessione e discussione, e non ci vengano semplicemente imposti per il capriccio di un uomo solo o di un gruppo di uomini allo scopo di promuovere i loro disegni. Sarebbe irresponsabile da parte mia accettare le vostre asserzioni con superficialità: sono di troppo vasta portata, troppo estreme e troppo importanti per essere prese alla leggera. Questa è la mia decisione amministrativa, come Comandante in capo di questa Colonia. Riportatela a Roma... Non siamo ostinati, ma non siamo nemmeno disposti a mettere a rischio la nostra anima immortale senza una prudente investigazione delle circostanze che governano questa notevole riforma all'interno della Chiesa.» Fece un'altra pausa, e di nuovo il silenzio si protrasse finché non riprese. «D'altronde, come uomo e come soldato, mi accorgo di non avere simpatia per il vostro punto di vista. Trovo che questa idea del monachesimo sia odiosa e offensiva. É innaturale. Credo che se Gesù avesse desiderato che i suoi discepoli si comportassero in quel modo, l'avrebbe detto chiaramente. Su ogni altro argomento era un eloquente oratore. Nelle parole di Gesù non sento alcuna misoginia. Non è stato lui che ha detto: Chi è senza peccato lanci la prima pietra? Questo, signori preti, mi dice che il Cristo riconosceva il diritto dell'uomo alla responsabilità e all'autodeterminazione. Io personalmente abbraccerò le dottrine di Pelagio fino a quando qualcuno più morale e più ragionevole di voi mi convincerà che sbaglio.» Il prete non poté più sopportare di tacere. «Tu sei maledetto!» esclamò. «Sei marchiato con il peccato di Lucifero, l'orgoglio ottuso! E brucerai all'Inferno!» La pazienza di mio padre si esaurì, e la sua voce crepitò di disgusto. «Allontanate questa gente dalla mia vista! Popilio, che gli venga dato da bere e da mangiare e che vengano accompagnati sotto pesante scorta fuori dai confini della nostra terra, e che sia loro proibito di rientrarvi.» Dovette gridare per farsi sentire al di sopra delle imprecazioni dei preti, che adesso urlavano tutti, facendo un pandemonio. Gli uomini di Popilio dovevano essere rimasti in attesa appena fuori dalla porta, perché apparvero immediatamente e sospinsero gli urlanti zeloti fuori dalla sala; anche dopo che furono usciti, le urla continuarono. «Popilio!» La voce di mio padre si era levata in un ruggito. «Generale?» «Una pesante scorta. Voglio che quei preti siano fuori di qui alla svelta, e subito. Caricali su un carro. Imbavagliali se è necessario.» Popilio uscì e mio padre si sedette, livido in volto. Per molto tempo nella sala nessuno si mosse e nessuno parlò. Fuori le urla si spensero nel silenzio. Allora Giulio Terrice, capo del Consiglio e figlio di uno dei primi coloni, si alzò in piedi. «Pico Britannico. Hai detto che la tua decisione sarà inviolabile per ventiquattro ore, e ti sei assunto una ponderosa responsabilità comportandoti come hai fatto oggi.» La tensione si riannidò nella bocca del mio stomaco. «Non ho il diritto di parlare a nome di nessun altro, poiché in questa faccenda non abbiamo agito come un Consiglio, ma io, personalmente, approvo la tua posizione e la tua decisione, e la considerazione con cui le hai presentate. Da parte mia e di mia moglie, ti ringrazio.» Credo che tutti, come me, stessero trattenendo il respiro in attesa che Giulio Terrice facesse la sua solenne dichiarazione, perché non appena ebbe pronunciato il suo ringraziamento tutti gli uomini in circolo si alzarono, acclamando mio padre come non si era mai sentito. Andai al suo fianco, con il cuore gonfio di orgoglio e di affetto, e gli offrii la mia mano, e solo la stretta d'acciaio delle sue dita sul mio braccio tradì il suo enorme sollievo per la dimostrazione di generale consenso. L'avrei lasciato alle sue congratulazioni, ma mantenne la presa sul mio braccio e mi trasse in disparte. «Ebbene» grugnì. «Un peso fuori dai piedi.» Gli sorrisi. «Già, proprio fuori dai piedi.» Aggrottò la fronte. «Torneranno, credimi. Sentiremo parlare ancora di questa faccenda.» «Hai detto "un peso", padre. Ce ne sono altri?» «Sì. Ancora uno, ma adesso è tuo.» Lo fissai, ammutolito, e lui continuò, parlando a bassa voce e guardandosi attorno per accertarsi che nessuno ascoltasse. «Mi hanno trasformato in un amministratore, Cai, e mi hanno vincolato a questa Camera del Consiglio. I miei giorni di soldato sono finiti.» Fece con la mano un gesto perentorio per zittire le mie proteste. «No, ascoltami, ragazzo, e ascoltami bene. Non sono scontento. E non è un capriccio improvviso, né una decisione affrettata. La questione alberga nella mia mente da mesi oramai. É tempo che tu assuma ufficialmente il comando delle nostre forze combattenti.» Tacque un istante, scrutandomi con un sopracciglio alzato. «Non sto dicendo di essere troppo vecchio, ragazzo, perciò non mi guardare in quel modo. Sto dicendo che tu sei pronto per il comando, e che altre questioni, alcune vitali, esigono la mia attenzione. Cavalcherò ancora in battaglia, se e quando sarà necessario, ma il tempo mi sfugge come sabbia tra le dita, e qui a Camulod c'è molto da fare. Questa è la mia decisione e non c'è alternativa, nessun appello. Comandi tu. Uther risponderà a te, e tu risponderai sempre a me in tutto ciò che non concerne le questioni militari. In quel campo da questo momento in poi l'ultima parola spetta a te. Siamo d'accordo?» «Sì» dissi infine, senza parole e con un'insopprimibile tendenza alla balbuzie. «Ma... » «Niente ma. Informerò gli altri - tutti gli altri - stasera. Questa posizione te la sei guadagnata, figlio mio. Adesso convivici. » Brevemente e con forza mi strinse il braccio, e mi sorrise con un cenno del capo. «Non vedo l'ora di servire sotto di te, Caio Britannico.» Girò sui tacchi e senza voltarsi andò a unirsi ai suoi sostenitori, lasciandomi ai miei caotici pensieri. Quando mi ripresi tornai al mio alloggio per liberarmi di tutti gli ingombranti ornamenti prima del pasto di mezzogiorno. Fui sorpreso e contento di trovare il giovane principe Donuil che mi aspettava. Si alzò al mio ingresso e mi fece un cortese e di certo non ostile cenno di saluto. Gli risposi con un sorriso e gettai il mantello sul tavolo che fungeva da scrittoio. «Buongiorno. Spero che l'attesa non sia stata lunga. C'è stata una riunione del Consiglio.» «Lo so. Uno dei tuoi soldati parla la mia lingua. Mi ha detto che c'era grande eccitazione. Poi ho sentito le grida e la confusione nella corte. Pensavo di andare a vedere che cosa stava succedendo, ma le voci erano piene di rabbia e così invece sono venuto qui.» «Saggia idea. Sì, le voci erano senza dubbio piene di rabbia.» «Che cosa sta succedendo? O forse non me lo puoi dire?» «Perché no?» Mentre indossavo l'uniforme più leggera gli raccontai l'accaduto e come mio padre aveva risolto la questione. Ascoltò in silenzio finché non ebbi finito e poi disse, semplicemente: «Tuo padre sembra un uomo di principi. Lui e mio padre andrebbero d'accordo». «Credi davvero? Interessante. Ma hai ragione, mio padre è un uomo di principi. Sei cristiano?» Scosse la testa. «No. Da qualche anno ci sono dei preti all'opera sulle nostre terre. Sono innocui, e qui e là hanno convinto qualcuno, ma non molti, non da noi almeno. Ci sono re che li incoraggiano, però. A Occidente un vescovo di nome Patrizio si sta creando una folla di seguaci. Si narrano di lui storie meravigliose. Ma credo che ci vorrà più di qualche storia, per farmi abbandonare le antiche tradizioni.» «Vuoi dire che preferisci giocare piuttosto che pregare?» «Preferisco combattere.» Gli sorrisi. «Sì, ne sono certo. Andiamo a cercare del cibo. Hai pensato a quello che ti piacerebbe fare mentre ti trovi qui con noi?» «Sì.» «E allora?» Attesi. «Sono mezzo morto di fame. Potremmo trovare prima del cibo? Credo che a stomaco pieno mi riuscirebbe più facile dire quello che ho da dire, e forse tu ascolteresti più volentieri, con un buon fondamento.» Ero incuriosito. Non doveva essere stato facile decidere, qualsiasi cosa avesse deciso, ma nel suo atteggiamento non c'era tracotanza, né risentimento, così lo guidai fino al refettorio adiacente alle cucine e lo guardai stupefatto divorare tre volte la quantità di cibo che riuscii a mangiare io. Era un'ora tranquilla; vicino a noi c'era qualche giovane ufficiale e un capannello di soldati di fanteria fuori servizio all'altra estremità dello stanzone. Il mio prigioniero ingurgitò l'ultimo pezzo di pane e formaggio e spinse via il piatto vuoto con un rutto di soddisfazione. «Adesso capisco perché sei così grande e grosso» dissi, sorridendo. «Fa parte del tuo piano? Mangiare tutte le nostre provviste e prenderci per fame?» Alcuni giovani ufficiali si voltarono sorpresi al suono delle mie parole celtiche. Li ignorai e continuai a sorridere al mio prigioniero, che a lungo ricambiò il mio sguardo cercando in quella frase un significato nascosto, e poi mi sorrise di rimando. «È mia opinione che tu e la tua gente non vi sottometterete per fame.» «Su questo non discuto. Hai altre opinioni?» «È mia opinione anche che non conosco Lot di Cornovaglia meglio di quanto conosca te, avendolo visto solo due volte e ogni volta per poco tempo.» «E poi?» «Ritengo che il mio popolo trarrebbe più beneficio da un'alleanza con voi invece che con Lot.» «Come mai?» Fece per rispondere immediatamente, ma poi si fermò a riflettere, e la sua espressione era seria quando disse: «Non ne sono sicuro. Credo che si tratti dell'onore. Voi siete uomini d'onore e comprendete la necessità dell'onore. Il re di Cornovaglia ci ha poco a che fare, da quello che ho saputo». «Come puoi saperlo, Donuil, se non lo conosci?» Scrollò le grosse spalle. «Come faccio a sapere se il sole splende prima di uscire dalla mia capanna al mattino? Ci sono segni e suoni che lo annunciano. Ugualmente da certi segni capisco che noi Scoti faremmo meglio ad allearci con la vostra Colonia.» «Ma la nostra Colonia non ha bisogno di alleati. Specialmente in un'altra terra oltre il mare.» «Forse no, Caio Merlino, ma che bisogno hai di nemici, oltre lo stesso mare?» «Una buona risposta, principe Donuil. Se i nostri nemici hanno alleati oltremare, allora noi abbiamo nemici oltremare e dovremmo darci da fare per allearci con qualcuno che possa tenere quei nemici a casa loro.» Annuì, e io continuai. Ma diventa complicato, anche a dirlo, e abbiamo già risolto il problema. La tua presenza qui ha tagliato i fili dell'alleanza di Lot. Il tuo popolo non ci minaccia, per adesso.» «Non per cinque anni almeno, vuoi dire.» «Non per cinque anni almeno.» «E poi? Che cosa credi che succederà quando il mio tempo con voi sarà finito?» Toccò a me scrollare le spalle. «Chi lo sa? In cinque anni possono accadere molte cose. Il peggio che potrebbe succedere è che il tuo popolo scenda in guerra contro di noi. Ma noi saremo preparati a riceverlo. Non sarebbe piacevole, ma ci saremo premuniti e saremo pronti.» Lo guardai negli occhi grandi e sinceri che fissavano direttamente i miei. «Ma non siamo qui per discutere di una guerra che forse scoppierà tra cinque anni. Siamo qui per discutere dei tuoi pensieri su come potresti vantaggiosamente trascorrere quei cinque anni, badando al tuo benessere e alle tue comodità, e a un non proditorio beneficio per la comunità che sarà tua ospite durante quel periodo.» Sorrise. «Ben espresso, Caio Merlino.» «Bene» sorrisi anch'io, vedendolo comprendere le mie intenzioni con tanta chiarezza. «Che cos'hai deciso? Ti ci vuole parecchio tempo per venire al sodo.» «Sì, suppongo di sì, dal tuo punto di vista. Dal mio, invece, non vedo la necessità di impegnarmi a fondo con avventatezza. Mio padre mi ha sempre insegnato che nulla di importante dovrebbe essere messo in pericolo da un approccio frettoloso.» Fummo interrotti da Tito che, diplomatico come sempre, mi salutò formalmente di fronte al mio prigioniero e presentò le sue scuse per averci importunato. Mi alzai e rifiutai con un cenno le sue scuse superflue. «Che cosa c'è, Tito?» «Ho pensato che avresti voluto saperlo immediatamente, Cai. Abbiamo appena ricevuto notizia dagli avamposti che Uther e i suoi uomini stanno per arrivare. Dovrebbero essere qui entro un'ora.» «Uther sta bene? » Mi cadde un peso dal cuore; fin da quando mio padre aveva espresso la sua apprensione per la prolungata assenza di Uther, mi ero preoccupato anch'io come tutti che potesse essergli successo qualcosa. «Sembra di sì. Cavalca alla testa dei suoi uomini.» «Grazie, Tito. È una buona notizia. Sarò pronto a salutarlo ai cancelli. Dillo a mio padre.» Tito lanciò un'occhiata a Donuil, mi salutò di nuovo formalmente e se ne andò, e Donuil lo seguì con lo sguardo fino fuori dal refettorio. Tito e io avevamo parlato in latino, e Donuil non poteva aver capito quello che avevamo detto. «Chi è, quell'uomo? Che cosa fa?» «É Tito, l'aiutante di mio padre.» «Aiutante? Che cos'è un aiutante?» Ci dovetti pensare. Che cosa era un aiutante? «Assistente dovrebbe essere una parola buona come un'altra, ma in molte cose fa da amministratore per mio padre, perciò è molto più di un semplice assistente. Detiene una posizione di incontestabile fiducia.» «Capisco. È con tuo padre da molto?» «Sì. Da più di trent'anni. Perché?» Scosse la testa. «Pensavo solo che mi sembra un po' vecchiotto per fare ancora il galoppino.» «Galoppino? Che cosa significa?» «Inserviente, fattorino.» I lineamenti mi si indurirono in una maschera di disapprovazione. «Credo che faresti meglio a stare attento a quello che insinui con le tue parole, principe Donuil. Quell'uomo è l'amico più intimo di mio padre. All'interno del forte e del governo di questa Colonia non è secondo a nessuno se non al generale in persona. Non c'è nulla di servile in Tito e nelle sue funzioni, e in questo luogo non c'è nessuno, tranne te che parli per ignoranza, che non lo tenga nella massima considerazione.» Prima che avessi concluso la mia replica, punto sul vivo dallo sgarbo che avevo desunto dalla sua osservazione, aveva sollevato entrambe le mani con i palmi verso di me, e i suoi denti luccicavano in un ampio sorriso. «Basta! Basta! Non volevo offendere! Calmati, adesso!» Mi morsi la lingua e tentai di moderare il tono delle mie parole. «Che cosa intendevi dire, allora?» «Ebbene, comandante, ho osservato quello che fa un aiutante, e ho cercato di definire le sue mansioni. Ti ho detto che uno dei tuoi uomini parla la mia lingua. Ieri sera gli ho chiesto dei chiarimenti, e le sue informazioni sono state molto istruttive. É uomo di molti ruoli, il tuo Tito. Molti ruoli e molte capacità; molte doti e molto valore.» Sorrideva ancora, ma senza ironia. «Ma ammetterai che quello che fa, in tutto quello che fa, è servire tuo padre - anche se tu forse preferisci il termine assiste - qualsiasi siano le necessità di tuo padre. Non è così?» «Sì. É così. Serve mio padre, il suo generale. Meglio di chiunque altro.» «E non si risente di un simile servizio?» «Come potrebbe?» «Non lo so, Caio Merlino! Tra la mia gente credo che per un uomo sarebbe impossibile mostrare quel tipo di asservimento a un altro uomo senza perdere la propria indipendenza.» Ero ancora stizzito. «Pensi che manchiamo di orgoglio?» «No, no, nient'affatto!» Si stava davvero sforzando di non offendere. «Semplicemente c'è una differenza nel tipo di orgoglio, ecco tutto. Tra di noi ritengo che possa essere una debolezza, perché siamo troppo accaniti nel nostro orgoglio. Ognuno teme di sembrare dipendente da un altro. Questa è una debolezza, perché la forza e la responsabilità condivise, come qui, generano solidarietà. Lo vedo, anche se sono in tua compagnia solo da pochi giorni. Ma me ne sono accorto solo qui, osservando i tuoi uomini. No» proseguì, «l'orgoglio non vi manca. Solo che lo portate al di là della nostra comprensione. Il vostro genere di orgoglio si estende agli altri, alla gente che vi circonda, e non avete paura di venire giudicati dipendenti. Questa deve essere una forza.» Donuil fece una pausa. «Tuo padre non è più giovane. Quando morirà, comanderai tu?» «Sì. Qui nella Colonia, comanderò io.» «E allora Tito diventerà il tuo aiutante?» «Se sarà ancora vivo, immagino di sì. Perché me lo chiedi?» «Per curiosità, nient'altro. Non hai un tuo aiutante personale?» «No, non ne ho bisogno.» Il suo tono mi lasciava stranito. «Comunque, siamo di nuovo fuori argomento. Quando Tito è arrivato, stavi per dirmi che cosa vorresti fare qui a Camulod.» «Sì, è vero. È quello che mi piacerebbe fare.» Non capivo. «Lui. L'aiutante, Tito. È quello che mi piacerebbe fare.» «Vuoi dire, essere un aiutante?» Ero stupefatto. «Sì» annuì. «Il tuo aiutante.» «Il mio aiutante?» Non avrei potuto essere più sbalordito. «Ma... ma... non è possibile!» «Perché?» Mi trovavo in difficoltà. «Beh... non sai niente! Non sai niente di noi. Non hai addestramento! Non sai nemmeno cavalcare. Non parli la lingua. Sei un ostaggio, per Dio!» «Che cosa c'entra? Sono un ostaggio adesso, ma non lo sarò per sempre. Non sostengo che potrei incominciare oggi. Ma potrei incominciare a imparare.» «Come?» Ero completamente attonito, e cercavo di non ridere perché sapevo che l'avrei offeso. «Nello stesso modo in cui ho imparato a camminare e a parlare, dandomi da fare! Posso imparare a parlare il tuo latino. Potrei imparare a cavalcare. E ti servirei onorevolmente e con dignità!» Quell'ultima frase mi fece passare la voglia di ridere; malgrado le molte obiezioni che mi venivano in mente, quel ragazzo faceva sul serio. Iniziai a sentirmi a disagio, perché davvero non desideravo offenderlo o insultarlo. Scossi la testa, e gli parlai a bassa voce, sperando che dal tono sommesso intuisse il sincero rammarico con cui ero costretto a respingere la sua proposta. «Donuil» dissi. «Tu sei un principe del tuo popolo e sei qui come ostaggio per il suo comportamento. Quando ti ho chiesto di pensare come avresti voluto trascorrere il tuo tempo, non mi è proprio venuto in mente che potessi pensare a una cosa simile. Non puoi non vederne l'impossibilità. Tra cinque anni tornerai in patria, e a tempo debito reclamerai il tuo regno. Se quando ciò avverrà saremo amici, mi farà piacere, ma nel frattempo sei un nemico, per definizione.» Scrollai il capo. «Sono onorato, ragazzo, della tua scelta, ma...» Mi mancarono le parole. Mi fissava negli occhi. «Posso parlare?» «Parla. Accomodati, ma...» «E mi ascolterai fino in fondo?» Sospirai. «Ti ascolterò, ma perdi il tuo tempo se credi di riuscire a farmi cambiare idea.» «Come dovrei chiamarti?» «Durante una conversazione? Chiamami comandante Merlino. Lo fanno tutti.» «Comandante Merlino. Benissimo. Comandante Merlino. Innanzitutto, dovresti sapere che non sono un ragazzo. Tre anni fa ho affrontato i riti della virilità. Sono un uomo, qui e in patria tra gli uomini di mio padre." Fece una pausa e attesi, determinato a non interromperlo più. "Non c'è la benché minima possibilità che un domani io reclami il mio regno, come hai detto tu. Quel regno non è mio e non lo sarà mai. Io sono il penultimo di otto figli. Il rango più elevato a cui potrò mai aspirare in patria è quello di un insignificante capitano, e potrei ottenerlo solo per grazia dei miei sei fratelli maggiori, quattro dei quali non sanno che farsene di me. È per orgoglio che mio padre manterrà la mia promessa per il tempo che io trascorrerò qui come ostaggio. Se dovesse morire prima che il mio tempo sia finito, i miei fratelli considereranno assurdo il nostro patto senza pensare a me. È giusto che tu lo sappia. Ci ho pensato la prima notte in cella e la verità di questo fatto ha formato il mio pensiero al riguardo. Ho un fratello, Connor, che ammiro. Tu gli somigli, ma Connor è uno storpio. Ha perso l'uso delle gambe combattendo contro un orso. Nemmeno lui diventerà re. Il suo valore è grande, ma la sua infermità è ancora più grande. Pensavo che mi sarebbe piaciuto servirti, servire con te, come hai detto tu quel primo giorno. Non so come potrei farlo meglio, so solo che potrei.» Feci per parlare, ma mi prevenne con un gesto della mano. «Questa faccenda della lingua: potrei imparare in fretta il latino, se ce ne fosse bisogno. Ma mi è venuto in mente che potrebbe esserti molto utile avere qualcuno con cui parlare, qualcuno di cui ti fidi, senza che altri sappiano che cosa stai dicendo. Sono convinto che essere un aiutante sia come essere un amico fidato. Fidato e stimato. Non mi sentirei disonorato a guadagnarmi la tua fiducia e la tua stima, e ritengo che non dovresti sentirti disonorato nemmeno tu se insinuo che andrebbe anche a tuo beneficio. Se c'è una cosa che mio padre mi ha insegnato bene, comandante Merlino, è valutare gli uomini. Ti guardo e vedo il modo in cui tratti gli uomini, da tuo padre ai tuoi servitori ai tuoi soldati. Hai il loro rispetto, e non hai paura di mostrare loro il tuo rispetto. Ma soprattutto hai la loro simpatia, la loro ammirazione per quello che fai, prima che per quello che sei. Queste due cose, il rispetto e la simpatia, non vanno sempre insieme. So che tutti qui, tu incluso, mi considerate un pirata barbaro. Barbaro forse lo sono, secondo il vostro giudizio, ma non sono un pirata e non sono uno stupido. Conosco il mio valore. E so quanto potrebbe valere per te, Caio Merlino Britannico.» Ascoltavo esterrefatto quel giovane dotato di molto più intelletto e maturità di quanto mi aspettassi, e continuai ad ascoltarlo presentare i suoi pensieri in impeccabile ordine. «Adesso non so cavalcare, ma posso imparare a prendermi cura dei tuoi cavalli e della loro bardatura, e, imparando quello, imparerò a cavalcare. Non conosco le vostre armi, ma mi impegnerei a pulire e a custodire le tue, e cosi facendo imparerei a usarle e a maneggiarle. Lo stesso dicasi per la tua armatura e per i tuoi abiti. Non appena avrò imparato il latino, sarò il tuo messaggero personale.» Sorrise. «Nel frattempo ti farò da guardia del corpo. Almeno per quello ho le dimensioni e la forza. Ho cinque anni da trascorrere qui, comandante. Se, in questi cinque anni, non riuscirò a eseguire i compiti che mi assegnerai, mi farò da parte. Se, invece, mi riterrai adatto e lavoreremo bene insieme, rimarrò qui con te, di mia spontanea volontà, dopo essermi guadagnato il diritto di costruire a Camulod la mia casa. È tutto quello che ho da dire.» Da parecchi minuti me ne stavo a capo chino, stringendomi tra le dita la radice del naso per nascondergli la mia espressione. Rimasi in quella posizione e lasciai che il silenzio si prolungasse per poter fare ordine negli scandalosi pensieri che mi attraversavano la mente. Quando rialzai la testa con un sospiro vidi i suoi occhi che mi fissavano senza battere ciglio. Scossi la testa, ancora sconcertato dai miei pensieri. Ogni cosa in me mi stimolava a prenderlo in parola. «Che cosa devo dire? Tu mi fai onore, Donuil. Su questo non ho dubbi. Hai preso le mie riserve e le hai smantellate, e ora mi sembrano meschine. Devo ammettere che l'idea non è così stravagante come all'inizio ho creduto che fosse. Sono cinque anni. La proposta è encomiabile, ma tu che cosa ci guadagni da un simile accordo?» Sorrise. «Un posto a Camulod, nella vostra Colonia. Il diritto di cavalcare al tuo fianco e di adottare i tuoi modi. Non avrei rimpianti.» Scossi di nuovo la testa. «A mio padre verrebbe un colpo apoplettico.» «Perché?» Sorrise ancora, in un lampeggiare di denti. «Sta per acquistare grande forza, invece. Uno scoto leale nella sua casa.» Toccò a me sorridere. «Preferirebbe averne cento nelle sue celle. Ma ci penserò. Sinceramente, l'idea mi interessa, e più ci penso più mi attira. Ci dormirò sopra e ti comunicherò domani la mia decisione.» «Molto bene, comandante. Posso aspettare.» «Mi fa piacere. Nel frattempo, l'arrivo di mio cugino Uther è previsto da un momento all'altro. Questo era venuto a dirmi il legato Tito. Ha avuto a che fare con il tuo precedente alleato, il sedicente re di Cornovaglia. Sono curioso di sentire che cosa ha da raccontare. Vieni con me ai cancelli a vedere il loro ingresso. Uther merita sempre un'occhiata.» Si alzò in piedi, sovrastandomi. «Uther Pendragon. Non vedo l'ora di incontrarlo. Ho sentito tanto parlare di lui.» «In Ibernia?» «Dove? Oh, vuoi dire in Eire. Ibernia? Che brutto nome. Ma è lì che ho sentito parlare di Uther l'Usurpatore e di Cai il Codardo. È così che vi chiamano gli uomini di Lot.» Sentii un impeto di rabbia. «Un giorno, se mai lo rivedrò, farò in modo di sistemare anche questa faccenda.» XVIII. Uther entrò a Camulod con stile, malgrado il fatto che la colonna alle sue spalle contasse meno di quattrocento cavalieri dei cinquecento partiti per la Cornovaglia, e malgrado il fatto che non pochi recassero segni di ferite. Vedendolo avvicinarsi, notai che lui e i suoi uomini sembravano freschi e riposati per essere reduci da un'incursione, e pensai che dovevano essersi fermati a ripulirsi prima di arrivare a Camulod. Quel pensiero era malizioso, quasi maligno, e me ne vergognai. Guardai di sottecchi mio padre lontano meno di tre passi, con Tito al suo fianco, e lo sentii osservare: «Ecco, Tito, un comandante che si preoccupa del morale, non solo tra i suoi uomini, ma nella guarnigione. Devono essersi fermati a darsi una ripulita per fare una buona impressione sugli spettatori qui a Camulod. Buona pensata, ottima per la disciplina!». Il commento di mio padre, così a proposito, mi fece sentire meschino, ma mi rese anche consapevole della causa della mia meschinità: l'incertezza su come trattare Uther e affrontare i problemi a lui connessi. Sapevo di non essere pronto ad agire come se tra noi niente fosse successo, anche se probabilmente Uther era all'oscuro di tutto. Erano passate più di sei settimane dall'aggressione a Cassandra, e in tutto quel tempo non ci eravamo rivolti la parola, con l'eccezione delle poche battute che ci eravamo scambiati al Consiglio di guerra prima che andassi a combattere gli invasori dall'Ibernia. Sapevo che Uther sarebbe stato felice di vedermi, e mi si rivoltò lo stomaco per l'ipocrisia di abbracciarlo con tutti i dubbi ancora vivi nella mia mente. Decisi che non potevo affrontarlo e mi girai per andarmene, ma mi imbattei alla mia sinistra nel giovane Donuil, e fui d'un tratto acutamente consapevole della folla che intorno a me osservava la colonna in avvicinamento. Se me ne fossi andato così, all'improvviso e senza motivo, tutti si sarebbero chiesti perché, con la possibile eccezione di mio padre, che nutriva i suoi dubbi ma era pronto a estendere a Uther il beneficio di tali dubbi. Mi controllai e rimasi dov'ero, a guardare l'arrivo del corteo di Uther. Due vessilliferi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, portavano ognuno un ampio stendardo: uno raffigurava il drago rosso della sua famiglia, i Pendragon, e l'altro il grande drago dorato che era il suo simbolo personale. Fianco a fianco dietro al terzetto cavalcavano i quattro comandanti di squadrone anziani, seguiti a loro volta da una sfavillante schiera dello squadrone di Uther, i suoi Dragoni, così li chiamava. A una distanza di circa quindici passi avanzava un quartetto di stranieri, che a giudicare dall'abbigliamento dovevano venire dalla Cornovaglia, e dietro a loro chiudeva il corteo il resto delle truppe di Uther, in una colonna di otto file. La mia attenzione fu immediatamente calamitata dagli stranieri, che subito credetti prigionieri. Ma rinunciai immediatamente a quel pensiero, a causa della sicumera del loro portamento e dello stato dei loro abiti, che non denotavano né lotte né privazioni. Vidi infatti che cavalcavano a coppie, padroni e servitori, perché la prima coppia procedeva liberamente, mentre i due uomini e i due cavalli che la seguivano erano carichi di bagagli. Dovevano essere ostaggi d'alto rango, oppure ambasciatori da parte di Lot, anche se mi sfuggiva il motivo per cui un capo vittorioso dovesse tornare con gli ambasciatori del nemico sconfitto, e un nemico sleale per di più. Gli eserciti sconfitti non dettavano condizioni né pretendevano trattamenti speciali o trattati di pace; si sottomettevano, e basta. «Un'ambasceria di qualche sorta, ovviamente» mormorò mio padre accanto a me, «ma a quale scopo non saprei. Perché Lot dovrebbe pensare che siamo interessati a parlare con i suoi sgherri? Se fossi in lui, avrei paura che i miei servi possano essere sommariamente giustiziati a ricompensa della mia perfidia!» «Tu non sei Lot, padre. Da quello che so di lui, non perderebbe un solo istante di sonno per evitare tale conseguenza. Con questa mossa sta cercando di ottenere qualcosa. Forse del tempo. Ma lo scopriremo presto.» Le acclamazioni degli spettatori erano assordanti; ci ritirammo sulla tribuna per consentire alle truppe di Uther di radunarsi nella corte. Quando furono tutte allineate davanti a noi squillarono le trombe, e si fece silenzio. Uther si raddrizzò in sella e salutò mio padre. «Generale, salute! Ho l'onore di riferire la riuscita di questa spedizione. Proclamiamo la vittoria contro i nemici della Colonia, e portiamo ambasciatori» nella voce di Uther c'era solo una lieve sfumatura ironica «di Lot di Cornovaglia, le cui istanze verranno presentate a te e al nostro Consiglio nel tempo che deciderai. Devo comunicare che altri trenta uomini sono fermi ai confini delle nostre terre, e stanno ricevendo assistenza dal nostro medico in attesa di venire trasportati a Camulod.» Mio padre fece un formale cenno di assenso e rivolse uno sguardo di apprezzamento agli uomini appena ritornati, con il fermo proposito di ignorare completamente gli "ambasciatori" finché non avesse potuto formarsi una chiara idea delle loro mire. «Soldati di Camulod!» La sua voce non era particolarmente alta, ma raggiunse limpida e distinta ogni angolo della corte. «Benvenuti a casa. Vi siete comportati bene. Ognuno di voi è sospeso dal servizio per quarantotto ore.» Uther salutò di nuovo per conto dei suoi uomini. «Grazie, generale. Permesso di rompere le righe?» «Concesso.» Uther fece cenno al centurione anziano, e le righe ruotarono e sfilarono fuori dalla corte, dirette alle stalle; davanti a noi rimasero solo Uther e gli "ambasciatori" di Lot. Gli spettatori, per la maggior parte parenti e amici dei soldati, andarono con loro fino alle stalle. Uther scoccò un'occhiata agli ambasciatori e saltò giù di sella, dirigendosi verso di me a braccia spalancate, con quel suo enorme sorriso che minacciava di spaccargli la faccia in due. «Cai, bastardo! Mi sembrano anni che non ci ubriachiamo assieme!» Le sue braccia si chiusero intorno a me in una stretta stritolante, e non potei fare a meno di rispondere al suo affetto e all'evidente piacere di rivedermi. Puzzava di sudore, suo e del suo cavallo, anche se si era appena sbarbato e lavato. Gli restituii l'abbraccio, sollevato di scoprire che il mio piacere era assolutamente sincero. «Puzzi!» gli dissi. «Anche peggio di come ricordavo. Benvenuto a casa. Dal tuo silenzio incominciavamo a pensare che avessi incontrato la tua inevitabile fine per mano di un marito o di un amante geloso. Ma avevo scordato che, puzzando così, ti sarebbe impossibile avvicinarti a una donna.» «Non dovresti perdere tempo a preoccuparti per me, Cai. Sono troppo veloce da prendere, troppo pericoloso da combattere, e troppo bravo perché una donna si lamenti di me con un qualsiasi amante! Sono indistruttibile! Zio Pico!» Mi liberò e gettò le braccia intorno a mio padre, e non scorsi nessuna riserva nell'affetto con cui mio padre lo salutò. Cercai il giovane Donuil, ma non lo vidi, e rivolsi la mia attenzione ai quattro stranieri ancora a cavallo, che si godevano spassionatamente la loro prima visita all'interno di Camulod. Due erano servitori, come avevo immaginato. Gli altri due erano chiaramente di posizione elevata. Tutti e quattro cavalcavano senza sella. Esaminai i due portavoce, apparentemente inconsapevoli della mia attenzione. Erano entrambi della stessa razza, capelli neri e carnagione scura, e i loro abiti avevano molto in comune con quelli dei Celti che conoscevo, anche se i Celti di Cornovaglia sostenevano di discendere dalla tribù che gli uomini di Cesare avevano chiamato Ordoviceii. Sembravano anche della stessa altezza, ma quello più vicino a me era in qualche modo sproporzionato. Ne fui sconcertato e cercai una spiegazione, e la trovai. I loro cavalli erano di taglia differente. L'uomo più vicino montava un cavallo molto più piccolo, e tuttavia la sua testa era allo stesso livello di quella del suo compagno. Mi accorsi che aveva una colonna vertebrale eccessivamente lunga, e le gambe corte e tozze. La faccia era lunga e ossuta, e gli occhi infossati e troppo vicini rispetto alla larghezza della faccia. La bocca era nascosta da lunghi baffi spioventi. Aveva le spalle strette, e i capelli lunghi e unti gli si arricciavano tra le scapole. Lo presi subito in antipatia e rivolsi la mia attenzione al suo compagno. Non aveva nulla di strano a parte gli occhi, che erano quanto di più insolito si potesse immaginare: erano due bulbi di diverso colore. L'occhio destro era così scuro da parere nero, e l'iride non si distingueva dalla pupilla. L'occhio sinistro, invece era di un azzurro brillante e stupefacente. Era una faccia da spaventare i bambini, perché sembrava che il cranio fosse stato modellato senza globi oculari, e gli occhi fossero stati appiccicati sulla faccia soltanto dopo, così che sporgevano orribilmente. Mi domandai come lo chiamassero dietro le spalle; i suoi vestiti erano abbastanza ricchi da garantire che pochi avessero l'ardire di sbeffeggiarlo apertamente. Mio padre si girò verso Uther. «Comandante Uther! Permettimi una parola.» Nel tono della sua voce nulla indicava disagio o impazienza. Uther lasciò Tito e Flavio e si avvicinò a noi. «Zio? Che cosa state complottando voi due?» «Quegli uomini, Uther. Perché sono qui? Sono in missione diplomatica o sono prigionieri? Sarebbe bene che condividessi con noi i tuoi pensieri sull'argomento. Non guardarli.» Uther sorrise. «Non ho nessuna intenzione di guardarli, zio. Si sono avvicinati al mio campo una notte, invocando la protezione della Chiesa cristiana, e hanno voluto che li scortassi qui da te per discutere una questione della massima importanza, sia per il signore di Camulod sia per il signore di Cornovaglia.» «Di quale gravosa faccenda si tratta?» «Non lo so, ma con loro c'era un vescovo che mi implorava con il terrore negli occhi di esaudire le loro richieste, anche se mi sembravano più pretese che richieste. La mia prima reazione fu di mandarli al diavolo senza vestiti né servi, ma qualcosa nel terrore di quel vescovo mi fece cambiare idea.» «Ancora preti! Dov'è il vescovo adesso?» «É ritornato al forte. Avevo la sensazione che preferisse restare con noi, ma era soggetto a una qualche costrizione.» «É tornato indietro da solo?» «Sì, e malvolentieri, m'è parso.» Mio padre mi guardò con un sopracciglio alzato. «Caio? Qual è la tua impressione?» «Interessante. Quando pensi di parlare con loro?» «Uther? Che cosa ne pensi?» «Non riconoscerei nemmeno la loro dannata esistenza, se dipendesse da me, ma suppongo che dovresti riceverli domani, o dopodomani.» «Non stasera?» «Assolutamente no, zio. Sono uomini di Lot e Lot è un bastardo malvagio e maligno. Lascia che facciano anticamera per un paio di giorni. Non guasterà. Accoglili, alloggiali, nutrili, e falli aspettare.» D'un tratto mi sentii a disagio. «No» dissi. «Aspettate un momento. C'è qualcosa che non quadra qui, qualcosa che non mi piace.» Mi guardarono entrambi interrogativamente e io scossi la testa. «Non ha senso. Lot può essere tutto quello che dici, cugino, ma è anche temerario, e astuto. Deve avere in mente un piano se ha mandato qui questi uomini e, qualsiasi cosa siano in realtà, scommetto che non sono ambasciatori. Potrebbero essere spie, ma a quale scopo?» Un pensiero errante e repentino andò al suo posto con uno scatto. «Tempo!» dissi. «Forse sta cercando di guadagnare tempo.» Mi fissarono perplessi, senza capire. Io scossi ancora la testa. «Non so perché, ma lasciandoli aspettare è possibile che facciamo proprio quello che vuole Lot.» «Forse hai ragione, cugino sagace.» Uther era ancora perplesso, però stava riflettendo. «Ma comunque non risolveremmo nulla parlando con loro stasera. Io non ti sarei di nessun aiuto, questo posso assicurartelo. Sono qui in piedi a chiacchierare, ma sono stanco morto, eppure voglio ascoltare che cos'hanno da dire.» «Così sia.» Mio padre aveva preso una decisione. «Parleremo con loro domattina. Per ora li lasciamo alle tue attenzioni, e noi due non ce ne cureremo. Provvedi al loro alloggio, ma vieni da me prima di fare qualsiasi altra cosa. Cai e io ti aspetteremo.» Batté una mano sulla spalla di Uther e mi sospinse avanti con l'altro braccio, e ci allontanammo insieme, abbandonando Uther con i suoi ospiti. Ci dirigemmo all'alloggio di mio padre, e quando giungemmo in prossimità dell'edificio vidi il giovane Donuil che cercava di attirare la mia attenzione. Anche mio padre lo vide, e non mi lasciò dubbi su quello che pensava. «Per la Croce di Cristo, ecco che arriva il tuo pagano domestico. Liberatene, Cai. Abbiamo cose più importanti da fare che perdere tempo con lui!» Mi fermai. Donuil si affrettò a raggiungermi, e rivolse un saluto incerto a mio padre che proseguì impassibile. Levai una mano ad arginare le parole del giovane prima ancora che potesse pronunciarle. «Donuil, non ho tempo di parlare con te adesso. Mio padre mi ha chiamato a colloquio e non ha tempo da perdere.» «Ma...» «Niente ma, Donuil! Ho ricevuto un ordine, e se devi lavorare con me è meglio che impari che cosa significa. Adesso devo andare.» Ripresi a camminare e lui si fece da parte, con un'espressione angosciata e mortificata. Entrando nell'alloggio di mio padre mi scontrai con un soldato che usciva di corsa. Entrai nella stanza che ancora lo stavo guardando. «L'ho mandato a prendere del vino. Suppongo che Uther avrà sete, e parlare secca la gola.» «E ascoltare anche. Mi sembri preoccupato, padre. Che cosa sospetti?» Si era già tolto elmo e mantello; si sfilò la tracolla con la spada e si abbandonò scompostamente su una comoda poltrona. «Siediti. Non so perché, ma non mi piace. Nemmeno un poco. Voglio interrogare Uther sulle circostanze della "richiesta" del vescovo. Lot è un animale astuto. Questa faccenda puzza di perfidia incombente.» Mi tolsi anch'io gli indumenti superflui, e mi accomodai su una sedia di fronte a lui. «Ci ho pensato» dissi, distendendo la tunica. «Uther ha detto che il vescovo è tornato al forte. Significa che Uther era accampato nei pressi, forse proprio di fronte ai cancelli. E significherebbe che Uther è stato in grado, con soli cinquecento uomini, dei quali ne ha persi quasi un centinaio, di spingere tutto l'esercito di Lot dentro il forte.» «Stai facendo delle ipotesi.» Mio padre era scettico. «Non vedo come Uther avrebbe potuto sconfiggere l'esercito di Lot con soli cinquecento uomini. Ma su una cosa hai ragione. È strano che si sentisse tranquillo ad accamparsi così vicino alla roccaforte di Lot.» Uther entrò slacciandosi il mantello, seguito a ruota dal soldato che reggeva un vassoio con un bottiglione e delle coppe. «Ah! Latte di mamma!» disse vedendo il vino. «Riempimi una bella coppa, soldato. Ho metà della polvere del sud-ovest appiccicata al palato.» Il soldato riempì e distribuì le coppe, e ci lasciò a brindare al ritorno dell'eroe. Uther vuotò la sua coppa e la riempì di nuovo prima di appollaiarsi comodamente sul bordo del tavolo, «Dio! Che buon sapore! Zio Pico, stai ovviamente aspettando qualcosa. Che cosa?» «Le notizie della tua campagna.» «Te l'ho detto. Abbiamo vinto.» «Hai perso cento uomini.» Uther ridiventò serio. «Già. Ne ho persi un centinaio. Trenta avranno la possibilità di risalire a cavallo, ma gli altri settanta sono andati.» «Come?» «Quasi tutti in una brutta trappola, lungo la costa della Cornovaglia.» «Che cosa è successo?» «Ho imparato una lezione a caro prezzo. Siamo caduti in una trappola in pieno giorno, e ci hanno stroncati.» «Racconta.» «Non ho mai visto niente di simile» disse con un sospiro. «Da tre giorni non avvistavamo il nemico, ma stavamo seguendo tracce ben visibili. Siamo arrivati sulla scena di una scaramuccia. C'erano forse sessanta cadaveri, evidentemente uccisi in battaglia, e una decina che erano stati giustiziati. Erano stati spogliati degli abiti e delle armi.» «Chi erano? Ne hai idea?» Uther scrollò il capo. «Nessuna. So solo che non erano i miei. Comunque, le tracce che si allontanavano da quel luogo erano nitide, e le abbiamo seguite.» «Per tre giorni?» «Esatto.» «E il nemico non l'avete visto?» «Non sapevamo nemmeno se era il nemico. Se erano gli uomini di Lot, almeno, perché chiunque avessimo incontrato laggiù sarebbe stato un nemico.» «Aspetta un momento. E il gruppo a cui siete andati incontro? Quelli che hanno distrutto il nostro avamposto?» «Non ne abbiamo visto nemmeno l'ombra. Abbiamo trovato tracce del loro passaggio, in direzione sud-ovest, e le abbiamo seguite, ma le abbiamo perse non appena siamo arrivati sul terreno roccioso. E poi abbiamo dato la caccia ai fantasmi.» «Non avete visto nessuno?» «Esattamente, zio. Neppure un'anima. Tutto deserto.» «Finché non avete trovato quei cadaveri?» Uther annuì solennemente. «E poi avete seguito altre tracce per tre giorni e siete caduti in una trappola?» Un altro cenno di assenso. «Non avevate mandato avanti gli esploratori?» Uther si limitò a inarcare un sopracciglio. «Ebbene? Avevate mandato avanti gli esploratori?» «Certamente.» «E allora, in nome della Croce di Cristo, come avete potuto cadere in una trappola?» «Senza la minima difficoltà, zio. I nostri esploratori ci sono passati in mezzo senza nemmeno sospettarne l'esistenza, e noi li abbiamo seguiti.» Mio padre sbuffò. «Immagino che ce ne parlerai, prima o poi?» Il suo pesante sarcasmo era completamente sprecato con Uther. «Se me lo permetti.» Abbassai la testa per nascondere un involontario sorriso. Io non avrei osato prendere mio padre per il naso in quel modo. Ma Uther proseguì, imperturbabile. «Alla fine siamo arrivati sulla costa. Da quelle parti il terreno è molto roccioso, e le tracce che seguivamo si mantenevano vicine al margine della scogliera. Avevamo la scogliera e il mare alla nostra destra, e il terreno saliva piano e per gradi a sinistra. Non c'erano alberi neanche a parlarne, e i nostri esploratori stavano sulle colline, da dove potevano vedere per miglia tutt'intorno. Li avevo mandati tre miglia avanti e tre miglia sul fianco sinistro. Non c'era niente, nessuno. E poi il nemico ci ha colpiti.» Fece una pausa e ci rassegnammo ad aspettare. «Da più di un giorno ci trovavamo su un terreno ondulato, immutabile, erboso e scoperto lungo la sommità delle scogliere. Più in su a sinistra si affondava fino al ginocchio in felci e ginestroni, non tanto alti da nascondere un uomo sdraiato, ma spinosi e dolorosi abbastanza da rendere vita dura ai nostri cavalli, e così restammo in basso, sull'erba.» «Ecco da dove vi hanno attaccati!» Mio padre non resisteva più. «Vi sono arrivati addosso dai ginestroni!» Uther socchiuse gli occhi e strinse le labbra, e a lungo non disse nulla. «No, zio, ti ho detto che non erano né fitti né alti abbastanza da nascondere un uomo, nemmeno se si fosse schiacciato a terra. Ci hanno attaccato dall'erba. Dal terreno scoperto!» «É impossibile! Devo forse credere alla magia, adesso?» «É proprio quello che mi sono chiesto quando li ho visti apparire dal nulla. Ho pensato: É impossibile! E poi ho pensato: É magia! Lo confesso, ho avuto paura della morte in più di un modo. Ma non era impossibile, e non era magia. Era brillante strategia. E mi sono ricordato che te n'eri servito tu stesso, anni fa. Eravamo in un avvallamento, una depressione tra due promontori, forse mezzo miglio da cresta a cresta. Ho scoperto poi che in passato - Dio sa quanto tempo fa - un moto del suolo aveva aperto nel terreno una grande crepa che si estendeva per quasi tutto il mezzo miglio. Era come se tutta la scogliera si fosse piegata su un fianco, verso il mare. In alcuni punti la crepa scendeva apparentemente per miglia, ma altrimenti era piena di detriti, e sul fondo ci era addirittura cresciuta l'erba. L'imboscata aveva richiesto una lunga pianificazione. Ginestroni e felci crescevano fin sul bordo superiore della crepa, ma l'intera lunghezza della spaccatura era completamente coperta da una rete a maglie fitte sulla quale erano sparse zolle, ginestroni e felci. Si erano messi sotto la rete, ben nascosti, e avevano aspettato il nostro arrivo.» Mio padre era cupo in volto. «Quanti erano?» «Più di duecento.» «Come combattevano?» «Efficacemente, e da lontano. Erano tutti arcieri.» «E tu che cosa hai fatto?» «Che cosa potevo fare? Dopo la sorpresa iniziale ho guidato una carica su per la collina.» «E poi?» «Sono scappati. A sinistra e a destra. In squadre alterne, e ciascuna metà copriva la fuga dell'altra metà. Erano letali. Siamo stati fortunati a perdere così pochi uomini.» «Vuoi dire che vi hanno completamente battuti? Quanti ne avete presi?» «Quattro.» «Quattro! Su duecento?» «Sì, zio. Avevo altre cose a cui badare e ho deciso di rinunciare all'inseguimento.» «Altre cose? Quali altre cose?» «Le urla dei miei uomini e dei miei cavalli.» Il silenzio si protrasse per alcuni istanti. «Uther, quello che dici non ha senso. Quali urla? Perché le urla dovrebbero trattenerti dall'inseguire il nemico in fuga?» Uther si chinò a riempire la sua coppa, imperturbabile. Bevve un sorso e si risistemò sul bordo del tavolo, dove rimase, senza parlare, a fissare il contenuto della coppa. Finalmente parlò, e le sue parole ci agghiacciarono il sangue. «Zio Pico, ogni uomo, e ogni cavallo, anche solo graffiato da una di quelle frecce, è morto urlando come se stesse bruciando vivo. Sono tutti morti in crudele agonia, con i muscoli contratti dagli spasmi. Non ci sono state eccezioni.» «Buon Dio!» disse mio padre. Io non trovavo parole. Uther continuò a parlare. «Capii subito che c'era qualcosa che non andava. In battaglia ci sono sempre delle urla, soprattutto quando vengono feriti i cavalli, ma nel tono e nel volume di quelle urla c'era l'impronta della demenza. Così alla prima carica cercai di scoprire la causa, e c'era un soldato, un uomo flemmatico che conosco da anni, che gridava come una ragazza violentata e agitava una mano sanguinante come se volesse strapparsela dal braccio. E vicino a lui ce n'era un altro, che scalciava e strillava, con una freccia nella carne del braccio. Era una ferita superficiale. Non spiegava certo quella reazione. Solo pochi uomini erano morti, zio, ma gli altri stavano impazzendo. Ho fatto suonare la ritirata, ma anche quando abbiamo smesso di inseguirli quei bastardi continuavano a lanciare frecce, e ogni volta che una freccia colpiva nel segno, le urla aumentavano.» Scosse la testa, nauseato. «Ho perso sessantatré uomini e settantadue cavalli. Tutti morti. Tutte le ferite sono state fatali. Nessuno si è ripreso. Ecco perché dico che siamo stati fortunati. Anche dopo che ho richiamato i soldati, avrebbero potuto ritornare a finire il massacro.» «Perché non l'hanno fatto?» Uther bevve un altro sorso di vino, poi rispose: «Perché erano stati troppo avidi. Avevano esaurito le frecce. Sapevano fin dall'inizio che, grazie al veleno sui barbigli, non avevano bisogno di mirare per uccidere, così tiravano a casaccio, sperando di fare il massimo danno nel minor tempo possibile. Hanno mancato troppi bersagli, tutto qui». «E non li avete inseguiti?» «Non subito. Come ho detto, avevo altre cose a cui badare. Allora non sapevo che tutti i feriti sarebbero morti come sono morti. Cercavamo di aiutarli. Solo più tardi ci siamo resi conto di quanto erano stati inutili i nostri sforzi. E ormai gli assassini erano spariti. Avevano delle galee nascoste sotto lo strapiombo della scogliera, davanti e dietro di noi.» «Che genere di galee?» chiese mio padre con acuito interesse. «Grandi. Biremi.» «E i trenta feriti che hai detto di aver lasciato al confine? Perché non sono morti anche loro?» «Sono stati feriti lealmente, in battaglia.» Mio padre si alzò e camminò per la stanza, ripensando a quello che aveva appena saputo. «Lot avrà molto di cui rispondere, quando ci troveremo faccia a faccia.» Uther lo guardò con una smorfia di disgusto. «Sembra di no, zio. I suoi due corvi là fuori dicono di non sapere niente di frecce avvelenate. Sostengono che i nostri aggressori non erano uomini di Lot.» «Come può essere? Era la terra di Lot. E vi stavano aspettando.» «Sì. Ma Lot afferma di avere perso sessanta uomini in una battaglia contro dei predatori venuti dal mare. E quegli arcieri se ne sono andati per mare.» «Puah! E tu gli credi?» «No. Non gli credo. Ma non dimostra niente.» Uther finì il suo vino e posò la coppa sul tavolo accanto all'anca sinistra. Parlai per la prima volta. «Allora chi erano gli uomini che hai trovato morti? E chi erano gli altri dieci che erano stati giustiziati?» Uther emise un grugnito di sdegno. «Per quello che ne so, potrebbero essere stati tutti uomini di Lot. È una bestia a sangue freddo. Sarebbe stato perfettamente capace di allestire la sua trappola uccidendo qualcuno dei suoi, in particolare se si trattava di ospiti delle sue prigioni, o di contestatori. Morti in quel modo, gli sarebbero stati utili. Vivi sarebbero stati solo un fastidio.» «Pensi davvero che potrebbe aver fatto una cosa simile?» chiesi. L'espressione di amaro stupore di Uther fu eloquente. «Non essere ingenuo, Caio. Certo che potrebbe! Ha usato frecce avvelenate, no? La sua trappola ha funzionato, no? E c'è voluto del tempo per congegnarla. Quel maiale userebbe qualsiasi mezzo per i suoi sporchi fini.» «E quali sono i suoi fini, Uther?» chiese mio padre a voce bassa. «A che cosa punta in realtà questo sedicente re di Cornovaglia?» «Vuoi che tiri a indovinare?» Uther si drizzò in piedi, allontanandosi dal tavolo. «Io direi al dominio.» «Dominio su che cosa?» «Su tutta questa terra, a partire da Camulod, e su ogni persona che ci vive.» Mio padre accusò il colpo in silenzio, tornò a sedersi e congiunse i polpastrelli sotto la punta del naso. Io cambiai posizione sulla sedia, e non dissi nulla, aspettando, come Uther, che mio padre continuasse a parlare. Infine alzò la testa e tirò su rumorosamente con il naso, guardandomi. «Dominio... conquistarci tutti. Ti suona familiare?» Annuii, rammentando di avergli sentito dire quelle stesse parole. Ma si stava già rivolgendo a Uther. «Questi ambasciatori. Dicci qualcosa di più.» «Non c'è molto da dire. Abbiamo proseguito fino al campo di Lot - è un forte dalle mura di tronchi, primitivo ma ben situato incontrando lungo il cammino solo una resistenza simbolica. Quando siamo arrivati, abbiamo trovato il forte sprangato e tutti dentro. Ci siamo fermati fuori dalle mura e un gruppetto è uscito a parlamentare. Ci hanno chiesto perché avevamo invaso il loro territorio. Non ci avevano provocato. Ho chiesto di parlare con Lot, ma non ha voluto onorarci della sua presenza. Ci siamo accampati a un miglio dal forte. La sera sono capitati quei due tizi con il vescovo, e quello che hanno detto mi ha convinto che non ci avrei guadagnato molto a restarmene lì seduto. I rifornimenti potevano arrivare dal mare. Ho deciso di tornare a casa a cambiare il raggruppamento dei miei soldati, dopo aver fatto rapporto e ottenuto il beneficio del tuo consiglio. Siamo ripartiti il giorno dopo. Due giorni fa abbiamo sorpreso un piccolo esercito di Sassoni, Sassoni veri. É in quell'occasione che ci sono state le altre vittime. Tre sono rimasti uccisi e gli altri sono stati feriti. I Sassoni hanno combattuto fino alla morte. Li abbiamo distrutti. É tutto quello che ho da dire.» «Ci sono stati trenta feriti in quel combattimento?» «No. Una ventina. Ventidue, per l'esattezza. Gli altri sono rimasti feriti durante la resistenza simbolica a cui ho accennato prima. Il combattimento lungo la strada per il forte di Lot.» «Aspetta, Uther. Fammi capire bene. Hai raggiunto il forte di Lot, il suo campo principale, senza quasi nessuna difficoltà, a parte quell'incontro con gli arcieri. Sei arrivato e l'hai trovato sbarrato, e tutti erano all'interno. È corretto?» Uther annuì. «Fuori non c'era nessuno?» «Nemmeno un'anima.» «Quindi avreste potuto assediarli?» «Sì, avremmo potuto. Ma a che scopo, e con che giustificazione? Non avevo prove che si fosse mosso contro di noi, nessuna prova. Sembrava che fossimo noi gli invasori, gli aggressori immotivati, sulla sua terra. Ha al soldo degli abili negoziatori. Comunque, io avevo solo quattrocento uomini. Non avevo modo di sapere quanti avrebbe potuto metterne in campo lui. E aveva il mare alle spalle. Se quelle galee che avevamo visto erano veramente le sue, avrebbero reso ridicolo ogni tentativo di assedio. Il suo forte è costruito proprio sopra la costa, sulla scogliera.» Mio padre aveva ripreso a camminare avanti e indietro, girando continuamente la testa per tenere gli occhi fissi su Uther. «Lot ti ha fatto credere di essere l'aggressore. Non ha fatto mosse dichiaratamente ostili. Ha finto di non sapere niente di quella disgustosa faccenda delle frecce avvelenate, e ha inviato questi due "ambasciatori" a parlare con noi.» Puntò gli occhi su di me. «Caio, il pensatore sei tu. Che cosa sta cercando di ottenere? Ha in mente qualcosa.» «Chiaramente» riconobbi, «ma temo che non scopriremo niente se non ascolteremo la sua ambasciata. Uther, hanno fatto qualche riferimento all'attacco da nord degli Iberni?» Scosse la testa. «Nessuno.» Mio padre fece schioccare il pollice e l'indice. «Hai ragione, Caio! Sta cercando di guadagnare tempo. Ma a quale scopo?» «Lo scopo apparente non ha importanza, padre. É il tempo che conta, ne sono convinto, e credo di sapere come e perché, ma devo chiedere a entrambi di avere pazienza con me e con le mie domande apparentemente sciocche. Rimandando indietro con te i suoi uomini, Uther, era certo di guadagnare sia tempo sia informazioni. Se con gli Iberni avessimo perso, o se ne fossimo stati massacrati, saresti stato accolto molto diversamente. I suoi "ambasciatori" avrebbero potuto presentargli un rapporto dal loro personale punto di osservazione. E lo faranno, perché Lot non sa che noi sappiamo della sua alleanza con gli Iberni.» «Che cosa stai dicendo?» Uther si era scurito in volto. «Il doppio attacco non era una coincidenza? Lot si è alleato con i barbari?» «Sì» gli risposi. «Lui e la sua gente sono stati impegnati a fare amicizia con gli Scoti dell'Ibernia. Amici che potevano aiutarlo militarmente via terra, e rifornirlo generosamente per mare nell'eventualità chela sua roccaforte subisse un assedio.» «Come l'hai scoperto?» «Per caso» intervenne mio padre. «Cai ha fatto un patto con un principe nemico. L'ha preso in ostaggio in cambio delle vite di un migliaio dei suoi uomini.» Uther mi guardò dubbioso. «Ha funzionato bene» dissi prevenendo la sua domanda. «Mi fido di quell'uomo. La sua parola reggerà, e ciò significa che mentre lo tratterremo il popolo di suo padre non si muoverà contro di noi. Cinque anni. É stato lui a dirci dell'alleanza.» Uther era confuso. «Non capisci ancora, Uther?» lo incalzai. «Lot non può sapere come sono andate le cose. Per quanto ne sa, noi crediamo di essere attaccati da predatori dell'Ibernia. Se riusciamo a respingerli, ci costerà; quanto più, tanto meglio, dal suo punto di vista. Nel frattempo, con un diversivo calcolato per coincidere con il loro attacco, ci obbliga a dividere le nostre truppe. Ciò ottenuto, si ritira davanti a noi senza provocarci, e facendoci passare per aggressori. Poi ti attacca, massacra i tuoi uomini e il morale di tutti, ma si da la pena di mantenere un'apparenza di innocenza. Dev'essere stato parecchio deluso dalla piccola entità delle tue perdite. A ogni modo, essendo la parte offesa e innocente, ha il diritto di mandare dei messaggeri con addolorate rimostranze per la nostra invasione delle sue terre. Queste spie, in virtù della loro aria di innocenza, gli riporteranno in fretta la notizia del successo dei suoi alleati contro di noi. Comunque si risolva la faccenda, ha guadagnato tempo e informazioni sulle nostre condizioni e sul nostro grado di prontezza nell'eventualità di un ulteriore attacco. Ma soprattutto le sue spie potranno valutare la nostra effettiva forza in termini di uomini e di cavalli dopo che abbiamo sostenuto un'aggressione su due fronti.» Nel corso del mio riassunto, mio padre aveva dimostrato con cenni di assenso la sua tetra approvazione. Quando Uther parlò, nelle sue parole c'era un tono di involontaria ammirazione. «Quel bastardo! Che tortuoso, infido, amorale...» «Già, e molte altre cose, Uther» dissi interrompendolo. «Ma includi geniale, e scrupoloso. Se fosse dalla nostra parte, sarebbe uno dei nostri principali strateghi. La falla nel suo piano è stata accidentale. Abbiamo rovesciato le posizioni e stretto un accordo con i suoi alleati, e ne siamo usciti con più informazioni di prima mano di quanto Lot potesse prevedere.» «Va bene, Caio» disse mio padre. «Sei entrato nella mente del nostro antagonista meglio di quanto avrei potuto fare io, o avrebbe potuto fare Uther. Io non trovo nessun difetto nella tua logica e nelle tue deduzioni. Ma confesso che la tua allusione al tentativo di guadagnare tempo mi lascia interdetto. Perché dovrebbe aver bisogno di tempo? Per che cosa? Che cosa ci possiamo aspettare?» «Sto pensando adesso che potrebbe averlo già guadagnato.» Annuirono, con lo sguardo intento, e mi presi qualche secondo per organizzare le parole. «Credo che Lot sia qui, vicino a noi, in questo momento. Credo che ci attaccherà appena potrà, con tutti gli uomini a sua disposizione, prima che possiamo prepararci. Uther, hai una vaga idea delle forze armate che aveva nascosto dentro le mura?» Una breve scossa del capo. «Assolutamente nessuna idea. Il forte avrebbe potuto essere vuoto, o avrebbero potuto esserci cataste di uomini, impilati uno sull'altro come tronchi. Non posso saperlo.» «È quello che pensavo. Allora, tenete bene in mente con che tipo d'uomo abbiamo a che fare e fate lavorare l'immaginazione. Uther, tornato a Camulod, avrebbe potuto trovarsi di fronte una di queste tre situazioni: la prima, e più desiderabile dal punto di vista di Lot, che fossimo stati sconfitti dagli invasori scoti, e di conseguenza Uther sarebbe caduto in una trappola mortale; la seconda, che fossimo stati in qualche misura vittoriosi, ma non credo che Lot avrebbe potuto prevedere una vittoria così completa, perché Dio era chiaramente dalla nostra parte e Lot non ha niente a che spartire con nessun dio, e allora Uther ci avrebbe trovati intenti a leccarci le ferite e a recuperare le forze; la terza, che fossimo ancora impegnati nella campagna contro gli invasori, e in questo caso a Camulod Uther avrebbe trovato solo una guarnigione. Una qualunque di queste tre possibilità sarebbe andata a vantaggio di Lot. Ricorda che le sue spie cavalcano con te, Uther, e si suppone che tu sia convinto dell'incolpabilità di Lot, malgrado la personale avversione che potresti avere nei suoi confronti. Siete d'accordo con me, finora?» Annuirono, attenti. «Ora, se io fossi subdolo come Lot, ci attribuirei sufficiente malizia da fare aspettare quei due uomini un giorno almeno, due o tre se siamo fortunati. Se gli Scoti sono stati vittoriosi, Lot non ha problemi. Se abbiamo vinto noi, allora ci serve tempo per curarci le ferite e riorganizzarci, e dovremmo sentirci sollevati sapendo - a dispetto di eventuali cattivi presentimenti da parte di Uther - che il problema nel sud-ovest era senza fondamento.» La mia logica era ineccepibile, ma portava a conclusioni che sorprendevano perfino me. Trassi un respiro profondo prima di esporre il risultato delle mie elucubrazioni. «Padre, Uther, sono pronto a scommettere che Lot si è attaccato alle calcagna di Uther, e adesso è a meno di due giorni di marcia da qui, con il suo esercito al completo, e aspetta il ritorno delle sue spie. Se non arrivano entro due giorni, saprà che a nord non ci hanno sconfitto. Se ascoltiamo i suoi inviati e li rimandiamo indietro immediatamente, domani, allora lo saprà entro tre giorni e sarà comunque più vicino di quanto sospettiamo. Se invece li facciamo aspettare per due, tre giorni, avrà tutto il tempo di schierare il suo esercito e di colpirci da ogni direzione, all'improvviso. Si servirà della partenza delle spie come segnale per attaccare, oppure si muoverà contro di noi mentre sono ancora qui.» «Sacrificherebbe i suoi amici senza pietà?» Mio padre pensava ancora a Lot in termini di umana decenza. «Quell'uomo non ha amici, padre. Non ci penserebbe due volte. Credo che Lot di Cornovaglia abbia intenzione di iniziare una guerra totale contro di noi, fra non meno di tre e non più di cinque giorni da oggi. Diciamo fra quattro giorni, ma teniamoci pronti per tre. E sarà davanti ai nostri cancelli.» Un silenzio interminabile seguì le mie affermazioni. Fu mio padre a infrangerlo, nel tentativo di aggrapparsi a una tenue speranza. «Cai, non discuto la tua logica, ma ha un difetto. Là fuori c'è la nostra gente, sparsa per tutte le nostre terre. Se l'esercito di Lot cercasse di avvicinarsi, anche se con prudenza, l'avremmo saputo.» Scossi la testa mentre ancora parlava, negandogli anche quella via di scampo, che avevo già preso in considerazione. «Tu credi, padre? Non dimenticare i suoi duecento arcieri con le frecce in grado di uccidere con un graffio. Quelli potrebbero muoversi in circolo intorno a noi su un fronte largo un miglio, e uccidere ogni anima vivente. Specialmente se lo facessero di soppiatto. Non abbiamo così tanta gente là fuori, e quelli che abitano nelle fattorie, dopo aver lavorato tutto il giorno, tendono a riunirsi. Non ci sarebbero superstiti in grado di raggiungerci con un avvertimento. La stessa cosa vale per sentinelle e avamposti. Frecce avvelenate! Basta una scalfittura. Uther, quanto impiega un uomo a morire?» «Tutti gli uomini che ho perso sono morti in mezz'ora. La maggior parte è morta in metà tempo.» Guardava mio padre, e mio padre ascoltava, pallido in volto. «Padre» dissi più dolcemente che potei, «dobbiamo supporre che le persone dentro e intorno a Camulod, le persone che possiamo udire e vedere, siano le uniche persone ancora vive in tutta la regione, sempre escludendo i nostri nemici.» «É mostruoso!» «Mostruoso e malvagio. Ma è tipico di Lot di Cornovaglia, che è un mostro malvagio.» Lo avevo convinto. «Va bene! Che cosa suggerisci di fare?» Era tornato a essere se stesso. Cambiai tono di voce. «Ci muoviamo, immediatamente. Uther, cugino, non potrai riposarti molto stanotte. Meglio convocare Tito e Flavio. Avremo bisogno di loro.» Percosse il piccolo piatto d'ottone sul tavolo e diede gli ordini necessari al soldato che si presentò alla sua chiamata. Uther sospirò e distese le membra. «Che cosa hai in mente, Cai?» «I tuoi inviati. Non voglio che sospettino che ci stiamo mobilitando. Non devono sapere niente. L'unica cosa che voglio che pensino è che siamo stupidi e ignari come credono che siamo. Per fortuna, se i miei sospetti sono esatti, daranno per scontato il modo in cui li trattiamo. Li voglio sottoposti a una sorveglianza discreta, ma voglio che siano al corrente della sua esistenza. Tienili lontani da qualsiasi luogo o persona che possa far loro subodorare che cosa stiamo facendo. Ho già chiesto ai sovrintendenti dei nostri allevamenti di radunare tutti gli animali per un censimento. Abbiamo preso tali accordi per puro caso, prima che avessimo sentore di questa faccenda, ma significa che i nostri cavalli saranno tutti dove ci servono. Lot sa già che Uther aveva quattrocento uomini a cavallo, perciò si aspetterà di trovarli qui. Va bene. Saranno qui, ma sto pensando alla differenza di più di seicento cavalli di cui mi hai parlato, padre. Sappiamo di essere più forti di quanto chiunque altro si immagini. Sarei sorpreso se avessimo nella nostra Colonia meno di settemila anime, distribuite tra campi e fattorie.» Cercavo una conferma, ma nessuno dei due rispose. «Ne convenite? Circa settemila persone, contando donne e bambini?» Mio padre annuì. «Sì, come minimo. Il nostro numero è cresciuto costantemente negli anni. Ci sono più di duemila persone qui a Camulod, dentro e fuori le mura. Ci siamo sempre concentrati sulla nostra forza - sulla nostra capacità di difenderci - ma negli ultimi anni, per una questione o per l'altra, abbiamo perso di vista le cifre.» «E i registri?» «Il fatto è che da un po' di tempo nessuno li verifica. L'ultimo conteggio che ricordo stabiliva il nostro numero intorno alle quattromila unità, ma sono già trascorsi alcuni anni.» «Quanti anni?» «Quattro, forse cinque. La nostra priorità era produrre abbastanza cibo per nutrire tutti. Abbiamo diboscato altra terra e ripreso a coltivare molte fattorie abbandonate nelle zone periferiche. Rammenti? Eri preoccupato perché sarebbe stato necessario aumentare i pattugliamenti.» «Lo rammento bene» dissi. «Ma credo che quando controllerai gli archivi sarai stupito di vedere quanto siamo cresciuti di numero.» Uther mi interruppe. «Hai perso il filo del discorso, Cai. Stavi parlando dei miei quattrocento cavalieri. Che cosa volevi dire?» «Che dovrebbero rimanere qui, a difendere il forte. Nel frattempo, vorrei fare uscire in segreto dalla Colonia un altro migliaio di uomini a cavallo.» «Un migliaio?» Scrollai le spalle. «Forse non saranno tutti montati su cavalli da cavalleria, ma scommetto che i cavalli ce li abbiamo, e abbiamo gli uomini. Gli uomini non avranno nemmeno un equipaggiamento completo, ma potranno stare su un cavallo e impugnare una lancia, e quando appariranno inattesi alle spalle dell'esercito di Lot, lo spaventeranno a morte!» Mi imploravano con lo sguardo che li convincessi. «Uther. Dove sono alloggiati adesso i tuoi quattrocento?» «Nella vecchia stalla di Vittore. Ma li abbiamo congedati per quarantott'ore, ricordi?» «Dannazione! Beh, è accettabile. Rimarranno nei dintorni e saranno richiamati in servizio non appena conclusa la licenza. Sono i nostri uomini migliori. Speravo di sostituirli con soldati di minor valore, ma non importa. Quando toccherà a loro, saranno inestimabili. Bada per favore che siano di nuovo qui in servizio domani sera. Gli altri mille li prenderò da campi e fattorie. Voglio una colonna di mille uomini a cavallo pronti a partire per nord-est domani a mezzogiorno. Anche più numerosa, se ci riusciamo. Il commissariato dovrà ricevere al più presto l'ordine di preparare razioni per dieci giorni per almeno mille uomini. Dovremo farli disperdere a ventaglio. Non voglio che siano visibili le tracce di mille uomini a cavallo. Non mi interessa come, ma è essenziale. Se ho ragione, gli uomini di Lot arriveranno da sud e da ovest. I nostri avranno la possibilità di dirigersi a nord e a est se si muovono in fretta, ma se lasceranno evidenza del loro passaggio Lot saprà che sono là fuori. Inoltre, voglio richiamare tutti gli uomini dagli avamposti di confine. So che potrebbe insospettire Lot, ma annunceremo un giorno di festa per un qualsiasi motivo. Voglio solo che tornino qui, pronti a mettersi al sicuro dentro le mura. Ricordate che dobbiamo mostrare di credere che non ci sia più pericolo. Possiamo allentare la vigilanza. Come stiamo a provviste? Siamo in grado di sostenere un assedio, padre?» «Sì, per almeno un mese.» «Bene. Con un po' di fortuna, non ci vorrà così tanto tempo. Nei prossimi giorni dovremo riempire i magazzini e i depositi della villa, e prepararci a trasferire le provviste qui nel forte al primo accenno di pericolo. Ho trascurato qualcosa?» «E la gente?» disse Uther. «I coloni qui al forte? Non dovremmo avvisarli?» Riflettei brevemente e lo proibii con un secco cenno del capo. «Non possiamo permettercelo, Uther. È troppo rischioso. Devono comportarsi normalmente, a beneficio degli osservatori. Possiamo solo fare avvicinare al forte più gente che sia possibile. Certo, se dichiariamo un giorno festivo, per festeggiare le nostre vittorie e il tuo ritorno sano e salvo, allora li attireremo qui. Si potrebbe fare domani. Non abbiamo mai fatto niente del genere.» «Non così all'improvviso, comunque» disse mio padre. «Tanto meglio, allora.» Provavo quella sensazione positiva che viene dal riconoscimento di una buona idea. «E senza precedenti. Una festa spontanea. Voglio che tutti credano che i festeggiamenti incominceranno domani sera e continueranno per tutto il giorno seguente. Padre, dovrai fare in modo che l'invito sembri autentico, e tuttavia perentorio. Tutti devono partecipare. Dovrai anche informare il Consiglio di quello che sta succedendo.» «Dovrò farlo comunque.» «Allora fallo, al più presto, ma prima indici la festa. La nostra gente deve essere qui al sicuro non appena possibile. Nel peggiore dei casi, quante persone possiamo ospitare a Camulod?» «Più di quelle che abbiamo. Molte di più. Nessun problema.» «Bene. I nostri coloni si sono addestrati per anni. Possiamo solo sperare che il loro addestramento sia stato adeguato.» A quel punto, Tito annunciò il suo arrivo con un colpetto di tosse sulla soglia della porta aperta, e Flavio apparve dietro di lui. «Entrate, tutti e due» disse mio padre, «e chiudetevi la porta alle spalle. Avvicina quella sedia, Tito. Flavio, ne troverai un'altra in quella stanza. Abbiamo tra le mani una situazione di emergenza.» Era quasi mezzanotte quando uscimmo da lì. Tutti sapevano che cosa bisognava fare, ognuno conosceva la propria parte nell'operazione, e ciascuno di noi era conscio della necessità di agire rapidamente e con discrezione. Avevamo avviato una campagna di vaste proporzioni, e l'esistenza stessa della nostra Colonia dipendeva dalla celerità e dall'efficienza con cui l'avremmo condotta. La mia parte iniziale era semplice e chiara. Dovevo avvertire Ludo e il commissariato dell'urgenza di esaudire le nostre inaspettate richieste. Rientrava sotto la mia responsabilità anche provvedere al trasferimento di scorte e provviste nella foltezza. Avrei potuto farlo l'indomani, senza sollevare sospetti; poiché avevo già preso accordi per il censimento, nei nostri depositi sarei stato atteso. Nessuno si sarebbe stupito del mio arrivo. Ma sopra a ogni altra cosa, nella mia mente si stendeva un'ombra, che avevo creato io quel pomeriggio con le mie parole, affermando che solo chi potevamo udire e vedere era sicuramente ancora vivo. La sicurezza di Cassandra mi ossessionava. Sapevo che il suo rifugio era ben nascosto e ben discosto dalle vie battute. I predoni di Lot non avrebbero cercato segni di vita in cima alla sua collina. Ma l'immagine del sentiero appena percettibile che attraversava la valle fino al suo nascondiglio mi terrorizzava, e non avrei avuto pace finché non mi fossi accertato che non esistevano tracce del mio ingresso o della mia uscita. Pur sapendo di essermi sempre dato grande pena per non lasciare traccia dei miei movimenti, decisi di essere da lei prima dell'alba, per controllare ancora una volta la sicurezza del suo nascondiglio. Lasciai l'alloggio di mio padre e andai diritto nelle cucine, dove Ludo era ancora al lavoro. Incontrai uno dei miei uomini che usciva. Essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato fu la sua disgrazia. Lo mandai alla villa con un messaggio per Strato, il nostro massaggiatore, di abbassare i fuochi e preparare la stanza del vapore, e di tenersi pronto a darmi una bella strapazzata entro le successive due ore. Gli dissi anche di far sellare il mio cavallo e di aspettarmi con le guardie al cancello principale. Ludo fu sorpreso di vedermi a quell'ora. Aveva sovrinteso alla pulizia generale delle sue cucine e stava per andarsene a letto. Il refettorio era vuoto. Lo feci sedere e gli spiegai che cosa volevo da lui, e fece una smorfia di disappunto quando si rese conto che nei pochi giorni successivi sarebbe stato più occupato del previsto. Lo lasciai alle prese con il suo inventario, e andai a raccontare tutta la storia a Questuo, il quartiermastro anziano. Almeno lui era riuscito a dormire parecchie ore prima che sconvolgessi i suoi orari, e accettò la situazione con filosofia, riconoscendo l'urgenza della situazione e impegnandosi subito a risolverla. La mia sosta successiva fu all'alloggio di Lucano, il nostro ufficiale medico. Dalla faccenda della sparizione di Cassandra intrattenevamo un educato rapporto di mutuo rispetto, ma pensavo che non saremmo mai stati amici, o più che formalmente cordiali nelle nostre relazioni. Anche lui dormiva da ore, ma la sua disciplina lo aveva abituato alle chiamate più intempestive, e mentre lo mettevo al corrente lo vedevo prendere mentalmente nota delle scorte di bende, stecche, medicamenti e simili. Anche con lui sottolineai la necessità di nascondere tutti i preparativi agli occhi degli ambasciatori in visita. Quando lo lasciai era la parte più buia della notte. Mi avvicinai al cancello principale con una torcia ormai fioca, e per due volte le sentinelle mi intimarono di fermarmi. Avevo completamente dimenticato la promessa di parlare con il giovane Donuil. Il mio cavallo era sellato e pronto secondo gli ordini, e le guardie mi osservavano con espressione interrogativa. «Il soldato che ho mandato alla villa è già tornato?» «Sì, comandante. Circa un'ora fa.» «Bene. Starà dormendo ormai. Uomo fortunato. E il massaggiatore alla villa starà maledicendo la mia insonnia, che adesso è la sua. Quanto manca all'alba?» Si scambiarono un'occhiata, e la guardia che mi aveva risposto prima rispose ancora: «Circa due ore e mezza, comandante». «Per quell'ora sarò, lavato, profumato, massaggiato e sveglio, anche se il mio nome non verrà certo pronunciato con gentilezza dalle persone che avrò tenuto sveglie.» Consegnai la torcia sgocciolante e mi sollevai in sella. «Il guaio di essere pronti per fare un lavoro antipatico e sgradito è che nessun altro lo è mai. Buona notte!» Aprirono i cancelli e mi lasciarono uscire, e li vidi che si guardavano, indubbiamente d'accordo sul fatto che tutti gli ufficiali erano dei pazzi e dei tiranni prepotenti. La luna era tramontata, ma il cielo era limpido, e quando i miei occhi si abituarono alla luce delle stelle mi accorsi che era chiaro a sufficienza per guidarmi fino alla villa, dove i fuochi splendevano nella casa dei bagni. XIX. Meno di due ore dopo ero di nuovo a cavallo, diretto verso Avalon e Cassandra. Mi ero goduto il vapore e l'acqua e mi ero riposato, ero stato lavato e profumato, sfregato e picchiettato e il mio corpo era tutto un piacevole pizzicore. Mi sentivo bene, e la mia mente era sintonizzata sul problema che ci minacciava, e sui passi che avremmo compiuto per neutralizzarlo. Arrivai in cima alla collina che ancora le prime luci dell'alba non erano apparse nel cielo, legai il cavallo più in basso e mi sedetti sulla vetta a rimirare il cielo d'Oriente che dava vita al nuovo giorno, e a contemplare i miei pensieri sulla giovane donna che dormiva profondamente nella valle. Non appena ci fu abbastanza luce, andai all'ingresso del sentiero e perlustrai il terreno. Non c'erano segni di passaggio umano. Sembrava che da anni nessuno lo percorresse. Ero sempre stato molto attento a non lasciare tracce e il sentiero, pur essendo chiaramente un sentiero, era coperto di vegetazione, e indisturbato. Dovevo accontentarmi, perché sarebbe stato impossibile occultarlo completamente. Mi chiesi se avessi dimenticato qualcosa, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo rivelare il rifugio di Cassandra a uno sguardo casuale, ma non mi venne in mente niente. In mente avevo tuttavia una dozzina di subitanee buone ragioni per scendere da lei. Dovevo controllare che avesse abbastanza cibo e legna, per esempio. Dovevo accertarmi che la capanna fosse calda abbastanza, adesso che le notti erano più fredde, e mi accorsi di non aver portato con me gli abiti che zia Luceia mi aveva dato. Mi maledissi per la mia sbadataggine, ma mi consolai pensando che avrei avuto un buon pretesto per tornare a portarglieli. Pensai al vero motivo per cui volevo vederla, e mi si indurì il ventre al pensiero di entrare nel suo letto caldo e di sentire i suoi muscoli giovani e tesi contro di me. Stanotte, promisi a me stesso, e ridiscesi verso il cavallo. Proprio sul ciglio della vallata mi fermai di colpo, inorridito, rabbrividendo per l'effluvio del fumo di legna soavemente sospinto dal vento. Il fuoco del camino! Doveva averlo acceso o riacceso dalle braci, alimentandolo con rami e ramoscelli, e se lo sentivo io da lì, dalla stessa distanza l'avrebbe sentito chiunque. Tornai sui miei passi, domandandomi già come l'avrei persuasa a vivere senza fuoco per almeno una settimana. Dovevo convincerla del pericolo senza risvegliare in lei la paura della violenza. Non dubitai di essere il benvenuto quando mi vide entrare nella sua piccola valle. Mi si strinse addosso, e la sua bocca calda mi coprì il volto di baci che io fui ben contento di ricambiare. Ma mi frenai, la allontanai con dolcezza, e la tenni per i polsi finché non mi guardò in fiduciosa attesa. Quando fui sicuro di avere la sua attenzione, indicai il fuoco e feci mostra di annusare il fumo. Dapprima corrugò la fronte, poi si rilassò e sorrise, e si mise a tirare la stoffa della sua tunica, cercando di sollevarla verso di me con una mano e facendomi cenno con l'altra di avvicinarmi. Pur non comprendendo che cosa avesse in mente, mi avvicinai, e senza opporre resistenza lasciai che attirasse il mio volto contro la tunica. Odorava di fumo di legna! Mi aveva capito. Incoraggiato, sorrisi e le feci segno di sì; ritornai al fuoco e con le mani aperte tracciai il percorso del fumo che saliva verso l'alto, tra gli alberi e sopra gli alberi. Seguì con lo sguardo il movimento e mi fissò con un sorriso incerto. Rimasi serio e mimai il modo in cui il fumo si spostava e come io, o chiunque altro, potevo accorgermene. Con le narici frementi come quelle di un coniglio, simulai sorpresa, riconoscimento, poi una ricerca in mezzo ai cespugli, sempre annusando, e infine la scoperta del suo fuoco. Capì, e seguitò a fissarmi incuriosita. Persuaso che nessuno dei miei gesti le sarebbe sfuggito, andai al mucchio di legna accanto al fuoco e scelsi dei rametti secchi che avrebbero bruciato con pochissimo fumo. Li portai a breve distanza dal fuoco e li accesi con un ramo tolto dal camino. Allora le mostrai che bruciavano bene, e che quasi non facevano fumo. Poi andai al cespuglio più vicino e strappai un ramoscello verde, e lo gettai sul fuoco grande. Il fuoco fece subito fumo, e allora tolsi il ramoscello e lo pestai sotto i piedi. Tolsi l'elmo, andai al laghetto e lo riempii d'acqua, e con l'acqua spensi il fuoco grande, lasciando che il fuoco piccolo seguitasse a bruciare senza fumo. Fece un vigoroso cenno di assenso con il capo per dimostrarmi di aver capito, e poi indicò il ramoscello verde che avevo calpestato. Agitò le braccia per indicare il fumo e scosse la testa in una ferma negazione. Niente più fumo. Sospirai di sollievo e di gratitudine per la sua chiara intelligenza, ma la successiva serie di movimenti mi rimise in affanno. Prese l'elmo dalle mie mani e lo tenne diritto, e appoggiò una mano sulla corazza di bronzo, poi estrasse la spada dal fodero tenendolo fermo con l'elmo. Non tentai nemmeno di impedirglielo. Guardò la spada e poi me e poi indicò le colline intorno a noi, roteando la spada, e annusò, cercando l'origine dell'odore, e tutto ciò significava: indossi l'armatura, sei abbigliato per la guerra, e vuoi dirmi che ci sono altri lassù, nemici, che potrebbero sentire l'odore del mio fuoco. Annuii lentamente, con enfasi, e Cassandra ricambiò il mio cenno di assenso. Poi rimise la spada nel fodero, tornò al lago a riempire l'elmo, e spense quel che restava del fuoco. Era perfettamente calma e compassata, e compresi che dalla valle non sarebbe venuto fumo fino al mio ritorno. La strinsi per le braccia con dolcezza, e guardai i grandi occhi che osservavano le mie labbra. «Donna» le dissi, sorridendo, «bellissima, meravigliosa donna, tu mi hai stregato!» Vide muoversi le mie labbra, e inclinò leggermente la testa in quel suo modo incantevole, poi si avvicinò e mi abbracciò, armatura e tutto. Il tempo passò, e restammo abbracciati non so per quanto, e a un tratto ridivenni consapevole di chi ero e dov'ero, e di che cosa ancora dovevo fare. Sentì che mi irrigidivo, e si appoggiò all'indietro contro le mie braccia, alzò un sopracciglio e puntò il dito verso il sentiero. La baciai e la lasciai, odiando il tempo e la velocità con cui passava. Raccolsi l'elmo, e indicai di nuovo i resti del fuoco con una scossa del capo che lei ripeté. Non avrebbe dimenticato. Un ultimo frettoloso bacio, e ritornai al mondo esterno. Il cavallo mi venne incontro nitrendo, e mi issai in sella con un sospiro di rimpianto. Subito lo spinsi al galoppo sulla strada che portava all'allevamento più vicino, e mi affidai a lui, guardandomi intorno in ogni direzione per sorprendere l'eventuale presenza del nemico. Ero tutt'altro che socievole quando arrivai alla fattoria di Terrice e convocai l'ufficiale anziano. Gli spiegai concisamente la situazione, e la necessità di far muovere immediatamente i suoi uomini, in piccoli gruppi, verso nord e verso est. Senza commentare mi ascoltò sottolineare il pericolo di tracce o indizi che potessero far pensare che un gran numero di cavalli e uomini avessero lasciato la zona. Quando ebbi finito di parlare, gli chiesi se avesse domande. «Solo una, comandante. Dove devono andare? So come vuoi che i miei uomini si muovano, ma non so dove vuoi che vadano.» Il suo tono di voce aveva una sfumatura indefinibile, ma che mi fece capire quanto ero ingiusto nei confronti di quell'uomo, che non aveva fatto nulla che giustificasse una simile asprezza. Mi sforzai di moderare il mio rigore e di sorridere. «Ti chiedo perdono. La mia mente è occupata da tanti dettagli che tendo a perdere di vista gli obiettivi più grossi. Anni fa, prima di rientrare nei nostri confini, avevamo stabilito un campo verso nordest, in direzione di Aquae Sulis. Te lo ricordi?» Annuì, con un sorriso. «Sì, comandante Merlino, me lo ricordo bene. Ero secondo in comando, appena prima che lo abbandonassimo.» «Allora conosci il posto. Quello sarà il nostro punto di adunata. Raccogli lì i tuoi uomini e aspetta insieme ai contingenti delle altre fattorie che il comandante Uther e io ci uniamo a voi. Saremo lì prima di mezzogiorno del terzo giorno a partire da oggi. Al nostro arrivo dovrete essere pronti a partire.» «Per tornare qui?» «Sì, o dovunque compaia il nemico. Ma c'è un'altra cosa. Che i tuoi uomini carichino tutto il materiale in eccesso e lo trasportino a Camulod non appena possibile. Non voglio che rimanga in giro niente che gli uomini di Lot potrebbero usare.» «E il bestiame?» «Al forte. Le stalle saranno affollate per un po', ma ce la caveremo. Adesso è meglio che ti sbrighi. Devo visitare altre cinque fattorie prima di metà mattina. E fai in modo che i tuoi uomini si rendano conto dell'importanza di questa azione. Dobbiamo affrontare una minaccia alla nostra stessa sopravvivenza.» «Non preoccuparti per noi, comandante Merlino. Faremo il nostro dovere.» «Bravo.» A mezzogiorno ero di nuovo a Camulod, avevo completato i miei giri, e potei per un'ora o due controllare l'andamento delle disposizioni che avevo dato la notte precedente. Mi stavo congratulando con me stesso per come tutto si svolgesse secondo i piani, quando sentii sussurrare il mio nome, guardai alla mia sinistra e vidi il giovane Donuil che mi faceva cenno dall'ingresso del suo alloggio. Solo allora ricordai che gli avevo promesso di parlare con lui la sera prima, ma il senso di colpa si perse subito nella mia curiosità per l'insolita segretezza. Mi avvicinai, e lui scomparve all'interno. Mi fermai sulla soglia, appoggiandomi allo stipite. «Donuil? Che cosa c'è? Ti stai nascondendo? Che cos'hai combinato?» «Entra, Caio Merlino, e chiudi la porta. Devo parlarti!» Entrai e chiusi la porta dietro di me. Il suo alloggio era simile al mio, ma era più piccolo e più buio, con una finestrella che lasciava entrare la luce indispensabile. Era seduto nell'ombra sul bordo del letto, ed ebbi l'improvvisa, spiacevole sensazione che non fosse del tutto in sé. Rimasi a fissarlo a lungo, in attesa che parlasse, e infine mi spazientii. «Che cosa sta succedendo, Donuil? Perché tanta segretezza?» «Avresti dovuto venire da me ieri sera, comandante Merlino. L'avevi promesso. Ho aspettato tutta la notte.» Risi piano in preda a un lieve imbarazzo. Sembrava un amante abbandonato. «Mi dispiace. Ne avevo l'intenzione, ma abbiamo dovuto affrontare un'emergenza, e la tua richiesta mi è passata di mente.» «Che genere di emergenza può far dimenticare una promessa a un uomo come te? Aveva forse a che fare con gli uomini di Lot?» Scrollai le spalle. «Suppongo che si potrebbe dire così, ma non...» Mi interruppi, rendendomi conto di che cosa mi aveva chiesto. «Come sapevi che erano gli uomini di Lot?» «Perché li conosco. Era di questo che volevo parlarti. Ed è per questo che me ne sto chiuso in camera. Non voglio che sappiano che sono qui.» «Perché? Hai paura di loro?» Dall'ombra i suoi occhi mandavano lampi. «Sì, e ho ragione di averne. E dovresti averne anche tu. Sono uomini di cui avere paura, quei due.» «Come mai? Perché dovrei avere paura di loro? Sono qui per una pacifica missione diplomatica.» «Disilluditi, comandante. Quei due sono incapaci di trattare qualsiasi cosa che riguardi la pace. Sono assassini. I migliori di re Lot, o i peggiori, secondo il punto di vista.» Mi diressi all'unica sedia nella stanza e appoggiai un piede sul sedile. «Come fai a saperlo, Donuil? Li hai incontrati personalmente?» «Sì. Una volta, nel castello di mio padre. É stato quello con gli occhi diversi che ti ha chiamato Caio il Codardo.» «Oh? Interessante. Dimmi di più di loro, e del perché la loro vista ti può tenere nascosto qui dentro.» «Sono dei maghi. Degli stregoni.» «Oh andiamo, Donuil! La magia non esiste.» Mi guardò, indifferente al mio dileggio. «Dillo ai tuoi soldati, comandante. Non sprecare fiato con me e con nessuno della mia gente. Quegli uomini sono malvagi. Sono in combutta con le Tenebre. E non sono mai quello che sembrano. La morte procede al loro fianco e mette le mani su chiunque abbia contatti con loro.» Feci un grugnito di disgusto e mi sedetti. «Benissimo, voglio crederti. Sono dei maghi. Adesso dimmi di loro qualcosa di concreto. Sono anche uomini, suppongo?» Ignorò il mio sarcasmo. «Sì, sono uomini, in un certo senso, ma non hanno nessuno dei bisogni o dei desideri degli uomini normali. Vivono solo per servire il loro padrone, Lot. È come se altrimenti non avessero una mente propria. Mi sono nascosto perché non volevo che sapessero della mia presenza qui, per non metterli sull'avviso.» «Sull'avviso in merito a cosa?» «A qualunque cosa per cui sono qui. Se mi vedono libero, sapranno che ti dirò quello che so di loro, se non mi ammazzano prima.» «Donuil, sei ridicolo.» «Lo dici tu. Io li ho visti uccidere per divertimento un uomo che era in una stanza chiusa a chiave e sorvegliata. Tanto per dimostrare che potevano farlo.» «Dimostrarlo a chi?» «A mio padre, e al resto di noi. Ci dissero di scegliere un uomo a caso, e di rinchiuderlo, sotto sorveglianza, ovunque ci piacesse. Scegliemmo uno dei loro uomini, e il pover'uomo è sbiancato per il terrore. Lo portammo in una robusta capanna, tutti insieme. Dovevano esserci venti uomini, e quello alto, Caspar, ci ordinò di legare l'uomo mani e piedi e di infilargli uno straccio in bocca. Poi ci fece riunire tutti in cerchio, e restammo a guardarlo fissare a lungo il prescelto. Quel pover'uomo divenne mortalmente immobile e perse conoscenza, anche se Caspar non lo toccò mai. Finalmente, il tipo alto ci disse di liberarlo. Tagliammo le corde, gli togliemmo lo straccio di bocca, e quello ritornò in vita e si mise a urlare. Caspar e quell'altro gli risero in faccia e se ne andarono. Chiudemmo a chiave la capanna e mettemmo delle guardie tutt'intorno, e tornammo tutti nel castello di mio padre, dove Memnone, quello con gli occhi strani, ci intrattenne in un modo mai visto. Faceva sparire degli oggetti, e li faceva riapparire in un altro luogo. Eravamo tutti stupefatti e piuttosto spaventati, quando Caspar lo interruppe e disse: "L'uomo è morto". Mandarono me a guardare, con due dei miei fratelli. I nostri uomini erano ancora di guardia, e giurarono che non si era avvicinato nessuno. L'uomo dentro la capanna aveva smesso di urlare. Mio fratello aprì la porta ed entrammo. L'uomo era morto. Non aveva un segno. Nemmeno un taglio o un livido o una macchia. Era solo morto, con la faccia contorta dal terrore e la bocca spalancata in un urlo.» «Donuil, non è proprio possibile.» «Lo so, comandante, e se non ci fossi stato anch'io, non ci avrei mai creduto.» «Quanti anni avevi?» «Gli stessi che ho adesso! Non è stato più di tre mesi fa.» La sua voce era imperturbabile, e ne fui impressionato mio malgrado. «Perché credi che Lot li abbia mandati qui?» «Per provocare morte. Per che altro? Fanno solo quello. Ho parlato di loro con alcuni dei loro uomini. Perfino i loro soldati li odiano e ne hanno una paura mortale. Uno mi ha detto che hanno imparato le loro arti pagane in una terra straniera nel lontano Oriente, oltre le selvagge terre dei Sassoni. Conoscono i segreti - tutti i segreti - dell'assassinio. Dicono che abbiano dei veleni in grado di uccidere in cento modi diversi. Possono far morire un uomo bruciandolo senza fuoco, solo tagliandogli la pelle!» Scattai in piedi. «Ripetilo!» «Ho detto che possono bruciare un uomo senza fuoco, solo tagliandogli la pelle.» «Che cosa significa?» Notò la tensione nella mia voce. «Non lo so, comandante. È quello che mi hanno riferito.» Le parole di Donuil stabilirono in me una ferrea determinazione, ma tacqui e lo lasciai continuare. «Non so che ragione hanno dato della loro presenza qui, ma è una menzogna, qualsiasi cosa abbiano detto. Lot tiene quei due solo per diffondere il terrore. Puoi esserne certo, comandante. Sono qui per uccidere, e per instillare paura.» Immaginai le urla, e vidi i soldati di Uther dimenarsi nell'agonia. I volti dei due uomini apparvero chiari agli occhi della mia mente, e sentii riecheggiare i loro nomi: Caspar e Memnone. Quasi non udii le successive parole di Donuil. «Non sono della Britannia. Sono di un luogo che si chiama Egitto, oltremare.» Memnone e Caspar! La mia decisione era presa prima ancora che me ne rendessi conto. «Dove sono alloggiati? Lo sai?» Scosse la testa. «Rimani qui. Tornerò più tardi.» Andai subito in cerca di Uther. Una guardia nella corte mi disse di avere appena visto Uther diretto al refettorio con i suoi due "ospiti". Passai prima al corpo di guardia adiacente ai cancelli principali. Curio, il sergente delle guardie, mi salutò. «Centurione, ho bisogno una squadra di dodici uomini. Radunali immediatamente, in assetto completo. Sbrigati. Torno tra poco.» Andai a cercare mio padre, ma non riuscii a trovarlo. Al mio ritorno Curio aveva radunato gli uomini, e il rumore dei nostri passi in marcia verso il refettorio fece voltare più di una testa. Uther mi guardò con espressione interrogativa avvicinarmi al suo tavolo. Gli occhi di tutti erano fissi su di noi. «Cai? C'è qualcosa che non va?» «Sì, comandante. C'è molto che non va. La tua compagnia.» Quei due mi guardarono con insolenza, senza nemmeno accennare ad alzarsi. «La mia compagnia, comandante?» «Sono entrambi in stato di arresto.» «Con quale autorità?» Per un attimo ebbi la sensazione che volesse mettersi a discutere. «La mia.» Sorrise e si rivolse ai suoi compagni. «Signori, mio cugino, il comandante Caio Britannico, ha la responsabilità di mantenere la disciplina e l'ordine all'interno di queste mura. Temo di dovervi rassegnare alla sua custodia.» Adesso ostentavano un'espressione crucciata. Caspar guardò con sdegno i miei soldati, e poi me. «Ti assumi un bell'onere, comandante. Da quando è diventata consuetudine trattare degli ambasciatori con tanta ostilità?» Percepii l'accento straniero, non forte, ma percettibile. «Da quando ho scoperto chi siete e che cosa fate! Centurione! Perquisiscili accuratamente. Spogliali. Bada che non abbiano niente addosso che possa diventare un'arma. Conserva gli indumenti, e fai loro indossare una tunica, che stiano caldi. Poi mettili in cella e tienili sotto sorveglianza.» Li guardai negli occhi. «Potete andare con questi uomini, con le vostre gambe o portati di peso. La scelta è vostra. Portateli via.» Se ne andarono, chiusi nello stretto cerchio delle dodici guardie. Uther era rimasto seduto per tutto il tempo. Quando furono spariti, fischiò piano. «D'accordo. racconta. Che cos'è successo?» Mi sedetti di fronte a lui, sentendo scemare piano la tensione. «Sono appena stato informato, da uno straniero che non sapeva nulla della tua storia, che quei due bastardi sono maghi egiziani, maestri di veleni, che possono bruciare un uomo senza fuoco, e ucciderlo semplicemente graffiandogli la pelle. Ti ricorda qualcosa?» «Per il Cristo! Quelle frecce avvelenate!» «Pensavo che l'avresti detto.» «Da chi l'hai saputo?» «Donuil, il mio giovane ostaggio. Ha visto quei due in azione nel castello di suo padre, meno di tre mesi fa. Li ha riconosciuti ieri e si è nascosto, per paura che lo vedessero e lo uccidessero. Ha un sanissimo rispetto per il loro micidiale potere. Hai scoperto come si chiamano?» «Sì. Si chiamano...» Lo prevenni. «Caspar e Memnone?» «Caspar e Memnone, esatto.» «Questa è la prova. Sono nomi egiziani, ma soprattutto sono i nomi che mi ha dato Donuil.» «Come fai a saperlo?» «Te l'ho detto. Li conosce.» «No, non quello. Come fai a sapere che sono nomi egiziani?» «Ho letto molto, rammenti?» Uther fece una smorfia per indicare che non mi avrebbe mai capito. «E adesso? Zio Pico è al corrente?» «Non ancora. Non sono riuscito a trovarlo. Quando ho saputo chi erano quei due, ho preferito non lasciarli girare liberamente per il forte.» «Non posso darti torto.» Gli era tornato il sorriso. «Dov'è questo tuo giovane ostaggio?» «Nel suo alloggio. Vieni, te lo presento. Potrai ascoltare con le tue orecchie quello che ha detto a me.» «Fammi strada, l'impazienza.» comandante. Sono febbricitante per «C'è un'altra cosa da fare. Anche i loro servitori devono essere arrestati. Dove sono?» «Nelle baracche con la plebe. Manderò qualcuno a prelevarli.» «Preleva anche i loro bagagli, e falli portare nell'alloggio di mio padre. Sarà interessante vedere che cosa contengono.» Uther chiamò un soldato seduto a un altro tavolo e gli diede gli ordini necessari, e proprio in quel momento mi resi conto che non c'era più alcun bisogno di mantenere segreti i nostri preparativi. Lo dissi a Uther. «Questo cambia tutta la faccenda, cugino. Possiamo incominciare a trasferire le provviste nel forte apertamente, adesso. Meglio dare gli ordini.» «E se Lot ha delle spie sulle colline? Non penserebbe che abbiamo subodorato i suoi piani?» «Non mi importa più. Domani mattina come prima cosa inizieremo a trasportare le scorte. I nostri soldati sono partiti questa mattina. Domani saranno lontani a nord-est. Le spie di Lot vedranno solo che richiamiamo la fanteria e raduniamo gente e provviste. Anche se Lot intuisce che siamo pronti a riceverlo, non indovinerà mai che gli abbiamo già fatto sparire un esercito sotto il naso.» Mi buttò un braccio intorno alle spalle. «Cai, mio onorato cugino, il tuo acume e la tua intelligenza non mancano mai di impressionarmi. Meglio informare zio Pico e gli altri che hai cambiato tutti i loro piani. Saranno molto contenti!» Malgrado l'amichevole sarcasmo di mio cugino, mio padre e gli altri furono contenti, quando ebbero avuto modo di assimilare i cambiamenti e i motivi che li imponevano. Ci volle un'ora per riunire mio padre, Tito, Flavio, Uther, me e il giovane Donuil nell'Armeria. Uther e io avevamo ispezionato i bagagli degli "ambasciatori" prima dell'arrivo degli altri, senza trovare però alcunché di sinistro o di esotico. Quando tutti furono riuniti, feci ripetere a Donuil la sua storia, insistendo personalmente affinché chiarisse alcuni punti. Uther tradusse in latino per gli altri. Mio padre e Tito gli rivolsero alcune domande, e poi lo lasciammo tornare nel suo alloggio. Ma Donuil si fermò sulla porta. «Comandante Merlino? Potrei parlarti per un momento? Da solo?» Mi scusai e lo seguii all'esterno, dove si voltò a guardarmi con viso turbato. «Che cosa c'è?» gli chiesi, nella sua lingua. «I loro bagagli. Avrebbero dovuto contenere più di quello che avete trovato.» «Che cosa vuoi dire?» «Non lo so proprio, comandante.» Scrollò le spalle, frustrato. «Ma avreste dovuto trovare dell'altro. Quegli uomini non vanno da nessuna parte senza gli utensili del loro lavoro, dei loro traffici mortali.» «Quali utensili, Donuil? A che cosa alludi?» «I loro bagagli avrebbero dovuto contenere oggetti sconosciuti al tuo popolo, oggetti che avrebbero suscitato dei commenti. Avete guardato nelle casse fasciate di ferro?» «Non lo so.» Toccava a me ammettere ignoranza. «Di quali casse fasciate di ferro stai parlando?» «Le due casse che non perdono mai di vista. Una è leggermente più grande dell'altra, e sono molto pesanti entrambe.» Tirai su con il naso. «Verificherò. Ma credo che ti preoccupi per niente.» «Lo spero, comandante.» Non sembrava convinto. «Comunque controllerò personalmente e ti farò sapere. Adesso vattene a letto.» E lo congedai con una manata sulle spalle. Tornai nella stanza di mio padre. Le iniziative che avevo preso dopo aver sentito la storia di Donuil non vennero messe in discussione. Tutti convennero che avevo agito correttamente. I miei ordini erano stati emessi e sarebbero stati eseguiti il giorno seguente, a partire dall'alba. Nel frattempo potevamo solo aspettare. I dettagli logistici delle scorte, delle provviste, la distribuzione dello spazio e il razionamento del cibo erano nelle mani di Tito e dei suoi quartiermastri. Uther e io avremmo approfittato di una notte di sonno e prima del sorgere del sole ci saremmo diretti, soli e inosservati, verso nord-est, all'appuntamento con la nostra cavalleria. Uscii dall'Armeria e andai nell'alloggio di Donuil. Era ancora lì, disteso sul letto. «Ehi!» dissi dalla porta. «Hai intenzione di restare a letto per i prossimi cinque anni?» Si drizzò a sedere sbattendo le palpebre. «Come si chiama quel soldato che parla la tua lingua pagana?» «Rufio.» «Grosso, corpulento, con una barba rosso fuoco?» «Sì, comandante.» «Lo conosco. Bene! Andiamo a cercarlo.» Incaricai un centurione di mandarlo nel mio alloggio. Poco tempo dopo si presentò in preda all'apprensione e indubbiamente chiedendosi quale delle sue infrazioni potevo aver scoperto. Quando vide Donuil in piedi di fianco a me, la sua angoscia aumentò. «Mi hai fatto chiamare, comandante?» «Sì, soldato Rufio. É vero che parli la lingua del nostro ospite?» Deglutì. «Sì, comandante.» «È una buona cosa, poiché non parla la nostra. Da questo momento sei sottoposto a un incarico speciale. Chi è il tuo centurione?» «Fidia, comandante. Squadrone C.» «Fidia. Esatto. Non molto tempo fa ti ha mandato da me sotto accusa. Rissa e schiamazzi, vero?» «Sì, comandante.» «È insubordinazione, se la mia memoria funziona ancora.» Deglutì ancora. «Sì, comandante.» «Tu e il tuo amico - come si chiama? Strato? - in due avete sfidato lo squadrone A al completo per via di qualche donna o chissà che altro, e uno di voi è stato tanto imprudente da mettere fuori combattimento un decurione che tentava di porre fine al massacro.» «Sì, comandante. Ho visto chi era solo dopo che l'ho colpito.» «Mmh...! Bene, da adesso in poi per qualunque insubordinazione dovrai rendere conto a me, personalmente, perché ho bisogno di te per i miei scopi. Darò istruzioni in proposito al centurione Fidia. Frattanto, sei responsabile del benessere del nostro giovane amico. Hai capito? Gli serve un interprete, e gli serve qualcuno che sappia il fatto suo in questo forte e in un campo di cavalleria, e che gli insegni il mestiere. Voglio fare di lui un aspirante ufficiale, uno dei miei Optiones. Dillo chiaramente a chiunque sia interessato. Lo tratterai bene, gli guarderai il culo, e gli insegnerai la nostra lingua. Non dovrebbe essere difficile. É un ragazzo intelligente e ansioso di imparare. Ma soprattutto voglio che tu faccia di lui un soldato di cavalleria. Insegnagli tutto sui cavalli: come averne cura, come strigliarli e nutrirli, come equipaggiarli, e come cavalcarli. É un perfetto novellino, e tu sarai la sua balia. Ma bada di insegnargli bene, perché diventerà il mio attendente personale. Significa che dovrà imparare anche l'uso, la cura e la manutenzione di armi, armatura ed equipaggiamento personale, e di tutto il mio armamento di guerra. Pensi di riuscirci?» Mi fissava a occhi spalancati, immobile, e assimilava tutto quello che gli stava piovendo addosso. Quando gli posi l'ultima domanda sbattè una volta le palpebre e si schiarì la voce. «Sì, comandante. Ehm... quanto tempo ho, signore?» «Quanto tempo pensi di avere bisogno?» Guardò di sbieco il suo nuovo pupillo che ci guardava senza capire una parola. «Per i rudimenti? Per tutto quanto? Un mese?» «E un mese avrai. Da domani. Trenta giorni per trasformare un principe pagano in un soldato di Camulod. Non preoccuparti delle sue mansioni di ufficiale. Riguardano solo me. Basta che tu lo tenga fuori dai guai con i tuoi compagni finché non sarà in grado di cavarsela da solo. Assegno tutti e due al mio squadrone personale. Tu farai le funzioni di centurione, con dei privilegi. Comportati con cautela. Se svolgerai questo compito come si deve, il rango sarà permanente. Deludimi e tornerai a essere un soldato semplice nello squadrone di Fidia, così in fretta che ti verranno le vertigini. Chiaro?» I lineamenti immobili si schiusero in un sorriso. «Sì, comandante!» «Avrete bisogno tutti e due di un'uniforme nuova. I miei soldati vestono nero e argento, con l'emblema dell'orso. Chiedi a Popilio. Vi metterà in contatto con le persone giuste. Oh, e vi servirà questo.» Mi sedetti e impressi il mio sigillo su una tavoletta di cera, sulla quale scrissi: «Il centurione Rufio agisce per mio conto nei riguardi del giovane tribuno Donuil. - C. Merlino». «Abbine buona cura, e usala solo se devi. Io parto domani per alcuni giorni, perciò non potrò assistere al tuo trasferimento. Con questo, puoi provvedere da solo. Parlane con il legato Tito. Adesso è meglio che tu vada a prendere congedo dallo squadrone C. A Fidia si spezzerà il cuore a vederti partire, e come centurione, anche! Spiegherò la faccenda al giovane tribuno, e potrete iniziare l'addestramento domani.» «Sì, comandante, e grazie.» Mi salutò e poi salutò Dormii e se ne andò. Donuil si girò verso di me, incuriosito dal saluto, e gli ripetei nella sua lingua gli ultimi sviluppi. Quando conclusi la mia esposizione si mise sull'attenti con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro, e mi fece il saluto. Fui costretto a sorridere. «Grazie, tribuno Donuil» dissi. «Ricordati per favore di dire al centurione Rufio di insegnarti anche a fare il saluto!» Non appena mi fui liberato di lui, mi distesi sulla cuccetta e mi addormentai, non senza aver prima raccomandato a una guardia di svegliarmi al cadere della notte, tre ore dopo. Protetto dall'amichevole riparo dell'oscurità lasciai il forte per Avalon, con i vestiti nuovi di Cassandra. Quand'ebbe superato la meraviglia e la delizia per le copiose ricchezze che le avevo portato, trascorsi tra le sue braccia due ore piacevoli e gratificanti, e poco dopo mezzanotte ero di nuovo nel mio letto. XX. Ero nelle stalle quando il messaggero mi trovò. «Ti chiedo perdono, comandante Merlino, ma il comandante Uther vuole che tu lo raggiunga nel suo alloggio per pochi istanti.» Guardai sorpreso il soldato. «Dovrebbe essere già qui. Io sono quasi pronto a partire.» «Il comandante è pronto, signore. I suoi cavalli sono già al cancello.» Gli dissi di riferire a Uther che sarei passato da lui e continuai a stringere il sottopancia. Il mio cavallo da soma, che in realtà era un destriero straordinario, era già carico delle poche provviste di cui avrei avuto bisogno. Era solo la terza ora del mattino. Immaginai che Uther fosse andato a letto presto e fosse in piedi da ore. Lo trovai nel suo alloggio, appoggiato alla parete imbiancata a calce, che affilava un pugnale alla luce di due lampade a olio. «Buongiorno, Uther. Sei pronto? Che cosa c'è?» «Buongiorno, cugino.» Mi sorrise e con un cenno del capo indicò la sua cuccetta. Incuriosito, mi avvicinai al letto e vidi il congegno adagiato sopra la coperta. «Che cos'è?» «Prendila in mano, e dimmelo tu che cos'è.» Prima di toccarla la osservai bene: era un'arma. Un'impugnatura grossa e corta, rivestita di cuoio, con un robusto cappio sempre di cuoio all'estremità. All'altro capo, bagnato nel ferro, era attaccata una breve e pesante catena, e all'estremità della catena pendeva una palla grande come un pugno chiuso. «È di ferro?» «Sollevala.» La palla, che era di ferro, rimase sul letto mentre la catena si stendeva con un sonoro tintinnio. Tirai verso di me e la palla cadde dal letto, colpendo il pavimento con un tonfo sordo. La lunghezza totale dell'aggeggio era poco minore , del mio braccio. Sollevai la palla da terra. Era pesante. «D'accordo, Uther. Che cos'è?» «Oh, andiamo, Merlino! Quante volte ho dovuto ascoltare la storia di come hai scoperto l'uso della sella e delle staffe? Non riesci a immaginare che cosa farebbe quella cosa a un uomo appiedato se tu te la facessi roteare intorno alla testa?» La mossi con esitazione, e non ebbi nessuna difficoltà a capire. «Gli farebbe impressione.» «Sì, una bella impressione nell'elmo, nel cranio eccetera.» «Come ti è venuta quest'idea?» «Ricordi la pietra sibilante di Vegezio Sulla? In parte da lì. In parte dalla vecchia storia di nonno Varro di te e della mazza. Mi gira in testa da tempo. Ho deciso di farne fare una l'ultima volta che sono stato a casa. Funzionava, ma la catena era troppo lunga, e anche il manico, così abbiamo accorciato l'impugnatura e ridotto la catena a quattordici anelli, ed ecco fatto. Ne ho fatta fare una per uno. La tua è nera, e la mia è rossa, vedi?» Si chinò a prenderne un'altra dal pavimento. «Infila il polso nel cappio e non puoi perderla, neanche se lasci andare l'impugnatura.» «Impressionante davvero! Ma perché mi hai fatto venire fin qui a prenderla? Non potevi portarmela tu?» «Sei matto? Quelle cose sono pesanti! Non ci proverei nemmeno a portarne due per tutta la strada fino alle stalle. A trascinarle per la corte mi parrebbe di essere Vulcano.» Risi mio malgrado e alzai la palla prendendola nella mano sinistra. Era pesante davvero. «Andiamo» dissi. «Dobbiamo muoverci. Grazie per questa. Ti prometto di non colpirti con la mia se tu non colpisci me con la tua.» «Accettato! Adesso usciamo di qui. Ci sono rimaste due ore di buio.» Quando le prime pallide luci dell'alba apparvero nel cielo, avevamo percorso un buon tratto verso nord-est. Ognuno di noi aveva un cavallo di ricambio. Cavalcavamo in silenzio, tendendo le orecchie per sentire nell'oscurità eventuali rumori insoliti. Eravamo convinti che gli arcieri di Lot con le loro frecce avvelenate potessero essere ovunque, ma non incontrammo nessuno e non udimmo nessun suono allarmante, e ben presto l'oscurità sbiadì quel tanto da permetterci di scorgere alla nostra destra la massa ondulata delle colline Mendip. Proseguimmo in una di quelle mattine magiche la cui bellezza rimane nella mente a lungo dopo che il giorno a cui hanno dato vita è stato dimenticato. Il paesaggio era velato da una bassa nebbia grigia che turbinava intorno agli zoccoli dei cavalli, e ogni foglia, ogni filo d'erba era appesantito di rugiada. Quando il sole disperse la nebbia ci sembrò di attraversare una terra incastonata di gioielli scintillanti e multicolori. Solitari alberi d'oro si ergevano bruniti nella pallida luce verdognola, e il mondo era pieno del canto di innumerevoli uccelli. Cavalcavamo fianco a fianco, le nostre ginocchia quasi si toccavano; superammo una lieve altura e vedemmo delle strane tracce sul fondo della valle davanti a noi. Io le scorsi immediatamente, ma fui lento a riconoscerle. Uther invece trattenne il respiro con un sibilo. «Avevi ragione, Cai. Si stanno muovendo.» Era la traccia lasciata nell'erba alta e bagnata da un gruppo numeroso di uomini che di recente aveva attraversato il nostro sentiero. Il loro passaggio aveva schiacciato un'ampia striscia d'erba, e i raggi del sole mattutino rivelavano una strada d'erba scura, nero verde contro il mare di goccioline di rugiada che scintillavano su ogni lato. «Da dove sono venuti, Uther? E in che direzione sono andati?» «Da est, diretti a ovest. Lo vedi dall'inclinazione della luce sull'erba appiattita. Probabilmente stavano cavalcando verso nord, come noi, fiancheggiando le colline, e poi hanno voltato a sinistra per raggiungerle dall'altra parte.» Guardai l'ampio tracciato che si stendeva alla nostra sinistra. «Credi che siano i tuoi velenosi arcieri?» «Non ho dubbi in proposito... ci scommetterei. Siamo fortunati a non essere arrivati dieci minuti fa.» «Sono passati così di recente?» «O poco più. Gli uccelli stanno cantando, perciò non possono essere vicinissimi, ma la rugiada si è posata solo durante l'ultima ora e sono passati dopo.» «E adesso che cosa facciamo?» «Esattamente quello che stiamo facendo, ma più in fretta, Non possiamo fare niente. Siamo solo in due contro Dio sa quanti di loro. Andiamo avanti, raduniamo i nostri uomini, torniamo a Camulod più velocemente possibile, e speriamo di potere offrire ai nostri visitatori una brutta sorpresa.» Incitò il cavallo e io lo seguii oltre il sentiero degli assassini di Lot, e attraversammo al piccolo galoppo il tratto scoperto di prato fra noi e la compatta linea di alberi più avanti. Sul Limitare della foresta ci voltammo a guardare l'inconfondibile traccia lasciata nell'erba dai nostri cavalli. Era giorno fatto, e il sole era visibile. Uther rigirò il cavallo in direzione degli alberi. «Un'ora al massimo e le tracce saranno sparite. Speriamo che nessuno di loro torni indietro troppo presto.» «Perché dovrebbero? Sono diretti a ovest e hanno parecchia strada da fare.» «Anche noi, cugino, e questa foresta non ha certo un aspetto ospitale. Andiamo.» Uther aveva ragione. Quella parte di foresta era tutt'altro che ospitale, quasi impenetrabile, e capitava che dovessimo smontare e condurre i cavalli per strette brecce in un sottobosco fitto e ostico che si rifiutava di lasciarci passare. Lottammo per ben più di un'ora prima che il sottobosco si diradasse, ma avevamo superato la parte più ardua del nostro viaggio, e potemmo risalire a cavallo e attraversare così il resto della foresta. Quando il sole era quasi a picco giungemmo in una radura erbosa dominata da una vecchia e massiccia quercia che si ergeva sull'argine di un torrente limpido dal corso impetuoso, e per tacito consenso smontammo e togliemmo la sella ai cavalli. Provvedemmo alle necessità delle nostre cavalcature e ci sedemmo in riva al torrente a mangiare un po' di selvaggina fredda e pane fresco provenienti dalle cucine di Ludo. «Quanto credi che mancherà, ancora?» chiesi. Uther si strinse nelle spalle e si chinò a bere dal torrente. «Dovremmo esserci per il tramonto, se riusciamo a mantenere una buona andatura.» Si asciugò le gocce d'acqua dal mento. «Sai, cugino, non mi sono ricordato di congratularmi con te per il tuo nuovo rango... Supremo Comandante di Camulod.» Subito mi sentii a disagio, leggermente innervosito ma non certo dal suo tono di voce. Gli rivolsi una rapida occhiata, ma nei suoi occhi non c'era niente da vedere. Uther era impassibile, e solo l'ombra di un sorrisetto ironico gli tendeva un angolo della bocca. Bevvi anch'io, per nascondere la mia insicurezza, poi attesi, ma Uther non disse altro. «Grazie» dissi infine tirandomi indietro dalla riva per sedermi accanto a lui, e attesi ancora. Uther sospirò e si sdraiò, mettendosi comodo sulla sponda erbosa e lasciando a me l'onere di proseguire la conversazione. «Quando l'hai saputo?» «Che cosa? Della tua promozione? Quando sono tornato l'ultima volta. Volevo dirti qualcosa, ma ormai era acqua passata, e mi sono scordato. Ma sono contento per te. Te la sei guadagnata.» «Non ti dispiace?» «Dispiacermi?» Rise forte, e alzò la testa per guardarmi, sorpreso. «Perché dovrebbe dispiacermi? Pensavi che sarei stato invidioso?» Scrollai le spalle. «Non proprio, ma devo ammettere che tale eventualità mi era venuta in mente.» Si sollevò su un gomito e scosse la testa, meravigliandosi per la mia stoltezza. «Dimmi, Caio, sarai invidioso di me quando sarò re dei Pendragon?» Spalancai gli occhi. «Certo che no.» «E allora perché fai una domanda simile a me?» «Non lo so, Uther, perdonami.» Mi sentivo sciocco e meschino, ma lui aveva già cambiato argomento. «C'è un'altra cosa che però non ti ho mai chiesto. La ragazza, Cassandra... come l'hai fatta uscire da quella stanza sotto gli occhi delle guardie?» Anche quella domanda mi colse alla sprovvista. Mi sentii sommergere da un'ondata di risentimento che riportò a galla tutti i miei dubbi e la mia diffidenza. Trattenni la risposta ostile che mi salì alle labbra e distolsi lo sguardo per mascherare i miei sentimenti, e nascosi l'agitazione rispondendo alla sua con un'altra domanda. «Che cosa ti fa pensare che sia stato io?» Latrò la sua risata breve e feroce. «Andiamo, Cai, sono io! Uther! O l'hai fatta sparire tu, o devo incominciare a credere nella magia. È chiaro che sei stato tu! Ma come ci sei riuscito, nel nome dei tuoi mistici druidi? E perché l'hai fatto?» «Era in pericolo.» «Da parte di chi?» «Da parte di chiunque aveva cercato di ucciderla la prima volta.» Si drizzò a sedere e mi guardò stupito, con un'espressione di autentica confusione che mi spinse a chiedermi se non fosse in realtà un attore eccellente. «Perché mai qualcuno avrebbe dovuto cercare di ucciderla?» chiese. «Era stata picchiata e stuprata, da quanto ho sentito. E brutalmente, anche, ma perché qualcuno avrebbe dovuto cercare di ucciderla? E se così fosse stato, non avrebbe potuto farlo direttamente, invece di lasciarla viva? Non valeva più di una schiava. Nessuno ci avrebbe badato.» La mia rabbia traboccò. «A un omicidio? A Camulod? Mio padre non fa mistero del fatto che sotto il suo comando la pena per stupro e omicidio è la morte! Mi pare che tu prenda la cosa molto alla leggera, ma così è! Morte. Speravo che potesse identificare il suo aggressore, o i suoi aggressori, se fossero stati più di uno, del che dubito!» Di fronte alla violenza del mio impeto Uther aveva inarcato un sopracciglio, e quando parlò la sua voce era bassa. «Perché ne dubiti?» «Ho le mie ragioni.» «Ne sono certo.» La sua voce era ancora più bassa. «Posso chiederti quali sono?» «Chiedilo a te stesso, Uther!» «A me stesso?» Aggrottò la fronte e scosse bruscamente il capo. «Perché è così importante - e ovviamente lo è - che la ragazza sia in grado di identificare il suo aggressore? Questo chiedo a me stesso, Cai. Perché? Ti sei preso un enorme disturbo per proteggerla. Perché? Era una sconosciuta.» «Non per tutti! Per te non era una sconosciuta!» «Per me? Che cosa significa? Non ero nemmeno a Camulod!» «Oh, sì che c'eri, Uther!» I solchi sulla sua fronte si approfondirono per la collera. «Stai insinuando...» La sua voce si perse nel silenzio; i muscoli del suo viso riflettevano i pensieri che gli attraversavano la mente. Se fingeva, fingeva magistralmente. «È successo quella notte, vero? La notte che me ne sono andato?» «Sì, la notte che te ne sei andato in preda alla collera, giurando di darle una lezione che non avrebbe dimenticato tanto presto. L'hanno trovata nelle stalle il mattino seguente. Era stata picchiata quasi a morte. E tu eri scomparso. Nessuno ti aveva visto. Nessuno sapeva dov'eri.» «Capisco.» Non mi guardava. I suoi occhi erano fissi su una roccia nel torrente e sull'acqua che le spumeggiava intorno. «E così, in tutta spontaneità, hai dedotto che ero stato io.» I suoi occhi si spostarono a sostenere il mio sguardo. «É stata un'azione molto brutale, vero?» Non risposi. «E mi hai creduto capace di una simile bestialità?» Continuai a fissarlo. «Lo credi ancora?» «Non lo so, Uther.» «Volevi che guarisse e mi identificasse?» Quella domanda, e il modo in cui la pose, mi fece riflettere. «No, volevo che guarisse e che identificasse il suo aggressore. Non volevo che fossi tu.» Mi guardava intensamente. «Temevo che potessi esserlo, ma speravo di sbagliare.» «E allora perché l'hai fatta sparire? Avresti potuto tenerla lì finché non fossi tornato.» «Avrei potuto, ma tenendola lì avrei messo in pericolo la sua vita.» «Come, in nome di Dio? Non ero neppure nelle vicinanze!» «Stai confessando la tua colpa?» «No, naturalmente no, ma tu sospettavi di me.» Mi alzai in piedi e abbassai lo sguardo su di lui. «Si trattava di fiducia, in uno strano modo, suppongo. Sospettavo di te, ma non avevo prove e avrei potuto sbagliare. Volevo disperatamente credere che mi sbagliavo. E se mi sbagliavo, allora il suo aggressore poteva essere un qualsiasi uomo di Camulod. Poteva essere uno degli uomini di guardia, uno qualunque, o più di uno. E chiunque avrebbe potuto ucciderla. Avrebbe dimostrato la tua innocenza, ma per dimostrarla sarebbe morta.» Ci pensò per un poco, poi fece un rapido cenno di consenso. «E allora come l'hai fatta uscire?» «Con un trucco. Era già stata portata via prima ancora che facessi montare la guardia.» «No! Le sue guardie l'hanno vista.» «Hanno visto un ragazzo che aveva preso il suo posto, e che poi è scappato dall'edificio mentre le guardie si aspettavano che qualcuno cercasse di entrare.» Uther scrollò il capo, e un lento sorriso di stupore gli illuminò furtivamente il volto. «Sei un uomo notevole, cugino. Dove l'hai portata?» «In un luogo sicuro. Perché me lo chiedi?» «Per curiosità.» Mi strinsi nelle spalle. «È... al sicuro.» «Bene. Allora spero che un giorno avrò il piacere di rivederla e di mettere fine ai tuoi dubbi, in un senso o nell'altro.» Dovevo chiederglielo. «Sei stato tu, Uther? L'hai fatto tu?» Rimase zitto a lungo, sostenendo il mio sguardo con una strana espressione che non avevo mai visto prima. «Mi hai visto andarmene, quella notte. Ovviamente hai pensato che ero abbastanza in collera per farlo. Poi sono scomparso, e la mia scomparsa avrebbe potuto essere scambiata per un'ammissione di colpa.» Fece una pausa, ricordando. «Le quattro sgualdrine che abbiamo avuto quella sera. Devono aver detto qualcosa. Che fine hanno fatto?» «Non l'hanno mai saputo. Le ho mandate via il mattino dopo, prima che avessero la possibilità di sentirne parlare. Sono partite con una scorta - uomini fidati di Tito - con il pretesto di aprire una casa per noi a Glevum. La notizia non si era ancora diffusa, e non sapevano niente di quello che era successo.» Riflette un momento. «I Evidentemente avevi almeno colpevolezza.» miei ringraziamenti, cugino. qualche dubbio sulla mia «Almeno qualcuno.» Annuii. «Abbastanza da convincermi a prendere le misure atte a proteggerti dai pettegolezzi. Ero arrabbiato e confuso, ma volevo condurre le mie indagini senza essere influenzato dalle dicerie.» Si alzò. «Beh, cugino Cai, mi trovo in una brutta situazione. Potrei sostenere di essere innocente, ma non metterei a tacere i tuoi dubbi. Io so la verità, ma tu dovrai vivere con i tuoi dubbi, temo, almeno per un poco. Puoi continuare a farlo?» «Perché no? L'ho fatto per mesi.» «E puoi ancora cavalcare al mio fianco?» «Sì, Uther, e combattere al tuo fianco, e sperare di essermi sbagliato. Ho dei grossi dubbi sia sulla tua colpa sia sulla tua innocenza, e non ho prove a sostegno di nessuna delle due. D'altra parte, ti conosco da tutta la vita e nessun uomo mi è più caro.» Sulle sue labbra c'era un mezzo sorriso. «Allora mi perdoneresti un errore?» Rividi il corpo pesto e sanguinante di Cassandra. «No, Uther, non ti perdonerei, non per quell'errore. Quello era inumano, imperdonabile. Spero solo che non sia stato tu, e finché non saprò con certezza se sì o se no, ti tratterò come Uther Pendragon, cugino e amico senza macchia.» Uther non sorrideva più. «Caio» disse, «sinceramente capisco le ragioni dei tuoi dubbi. Se fossi nei tuoi panni, e avessi i tuoi stessi dubbi, non so se saprei essere magnanimo come lo sei tu adesso. Grazie.» E poi negli occhi gli scintillò una luce demoniaca, e aggiunse: «Ma ricorda bene che gli uomini, essendo solo uomini, non sopportano troppa magnanimità negli altri. Sa di santimonia». Prima che potessi pensare a una risposta si alzò in piedi. «Su, è meglio che ripartiamo. Il tempo non ci aspetta e i nostri soldati si.» Tenemmo un buon passo per il resto della giornata, ma arrivammo alla fattoria abbandonata dove ci aspettavano i nostri uomini solo dopo il tramonto. Uther parlò a nome di entrambi: avremmo levato il campo all'alba e ci saremmo messi immediatamente in marcia. Ci saremmo accampati la sera seguente, e al sorgere del sole avremmo concluso il viaggio di ritorno, in modo che, se il nemico fosse stato al suo posto, gli saremmo arrivati alle spalle prima di mezzogiorno. Indicemmo un breve consiglio di guerra a beneficio dei giovani ufficiali e poi Uther e io ci ritirammo nelle nostre tende di cuoio, esausti per il viaggio e ostinati nella speranza di avere costruito la nostra campagna su una supposizione esatta: che Lot non poteva conoscere la nostra vera forza, poiché noi stessi non la conoscevamo e non avevamo avuto il tempo di censirla. Se ci eravamo sbagliati, e Lot aveva stimato correttamente le nostre forze, allora saremmo tornati a Camulod senza il vantaggio della sorpresa. Il mattino seguente ci dirigemmo senza fretta verso Camulod per una via più lunga e tortuosa di quella che io e Uther avevamo percorso all'andata. Era essenziale che non arrivassimo prima di Lot, e secondo le nostre previsioni avrebbe attaccato il forte o il giorno seguente, il terzo del nostro schema, o il giorno dopo ancora. Uther voleva che le nostre forze fossero pronte a rispondere all'attacco alla Colonia all'alba del quarto giorno. Io avrei preferito aspettare un altro giorno, per concedere a Lot il tempo di mettersi in posizione e di intraprendere una linea d'azione che avremmo poi potuto disturbare. Ma nessuno di noi due ebbe la possibilità di scegliere. Avevamo sbagliato i nostri conti di un giorno intero a favore di Lot, che era arrivato con il suo esercito sulla pianura di Camulod a metà del pomeriggio in cui noi eravamo partiti, e mentre noi ci dirigevamo tranquillamente verso sud i suoi uomini già si scatenavano brutalmente contro il forte. L'arrivo inatteso di Lot aveva colto mio padre e i suoi difensori completamente alla sprovvista. Un gran numero di soldati di fanteria, quasi una coorte intera, era impegnata a erigere un parapetto e a scavare un fossato di difesa ai piedi della collina. Al comando c'era Popilio, il nostro sergente maggiore anziano che, dovendo decidere se abbandonare i lavori in corso o rimanere a difenderli, aveva preferito la seconda alternativa. Circa un miglio più a nord, alla sua sinistra, un altro numeroso grappo di soldati era impegnato a rimuovere tutto l'utilizzabile dagli edifici della fattoria della villa. L'ufficiale incaricato dell'operazione era giovane ma assennato. Quando venne informato della posizione avanzata dell'esercito di Lot era già troppo tardi perché potesse ritirarsi al sicuro all'interno del forte con i suoi uomini, perciò aveva preso immediati provvedimenti per fortificare le costruzioni della villa al meglio delle sue possibilità. Rovesciando i carri che stavano caricando e usandoli come barricate, lui e i suoi uomini erano riusciti a formare un perimetro difendibile, e lì erano rimasti, una potenziale spina nel fianco dell'esercito di Lot. Quel primo pomeriggio c'era stato un combattimento furioso. L'esercito di Lot era in gran parte indisciplinato, e ogni unità prestava attenzione solo agli ordini dei comandanti in loco. I suoi soldati, se soldati si potevano chiamare, erano individui insubordinati, e il loro primo assalto contro i difensori della villa si era tramutato in una zuffa disorganizzata, rapidamente ed efficacemente vinta dai difensori, che combattendo come un sol uomo avevano respinto gli aggressori con il calare delle tenebre. Invece di consentire ai suoi uomini di rilassarsi dopo la vittoria, il giovane ufficiale al comando aveva approfittato della debolezza dovuta ala mancanza di disciplina dell'avversario, e nell'oscurità aveva guidato i suoi uomini in una battaglia dura e accanita per congiungersi alla coorte di Popilio. Il veterano Popilio aveva udito i rumori della battaglia e, immaginando che cosa stava accadendo, aveva lanciato i suoi uomini lungo il fianco sinistro del pendio, fino a unirsi ai combattenti della villa e ad accoglierli nella relativa sicurezza dei parapetti di difesa. Con il favore delle tenebre, Popilio avrebbe potuto ritirare i suoi uomini dal campo incompleto e rifugiarsi nel forte. Invece inviò un corriere a informare mio padre che intendeva mantenere la posizione e difenderla contro la feccia di Lot. Il suo maggiore problema era il rischio che gli uomini di Lot lo aggirassero e tentassero di salire la collina ai due lati della sua posizione, per poi tirargli addosso una raffica di frecce da sopra e da dietro. Mio padre mandò due squadroni di arcieri a proteggergli i fianchi, e contemporaneamente inviò tre dei suoi cavalieri migliori a spezzare il cordone di Lot, e a cercarci, per avvertirci di rientrare prima del previsto. I messaggeri dovevano dirci che Pico avrebbe trattenuto la sua cavalleria. L'urto dell'attacco iniziale sarebbe stato sostenuto da Popilio e dalla fanteria. Non appena fossimo apparsi, mio padre avrebbe lasciato andare i veterani della cavalleria in un assalto frontale, lungo la strada e nel centro delle schiere nemiche. Uno dei tre messaggeri ci trovò poco dopo mezzogiorno del giorno seguente. Iniziammo subito una marcia forzata, maledicendo la prudenza che ci aveva inutilmente mandato tanto a nord. Mio padre aveva valutato la forza dell'esercito di Lot in circa quattromila unità, una cifra che mi sorprese e aggravò immensamente la consapevolezza del mio errore. L'urgenza di un rapido rientro era diventata innegabile e devastante. Nel tardo pomeriggio, pesanti nubi grigie si accumularono a Occidente, e tra esse tremolava il bagliore dei lampi. L'afa divenne sempre più opprimente con l'avvicinarsi della tempesta, e mi scoprii a desiderare la frescura della pioggia che si stava dirigendo verso di noi. Il mio piacere fu di breve durata. Fu un diluvio terrificante, che ci soffiava contro torrenti d'acqua, inzuppando tutto e tutti quasi in un attimo, trasformando la terra soffice sotto gli zoccoli dei cavalli in un acquitrino, e rendendo praticamente impossibile procedere. Non avevo mai visto una pioggia così impetuosa e apparentemente interminabile. Le nubi erano così fitte da oscurare completamente il sole, e anche se sapevamo di avere ancora molte ore di luce ci sembrava che fosse notte. Ma non potevamo fermarci ad aspettare che la pioggia cessasse; dovevamo continuare a muoverci più celermente possibile, e quello che era incominciato come un viaggio da farsi in tutto comodo, subito degenerò in una cavalcata da incubo, con i cavalli che ovunque scivolavano e cadevano, terrorizzati dalla violenza della tempesta, dai lampi accecanti e dal caotico fragore del tuono, del vento, della pioggia e della grandine. L'anomala tempesta durò quasi tre ore, e quando finalmente le nubi si aprirono il nostro esercito era assolutamente demoralizzato. Per tutto quel tempo era stato impossibile farsi sentire anche gridando, e ognuno era rimasto imprigionato nel suo inferno privato, a soffrire l'agonia di armatura e indumenti fradici e freddi, spossato dall'incessante lotta per tenere il cavallo dritto sulle zampe, in movimento e sano di mente. Il primo squarcio tra le nubi ci mostrò i rosa e i porpora del sole al tramonto, che ci tolse l'unica opportunità di trascorrere una notte calda e asciutta, perché la legna era bagnata e non si sarebbe asciugata in tempo. Ci disponemmo alla prospettiva di una notte lunga e miserevole. Uther si accostò al mio fianco. «Che cosa ne pensi?» «Di che cosa? Non credo di essere capace di pensare. È un disastro.» «Questo lo sappiamo tutti, Caio.» La sua voce aveva una punta di asprezza. «Non sono venuto qui a sentire le tue lamentele! Voglio la tua opinione di ufficiale. È meglio fermarsi qui a riposare o proseguire? Abbiamo ancora molta strada e si sta facendo buio.» Mi costrinsi a pensare, e fu più facile del previsto, perché un ricordo di zio Varro si presentò spontaneo alla mia mente. Spinsi lo sguardo intorno più lontano che potei. Eravamo sul fondo di una valle poco profonda; il terreno saliva alla mia destra, e si appianava leggermente prima di trasformarsi in un pendio boscoso. Nella mia mente comparve l'immagine di una nave in fiamme. «Chi è il nostro quartiermastro?» chiesi a Uther. «Ne abbiamo tre. Perché?» «Mandameli. Stanotte rimarremo qui. La pioggia è cessata. Ci sposteremo su quel rialzo e vedremo di fare il possibile per asciugarci. Passa parola che un uomo sì e uno no vada a raccogliere legna. Quanto basta per quattro grandi fuochi, che siano sufficienti ad asciugarci tutti.» «Sei impazzito?» Uther era sconcertato. «Fuochi? É tutto bagnato fradicio! Come li accenderai, in nome di Efesio?» «Come mi ha insegnato Publio Varro. Ecco perché voglio i nostri quartiermastri.» Mi guardò in silenzio, poi scrollò le spalle e se ne andò, facendo cenno a un centurione. In breve eravamo tutti fuori dalla valle, sullo spiazzo rialzato. Dopo mezz'ora quattro grosse cataste di legna avevano iniziato a prendere forma, e io avevo parlato con i quartiermastri responsabili delle scorte di commissariato. Anch'essi pensavano che fossi impazzito, o almeno stravagante, ma tirarono fuori l'olio delle nostre razioni, lo versarono sulla legna fradicia e le diedero fuoco, e in men che non si dica tutti i nostri uomini erano riuniti intorno a quattro grandi incendi. Non avevo nessuna paura che quei fuochi potessero essere visti da occhi ostili. Eravamo ancora molto, molto distanti da casa. Sui nostri uomini ebbero un effetto magico; il freddo lentamente evaporò dalle ossa e gli indumenti iniziarono a fumare. Dopo un poco, fuochi più piccoli apparvero distinti da quelli più grandi, e il personale di commissariato poté distribuire il cibo. La notte era calda, e gli uomini aspettavano quasi nudi che i loro indumenti si asciugassero. Le tende di cuoio dei legionari spuntarono come funghi, e dal caos e dall'avvilimento sorsero l'ordine, una nuova risolutezza, e il confortante riposo. Determinato a trarre il massimo giovamento da quel recente ottimismo, organizzai dei turni per raccogliere altra legna, e impedire che i roboanti fuochi si affievolissero. Doveva essere ormai mezzanotte quando Uther venne a cercarmi con fare concitato. Ero stupito che fosse ancora sveglio e glielo dissi, ma si limitò a scuotere la testa in quel suo modo breve e caratteristico, riuscendo con un semplice gesto a farmi notare la banalità del mio commento. «Siamo ciechi, Cai. Ciechi come delle talpe e stupidi.» «Perché?» «Mi sono scervellato per trovare il modo più rapido di tornare a Camulod alle prime luci dell'alba. Anche tu, immagino?» Feci un segno affermativo e lui proseguì. «Beh, d'un tratto mi è venuto in mente! Dove siamo e perché ci siamo?» «Intendi qui e adesso?» «Sì, intendo proprio qui e proprio adesso, e non sforzarti nemmeno di pensare alla risposta perché te lo dico io. Siamo nel bel mezzo del nulla, e stiamo percorrendo una strada incerta e intricata dal campo a Camulod perché dobbiamo restare nascosti, esatto?» «Esatto. E allora? Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire, cugino, che ci stiamo comportando come degli idioti. La segretezza non serve più, adesso. Lot è a Camulod, e noi dobbiamo solo arrivare là più in fretta che sia possibile... E c'è una strada a meno di sette miglia a est da qui che ci porterà entro cinque miglia da Camulod! Possiamo procedere a marcia forzata su una strada vera. Non c'è bisogno di arrancare in mezzo a questa dannata foresta.» Mentre parlava ero balzato in piedi. «Per il Cristo! Hai ragione, Uther! Sono uno sciocco!» «Beh, sei in buona compagnia.» «Sette miglia per arrivare alla strada, hai detto?» «Al massimo. Forse la metà. Non lo so. In questa zona non mi sono mai allontanato dalla strada. So che l'ultima villa che hanno comprato i fratelli Attribato, l'ultima proprietà acquisita dalla Colonia, si trova da qualche parte verso sudovest, ma a che distanza esattamente non lo so, forse dieci miglia. Ma da là alla strada ci sono solo otto miglia. Abbiamo percorso un semicerchio. Adesso dovremmo essere più vicini alla strada.» Mi diressi al mio cavallo. «Ho intenzione di scoprirlo subito.» «Al buio?» «Sei. accecato dai fuochi. È una notte serena, una notte di luna.» «Aspetta allora. Vengo con te.» Quando ci fummo allontanati dai fuochi fu semplice trovare sentiero tra gli alberi che punteggiavano il paesaggio. La strada era meno di due miglia da dove eravamo partiti, e si stendeva nera diritta e sgombra da nord a sud. Cavalcammo fin sul selciato rimanemmo lì a ridere uno dell'altro, finché Uther non parlò. il a e e «Ebbene, che cosa ne pensi?» «Non ho bisogno di pensare. So che se ci mettiamo in marcia adesso, possiamo essere a poche miglia da Camulod prima dell'alba.» «Proprio quello che supponevo. Che cosa stiamo aspettando?» Tornammo al campo al galoppo come due ragazzini eccitati e svegliammo tutti. I fuochi e il tepore della notte estiva avevano riparato i danni della tempesta e gli uomini erano riusciti a riposare. Lo strepito del nostro arrivo creò panico e allarme, ma subito tutti si raccolsero intorno a noi e ai nostri cavalli. Uther alzò le mani per chiedere silenzio, e quando l'ebbe ottenuto mi guardò. «Avanti» gli dissi. «Lo spettacolo è tuo.» Sorrise e levò alta la voce. «Udite!» Il silenzio si fece più attento. «Avete tutti saputo la notizia. Lot è alle porte di Camulod. La tempesta di stanotte ci ha ritardato parecchio, e proseguendo per questa strada sarà un miracolo se arriviamo a Camulod prima di domani sera. E se non ci arriviamo, inostri amici e le nostre famiglie moriranno.» Nessuno si mosse e nessuno parlò. Uther mi guardò ancora e continuò. «Siamo stati ciechi, soldati di Camulod. La strada costruita dai Romani è a meno di due miglia da dove ci troviamo. Se ci muoviamo subito, saremo a Camulod per il sorgere del sole. Che cosa ne dite?» Il ruggito di stupefatta approvazione mi fece accapponare la pelle. «Così sia. Lasciate qui provviste e tende e montate a cavallo. Portate solo il necessario per combattere. I carri di commissariato resteranno qui e ci seguiranno più tardi. Abbiamo una lezione da insegnare all'usurpatore di Cornovaglia. Partiamo tra un quarto d'ora!» XXI. Arrivammo a Camulod nel buio che precede l'alba, e immediatamente spiegammo i nostri uomini all'interno del limitare della foresta che circondava la vasta pianura di addestramento militare ai piedi della collina. Uther aveva mandato avanti i suoi Celti in esplorazione per cercare di determinare che cosa era successo durante la nostra assenza, ma vedemmo da soli l'allarmante e spaventosa entità dell'accaduto. Camulod bruciava. Il riverbero vivido e colossale illuminava tutta la sommità della collina, e sentivamo i rumori della battaglia imperversare alla base della collina, intorno alle fortificazioni frettolosamente improvvisate che Popilio stava costruendo quando l'esercito di Lot aveva attaccato. Alla nostra destra, verso nord, un incendio bruciava cupo tra le macerie della villa. Anche da oltre due miglia di distanza, la scena somigliava a una folle visione dell'Ade. Il fumo aspro e acre sospinto dalla brezza si attaccava in gola. «Allora?» La voce di Uther era rude e brusca nelle mie orecchie. «Qual è la nostra mossa?» Avevo la mente in tumulto di fronte a una simile distruzione. Cercavo di trattenere le lacrime di rabbia e di frustrazione, e dovetti deglutire più volte perché non mi tremasse la voce. «Non lo so, Uther, non lo so. È troppo buio. Se attacchiamo adesso saremo guidati solo dalla luce degli incendi. Potrebbero esserci chissà quanti uomini nascosti là fuori nell'oscurità» «Sì, è vero.» La sua voce era tesa e roca, per la rabbia che era anche la mia. «Ma quei bastardi non si aspettano che mille di noi li colpiscano dietro le orecchie. Attacchiamoli ora.» Ero fortemente tentato di concordare con lui, ma poi ricordai che i nostri esploratori erano là fuori al buio, e ritrovai la consapevolezza del silenzioso esercito alle nostre spalle. I soldati erano stati avvisati di non fare nessun rumore che potesse tradire la nostra presenza, sotto pena di corte marziale. Gettare i nostri uomini in un attacco notturno sarebbe stato un azzardo, per numerosi motivi. Feci di no con la testa. «No, Uther. Se ci muoviamo contro di loro adesso, perdiamo la nostra iniziativa. Non vedranno la nostra forza, e invece voglio che ci vedano, che vedano mille cavalieri freschi. Freschi per questa battaglia, almeno. Freschi per loro. Dobbiamo aspettare l'alba e il ritorno degli esploratori.» «Il ritorno degli esploratori? Potrebbero essere tutti morti, Cai! Quella lassù è Camulod che brucia! C'è tuo padre, lassù, e c'è anche mia nonna.» «Uther, lo so.» Volevo gridare, ma riuscii a parlare in tono sommesso e urgente. «Credi che sia cieco e stupido? Ma la decisione è semplice: o attacchiamo adesso per rabbia, al buio, come una moltitudine disordinata e inferocita, e rischiamo di non risolvere niente, oppure aspettiamo un'ora e attacchiamo con la luce del giorno, quando le nostre forze saranno visibili per gli uomini di Lot e per i nostri. Lot pensa ovviamente di avere la battaglia in mano, altrimenti non lascerebbe combattere i suoi uomini durante la notte. Sta cercando di stancare i nostri uomini, ma stanca anche i propri. All'alba non saranno pronti a tollerare la vista di un esercito di cavalieri freschi e riposati che li attaccano alle spalle. I nostri uomini, invece, vedendoci si rincuoreranno.» Non era convinto. «E il forte? Sta bruciando, Cai. Forse stanno combattendo anche là.» «Spero di no» risposi, mostrandomi altrettanto incerto. «Ma se stanno combattendo, non possiamo fare nulla per aiutarli. Ci sono due eserciti tra noi e loro.» «Dannazione» esplose. «Ci deve essere qualcosa che possiamo fare!» Lo afferrai con forza per una spalla, cercando di fargli riconoscere la verità delle mie parole. «Adesso niente, Uther! Accettalo. Niente di utile. Non prima dell'alba. Nel frattempo, possiamo cercare di organizzare un piano d'attacco.» Sentii il suono di un'intimazione sommessa, l'immediata risposta alla mia destra, e poi un gruppetto di figure si avvicinò a noi nell'oscurità soffocante. Erano tutti a piedi e tutti tranne uno erano dei nostri. L'eccezione era costituita da un giovane caposquadra che quando eravamo partiti era rimasto a Camulod con Tito e con mio padre. Uther e io ci precipitammo giù da cavallo e gli andammo incontro. Uther lo raggiunse un istante prima di me e lo accolse con la domanda che era subito venuta in mente anche a me. «Come ci hai trovati? Come sei arrivato qui?» Il giovane ci salutò entrambi. «Comandante Uther, comandante Merlino, il legato Tito mi ha mandato fuori dal campo al calare della notte per aspettarvi qui. Ho dovuto farmi strada lungo il fianco della collina verso la villa per aggirare il nemico e giungere qui.» «Da solo?» lo interruppi. «Sei venuto da solo? E se nel buio non ci avessi trovati?» «No, comandante» mi interruppe a sua volta senza rendersene conto, «non da solo. Eravamo in tre. Uno si è fermato a nord della villa per aspettarvi là nel caso che non foste già passati. Un altro si è fermato a metà strada, e io ho proseguito da solo. Il legato non conosceva l'ora del vostro arrivo, ma speravamo tutti che arrivaste stanotte.» «Dov'è il legato, adesso?» chiese Uther. «Che cosa è successo su al forte?» Il messaggero scrollò il capo. «Non ne ho idea, comandante. Ero tra gli uomini che ieri il legato ha destinato alla fortificazione del campo sulla pianura ai piedi della collina, ma qualsiasi cosa stia succedendo lassù è iniziata solo stanotte, dopo che siamo partiti alla vostra ricerca. Prima di allora non c'era niente di anormale.» «Il campo in pianura è in grado di difendersi?» chiesi, fin troppo conscio di quanto poco sapessimo sull'effettivo stato delle cose. «Possono resistere?» La sua risposta fu immediata e positiva. «Sì, comandante. Abbiamo più di mille uomini, forse quasi millecinquecento. Sono ben riforniti e sotto il comando del legato Tito e di Popilio, il primus pilus. Possono resistere ancora per un giorno almeno, anche se da ieri sono soggetti a un costante attacco. I rinforzi del legato hanno dovuto farsi strada combattendo.» Schioccai le dita con impazienza. «Che cosa sai dirci del nemico? Quanti sono? Bene armati? Hanno una cavalleria? Come sono disposti? Stanno usando frecce avvelenate?» Mi anticipò levando il palmo della mano, e io mi calmai, stupito. «Per favore, comandante Merlino» disse. «Ho le risposte che desideri.» «Bene» ringhiò Uther, soffocando una risata. «Sputa fuori, allora.» Il soldato si girò verso Camulod, mettendosi tra Uther alla sua destra e me a sinistra, e con la mano sinistra indicò verso sud. «Il campo nemico principale è laggiù alla base della collina, a circa due miglia da dove ci troviamo adesso. Abbiamo valutato una forza complessiva di cinque/ottomila uomini, ma è difficile essere precisi a causa del flusso costante di nuovi arrivi, sempre da sud-ovest. Molti sono a cavallo, ma non sono certo cavalleria. Non hanno disciplina né addestramento. Non abbiamo riscontrato manovre organizzate. Quasi tutte le loro cavalcature sono pony di montagna.» Fece una pausa, poi continuò: «Mentre ci dirigevamo qui, io e i miei compagni abbiamo provato a contare i bivacchi. Forse più della metà degli uomini stanno dormendo nel campo principale. Gli altri stanno attaccando il nostro accampamento sulla pianura, nel tentativo di spossare i nostri uomini e, crediamo, di distrarre la loro attenzione da qualsiasi cosa stia accadendo su al forte. E no, comandante Merlino, finora, che noi sappiamo, non sono state usate frecce avvelenate». Fece un'altra pausa per lasciarci digerire tutte le informazioni, ma aveva evidentemente altro da dire. Uther e io non facemmo commenti, e aspettammo che riprendesse. Riprese, infatti, ma adesso che aveva finito di fare congetture, il tono di voce era diverso; era il tono uniforme e familiare del soldato che ripete un messaggio. «Il legato Tito si prepara a fare uscire i suoi uomini da dietro il muro all'alba, ma non prima che vi siate mostrati al nemico e l'abbiate distratto a sufficienza da consentire loro un'uscita sicura e disciplinata. Suggerisce che forse potreste voler lanciare il vostro attacco lungo un fronte scaglionato, impegnandovi prima con l'ala sinistra. Il legato ha osservato che il campo principale del nemico effettivamente blocca l'uscita dalla pianura verso sud. L'attacco iniziale con l'ala sinistra costringerà il nemico verso nord. Risparmiando le forze e ingaggiando battaglia a scaglioni susseguenti, dovreste poter trasformare il movimento verso nord in una rotta; il legato e la sua fanteria lasceranno il nostro accampamento per gli ingressi meridionale e orientale, e attaccheranno il nemico su un fianco e da dietro nel momento in cui voi completerete il vostro avanzamento, tagliandolo definitivamente fuori dal campo principale. Quando sarà incominciata la ritirata verso nord, le nostre forze congiunte lavoreranno assieme per aumentarne lo slancio. Il legato suggerisce inoltre che tratteniate l'estrema destra in totale occultamento nella foresta a nord-est finché non sarà il momento di farle prendere parte al combattimento. Quando il nemico avrà liberato in massa l'angolo nordorientale del nostro accampamento, un terzo contingente di truppe, una coorte, uscirà dal cancello nord per sferrare un altro attacco laterale, sostenuto dal vostro ultimo squadrone non ancora impegnato, direttamente da est, dalla loro destra. Secondo il legato non serve una grande disciplina, solo un tempismo perfetto. Poi, al momento giusto, che vi verrà segnalato da una carica di quattrocento soldati di cavalleria provenienti dal forte e condotti dal legato Flavio in persona, metterete in mostra le vostre riserve ancora intatte sulla destra, facendole uscire in piena forza dal loro nascondiglio a nord-est.» Si fermò, e sorrise biecamente prima di finire di esporre il piano. «Frattanto, non appena la battaglia finale sarà in pieno svolgimento, la vostra ala sinistra, alle spalle del nemico in fuga, si disimpegnerà, cambierà fronte e catturerà il campo nemico, lasciando che a portare a termine l'inseguimento sia la nostra fanteria.» Lo avevamo ascoltato in muta e immota concentrazione, visualizzando l'intera battaglia secondo la sua descrizione, notando l'assoluta, primitiva semplicità del piano e la sempre più evidente importanza del sincronismo. Dopo un silenzio di parecchi secondi, Uther parlò. «Di chi è questo piano?» «Del generale Pico, comandante.» «Lo immaginavo.» Si girò verso di me. «Funzionerà, Merlino. Che parte vuoi, la destra o la sinistra?» Scrollai le spalle. «Non fa differenza. A te la scelta. Ma non abbiamo più tempo e c'è molto da fare.» «Bene, io prenderò la sinistra e andrò per primo. Quanti uomini avrò?» Stavo già valutando l'entità delle nostre forze. «Trecento, ma devi muoverli in fretta. Per ottenere un maggiore effetto, devi lanciare la carica da dietro il loro campo, quasi direttamente da sud, perciò devi sbrigarti.» «Sono già partito. C'è altro che dovrei sapere?» Nella mia mente si stava svolgendo un'attività frenetica. Mi rivolsi al giovane messaggero. «Tu comandi uno squadrone?» Annuì. «Allora oggi comanderai il nostro centro, con quattrocento uomini. Scegli un subordinato che ne guidi duecento, a sud di una linea mediana da qui al forte, per rafforzare l'attacco di Uther una volta esaurita la sorpresa. Stabilisci tu il momento di lanciare alla carica i tuoi duecento uomini, quando il nemico avrà sgomberato l'angolo nordorientale del nostro accampamento. Io rimarrò nascosto con i restanti trecento uomini e aspetterò la sortita di Flavio dal forte. Adesso muoviamoci.» Uther mi osservava attentamente. «Merlino» disse, «sembri scontento. Qualcosa non ti convince?» «Niente. Ma mi piacerebbe sapere che cosa sta succedendo su al forte. Flavio potrebbe non essere in grado di fare uscire la sua cavalleria.» «Sarà morto, allora. La morte è l'unica cosa che potrebbe impedirglielo.» «Lo so» risposi, «ma come ho detto, non sappiamo che cosa sta succedendo lassù. Se Flavio non viene fuori, i miei trecento non faranno molta differenza.» Uther fece ancora quella sua strana risata. «Allora non avrà più importanza, cugino. Saremo nelle mani di Mitra. Comunque, terrò gli occhi aperti. Se Flavio non esce, volterò i miei uomini e verrò ad aiutare te invece di catturare il loro campo. In un modo o nell'altro sarà una battaglia conclusiva, non avere paura.» L'oscurità si andava trasformando nel grigiore dell'alba. Gli sorrisi. «Non ho paura, Uther. Sono troppo terrorizzato per avere paura!» Rise ancora e mi diede un pugno sul braccio. «Ci vediamo più tardi, cugino.» Non ho merito per la buona conduzione della battaglia, né per lo svolgimento riuscito del piano. Posso solo dire che, quando si svolse, funzionò perfettamente. Avevamo quasi un'ora per organizzare la disposizione delle truppe prima che la luce dell'alba rivelasse al nemico la nostra presenza. Ma i miei trecento uomini si nascosero bene, lontano a destra del punto da cui Uther sarebbe partito all'attacco, e io ebbi anche il tempo di preoccuparmi se Uther ce l'avrebbe fatta a raggiungere la sua posizione e ad approfittare della sorpresa. Non avevo altro da fare che attendere i suoni della sua carica, ma attesi e attesi e il cielo si schiarì. Quando non potei più attendere senza vedere con i miei occhi che cosa stava succedendo, tornai da solo sul limitare della foresta e trovai un punto da cui poter guardare oltre lo schermo degli alberi. Sulla pianura alla mia sinistra non c'era traccia dell'esercito di Uther. Non aveva ancora fatto uscire i suoi uomini allo scoperto. Ricordo chiaramente la prima reazione di rabbia, il frenetico domandarmi perché mai ritardasse tanto; balzai da cavallo e proseguii a piedi. Davanti a me, proprio al margine della foresta, si ergeva una quercia possente. Mi arrampicai in alto tra i suoi rami, e perlustrai con lo sguardo il campus che si estendeva ininterrotto dalla base della quercia fino alla collina di Camulod. Sulla vetta la cittadella era oscurata dal fumo, ma proprio in quel momento si levò un vento dall'est e soffiò via dalle mura le torbide nubi. Non vedevo fiamme, ma ero lontano. E solo allora compresi il motivo per cui Uther ritardava il suo attacco. Il nemico era in movimento, in ranghi fitti e apparentemente disciplinati, verso il nostro accampamento ai piedi della collina. Erano forse cinquemila uomini, guidati da una forza d'assalto di trecento carri da guerra. Ristetti incredulo, convinto com'ero che in Britannia carri da guerra non ne esistessero più. Per quanto ne sapevo, non si usavano in battaglia da decenni, e anche allora solo nel lontano nord. Avanzavano pomposi e risoluti, e quando furono vicini al nostro battagliato accampamento, i loro due o tremila compagni che stavano combattendo si ritirarono per consentire loro l'accesso. I combattenti in ritirata si mischiarono al fiducioso esercito in marcia, e ogni traccia di movimento disciplinato scomparve. Fu allora che Uther da sud liberò alle loro spalle il suo esercito, facendo squillare forti e chiare le trombe d'ottone. La sorpresa fu assoluta. Gli eserciti di Lot, quale ritirandosi e quale avanzando, si erano fusi in un disorganizzato miscuglio, e mentre i loro comandanti cercavano di capire e reagire all'inattesa apparizione, ondeggiarono sconcertati per un fatale intervallo di tempo. Quando i loro ranghi iniziarono a girare nella parvenza di una formazione, i trecento cavalieri di Uther, caricando in cinque squadroni a cuneo, serrati e invincibili, ciascuno composto da tre formazioni sempre a cuneo di venti uomini, avevano dimezzato la distanza che li separava. Guardai ammutolito dall'ammirazione, e vidi chiaramente il grande stendardo con il drago di Uther al vertice dello squadrone centrale. Era la manovra in formazione che avevamo trascorso mesi e mesi a preparare, ma che non avevamo ancora utilizzato in battaglia. Poi, mezzo minuto prima del fragore dello scontro, un'altra adunata risuonò alla mia sinistra, e la prima metà del nostro centro, duecento cavalli, irruppe alla carica, avanzando a sempre maggiore velocità per colpire il nemico al fianco appena scoperto. Riportai lo sguardo sulla carica di Uther e, nei pochi istanti che mancavano allo scatenarsi dell'azione, vidi la luce del mattino riflettersi sulle punte delle lance: Tito comandava l'uscita dai cancelli meridionale e orientale della sua fanteria, in manipoli di centoventi uomini ciascuno. Travolto dall'eccitazione della scena, quasi dimenticai il mio ruolo negli eventi che si andavano susseguendo. Gli uomini di Lot erano venuti per saccheggiare e depredare, e noi trionfavamo. Non sapevano che cosa si sarebbero trovati di fronte veramente. Non si aspettavano certo la tattica romana unita alla strategia di Alessandro! Mi precipitai giù dall'albero, saltando di ramo in ramo, rimproverandomi per i miei dubbi, ma anticipando già il prorompente attacco dei miei trecento uomini. Risalii a cavallo, raggiunsi le mie truppe e segnalai loro di pazientare ancora, poi mandai uno dei Celti di Uther sulla quercia con l'ordine di informarmi quando il nemico avesse oltrepassato l'angolo nordorientale del nostro campo, e l'assalto finale del nostro centro fosse incominciato. Mi parve che ci volessero ore, fermi a cavallo ad aspettare, e a vedere la battaglia attraverso gli occhi dell'uomo sull'albero; ma dai suoi commenti tutto si stava svolgendo come previsto. Sperimentai per l'ennesima volta l'agonia dell'attesa e del dubbio, e nella mia agitazione mi trastullai con l'arma che Uther aveva fatto per me, la palla di ferro attaccata alla catena. La slegai dalla sella e infilai il polso nel cappio, impugnai il grosso manico di legno e assaporai la .sensazione di quel peso forte e sostanzioso. Mi ero alzato sulle staffe, tentando vanamente di vedere oltre il riparo delle foglie, quando l'uomo sull'albero lanciò un grido: i cancelli del forte erano aperti e la nostra cavalleria stava uscendo. Roteai la palla di ferro intorno alla testa, incitai gli uomini schierati dietro di me, mi sedetti sulla sella e affondai i calcagni nei fianchi del cavallo. Vidi l'uomo sull'albero scendere quasi con la mia stessa rapidità, e poi ci ritrovammo all'aperto, a tagliare la strada al demoralizzato esercito di Lot, tra gli squilli delle trombe e il rombo crescente degli zoccoli dei cavalli che a ogni falcata aumentavano la velocità delle formazioni a punta di freccia nate per fendere lo spessore di qualunque fanteria. E mentre la distanza tra noi e il nemico diminuiva, a più riprese alzavo gli occhi alla vetta della collina e udivo la mia voce levarsi esultante, al vedere la cavalleria di mio padre che sciamava fuori dalle mura e si riversava lungo il pendio per unirsi a noi nel massacro. Nel fervore della battaglia, la nuova arma di Uther mi impressionò più di ogni altra cosa. Era leggera come una piuma eppure ogni volta che la palla roteando colpiva nel segno, un uomo veniva scagliato a terra come un bambolotto di paglia e stracci. A un certo punto sentii una gran botta al petto e poi un dolore al polso, e brevemente scorsi una freccia cadere a lato del mio cavallo. La ignorai e uccisi un altro uomo a terra, sfondandogli elmo e cranio con un colpo della mia palla di ferro, prima di venire colto dal sospetto che avrei potuto morire per una freccia avvelenata. Un'ondata di panico mi travolse; dimentico dell'infuriare del combattimento intorno a me, gli occhi fissi sul taglietto superficiale al polso sinistro, tirai con violenza le redini. Improvvisamente il mio fiero cavallo cadde in ginocchio con un gemito di dolore, e io mi ritrovai a terra, con i piedi ancora nelle staffe, e sotto di me il cavallo che sussultava nell'agonia della morte. Ritornai in me e vidi la lama di una lancia puntata contro il mio petto; mi buttai di lato, scalciando per liberare i piedi dalle staffe. Solo uno si liberò, e per fortuna era quello che serviva per salvarmi la vita. La punta della lancia mi sibilò lungo il fianco, sotto il braccio, e poi l'uomo che la impugnava mi si schiantò addosso, gettandomi all'indietro e lasciandomi senza fiato. Attraverso occhi d'un tratto appannati dalle lacrime lo vidi alzarsi in ginocchio sopra di me, accorciare la presa sulla lancia, e poi sparire, catapultato a sua volta all'indietro dal fendente di una spada. Un secondo dopo un cavallo mi sovrastava, impennandosi per non calpestarmi, e una voce chiamava il mio nome. «Comandante! Merlino! Puoi alzarti?» Era Cazio, uno dei miei ufficiali. Gli feci cenno di sì e faticosamente mi alzai, ammirando al contempo l'abilità con cui controllava la sua cavalcatura, facendola girare in cerchio sulle zampe posteriori per tenere a bada un esercito. Afferrai con entrambe le mani l'impugnatura che reggeva catena e palla e la feci roteare, abbattendo tre uomini e aprendomi uno spazio intorno. Ricordo che pensai che il rumore e la confusione erano molto peggio a terra di quanto mai mi fossero parsi dal dorso di un cavallo; e pensai che evidentemente non ero stato avvelenato. Poi udii di nuovo la voce di Cazio che mi urlava di montare a cavallo dietro a lui. Mi guardai attorno e a meno di tre passi vidi la carcassa del mio cavallo: solo due avversari mi separavano da essa. Sollevai la mia nuova arma e mi lanciai alla carica, presi il primo in pieno petto con la letale palla di ferro, e vidi il suo compagno scivolare sull'erba insanguinata. Proseguii nel mio slancio, girando su me stesso come un pazzo, e al culmine dell'impeto, a braccia distese, fracassai il cranio del secondo uomo. La violenza dell'urto quasi mi fece cadere, ma mi portò a fianco del mio cavallo morto, di fronte a Cazio, che mi tendeva il braccio destro. Saltai sul cadavere dell'animale e incrociando il braccio con il braccio di Cazio mi issai sul posteriore del suo cavallo, che però all'istante cadde con una lancia nel collo facendoci volare in avanti. Cazio e io atterrammo insieme, ancora uniti per i gomiti, ma questa volta io atterrai sulle mie gambe, barcollai e caddi all'indietro, mentre Cazio scompariva sotto un gigantesco bruto che maneggiava una spada corta come fosse un pugnale. Avevo perso la presa sul mio mazzafrusto, ma ne sentivo ancora il peso penzolare dalla cinghia intorno al polso. Riuscii a mettermi carponi, come un orso, appena in tempo per vedere il gigante accasciarsi infilzato da una lancia. Cazio non si muoveva. E allora sentii scatenarsi dentro di me la furia omicida, e con il ruggito della mia voce che mi rimbombava nelle orecchie, mi rialzai stringendo in pugno il mio terribile mazzafrusto. Da quel momento in poi non ricordo nulla, solo che mi ritrovai davanti a un altro gigantesco celta, con la catena del mazzafrusto, chissà come, avvolta intorno al manico della sua ascia, e la chiara consapevolezza di non possedere più la forza di liberare la mia arma. Ero troppo stanco. Abbandonai la presa e sfilai il polso dal cappio, e vidi il lampo di trionfo nei suoi occhi, il mio mazzafrusto cadere a terra e la sua ascia levarsi pronta a colpire. Ma ero solo stanco, non ancora morto, e nemmeno battuto. Prima che la sua ascia avesse raggiunto l'apice del movimento rotatorio, io avevo sfoderato la mia spada corta e l'avevo affondata fino all'elsa sotto lo sterno di quello sciocco. Poi rimasi lì, troppo stanco per muovermi ancora, e osservai la morte fiorirgli negli occhi e piegargli le ginocchia. Non tentai neppure di liberare la spada. Intontito, mi chinai e mi feci scivolare la cinghia del mazzafrusto intorno al polso, e lentamente mi sedetti, non perché lo volessi, ma perché ero esausto. La marea della battaglia si era ritirata da me, e io ero vivo e solo in un oceano di uomini morti e mutilati. Non so quanto tempo restai lì seduto, ma infine recuperai un po' di forza e un po' di respiro, mi alzai in piedi e guardai la carneficina che mi circondava. Un cadavere vestito di nero e argento attirò la mia attenzione, e mi avvicinai, pensando che fosse Cazio, ma era uno dei miei soldati. Erano miei soldati anche gli altri otto che guardai prima di trovare il povero, coraggioso Cazio, che era morto nel tentativo di salvarmi. La vista dei suoi occhi sbarrati e senza vita mi fece rinsavire completamente; cercai invano di chiudergli le palpebre, poi mi raddrizzai e scrutai con maggiore obiettività il campo di battaglia. I cadaveri degli uomini di Lot superavano i nostri per dieci a uno, ma i miei uomini rannicchiati nell'abbraccio della morte erano tanti, troppi. Poco lontano vidi il mio cavallo morto, e vicino a lui il corpo del cavallo di Cazio, e i miei occhi si colmarono di lacrime. Non mi sembrò strano piangere per i cavalli in mezzo a quei mucchi di uomini morti. Gli uomini morti erano troppo numerosi per muovere a pietà; la mente non era in grado di comprenderli tutti. Ma i cavalli erano innocenti. Mi tolsi l'elmo e piansi, a testa china, per il dolore e la follia e l'infamia causati dalla fellonia di un solo uomo. E poi rimisi l'elmo, lo affibbiai, pretesi la mia spada dal cadavere dell'ultimo uomo che avevo ucciso, e andai in cerca di Lot di Cornovaglia, percorrendo a lunghi passi quel campo di morte, udendo solo allora, e ancora molto debolmente, le urla e i gemiti dei feriti che giacevano ovunque. Camminavo senza distogliere gli occhi dalla massa di uomini che in lontananza continuavano a combattere. Tenevo l'impugnatura del mazzafrusto nella mano destra con la catena sulla spalla e la palla che penzolava dietro la schiena, e avanzando pregavo che Lot non fosse ancora morto, perché anelavo a mostrargli la brutale potenza della mia nuova arma. Camulod bruciava, e vederla bruciare sulla cima della collina indurì ogni cosa dentro di me. Daffyd il druido mi aveva parlato della fortezza di Lot a Occidente: dicevano che era inespugnabile. Giurai di farla rotolare, pietre e tronchi e uomini, fino giù nel mare. Diventavo sempre più cosciente della vita e della sofferenza tuttora presenti in molti uomini intorno a me. Le loro grida, i gemiti, le implorazioni di aiuto sembravano aumentare e rafforzarsi, finché la mia testa fu piena di quella babele di voci. Ma li ignorai, amici e nemici in ugual maniera. E poi vidi un cavallo, vivo e in buona salute, pareva, a testa bassa, a circa duecento passi da me. Mi avvicinai con cautela, per non spaventarlo, ma l'animale era calmo e lasciò che lo prendessi per le briglie. Era spossato, i fianchi e il garrese schiumavano di sangue e di sudore. Gli montai in groppa e lo diressi verso il nostro campo; dalla lunghezza delle staffe dedussi che il suo precedente cavaliere era uno dei nostri con le gambe più corte delle mie. Dopo essere stato appiedato così a lungo, mi accorsi con sorpresa che dall'alto di un cavallo si vedeva molto di più: l'intero campo di battaglia riassunse una prospettiva familiare. Sollevato dalla necessità di camminare, mi guardai intorno con maggiore attenzione. A circa trecento passi dall'accampamento fortificato costruito da Popilio, incontrai un altro dei miei uomini, vivo. Era Polidoro, uno dei miei centurioni, e un laccio gli stringeva il braccio sinistro sopra il gomito. Feci fermare il mio cavallo accanto al cadavere di un altro animale morto e goffamente aiutai Polidoro a salire dietro di me. Non scambiammo una parola finché non fu montato, sorreggendosi a me con il braccio buono. «Come va, il tuo braccio?» gli chiesi. Mi rispose a denti stretti, con voce aspra e sibilante. «Piuttosto male, comandante. Piuttosto male.» «Beh, se questo cavallo ci sopporta tutti e due ancora per qualche momento, possiamo farcela a raggiungere l'accampamento laggiù. Dov'è andato il tuo esercito?» «Non lo so, comandante. Probabilmente a ricacciare Lot in Cornovaglia.» «Spero di no! L'ultima volta che li ho visti erano diretti a nord.» Il povero cavallo barcollava quando ci scorsero dalle mura. L'accampamento non era ovviamente dotato di un presidio completo, ma qualcuno della guarnigione ci corse incontro per aiutarci. Sopra di noi, da Camulod si levava un fumo tetro. Con tutta la delicatezza che potei, consegnai Polidoro a quelle braccia protese, e attesi di vederlo adagiato su una barella composta da uno scudo in mezzo a due lance. Poi rimisi il cavallo al passo, ed entrai dal cancello settentrionale, dove mani volenterose mi aiutarono a smontare e a togliermi l'armatura ammaccata. XXII. «Sapevi di averla, comandante?» Guardai stancamente mostrando. «No, dov'era?» la freccia che qualcuno mi stava «Conficcata nella tua corazza, signore, all'altezza della spalla.» «Nella schiena?» «Sì, comandante, tra le giunture.» Scossi la testa. «Non l'ho sentita. Sii prudente, potrebbe essere avvelenata.» Il soldato la sollevò alla luce e la fissò meravigliato. «Per gli dei, comandante, credo che lo sia! Il metallo è rivestito di una sostanza strana.» Per l'orrore mi si rizzarono i capelli sulla nuca. «Fammela vedere.» La sollevai alla luce come aveva fatto lui e vidi sulla punta di ferro dei residui cristallini verde argento. Non somigliavano a niente che avessi mai visto prima. Rabbrividii per il ribrezzo e gettai la freccia lontano da me. «Potrebbe essere. Il solo pensiero mi rivolta lo stomaco. Facci attenzione!» Il soldato andò a riprendere con molta cautela la freccia, e osservò ancora la punta sbiadita. «Ebbene» disse, quasi a se stesso, «lo sapremo subito.» «E come, soldato? Hai intenzione di provarla?» Ero così stanco che biascicavo le parole. «Sì, comandante. Su uno di quei bastardi.» Indicò un gruppo di prigionieri che non avevo notato. «Non farai una cosa simile!» «Perché no, comandante?» Era la quintessenza dell'innocenza offesa. «Gli farò solo un graffietto. Se non è avvelenata, non gli farò alcun male. Se è avvelenata, invece, sapremo chi ha usato queste frecce l'ultima volta.» Ricordai l'innocua freccia che mi aveva scalfito il polso, e ricordai che quella freccia, la freccia che teneva in mano con tanta accortezza, si era trovata a meno di un dito dalla mia pelle. Annuii. «Procedi pure, allora.» Si diresse al gruppo di prigionieri, ne afferrò uno per il braccio, lo tirò fuori dal gruppo e gli fece un profondo graffio con la punta della freccia. A lungo il prigioniero fissò la ferita con occhi spenti, e poi mi guardò, con il braccio ferito teso e rigido, in modo da mostrarmi chiaramente la ferita sanguinante nell'incavo del gomito. La sua faccia era del tutto inespressiva. Mi rivolsi al centurione al mio fianco. «Acqua. Ho bisogno di lavare via un po' di questo sudiciume.» «L'ho già ordinata, comandante.» Vidi due soldati avvicinarsi con delle brocche d'acqua, e poi sentii un gemito strozzato alle mie spalle e mi girai di scatto a guardare. La faccia del prigioniero non era più inespressiva; era una smorfia di dolore e di terrore, fissa sul braccio ferito rigidamente teso in avanti. Non appena mi resi conto di quello che gli avevamo fatto, il suo gemito si tramutò in un urlo acuto e gorgogliante. Il prigioniero si buttò a terra, contorcendosi nell'agonia, agitando e strattonandosi il braccio come se volesse svellerlo dal corpo. Aprii la bocca per gridare, ma nulla ne uscì, e rimasi inorridito oltre ogni dire a guardarlo divenire preda delle convulsioni, inarcare la schiena e toccare terra solo con la testa e i calcagni, rovesciarsi su un fianco dimenando braccia e gambe. Era lo spettacolo più orrendo che avessi mai visto. La mia mente gridava Avrei dovuto essere io! Quello avrei dovuto essere io! E poi un centurione ritornò in sé e con un misericordioso fendente della sua spada corta mise fine alla miseria e alle sofferenze di quell'uomo. Ma il corpo decapitato del prigioniero continuò a scalciare e a contorcersi, schizzando per la corte grandi getti di sangue. Con uno sforzo enorme deglutii la bile che mi era salita in gola, e cercai con lo sguardo l'uomo che aveva ferito il prigioniero. Era paralizzato, bianco come la morte; la freccia giaceva a terra ai suoi piedi, dov'era caduta dalle sue dita improvvisamente private di nerbo. "Avevi ragione" mi sentii dire. "Raccogli la freccia e tienila in serbo per me. Trattala con cura per proteggere il rivestimento. Ne avrò bisogno più tardi." Mi rivolsi ai soldati impalliditi che avevano portato l'acqua. "Portatela in quella tenda. Mi lavo subito." Mi lavai nella nebbia di un freddo distacco, immersi tutta la testa nell'acqua che restava, e indossai di nuovo l'armatura e gli sbrindellati avanzi del mio grande mantello nero. Il corpo pareva rinvigorito, ma la mente era intorpidita; sapevo solo quello che dovevo fare. Quando uscii dalla tenda vidi Popilio che mi aspettava, e l'accampamento pieno di soldati impolverati, insanguinati e stanchi. "Comandante Merlino." La voce di Popilio era greve di apprensione. "Sei illeso? Pensavamo che fossi morto." Meccanicamente lo rassicurai e gli chiesi che cosa era accaduto nel forte. L'apprensione divenne angoscia, ma seppe dirmi soltanto che qualsiasi cosa fosse accaduta era accaduta dopo il calare della notte. Da allora non aveva avuto né il tempo né la possibilità di conoscere le condizioni esistenti dentro il forte. "D'accordo" dissi, "lo scoprirò da me. Ci sto andando adesso. E Lot? Dov'è il suo esercito?" "Disperso, comandante, quello che ne resta. Distrutto." "E Lot?" Popilio si strinse nelle grosse spalle. "Sembra che nessuno lo sappia, comandante. Potrebbe essere tra le vittime." "No." Ero disgustato. "Non quel serpente. Quelli come lui raramente muoiono così, con onore. Dev'essere fuggito." Popilio aveva dei dubbi. "Se è fuggito, è fuggito alla svelta, comandante. Gli uomini di Uther erano nel suo campo dopo pochi minuti dalla prima carica." "Oh, Popilio, stai certo che è fuggito alla svelta. Ma non potrà correre lontano. La Britannia non è più grande abbastanza per nascondere quell'uomo da me." Guardai in cima ala collina. "Rimetti insieme i tuoi uomini, Popilio, e andiamo a vedere che cosa ci aspetta a Camulod." Si schiarì la voce, come per farsi perdonare le sue parole. "La situazione non può essere così brutta, comandante. La cavalleria è uscita. Non ce l'avrebbe fatta se fossero stati sotto pressione." "Questo è vero, ma c'era mio padre a capo della cavalleria?" "Non lo so, comandante." "Andiamo lassù e vediamo quanto sono gravi i danni. Mi preoccupa il fatto che non sia ancora uscito nessuno." Era determinato a essere ottimista. "Staranno spegnendo gli incendi." "Sì, e saranno contenti di ricevere il nostro aiuto." Popilio aveva ragione. Ogni persona abile stava lottando contro il fuoco, in gran parte domato. Solo quando entrai dal cancello nella corte piena di fumo e vidi l'estensione del danno, pensai all'Armeria e al tesoro che giaceva nascosto sotto il pavimento di legno, e il cuore mi balzò in gola. La corte era invasa dalla confusione, e dalle linee incrociate di coloro che si passavano di mano in mano secchi di cuoio e di legno dalle grandi cisterne presso il muro occidentale. La corte era allagata di acqua sporca e schiumosa di fuliggine. Lasciai Popilio a disporre i suoi uomini lungo le linee per affrettare il trasporto dell'acqua e andai in fretta al muro occidentale, contro il quale Publio Varro aveva costruito l'Armeria e la sua casa. L'edificio era miracolosamente intatto, ma circondato da una falange degli arcieri celtici di Uther. In alcuni punti il tetto di paglia aveva preso fuoco, ma le fiamme non avevano avuto il tempo di estendersi perché subito erano state irrorate con l'acqua delle cisterne vicine. Sentii chiamare il mio nome; Donuil venne verso di me, accompagnato dal centurione Rufio, il suo guardiano. i due uomini erano neri di fuliggine dalla testa ai piedi, ma erano i primi volti che avevo riconosciuto dal momento del mio arrivo. "Donuil" esplosi, tenendo d'occhio gli arcieri. "Che cosa è successo qui? Che cosa sta succedendo?" Trasse un respiro profondo e singhiozzante, cercando di immettere nei polmoni un'inesistente aria pulita. "Sono stati i maghi, Merlino, Caspar e Memnone. Sono scappati dalle loro celle in piena notte e hanno aperto il cancello nel muro posteriore. Fuori c'erano degli uomini che aspettavano. Si erano arrampicati su per la scarpata." Ero stupefatto. "Sono scappati? Come? Non avrebbe dovuto essere possibile. Erano sotto custodia stretta, o no?" I due uomini annuirono. "Allora come hanno fatto a scappare?" Vidi il loro turbamento e insistetti. "Voi lo sapete. Ditemelo. Come hanno potuto scappare?" La voce sommessa di Donuil recava una traccia di aggressività. "Te l'avevo detto, Merlino Britannico, prima che partissi, quand'erano appena arrivati. Quegli uomini sono dei negromanti, stregoni, maghi, servi della morte. Hanno poteri che gli uomini comuni non hanno." "Sciocchezze! Sarà stato un inganno. Devono avere corrotto una guardia." "No, Merlino!" Il tono dello scoto era categorico. "Non è andata così. Hanno ammazzato tutte le guardie. È stata una magia di qualche tipo. Durante la notte mi sono svegliato e sono andato a controllare, perché ho paura di loro, come ben sai. Rufio è venuto con me. Quando siamo arrivati, le celle erano aperte e le guardie erano tutte morte. Senza indizi di violenza, bada. Abbiamo pensato che dormissero." "Dannazione, Donuil, ciò che mi dici è impossibile! Come hanno potuto degli uomini in catene uccidere le loro guardie da dentro una cella chiusa a chiave?" "Non è impossibile! Le guardie erano morte e i prigionieri spariti. Io non so come abbiano fatto, ma l'hanno fatto! Abbiamo dato subito l'allarme, ma non abbiamo fatto in tempo a impedire loro di aprire il cancello posteriore. Siamo riusciti a richiuderlo, ma molti uomini sono entrati." "Quanti?" Qualcosa non andava, ma in quel momento mi sfuggiva. I due uomini si guardarono e fecero una stima approssimativa. "Cinquanta? Forse sessanta." "E cinquanta uomini hanno fatto tutto questo?" Indicai con un gesto del braccio la desolazione che ci circondava. "Avevano frecce incendiarie. Hanno dato fuoco alla paglia dei tetti." "Quanti ne sono rimasti? Presumo che siano lì dentro." Puntai il dito contro la casa di mio zio. "Non lo sappiamo, comandante. Forse dieci o dodici. Hanno... hanno degli ostaggi." Mi si accapponò la pelle; avevo avuto la stessa sensazione per la freccia avvelenata. "Chi?" Ma lo sapevo già. Fu Rufio a rispondermi. "Tua zia, comandante, donna Luceia. Le sue donne. Pochi altri." "Mio padre" dissi, senza potermi trattenere. "Dov'è mio padre?" Silenzio. "Dov'è?" "Morto, comandante." Il silenzio si protrasse per un'eternità, e finalmente Rufio parlò ancora, con una voce che mi parve lontanissima. "L'hanno ucciso nel suo letto prima di aprire il cancello." Era come sentire i rintocchi di una campana d'ottone. Mi cedettero le ginocchia, e sentii Donuil che mi afferrava e mi sosteneva. Rimasi lì, lasciando che reggesse tutto il mio peso, finché la mente non mi si snebbiò. "Dov'è adesso?" sussurrai. "Ancora nel suo letto, dove l'abbiamo trovato." "Aspettate qui." Andai nell'alloggio di mio padre, senza guardare dove mettevo i piedi, senza badare alla devastazione intorno a me. Era come avevano detto. Mio padre, il generale Pico Britannico, era morto nel suo letto. Ma non dormendo. Le lenzuola aggrovigliate alle gambe nude raccontavano una dura lotta, e nella mia mente passò l'immagine di un'altra lotta, più antica e simile, dalla quale era uscito vivo. Il suo corpo era rovesciato all'indietro, con la testa tra il capo del letto e il pavimento, e non lo vidi in volto. C'era sangue ovunque. Alzai gli occhi alla luce che entrava dalla finestrella annerita sopra al letto, e la mia anima fu a un tratto vuota. Girai intorno al letto e cercai di sollevare il suo corpo, di donargli più dignità di quella che gli avevano lasciato i suoi assassini, ma era rigido e freddo. Lo squarcio alla gola aveva completato il lavoro iniziato tanti anni prima dalla freccia dei Pitti. Rinunciai ai futili tentativi di muoverlo e mi sedetti sul bordo del letto, incurante del sangue coagulato, ricordando la rudezza della sua voce che non avrei mai più udito, contemplando la mano massiccia che si stendeva in fondo al braccio dura come un artiglio, quasi a voler trattenere la vita. E allora la mia risoluzione si inasprì. Quando uscii nella corte ero di nuovo nel pieno possesso delle mie facoltà. Poco lontano un bambino piangeva, e quel suono mi fece pensare che forse io non avrei pianto mai più. Donuil e Rufio erano ancora dove li avevo lasciati, girati verso di me, in attesa del mio ritorno. Gli arcieri in semicerchio erano sempre rivolti all'Armeria. Il profumo di cibo cucinato mi stuzzicò le narici. O le cucine non avevano subito danni oppure Ludo stava improvvisando. Nella corte il rumore era spaventoso. Ovunque tra gli edifici il fumo vorticava e mulinava. Di tutte queste cose ero cosciente, ma nessuna mi impressionava. La mia mente era totalmente concentrata sul problema di tirare fuori dall'Armeria i maghi e i loro ostaggi. Nel gelo della mia anima sapevo che se là dentro non ci fosse stata mia zia Luceia, avrei preso d'assalto quel luogo e sacrificato gli altri ostaggi. Ma Luceia c'era, e non potevo mettere a rischio la sua incolumità, tanto più che era l'ultima superstite dei primi coloni di Camulod. Un pensiero chiarissimo continuava a venirmi in mente, per essere ancora e sempre soffocato, finché non potei più negarne la giustezza, e fui costretto ad ammettere che rappresentava per me l'unica via, sebbene terribilmente pericolosa. Parlai a Donuil e a Rufio. "Aspettatemi qui, devo sistemare alcune cose. Che nessuno faccia una mossa contro quella gente là dentro fino al mio ritorno, è chiaro?" Mi fecero il saluto e me ne andai a fare i necessari preparativi. Tornai dopo mezz'ora e mi rivolsi direttamente a Donuil. "Quei maghi ti hanno visto?" "Che cosa vuoi dire, comandante?" "Voglio dire, ti hanno visto qui? Sanno che sei qui di tua spontanea volontà?" Aggrottò la fronte. "No, comandante. Sono stato attento a evitarli." "Ti hanno visto nel castello di tuo padre?" Fece un corrucciato cenno di assenso. "E sanno dell'alta considerazione che tuo padre ha per te?" Annuì ancora. "Sì, certo. Li ho sentiti parlare di me come del favorito di mio padre, pur non essendo il primogenito." "Bene." Gli strinsi l'avambraccio. "Ti piacerebbe guadagnare la tua libertà oggi?" Quanto avessi bisogno del suo aiuto era implicito nella mia offerta, e Donuil era abbastanza perspicace da accorgersene. Socchiuse gli occhi. "La mia libertà?" "Sì, oggi. L'immediato scioglimento dalla tua promessa." Sembrò volermi guardare con aria minacciosa. "Come potrei?" "Rendendomi un servizio." "Un servizio." La sua espressione era illeggibile. "Che genere di servizio?" "Fingere di essere ciò che sei, un prigioniero, ma tuo malgrado." "Fingere?" Adesso era cupo in volto, senza più ritegno. "Non capisco." "Non è difficile" gli dissi. "Quegli uomini - quegli stregoni, come li definisci tu - tengono in ostaggio mia zia. È una delle due persone al mondo che mi sono più care. L'unico stratagemma che sono riuscito a escogitare per salvarle la vita è di metterla a rischio in uno scambio di ostaggi." Tacque per lo spazio di pochi battiti del cuore, poi disse: "Me, in cambio di lei?". "Sì." Aggrottò di nuovo la fronte e scrollò il capo. "Non funzionerà, comandante. A quegli uomini non importa nulla di me." "No, ma a Lot sì, o comunque gli importerà quando si renderà conto di poter esercitare su tuo padre una maggiore influenza, e impressionare tua sorella affrancandoti dalla prigionia. Potrebbe considerarti uno strumento politico di grande potere, un mezzo per rinforzare l'alleanza con tuo padre e il suo popolo." Il giovane scoto era tutt'altro che stupido. Vide immediatamente la falla nel mio ragionamento. "Ma Lot se n'è andato, comandante. Non appena arriverà in patria vedrà la realtà delle cose, saprà che il nostro esercito è stato sconfitto. Le nostre forze non gli servono più adesso." "Non sono d'accordo, ma questo non è importante. Il punto è che questi uomini non lo sanno. Cercheranno di fare lo scambio per sfruttare il vantaggio e consegnarti a Lot. E lo riterranno un vantaggio d'oro per loro stessi. Quale dei due è il più forte?" Si strinse nelle spalle. "Nessuno dei due è..." Lo interruppi, impaziente. "Scempiaggini. In ogni e qualsiasi società c'è un socio dominante e un socio ossequiente. È nella natura umana. Rifletti! Quale dei due prende le decisioni?" Fece una pausa, per lo spazio di un battito. "Caspar. Memnone lo segue." "È quello che pensavo. Ti consegnerò a Memnone, che avrà con sé mia zia. Io terrò Caspar. Ce ne andremo tutti da qui in un luogo aperto, dove io non possa ingannarli. Quando saremo là, Memnone lascerà che mia zia venga da me. Quando mi avrà raggiunto, io libererò Caspar." Donuil si incupì. "É uno scambio semplice. Funzionerebbe anche senza di me, comandante Merlino." "È vero, potrebbe funzionare, ma ne dubito. Adesso hanno un vantaggio maggiore di quello che otterrebbero da un simile accordo. Cosi come stanno le cose rischiano troppo, personalmente. Il vantaggio di riuscire ad avere te potrebbe fare la differenza." Feci una pausa, poi scrollai le spalle. "A ogni modo, non so pensare a niente di meglio. E comunque non mi fiderei di nessuno di quei due esseri. Se Memnone sospettasse di poter governare da solo il suo magico regno, potrebbe sopprimere mia zia e lasciare Caspar a me. Questo sarà il servizio che dovrai rendermi: ammazzare quell'animale se anche solo si sogna di farle del male. Ti darò un coltello, da nascondere nei tuoi abiti." "Capisco." Le rughe sulla sua fronte si erano distese, ma ritornarono all'istante. "E poi? E se il tuo scambio dovesse funzionare, senza inganni? Io non desidero approfittare dell'ospitalità di Lot." "Perché no? Ti rimanderebbe a casa." Mi guardò in silenzio per un momento e poi annuì. "Così sia. Ti aiuterò." "Bene. Ma dovrai presentarti in catene. Non saresti convincente altrimenti." Mi girai verso il suo custode. "Centurione Rufio, porta Donuil in cella e mettilo ai ferri, e non essere troppo gentile, deve immedesimarsi nella parte. Restituiscigli i suoi abiti." Quando se ne furono andati, mi avvicinai alle porte dell'Armeria, allontanai gli arcieri con un cenno, e battei sul legno con l'elsa della spada. Ci fu silenzio per alcuni minuti, e poi da dietro la porta una voce mi gridò che cosa volessi. Chiesi di parlare con Caspar o con Memnone e dissi chi ero. Passò dell'altro tempo, e poi i battenti si aprirono leggermente e la voce profonda di Caspar, il porco dalle gambe corte, mi chiese ancora che cosa volessi. Parlai alla fessura tra i battenti. "Innanzitutto, ascolta che cosa non voglio. Non voglio perdere tempo a mercanteggiare con te. Tra i tuoi ostaggi hai la padrona di questa casa. É molto vecchia. Se è già morta, siete morti anche tu e tutti quelli che sono dentro queste mura, ostaggi o no. Se è ancora viva, fammela vedere, e forse ti lascerò comprare le vostre ignobili vite in cambio della sua." Sentii una conversazione bisbigliata e frettolosa, e poi: "Questa donna. Che cosa è per te?". Digrignai i denti. "È la zia di mio padre." Silenzio. "La zia di tuo padre? Ma tuo padre è morto, Caio Merlino." Il cuore mi martellò in petto, e pensai, Lo so, e sei morto anche tu, puzzolente grumo di sterco egiziano. "Ma tu sei ancora vivo" continuò la voce, "e così tua zia." Deglutii a fatica. "Provamelo. Fammela vedere." Di nuovo i bisbigli di una conversazione, e poi: "Aspetta. La vedrai. Ma il minimo trucco e moriamo tutti, la vecchia per prima". Attesi. Finalmente le porte si aprirono piano, e lì, in mezzo all'atrio, tenuta stretta da un uomo che le stava alle spalle con un coltello puntato alla gola, c'era Luceia. Il sangue sgorgato da un taglio sulla fronte le aveva imbrattato il viso, i capelli pendevano a ciocche scompigliate, e i suoi abiti erano a brandelli, ma aveva gli occhi bene aperti, e stava in posizione eretta, con un atteggiamento di sfida. Le chiesi se le avessero fatto del male, e lei mi rispose con voce sorprendentemente forte: "Uccidili tutti, Cai! Non...". La mano del suo aguzzino le tappò la bocca, e le porte si richiusero con uno schianto. Dopo alcuni momenti si schiusero appena. "Ebbene" disse la voce, "come vedi, è viva. E adesso che cos'era quella faccenda di vendere le nostre vite?" "Vieni fuori, dannazione a te" latrai. "Non ho intenzione di parlare attraverso una porta chiusa! Nessuno vi farà del male finché quella donna è in vostro potere. La sua vita e il suo benessere valgono più di tutti voi messi insieme." Deliberatamente mi girai e mi allontanai, e rimasi in piena vista in mezzo alla corte con la schiena alla porta. Cinque minuti trascorsero prima che i battenti si riaprissero. Caspar e Memnone uscirono e si fermarono, sbattendo le palpebre nella luce fumosa del pomeriggio. Restai immobile, costringendo loro ad avvicinarsi. Caspar avanzò arditamente, sogghignando. Memnone, il più timido dei due, si guardò attorno innervosito. Si fermarono ancora a circa due passi da me, e li affrontai con il ribrezzo che mi ribolliva dentro. Caspar, naturalmente, fu il primo a parlare. "Le nostre vite. Che cosa valgono per te?" "Nemmeno un mucchio di sterco di maiale." "Allora permettimi di riformulare la domanda. La vita di tua zia: che cosa vale per te?" "Le vostre vite." "Così va meglio. Siamo in quattordici, in tutto." "No, siete in due. Gli altri sono già morti." "Devi essere pazzo, Caio Merlino. Perché dovremmo consegnarti le nostre guardie del corpo, quando abbiamo la vecchia? Ovviamente per te vale più di tutto questo." Caspar indicò con un gesto sdegnoso le fumanti rovine che ci circondavano. "Bada a te, animale" sibilai. "Il sangue di mio padre è ancora fresco sulle tue fetide mani, perciò non esagerare. Mia zia ha avuto una vita lunga e proficua e sarebbe l'ultima a biasimarmi se sacrificassi il poco tempo che le resta per il privilegio di crocifiggervi!" Le mie parole penetrarono nella sua corazza da rettile. Sbattè le palpebre come una lucertola e si schiarì la voce, riconoscendo la mia determinazione. "Non puoi aspettarti che sacrifichi i miei uomini senza nessun vantaggio." "Nessun vantaggio? La vita non è un vantaggio?" "Stai cavillando, Merlino. Le nostre vite ce le abbiamo, finché noi abbiamo la donna e tu tieni sotto controllo la tua rabbia. Ma è quest'ultimo punto che mi preoccupa. La tua rabbia. Sarei uno sciocco a fidarmi di un uomo che brucia così visibilmente di odio nei miei confronti. Perciò, terrò i miei uomini per la sicurezza che mi offrono contro la tua sete di sangue." "No!" gli sputai addosso, lottando duramente per frenare l'odio che mi rodeva. "Ho detto che non tratterò con te. Dammi la donna e voi due ve ne andate liberi e che sia finita. Hai la mia parola." «La tua parola?» Sulla faccia ora non c'era segno di sorriso, né di sogghigno. «Non mi fido della parola di nessuno. Dovrai fare di meglio.» «E allora che cosa vuoi? Io voglio mia zia viva e in buona salute, e libera di morire naturalmente. Se l'è guadagnato. In cambio, sono disposto a privarmi del piacere di uccidervi entrambi con le mie mani, o di farvi ammazzare da qualcun altro. Se non vuoi accettare la mia parola, che cosa vuoi accettare? Dì le tue condizioni. Se saranno ragionevoli te le concederò. Non posso dire altro.» Caspar fece una pausa prima di rispondere. «Noi dobbiamo essere certi che non ci sia possibilità di inganno.» Non mi lasciò il tempo di esprimere il mio sdegno. «Sai di che cosa sto parlando. Nessuno di noi si fiderà mai dell'altro, Memnone e io vorremmo andarcene da qui vivi, con i nostri compagni...» «No! Quelli muoiono.» «No, invece!» La sua voce era bassa. «Abbiamo bisogno di loro... bisogno di riportarli sani e salvi in patria, a Lot di Cornovaglia.» Cercai di mantenere la voce piatta. «Lot è morto, É stato ucciso giù sulla pianura.» Caspar mi rise in faccia. «Lot? Sei uno sciocco! Lot non ha mai lasciato la Cornovaglia. Se ne sta seduto nella sua roccaforte, e aspetta notizie della sua campagna. Al suo posto ha mandato un altro, che indossasse la sua armatura per incoraggiare i soldati. No, Merlino. Lot è troppo intelligente per farsi ammazzare da quelli come te.» Intuii che diceva il vero, e il mio cuore si indurì ancora di più contro questo "re" di Cornovaglia. Quando risposi, la mia voce era bassa quanto la sua. «Non c'è nulla di più repellente di un comandante vile che si nasconde al sicuro mentre altri combattono per lui. E questo è il vostro sire? Il padrone che dovete accontentare riportandogli a casa i suoi viscidi assassini?» «Sì, Caio Merlino.» Gli era tornato quel sorriso odioso. «Così avviene per i servitori di re e di principi.» Il cuore mi balzò in petto, ma sputai a terra e feci per allontanarmi, nauseato, prima di sostare come per un'idea improvvisa. Mi girai lentamente, lo scrutai e vidi nei suoi occhi uno sfarfallio che mi disse che la sua mente lavorava nella frenesia di anticipare i miei pensieri. «Che cosa sai dell'Ibernia?» «Ibernia?» Caspar non mutò espressione, ma non poté controllare il cenno del capo di Memnone. «Niente. Che cosa significa?» Voltò appena la testa e indirizzò uno sguardo ditale gelida perfidia al suo socio che non mi sarei stupito di vederlo cadere morto all'istante. Poi riportò su di me i freddi occhi di lucertola. «Che cosa c'entra l'Ibernia?» «Un principe dell'Ibernia» dissi. «Hai parlato di re e di principi. Io ne ho uno in cella.» «Un principe dell'Ibernia? Perché dovrebbe interessarmi?» Gli lasciai analizzare la mia espressione, e finsi di meditare le parole successive. «L'abbiamo preso prigioniero più di due settimane fa. Era sbarcato con un esercito su a nord, proprio mentre venivamo attaccati da sud-ovest... L'incidente che vi ha condotti qui. Mi sorge il dubbio ora che il vostro nobile padrone potrebbe avere messo mano in entrambi gli eventi, poiché il tradimento e la doppiezza sembrano essere gli attrezzi del suo mestiere.» Avevo tutta la sua attenzione. Gli diedi il tempo di riflettere. «Come sai che il prigioniero è un principe?» «É un principe. Porta il torchio d'oro. Lo teniamo in ostaggio affinché la sua gente si comporti bene.» «Come si chiama, questo principe?» «Donuil, figlio di Athol.» «Dove lo tieni?» Sollevai un sopracciglio, come se quello scambio di battute mi divertisse. «In catene, in una cella, nell'edificio adiacente a quello in cui tenevo voi e avrei dovuto uccidervi.» «É stato torturato?» Mi permisi una piccola smorfia di sbigottimento. «Perché mai dovrebbe interessarti, se l'Ibernia non c'entra?» «Ho mentito.» I suoi occhi perforavano i miei. «É stato torturato?» Fu il mio turno di sogghignare. «No, non è stato torturato. É prigioniero mio, non tuo. Lo tratteniamo, e tanto basta. Non abbiamo bisogno di torturarlo o di maltrattarlo. È un libero celta e le sue catene sono tortura sufficiente.» Caspar si leccò le labbra; malgrado tutto il suo autocontrollo, sfoggiava un'espressione da mercante che annusi un buon affare. «Quanto vale per te?» «Meno di quanto potrebbe valere per te, suppongo,» Non mi sforzai di celare il mio disprezzo. «Adesso che l'esercito del tuo re è stato distrutto e sta correndo a casa con la coda tra le gambe, per me non vale niente. Abbiamo sconfitto prima l'esercito di suo padre e poi il vostro. Qualsiasi valore potesse avere per me, ora non l'ha più. Ma forse potrebbe avere un valore per voi, se lo consegnate a Lot. Datemi mia zia e potete avere lui.» «Ah!» Quell'esclamazione denotava tutto il suo spregio. «Mi credi pazzo? No, Caio Merlino, non in cambio di tua zia, perché allora saresti libero - e felice - di ammazzarci tutti. Ma puoi avere tutti gli altri ostaggi se ci consegni lui,» Lo guardai, scuotendo la testa con scherno. «Non hai ancora capito come stanno le cose, vero?» dissi. «Non ti entra in quel cervello da rettile che a me importa solo della donna? Gli altri, tutti quanti, per me non significano niente. Se avessi preso solo loro adesso saresti morto, e loro con te. Contrapposti alla vita di mio padre, non significano niente.» Mi credette implicitamente, perché davo voce a pensieri nei quali si poteva identificare. Si mordicchiò l'interno della guancia, valutando, decidendo. «Benissimo» disse con accenti brevi e tronchi. «Puoi avere i miei dodici uomini. In cambio dello scoto.» «Ho detto che era uno scoto? Ho detto solo che era dell'Ibernia. Naturalmente hai ragione: è uno scoto. Ma mi chiedo perché lo desideri così intensamente. Vale forse tanto per il tuo purulento re? Mi dispiacerebbe pensarlo, ma in fondo non mi importa.» Esitai per l'ombra di un respiro. «I tuoi assassini, e gli altri ostaggi, e puoi avere lo scoto. Rimanete voi due, lui, e mia zia. Possiamo organizzare la sua liberazione alle condizioni che preferisci. Sono certo che la tua mente contorta troverà qualcosa di abbastanza subdolo per gabbare i tuoi uomini e assicurarvi la salvezza. Vattene e pensaci sopra. Quando sarai pronto a discuterne, apri la porta e vieni fuori. Uno dei miei uomini verrà a cercarmi.» Mi voltai e mi allontanai da loro, tenendo alta la testa finché non fui fuori dalla loro vista. Poi mi appoggiai al muro più vicino e vomitai il mio odio e il mio disgusto. XXIII. Trascorsi l'ora successiva a girare per il forte, cercando di stabilire l'entità dei danni e organizzando il trasferimento dei coloni per poter ripulire quella catastrofe e rendere di nuovo vivibile il forte. Avrei potuto mangiare, ma non sarei riuscito a tollerare il cibo. Ero in preda a non so quale forza che mi teneva in condizioni di funzionare e di pensare chiaramente a qualunque problema sottoposto alla mia attenzione, ma nelle orecchie e nella testa avevo un ronzio costante e lontano che mi impediva di accorgermi di ciò che mi accadeva intorno; ero in grado di concentrarmi solo su questioni singole, una alla volta, senza distrarmi. Chiamai Popilio e mi diressi con lui all'ingresso principale del forte, dove ci fermammo in silenzio a contemplare la pianura, sulla quale regnavano confusione e devastazione. Proprio sotto di noi, come il modellino incompleto di un fanciullo, giaceva l'accampamento fortificato che Popilio e i suoi uomini stavano costruendo al momento dell'attacco. Alla nostra destra, verso sud, le macerie del campo di Lot erano sparse per tutta la campagna. Il resto della pianura, in lungo e in largo, era disseminato di corpi, uomini e cavalli come pupazzi gettati con noncuranza in ogni posizione di morte e abbandono. Alla nostra sinistra, oltre il fianco della collina, il fumo si levava ancora cupamente dalla villa. Il vento era calato. La voce di Popilio irruppe nei miei pensieri. «Bisognerà dare una ripulita. Ci vorrà tempo.» «Già, ma tempo ne abbiamo. Quanti prigionieri abbiamo preso?» Si strinse nelle spalle. «Trecento circa, secondo l'ultima conta, ma quando i nostri uomini rientreranno potrebbero essercene altri. Di Uther non si sa ancora niente, ma dubito che si porterà appresso dei prigionieri.» «No, Uther è abbastanza in collera da dare loro la caccia fino in Cornovaglia, e non tornerà prima di avere esaurito la sua ira. Combatterà, lungo tutta la strada, finché non ci sarà più nessuno da affrontare. Ma prigionieri? Ne dubito anch'io. Potrebbe stare via per giorni, e non avrà né il tempo né gli uomini da sprecare per la cura dei prigionieri. Quali sono state le nostre perdite?» «Non pesanti quanto mi aspettavo.» Smise di parlare e allentò la cinghia del pesante elmo, se lo tolse e con l'incavo del gomito si asciugò il sudore dalla fronte. «La tua cavalleria è arrivata al momento giusto. La conta non è ancora completa, ma so di trecento soldati di fanteria morti, e milleseicento feriti, di cui duecento gravemente.» «Sono cifre grosse, Popilio.» «Sì, ma più piccole di quanto avrebbero potuto essere se tu non avessi indovinato i piani di Lot.» «Ho indovinato male.» «Solo per un giorno, comandante. Se non avessi indovinato affatto, saremmo stati presi completamente di sorpresa, e massacrati.» «Sì, Popilio, forse.» Sospirai e indicai con un cenno il suo accampamento fortificato. «Quella è stata una buona idea. Complimenti per la velocità delle tue reazioni.» Scosse bruscamente la testa. «È stata un'idea di tuo padre, non mia. Speravamo di portare tutti i coloni dentro le mura, e di piazzare laggiù una guarnigione per ostacolare Lot, sostenuta da qui.» «Possiamo sempre usarla» gli dissi. «Dividi i tuoi uomini in due: metà per raddoppiare le dimensioni del campo e portarlo a termine, l'altra metà per iniziare a radunare i morti per la sepoltura. Metti al lavoro i prigionieri: che scavino delle fosse, fosse larghe e profonde, e che non smettano finche non hanno finito. Le carogne di Lot le interreremo là, sulla destra, dove si erano accampati. I nostri morti riposeranno a sinistra, verso la villa. Bada che siano sepolti bene, Popilio. Il puzzo degli amici in putrefazione è nauseabondo quanto quello dei nemici. Quando avremo provveduto e il campo sarà in fase di ingrandimento, faremo uscire tutti dal forte. Per un periodo vivremo tutti là in pianura. L'interno del forte dovrà essere sventrato, pulito e ricostruito. Voglio che ogni traccia del fuoco, ogni scheggia di legno carbonizzato, il minimo odore scompaiano, sottoterra o altrove. Porteremo fuori le macerie attraverso il piccolo cancello posteriore, e bruceremo tutto il possibile sulla vetta della collina. E a proposito, dobbiamo essere certi di non venire mai più sorpresi da dietro in quel modo. Qualche suggerimento?» «Sì.» Popilio annuì con la testa grigia. «Uno.» «Ebbene?» «Allestiamo un campo permanente, dietro le mura in cima alla collina.» Lo guardai. «Giusto! Fallo. In futuro, estenderemo le mura del forte a coprire tutta la sommità della collina.» Mi voltai a osservare il forte, cercando con gli occhi nemmeno io sapevo che cosa. «Ora» mi chiesi ad alta voce, «ho dimenticato qualcosa? Sì, la ricostruzione.» Tornai a Popilio. «Ogni muratore, ogni falegname, ogni artigiano dovrà lavorare a tempo pieno al forte, finché non sarà finito. Tutta la manodopera verrà fornita dai prigionieri. Nutrili adeguatamente. Mantienili in salute, e abbastanza in forze perché possano lavorare sodo e a lungo, ma uccidi chiunque mostri anche solo un segno di riluttanza. Hanno provocato loro questa carneficina; adesso ripareranno.» «E dopo?» «Dopo che cosa?» «Quando il lavoro sarà finito. Che cosa succederà?» «Allora lavoreranno nei campi, al posto degli uomini che hanno ucciso.» «Tutti quanti?» «Tutti quelli che saranno ancora vivi.» «Ma dove li terremo, Caio?» Scrollai le spalle. «Che si costruiscano un campo di prigionia sulla collina dietro al forte, nello spazio normalmente riservato alle stalle. Si mettano in gabbia da soli.» Riportai lo sguardo sulla pianura più in basso. «Raduna i corpi di tutti gli ufficiali in un unico punto, Popilio. Li seppelliremo in un'unica tomba, là, in mezzo al campus.» Tossì, per schiarirsi la voce. «Anche tuo padre, comandante?» «No, Popilio. Mio padre verrà seppellito qui al forte, accanto a suo padre e a Publio Varro.» «Sì, Imperatore!» Mi salutò con il titolo formale di Comandante imperiale. «Non chiamarmi così, Popilio. É un titolo romano, straniero ormai, e qui a Camulod non ne abbiamo bisogno. Ti viene in mente qualcosa che ho trascurato?» Si raschiò la gola e rispose: «Sì, te stesso, comandante Merlino. Gli incendi sono sotto controllo e quasi tutti spenti, e la situazione non ci sfuggirà di mano. Penserò io a dare gli altri ordini, e quando la nostra gente farà ritorno le cose ridiventeranno più o meno normali, per quanto sarà possibile. Devi ancora trattare con quei bastardi nella casa di tuo zio. Il tuo alloggio è intatto, inviolato. Ti sentirai meglio dopo esserti lavato e cambiato d'abito». Stavo ancora osservando la scena sottostante, le figurine dei soldati che si muovevano per l'accampamento, contando i morti, identificando i caduti, cercando i feriti. Feci un cenno di assenso. «Ciò che dici è sensato, Popilio, e probabilmente è vero.» La mia voce, spenta e lontana, mi rimbombava in testa. «Seguirò il tuo consiglio. Se mi cercano, dì loro dove mi trovo.» Lo lasciai e mi diressi al mio alloggio. Lungo il cammino incontrai Ludo che veniva dalle cucine. Mi guardò con sollecitudine e mi chiese quando avessi mangiato l'ultima volta. Scossi la testa e lo congedai senza una risposta, concentrato nel tentativo di raggiungere il mio alloggio prima di crollare. C'era un soldato di guardia fuori dalla porta, e accettai con gratitudine la sua assistenza; tolsi gli indumenti sporchi e lavai via il sudiciume della battaglia. Quando mi fui asciugato ed ebbi indossato abiti puliti, Ludo tornò alla carica con una ciotola enorme piena di brodo di carne e di verdure, «pronto da bere» mi disse, e insistette per rimanere mentre lo bevevo. Era delizioso e rinvigorente, e mi fece sentire un uomo nuovo. Li ringraziai entrambi per la loro premura e andai a cercare Popilio. Lo trovai in mezzo alla corte principale, che sovrintendeva ai lavori di pulizia. Tutti i fuochi erano ormai estinti e restava solo qualche filo di fumo, ma tutto il forte puzzava come un ossario. Ma prima che potessi rivolgergli la parola arrivò un messaggero, a dirmi che Caspar e Memnone erano usciti per parlare ancora con me. Feci solo in tempo ad apprendere da Popilio che la nostra cavalleria non era sulla via del ritorno, e che il numero delle nostre vittime era salito a più di settecento. Stavo già per andarmene, quando notai le rovine della Sala del Consiglio. Non rimaneva altro che le pareti, e quella vista mi fece venire un'idea. «Tegole, Popilio» dissi. «Comandante?» «Tegole, tegole d'argilla per coprire il tetto, come alla villa. In futuro le useremo per tutti i nostri tetti. Niente più paglia all'interno del forte. Puoi pensarci tu?» «Sì, comandante.» Le due grottesche creature, Caspar e Memnone, erano in piedi davanti alla porta della casa di mio zio, e aspettavano il mio ritorno. Mi bastò vederli per sentirmi rivoltare lo stomaco. Mentre mi avvicinavo li vidi raddrizzarsi e osservarmi dalla testa ai piedi, e fui contento di essermi lavato e cambiato. Il sogghigno torceva di nuovo la bocca di Caspar. «Comandante Britannico. Siamo onorati che tu ti sia sentito in obbligo di metterti in ghingheri per noi.» Tagliai subito corto. «Chiudi quella boccaccia sconcia per qualsiasi cosa non riguardi il nostro accordo» gli dissi seccamente. «Non ho né tempo né pazienza da perdere con voi. Alla fine di questa conversazione vivrete o morrete. Non ci saranno altre chiacchiere.» Sorrise, ma la sua voce scese di tono. «Vivremo tutti. Tranne, naturalmente, i nostri dodici sfortunati compagni che tu hai giurato di uccidere. Memnone e io ci abbiamo pensato, come tu hai suggerito, e crediamo di avere trovato una soluzione per la quale le nostre vite non dipendano esclusivamente dalla tua personale benevolenza.» Tacque, e attese una mia risposta. «Prosegui, ti ascolto.» «Allora, abbiamo due problemi. Il primo è costituito dai nostri compagni, quegli stessi dodici uomini. Memnone e io non crediamo che abbiano fiducia nella nostra capacità di disporre delle loro vite e del loro benessere. Se avessero continuato a ignorare l'importanza di tua zia per te, il nostro compito sarebbe stato molto più semplice. Ma tu l'hai portata alla loro attenzione, e non puoi aspettarti che riusciamo a persuaderli a lasciarla alle nostre particolari cure. In essa vedono ora la salvezza.» «Qual è il secondo problema?» «Ah, sì, il secondo problema. Riguarda la liberazione di tua zia. e la nostra partenza dalle tue terre senza impedimenti. Crediamo di poterlo risolvere con soddisfazione di tutti. Il primo è molto più impellente.» «Quanti ostaggi avete?» La domanda mi bruciava sulla lingua da ore. «Undici, più tua zia. Nove donne, due uomini... tutti servitori.» «È stato fatto loro del male?» Fece una smorfia, a indicare mancanza sia di conoscenza sia di interesse. «Gli uomini sono stati sottomessi; le donne, usate. In guerra succede.» Non dissi nulla. Non ero sorpreso e nemmeno preoccupato. Conoscevo le servette di mia zia. Sarebbero sopravvissute all'umiliazione dell'abuso sessuale, un'esperienza spiacevole ma in seguito alla quale non sarebbero sicuramente morte. Pensavo intensamente a come separare i dodici uomini dagli altri, e più ci pensavo più il problema mi sembrava non avere soluzione. Era inconcepibile che quegli uomini fossero tanto sciocchi da separarsi volontariamente da zia Luceia, della quale ormai conoscevano il valore. Mi sentii crescere dentro la rabbia e l'angoscia, e mi maledissi per non avere capito che era inutile cercare di patteggiare una via di uscita da quella situazione. Non esistevano soluzioni possibili. Avrei dovuto liberarli tutti, e fare assegnamento su Caspar e Memnone per la salvezza di zia Luceia. Quel pensiero mi dava la nausea. Ma il mio frustrato silenzio mi recò un sollievo inaspettato. Caspar mi propose l'unica soluzione possibile. «Quanto ardentemente vuoi questi miei uomini? Vivi, cioè.» «Spiegati» risposi, cercando di rimanere impassibile nonostante il subitaneo interesse. «Che cosa intendi dire?» «Esattamente ciò che ho detto» replicò. «Se li vuoi vivi, non li avrai mai. Morti...» Dimenò fastidiosamente le dita. «Potrebbe essere... conseguibile.» «Come? I miei uomini abbastanza da sorprenderli.» non potrebbero mai avvicinarsi «No, ma Memnone e io sì.» «Dodici uomini?» La mia voce era gravida di disprezzo. «Dodici uomini che per primi non si fidano di voi?» Sulla fronte di Caspar apparve brevemente una piccola ruga. «Volevo solo dire che non si fiderebbero a lasciarci trattare con te per la loro vita» si affrettò a correggermi. «Non sono così depravati da pensare che potremmo ucciderli personalmente. Sono uomini semplici, comandante.» La seraficità della sua voce mi fece accapponare la pelle. Inghiottii la saliva e cercai di non mostrare tutto il disgusto che provavo. «Come potete farlo, fisicamente? Com'è possibile?» Caspar sorrise. «Questi sono affari nostri, e puoi tranquillamente lasciarli a noi. L'accordo era che ci avresti consegnato il principe in cambio dei dodici uomini e degli altri ostaggi, esatto?» Feci un cenno di assenso. «Bene, allora, io devo solo tornare dentro e dire che sospetto che tu stia cercando di sventare i nostri piani, e proporre di dividere gli ostaggi, uno per ciascun uomo, a eccezione di Memnone e di me. La custodia di tua zia può capitare a uno qualunque, a caso. Poi li metteremo in stanze separate, per sicurezza strategica. Mi crederanno, e ubbidiranno, perché uno di loro avrà la vecchia. Quando saranno... separati, Memnone e io li elimineremo, uno o due alla volta... con efficienza.» Rabbrividii mio malgrado e per mascherare i brividi scrollai rabbiosamente le spalle. «No» esplosi, «non ve lo permetto. È troppo pericoloso. Mia zia potrebbe restare uccisa.» «Non le verrà fatto nessun male, credimi. Memnone e io abbiamo a nostra disposizione dei mezzi per la silenziosa somministrazione della morte... mezzi che tu non puoi nemmeno immaginare... Ci serve solo un po' di tempo. Quando avremo finito, apriremo le porte e butteremo fuori i corpi, e tu potrai contarli. Poi ci consegnerai il tuo prigioniero, e noi libereremo gli ostaggi.» «No! Prima gli ostaggi, e poi lo scoto.» «Comandante!» Caspar sembrava sinceramente addolorato. «Devi concederci un po' di fiducia. Lo scoto è il nostro lasciapassare per tornare in patria da Lot. Gli altri ostaggi significano poco o nulla per te, così hai detto. Avremo sempre la vecchia. Che differenza può fare?» Mi morsi un labbro, ma su quel punto ero disposto a cedere. «Probabilmente nessuna» ammisi finalmente. «D'accordo. Faremo così. Quanto tempo vi ci vorrà per sbarazzarvi dei dodici uomini?» «Due ore, forse di più. Dovremo agire con prudenza.» «Sì, ti credo. Così sia. Fate il vostro lavoro. Non desidero sapere come, né adesso né mai.» Lo guardai allontanarsi, e intanto ripetevo tra me le parole di Donuil: «Quegli uomini sono mercanti di morte». Nausea e debolezza mi sommersero e rimasi lì, stringendo i denti finché il malessere non fu passato, e poi feci cenno al centurione che era rimasto dietro di me, fuori portata d'orecchio, a osservare lo svolgersi delle trattative. Venne subito al mio fianco, e gli indicai gli arcieri di Uther ancora di guardia in semicerchio intorno alla corte. «Centurione, voglio che tu dia il cambio agli arcieri. Sono di guardia da ore. Sostituiscili con i nostri soldati. Devono stare sul chi vive, ma non fare nessun movimento verso la casa. Informami immediatamente se dall'interno provengono dei rumori. Se il silenzio perdura, le porte dovrebbero riaprirsi entro poche ore. Quando succede, manda un messaggero a cercarmi. È chiaro?» «Sì, comandante.» Ripeté pedissequamente i miei ordini e lo lasciai a eseguirli. Dal cielo pomeridiano, diventato plumbeo senza che me accorgessi, cadevano le prime gocce di pioggia. Le nubi erano dense e ininterrotte. La pioggia sarebbe stata una parziale benedizione. Avrebbe fatto posare la cenere volatile e spento le braci ancora accese nel forte, ma avrebbe complicato la vita agli addetti alle sepolture, e ai soldati al lavoro per ingrandire l'accampamento sulla pianura. Feci un altro giro per Camulod, e vidi molte più cose rispetto al mio precedente vagabondare. I danni non erano estesi come avevo temuto, ma erano comunque gravi. La Sala del Consiglio era completamente distrutta, e così la maggior parte delle stalle. I magazzini erano per lo più intatti, e così i bagni, le cucine e la grande sala da pranzo. Sapevo già che gli alloggi degli ufficiali e l'infermeria erano sfuggiti alla devastazione, e le camerate sembravano illese, ma l'intera sezione di edifici contro il muro settentrionale - caserme, concerie, e botteghe di bottai - era stata sventrata. Sempre a nord, l'ampia costruzione che ospitava i centurioni di cavalleria era stata malamente danneggiata. Il complesso di edifici nella zona centrale del forte era bruciato in parte e in parte era rimasto intatto, ma i danni non avevano ordine apparente. La baracca e il deposito del vasaio non erano stati toccati, e neppure le due fucine principali, ma la bottega , del carradore tra le due fucine era sparita, e l'emporio del birraio dietro al deposito del vasaio era stato raso al suolo. Scorsi Popilio vicino al cancello principale e lo raggiunsi, e in quel momento si aprirono i cieli. Il rumore della pioggia torrenziale contro l'elmo era assordante, e dovemmo gridare uno nell'orecchio dell'altro per riuscire a intenderci. Aveva il rapporto finale sulle vittime, adesso che l'esercito di Lot era stato definitivamente messo in fuga. In tutto, avevamo avuto quasi novecento morti. Duecentotrentanove erano coloni e non belligeranti: vecchi, donne e bambini. Altri centonovantadue appartenevano alla cavalleria, e il resto, circa quattrocentosessanta uomini, alla fanteria. In aggiunta a queste perdite, un centinaio di feriti gravi probabilmente non sarebbero sopravvissuti, e sul campo sottostante c'erano più di trecento cavalli morti. Allora mi venne in mente che non avevo dato istruzioni per la sepoltura dei cavalli, ma Popilio aveva già provveduto alla mia svista, e squadre di uomini li stavano già portando via. Quelle cifre erano spaventose. Novecento morti e altri cento destinati a morire! Aggiunti alle altre perdite che avevamo sostenuto nel corso delle precedenti settimane, costituivano un gravissimo impoverimento delle nostre forze complessive. Feci rapidamente le somme: più di millecinquecento uomini in tutto; quasi un terzo delle nostre forze militari in un mese! Popilio mi stava ancora urlando nell'orecchio le cifre delle perdite nemiche ma, a parte il numero, non avevo colto il senso delle sue parole. Lo interruppi e gli chiesi di ripetere la cifra totale delle perdite di Lot. Quasi quattromila. Bene, ma non abbastanza. Improvvisamente, così com'era iniziato, l'acquazzone finì, e fu come se si fosse dispersa la nebbia. Ero rivolto verso il cancello d'ingresso, e da lunghi istanti ormai non vedevo nulla attraverso la pioggia scrosciante; a un tratto mi ritrovai, a bocca aperta, a fissare con quasi superstizioso sgomento l'apparizione che mi stava davanti sulla soglia del forte: due figure sparute, tetre, devastate, ritte grazie all'aiuto dei bastoni, veri e propri araldi di morte. Poi riconobbi il più alto, il capo dei preti zeloti che mio padre aveva bandito mesi prima dalle nostre terre. Mentre lo guardavo, ancora incapace di muovermi o di pronunciare parola, il prete girò lo sguardo per la corte disseminata di macerie e levò alto il bastone nella mano adunca, puntandolo al cielo. Il suo grido mi offese l'udito come lo stridore di un cardine arrugginito. «Il caos è il giudizio di Dio che si impone sugli empi!» La forza della sua voce fermò ogni uomo abbastanza vicino da sentirla. Tutti smisero di fare quello che stavano facendo e si guardarono intorno per cercare l'autore del disturbo, e il prete capì che stavano ascoltando e alzò la voce ancora di più. «Mirate il potere del Signore degli Eserciti e vergognatevi e procedete nel terrore! Coloro che si beffano della Sua parola verranno abbattuti...» Non udii altro, perché mi ero messo a correre, armeggiando con la spada sotto il mantello inzuppato d'acqua. I miei piedi erano di piombo, e mi pareva di correre nell'erba alta e bagnata che mi ostacolava e mi tratteneva, rallentando i miei passi nell'arrancare affannoso dei sogni. Il compagno del prete mi vide arrivare e cercò di mettersi in mezzo, con gli occhi spalancati per lo stupore e la paura, ma lo sollevai come se fosse un bambino senza peso e lo gettai da parte, e chiusi le mani intorno alla gola ossuta dello zelota che ancora strillava. Lo spinsi all'indietro, con violenza, contro il muro di fianco al cancello, e ancora urlava e sputava, e il suo pomo d'Adamo mi sussultava sotto i pollici. Lo colpii duramente all'inguine con il ginocchio destro e lo scagliai a terra e lì giacque, con le natiche per aria, una mano stretta intorno ai testicoli, il collo teso, grigio sporco e invitante come il collo di un'anatra sul ceppo. La spada mi venne spontaneamente alla mano e la roteai in alto e la abbassai con un sibilo, e una spallata nelle costole mi precipitò nell'oscurità dell'incoscienza. XXIV. Mi svegliai al rumore di una porta che si apriva, e sentii Popilio dire: «Come sta?». Un'altra voce, quella del medico Lucano, rispose: «Dorme ancora». «Starà bene quando si sveglierà?» «Credo di sì. Era esausto. Non è stato facile per lui accettare la morte di suo padre.» «E nemmeno quel bastardo di un prete. Avrei dovuto lasciare che Merlino lo uccidesse.» «No, Popilio, hai fatto la cosa giusta. Quando si sveglierà ti ringrazierà.» «Ah! Pensi davvero? Io ne dubito. Pochi uomini si sentono dire grazie dal loro comandante per averlo atterrato, specialmente quando l'hanno messo fuori combattimento davanti alle truppe.» «Sciocchezze, questo era un caso particolare. Il comandante Merlino non era in sé.» «Sì, forse. Vedremo. Che cos'era quella roba che gli hai fatto bere? Dorme da più di dieci ore.» Sentii Lucano alzarsi in piedi e rispondere: «Una pozione sonnifera. Ne aveva bisogno». Aprii gli occhi. Ero sul letto, nel mio alloggio, e loro erano in piedi vicino al tavolo, e mi guardavano alla luce tremolante di una lampada. Lucano mi parlò prima che potessi muovermi. «Non cercare di muoverti, comandante Merlino. Potresti sentire male.» Sbattei le palpebre e provai a parlare, ma avevo la lingua impastata. Deglutii della saliva collosa, e pensai che non potevo sentire male. Provai ancora. La mia voce era rugginosa, «Perché dovrei sentire male?» «Perché ti ho drogato. Potrebbe farti male la testa. Anche il tuo corpo sarà indolenzito, per tutti i lividi dovuti ai colpi che hai preso ieri, in un modo e nell'altro.» Richiusi gli occhi. «Emorragia interna» dissi. «Hai detto che è l'emorragia interna che produce i lividi, vero?» «Sì, l'ho detto.» Era sorpreso che me ne ricordassi. «Notizie di Uther? È tornato?» «No, non ancora.» Lucano prese una brocca accanto al letto e si allontanò. «Nessuna notizia, ma conosci Uther meglio di me. Non tornerà finché non avrà deciso che inseguire il nemico non porterà più a niente.» Era vero, e lo riconobbi. «Popilio» dissi, «quando mi hai investito perché stavo per uccidere il prete, aspettavo che mi chiamassero dalla casa di mio zio. Che cosa hai fatto?» «Niente, comandante. Non c'è stato bisogno di fare niente. Non ti hanno ancora chiamato. La casa è immersa nel silenzio da quando te ne sei andato. La guardia è cambiata due volte e sta per cambiare di nuovo.» Giacqui immobile, tentando di immaginare che cosa poteva essere accaduto nella casa dov'erano prigionieri gli ostaggi. Rinunciai. «La guardia sta per cambiare? Che ora della notte è?» «L'ultima. Un'ora prima dell'alba.» Deglutii ancora, e Lucano mi portò del vino mischiato con acqua, che alleviò il dolore alla gola. «Perché mi hai impedito di uccidere quel prete, Popilio?» Non rispose subito. «Quel prete è pazzo, comandante. Sarebbe stato un omicidio, e ho pensato che te ne saresti pentito, malgrado la provocazione.» Accettai le sue parole. Ero stato pazzo anch'io, per un poco, là sotto la pioggia. «E hai avuto il tempo di pensare tutto questo?» «Beh, no, comandante. Non ho avuto tempo di pensare, non in parole almeno. Lo sapevo e basta.» Respirai a fondo e sentii che Popilio tratteneva il fiato. «Il tuo istinto era fondato, amico mio» dissi. «Quello che hai fatto era giusto. Mi sarei certamente pentito di averlo ammazzato. Non ne parleremo più, tu e io. Dimentica che sia mai successo, ma accetta i miei ringraziamenti.» Sollevai cautamente la testa senza risentirne troppo e mi misi seduto; poi abbassai piano i piedi sul pavimento. I due uomini mi guardavano con attenzione, senza muoversi. Mi riempii i polmoni d'aria. «Come ti senti?» chiese Lucano. «Qualche fitta qui e là» risposi. «Popilio è un uomo robusto.» «Non è stato solo Popilio. Quando ti hanno portato qui avevi qualche imperiale livido viola.» Sorrisi, distendendo con esitazione le membra. «Sì» dissi, rammentando la battaglia sulla pianura. «Ho fatto qualche bel ruzzolone, ieri. Voi due siete stati svegli tutta la notte?» Lucano sorrise suo malgrado. «No, comandante. Abbiamo dormito un poco, anche se non quanto te.» «Bene.» Provai a muovere l'articolazione di una spalla. «Mi farei un bagno di vapore. I bagni non sono bruciati. Funzionano ancora?» «Sì, comandante.» Anche Popilio sorrideva, contento che non gli portassi rancore. «Allora farò un tentativo, se i forni sono caldi. Se mi chiamano, mi troverai là. E il prete dov'è, adesso?» «Lontano, comandante. L'ho legato schiena contro schiena al suo compagno, li ho buttati su un carro e li ho fatti scortare fuori dalla Colonia.» «Eccellente! Hai una spiccata predisposizione per fare esattamente la cosa giusta di tua iniziativa, Popilio. Un giorno ti metterai in un grosso guaio. Dove sono i miei vestiti?» Con estrema lentezza e cautela mi avvolsi in pesanti teli di lana, cercando invano di muovermi senza sentire dolore, e nell'oscurità mi diressi ai bagni, dove trascorsi un'ora beatifica nel vapore e nell'acqua calda, galleggiando nel buio come un bimbo nel grembo materno, e meditando. Era quasi giorno pieno quando mi incamminai di nuovo verso la casa di zio Varro, e ci arrivai in tempo per fermare il soldato che stava venendo a cercarmi. Mi presentai al centurione responsabile della guardia, che senza parlare indicò le porte aperte. «Quando è successo?» «Pochi minuti fa, comandante. Un istante prima erano chiuse, e subito dopo erano aperte.» «Hai visto nessuno? Sentito niente?» «No, signore, niente di niente, ho solo visto le porte aperte.» «Capisco. Beh, aspetteremo.» Non appena pronunciai quelle parole vidi un movimento nell'ombra dietro la porta aperta, e il corpo di un uomo cadde nella corte. Il centurione si irrigidì e fece per reagire, ma lo presi per il braccio. «Calma, centurione. Me lo aspettavo. Dovrebbero essercene altri.» Infatti. Altri undici corpi vennero buttati in un mucchio. Avanzai fino alla porta. All'interno non si scorgeva più alcun movimento. «Caspar! Mi ascolti?» «Ti ascolto.» «Manderò un centurione a prendere lo scoto. Nel frattempo farò avvicinare i miei uomini a due a due per portare via i corpi. Poi prenderemo gli accordi definitivi per la liberazione di mia zia. Quando ti avrò consegnato lo scoto, libererai immediatamente tutti gli altri ostaggi.» «Come desideri.» Chiamai il centurione della guardia e gli comunicai le necessarie istruzioni. Mi fece il saluto e si allontanò, e io mi voltai per seguirlo. La voce di Caspar mi fermò. «Merlino!» Mi girai verso di lui. «Sei famoso per i tuoi trucchi» disse in tono di avvertimento. «Anche per la tua onestà, ma a quella non desidero espormi più del dovuto. Da ora in poi parleremo attraverso questa porta chiusa.» «Perché, Caspar? Temi per la tua incolumità mentre mia zia è ancora nelle tue mani?» «No, ma temo le tue astuzie. Preferisco essere sicuro piuttosto che morto.» Parlai con voce dura come il ferro. «Caspar, ti garantisco, personalmente, che non ti verrà fatto del male prima che le trattative siano finite.» «Scelgo di non crederti, Caio Merlino.» «Allora così sia. Questa è la tua disgrazia. La tragedia del mentitore è di non poter mai credere a nessuno. Tornerò tra poco. Nasconditi quanto vuoi, ovunque vuoi. Per ora sei al sicuro, ma ti giuro, Caspar, che per l'assassinio di mio padre metterò fine alla tua vita con le mie stesse mani.» Riattraversai la corte, incrociando i primi due soldati diretti a raccogliere un cadavere sulla soglia di casa. Nel tempo che ci volle per togliere da lì i dodici cadaveri, il centurione era tornato con Donuil, incatenato dal giorno prima. Non osai salutarlo, perché sicuramente Caspar e Memnone ci stavano osservando dall'interno buio della casa. Dissi al centurione di togliere le catene al giovane gigante. Un soldato corse subito a prendere mazza e scalpello, e io rimasi lì, ignorando Donuil fino al suo ritorno. Quando gli ebbero levato le catene, estrassi la spada e con essa sospinsi Donuil verso la porta aperta. Donuil recitava bene la sua parte, sembrava sospettoso e confuso e i suoi occhi andavano da me alla casa buia e poi guardavano ancora me. «Vai!» gli dissi con rudezza, e lui andò, malvolentieri e con diffidenza, teso come se volesse fuggire a ogni passo. Sostò per un istante sulla soglia, poi scomparve all'interno. Ben presto cominciarono a uscire gli ostaggi, sbattendo le palpebre alla luce del sole, sempre più forte con il procedere della giornata. Afferrai per il polso la prima ragazza, Eunice, e le chiesi di mia zia. Mi disse che Luceia stava bene, aveva solo una lieve ferita ed era illesa. Quando gli ostaggi mi furono sfilati davanti, quasi tutti in lacrime, mi ravvicinai alla porta. «Adesso possiamo concludere questa faccenda» gridai nel vuoto dietro la porta. «Siete tre uomini, protetti dalle vostre minacce contro la donna che tenete prigioniera. Ditemi che cosa volete, alla svelta. Vi voglio lontani dalla mia vista e dal mio odorato.» Caspar apparve sulla soglia e mi fissò con il suo solito sogghigno. «Vogliamo andarcene da qui sani e salvi e in fretta. É tutto. In quanto a questo, siamo quasi d'accordo. Non desideri sapere come sono morti quei dodici uomini?» La vanità di quella domanda mi sorprese. «Nient'affatto» risposi. «Sono stupito, ma te lo dirò comunque. Vedi questa?» Mi mostrò qualcosa che teneva tra il pollice e l'indice. Socchiusi gli occhi, ma la distanza era troppa e non vidi nulla. Il suo sorriso si allargò. «Piccola, vero? È una spina, Merlino, una comunissima spina intinta in un veleno distillato da molti serpenti. Può uccidere un uomo forte in pochi istanti, se ben collocata. Memnone e io siamo degli esperti. Ognuno dei dodici uomini è stato punto da una di queste.» Non dissi nulla e continuò: «Tua zia ha parecchie spine come questa tra gli abiti. Non sa nemmeno di averle. Un solo graffio la ucciderebbe, in modo molto spiacevole. Un colpo bene assestato da Memnone o da me le conficcherebbe almeno una spina nella carne. Un abbraccio di qualsiasi genere, per esempio da parte di un soccorritore che cercasse di sottrarla al pericolo, provocherebbe quasi sicuramente la sua morte. Sto dicendo, Caio Merlino, che se hai in mente di sbarazzarti di noi in modo drastico e definitivo, devi prima essere certo che siamo ben lontani dalla vecchia, e che non le cadiamo accidentalmente addosso.» Il tono calmo e spassionato della sua voce mi fece digrignare i denti, e chiudere gli occhi per celare la rabbia. Quando li riaprii, vidi Donuil con le mani alzate chiuse in un doppio pugno, proprio dietro a Caspar. Le reazioni dell'egiziano furono veloci come un lampo. Nello stesso istante in cui scorse nei miei occhi l'espressione di stupore che non seppi nascondere, si mise in movimento. Ma era troppo tardi, il colpo di Donuil gli si abbatté in mezzo alle spalle, e lo fece cadere verso di me. Io gli andai incontro, vedendo che apriva le dita per attutire la caduta, e gli sferrai un calcio sotto la gabbia toracica, togliendogli il respiro in un'esplosione di agonia. Chiuse le braccia intorno alle mie gambe per trascinarmi a terra, ma non c'era forza in lui e lo evitai facilmente, e balzai verso la porta e verso Donuil. «Dov'è Memnone?» «Laggiù, vicino alla parete.» Indicò la forma rannicchiata dell'altro mago, aggiungendo la superflua frase: «É morto». «Zia Luceia» chiamai, cercando di condensare nella mia voce tutta l'urgenza del mondo, «non muoverti! Resta dove sei! Resta assolutamente immobile!» Sentivo i passi dei soldati che si avvicinavano di corsa, e nella penombra vedevo mia zia, in piedi contro il muro alla mia destra. Aveva le braccia legate e non si muoveva. «Caio» disse, «non potrei muovermi nemmeno se volessi.» «Grazie a Dio!» Mi fermai davanti a lei. «Zietta, ci sono delle spine nei tuoi abiti, spine intinte nel veleno. Basta un graffio per ucciderti, perciò non cercare di muoverti finché non avrò chiamato una delle tue donne che ti aiuti a spogliarti.» Scosse la testa in un conciso dissenso. «Non essere sciocco, Cai, non ci sono spine. Quello più brutto me le stava infilando tra gli abiti quando quel giovane gigante l'ha ucciso.» Mi girai verso Donuil, in piedi accanto a me. «É vero?» «Sì. Mi avevi detto tu di proteggerla se la vedevo minacciata.» «Già.» Provavo un immenso sollievo. «Te l'avevo detto io. Sono felice che te ne sia ricordato. Non te ne pentirai.» Sfoderai la spada e liberai mia zia dai legami. Sembrava assolutamente imperturbata dall'intera situazione. «Grazie, nipote» disse. «Questa gente ha trasformato la mia casa in un porcile. Ti prego di rimandarmi a casa in fretta i miei servitori. Hanno del lavoro da fare.» La guardai stupefatto andarsene nella stanza di famiglia sul retro della casa. Donuil sorrideva. «Che cos'hai da sorridere?» «La tua faccia. Hai vissuto così a lungo senza sapere che le donne anziane sono le creature più forti del mondo? E poi, sono un uomo libero, no? Ho tutto il diritto di sorridere.» Sospirai e ricambiai il suo sorriso. «Sì, lo sei, e ti comporti come tale. Ti devo molto più della libertà, Donuil.» «Ne sono contento.» «Di che cosa?» «Del fatto che mi devi molto più della libertà.» «Come? Perché mai?» Rideva quasi. «Perché posso esigere il pagamento del mio debito. Voglio rimanere qui a Camulod ed essere il tuo aiutante, come avevamo discusso. Adesso che sei in debito con me, non puoi rifiutare.» Ero perplesso. «Desideri rimanere qui? Di tua spontanea volontà?» «Sì, e puoi approfittare di me, anche. La tua Colonia ha perso molti uomini in gamba, di recente.» «Bene» dissi. «Splendido! D'accordo. Discuteremo in seguito i termini del tuo servizio, quando ci sarà più tempo per queste cose. Adesso abbiamo uno stregone a cui pensare.» Mi guardai intorno. «Dov'era Memnone quando l'hai ucciso?» Donuil indicò alla mia destra. «Laggiù, vicino al muro; era in piedi proprio alle spalle di tua zia.» «Che cosa ne è stato delle spine?» Il grosso celta si strinse nelle spalle. «Non lo so, non ho visto nessuna spina, ma non ne stavo cercando. Pensavo che le avrebbe fatto del male con quelle mani lerce. Se aveva le spine, probabilmente le ha lasciate cadere proprio lì.» Mi piegai e ispezionai il pavimento, e trovai una striscetta di stoffa ripiegata su se stessa. La raccolsi con prudenza e la aprii, e vidi una fila di spine nere, lunghe circa un pollice, infilate nel tessuto a circa un quarto di pollice una dall'altra. Contai venticinque schegge mortali. Donuil fissava inorridito il contenuto delle mie mani. «Queste sono molte morti» dissi. «Molto pericolo» fu la sua sommessa risposta. «Quelle cose non dovrebbero essere lasciate in giro. Qualcuno potrebbe metterci un piede sopra.» Ripiegai la striscetta di stoffa e la riposi con cautela nella mia sacca. «Le custodirò io» dissi. «Non preoccuparti, Donuil, nessun altro verrà esposto al loro veleno.» Uscimmo insieme nella corte. Caspar era in ginocchio, con le braccia legate a una lancia infilata tra la schiena e l'interno dei gomiti. Quattro soldati lo guardavano a vista. Mi fermai di fronte a lui. Il sogghigno era svanito dalla sua faccia. «Verrai processato pubblicamente, da un tribunale militare, davanti alla Sala del Consiglio, oggi a mezzogiorno» gli dissi. «Non aspettarti pietà. Verrai giustiziato. Ti giustizierò io personalmente.» Mi rivolsi al comandante delle guardie. «Portatelo via e tenetelo stretto. Che nessuno gli si avvicini. Voglio quattro uomini con le lance puntate contro di lui continuamente. E lasciatelo qui nella corte, legato a un palo. Se crea problemi, mettetelo fuori conoscenza, ma non uccidetelo prima di mezzogiorno.» Cinque ore dopo, a mezzogiorno, feci un cenno ai trombettieri, e quando risuonarono gli squilli degli ottoni militari, il silenzio cadde sulla corte affollata. Ad alta voce nel silenzio assoluto, sovrastando Caspar, lessi l'elenco dei suoi crimini. Li accolse bene. La sua faccia non tradiva espressione alcuna. Finii di leggere, mi girai verso gli ufficiali in piedi dietro di me, e poi di nuovo verso la folla, e levai la voce affinché tutti mi udissero. «Per quanto concerne le esecuzioni, la nostra legge è semplice. Quando è stata emessa la condanna non c'è indugio e la morte viene data nel modo stabilito, appena possibile. Certi crimini meritano la morte per impiccagione, altri per decapitazione, altri ancora per crocifissione, anche se questo metodo non viene applicato in Britannia da più di trecento anni.» Feci una pausa per guardare il prigioniero, e continuai. «Ma i crimini di quest'uomo non sono contemplati dalle nostre leggi, perché quest'uomo ha commesso crimini più esecrabili di quelli che i nostri legislatori hanno potuto prevedere.» Tesi la mano a un centurione, che mi porse una freccia. Levai la freccia in alto sopra la testa. «Questa è una freccia avvelenata. Un graffio può dare una morte straziante in pochi minuti. Ma certi uomini possono resistere per trenta minuti prima di morire... Uomini molto forti. Alcuni nostri soldati hanno lottato per trenta minuti contro il veleno. Alcuni sono stati più fortunati e sono morti più in fretta. Quest'uomo, questo... stregone, è l'avvelenatore. Il segreto degli ingredienti del veleno è racchiuso nella sua mente. La mia sentenza è che vi siano cauterizzati e sigillati per sempre.» Mi voltai e mi chinai in avanti, e prima che chiunque potesse indovinare le mie intenzioni strisciai due volte la punta della freccia sulla fronte di Caspar, avanti e indietro, aprendovi due linee che subito iniziarono a sanguinare. Caspar inorridito spalancò gli occhi e urlò. Io mi spezzai la freccia sul ginocchio e la restituii all'uomo che me l'aveva consegnata. «Bruciala. Immediatamente.» Fece il saluto e andò a eseguire il mio ordine, scomparendo in direzione dei forni che alimentavano i bagni. Tutti restammo sotto il chiaro sole di mezzogiorno a guardare Caspar morire, tutti quanti terrificati e nauseati dalla sua lancinante agonia. Quando le sue gambe ebbero cessato la loro frenetica danza e il cadavere divenne immobile, alzai gli occhi verso le guardie. «Seppellitelo nella fossa comune sulla pianura, con il resto della feccia di Lot.» La sua morte non era stata rapida. Mi voltai e lasciai la corte, senza guardare nessuno, e mi diressi all'Armeria sperando che nessuno mi seguisse. Nessuno mi seguì, infatti; entrai e chiusi a chiave le massicce porte di bronzo, e finalmente controllai, in grave ritardo, che Excalibur fosse ancora intatta. Tolsi la portentosa spada dal suo nascondiglio sotto il pavimento e rimasi seduto per ore nella penombra dell'ampia stanza, lottando contro le mie emozioni, sentendo l'inconsistenza della mia forza, lucidando la Spada con lo scialle di seta nel, quale era avvolta e chiedendomi dove avrei potuto nasconderla per essere assolutamente certo che fosse al sicuro, Nella mia vita c'erano quattro grandi tesori, e per nessuno di essi ero stato un buon custode. Il tesoro più grande, la mia adorata Cassandra, forse era al sicuro in Avalon, beatamente ignara del caos che regnava al di fuori del suo minuscolo mondo; non osavo immaginare altrimenti. Il secondo, la spada Excalibur che era la mia sacrosanta promessa, era intatta e in salvo, ma non per merito mio; se l'edificio fosse bruciato, la spada avrebbe potuto andare perduta, essere danneggiata, o addirittura venire trovata e rubata. La mia amministrazione al riguardo era stata immensamente lacunosa. Il terzo era mio padre, Pico Britannico, assassinato nel sonno durante la mia assenza. E il quarto, zia Luceia, era stata quasi uccisa in mia presenza! Con la mente in tumulto, tentando invano di non cedere al panico delle mie paure per Cassandra, ripetendomi freneticamente che non avrei potuto fare nulla di diverso e che sarebbe stata bene fino al mio ritorno, ripensai all'infinito a tutto quello che era accaduto in quei pochi giorni, e alla morte di mio padre, e quando ebbi affrontato quella incontrovertibile verità - la sua morte - vegliai per lui, lì nella stanza dei tesori di zio Varro, per più di due ore, in piedi sull'attenti, reggendo Excalibur e pagando il mio personale, intimo tributo all'uomo che mi aveva generato. Probabilmente sarei rimasto lì tutto il giorno e la notte seguente, se non fossi stato mio malgrado costretto ad agire dall'enorme mole di lavoro che sapevo di dover svolgere. Lo sforzo e la concentrazione richiesti dalla lunga immobilità mi portarono a pensare con sempre maggiore chiarezza alle mie responsabilità e, sebbene con estrema riluttanza, si fece strada in me la consapevolezza di avere poco tempo per me stesso. Infine, con la mente brulicante di questioni che esigevano la mia attenzione, riposi Excalibur nella sua custodia e la rimisi nel nascondiglio sotto le assi del pavimento. In ginocchio, pensai a Cassandra nella sua valle a poche miglia di distanza, e pregai che avesse corso meno pericoli della spada. E giurai a me stesso che, cadesse il mondo, l'avrei stretta tra le braccia prima che il giorno fosse finito. XXV. Non avevo sentito nessuno avvicinarsi lungo il corridoio, ma improvvisamente vidi abbassarsi la maniglia, e qualcuno bussò alla porta. «Comandante Britannico?» Riconobbi subito la voce di Lucano e mi irrigidii, e poi mi dissi che non poteva essere successo niente di grave, altrimenti ci sarebbe stata più confusione. «Sì, sono qui. Che cosa c'è?» Una pausa, e poi: «Posso parlarti, comandante?». A quell'intrusione provai un impeto di rabbia, e lo repressi. «É importante?» chiesi, controllando la mia impazienza. «Credo di sì, comandante.» Mi alzai in piedi e andai alla porta, la sbloccai e aprii i battenti. Il medico era nell'ombra del corridoio, con le mani allacciate dietro la schiena, e il viso cupo e sardonico contratto in un'espressione indecifrabile. Si era lavato e cambiato d'abito dall'ultima volta che l'avevo visto, e indossava una lunga tunica celeste bordata di tessuto verde scuro. «Ebbene, Lucano? Che cosa è tanto importante da doverne discutere adesso?» «Una questione di procedura, comandante. Tua zia, donna. Luceia, mi ha chiesto di accompagnarti nella sua stanza di famiglia.» Per qualche motivo, le sue parole mi contrariarono più della sua interruzione. «Davvero?» scattai. «E da quando tu e mia zia avete qualche cosa da dire sulle questioni di procedura?» Ero consapevolmente rude, ai limiti della scortesia, con un uomo che non me ne aveva dato ragione, ma Lucano non si offese. Si strinse nelle spalle e fece un cenno di acquiescenza. «Ciò che dici è esatto, naturalmente. Tuttavia...» «Sì, tuttavia. Benissimo, verrò con te.» Chiusi i battenti alle mie spalle e lo accompagnai lungo il corridoio fino alle stanze private di mia zia. Entrando nel soggiorno principale mi accorsi subito, come sempre, della sensazione di benessere che mi arrecava quel luogo, malgrado le sofferenze e i dolori che mi affliggevano. Il fuoco bruciava luminoso nel focolare, e le fiamme si specchiavano nelle superfici lucide degli arredi di ottone e di bronzo sparsi per tutta la stanza. Mia zia non c'era. Lucano si fermò accanto al fuoco, e io mi lasciai cadere sulla mia poltrona preferita, la grande sedia imbottita appartenuta a zio Varro. «Bella stanza.» Lucano si guardava attorno con occhi pieni di ammirazione. «Sì» grugnii, «ma ha conosciuto tempi migliori. Dov'è mia zia?» «Non ne ho idea» rispose con un'alzata di spalle, e si diresse al tavolo dove aspettavano vino e coppe di vetro verde. Sollevò la brocca d'argento imperlata di goccioline di condensa e parlando iniziò a mescere. «Forse sta riposando. Mi ci è voluta più di un'ora per trovarti. Non ho pensato che potessi essere qui in casa. Tieni.» Mi porse una coppa di vino. «Non sto usando liberamente dell'ospitalità della signora. Mi ha pregato lei di versarti da bere se non fosse stata qui al tuo arrivo.» «Grazie.» Bevvi un sorso, e poi una lunga sorsata del vino ghiacciato. «Dio, com'è buono!» sussurrai, sentendo nella gola riarsa la deliziosa fitta del gelo. Attesi che passasse, e bevvi un altro sorso prima di aggiungere: «Non avevo idea che fossi in intimità con mia zia, Lucano.» «Non lo sono» rispose, sorridendo, «ma oggi abbiamo parlato a lungo.» «Di questioni di procedura.» L'occhiata che mi rivolse fu sarcastica quanto lo era stato il mio commento. «Sì.» «Di quali particolari procedure avete discusso?» Anche lui bevve prima di rispondere. Posò la coppa e mi guardò dritto in faccia. «Il funerale di tuo padre.» Il dolore si riaccese all'istante. Non avevo più visto mio padre da quando avevo cercato di sollevarlo sul letto. Tossii, inghiottii il groppo che mi si era formato in gola e ripresi il controllo della mia voce, ma non riuscii a sostenere lo sguardo di Lucano. «Dov'è adesso?» «Qui in casa. Gli ho fatto un bagno e gli ho cambiato gli abiti, e giace in tutta la sua dignità nella camera da letto di Publio Varro.» «Come hai fatto? Era rigido. Ho provato a muoverlo, ma non ho potuto.» Lucano annuì. «Non lo è più. La rigidità è passata. Ho coperto e nascosto le ferite. Sembra... addormentato, nient'altro.» Deglutii. «Grazie.» «Non ce n'è bisogno, comandante. Era il mio legato, e mio amico.» «Grazie, comunque. I miei ringraziamenti, come suo figlio.» Lucano inclinò il capo. «È stato mio piacere, per quanto doloroso. Dell'altro vino.» Non era una domanda, e gli porsi la coppa affinché la riempisse. Lo osservai mescere il vino, e mi resi conto che in quell'anziano medico c'era molto più di quanto avessi mai visto. Confermò subito la mia intuizione, raddrizzandosi e chiedendomi: «Come avevi pensato di disporre dei suoi resti?». «Disporre di...?» Sbattei le palpebre e scossi la testa. «Io... io non...» Stavo per dire che io non ci avevo pensato affatto, ma cambiai le parole che mi salirono alle labbra. «Io non ho creduto che fosse necessario pensarci. Sarà sepolto accanto a suo padre e a Publio Varro. Qui nel forte.» «Naturalmente, e molto opportunamente, comandante, ma posso azzardare un suggerimento? Con tutto il dovuto rispetto?» «Vorresti qualcosa di diverso?» «In un certo senso, sì. Non totalmente diverso, ma diverso in modo particolare.» Trassi un profondo respiro, sentendo rinascere l'impazienza. «Tu stai parlando per enigmi, e io sto parlando del funerale di mio padre. Sii chiaro, Lucano.» «Lo farò, se mi ascolterai.» «Ti ascolto.» «Stiamo seppellendo uomini a migliaia, giù in pianura.» «E allora? Che cosa ha a che fare questo con il legato Pico Britannico?» «Niente, e tutto.» Si avvicinò al fuoco e mosse i ceppi con la punta dello stivale. «Ogni uomo seppellito laggiù è morto, direttamente o indirettamente, perché Pico Britannico era al comando di questa fortezza, è esatto?» «Per modo di dire, certo.» Mi ero drizzato a sedere, e mi chiedevo dove ci avrebbe condotto quella conversazione. «Allora non è forse giusto che il passaggio di Pico da questo all'altro mondo, l'occasione della sua morte e gli eventi circostanti, siano spiccatamente diversi da quelli di migliaia di altri uomini?» «Sicuramente! Ma gli altri verranno seppelliti in fosse comuni. Mio padre riposerà qui nella fortezza.» Lucano strinse le labbra e si allontanò dal fuoco; si sedette di fronte a me su un divano dall'alto schienale, al quale si appoggiò bene, appoggiò la coppa sul bracciolo e rispose: «Allora lascia che siano le sue ceneri a riposare qui nella fortezza, Caio! Accanto a suo padre e a suo zio». «Che cosa?» Ero stupefatto, ma le sue parole tacitarono le mie obiezioni prima che potessi esprimerle. «Cremalo come un legato. Brucia il suo corpo, comandante! In una grande conflagrazione. Nello stile delle antiche Legioni, che onoravano i loro legati defunti con le purificatrici fiamme di Mitra.» Mi accasciai sulla sedia, ingobbito, mentre Lucano si sporgeva in avanti e proseguiva. «So che la sepoltura è il modo cristiano, comandante, ma il popolo - il nostro popolo! - ha bisogno di un simbolo, di un punto in cui convergere. Che cos'è una sepoltura tra migliaia, ovunque essa avvenga? Il nostro esercito è stato dilaniato e tempestato di colpi, e la nostra casa è stata quasi rasa al suolo dalle fiamme, ma noi continuiamo a vivere!» Si fermò e bevve una lunga sorsata di vino. «La gente di questa Colonia è stordita. Non c'è quasi anima viva che non abbia perso una persona cara in questo massacro. Siamo distratti, e la vita ha per noi poco significato, adesso. Lo spirito sembra averci abbandonati tutti, te incluso. Tito e Flavio sono gli ufficiali anziani della guarnigione, al fianco tuo e di Uther, quando c'è. Sono entrambi uomini eccellenti. Tu lo sai e lo so anch'io. Ma si sentono perduti, Caio, perduti senza tuo padre, che è stato anche il loro padre, concretamente, per più di vent'anni.» «Comprendo le tue parole, Lucano, e ciò che ti spinge a pronunciarle, ma non può essere! Siamo cristiani, e la Chiesa ci insegna che gli uomini devono essere seppelliti integri, per risorgere nel Giorno del Giudizio.» «Palle! Noi siamo soldati, Caio Britannico, e quando andiamo in guerra rivolgiamo ancora le nostre preghiere a Mitra, che è ancora il dio dei soldati. Il Cristo gentile aveva poco tempo per i soldati.» «Ma...» Mi interruppe. «Niente ma, comandante. Tu c'eri quando tuo padre ha risposto a quei preti malefici! Hai dimenticato la logica con cui li ha schiacciati? Hai dimenticato tutti gli insegnamenti che l'hanno portato a quel confronto? Noi crediamo - e per la nostra fede veniamo definiti pelagiani e non cristiani - che Dio abbia creato l'uomo a propria immagine, con quella scintilla divina che rende l'uomo in sé e per sé creatura di Dio! Quella scintilla è l'anima immortale... Immortale! Non può essere distrutta. Non può essere cancellata, né spezzata, né strappata. Quando verrà il momento del Giudizio, è l'anima che starà davanti a Dio. Il corpo diventa polvere, e così le ossa che lo formano.» Tacque, e mi fissò in un modo strano. «Oppure pensi che tutto questo sia cambiato? Credi che il vescovo Alarico giaccia sottoterra intatto, come il giorno in cui morì? E tuo nonno? E Publio Varro? Vogliamo dissotterrarli per vedere?» Scosse la testa, negandomi il conforto dell'illusione. «Otto anni, forse dieci. Tanto dura un corpo umano, dal momento in cui viene seppellito. Dopodiché restano solo ossa alla rinfusa, che gli animali vanno poi a dissotterrare. Non c'è integrità, né salubrità, dopo la morte. É un fatto medico - naturale - e gli ecclesiastici non possono cambiarlo emanando editti.» Ormai lo fissavo a occhi bene aperti. «Che razza di medico sei, Lucano?» Sollevò di scatto la testa per l'imprevedibilità della domanda, ma non era impreparato a rispondere. «Medico? Che razza di medico sono?» Fece una pausa di apparente riflessione, poi continuò con un sorriso leggermente amaro. «Non sono un medico. Un medico si occupa di erbe e pozioni; della diagnosi della malattia e della distillazione dei rimedi; della cura di ulcere e lesioni e dell'applicazione di sanguisughe.» Appoggiò con delicatezza la coppa sul tavolo e mi guardò da quella posizione appena protesa, sempre con lo stesso sorriso. «In realtà, Caio Britannico, io sono un chirurgo, un guaritore di corpi rotti dentro e fuori.» Si raddrizzò e nella sua voce colsi l'orgoglio. «E sono uno dei migliori al mondo, perché sono uscito dal Corpo medico dell'Esercito romano. I medici, perfino i migliori, lavorano in fiducia, sorretti dall'osservazione degli acciacchi che assillano anche le persone più sane. I chirurghi, invece, operano nella certezza di ciò che hanno appreso attraverso lo studio del corpo umano e delle ossa e degli organi che lo sostengono. Il Corpo medico dell'Esercito, composto quasi esclusivamente di chirurghi, è l'unico corpo che sia cresciuto in statura e in abilità con il declino delle Legioni. Esso ha portato la medicina, e la riparazione del corpo umano, a un livello mai conosciuto prima su questa terra. In qualità di chirurgo ho servito con tuo padre nelle sue ultime quattro campagne, lui con la sua spada, io con caduceo, bende, stecche e coltelli e strumenti da chirurgo. Ho tamponato sangue e distribuito oppio per lenire il dolore. Ho amputato membra, aggiustato ossa fratturate, ricucito tagli e cauterizzato vene e arterie, e ho salvato vite quasi con la stessa rapidità ed efficienza con cui i miei compagni le toglievano. Sono nemico giurato della morte in tutte le sue forme, e non rimarrò seduto composto a tollerare che la morte minacci tutto ciò che oggi amo.» Camminava avanti e indietro per la stanza, gesticolando con entrambe le mani eppure senza spargere una sola goccia di vino. Si girò a guardarmi, volgendo le spalle al fuoco. «Ho un ospedale pieno di feriti e di moribondi, e ci sono più corpi che spazio. Cinque giovani tirocinanti e due chirurghi competenti stanno ancora lavorando, mentre parliamo, immersi fino alle natiche nel sangue, nelle viscere, e nel dolore. E non abbiamo oppio. Non ne abbiamo da anni. Ma ciò che veramente temo, comandante, la cosa che trasforma il mio sangue in acqua, è lo strascico di questa guerra che si è appena conclusa. Camulod è stata quasi distrutta! Il suo comandante è stato ucciso nel suo letto! Quando si spegnerà il dolore di ognuno per le perdite individuali, personali, domani, o la settimana prossima, tra un mese o tra un anno, tutto ciò che rimarrà, a meno che non facciamo qualcosa, sarà la disperazione. La disillusione. E quello stato biasimevole, comandante, uccide più della guerra. La disillusione uccide le idee, e uccide gli ideali.» Aveva finito, per il momento, e il silenzio restò sospeso e disteso tra noi. Guardai nel fuoco, e pensai a tutto quello che aveva detto. «E così» riepilogai infine, ragionevolmente, «vorresti che bruciassi mio padre invece di seppellirlo. Perché? A che cosa potrebbe servire?» Lucano aveva la risposta pronta. Parlò senza esitazione e io seppi che aveva atteso esattamente quella domanda. «A scopo sacrificale. A uno scopo onorevole. Creeremmo un martire, accenderemmo una luce alla memoria di Caio Pico Britannico, un fuoco che raddrizzerà la spina dorsale e irrobustirà la determinazione di tutti coloro che vi assisteranno. E vi assisteranno tutti. Una pira funebre è un memorabile tributo alla grandezza, comandante, e un richiamo alla vendetta.» «Sarebbe blasfemo.» «Palle, comandante! Permettere, o anche solo incoraggiare per omissione, la demoralizzazione di questi coloni e la conseguente distruzione di tutto ciò per cui Pico e tuo nonno e altri prima di loro hanno faticato... questo sarebbe blasfemo. Questo invocherebbe sul capo di tutti noi la collera divina.» Il tono della sua voce mi convinse e compresi di essermi sbagliato, e la mia decisione fu presa. Mi alzai, sorridendo come se avesse placato tutte le mie sofferenze, e in parte le aveva placate. «Hai una notevole passione per le palle, Lucano.» «Non a torto.» Il suo sorriso si accompagnò al mio. «Ne ho viste abbastanza e ne ho asportate troppe perché mi facciano un'eccessiva impressione. Ma trasmettono comunque l'idea di una certa urgenza.» «Non c'è dubbio.» Gli offrii la mia mano e ce la stringemmo da amici. «Lucano» dissi, «ti ho malgiudicato, e detestato senza ragione. Me ne dispiace profondamente.» Mi sorrise. «Non fa niente, comandante. Mi avevi conosciuto come un medico severo e criticone, e perfino io mi ritenevo antipatico sotto quelle spoglie. Brillo solo come chirurgo.» «E allora brilla, chirurgo, da ora innanzi.» Mi interruppi, rammentando. «Ma dov'è mia zia?» «Oh, verrà quando la manderò a chiamare. A dire il vero ha preferito non essere presente a questo incontro.» «Bene, allora vai pure da lei e falle il tuo rapporto. Io andrò a parlare con Tito, Flavio e Popilio per organizzare il funerale. Quando credi che sarà il momento migliore?» «Dopo domani probabilmente, appena prima del tramonto, per la pira funebre. E il pomeriggio seguente per l'interramento delle ceneri, che dovrebbero avere avuto il tempo di raffreddarsi. Tutti nella Colonia dovrebbero presenziare a entrambi i servizi, e tu dovresti decidere chi dovrà parlare e che cosa dovrà dire.» Annuii e feci per andarmene, ma la sua successiva domanda mi fermò a metà di un passo. «A proposito, come sta la ragazza, Cassandra? Da quando sei tornato hai verificato che stia bene?» Mi girai lentamente. «No, e quindi non posso rispondere alla tua domanda.» «La domanda non era mia; era di tua zia. É convinta, e sono convinto anch'io, che non riuscirai a riposare tranquillo finché non te ne sarai accertato.» Parlava con il tono quieto e sicuro della sua professione. «Prendi i tuoi accordi con gli altri, e poi vai da lei. Non serve che torni prima di domani a mezzogiorno. Ti giustificherò io, come tuo medico.» Perplesso, e in uno strano modo umiliato, gli feci un cenno di ringraziamento e lo lasciai che sorrideva, senza nemmeno chiedermi se sapesse dov'ero diretto. Andai nella stanza dove mio padre era adagiato sul grande letto di Publio Varro. Lucano aveva detto il vero: rimirai meravigliato l'evidenza della sua perizia. Avevo visto mio padre contratto nell'agonia della morte violenta; adesso sembrava dormire in pace, con indosso l'armatura, l'elmo, e avvolto nel grande mantello nero come se stesse schiacciando un pisolino prima di partire per una campagna. Era pallido, ma su di lui non c'erano tracce di sangue, e il soggolo dell'elmo da cerimonia copriva lo squarcio nella gola. Il petto mi si gonfiò di cordoglio e di orgoglio, e le lacrime mi offuscarono gli occhi e mi inondarono il viso. Caio Pico Britannico riposava in eterno, e nobilmente, e presi congedo. XXVI. Se al mondo esiste un sapore più sgradevole e indimenticabile del rame, non l'ho mai provato. Una volta, quand'ero bambino, durante un giorno d'estate tenni a lungo in mano una moneta di rame. La mano diventò umidiccia e appiccicosa per il sudore, e quella monetina di rame, un umile as, sembrava attaccato per sempre alla mia pelle. Ricordo che zio Varro mi gridò di stare indietro e lontano dal carro che guidava quel giorno, e quando il grande e rumoroso veicolo mi passò accanto, assordandomi ed eclissandomi con le sue robuste ruote di legno, e un ciocco di legno cadde dal carro e rotolò per un poco verso di me, pensai che ero forte abbastanza da portare quel ciocco dove mio zio stava accatastando legna fin dal mattino. Ma mi servivano tutte e due le mani libere per sollevarlo, e così misi in bocca la moneta calda e sudaticcia. Sono sicuro che sia stato il trauma di quel gusto acerrimo e oltraggioso a imprimere per sempre nella mia giovane mente i dettagli di quel banale incidente. Ci ripenso ogni volta che ho profondamente e clamorosamente paura, perché nella paura che sconvolge le viscere ce qualcosa che genera l'illusione di quel sapore amaro. Lo stesso sapore mi riempiva la bocca quella sera, mentre mi avvicinavo alla piccola valle tra le colline. Avevo stremato il cavallo, e scordato la stanchezza, da quando ero uscito dal forte per il mio solito percorso indiretto. Adesso che ero prossimo alla fine del mio viaggio, le paure informi che nei giorni trascorsi mi ero rifiutato di ammettere la ebbero vinta, e io conobbi l'abietto terrore. Che cosa avrei fatto se Cassandra non fosse stata lì al mio arrivo? Che cosa avrei fatto se fosse stata lì, ma fosse stata scoperta e ferita, forse addirittura uccisa? Sfiancai il mio cavallo, lo frustai senza misericordia per le ultime tre miglia, ma all'inizio del sentiero ripido e stretto dovetti smontare e camminare, conducendo per le redini lo sfortunato animale. La prima cosa che mi colpì entrando nel fondovalle fu l'assoluta immobilità, e il mio cuore straripò di una paura insopportabile che svanì, lavata dal sollievo e dalla gioia, quando Cassandra si precipitò fuori dai cespugli, con un raggiante sorriso di benvenuto. Ero stato lontano cinque giorni, e nell'isolamento del suo mondo silenzioso Cassandra non poteva immaginare che cosa avevo fatto e che cosa era accaduto a poche miglia da lei; perciò ringraziai Dio. A giudicare dal benvenuto che mi diede, tuttavia, si sarebbe detto che non mi vedesse da mesi. Né il fuoco nella sua capanna né il fuoco nella radura erano più stati accesi da quando le avevo raccomandato di non fare fumo. Mentre le ombre del tardo pomeriggio si allungavano nelle ombre della sera, accesi il fuoco dentro casa, e andai a raccogliere altra legna finché c'era ancora luce sufficiente per trovarla vicino. Per fortuna non ero arrivato più tardi, perché in Avalon le ore di luce erano molto brevi. Quel pensiero mi ricordò il benvenuto di Cassandra, e mi spinse a riflettere sul modo in cui Cassandra passava il suo tempo nella solitudine tra una mia visita e la successiva. Mentre mi allontanavo sempre più dalla radura in cerca di legna da ardere, le mie moleste riflessioni diedero adito a domande inquietanti. Come passava il suo tempo? Come poteva divertirsi, vivendo in un mondo di totale silenzio? Che cosa faceva da sola tutto il giorno? E tutta la notte, durante quelle sere lunghe e buie? Giorni di sole e tiepide serate erano una cosa, ma le stagioni fredde, tempestose, umide e nuvolose erano tutta un'altra faccenda. Anche andare in cerca di legna doveva essere massacrante in un triste giorno di pioggia. In passato la legna non era mai mancata. Nessuno aveva mai soggiornato nella valle tanto a lungo da consumare la legna che era a portata di mano. Adesso, invece, con due fuochi che bruciavano notte e giorno, ogni giorno, la legna diventava difficile da trovare. Bisognava cercarla lontano dalla radura, e poi trasportarla, o trascinarla, attraverso il sottobosco. E in mia assenza Cassandra doveva farlo da sola. Quella notte facemmo l'amore alla luce del fuoco, finché non caddi in un sonno esausto dal quale mi svegliai due volte con in mente il cadavere di mio padre. Era mattino tardi quando partii per Camulod e per il rito funebre, e separarmi da lei fu più difficile che mai. Mi faceva male il cuore lasciarla da sola in riva a quel lago minuscolo, e l'angoscia per la recente consapevolezza della sua solitudine mi afflisse lungo tutta la strada. Sapevo che presto sarebbe giunto il giorno in cui, in un modo o nell'altro, a dispetto delle mie paure, avrei dovuto riportarla alla civiltà e alla compagnia di altre persone. Trovai Tito e Flavio che parlavano nello studio di mio padre. Tito era seduto dietro la scrivania, sullo sgabello, e Flavio era appollaiato su una sedia, e insieme rivedevano gli accordi presi. Era tutto sotto controllo, mi dissero. La notizia del servizio funebre era stata fatta circolare ovunque: l'avvenimento era stabilito per la terza ora del pomeriggio. Mi restavano due ore, durante le quali non avevo altro da fare che indossare l'uniforme da cerimonia e tentare di svuotare la mente dalle mie preoccupazioni per Cassandra, e prepararmi per l'occasione, un avvenimento senza precedenti a Camulod. Quando avevo parlato con Tito, Flavio e Popilio, prima di partire per Avalon, avevo espresso i miei desideri per la cerimonia. Avevo confessato francamente che stavo improvvisando, e che non avevo mai visto una cremazione militare. Nel frattempo però, Lucano, che aveva seguito le Aquile più a lungo di qualunque altro ufficiale ancora vivo nella Colonia, aveva tirato fuori numerosi documenti sui funerali militari nei tempi antichi, e durante la mia assenza tutti e quattro avevano deciso di aderire alle procedure descritte nei documenti. Flavio mi informò che Popilio, in quanto primus pilus, avrebbe ufficiato la cerimonia, che era un'occasione militare e non religiosa. Tutta la guarnigione della Colonia, a eccezione di una striminzita squadra di guardie, avrebbe sfilato in alta uniforme. Tito, legato nominale e facente funzioni di Ufficiale comandante, avrebbe passato in rassegna le truppe, e Lucano, Chirurgo anziano e ufficiale più anziano in servizio, avrebbe pronunciato l'encomio. Popilio avrebbe guidato il centuriato, com'era nel suo diritto, e avrebbe sovrinteso all'ordine delle cerimonie, diretto la guardia d'onore, e presenziato all'accensione del fuoco che avrebbe consumato il cadavere. Flavio mi assicurò che la pira avrebbe bruciato bene e in fretta. Era stata eretta su una griglia di ferro montata su un altare di sassi per garantire una ventilazione forte e costante, e i tronchi erano massicci, stagionati e asciutti, le travi sgrossate a mano, diverte dall'interno della Sala del Consiglio e bagnate nella pece perché bruciassero meglio. Soddisfatto e impressionato dall'accuratezza dei loro propositi, eppure depresso al pensiero di ciò che ci aspettava, li ringraziai per i loro sforzi e uscii nella corte principale. La pulizia era quasi completa, e in molti punti avevano già iniziato a ricostruire, ma quel pomeriggio nessuno lavorava. La macabra pira che avrebbe consumato il corpo di mio padre si levava imponente al centro della grande corte. Era la prima pira di quel genere che vedevo, e potevo solo supporre che i documenti di Lucano avessero contenuto i particolari necessari alla costruzione. Affascinato, mi avvicinai e scrutai nel cuore dell'immane opera. Era un letto enorme composto da cinque strati di tronchi a sezione quadrata, spessi ognuno due spanne. I tre strati che costituivano la parte superiore, quella centrale, e la base del letto, erano fatti di travi, tagliate a una lunghezza di quattro passi. Gli altri due strati, posti di traverso rispetto a quelli lunghi, erano più corti, e misuravano solo tre passi, Le travi erano regolarmente distanziate su tutti e cinque i livelli, e formavano una rete di aperture di ventilazione per alimentare le fiamme. Ogni trave era stata immersa nella pece, e l'odore irritava la gola. Sopra a questo letto, i nostri falegnami avevano costruito una specie di forno dello stesso materiale, aperto a un'estremità per accogliere la cassa di ferro che avrebbe contenuto il corpo di mio padre. Il tetto del forno era alto tre strati, e le travi erano sistemate allo stesso modo di quelle del letto sottostante. D calore generato da quella pira sarebbe stato insopportabile. La carne e le ossa di mio padre si sarebbero sciolte e seccate e trasformate in polvere molto prima che le fiamme si spegnessero e le braci ardenti si rassegnassero alla cenere. Turbato e assorto in tristi pensieri abbandonai quel luogo e uscii a piedi dal cancello principale, facendo un cenno di saluto a Marco, il centurione della guardia. Davanti a me si allargava il nuovo accampamento costruito da Popilio e dai suoi uomini. Alla mia destra, verso sud, si apriva l'enorme fossa scavata dai prigionieri per contenere i loro morti. La fossa alla mia sinistra, molto più piccola ma comunque enorme, avrebbe accolto i nostri mille morti. Nella fossa minore, quasi direttamente sotto di me, sul lato settentrionale del nuovo accampamento, sarebbero finiti i nostri ufficiali. Sulla pianura niente si muoveva; Popilio doveva aver fatto lavorare le squadre durante tutta la notte, perché in giro non si vedevano più corpi, e le fosse erano quasi colme. Donuil si unì alle mie meditazioni, e attese pazientemente che gli rivolgessi la parola. Era venuto a chiedere il mio permesso per assistere al funerale di mio padre, e il suo desiderio mi sorprese e mi commosse. Mio padre gli aveva mostrato poca tolleranza nel breve periodo in cui si erano conosciuti. Gli dissi che sarei stato contento della sua presenza, e restammo in silenzio. Solo quando mi voltai per rientrare nel forte notai la sua espressione corrucciata, il suo rimuginare su chissà cosa con lo sguardo perso in lontananza. Gli chiesi che cosa lo turbasse e incominciò, dapprima con esitazione e poi con crescente fiducia e convinzione, a parlarmi della sua costante preoccupazione che nelle nostre trattative con i due stregoni ci fosse sfuggito qualcosa di vitale importanza. I loro bagagli, secondo Donuil, avrebbero dovuto contenere un assortimento di ricercatezze negromantiche. Lo rassicurai che tutti i loro averi erano stati perquisiti a fondo, e non era stato trovato nulla di sinistro, ma non lo convinsi. Mi chiese se avessimo trovato le casse fasciate di ferro, e quando gli dissi che non avevamo trovato niente del genere scosse la testa in enfatico diniego. Aveva visto quelle casse con i propri occhi, giurò, nel castello di suo padre, ed erano gli oggetti più preziosi in possesso degli stregoni. Caspar aveva detto a suo padre, e Donuil aveva sentito, che senza quelle casse non andavano da nessuna parte. Se le casse non erano state portate a Camulod, allora gli stregoni dovevano averle nascoste prima del loro arrivo. Dovevano essersi fermati in un punto lungo la strada. Quando disse così lo guardai con irritazione, subito spazientito da quelle chiacchiere superstiziose. «Si sono fermati» gli risposi. «Eri presente quando mio padre ha detto che Uther aveva fatto una sosta per permettere ai suoi uomini di darsi una ripulita prima di entrare a Camulod.» Mi guardò e scosse seccamente la testa prima di rammentarmi che mio padre aveva parlato in latino, e che lui il latino non lo capiva. Camminammo insieme fino al mio alloggio, e camminando riflettei su quello che aveva detto, e mi chiesi quanto fosse vero e quanto fossero celtiche fantasie. Quelle casse sarebbero state davvero preziose, se fossero esistite e se fossimo riusciti a trovarle. Decisi che avrei parlato con Uther di quella sosta lungo la strada, se mai l'avessi rivisto. E ancora mi domandai dove fosse, nella certezza che avrebbe pianto la morte di mio padre e rimpianto di non poter partecipare al suo funerale. Lucano mi aspettava nel mio alloggio. Mi esaminò con aria critica e mi chiese come mi sentissi. Gli dissi che stavo bene, ma che non ero ansioso di assistere all'imminente trafila. Mi parve sollevato. «Nessuno di noi lo è» disse. «Tito mi ha chiesto di venire a parlarti. Durante il vostro ultimo colloquio si è dimenticato di manifestarti un suggerimento. Pensa che potrebbe essere conveniente se tu aspettassi con donna Luceia a casa sua, e la accompagnassi al funerale quando tutti gli altri saranno già riuniti. Manderà una guardia d'onore per scortarvi, poiché siete i due parenti più prossimi.» Mi dichiarai d'accordo, lo ringraziai per la sua cortesia, e mi accinsi a vestirmi. Non ricordo quasi nulla del funerale di mio padre, a parte alcune immagini sconnesse che mi colpirono al momento e che mi sono rimaste impresse: la silenziosa presenza della folla, con il suo dolore per i cari scomparsi e la palpabile aura di lutto; il rumore sordo degli stivali chiodati in marcia cadenzata dal lento rollio dei tamburi marziali; la fanfara di corni e trombe d'ottone quando i portatori, otto centurioni anziani, fecero scivolare la bara di ferro nel nido appositamente preparato fra le travi luccicanti di pece; il cigolio della pesante armatura da cerimonia in cuoio lucido di Popilio, sull'attenti al mio fianco; il crepitio della torcia impeciata che avanzava ad accendere la pira: e poi la solida, spiraleggiante torre di fumo che ascendeva in sbuffi gialli e grigi, mentre la base veniva divorata dal calore furioso e devastante delle fiamme che ci velavano gli occhi e ci percuotevano anche dietro il cerchio della guardia d'onore, a venticinque passi di distanza. E ricordo il fragore impazzito, il frastuono che tutto comprendeva e tutto consumava, delle fiamme ruggenti e sibilanti che divoravano mio padre. So che minacciava di piovere, eppure splendeva il sole, ma non ricordo nient'altro. So anche, perché lo seppi in seguito, che Uther tornò durante il funerale e, vedendo da lontano la cappa di fumo, condusse i suoi uomini esausti alla carica contro i presunti aggressori. Quando compresero il vero motivo della fluttuante colonna di fumo, lui e i suoi uomini si avvicinarono in silenzio, lasciando le cavalcature all'esterno del forte, e rimasero discretamente dietro la folla, che già si andava disperdendo. Quando fu tutto finito, accompagnai a casa zia Luceia e ritornai nel mio alloggio, dove tolsi l'armatura e dormii per ore; mi svegliai solo a buio fatto, ritemprato e affamato. Fui sorpreso di trovare nel refettorio Uther che mangiava da solo. Ci salutammo sobriamente. Mi disse quanto gli dispiaceva per mio padre, ma io mi limitai a fare un cenno di assenso - non c'era niente da dire - e andai a prendere del cibo. Tagliai un grosso pezzo di montone da una carcassa ancora calda e infilata nello spiedo sulle braci ardenti, e una sostanziosa fetta di pane su cui appoggiarlo. In una padella accanto al fuoco si stavano raffreddando gli avanzi di uno stufato di verdure cotte in brodo di carne. Non avevano certo un aspetto appetitoso, ma versai un po' di brodo tiepido sul pane e sul montone e mi sedetti a tavola con Uther. Quando mi sedetti allontanò il suo piatto, ma rimase, e mentre mangiavo mi raccontò com'era andato l'inseguimento di quel che restava dell'esercito fuggiasco di Lot. Lui e i suoi uomini non avevano avuto pietà, e avevano ucciso tutti gli uomini di Lot che erano riusciti a catturare: in due giorni di caccia avevano ammazzato nemici a centinaia. Quando però aveva appreso da un comico moribondo che Lot non aveva mai lasciato il sud-ovest, aveva richiamato i suoi soldati e abbandonato l'inseguimento. Da quando era tornato aveva già saputo dei loro ostaggi, e sentirli nominare mi preoccupazione di Donuil. Allontanai gli guardai intorno alla ricerca di una brocca la storia degli stregoni e riportò alla mente la avanzi del cibo e mi di vino. Su un tavolo vicino ce n'era una ancora piena per metà. Presi due coppe, le risciacquai, e versai vino per entrambi. Uther levò in alto la sua coppa. «A tuo padre, mio zio Pico» disse a bassa voce. «Era un uomo tra gli uomini. Non ne sono rimasti molti come lui. Vorrei essere arrivato a casa due ore prima.» Mi unii a lui nella libagione e rimanemmo in silenzio finché Uther mi chiese: «A che cosa pensi?». «Agli stregoni.» Stavo fissando il contenuto della mia coppa. «Caspar e Memnone. E al loro padrone, il ragno, Lot. Quel bastardo morirà per mano mia. L'ho giurato per la morte di mio padre.» «Allora sarà meglio che cavalchiamo insieme, cugino, e sarà una bella corsa, perché io ho fatto lo stesso giuramento.» Lo guardai e ci sorridemmo. «Allora è un uomo morto» dissi. «Come hai progettato di ucciderlo?» «Lentamente, con ogni mezzo a mia disposizione. Lentamente e dolorosamente. Voglio che sappia che sta per morire, che sappia che è per mano mia, e che implori la liberazione della morte. E gliela negherò, a quel bastardo,» Risi per la prima volta da giorni, ma ero tutt'altro che divertito. «Sei cattivo quasi quanto lui!» «No, cugino, non lo sono. Lot è una pestilenza che non dovrebbe esistere.» Nei suoi occhi non c'era traccia di umorismo. «Forse ho esagerato a descrivere il modo in cui morirà, ma morirà di sicuro. Il mondo sarà migliore, liberato da quella sozzura.» Arricciò il naso. «Ma stavi pensando agli stregoni. Perché? Quelli sono già morti. A che scopo continuare a pensarci?» «Li hai sorvegliati attentamente durante il viaggio dalla Cornovaglia?» «Sorvegliati?» Inarcò un sopracciglio. «Beh, sì e no. Ho incaricato un uomo di tenerli d'occhio perché non mi piacevano e non mi ispiravano fiducia, ma non li ho proprio messi in catene. Dovevano essere degli ambasciatori, dopotutto.» «Sì, infatti. Ambasciatori di morte.» «Allora non lo sapevo.» «No, non lo sapevi e non potevi saperlo. Non ti sto rimproverando. Ma li hai tenuti sotto sorveglianza?» Rispose con un'alzatina di spalle. «Fino a un certo punto, sì, Ma non ci hanno dato problemi, ed eravamo sempre in movimento. Non c'era veramente bisogno di guardarli a vista.» «E quando vi siete fermati?» Mi guardò, circospetto e incuriosito. «Ci siamo fermati solo a mangiare e a dormire. Che cosa stai insinuando, Cai?» «I loro bagagli. Hai osservato quanti ne avevano?» «No. Non mi importava niente di loro, e dei loro bagagli mi importava ancora meno. Avevo altre cose a cui pensare. Avevano due servitori, e due cavalli da soma. Quattro uomini e sei cavalli in tutto. Mi premeva solo che si muovessero e non interferissero con la nostra avanzata. Ed è stato così. Perché? Mi è sfuggito qualcosa?» «Forse. Il giovane Donuil giura che quei due non andavano da nessuna parte senza due particolari casse, fasciate di ferro, incatenate e chiuse a chiave. Ricordi di avere visto qualcosa di simile?» Scosse la testa, sporgendo in fuori il labbro inferiore. «No, ma te l'ho detto, non ho prestato attenzione. Che cosa c'era in quelle casse?» «Non lo so. Non le hanno portate a Camulod. Donuil dice che contenevano gli strumenti della loro negromanzia.» «Intendi dire magia?» Il tono di Uther era palesemente scettico. «In un certo senso. La magia delle frecce avvelenate, di sicuro, e Dio sa cos'altro.» «Merda e corruzione!» Lo scetticismo era svanito. «Ti sei fermato quella mattina prima di raggiungere il forte. Ricordi esattamente dove?» «Certo. Al crocevia del grosso frassino spaccato, a circa cinque miglia sulla strada orientale, dove per un tratto la foresta si dirada. I miei uomini si sono ripuliti nel ruscello.» «Dev'essere lì che hanno nascosto le casse. Chi era l'uomo incaricato di sorvegliarli?» «Gareth, uno dei miei. Ma non possono avere nascosto niente, Cai. Non ne hanno avuto il tempo. Non ci siamo fermati abbastanza a lungo.» «Abbastanza a lungo da defecare?» «Sì, naturalmente, ma...» «Allora era abbastanza a lungo. Non ho detto che hanno sotterrato quelle casse, Uther, solo che le hanno nascoste. Di sicuro hanno concertato le loro mosse, forse nella loro lingua pagana, molto prima che si presentasse loro l'opportunità di agire.» Uther aveva improvvisamente corrugato la fronte. «Aspetta un momento, aspetta un momento... C'è stata un po' di confusione, adesso che ci penso... Qualcosa che aveva a che fare con i cavalli. Non ci ho badato, perché è finita in fretta. Potrebbero averle nascoste in quel frangente. C'è stato un tafferuglio per la ridistribuzione del carico.» Scrollò il capo. «Mi dispiace, Cai, non ricordo.» «Il tuo uomo, Gareth, dovrebbe ricordare. Dove possiamo trovarlo?» Uther guardò dentro la coppa e bevve un sorso prima di rispondere: «Non possiamo. É nella fossa comune, giù sulla pianura. È stato uno dei primi a cadere». «Dannazione! Comunque, conosco il posto. Domani andrò a darci un'occhiata. Porterò Donuil con me.» «Verrò anch'io.» Si alzò. «So esattamente dov'erano, e dove è scoppiato il disordine. Se hanno nascosto qualcosa, deve essere stato in quei paraggi. E se quelle casse esistono, le troveremo. Ma adesso torno a letto. Ho dormito un paio d'ore prima, ma sono giorni che non faccio un sonno decente. E tu?» Sbadigliai. «Non lo so. Sbadiglio, ma non ho sonno, eppure sono stanco morto, ti pare che abbia senso? Credo che farò due passi per digerire, e poi cercherò di dormire anch'io.» «Bene. Batti un colpo alla mia porta quando ti svegli, Romperemo il digiuno assieme, passeremo a prendere il tuo giovane pagano e ci metteremo in strada presto. Dovremmo riuscire a trovare quelle casse, se ci sono, e a tornare prima di mezzogiorno. Una buona notte a te. Dormi bene, cugino.» Gli augurai una buona notte e mi incamminai verso la corte principale. Un distaccamento della guardia d'onore circondava ancora la pira di mio padre, che adesso fumigava rabbiosa, tra le braci rosse e azzurre contro il nero della notte, Oltrepassai l'anello delle guardie e mi fermai vicino al fuoco, sentendo la sua forza spaventosa tirarmi la pelle sugli zigomi e sulle gambe nude; cercai con lo sguardo la bara di ferro che conteneva i resti dell'uomo che mi aveva generato e forgiato. Sapevo che c'era, ma in quella luminosità incandescente non la vedevo. Levai al cielo una preghiera per l'anima di mio padre e rimasi lì a lungo, a ricordare in silenzio. Poi mi allontanai dal fuoco e riattraversai l'anello delle guardie, e nel freddo della notte scura mi portai appresso il suo calore. Ma il calore svanì, e il gelo mi ricordò che ero vestito troppo leggero per una passeggiata notturna. Ritornai nel mio alloggio e mi infilai nel letto, dove dormii un sonno senza sogni. Il giorno seguente trovammo le casse degli stregoni, senza quasi bisogno di cercarle. Uther ci condusse direttamente dove c'era stato il disordine con i cavalli, e subito ci inoltrammo tra gli alberi. Donuil, che era alla guida del calesse molleggiato di zio Varro, lo lasciò sulla strada e ci seguì a piedi. Trovammo le casse a meno di venti passi dalla strada, nascoste in un borro attraversato da un ruscelletto. Donuil saltò immediatamente nel borro, lacerando gli abiti sui rovi che riempivano la valletta, e maledicendo le spine che lo graffiavano. Quella vista mi paralizzò all'istante. «Donuil!» gridai. «Vieni fuori da lì!» Mi guardò stupito, e così anche Uther, ma Donuil si girò e si arrampicò fuori dal borro. Scivolai giù da cavallo e sfoderai la spada, e la usai per fendere i rovi che ostruivano il nascondiglio, spostandoli a calci fino a scoprire le casse. Quando ebbi liberato lo spazio intorno, piegai un ginocchio e le esaminai da vicino, ignorando le pesanti catene che le legavano e concentrandomi solo sulla custodia di legno. Il mio presentimento era esatto. Alzai gli occhi verso Donuil, fermo ad aspettare. «Vieni qui adesso, con prudenza, e guarda.» Mi raggiunse, e puntai un dito dove volevo che guardasse. «La riconosci?» Trasalì per il ribrezzo vedendo e riconoscendo quello che avevo trovato. «Una di quelle» sussurrò fissando con gli occhi sbarrati l'aguzza spina nera infilata nel legno della cassa. «Già, e ce ne sono altre. Chiunque avesse trovato queste casse e avesse cercato di spostarle non sarebbe vissuto a lungo. Uther, vieni a dare un'occhiata.» Uther saltò giù da cavallo e si unì a noi. Indicai di nuovo la spina. «Vedi questa? È prima cugina delle tue frecce avvelenate. Un graffietto, e sei un uomo morto. Queste sono le spine che ha usato Caspar per uccidere i suoi dodici uomini: una spina, un uomo.» Fece una smorfia. «Andiamo, Cai. Parli seriamente? Non è possibile.» «Chiedilo agli uomini che sono morti, se sono d'accordo. Te lo dico io, Uther, queste cosucce sono mortali.» Si chinò a osservare quella che gli avevo mostrato, disposto suo malgrado a lasciarsene impressionare. «Non sembrano mortali, vero?» «È per questo che funzionano così bene.» I suoi occhi indugiavano sulle casse. «Quante ce ne sono?» «Troppe. Ne vedo otto, ma ce ne devono essere almeno altre venti sopra e intorno ai quattro lati di ciascuna cassa. Il fondo dovrebbe essere senza.» «Come le togliamo?» «Con cautela» dissi. «Una alla volta.» Con la punta del coltello smossi le spine e, maneggiandole con grande riguardo, le conficcai a una a una nel terreno compatto dell'argine. Quando l'operazione fu conclusa, potemmo toccare le casse. Uther voleva aprirle subito, e lo volevo anch'io, ma ero sospettoso. La cura con cui era stato protetto l'esterno mi preoccupava. Dopo essere stati tanto pazienti, e sapienti, da procedere attraverso quel labirinto di spine, catene e lucchetti, ritenevo che saremmo stati malaccorti a spalancare il coperchio così, senza ulteriori precauzioni. Caricammo le casse intatte sul calesse e le portammo a Camulod. Malgrado la curiosità e la smania di tutti di vedere che cosa contenevano, le misi nel mio alloggio in attesa di potere affrontare con calma il problema che rappresentavano, ed esaminarne il contenuto a mente sgombra. XXVII. Aspettai due settimane prima di aprire le casse, e poi trascorsi le settimane seguenti ad analizzare ogni singolo oggetto in uno stato di totale fascinazione. Se qualcuno mi avesse osservato sollevare i coperchi, avrebbe dubitato della mia sanità mentale. Avevo fatto spostare le casse nella fucina principale, poi avevo mandato via tutti e mi ero chiuso dentro con il mio tesoro. Non appena fui solo e sicuro che non mi avrebbero interrotto, mi misi al lavoro per aprirle. Erano grosse, e pesanti, una leggermente più grande dell'altra, forse una spanna più lunga e un palmo più alta. Una mazza, uno scalpello a freddo e un'incudine ebbero presto ragione delle catene, ma ogni cassa era chiusa da una serratura a molla di cui non avevo le chiavi. Publio Varro era stato un maestro nella fabbricazione di serrature, e quand'ero ragazzo mi aveva spiegato come funzionavano le serrature a molla. Mi diressi al suo vecchio banco da lavoro vicino alla forgia grande, e aprii la scatola di legno ammaccata e macchiata nella quale conservava la sua collezione di chiavi. C'erano ancora tutte, a dozzine, coperte di ruggine. Solo due sembravano potersi adattare alle serrature delle casse. Qualche passata con una lima fine per levare la ruggine, poche gocce d'olio, e la serratura della prima cassa, la più grande, si aprì con uno scatto, in risposta alla mia gentile pressione. Buttai fuori il fiato con un sibilo, mi rivolsi alla seconda cassa e disserrai anche quella con ancora minore difficoltà. Estrassi la spada e, mantenendomi quanto più indietro possibile, usai la punta per fare leva sul coperchio, sapendo che quando si fosse aperto avrebbe potuto succedere qualunque cosa. La spada era troppo corta per consentirmi di esercitare forza sufficiente da una distanza di sicurezza. Contro il muro c'era un giavellotto, e usai quello, invece, rannicchiandomi a terra con il braccio teso; spinsi la punta contro il lembo anteriore del coperchio, lo sollevai e lo aprii. Non accadde nulla; sussultai solo al rumore del coperchio che cadeva all'indietro. Aprii la seconda cassa allo stesso modo, con lo stesso risultato. Attesi, immobile, contai lentamente fino a cento e poi, finalmente convinto che dalle casse non si sarebbe liberato nessun vapore velenoso, avanzai cautamente e guardai che cosa avevo scoperto. L'interno della prima cassa era molto ben fatto, incorniciato da un bordo di legno intagliato largo come la mia mano, con la porzione centrale divisa in una griglia di dodici compartimenti quadrati, quattro in lunghezza per tre di profondità. Cinghie di cuoio erano ammucchiate, apparentemente a caso, sul contenuto dei compartimenti. Mi chinai in avanti e tastai le cinghie con la punta di un dito. Sembravano proprio di normalissimo cuoio, senza punte aguzze nascoste tra una e l'altra. Provai a sollevarle, e allora mi accorsi che erano delle maniglie, attaccate ognuna a ciascun lato di ciascuna sezione della cornice di legno. L'ampia bordura intagliata era in realtà una serie di ripiani annidati uno dentro l'altro, ognuno un poco più profondo del precedente in modo da offrire protezione e sicurezza a ciò che contenevano. Il mio scrutinio procedeva lentamente e scrupolosamente. Misi da parte oggetti tra i più sconcertanti per poterli meglio studiare in seguito. Alcuni erano, e per sempre sarebbero rimasti, un mistero; altri furono più facilmente identificabili, e altri ancora potei classificarli immediatamente. Scoprii, senza mia grande sorpresa, che tutti erano pericolosi, in grado in un modo o nell'altro di dare la morte. Quattro scatolette oblunghe di argilla, smaltate dentro e fuori, con i rispettivi coperchi ermetici ugualmente smaltati, contenevano una pasta oleosa, acre e verdastra, che risultò essere il veleno utilizzato per le frecce. Ne distesi un po' sul metallo, e seccando lasciò un residuo cristallino identico a quello che rivestiva la punta della freccia che aveva per mano mia provocato la morte di Caspar. Altri vasi e scatolette, fiale e tubi di vetro contenevano una portentosa gamma di sostanze, tutte a me sconosciute: cristalli e polveri; paste e miscugli macinati con pestello e mortaio; unguenti e materie oleose che sembravano essere state sciolte al fuoco; mazzetti e bossoli di bacche, erbe, foglie, semi e persino frutti essiccati. I colori erano spesso stupefacenti: verdi brillanti e opachi; rossi accesi dalla cannella al cremisi; azzurri e gialli intensi e sensazionali; un nero lucido, quasi sfolgorante; e tutte le sfumature del bianco, che si scuriva in marroni chiari e bruni. Esaminai tutte le sostanze con cura e interesse estremi, fondendo quelle che si potevano fondere, per vederne la reazione; mischiandole con acqua; esponendole all'aria e al fuoco; sottoponendole a ogni pensabile esperimento; ne diedi in pasto agli animali, che in gran parte morirono, e scrissi fedeli e copiosi appunti sulle mie scoperte. Una sostanza mi strabiliò, e ancora oggi non so che cosa fosse, ma da quando scoprii come funzionava ne feci a lungo un uso parco e prudente finché non l'ebbi esaurita. Ne trovai una scatola, quasi piena, nascosta al livello più profondo della cassa più grande e ben legata con uno spago. Era una polvere nerastra, granulosa, senza caratteristiche peculiari, che scoprii immediatamente essere innocua dandone da mangiare una piccola quantità a tre conigli. Avendo stabilito che non si trattava di veleno, la assaggiai. Era di gusto irrilevante, simile alla cenere di carbone, con una punta di sale che non seppi definire. La mischiai con l'acqua, agitandola bene per vedere se si sciogliesse o si alterasse. Non avvenne né l'una né l'altra cosa. Scoraggiato, e sul punto di arrendermi, ricordai da dove proveniva e riflettei che gli stregoni egiziani non l'avrebbero custodita con tanta cura tra i loro tesori clandestini, se non fosse stata di valore, così invece di rovesciarla sul pavimento la filtrai con un tessuto, strizzando poi il tessuto fino a quando non contenne solo l'originale pizzico di polvere. Poi distesi la polvere umida su un pezzo di stagno e tenni lo stagno sulla fiamma di una candela. La polvere si asciugò leggermente per il calore, ma nient'altro. Deluso, e temporaneamente privato di un acceso interesse, scossi il residuo sul pezzetto di stoffa con cui l'avevo filtrata, lo appallottolai, e con noncuranza lo gettai nel fuoco della forgia, dove esplose con una grande fiammata e una roboante fumata nera che mi scese in gola e mi costrinse in ginocchio con una tosse strozzata, gli occhi lacrimanti e il cuore palpitante di terrore. Quando ebbi ripreso fiato e compostezza, misi un altro pizzico di polvere sulla panca e lo toccai con una candela accesa. Al contatto con la fiamma la polvere, qualsiasi cosa fosse, esplose con un sibilo e una vampata intensa e improvvisa, emettendo dense nubi rotolanti di fumo acre e accecante. Polvere incendiaria! Entro un'ora avevo stabilito che era la sostanza più combustibile che avessi mai incontrato. Per accenderla non era necessaria la fiamma; reagiva con uguale violenza al calore di una scintilla. Stupefatto e confuso, la rimisi al suo posto, al sicuro lontano da occhi indiscreti, e mi chiesi che uso avrei mai potuto farne. Ero stato reticente a parlare delle casse e del loro contenuto, e Uther in pochi giorni se ne dimenticò. Donuil non dimenticò, ma le casse non gli piacevano e le evitava, e confidava che scoprissi io quello che potevo. Nessun altro sapeva della loro esistenza. E mentre mi trastullavo, ammaliato dal loro contenuto, non mi venne mai in mente che il loro possesso avrebbe cambiato negli anni a venire la visione che gli uomini avevano di me, da soldato a stregone. Verso la fine della terza settimana fui però costretto a mettere da parte i miei studi e le mie analisi. Da nord-ovest giunse la notizia di un altro attacco, questa volta sulle terre di Uric, da parte di forze ostili non identificate provenienti da nord-est, con l'aggiunta da sud di altri uomini di Lot che avevano tentato un'invasione marittima dalla zona settentrionale della Cornovaglia. Dopo un'aspra battaglia gli invasori erano stati respinti su entrambi i fronti, ma Uric, il padre di Uther, era caduto, ucciso da una freccia avvelenata. La mia reazione iniziale fu puramente politica, e quando, dopo non molto qualcuno me lo fece notare me ne vergognai, e cercai di consolarmi dicendo che il mio comportamento era stato corretto e appropriato alle circostanze. Dissi a me stesso, con poca convinzione, temo, che la mia reazione era stata la risposta riflessa, spassionata, obiettiva e analitica di un qualunque stratega preoccupato dall'improvvisa emergenza di una minaccia contro la sicurezza generale delle sue forze: Uric, il re dei Pendragon, era morto; chi dunque l'avrebbe sostituito sul campo? E la confusione provocata dalla sua morte in battaglia aveva forse messo a rischio il successo della campagna in Cambria, e messo Camulod in pericolo? Non mi ci era voluto molto, dopo che lo sconvolgimento recato dalla notizia si era attenuato, per rendermi conto che in realtà non era accaduto niente di davvero catastrofico, a parte la sfortunata morte del re. Il messaggio che ricevemmo non parlava né di sconfitta né di distruzione, come sarebbe stato se la morte di Uric avesse influenzato l'esito della battaglia. I Pendragon erano soprattutto guerrieri, e il re era circondato da uomini e capi formidabili, ognuno dei quali era perfettamente capace di assumersi le responsabilità di un superiore caduto. Lot non avrebbe avuto vittoria facile in Cambria per la morte di un comandante, nemmeno del re. La sua guerra insidiosa, infatti, sarebbe stata molto più difficile e molto meno semplice da condurre, adesso che - e la comprensione improvvisa e tardiva della realtà mi fece rizzare i capelli sulla nuca - mio cugino Uther era il re dei Pendragon. Uther accolse la notizia tutt'altro che bene, e il fatto mi sorprese. Crollò, colpito dal dolore più duramente di quanto mi sarei mai aspettato, e mi commosse profondamente intuire che il suo dolore nasceva da un amore intenso e ovviamente sincero per il padre, da un affetto di cui non avevo mai sospettato l'esistenza. Questa rivelazione ebbe su di me un effetto notevole, e mi obbligò a una nuova e drastica vantazione dell'uomo che era stato mio zio Uric, e che non mi aveva mai, sinceramente, molto impressionato. Era il primogenito di mio zio Ullic, e quindi mio primo cugino, il nipote di mia madre, che era stata la sorella minore di Ullic. Tra tutti i personaggi forti ed energici che componevano la nostra famiglia - e molti erano di proporzioni verosimilmente sovrumane - Uric, pur essendo re, era stato il meno rimarchevole, adombrato, almeno ai miei occhi, dagli altri parenti. Ed ecco che Uther, il mio feroce, intrattabile cugino, piangeva spudoratamente sulla morte di suo padre, come io, che pure avevo amato mio padre profondamente, non ero stato capace. Spinto dal senso di colpa, e dal desiderio di riesaminare la vita di questo zio che evidentemente non avevo conosciuto affatto, tentai in numerose occasioni di convincere Uther a parlarmi di suo padre. Non ebbi il benché minimo successo fino a quando, un pomeriggio di parecchi giorni dopo la notizia, ci trovammo insieme da soli nell'Armeria di zio Varro. Avevamo discusso i progetti di Uther. Era in procinto di partire per il suo regno montano, per rivendicare la sua eredità e vedere che tutto fosse in ordine. Aveva poi intenzione di reclutare un po' di uomini e di condurre una campagna di rappresaglia contro Lot. Ci eravamo appena accordati per aumentare le sue forze con un contingente di fanteria e cavalleria fornito da Camulod. I soldati di Camulod avrebbero marciato sotto il comando nominale di uno dei nostri comandanti più giovani, un brillante giovane cavaliere celtico di nome Gwynn, fino a quando non si fossero uniti a Uther. Ero seduto al vecchio scrittoio di zio Varro vicino alla finestra aperta, e Uther si era appena alzato dal bracciolo di un grande divano appoggiato alla parete. Stava per uscire, aveva già aperto i pesanti battenti, e io avevo espresso un commento, o forse gli avevo chiesto qualcosa che riguardava suo padre. Non ricordo che cosa dissi, ma Uther si girò di scatto a guardarmi, in preda a una collera improvvisa, e per un attimo pensai che mi avrebbe aggredito. Si bloccò, invece, facendo un visibile sforzo per trattenere le parole che gli erano salite alle labbra, e infine, dopo avere riacquistato il controllo di se stesso, mi sorrise in modo strano - un sorriso tirato, breve, dispiaciuto - e scosse la testa, e fece per andarsene. «No!» esplosi. «Fermati dove sei. Facciamola finita.» Si fermò e si girò di nuovo, con occhi guardinghi, senza alcuna traccia della repentina ostilità che mi aveva mostrato. «Allora?» chiese. Mi schiarii la voce, improvvisamente a corto di parole, e poi gli posi una domanda diretta. «Che cos'era tutta quella scena? Che cosa stavi per dire?» Mi fissò, e il mio cuore batté parecchi battiti prima che socchiudesse piano gli occhi con un sospiro brusco e insofferente, e si girasse un'altra volta per andarsene; ma poi cambiò idea, e mi affrontò. «No, dannazione» disse. «É tempo che qualcuno te lo dica.» «Mi dica che cosa?» chiesi. Lo vidi esitare, cercare nella mente le parole giuste. Tornò sui suoi passi e si sedette sul bracciolo del divano, puntando gli occhi nei miei come per inchiodarmi al mio posto. «Cai» disse finalmente con un tono di voce basso ma che non avrebbe tollerato interruzioni. «Sei un ragazzo simpatico. Sei un buon amico e sai essere un compagno piacevole, ma qualche volta mi dai anche il voltastomaco. E hai sempre ragione. Ti rendi conto, Cai? Ti rendi conto di quanto ciò sia prevedibile, e irritante? Hai sempre ragione! Sei sempre così... così corretto, così decoroso, così opportuno, così cortese, e sai sempre che cosa dire per ogni occasione, e va tutto bene, ma ci sono cose al mondo di cui non sai assolutamente nulla!» Si fermò, trasse un molto deliberato respiro ignorando la mia espressione esterrefatta, e continuò. «I giudizi, per esempio. Parliamo un po' dei giudizi. Tu sei un ottimo giudice, Cai... O forse sarebbe più esatto dire che sei un grande giudicatore! Trovi facile esprimere giudizi praticamente su tutto e su tutti, giudizi basati sull'importanza che hanno cose e persone secondo i tuoi personali valori, e prestazioni e rendimenti secondo i tuoi criteri.» Me ne stavo a occhi sbarrati, sbalordito da tanta imprevista eloquenza, così insolita per un uomo che consideravo generalmente appena in grado di esprimersi. Mi sentivo ferito nei sentimenti e nell'orgoglio, ma non avevo ancora avuto il tempo di comprendere l'aggressività di Uther. Il tiranno che era dentro di me mi diceva che la sua era una reazione eccessiva a qualcosa, ovviamente a qualcosa che io avevo detto, Ma che cosa avevo detto? Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente come lampi, Uther incalzò senza posa. «E c'è un'altra cosa. Tu hai stabilito dei criteri per tutto - per ogni concepibile circostanza sotto il sole o la luna - e perciò non ti manca mai un parametro per nessuno dei tuoi giudizi...» Feci per interrompere la sua diatriba, ma mi gridò di tacere, che era tempo che ascoltassi qualche spiacevole verità. Tacqui. «Stavo parlando dei tuoi giudizi e non avevo finito. Tu emetti giudizi in continuazione, Cai, e il lato più spaventoso della faccenda è che non credo che tu ne sia consapevole. Nel tuo mondo tutto deve essere bianco o nero. Tutto deve rientrare in una categoria, e solo tu hai il diritto di designare le categorie. L'hai fatto con me, per quella stupida Cassandra, o comunque si chiamasse. Qualcuno l'ha picchiata. Tu hai deciso che ero stato io perché ero arrabbiato con lei, arrabbiato e desideroso di vendetta, e perciò hai emesso un verdetto di colpevolezza! E mio padre. Hai giudicato anche lui, e l'hai giudicato carente. Tu l'hai giudicato una nullità. Non interrompermi!» sibilò quando accennai a parlare e, sconcertato dalla sua veemenza, tacqui ancora una volta. «So che mio padre non era come Publio Varro, e certamente non era come Caio Britannico... E lo sapeva anche lui. Non era nemmeno un uomo come Ullic Pendragon. Ma per il Dio vivente, era un Pendragon ed era un re, ed era un brav'uomo, un padre gentile e premuroso che amava i suoi figli e non aveva paura di mostrare il suo amore, nemmeno quando i suoi figli erano cresciuti...» La voce gli si spezzò, e divenne più pacata. «Non ho mai trascorso molto tempo con mio padre, Cai, ma il tempo che ho trascorso con lui è stato forse il tempo migliore della mia vita. Con mio padre potevo parlare come non avrei mai potuto con te, e con nessun altro. Talvolta non avevamo nemmeno bisogno di parlare. Eravamo felici semplicemente perché eravamo insieme...» Le sue parole si spensero, e ormai non avevo più la minima intenzione di interromperlo. Infine continuò, e la sua rabbia riprese forza. «Guardati! Sei sorpreso che io sia in grado di provare dolore o amore, non è vero? So che sei sorpreso, perché per anni mi hai giudicato degenerato, litigioso, un soldato e un selvaggio, con poca della tua istruzione e meno della tua raffinatezza. I miei soli interessi, secondo te, sono il vino, le donne, i cavalli e la guerra, non è così? Certo che è così. Lo so!» Smise di colpo di parlare e mi osservò, con serietà. «Ebbene ascoltami, cugino Caio. Io amavo mio padre, Uric il re, Uric Pendragon. E voglio che i miei figli dicano la stessa cosa di me, quando morirò. Voglio che dicano, con orgoglio: "Io amavo mio padre, Uther il re!". Se io ho ragione, e il tuo giudizio di me è sbagliato, ricordatene. Non sarà la prima volta che il tuo giudizio si è rivelato scorretto agli occhi degli altri. E tuttavia sbagliare non è peccato, cugino. Fino a quando sappiamo ammettere i nostri errori. Lo abbiamo imparato tanto tempo fa, tu e io, dal vecchio vescovo Alarico. La tendenza all'errore è ciò che ci rende tutti umani, ma solo la compassione innalza un uomo oltre il suo essere solamente umano.» Fece alcuni istanti di pausa prima di aggiungere, in tono più riflessivo: «Hai bisogno di maggiore compassione, Cai, e ciò significa che devi cercare di essere più umano. Impara a manifestare la disponibilità a commettere degli errori... se puoi. Forse allora troverai, nell'intimo del tuo cuore, un po' di tolleranza. Provaci, cugino. Diventerai migliore, credimi». E così dicendo si alzò e uscì a lunghi passi dalla stanza, lasciandomi temporaneamente incapace di pensare eppure con molte cose da pensare. La stima di me stesso vacillava sotto l'urto di un attacco tanto brutale e inatteso. Mi dissi che era sconvolto; che la morte di suo padre doveva avergli tolto il senno, fatto dire cose che non pensava e alle quali non credeva. Ma nel momento stesso in cui la mia mente formulava questi concetti, vidi in essi la menzogna. Uther aveva detto quello che aveva detto perché ci credeva. Mi considerava un saccente ipocritamente virtuoso, sdegnoso di qualsiasi cosa che non recasse la mia personale autorizzazione. Riteneva che il mio atteggiamento verso di lui e verso suo padre fosse di condiscendenza, condanna e disapprovazione. Uno spasmo minuscolo e appena percettibile di riconoscimento, sepolto negli infimi meandri della mia coscienza, mi raggelò. E mentre lo contemplavo, il gelo crebbe, facendomi accapponare la pelle, facendomi inorridire nella percezione, e nell'ammissione, del fatto che mio cugino aveva ragione. Davanti a una tale intuizione, anche se forse solo sospettata, non potevo procedere oltre senza affrontarla totalmente, e così, in assoluta ignoranza, mi accinsi a quella che in seguito - spesso con mestizia e a volte con amarezza - dovetti riconoscere come una delle maggiori follie di una vita talora apparentemente annegata nella follia: mi accinsi a quel compito senza rivolgere un solo pensiero alla sua enormità. Mi ripromisi di decomporre qualsiasi cosa che costituiva me stesso, di dividerlo in segmenti a me stesso comprensibili, di giungere a una completa conoscenza di me stesso e di scoprire ciò che veramente credevo e come veramente mi comportavo nei confronti delle persone che mi circondavano e della vita che con esse spartivo. Rammento l'ignoranza acerba e arrogante con cui mi disposi quel giorno a quel compito, la sciocca millanteria con cui presumevo di poter sondare le profondità del mio carattere nello spazio di un giorno o due, e di saper cambiare me stesso per il meglio e per sempre! Ero abissalmente inconsapevole di essere sul punto di affrontare il compito di tutta una vita, un processo straziante e doloroso che, una volta incominciato, sarebbe stato impossibile abbandonare o anche solo trascurare. Ho udito uomini altrimenti ritenuti saggi dire che è impossibile per un uomo mentire a se stesso. Di tutte le umane affermazioni, credo che questa rientri tra le più insulse. Mentiamo a noi stessi costantemente, cercando di essere all'altezza delle nostre aspettative. L'illusione è probabilmente la più comune di tutte le caratteristiche umane. Se nella mia vita ho ottenuto una briciola di saggezza, è la saggezza di ringraziare Dio di avermi tenuto troppo impegnato in quei giorni per meditare a fondo sulla ricerca della conoscenza di sé. Dovevo essere insopportabile, perché non appena iniziai a discernere la mole di lavoro e di dedizione necessari per affrontare adeguatamente tale ricerca, sentii un impellente bisogno di discuterne con chiunque fosse disposto ad ascoltare. Capii quasi immediatamente che la tentazione verso l'illusione è enorme. Capii anche quanto sarebbe stato facile decidere che la mia interpretazione di me stesso era corretta, perché io mi conoscevo meglio e più intimamente di chiunque altro. Per fortuna Meric il druido, mio antico insegnante e mentore, venne a trovarci a Camulod proprio in quel periodo. Meric amava la discussione, la polemica e il dibattito filosofico, e insieme trascorremmo giorni interi immersi in conversazione. Tutti furono tristi quando partì dopo solo poche settimane, lasciandoli di nuovo vulnerabili a me e alla mia agonia. Quando vedevo quello sguardo velato dall'odio che avevo imparato a riconoscere, abbandonavo furtivamente un ennesimo riluttante ascoltatore e fuggivo dal mio amore nella sua valle segreta, sapendo che a lei potevo parlare per ore e ore, se così desideravo, e che qualsiasi fosse l'argomento lei sarebbe rimasta lì seduta nel suo mondo senza parole e senza suoni, soddisfatta di avermi accanto. Decisi infine che la valutazione che Uther aveva fatto di me era esatta, e mi disposi a cambiare me stesso in innumerevoli modi, uno dei quali consisteva nell'eliminazione della mia tendenza al giudizio. Riflettei intensamente e a lungo, su ciò che mio padre mi aveva detto solo pochi mesi prima sui giudizi avventati, e sulle prove, le circostanze, e il valore del ragionevole dubbio. E decisi inoltre che era mio dovere conoscere tutti coloro che mi circondavano nel modo più completo e sincero possibile, così che se mai fossi stato tentato di esprimere un giudizio, questo si sarebbe almeno basato sulla conoscenza e sulla comprensione. Era un altro compito che incuteva sgomento e soggezione, ma più mi ci dedicavo e più mi piaceva. Poiché scoprii presto che grazie alla mia nuova linea di condotta le ricompense superavano di molto le tribolazioni. Scoprii che le persone con le quali trascorrevo più tempo erano più amichevoli, più piacevoli e più disposte a fidarsi di me, quando capivano che ero davvero interessato a conoscerle per ciò che erano. E scoprii che molta gente era più degna di ammirazione di quanto sospettassi, e che perciò il rispetto era qualcosa a cui tutti avevano diritto, a meno che non vi rinunciassero autonomamente e volontariamente. Appresi molto sul popolo di Camulod, e sempre più pensavo a esso come al "mio" popolo, ma dovettero passare parecchi mesi prima che avessi l'opportunità e il coraggio di affrontare Uther e di ammettere che aveva ragione, e di chiedere il suo perdono. Quando finalmente ci riuscii, Uther corrugò la fronte in assoluta perplessità, poi comprese di che cosa stavo parlando e sorrise e mi strinse la nuca nella sua grande mano, e disse che da quanto aveva saputo stavo cambiando in fretta - e in meglio - e che per me aveva elevate speranze. Uther se ne andò nel suo regno montano, e io mi sentii libero di trascorrere con la mia adorata Cassandra più tempo, in periodi sempre più lunghi. A Camulod la catena del comando era ormai tale che, se avessi voluto, avrei potuto stare lontano per mesi, certo che durante la mia assenza tutto sarebbe proceduto in pace e giustizia, e che le situazioni di emergenza sarebbero state affrontate con rapidità e competenza, senza alcun bisogno della mia guida. Se non lo feci fu per una serie di circostanze, una delle quali era la recente risoluzione appena descritta. Un'altra era l'autentico piacere che traevo dall'addestramento del giovane Donuil ai doveri che era determinato ad assumere in futuro, un piacere accresciuto dalla perspicacia acuta e intuitiva dimostrata dal giovane, e rafforzato dall'effettiva necessità di accelerare la sua istruzione e di prepararlo un domani a sostituire Tito, Tito era stato molto scosso dalla morte di mio padre, e quasi da un giorno all'altro lo vidi diventare un uomo anziano, lui che come mio padre era sempre parso refrattario al tempo e alle sue leggi. Nella mia passione di effettuare dei cambiamenti dentro di me, trascorsi con lui tanto tempo, specialmente la sera, quando le incombenze quotidiane erano concluse. Durante lunghe e meravigliose serate parlai con lui, ma soprattutto lo ascoltai parlare di mio padre e degli anni che avevano passato insieme. In più di un'occasione fummo raggiunti da Flavio, il terzo membro del triumvirato di mio padre, e ascoltandoli ricordare imparai sull'uomo che era stato mio padre molto più di quanto avessi mai saputo. Una di quelle sere, subito dopo la partenza di Uther, ammorbiditi tutti e tre dal vino, esposi loro nei particolari l'idea del giovane Donuil, e la mia convinzione dell'assennatezza e della validità della sua idea. Quando ebbi finito di parlare tacquero entrambi per un poco. Nessuno dei due azzardò un commento affrettato. Tito parlò per primo; raschiò un po' di catarro dalla gola e disse a Flavio: «Che cosa ne pensi, Flavio?». Flavio si grattò la testa coperta di cortissimi ricci grigi come il ferro e rimase zitto, riflettendo con calma sui pro e i contro dell'inattesa proposta. «Sono sorpreso» confessò infine, «ma non sono contrario.» Continuò a grattarsi, con lo sguardo su di me e i pensieri e l'attenzione rivolti all'interno. «È un giovanotto imponente, e credo che tu debba seguire il tuo istinto, Cai. Allenta le redini e vedi come si comporta. Potrebbe deluderti, e non lo saprai finché non sarà il momento. Ma chiunque altro tu scelga - e qualcuno dovrai scegliere - potrebbe deluderti, e maggiormente anche. Tu vuoi mettere alla prova il ragazzo. E allora fallo, dico io, e buona fortuna a tutti e due. Avrai bisogno di qualcuno. Adesso non c'è nessuno qualificato per quel compito, e prima o poi dovrai mettere al pascolo noi due vecchi cavalli da guerra.» Tito si alzò in piedi, come se volesse discutere l'ultima affermazione, poi sospirò e si accasciò di nuovo sulla sedia. «Flavio ha ragione, Cai» disse. «Il momento è quello giusto. E credo che tu voglia fare la cosa giusta, anche se il ragazzo ha molto da imparare. Fortunatamente impara bene e in fretta. Lo si vede subito da come ha appreso la nostra lingua, Dovresti preparare per lui un programma ordinato e ufficiale: tanto tempo con Rufio, a imparare le tecniche militari fondamentali, tanto tempo con te, a conoscere le tue necessità, e il resto con me, per comprendere e controllare le cose che fanno funzionare questa Colonia.» Si mise più comodo e mi sorrise. «Sarò felice di insegnargli quel poco che so. Gli mostrerò anche come infrangere e manipolare le regole secondo le quali dovrà vivere. Mandalo da me domani, prima di mezzogiorno. Cercherò di conoscerlo meglio nel corso delle prossime settimane. Così potrò valutare la durata e l'estensione della sua imminente istruzione.» Profondamente commosso dal loro sostegno e dalla loro empatia, li ringraziai entrambi, e la conversazione passò ad altri argomenti. Ma il dado era tratto, per il mio futuro aiutante. XXVIII. Nei giorni che seguirono la morte di mio padre, Avalon divenne il mio santuario. La rustica capanna della quale all'inizio eravamo così felici non era più così rustica. Ogni volta che avevo fatto visita a Cassandra, dai primissimi giorni della sua permanenza, avevo apportato alla piccola costruzione qualche miglioramento, e spesso avevo con me qualcosa per renderla più confortevole, e impenetrabile dalle intemperie. Adesso era calda e accogliente, quasi lussuosa sotto certi aspetti, anche se pur sempre piccola. Tutte le volte che arrivavo lì mi lasciavo il mondo alle spalle, e scendendo il sentiero ripido e tortuoso che mi conduceva tra le sue braccia perdevo ogni cognizione dei problemi temporali. Da tempo avevo rinunciato a tentare di convincerla a uscire dalla valle e a tornare con me a Camulod. Ci avevo provato infinite volte: ormai riconosceva i miei tentativi all'istante, e non si spingeva nemmeno più su per il sentiero verso la collina. Non mi sforzai seriamente di farle capire che il suo ritorno per me era importante. In realtà ero contento di tenerla lì, tutta per me, senza condividerla con nessuno, di sapere che era pronta a darmi conforto ogniqualvolta a Camulod la vita diventava troppo opprimente. A lungo però dopo gli eventi connessi alla morte di mio padre, a Camulod la vita era rimasta tranquilla, piacevole e pacifica. Gli sconvolgimenti causati dall'invasione di Lot, o dall'invasione di Caspar e Memnone, presto si spensero e vennero archiviati nella memoria, e la vita riprese il suo normale andamento. L'educazione di Donuil ai nostri usi «cedeva con una celerità che ci sorprendeva e gratificava Venne rapidamente accettato dall'intera guarnigione grazie al centurione Rufio, che sotto le nuove responsabilità era rifiorito - e dagli stessi coloni, e tra di noi cresceva una costante amicizia, favorita dal carattere e dalla disposizione di entrambi. L'estate si dissolse nell'autunno con uno splendido raccolto, e avanzò lentamente in un altro mite inverno e in una luminosa primavera. Le minacce dall'esterno sembravano svanite, ma le pattuglie andavano e venivano regolarmente, e i custodi militari della pace non allentavano certo la vigilanza. In primavera, gli onnipresenti vescovi di zia Luceia portarono una notizia di ben altro genere, da Roma. Seppi la notizia nella primavera del nuovo anno, di ritorno da una delle mie frequenti visite di tre giorni a Cassandra, quando zia Luceia mi convocò alla sua presenza. La trovai di un buonumore insolitamente eccessivo anche per lei. Mi informò che, adesso che la primavera era arrivata, aveva intenzione di tornare con me ad Avalon - fu lei a usare quel nome - per conoscere la mia Cassandra e convincerla a tornare con noi e a condurre una vita civile a Camulod, dove io e lei saremmo stati uniti in matrimonio. Mi ritrovai senza parole, e immediatamente in guerra con me stesso. Una parte di me intuiva il buon senso della sua proposta, ma un'altra parte, forse più forte, non era affatto disposta a rinunciare alla felicità privata che avevo conosciuto con Cassandra nella nostra piccola valle. Zia Luceia però non tollerava obiezioni, e quando finalmente riuscii a inserire poche parole nel suo animato monologo, riconobbi che sarebbe stato meraviglioso, almeno, che lei incontrasse la mia amata. Le chiesi poi, pur senza un reale interesse, di essere più specifica sulla sua "notizia" da Roma, notizia della quale non sapevo assolutamente nulla. Scandalizzata, inarcò lievemente un sopracciglio. «Che cosa significa, che non ne sai assolutamente nulla? Lo sanno tutti!» Scrollai il capo. «Perdonami, zietta, ma che cosa sanno tutti?» Era decisamente stupefatta. «Ma come, tutti sanno di Germano.» «Chiedo venia.» «Germano. La notizia è Germano.» «Capisco. Di quale Germano parli?» Corrugò la fronte in una fugace espressione di impazienza. «Del generale Germano, l'amico di tuo padre, il legato che servì con lui in Asia Minore sotto Stilicone. Adesso è vescovo di Auxerre.» Alzai una mano a invocare pazienza per la mia perfetta confusione. «Ti prego, zietta, perdonami. Sono stato via per un poco, e tutto ciò è avvenuto in mia assenza. Il generale Germano è il vescovo di Auxerre, in Gallia?» «Esatto.» Scrollai ancora il capo, sempre più confuso. «Ma come può essere? Come può un legato essere un vescovo?» Mia zia arricciò eloquentemente il naso. «È facile. Germano si è ritirato dalle Legioni, come è giusto che facciano tutti a un certo momento della loro vita, e si è fatto prete, cosa che invece fanno pochi legati, o soldati che siano. Sembra che sia sempre stato un uomo dai pensieri profondi, e adesso è vescovo di Auxerre, e teologo molto rispettato, secondo i resoconti che ho ricevuto.» «Dai tuoi vescovi, naturalmente.» «Sì.» Zia Luceia era inconsapevole della mia ironia. «Capisco. E cos'altro ti hanno detto i tuoi vescovi?» Si inalberò come un pony orgoglioso e mi rispose indignata, con condiscendenza, come se stesse spiegando un'ovvietà a una persona già bene informata. «Che, malgrado gli insegnamenti di Pelagio siano condannati come pervicacemente equivoci, noi popolo di Britannia aderiamo ancora a essi.» «Ma l'abbiamo sempre fatto, zietta, e l'abbiamo sempre saputo. Che cosa c'è di tanto nuovo?» Luceia raddrizzò ancora di più le spalle. «La novità, nipote, sta nel fatto che tra i nostri vescovi in Britannia c'è una guerra religiosa dichiarata. Non tutti sono seguaci di Pelagio. Ce ne sono molti che aderiscono agli insegnamenti di Agostino di Ippona e ai poteri gerarchici degli ecclesiastici di Roma. Questi vescovi, che si definiscono Vescovi ortodossi di Britannia, hanno scritto a Papa Celestino, pregandolo di intercedere per loro in questo paese.» Fece una pausa, e continuò. «Pelagio è morto. È morto l'anno scorso in Palestina. È morto scomunicato.» «Come mai? Papa Innocenzo l'aveva assolto!» «No» mi corresse, «Innocenzo l'aveva scomunicato. É stato Zosimo, il successore di Innocenzo, ad assolvere Pelagio, undici anni fa. Ma l'assoluzione ebbe vita breve. Zosimo cambiò idea e decreto l'anno seguente, sotto pressione dei vescovi uniti al Concilio di Cartagine. Pelagio ha vissuto da apostata i suoi ultimi dieci anni.» «Dimostrando così la validità delle sue convinzioni. Come può essere cristiana una condanna così totale? Mi sembrava di aver capito che nessun peccato è troppo grande per essere perdonato. E i suoi seguaci?» «Siamo stati dichiarati tutti eretici, anche se non siamo stati effettivamente scomunicati. I Padri della Chiesa di Roma ritengono che siamo stati fuorviati per molti anni, sedotti non per nostra colpa dalla retta via degli insegnamenti della Chiesa. Adesso desiderano che ci sottomettiamo spontaneamente alla volontà e agli insegnamenti di Roma. Il Santo Padre, Papa Celestino, manderà qui in Britannia Germano di Auxerre, il vescovo guerriero, per discutere la questione del pelagianismo - così chiamano le nostre convinzioni contrapposte alla loro "ortodossia" - con i nostri vescovi, nel grande teatro di Verulamium.» Aveva tutta la mia attenzione. Era quello che mio padre aveva auspicato nel corso del suo confronto con i preti zeloti. «Un dibattito, vuoi dire? Un dibattito pubblico? Quando, zietta? Quando avrà luogo?» Mi guardò con occhi penetranti, cogliendo nella mia voce un interesse improvviso. «A settembre, sei mesi da oggi, ma perché vuoi saperlo? Non penserai di andare ad assistere, vero?» Il suo tono mi fece sorridere. «Perché no? Ti sorprenderebbe molto se mostrassi un minimo di interesse?» «Nelle questioni della Chiesa? Tu?» mi schernì. «Mio caro ragazzo, se mai ho nutrito delle speranze nella tua salvezza, sono morte da tempo. Sei mio nipote, e ti voglio bene, ma sei uno scandaloso libertino.» Rise forte. «E non posso immaginare che tu vada da qui a Verulamium per un dibattito tra vescovi, come non potrei immaginare il mio Publio, che Dio lo abbia in gloria, impegnato a guadagnarsi da vivere pescando.» Risi con lei. «Perché no, zietta? Se Publio Varro avesse deciso di fare il pescatore, le barche gli sarebbero affondate sotto i piedi per il troppo peso del pesce pescato. Seriamente, zietta, penso che sarebbe irresponsabile da parte mia non assistere al dibattito, se potessi organizzare di andarci.» «Irresponsabile, Cai?» Aveva notato il mio cambiamento di umore, e si era adagiata nella poltrona per studiarmi più attentamente, strizzando appena gli occhi nel tentativo di decifrare la mia espressione. «Perché irresponsabile? È una parola di gran peso.» «È una faccenda di gran peso, zietta.» «Davvero? Ebbene, lo confesso. Di gran peso e profondità. Io lo so, ma mi stupisce che lo riconosca anche tu.» Feci una smorfia. «Sono così prevedibile? É così semplice accusarmi di superficialità?» «No, che Dio mi perdoni se ti ho dato questa impressione, Caio. Sono solo... stupita, ecco tutto. Lo ammetterai, di non avere mai mostrato prima il minimo interesse in questo genere di cose?» «Di buon grado. Ma la gente cambia, zietta, e suppongo di stare cambiando...» Feci silenzio, e zia Luceia mi diede il tempo di raccogliere i miei pensieri. «Ho riflettuto molto su mio padre, e su ciò che rappresentava, e non credo di avere mai visto in vita mia niente di più elegante, niente di più opportuno, dignitoso e decoroso, del modo in cui quel giorno nel Consiglio sfidò e respinse quei preti odiosi, prima di espellerli dalla Colonia. E tuttavia, malgrado l'ammirazione per l'atteggiamento di mio padre e per la sua argomentazione assennata, per non parlare del suo autocontrollo - non credo che avrei potuto mandare giù l'offesa che sopportò lui - penso anche agli effetti a lungo termine che ebbero le sue azioni di quel giorno. Non è ancora stata detta l'ultima parola sulla faccenda, e mio padre non è più qui per gestire le ripercussioni. Ma qualcuno dovrà farlo, e credo che dovrò farlo io. Onestamente, zietta, non so se potrò affrontare un simile compito. Non ho la certezza morale, la lungimiranza dell'esperienza, l'autorità e il giudizio moderato che aveva mio padre.» Feci un'altra pausa come di fronte a terra vergine da dissodare, e per esprimere nuovi pensieri cercai parole nuove, e in quel breve spazio di tempo notai l'espressione di mia zia. «A che cosa stai pensando? Ti sembro arrogante?» Sorrise, scuotendo leggermente il capo. «No, tutt'altro. Sono estasiata, ma non voglio interrompere il corso dei tuoi pensieri. Vai avanti, Caio, per favore. Esponimi i tuoi pensieri, e non preoccuparti dei miei.» Impacciato, confessai il mio sconcerto. «Ti prego di capire, zietta, che sono sorpreso quanto te delle cose che dico. Non ho mai dato voce a questi pensieri, prima di oggi. Erano nella mia mente, è vero, ma non ne sono mai stato realmente consapevole, altro che di sfuggita. Non avevano urgenza di uscire, se capisci che cosa intendo...» Il mio cervello vorticava, i pensieri si accavallavano più rapidamente di quanto potessi ordinarli, e Luceia taceva, sapendo che avevo bisogno di orecchie comprensive che ascoltassero i miei pensieri, piuttosto che di parole che li interrompessero. Procedetti incerto. «Il vescovo Alarico era tuo amico, zietta. Tu gli volevi bene e lo ammiravi. E così anche nonno Cai e zio Varro, e tutti quelli che lo conoscevano. Io sono stato cresciuto secondo i suoi insegnamenti e, pur non avendolo conosciuto personalmente, so che era un uomo semplice e pio, che viveva nell'amore del Cristo, e che la sua condotta era irreprensibile. Tutto questo so, come so che la sua intera esistenza era dedicata alla diffusione della Chiesa, la Chiesa di Cristo. Eppure eccoci qui, oggi, tutti noi in Britannia, condannati e scomunicati a causa di ciò che insegnava e di ciò in cui credeva, nonostante tutta la sua devozione. Sono disorientato. Qual era il suo peccato? Di quale grave offesa contro Dio era colpevole Alarico? Ha sposato la causa di Pelagio, secondo cui l'uomo possiede un'elevatezza d'animo che si ispira e procede da Dio, proprio perché l'uomo è stato fatto a immagine di Dio!» La frustrazione minacciava di travolgermi, e così respirai a fondo più volte prima di continuare. «La mia salvezza eterna può dipendere da questo, ma non posso accettare che la premessa sia essenzialmente falsa. Dio ha creato l'uomo a Sua immagine e somiglianza. Questi sono i dogmi fondamentali della Chiesa! E se ciò è vero, allora nell'uomo, nella sua natura, c'è un elemento divino. Ma adesso degli uomini, gli uomini che governano la Chiesa di Dio a Roma, hanno deciso che il loro sistema, la loro definizione, la loro interpretazione della volontà di Dio, è più corretta delle opinioni di Pelagio, o di Alarico, o di qualunque altro vescovo britanno che ammiri le idee di Pelagio. E per far sì che ognuno si adegui al loro sistema, ci minacciano minacciano tutto questo paese - di dannazione eterna! Puah! È disgustoso!» Il volto di zia Luceia era completamente privo di espressione, e non rivelava né censura né plauso, perciò continuai con maggiore foga. «È così, io penso... No, io credo, io sono convinto che questo dibattito di cui parli sarà nel suo genere l'avvenimento più importante nella storia di questo paese. Germano è un soldato, e per essere stato un legato e un amico di mio padre deve essere stato un buon soldato. Ne consegue logicamente che sia un pragmatista. Non posso immaginare che sia uno zelota del tipo dei nuovi chierici romani. E per lo stesso motivo deve possedere una mente formidabile, allenata nella logica e nella teologia così come nella strategia e nella tattica militare. Deve essere un contestatore feroce, un accusatore. Non verrebbe qui, altrimenti. Questo dibattito, zietta, sarà l'arena nella quale le idee e i valori, e il merito del vescovo Alarico, di Caio Britannico, di Publio Varro, di Pico Britannico e di tutti i loro pari, verranno difese e assolte, oppure attaccate, vilipese, condannate e proscritte. I Britanni pelagiani contro i Romani ortodossi. Eresia contro dogma...» Mi interruppi, sopraffatto dalla rilevanza del mio discorso. «Devo andare, zietta. A Verulamium. Devo esserci, devo assistere all'incontro, perché dopo questo evento, in questo quattrocentoventinovesimo anno di Nostro Signore, qualsiasi sia il risultato, la vita in Britannia non sarà più la stessa. In questo dibattito verrà processata tutta la nostra terra, e la gente che ci vive, non solo per la loro vita, ma per la loro anima eterna.» Il silenzio tra noi fu lungo e profondo. Mi afflosciai sulla sedia, come se fossi stato coinvolto in uno sforzo fisico accanito ed estenuante. Poi mia zia prese un mazzuolo e percosse il piatto metallico sul tavolo accanto alla sua sedia. La governante apparve immediatamente. «Marta, porta del vino per mio nipote. Quello fresco e frizzante della Gallia. Prendine un orcio nuovo in ghiacciaia.» Quando Marta se ne fu andata, chiesi: «Perché non hai servitori uomini, zietta? Non sei affetta da misantropia». Sorrise. «No, preferisco semplicemente avere intorno delle donne. Ho vissuto abbastanza a lungo in un mondo dominato dagli uomini. Le donne hanno valori differenti, Caio, con i quali mi identifico più facilmente, adesso che sono vecchia.» Meditò per un momento. «Vorrei che tuo padre fosse stato qui ad ascoltarti oggi. Sarebbe stato molto fiero.» «Lo credi davvero? Grazie, zietta.» «Ora stai zitto e lasciami pensare.» Rimanemmo seduti in amichevole silenzio finché Marta non ritornò con il vino, delizioso e ghiacciato, mi servì e se ne andò di nuovo. Allora mia zia disse: «Naturalmente devi andare. Avevo intenzione di andare io stessa, ma sono troppo vecchia e Verulamium è troppo lontana. Tu farai le mie veci. Ma che cosa ne sarà della tua Cassandra? Starai via per mesi». «La porterò con me. Sarà un'esperienza meravigliosa, per lei.» «Tutta quella strada? E viaggerete da soli? Solo voi due? Attraverso tutta la Britannia?» «Beh, no, non da soli, sarebbe come andare in cerca di guai. Ma con una piccola comitiva, quanto basta per essere sicuri.» «Da che cosa? Un incontro con un equipaggio di predatori sassoni?» «Che cosa suggerisci, zietta?» Abbassò lo sguardo e giocherellò con una piega della gonna, e tenendo gli occhi bassi disse: «Forse interferisco ancora una volta in faccende da uomini, ma tu stesso hai detto che questo dibattito sarà - potrà essere - l'avvenimento più importante nella storia di Britannia. Non pensi che lo stile e la sostanza della tua partecipazione, come emissario di questa regione occidentale, dovrebbe essere sufficiente a comprovare il fatto che qui esiste una significativa presenza cristiana?». «Che cosa? Vuoi dire...?» Lasciai che il suo tacito suggerimento filtrasse attraverso le nubi che mi ottenebravano la mente, e infine dovetti sorridere, e scuotere ammirato la testa. «Sai, se tendo a dimenticare che sei la sorella di Caio Britannico, e che per decenni sei stata sposata a Publio Varro, tu trovi sempre il modo di ricordarmelo. Sei geniale, zietta. E hai ragione, inutile dirlo. Camulod dovrebbe presenziare al dibattito in pompa magna. Ne discuterò con Tito e con Flavio, e sottoporremo immediatamente la questione al Consiglio.» «Bene. Pensavo che l'avresti fatto.» Sorrise. «Non appena ci fossi arrivato, naturalmente. Domani cavalcheremo assieme fino alla tua Avalon, solo noi due. Il tempo è splendido, e ho bisogno di respirare l'aria fresca della primavera. É tempo ormai che io conosca e apprezzi la tua piccola sacerdotessa.» Libro Quarto RE XXIX. «Il chirurgo anziano, comandante.» Seguii con lo sguardo il dito puntato di Donuil, fino al punto in cui Lucano si stava inerpicando su per la collina. Cavalcava scomodamente chino in avanti, osservando gli zoccoli del suo cavallo che avanzava cauto tra le pietre e i massi sparsi lungo il pendio. Era solo a metà strada e arrancava pietosamente; sorrisi a quella vista, rammentando un commento scritto molti anni prima da Publio Varro, che si lamentava del grande disagio di stare a cavallo. «Il buon Lucano è un brillante chirurgo e un medico in gamba, Donuil, ma non è un cavaliere. Tu e lui insieme dovete essere il peggiore esempio della nostra forza militare che un nemico possa vedere.» Donuil mi sorrise, imperterrito. «Ah, ma noi non siamo la vostra forza militare, comandante. Un chirurgo non dovrà mai praticare la sua chirurgia dal dorso di un cavallo, e il suo talento non soffrirà perché sulla groppa di un animale non gode di sufficiente benessere. Io, invece, essendo una creatura naturalmente vivace, miglioro quotidianamente malgrado - lo ammetterai tu stesso - le circostanze più infauste. La mia stessa razza mi impone di superare una legge naturale. Se gli dei avessero voluto che noi Gaeli andassimo a cavallo, avrebbero riempito di cavalli tutta l'Eire.» Non gli risposi. Ero troppo occupato a scrutare il prato sottostante. Eravamo in procinto di montare il nostro primo campo lungo il percorso, e mi ero arrampicato su quella collina per esaminare il luogo che avevo scelto, sperando che fosse ideale come sembrava dal basso. Ero più che soddisfatto. «È perfetto» dissi. «Ora, voglio che il campo sia disposto laggiù come se fossimo sulla pianura di fronte a Camulod. Quattro aree identiche orientate a nord e a sud, una per ogni squadrone, i carri di commissariato e delle provviste nel mezzo, e le cavalcature di riserva qui davanti, più vicino alla strada. Mi segui?» Annuì, e io, per sola risposta, alzai un sopracciglio. Arrossì, allora, e annuì ancora, salutandomi con il pugno chiuso. «Perdonami. Sì, comandante. Quattro aree separate, come a Camulod, una per ogni squadrone, il commissariato in mezzo e i cavalli in più davanti, a sud, tra il campo e la strada per sicurezza.» «Così va meglio. Informa per favore i comandanti degli squadroni.» Salutò ancora e scese la collina con prudenza, anche se non con la stessa goffaggine di Lucano, che oltrepassò con un cenno del capo rapido e distratto. Sorrisi vedendolo allontanarsi a cavallo, compiaciuto per la sua capacità di apprendimento. Sottomettersi al genere di disciplina che gli stavo imponendo era contrario a tutto il suo addestramento e all'ambiente in cui era cresciuto in Ibernia, ma se la cavava e scendeva volentieri ai necessari compromessi. Lucano si affiancò a me e tirò le redini del suo cavallo, un animale placido, appositamente scelto per lui. Allentò la cinghia dell'elmo, se lo tolse, e con l'incavo del gomito si asciugò il sudore dalla fronte. «Parola mia, Britannico, non capirò mai perché i tuoi uomini insistono a portare l'armatura con questo tempo. Fa abbastanza caldo da fondere la carne!» Sorrisi, ma non mi preoccupai di rispondergli. Essendo chirurgo anziano, lui più di ogni altro comprendeva la necessità militare di essere sempre pronti a ogni evenienza. Mi osservava, aspettando invano che reagissi alla sua provocazione; poi girò il cavallo e guardò giù nella valle. «Sembrano in gamba, eh?» «Sì, Lucano, lo sembrano e devono sembrarlo. E sono in gamba. Sono i migliori. I migliori di Camulod, e potrei scommettere che sono i migliori del mondo.» Tutto il nostro contingente era ormai visibile sulla strada sottostante, e rappresentava una piacevole immagine di correttezza militare. Il primo squadrone, formato dai veterani più esperti, era preceduto dal mio grande stendardo nero e argento - al posto del quale in tempi antichi avrebbe sventolato l'Aquila romana - e dal loro simbolo: uno stendardo cremisi con un cervo bianco dalle grandi corna ramificate. Cavalcavano in colonna, con in testa i comandanti dello squadrone e delle truppe, immediatamente seguiti dai due vessilliferi, e poi dal resto dello squadrone, quattro ranghi affiancati in file di dieci. A cinquanta passi dietro l'ultimo rango avanzava il secondo squadrone, in identica formazione, seguito a sua volta dal carro dell'acqua, un'enorme cisterna cilindrica di quercia impeciata, coricata sul fianco su una piattaforma a ruote trainata da due cavalli. Poi venivano i sei carri di commissariato - enormi, a doppio assale, sostenuti da ampie ruote raggiate di quercia lavorata a mano, cerchiate da fascioni di ferro - ognuno trainato da un tiro di sei cavalli massicci. Dietro ai carri venivano le cavalcature di scorta, abbrancate dai giovani che avrebbero badato solo ai cavalli fino al giorno in cui non si fossero guadagnati la promozione e avessero iniziato l'addestramento come soldati. Dietro alle cavalcature in branco, ben lontani dalla loro polvere e in grado di proteggerle da un attacco alle spalle, venivano il terzo e il quarto squadrone, uguali per dimensioni al primo e al secondo, ma costituiti da soldati meno esperti equilibrati da uomini più anziani e incalliti. Centosettantacinque combattenti in tutto, inclusi gli ufficiali, ed esclusi il personale di commissariato e i mandriani, che portavano il numero totale a poco più di duecento unità. In silenzio li guardammo fermarsi e attendere l'arrivo di Donuil; i comandanti degli squadroni di retroguardia si spostarono in testa alla colonna per incontrarlo. Una serie di sonori comandi si levò nell'aria del tardo pomeriggio, e il primo squadrone ruotò a sinistra e lasciò la strada per il prato boscoso che avevo scelto come luogo per il campo, e si diresse subito verso la zona a esso destinata. Ci volle del tempo perché tutta la carovana si raggruppasse nel posto indicato, ma poi, al comando, smontarono tutti come un sol uomo, e il prato aperto si trasformò in un accampamento per ospitarli durante la prima notte del viaggio verso Verulamium. «Una bella differenza dal vecchio campo fortificato della fanteria» mormorò Lucano. «No, non proprio, se ci pensi, Luca» gli risposi, chiamandolo come mi aveva chiesto personalmente dopo che eravamo diventati amici. «È ancora la stessa disposizione che usavano nei tempi antichi, quattro sezioni e due strade incrociate. L'unica vera differenza è che i muri non sono necessari, sarebbero superflui. I cavalli fanno da muro. Noi ci limitiamo a dividerli in quattro o più gruppi e a fare in modo che i loro cavalieri restino nelle vicinanze. E aumentiamo lo spazio tra gli squadroni perché abbiano la possibilità di fare manovra in caso di attacco. Solo l'aspetto è diverso. La nuova formula funziona esattamente come la vecchia, ed esattamente per la stessa vecchia ragione, una ragione di rado riconosciuta ma sempre rispettata.» Lucano mi guardò di traverso, percependo un tranello. «Oh, davvero? E di che ragione si tratta?» «L'adunata per il rancio, Luca.» Sorridevo, ma ero comunque serio. «Pensaci. Non è solo la disciplina romana. Scavare il fossato e costruire le mura alla fine di ogni giorno di marcia era in origine una effettiva precauzione contro gli attacchi, ma l'abitudine continuò a esistere per secoli dopo che la pace era stata stabilita in tutto l'Impero. Ci fu un periodo - e durò per secoli in cui le probabilità di un attacco contro un accampamento romano dovevano essere di una contro diecimila, eppure la disciplina persistette.» «Va bene» grugnì infine, quando si rese conto che stavo aspettando la sua domanda. «Correrò il rischio. Perché persistette?» «Perché aveva un altro scopo, radicato nella certezza.» Vedevo che pensava di fare da bersaglio per chissà quale mia battuta scherzosa, mi sogguardava cauto e preparava una replica arguta e maliziosa. «No, parlo seriamente. L'unico momento che un legionario aveva per se stesso era alla fine della giornata. Gran parte della puntigliosa tradizione campale romana deriva dal semplice fatto che, dopo una giornata di dura marcia, gli addetti al commissariato avevano bisogno di tempo per preparare la cena senza essere disturbati da uomini affamati senza niente di meglio da fare. E così, per evitare l'inconveniente, l'esercito ha trasformato in una regola la consuetudine di scavare un fossato e costruire una fortificazione al termine di ogni giornata, e di erigere le tende prima di avere il permesso di nutrirsi e di rilassarsi. Ciò dava ai cuochi il tempo di allestire la cena. Adesso i nostri soldati devono togliere la sella, strigliare, dare da bere e da mangiare ai cavalli, pulire e mantenere i finimenti, drizzare le tende e accendere i fuochi, prima di poter mangiare. E ancora una volta i cuochi hanno il tempo di preparare la cena. E durante la marcia la cena è il momento più importante nella vita di un soldato, sia di fanteria sia di cavalleria.» «Immagino di sì.» Lucano era visibilmente impressionato. «Di certo il più vetusto. Un genere di sicurezza che non puoi comprare. E a proposito di comprare» continuò, «hai portato denaro?» Gli sorrisi. «Sì, ne ho portato. Oro. È nel carro del quartiermastro. Perché?» «Perché no? Il resto del mondo lo usa ancora, presumibilmente, e passeremo da Londinium.» L'idea mi fece rinsavire. «É vero, Lucano. Ci passeremo. Mi domando come sarà.» Mi guardò stupefatto. «Che cosa? Londinium? Perché dovresti domandartelo? Ci sei già stato, no?» Feci di no con la testa. «No, mai. Tu sì, suppongo.» «Certamente. Sono stato a Londinium con tuo padre, quando tuo nonno ci ha portato Publio Varro in catene.» «Quando hanno incontrato Stilicone, vuoi dire?» «Sì.» «Ma Luca, è stato anni prima che io nascessi! Sono passati trent'anni da quando Stilicone è tornato a Roma.» «E allora? Che importanza può avere, al di là del fatto che tu sei poco più che un infante e io non sono più giovane come una volta?» Scrollai le spalle. «Credo che in trent'anni potrebbero accadere molte cose in una città, senza l'esercito a mantenere l'ordine.» Liquidò la mia obiezione con leggerezza. «Sciocchezze, Caio. E comunque, l'esercito ci è rimasto per almeno un decennio dopo la partenza di Stilicone. Ehi, stai parlando del centro amministrativo della provincia, non di un casale popolato da contadini insipienti. Le autorità civili si saranno assunte subito le loro responsabilità, quando l'esercito se n'è andato. I curiales e le magistrature locali e i Consigli Regionali erano perfettamente in grado di mantenere l'ordine.» Chinai il capo, ammettendo la mia ignoranza. «Forse hai ragione, e spero che tu abbia ragione. Ma ricordo ciò che disse mio padre sul tentativo di applicare la legge senza il sostegno della forza dell'esercito. Ma lo scopriremo tra pochi giorni. Tre giorni, quattro al massimo, se continuiamo a questo passo.» Avevamo percorso quaranta miglia quel giorno, dirigendoci a nord dalla Colonia verso Aquae Sulis, ma voltando a est all'incrocio tra le due strade principali circa trenta miglia a sud della città. Avremmo trascorso lì la notte, nella prateria accanto alla bassa fortificazione che da secoli era un campo di confine, e nel primo pomeriggio avremmo raggiunto Sorviodunum, la prima città lungo il percorso. Il nostro viaggio ci avrebbe portato verso nord-est via Sorviodunum, la città che i Celti chiamavano Sarum, a Silchester, poi a Pontes, e fino a Londinium. Da là avremmo puntato direttamente a nord verso Verulamium lungo la strada più antica della Britannia. Saremmo ritornati da Alchester, Corinium e Aquae Sulis, completando un rozzo circolo verso Occidente e mostrando la nostra presenza in tutta la regione interna della Britannia meridionale, e mantenendoci ben lontani dalle zone costiere dove girava voce che ci fossero forti concentrazioni di Sassoni barricati. Lucano si rimise l'elmo. «I ragazzi sono attivi» disse indicando la prateria. «Sono su di morale.» Aveva ragione. Il campo stava già prendendo forma. I soldati avevano finito di tirare le corde e stavano legando i cavalli in fila, lasciando tra un animale e l'altro abbastanza spazio perché ogni cavaliere potesse provvedere indisturbato ai bisogni del proprio cavallo. Alcuni ragazzi addetti alla custodia della mandria trasportavano sacchi di avena dai carri di commissariato, mentre altri riempivano la cisterna dal ruscello e distribuivano l'acqua per gli animali. Altri ancora pensavano a legare le cavalcature di riserva nella zona protetta a sud del crocevia interno al campo, nel punto più vicino alla strada. Ogni cavallo portava nelle bisacce il proprio sacco di tela da adattare al muso per il fieno e un secchio di cuoio per l'acqua. Il commissariato era stato sistemato nello spazio centrale, equidistante da ognuno dei quattro squadroni accampati, ed era circondato da spazio sufficiente perché gli uomini potessero sparpagliarsi e mangiare comodamente sull'erba con il bel tempo, oppure spiegarsi rapidamente e ordinatamente in formazione in caso di emergenza. Ricordavo la notte in cui mio padre aveva ideato quella disposizione, badando alla necessità sia di disciplinata procedura sia di adattabile elasticità. Il suo progetto originale riguardava quattro squadroni di quaranta uomini e cavalli. Un numero minore poteva essere organizzato secondo la discrezione di ogni singolo comandante, ma qualsiasi forza maggiore di tre squadroni al completo rischiava di presentare problemi per disposizione, dispersione e disciplina. La nuova formazione campale di mio padre consentiva l'espansione per accogliere qualunque numero di squadroni, e si basava su uno schema a scacchiera, con i comandanti acquartierati tra il primo e il secondo squadrone, e il commissariato tra il terzo e il quarto. Lo vedevo chiaramente prendere forma sotto la nostra postazione in cima alla collina, e nella mia mente lo rivedo ancora oggi. Era una forma che in questa terra era famosa, ma che non si vede ormai da decenni, e che forse non si vedrà mai più. Quella notte giacqui sveglio sulla mia branda, ad ascoltare le voci dei miei uomini raggruppati intorno ai fuochi, e i rumori vari e infiniti del campo. Ero piacevolmente stanco, ma tutt'altro che assonnato, e l'agio e la quiete condussero i miei pensieri a divagare su tutto quello che era accaduto nei pochi mesi trascorsi dalla sera in cui mia zia mi aveva convinto che Camulod doveva presenziare in grande stile al dibattito di Verulamium. Persuaso quindi che il suo consiglio era valido, non procrastinai. Riflettei su ciò che dovevo dire e portai i risultati delle mie delibere alla prima riunione plenaria del Consiglio. Mi parve allora di perorare il mio caso con eloquenza, e infatti convinsi tutti del merito dell'opinione di Luceia. I voti a favore furono unanimi, e iniziammo immediatamente i preparativi. Chiunque ne avesse notizia, dai consiglieri alle reclute, desiderò unirsi all'escursione, ma i criteri che avrebbero governato la spedizione e i suoi partecipanti furono rigorosamente decretati fin dal principio: sarebbe stata una delegazione militare, sotto tutti gli aspetti. L'obiettivo principale, a parte l'evidente scopo di rappresentare l'ansiosa ma unita e autonoma comunità cristiana del lontano ovest, era dimostrare la nostra potenza militare a chiunque avesse occhi per vederla. Per questa ragione, nessun civile in soprannumero avrebbe accompagnato la spedizione. Io solo avrei rappresentato Camulod in qualità di comandante e portavoce. Esattamente per la stessa ragione, sostenuta dal pensiero coerente e illuminato del legato Tito, ogni soldato e ogni ufficiale al seguito avrebbe dovuto guadagnarsi il posto. Dal totale delle forze di Camulod sarebbero stati formati quattro squadroni scelti di cavalleria, e solo i migliori di ciascuna categoria si sarebbero qualificati. Era una giusta regola, che dava l'opportunità a ogni uomo, dalla recluta più inesperta al veterano più incallito, di ambire all'appropriato posto d'onore in uno dei quattro squadroni. Poiché tra gli ufficiali la competizione per l'analogo onore sarebbe stata infra dignitatem, i comandanti di squadrone e di truppa furono scelti in Consiglio, e annunciati con grande pompa. Tito, Flavio e io ci preoccupammo di sottoporre al Consiglio solo i nomi dei nostri comandanti migliori, per essere certi che i prescelti sarebbero stati bene accolti. L'immediata competizione per venire inclusi nei ranghi dei quattro squadroni fece miracoli per il morale delle truppe, minacciato dalla paventata vittoria di Lot. Vecchie rivalità tornarono in auge, e rivalità nuove nacquero nel giro di una notte. Le nubi di polvere sulla vasta pianura ai piedi della collina non si posavano mai: squadroni e soldati a cavallo a due o a tre si esercitavano a tutte le ore, in manovre e formazioni, finché i nuovi squadroni non furono al completo e i colori decisi e attribuiti. Fu molto meno complicato decidere la composizione dei nostri squadroni che decidere se Cassandra dovesse oppure no accompagnarmi a Verulamium. Volevo appassionatamente portarla con me, ma l'attuale struttura della comitiva -tutti uomini e tutti soldati - presentava ostacoli imprevisti, tanto che non mi ero ancora risolto quando dovetti accompagnare mia zia, dietro sua insistenza, lungo il sentiero fino alla nostra valle segreta, tenendole per tutto il cammino la mano annosa eppure piena di forza, per timore che potesse scivolare e cadere. Come faceva sovente, Cassandra mi sorprese correndomi incontro con il volto raggiante di delizia. Ma vedendo la mia compagna si fermò di colpo, arrossendo confusa e imbarazzata. Zia Luceia, invece, era ben preparata a quell'incontro. Evidentemente aveva meditato a lungo sull'atteggiamento che avrebbe tenuto per mettere Cassandra a suo agio: le si avvicinò senza esitare e l'abbracciò, facendomi cenno di unirmi a loro e di condividere l'abbraccio. Più tardi, mentre Cassandra stava cucinando, zia Luceia mi disse: «E così, nipote, mi hai impressionato mio malgrado. Sospettavo che questa giovane donna fosse più che semplicemente speciale, nel senso che i giovani innamorati danno alla parola, ma scopro adesso che è assolutamente incantevole, molto più di quanto mi aspettassi. E in quanto al tuo pregiudizio sulle sue origini, hai torto. Non è una contadina, e non lo era nemmeno la sua famiglia. Forse non conosceremo mai le sue vere origini, ma c'è della nobiltà in lei, Questa ragazza è fin troppo per te, libertino che sei. Hai sempre intenzione di portartela appresso a Verulamium?». Già mi gongolavo nella sua approvazione del mio amore, e la domanda mi sorprese. «Certo, zietta. Non mi sognerei di andare senza di lei» decisi lì per lì, in tutta semplicità. «Mmh.... E quando partirete?» «Alla fine di luglio, all'inizio di agosto al più tardi. Ma già lo sai.» «Sì, nipote, lo so.» «Allora perché me l'hai chiesto?» Mi guardò negli occhi e scrollò il capo, meravigliata. «Te l'ho chiesto perché non riesco a credere all'ottusità degli uomini.» «Ottusità?» La mia espressione doveva essere la quintessenza dello stupore. «Che cosa ho detto? Perché sono ottuso?» Scrollò ancora il capo, ma parlò con dolcezza: «La tua ottusità, nipote, sta nell'incapacità di vedere che ad agosto alla tua Cassandra mancheranno due mesi per partorire tuo figlio». Fu come se un fulmine mi avesse colpito! Soffocai quasi, balbettai e mi dimenai, maledicendo la mia stupidità. Era incinta! Come avevo fatto a non accorgermene prima? E nel corso della rivelazione, Cassandra si indaffarava al nostro pasto, ignara della mia costernazione, finché mi calmai e . la feci voltare verso di me, e la baciai piano posandole una mano sul ventre. Allora seppe che sapevo, e i suoi occhi si colmarono di lacrime di felicità. Ovviamente era fuori discussione che mi accompagnasse a Verulamium. Sarebbe stato fuori discussione anche che ci andassi io, se zia Luceia non si fosse impuntata subito a convincermi che andare era mio dovere. Mi promise che Cassandra sarebbe stata al sicuro, in mia assenza. L'avrebbe persuasa lei a tornare con noi a Camulod, a sposarmi legalmente e ad attendere la nascita di nostro figlio. Quando fossi ritornato dal mio pellegrinaggio a Verulamium, mio figlio e mia moglie sarebbero stati lì ad aspettarmi, felici e in buona salute. Le credetti, e mi avviai verso Camulod da solo. XXX. Zia Luceia rimase nella nostra valle sola con Cassandra per un'intera settimana. Alla fine di quel periodo, le raggiunsi a bordo di un calessino leggero a due ruote, che ci avrebbe comodamente ospitati tutti e tre, più il nostro bagaglio e gli averi di Cassandra. Non avevo nemmeno pensato che la campagna di mia zia per convincere Cassandra a tornare a Camulod potesse fallire, poiché l'amore e il rispetto che si erano reciprocamente dimostrate fin dal principio erano totali e assoluti, e la capacità che avevano di comunicare senza parole era poco meno che magica. Il nostro ingresso a Camulod, più tardi quello stesso giorno, suscitò una poderosa agitazione. La giovane donna che sedeva eretta e pacata al mio fianco, tra me e mia zia, non recava la benché minima somiglianza con la derelitta trovatella mezzo morta di fame che era arrivata cavalcando dietro a Uther da quel remoto pattugliamento, e nessuno la riconobbe. Tuttavia la sua vista, la sua bellezza e la sua singolarità diedero origine a un istantaneo sobbollire di ipotesi e pettegolezzi, che né io né mia zia tentammo in alcun modo di placare. Io avevo per la mente ben altro che oziose dicerie e congetture. Da due settimane, da quando cioè avevo accettato il ritorno di Cassandra a Camulod, mi preparavo ad affrontare grandi rivolgimenti. D'un tratto imbarazzato dalla prolungata assenza di mio cugino - una condizione che, fino a quel momento, ben si adattava al mio stato d'animo - avevo incominciato a volere che Uther ritornasse immediatamente, e mi ero disposto all'inevitabile confronto tra lui e Cassandra. Ero determinato a metterli faccia a faccia senza preavviso, sapendo che solo così, nella sua completa sorpresa, avrei potuto leggere con chiarezza la colpa o l'innocenza di Uther. Ma si rivelò essere una soluzione irrealizzabile. Uther non era nei pressi di Camulod quando riportai indietro Cassandra. Per quanto ne sapevamo, dopo la morte di suo padre non aveva più lasciato le terre dei Pendragon. Dalla sua partenza non avevamo più avuto notizie, e nessuno aveva idea di quando sarebbe tornato a Camulod. Per quanto ne sapevamo, poteva essersi già impegnato in una campagna contro Lot, nel lontano sud-ovest, in Cornovaglia. Ma sebbene fossi pronto a verificare la reazione di Uther ala vista di Cassandra, ero totalmente impreparato ad assistere alla reazione di Donuil. Da diverse ore eravamo ormai nella dimora di mia zia, e avevo condiviso con Cassandra la visita guidata dell'edificio, godendo del suo piacere e del suo stupore di fronte alla ricchezza della casa e dei suoi arredi, e vedendoli anch'io attraverso i suoi occhi come per la prima volta. Infine si era ritirata, in compagnia di un drappello di cameriere di mia zia, per fare un bagno e cambiarsi d'abito, e io ero stato escluso dalla sua compagnia. Mandai un soldato a cercare Donuil e a dirgli che ero tornato e che poteva portarmi il lavoro da sbrigare. Un'ora dopo ero impegnatissimo a logorarmi il cervello sull'orripilante sintassi di un rapporto scritto da uno dei nostri consiglieri sulla varietà e sulla distribuzione delle coltivazioni in atto in tutti i possedimenti della Colonia. Era un compito immane e deprimente, per il quale mi ero imposto di essere paziente, e stavo opponendo una strenua resistenza al crescente impulso di convocare l'autore di quel pasticcio per redarguirlo aspramente, quando un tremendo fracasso mi fece sobbalzare come un fauno. Donuil era prima appollaiato di fronte a me su un alto sgabello, e stava lucidando la mia corazza da parata. Adesso era in piedi, rigido come un pezzo di legno, cereo in volto, con gli occhi spalancati e fissi su un punto dietro la mia testa, e la mia armatura migliore stava ruzzolando rumorosamente sul pavimento. Mi voltai per seguire il suo sguardo stupito, e vidi Cassandra sulla soglia, che osservava qualcosa nel corridoio alle sue spalle. Ero ancora troppo sorpreso per dire alcunché, quando Cassandra si girò verso di me, e i suoi occhi si posarono su Donuil. Sul suo viso apparve repentinamente un'espressione di stordita incredulità, che si schiuse in un sorriso gioioso e subitaneo di riconoscimento. Ancora per molti lunghi secondi Donuil rimase come pietrificato, poi barcollò in avanti, con le gambe tese, la bocca aperta, la faccia piena di sgomento e di paura. Quando le arrivò vicino, senza nemmeno sfiorarla cadde sulle ginocchia e protese le braccia. Raggiante, lei gli diede entrambe le mani, e Donuil chinò il capo a baciarle, ma lei già lo stava tirando in piedi, gli allacciava le braccia intorno al collo e lo baciava senza ritegno sul viso, la fronte e gli occhi. Questa sconcertante sequenza di avvenimenti provocò dentro di me un ugualmente sconcertante subbuglio di emozioni contrastanti. In pochi brevi attimi provai timore, sospetto, gelosia, e una rabbia improvvisa che offuscò ogni altro sentimento e minacciò rapidamente di sopraffarmi. Poi ogni passione mi abbandonò di colpo come mi aveva assalito, quando il colossale, formidabile Donuil si voltò a guardarmi, in lacrime, e sussurrò con voce strozzata: «Dea rdree, comandante, è dea rdree». Poi si girò di nuovo e cadde in ginocchio una seconda volta, gettò le braccia intorno ai fianchi della mia amata e nascose il viso nel suo petto, dando libero sfogo ai singhiozzi che gli scuotevano le spalle. Le sue parole non avevano senso, ma i suoi gesti, la sua possessività parevano suggellare il mio destino. Mi alzai lentamente dalla sedia e avanzai verso di loro, spostando lo sguardo da Donuil a Cassandra, come lui in lacrime. Vide che mi avvicinavo, ma non allontanò dal capo di Donuil le braccia protettive che lo stringevano alla soffice pienezza del suo seno. La rabbia mi rimontò dentro, più forte di prima, ma Cassandra mi sorrise amorevolmente tra le lacrime, e la rabbia che era sul punto di traboccare defluì, sostituita dalla più completa confusione. «Donuil?» chiesi con voce sommessa ed esitante, eppur greve di minaccia. «Che cos'è, Donuil? Questa rdree? Conosci questa donna?» Ricordo di aver pensato che non mi ero mai sembrato tanto sciocco. Se esisteva una certezza sulla taccia della terra, era che quell'uomo e quella donna si conoscevano. Girò la testa verso di me, e mi guardò da dietro il riparo delle sue braccia. La voce era soffocata dalle maniche dell'abito, ma questa volta compresi ogni parola. «É Deirdre, comandante. Credevamo che fosse morta. Mia sorella, Deirdre.» Mia sorella, Deirdre! Sconvolto oltre ogni dire, li staccai letteralmente uno dall'altra, e li tenni a distanza, e scrutai il volto dell'uno e dell'altra, confrontando la faccia grande diluì e la faccia minuta di lei, e notai subito la somiglianza. Fratello e sorella! Li lasciai e mi diressi al divano più vicino, dove crollai, con il cuore che mi pulsava nelle orecchie. Cassandra si separò dal fratello in ginocchio sulla soglia e si precipitò immediatamente accanto a me, con occhi pieni di ansia. Con una carezza le asciugai le lacrime, e la presi dolcemente tra le braccia, cullandola e riscaldandola alla fiamma di un amore misto a colpa per le mie reazioni discordi. Donuil era fermo in ginocchio e ci fissava con occhi pieni di incomprensione. Ci volle quasi un giorno intero per ridare alla storia la sua forma, soprattutto perché sia io sia Donuil, che eravamo gli unici due in grado di parlare, faticavamo ad accettare e a credere uno il coinvolgimento dell'altro nella storia. Donuil non poteva accettare che avessi conosciuto sua sorella mesi prima di conoscere lui, e non poteva credere di esserle stato così vicino per tanto tempo senza avere alcun sentore della sua esistenza. Io ero semplicemente stupefatto di fronte alla verità su Cassandra, che non era più Cassandra. Ero sorpreso di vederla conversare fluentemente e rapidamente con Donuil grazie a un linguaggio silenzioso fatto di gesti che per me significavano niente e meno di niente, a parte la strabiliante realtà che Cassandra era una conversatrice eloquente e disinvolta! Solo più tardi mi resi conto che conversavano in gaelico, e che per quel motivo Cassandra non era mai riuscita a comunicare. Essendo sorda e muta, non aveva mai udito il latino, e perciò il movimento delle mie labbra, che componevano i suoni della lingua, le era completamente estraneo. Io avevo dato per scontato che fosse originaria della Britannia. Non avevo mai pensato che potesse venire dall'Ibernia. Come avrei potuto? E che differenza avrebbe fatto? Infine, però, accettai le verità che mi venivano imposte, e con esse acquistai una nuova comprensione della mia amata Cassandra, che per tutta la vita era stata Deirdre. E accettai, con intensa eccitazione, la consapevolezza che avrei potuto imparare il linguaggio fatto di segni che Donuil usava con tanta perizia. Divoravo ogni cosa che Donuil sapeva dirmi di lei, e della sua vita prima di conoscermi. Da bambina, mi disse, era da tutti chiamata Deirdre dagli occhi lilla, la prediletta e favorita di suo padre Athol, alto re degli Scoti d'Ibernia. La sua acerba bellezza era diventata leggendaria già allora a causa del suo sembiante, e i suoi spasimanti erano molti e ricchi. La criniera di fluenti capelli rosso oro, la pelle bianca come il latte e i meravigliosi occhi lillà declamavano che era benedetta dagli dei, e tale benedizione sarebbe stata trasmessa all'uomo che fosse diventato suo marito. Donuil parlava della sorella con voce tanto sommessa e sgomenta che, malgrado il mio amore per lei e la mia bramosia di sapere tutto di lei, mi metteva in imbarazzo. Cassandra era stata la mia amata per lunghi mesi fatati. La Deirdre di Donuil, invece, non aveva potere sul mio cuore. E in ciò risiedeva la causa del mio imbarazzo: non vedevo - comunanza tra la mia Cassandra e la Deirdre di Donuil. La donna che amavo non era una rutilante bellezza dai capelli rosso oro e gli occhi lillà. I suoi capelli erano lunghi e lucenti, ma erano biondi, non erano dorati e non avevano traccia di rosso. E i suoi occhi non erano né viola, né violacei, e nemmeno lillà; erano enormi e argentei, grigi come il granito, quasi completamente incolori tranne con una certa luce, quando cangiavano nell'azzurro più chiaro. Fu con il più grande sconforto che dissi a Donuil tutto questo. Mi fissò allora, con gli occhi sgranati, e attese che dicessi altro, ma non avevo altro da dire. «Insomma» chiese infine, «che cosa stai dicendo, comandante?» «Che cosa sto dicendo?» Posai la coppa del vino, stupito che mi facesse una domanda così ovvia. Indicai sua sorella, seduta di fronte a me, che ci fissava entrambi. «Donuil, la ragazza che descrivi secondo i tuoi ricordi non somiglia affatto alla donna qui seduta. Nemmeno un poco, non vedi?» Sbattè le palpebre, confuso, e Deirdre si sporse intenta in avanti, e le sue dita si misero a volare. Donuil le guardò, decifrò il significato dei gesti, e il suo viso si illuminò. «Deirdre vuole che ti racconti della malattia. Ma, comandante, lo sai! Ho parlato di come era prima della malattia. Solamente dopo è cambiata.» «Malattia? Quale malattia? E che cosa dovrei sapere? Non abbiamo mai parlato di una malattia, Donuil. Dici che una malattia l'ha cambiata?» Guardai Cassandra, che mi fissò solennemente con quei suoi grandi occhi grigio pallido. «Una malattia le ha cambiato il colore degli occhi e dei capelli? Donuil, stai parlando ancora di magia?» «Sì, comandante Merlino.» Annuì e il suo sguardo era fermo come quello della sorella. «E mia sorella ne è la prova vivente.» Mi spostai a condividere il divano di Cassandra, l'attirai nell'incavo del mio braccio e la baciai su una tempia, e parlando tra i suoi capelli dissi a Donuil: «Racconta». La storia che mi raccontò era una storia strana e portentosa, e credetti a ogni parola. Ancora oggi, però, non saprei dire se narrasse di magia oppure no. Il giorno di mezza estate, nel nono anno della vita di Deirdre, per la capricciosa collera di chissà quale divinità gaelica la luce venne completamente eclissata dall'oscurità di una mostruosa tempesta che divelse gli alberi e spazzò via le case, e sospinse i fiumi oltre gli argini inondando campi e abitazioni. Decine e decine di persone rimasero uccise, e ferite a centinaia, e mandrie intere annegarono. E in tutta quella confusione, la piccola Deirdre dagli occhi lillà scomparve. Gli uomini di suo padre la cercarono per ogni dove nel caos che seguì alla grande tempesta, e dopo tre giorni la dichiararono morta. E mentre stavano preparando il rito funebre, Deirdre avanzò in mezzo a loro, stordita, con gli occhi fissi nel vuoto. L'asciugarono e la pulirono e la misero a letto, e i guaritori migliori di suo padre si presero cura di lei, e le somministrarono pozioni per spezzare la febbre che la devastava. Custodita e protetta dai sacerdoti tribali, la bambina si agitò e si rivoltò nel letto per quattro giorni e la febbre persistette, bruciando il corpicino e depredando le sue riserve di energia. Poi, il quinto giorno dopo il suo ritorno, la febbre scemò, e Deirdre si destò e descrisse, con cristallina chiarezza, il luogo in cui era stata durante la tempesta. Parlò di una caverna nella roccia, a cui si arrivava attraverso un passaggio incrinato che scendeva da una grotta nel fianco di una collina, e disse che quella caverna era piena di scheletri e di tesori. Quando le fu chiesto come avesse raggiunto quella collina, chi le avesse mostrato quel luogo e perché ci fosse andata, non rispose, ma descrisse la strada che aveva preso, e i punti di riferimento che segnavano il cammino. Suo padre Athol mandò immediatamente un gruppo di guerrieri a cercare quel luogo, e i guerrieri lo trovarono senza difficoltà, ma molte miglia più lontano di quanto credevano. E trovarono gli scheletri, e il tesoro, un cumulo di armi antiche fatte di bronzo, e barre d'oro, d'argento e di ferro, e anche gioielli. Ma nel frattempo, ancora prima che i guerrieri partissero, la febbre ritornò, più violenta che mai, e Deirdre rovinò verso la morte. La febbre salì e salì, oltre il punto in cui nessuna febbre era mai salita senza causare la morte, e poi si fermò e rimase così, altissima per giorni. La carne si staccò dal corpo della bambina quasi a vista d'occhio, finché nulla rimase se non pelle e ossa. Sacerdoti e guaritori fecero di tutto per mantenerla idratata. La bagnavano costantemente. La nutrivano con acqua e miele attraverso tubi di intestini animali infilati in gola. E aspettavano che morisse. Ma non morì. Indugiò sulla soglia della morte per sei intere settimane, e poi iniziò a riprendersi. Riacquistò peso e forza e il suo sorriso. Ma i capelli avevano perso il loro colore, e così gli occhi, con grande orrore di tutti quelli che la vedevano. La gente incominciò a bisbigliare, e poi a dire che Deirdre dagli occhi lillà era morta, ed era stata sostituita da un'altra bambina. E l'unica persona che avrebbe potuto dimostrare che la verità era diversa - la bambina stessa - non ci provava neppure. Guarì dalla malattia per vivere tra gli altri da estranea. Non rispose mai a nessuna domanda e non parlò mai più. Malgrado avessero tutti beneficiato dell'esperienza della piccola, e si fossero arricchiti grazie al tesoro trovato nella caverna, il popolo ebbe paura di quell'esperienza che riteneva magica. Il tempo passava e la stranezza dei cambiamenti avvenuti in lei fu presto nota a molti; si diceva che fosse stata maledetta, e che nessun bene sarebbe derivato dall'avere contatti con lei. Il tesoro, mormorava la gente, era solo la ricompensa lasciata dagli dei che si erano portati via la bambina. Evidentemente, dicevano, la bambina era caduta - o era stata fatta cadere - dall'alto della sua posizione benedetta dagli dei. Da bambina amata da tutti, divenne una creatura temuta senza motivo ed evitata da tutti tranne che da coloro che l'amavano di più: suo padre Athol e il suo diletto fratello, Donuil. Dopo la malattia, incapace di comprendere quello che le era accaduto ma convinto che fosse pur sempre la sua amata sorella, Donuil aveva trascorso con la bambina lunghe ore e lunghi giorni, imparando ancora, dal principio, come comunicare con lei. Aveva appreso che la sua mente era emersa intatta dalla malattia, e che la sua anima, l'essenza che faceva di lei ciò che era, era rimasta illesa. E, nel corso dei successivi cinque anni, avevano sviluppato un linguaggio gestuale che permetteva loro di comunicare. Alla fine di quel periodo, Deirdre si era ammalata ancora, seppure non altrettanto gravemente. Le era venuta la febbre ed era stata costretta a letto. Il pomeriggio seguente, mentre suo padre e Donuil erano a caccia, era scomparsa di nuovo, e non era più ritornata. L'avevano data per morta, fino a quel giorno, altri cinque anni dopo. E allora dovetti rimanere seduto in silenzio, fremente di impazienza, mentre Donuil veniva a conoscenza della storia della scomparsa della sorella, osservando e traducendo il messaggio delle sue dita svolazzanti. Era una storia breve da raccontare, malgrado fosse per alcuni aspetti confusa e conturbante. Ascoltai la traduzione di quello che dicevano le mani di Deirdre, frustrato dall'incapacità di porle io stesso delle domande. Intuivo dell'altro, dietro alle sue parole, ma non avevo modo di chiedere ulteriori dettagli, non sapendo quali dettagli mancassero. Non ricordava niente della sua seconda malattia, niente di niente. Non ricordava di avere lasciato il suo letto, e il palazzo di suo padre. Ricordava solo di essersi svegliata una bella mattina d'estate in mezzo a completi sconosciuti che, a giudicare dalla familiarità con cui la trattavano, non dovevano essere poi tanto sconosciuti. La conoscevano molto bene, ma lei non ricordava di averli mai visti prima. Sapevano, per esempio, che non parlava e non sentiva, e comunicavano con lei toccandola e facendole ampi segnali con le mani. La trattavano rudemente, ma senza intolleranza né durezza, come un'umile serva. Avendo cognizione di chi era, ma non di come era giunta dov'era, Deirdre aveva tentato di fuggire dall'accampamento quella stessa notte, ma era stata presa senza difficoltà, e messa subito al lavoro, a svolgere incombenze a lei sconosciute, ma alle quali il suo corpo rispondeva con l'agio di una lunga pratica. Aveva notato anche gli abiti che indossava. Erano strani e ruvidi, ma si adattavano al suo corpo come se li portasse da tempo, ed erano ovviamente suoi. Spaventata e confusa, sospettava di non essere più sulle terre di suo padre, ma non aveva idea di dove si trovava. Non era mai uscita dalle terre di suo padre. Giorni dopo, si era imbattuta nella propria immagine riflessa in uno specchio di bronzo, ed era quasi svenuta per l'orrore. Non riconosceva il volto riflesso nello specchio. Era il volto di una donna. Il suo era stato il volto di una bambina. Un secondo, timoroso sguardo l'aveva convinta che non aveva perso la ragione e non era impazzita. In qualche modo, per una nefanda magia, aveva perduto gran parte di se stessa, anni della sua vita durante i quali era cresciuta da bambina a donna, senza rendersi conto di cambiare e del passare degli anni. E ora conduceva una vita di silenzio in mezzo a persone sconosciute. Condivideva in particolare la vita di due persone, un uomo e una donna che le offrivano cibo e riparo. L'uomo era un venditore ambulante, la donna un'erborista, ed erano sempre in viaggio, per vendere la mercé di lui e il talento di lei in tutta la regione. Il lavoro principale di Deirdre era aiutare la donna a raccogliere erbe medicinali, e a volte di aiutare l'uomo con le sue merci, trasportando carichi come un animale da soma. E capitava che, quando ne aveva voglia, l'uomo entrasse nel suo letto e approfittasse di lei sessualmente, e lei glielo permetteva senza pensarci, perché sapeva che era sempre stato così. E poi un giorno, senza preavviso, l'uomo si era ammalato. La donna si era ammalata nello stesso modo il giorno seguente, e Deirdre li aveva assistiti entrambi fino alla morte, avvenuta a poche ore uno dall'altra. Era rimasta per ore in ginocchio accanto a loro, quando Uther e io eravamo passati di lì e l'avevamo presa con noi. Non so quanto tempo giacqui sveglio quella notte, a ricordare. So che senza che me ne accorgessi il campo si era acquietato, e che solo l'occasionale nitrito di un cavallo spezzava il silenzio, quando mi addormentai. XXXI. Il secondo giorno di viaggio ripartimmo pieni di brio e di benessere, con il proposito di raggiungere Sorviodunum per metà pomeriggio. Anche il sole iniziò arditamente il suo percorso attraverso il cielo del nuovo giorno, accecando noi che procedevamo direttamente incontro al suo fulgore, ma il cielo a occidente si riempì ben presto di banchi di nubi che superarono sia noi sia il sole. A metà mattina la luminosità di quella giornata era svanita, e a mezzogiorno avanzavamo in mezzo a raffiche di pioggia che si susseguivano come buoi aggiogati, sempre più vicine finché la pioggia cadde incessante e restò con noi per tutta la strada fino a Sorviodunum. Non so che cosa ci aspettassimo di trovare a Sorviodunum, ma ricordo che la terrificante devastazione della città ci sconvolse tutti. Era una città solo di nome, una vasta concentrazione di edifici, molti dei quali un tempo edifici pubblici e per il resto dimore di cittadini. Adesso gli edifici erano quasi tutti in rovina e i cittadini - usavamo la parola con riluttanza - scappavano terrorizzati al nostro avvicinarsi. Inutile dirlo, non trovammo cibo da comprare. Ci accampammo per la notte in un campo abbandonato fuori città, e ripartimmo all'alba. Fortunatamente per il nostro morale, durante la notte il tempo era migliorato, e il sole sorse a salutarci in un cielo limpido e terso. Procedemmo a un buon passo, senza incontrare nessuno lungo la strada, e la sensazione di disagio per il degrado della bella cittadina di Sorviodunum si alleviò. Il tempo si mantenne sereno, senza più traccia della pioggia caduta il secondo giorno del nostro viaggio. Evitammo completamente la piccola città di Silchester, e giungemmo infine a Pontes, l'ultima città rimasta tra noi e Londinium. Qui trovammo segni di vita in quantità, ma non erano segni ai quali potessi reagire con calore. Non appena i cittadini ci videro, si ritirarono dietro le mura e sbarrarono i cancelli, rifiutandoci l'ingresso. Comprendendo che avevano paura della nostra forza, e, rispettando la loro paura, tenni i miei uomini a distanza e mi avvicinai alle mura da solo, chiedendo di parlare con chiunque fosse al comando. Fu inutile. A dispetto delle mie proteste, nessuno era disposto a parlare con me, nemmeno da dietro le mura. Finalmente, ribollendo di rabbia e di frustrazione, e dominando il fortissimo impulso di dare loro motivo di temerci davvero, riconobbi la futilità della situazione e feci allontanare i miei uomini più in fretta possibile. La collera che mi infuriava dentro consigliava ai miei subordinati di non attrarre la mia attenzione, e di conseguenza il mio scontento. Solo Donuil e Lucano avevano la baldanza di imporre la loro presenza al mio cattivo umore. Donuil cavalcava in silenzio, poco più indietro rispetto a me, con il muso del suo cavallo all'altezza del mio ginocchio destro, abbastanza vicino perché potessi rivolgergli la parola se lo desideravo, ma abbastanza lontano perché potessi ignorarlo, come facevo. Lucano, invece, rimase lontano e mi lasciò nel mio brodo per un'ora, poi mi si accostò al piccolo galoppo e pretese la mia attenzione. «Perché sei così arrabbiato?» Girai di scatto la testa, con l'intenzione di fulminarlo con lo sguardo, ma non si lasciò intimidire. Senza dire una parola ritornai a guardare la strada. «Avevano paura» disse ancora. Era talmente ovvio che non mi degnai di rispondergli. Ci riprovò. «Ti stai comportando come se quella gente ti avesse insultato personalmente. É così fragile, il tuo orgoglio?» Gli diedi un'occhiata di traverso, consegnando silenziosamente all'Ade la sua presenza persistentemente importuna. «Caio!» Stava quasi ridendo. «In nome di Dio, nei loro panni avresti probabilmente fatto la stessa cosa. Sono vulnerabili, e terrorizzati.» La rabbia traboccò. «Da che cosa?» Indicai con un brusco cenno del capo i ranghi e le file dietro di noi. «Abbiamo l'aspetto di Sassoni? E forse questa una marmaglia indisciplinata, in cerca di stupri e saccheggi? Mi hanno preso per un predatore, un ladro razziatore?» Vidi subito dalla sua espressione sconvolta che la mia reazione era del tutto inattesa. Aprì la bocca per rispondere, ma non gliene diedi l'opportunità. «Dannazione, Luca, è la terza città in quattro giorni che ho dovuto aggirare! Avremmo dovuto mangiare lì, stasera, o almeno avremmo dovuto fare provviste! Il nostro commissariato non è attrezzato per dare da mangiare a duecento uomini e ai loro cavalli per tutta la strada da Camulod a Verulamium. Ecco perché abbiamo portato del denaro! Faceva parte del nostro piano operativo acquistare cibo lungo la strada. Non si è mai parlato di dover essere completamente autosufficienti! Se avessi saputo - o anche solo sospettato - che le città lungo il percorso erano nelle condizioni in cui sono, o che ci avrebbero chiuso i cancelli in faccia, avrei organizzato le cose in modo molto diverso.» «Ah, capisco. Ti senti in colpa.» «No! Maledizione, perché dovrei sentirmi in colpa? Non avevo modo di sapere che sarebbe andata così.» «Esatto, ma nella tua posizione di comandante, spetta a te prevedere situazioni come questa. Oppure no?» Una cosa era rimproverarmi per la mia miopia. Un'altra era sentirmi rimproverare da un mio sottoposto. Dovetti reprimere un moto di stizza prima che si riaffermasse il buon senso e fossi in grado di cogliere nella sua voce una nota di comprensione. Lo guardai. «Sì» risposi. «Spetta a me.» «Sterco di cavallo, comandante.» Lo fissai sorpreso, e lui spinse il suo cavallo più vicino al mio. «Non puoi ritenerti responsabile per quelle città, come non puoi ritenerti responsabile per non essere riuscito a prevedere la situazione a Londinium.» «Quale situazione a Londinium?» Si strinse nelle spalle. «Non lo so, come non puoi saperlo tu. Io ci sono stato trent'anni fa.» La rabbia mi rimontò dentro, questa volta per la sua apparente superficialità. «Dannazione a te, Luca, queste non sono corbellerie. Siamo veramente a corto di provviste.» «Sono assolutamente serio, Caio. A Londinium potrebbe non essere meglio che altrove.» «Ne dubito» sbottai. «Ma prima dobbiamo arrivarci, se non crepiamo tutti di fame prima. Faremo provviste e ne compreremo abbastanza da arrivare fino a Verulamium. Come hai sottolineato tu, è il centro amministrativo della Britannia!» Ma Lucano scosse la testa. «No. Questo te l'ho detto l'altro ieri. Da allora ho riflettuto su ciò che ti ho detto quel giorno, e confesso ora che probabilmente erano tutte sciocchezze. Il cuore, non la testa, governava i miei pensieri. Credo che scopriremo che le tue previsioni erano le più accurate, Londinium potrebbe essere ormai una città come quelle che abbiamo visto finora, forse più grande ma non migliore. Nonostante i miei desideri, avevi ragione tu, e questi giorni di viaggio l'hanno dimostrato. La Britannia non è più una provincia imperiale, Caio, e Londinium non è più romana.» «Che cosa stai insinuando, Luca?» «Non sto insinuando, sto semplicemente confermando il fatto che tu hai illustrato l'altro giorno. Sono passati vent'anni da quando gli ultimi Romani sono partiti. Londinium non sarà più la Londinium che conoscevo. Tu non ci sei mai stato, e io non la vedo dalla partenza dell'esercito, ma in vent'anni cambiano molte cose. Gli ingegneri se ne sono andati tutti da tempo, come i magistrati e i governatori. Ora, in quanto medico, mi domando: chi ha fatto funzionare acquedotti e fognature negli ultimi due decenni? Chi ha riscosso le tasse per mantenere le opere pubbliche? Se lasciassi briglia sciolta alla mia fantasia, potrei terrorizzare entrambi con immagini di peste e pestilenze.» Fece una pausa, e riprese con voce più bassa e introspettiva. «Credo che ci aspettassimo tutti e due grandi cose da Londinium, Caio, in modi diversi, e credo che ci troveremo tutti e due di fronte a una grave delusione.» Sentii rumore di zoccoli che si avvicinavano rapidi alle nostre spalle. Era un messaggero dal primo squadrone per farmi presente che gli uomini non smontavano da cavallo da quasi quattro ore. Lo accolsi con un grugnito e lo rimandai al suo comandante con il permesso per le truppe di riposare e mangiare e abbeverare i cavalli. Mentre la colonna si fermava e i soldati iniziavano a smontare da cavallo, feci cenno a Lucano di accompagnarmi e mi allontanai dalla strada. I campi intorno a Pontes erano stati pochi, piccoli, e mal tenuti, e si erano esauriti entro un miglio dalla città. Da allora eravamo avanzati in mezzo a una fitta foresta che ci stringeva su entrambi i lati. Gli ampi fossati che in origine proteggevano il ciglio della strada erano scomparsi da tempo senza lasciare traccia. Lo spazio che avevano occupato era invaso da sterpaglie, cespugli e alberi. Da mezzo miglio circa però gli alberi si erano diradati, e adesso sui due lati si apriva una vasta pianura erbosa, disseminata dei resti di un antico incendio che aveva distrutto la foresta. Diressi il cavallo verso un mucchio di macigni a cinquanta passi dalla strada; smontammo e ci arrampicammo sulle rocce, e lì ci sedemmo. Quando Lucano si fu messo comodo di fianco a me spartimmo l'acqua della mia borraccia. Lo guardai bere. «Dicevi seriamente, della peste?» Scosse la testa e abbassò la fiaschetta. «No, certo che no. Facevo solo l'allarmista. È una sorta di pessimismo che viene dalla mia professione. Non abbiamo nessuna ragione di sospettare una cosa simile.» Ero sconcertato, tuttavia, e la sua smentita non mi rassicurava. Mi schiarii la voce, sperando nel contempo di schiarirmi le idee, e continuai: «Bene, supponiamo che tu abbia ragione e che Londinium sia un macello. Che cosa possiamo fare?». Rimise il tappo alla fiaschetta e me la porse. «A che riguardo? Le provviste? Non possiamo fare niente, tranne forse cercarle altrove. C'è selvaggina nelle foreste e pesce nei fiumi, e i cavalli possono sempre pascolare.» «E il resto del viaggio? Se a Londinium non c'è cibo, allora potrebbe essere lo stesso a Verulamium. Questa avventura potrebbe essere un insuccesso. Il nostro obiettivo è dimostrare la nostra forza e la nostra presenza. Se tutte le città sono abbandonate, o chiuse, perderemo tempo ed energia. Dobbiamo rinunciare adesso? Voltare i cavalli e tornare a casa?» Ci pensò per un poco, meditando come me su vantaggi e svantaggi. Poi fece di no con la testa. «Direi di no. É stata sparsa la voce che il dibattito si terrà a Verulamium. Mi sembra ragionevole che siano stati presi provvedimenti per ospitare i partecipanti che arriveranno da ogni dove. In ultima analisi, non sapremo niente di Londinium finché non ci saremo.» Tirò fuori un sacchetto dalla borsa che portava al fianco e si versò alcune nocciole sgusciate sul palmo della mano; poi mi passò il sacchetto. Io ne presi alcune e iniziai a ficcarmele in bocca una alla volta. Il silenzio si protrasse, avvolgendo ognuno nei propri pensieri. Osservai i soldati che erano smontati da cavarlo. Avevano riempito tutto lo spiazzo diboscato dal fuoco: chi seduto, chi sdraiato, chi in piedi a camminare, secondo la preferenza, ma tutti intenti a liberarsi dall'indolenzimento provocato dalla sella. Erano quasi tutti molto giovani. Se li avessi guidati in una terra devastata... se Londinium fosse stata deserta o, Dio non volesse, afflitta dalla peste, chissà quanti non sarebbero tornati a casa, e la responsabilità sarebbe stata mia. Luca aveva insinuato nella mia mente il pensiero della peste, e non potevo ignorarlo. Avevo riconosciuto la verità della sua affermazione sulle opere pubbliche, e sulla difficoltà di mantenerle in buono stato; l'acqua stagnante, specialmente nelle zone urbane congestionate, alimentava peste e pestilenze. Nella mia mente apparve l'immagine di squallide vie senza illuminazione, cosparse di corpi tumefatti. Chiedere ai miei uomini di morire in battaglia, se fosse stato necessario, non mi sarebbe costato un attimo di imbarazzo. Ma il pensiero di guidarli come pecore dentro una città sudicia e devastata dalla peste, per farli morire indegnamente in agonia e lordura e desolazione, come topi idrofobi, mi faceva inorridire. E improvvisamente decisi. «Così sia. Aggireremo Londinium e andremo direttamente a Verulamium.» Lucano scosse brevemente la testa, con una smorfia dubbiosa. «Non lo so, Caio. Potrebbe non essere fattibile, o possibile.» «Perché no, in nome di Dio?» Non mi ero aspettato la sua opposizione. «Certo che è possibile. Lo faremo, e sarà fatto.» Si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu, ma credo che tu abbia perso di vista alcuni ostacoli... I nostri cavalli, e il fiume, il Tamigi.» Non capivo. «Che cosa c'entra il fiume? Lo guaderemo, quel dannato fiume.» «Forse...» In quella singola parola era riuscito a inserire tutto lo scetticismo del mondo, ma mi morsi la lingua, e mi trattenni, perché vedevo che aveva altro da aggiungere. «L'abbiamo attraversato due giorni fa, quando era stretto. Adesso siamo sulla sponda sbagliata ed è quattro volte più largo; temo che sia già troppo largo per attraversarlo a nuoto, e troppo profondo per guadarlo. Dovremo passare su un ponte, e l'unico ponte che conosco da queste parti è a Londinium.» «Mmh....» Non avevo risposte, e dovetti pensare per un poco. «Un traghetto?» Scosse di nuovo la testa. «Abbiamo duecento uomini e duecento cavalli, e i carri. Un traghetto potrebbe trasportare due carri alla volta, con il loro equipaggio, ma ne sarei sorpreso... Comunque, anche i traghetti sono vicini, o dentro Londinium. A Londinium il Tamigi è un fiume grosso, Caio, probabilmente il più grosso che tu abbia mai visto.» «Dannazione!» Mi alzai in piedi. «Allora torniamo a Camulod, oggi.» Guardai il cielo. «E dannazione un'altra volta, è già troppo tardi. Rimarremo qui per il resto del giorno e per la notte e torneremo a casa domattina.» Lucano mi fissava costernato. «Che cosa ti ha fatto cambiare idea, in nome di Dio? Devo credere che stai facendo sul serio? Torniamo a casa, a meno di metà strada dalla nostra destinazione? Perché, Caio?» Ero furioso, e nel momento stesso in cui reagivo alla sua spontanea domanda, mi resi conto dell'irrazionalità della mia rabbia. «Perché?» sputai quasi la parola. «Tu mi chiedi perché? Sei stato tu a farmi notare il pericolo della peste, Lucano. Non esporrò i miei uomini a nessuna pestilenza.» «Bene, splendido! Sono felice di saperlo, anche se lo sapevo già, e non avrei mai immaginato che facessi altrimenti.» Il tono delle parole, pronunciate con calma a dispetto della mia illogica ostilità, mi fermarono di colpo come un cavallo a cui avessero tirato le redini. Sentii che la mia rabbia si dissolveva, e veniva sostituita da una vaga confusione. «Allora che cosa stai dicendo? Se sei d'accordo con me, perché eri così sbigottito all'idea di tornare a casa?» Lucano sospirò e mi mostrò con un cenno il punto sulle rocce dov'ero stato seduto fino a pochi istanti prima. «Siediti, e proverò a spiegarti.» Quando fui di nuovo seduto al suo fianco, mi tese il sacchetto di nocciole sgusciate. «Tieni, buttatene un po' direttamente in bocca, ma stai attento. Potrebbe esserci un sasso, che rischierebbe di romperti un dente.» Mi scrollai qualche nocciola sul palmo della mano, e lo fissai stupito; vedendo la mia totale incomprensione, sorrise e scosse la testa, mi tolse di mano il sacchetto di nocciole, lo richiuse con cura, e se lo fece cadere nella borsa. «Caio» disse. «Non ho detto che a Londinium c'è la peste. Ho solo ventilato tale possibilità, affinché tu fossi conscio di un potenziale pericolo che altrimenti forse non avresti considerato. Esattamente nello stesso modo, ti ho avvertito della possibilità di trovare un sasso in mezzo alle nocciole, e tu che cosa hai fatto?» Ancora non capivo il significato delle sue parole. «Ti sei versato qualche nocciola sul palmo della mano, non è vero? Così hai potuto esaminarle a una a una prima di mangiarle. Ma il fatto importante è che non ti sei rifiutato di mangiare le nocciole. Hai riconosciuto la possibilità di romperti un dente, e hai preso le misure necessarie a prevenirla. La faccenda della peste è la stessa cosa. Noi non sappiamo se a Londinium c'è la peste. É una semplice congettura da parte mia, basata sulla legge delle probabilità. Riconosciamo la possibilità; ma è illogico annullare la spedizione perché esiste la possibilità che qualcosa vada male. Se portassimo questa premessa alle sue conclusioni, non ci avventureremmo mai più fuori da Camulod.» Adesso capivo, ma Lucano non aveva ancora finito. «Non c'è niente di male nel temere il contagio, Caio. É una reazione naturale e umana e il solo pensiero della peste ripugna a chiunque. Ma quando ti ho sentito decidere così in fretta di abbandonare la missione per paura della possibilità di imbattersi nella peste, mi sono preoccupato. Perciò mi hai visto sbigottito. Domani ci avresti ripensato. Ne sono certo. Ma nel frattempo, mostrando la tua esitazione, avresti potuto rendere a te stesso e a tutti noi un pessimo servizio. Non ne abbiamo bisogno. Sei stato in subbuglio in questi ultimi giorni, frustrato dal modo in cui sono andate le cose da quando siamo partiti da Camulod, e hai rimuginato - troppo, credo sulla tua responsabilità, il fardello del comando. Ti ho visto contemplare una decisione di cui avresti potuto pentirti, e ho parlato. Se ho sbagliato, chiedo la tua indulgenza per avere agito come un amico.» Risucchiai un grande respiro e lo soffiai molli, come un cavallo. «Luca» dissi, «se indulgenza per cattivo comportamento, perdonarmi, amico mio.» Rimasi seduto a uomini intorno a me. fuori attraverso le labbra qualcuno deve chiedere quello sono io. Devi lungo, guardando i miei «Bene, ecco la mia... decisione riveduta.» Girai lo sguardo sugli alberi che ci circondavano. «Non appena usciamo da questa foresta, se mai ne usciamo, voglio lasciare la strada, Viaggeremo via terra, così potremo cacciare viaggiando, e dare da mangiare agli uomini. Se incontreremo una fattoria anche solo vagamente prosperosa, compreremo granaglie per i cavalli, altrimenti i cavalli potranno pascolare durante il tragitto. Quando saremo vicini a Londinium, ci fermeremo e ci accamperemo. Poi io andrò in città...» «Con una consona scorta armata.» «Giusto, con un piccolo gruppo, per controllare la situazione prima di fare entrare gli uomini. Cercherò di scoprire che cosa sta succedendo a Verulamium... qualcuno dovrebbe saperlo... e quando penserò che la via è libera, ti manderò a dire di condurre in città il resto degli uomini. Traghetteremo sull'altra sponda del fiume più in fretta possibile, e ci dirigeremo immediatamente a nord verso Verulamium.» Mentre parlavo si era messo a scuotere la testa. «Che cosa c'è che non va, adesso?» «Non funzionerà.» Lo fissai. «Che cosa significa, che non funzionerà?» «Beh, funzionerà quasi tutto, ma io verrò con te a Londinium, perché sono l'unico medico che hai e suppongo che lo scopo di entrare in città in anticipo sul resto degli uomini sia di scoprire se c'è la peste.» «Credi che non sarò capace di sentirne l'odore?» Fece una smorfia. «Non è questo, che mi preoccupa. Potresti non riconoscerla, se non è virulenta.» «Tu sì?» Annuì. «Sì, assolutamente, adesso che sono preparato a cogliere gli eventuali indizi.» «D'accordo. Allora verrai con me.» Tacqui un istante, e poi continuai con pesante sarcasmo. «Ci sono altre parti del mio piano che non funzioneranno?» Sorrise e scosse di nuovo la testa. «No, mi sembra ragionevole e lineare.» «Ah! Grazie mille.» Sogghignò. Una decina di miglia più avanti, uscimmo dalla foresta. Da circa cinque miglia procedevamo su un lieve ma costante declivio; gli alberi cessarono piuttosto bruscamente, e cedettero il posto a un'alta brughiera ondulata. Da quando avevamo lasciato Pontes non avevamo visto anima viva. Diedi il segnale di abbandonare la strada, e voltammo a nordest, proseguendo per il resto del giorno a un buon passo sul terreno erboso e compatto. Ci accampammo nel tardo pomeriggio su un prato ricco di erba lussureggiante nei pressi di un ruscello limpido e veloce. Avevo mandato avanti una squadra di cacciatori, che erano tornati con tre bei cervi e un grosso maiale selvatico. Gli addetti al commissariato si misero subito al lavoro, e ben presto l'aria fu piena del profumo di carne arrosto, che fece venire a tutti l'acquolina in previsione del banchetto. Il mattino seguente il tempo si mantenne al bello, soleggiato con qualche raro acquazzone, e di nuovo procedemmo a un ritmo discreto. Come ogni mattina, Donuil era un mucchietto rattrappito e infelice di carne indolenzita: il suo lungo corpo non era ancora abituato a percorrere ogni giorno lunghe distanze a cavallo. Vacillava taciturno sul dorso del suo cavallo e mi seguiva da vicino, ma cercavo di non pretendere nulla da lui prima di mezzogiorno, sapendo che con il progredire della giornata avrebbe riacquistato la padronanza dei suoi muscoli e le sue condizioni sarebbero visibilmente migliorate. Succedeva ogni giorno, e ogni giorno il processo di recupero richiedeva un po' meno tempo. Nel primo pomeriggio aveva ripreso a parlare, con il suo solito fare allegro e canzonatorio, e io incominciavo a credere che forse davvero avremmo potuto fare di lui un cavaliere. Cavalcavamo insieme in testa al gruppo, godendoci uno sprazzo insolitamente lungo di sole tra due acquazzoni, quando Donuil, la cui vista era di gran lunga più acuta di quella di chiunque altro nel gruppo, scorse un movimento sulla cresta lontana davanti a noi. «Qualcuno in avvicinamento, comandante.» Fece un cenno con il capo in direzione del movimento. «Diritto davanti a noi. Devono essere i nostri esploratori.» «Quanti?» Non vedevo niente ma non dubitavo che avesse ragione. Strizzò gli occhi, concentrandosi, e dopo alcuni lunghi istanti rispose: «Uno. È Orvic». Gli scoccai un'occhiata, irragionevolmente stizzito per la sua evidente superiorità visiva. «Dannazione, Donuil, come fai a saperlo? Io non riesco nemmeno a vederlo muoversi!» Sorrise, con lo sguardo ancora fisso sulla figura che si avvicinava. «É Orvic, comandante, con i suoi cani. Ecco perché all'inizio ho pensato che fossero più di uno.» Allora li vidi, l'alto celta cambriano dai capelli lunghi e dalle lunghe gambe, con il torchio d'oro intorno al collo, e i tre enormi cani lupo che gli stavano intorno. Era un mio lontano parente, un nipote di mio nonno, Ullic Pendragon. Orvic era un uomo unico anche nella sua unica tribù, rinomato come guerriero e come cacciatore, ma ancora più famoso per le sue doti di menestrello e di allevatore di cani lupo. Aveva deciso che sarebbe venuto con noi a Verulamium per assistere al dibattito. Non era un cristiano e non era interessato alla teologia, ma non aveva mai visitato quella zona della regione, e aveva pensato che avremmo dovuto consentirgli di farci da scorta. Quando si accostò ci scambiammo i saluti, e poi aspettammo che ci dicesse perché era tornato indietro. Avevo da tempo accettato l'inutilità di fargli fretta per qualsiasi cosa, ma venne al punto con sorprendente celerità. «Dove stai andando?» chiese direttamente a me. Sollevai le sopracciglia per quel tono spiccio, ma gli risposi direttamente. «A Londinium, a vedere che cosa succede. Perché?» «Scordatelo. Non hai bisogno di vedere che cosa sta succedendo a Londinium.» Aggrottai la fronte. «Come lo sai?» Il suo cipiglio imitava il mio. «Ci sono stato. Credimi.» Guardai i miei cinque compagni. Osservavano tutti Orvic, ma nessuno accennava a dubitare di lui. Mi rigirai verso il grosso celta. «Qual è il problema? É abitata?» «Abitata? Sì, è abitata, certo, ma non è posto per te e per i tuoi uomini.» «Perché no?» «Una pestilenza. Non la definirei ancora dilagante, ma c'è. Non stanno morendo in massa, ma, qualsiasi cosa sia, ha messo la città sottosopra. Combattono ovunque, e nessuno sa chi comanda, o chi combatte contro chi. Ci sono quattro, forse cinque fazioni separate, e i cadaveri per le strade sono più vittime della violenza che della malattia. Il foro è un macello e la basilica è in fiamme, così come buona parte della città.» «Come hai avuto tutte queste informazioni? Sei stato in città?» «Sì, e fuori, e ci ho guardato dentro.» «Allora potresti essere portatore della malattia» intervenne Lucano. Onde guardò lui, poi ancora me. Avrei giurato che stava per sorridere. «Sì, potrei. Ma ne dubito. Non mi sono avvicinato abbastanza per prendere altro che parole, tranne con un tizio, ed era fuori città.» «E poi?» «Ed è tutto. Era sano come un cavallo e sanguinava come una scrofa sgozzata. Era un mercenario, della mia terra, roba da non crederci. Ma non lo conoscevo. Era caduto giù dalle mura, anzi a dire il vero ce l'avevano buttato. Gli ho aperto uno squarcio nella gamba e gli ho rimesso insieme l'osso, ed è stato felice di parlare con me. Mi ha detto che ha incominciato anni fa con la Guida dei Mercanti di Granaglie, ma è passato del tempo, dieci anni e forse più, e ha finito per lavorare con una banda di ex soldati che badano ai propri interessi e a nient'altro. In città non esiste autorità organizzata. La basilica è abbandonata da anni, se si eccettuano gli occupanti abusivi. Il Consiglio cittadino ha smesso di funzionare più di cinque anni fa e i cosiddetti cittadini altolocati sono tutti morti o scappati. Te l'ho detto, è il caos, un nido di ratti. Un buon posto per starci lontano.» Il mio cavallo si impennò per il morso di una mosca, cogliendomi di sorpresa e sbalzandomi quasi di sella; lo riportai ala calma lavorando sul freno e sfogando sulla povera bestia un po' della mia impotenza. Quando ripresi a parlare, le mie emozioni erano sotto stretto controllo, come il mio cavallo. «Non abbiamo scelta.» La mia voce era dura come pietra. «Dobbiamo entrarci, per attraversare il ponte.» «Trova un'altra strada, Merlino.» Mi guardò negli occhi. «Là dentro per te non ci sono altro che ambasce.» «Sciocchezze! Abbiamo duecento uomini. Ci faremo strada con la forza, se sarà necessario.» Orvic si raschiò la gola e sputò un grumo di catarro in un'eloquente affermazione di sdegno. «Puoi portarli dentro se vuoi, ma non li riporterai fuori tutti. Hai carri, provviste e cavalli, che fanno di te un bersaglio appetibile. Le vie sono strette e i muri delle case sono alti. C'è meno di un miglio dal muro settentrionale al fiume e al ponte, ma non riuscirai mai a passare. Non appena ti avvicinerai ai cancelli, ancora prima di entrare, tutti quei bastardi in lotta tra loro si uniranno contro di te. Bloccheranno ogni incrocio, poi si metteranno in fila sui tetti e ti faranno a pezzi dall'alto. I tuoi uomini non avranno spazio per fare manovra, e nemmeno per schivare i missili. E poi barricheranno l'ingresso al ponte. Credimi, Caio Merlino, quel ponte non ti permetterà di attraversare il fiume.» «Dannazione! E allora che cosa proponi? Che ci facciamo spuntare le ali?» «Sì, se potete.» Sorrise, ma nei suoi occhi non c'era traccia di buonumore. «Tuttavia sarebbe più realistico aggirare la città verso est, a monte del fiume, e trovare un traghetto o un guado.» «E se non troviamo né uno né l'altro? Sai dove possono essere?» Fece di no con la testa. «No, ma prima o poi troverai uno o l'altro. La gente attraversa il fiume senza dover passare da Londinium. Che cosa potrebbe costarti? Un giorno? Due giorni al massimo, e manterrai i tuoi soldati vivi e sani. Aumenta la velocità e il percorso giornaliero per i successivi due giorni e recupererai il tempo perduto.» Quello che diceva aveva senso. Doveva esserci un guado, oppure un traghetto, un poco più a monte. Decisi di accettare il suo giudizio sulla situazione a Londinium, e diedi il segnale di smontare da cavallo, affinché i miei uomini avessero la possibilità di rilassarsi e sgranchirsi le gambe. Poi, con l'aiuto di Orvic, trascorremmo un'ora a discutere il modo di aggirare la città e il suo pericolosissimo ponte. Quella sera, quando i nostri piani furono stabiliti, mi meravigliai di me stesso. Non sono mai stato bravo ad accettare consigli. Ad analizzarli sì, perché ho sempre riflettuto molto sulle opinioni e sui punti di vista di chi mi era vicino, e spesso mi sono affidato a essi. Ma preferivo comunque rimettermi al mio giudizio, fidandomi delle mie reazioni istintive alle responsabilità che competevano solo a me. L'avevo imparato da mio padre. Il suo credo sul comando era semplice: un capo - qualsiasi capo - detiene la piena e definitiva responsabilità per il benessere della gente al suo comando. Nel successo può essere magnanimo e condividere il credito, ma nel fallimento è solo a sopportare la colpa, la responsabilità e le conseguenze delle sue azioni. In quella fase della nostra spedizione, invece, avevo accettato consigli due volte, da due subordinati, senza riserve, per due giorni consecutivi. In ciascuna occasione il consiglio era stato contrario a quello che normalmente avrei deciso, e su quel consiglio avevo basato decisioni che normalmente non avrei preso. Alla luce di quanto accadde in seguito, e con il contributo di anni di senno di poi, ritengo impossibile non credere che mi trovassi sotto l'influenza - mistica o soprannaturale - di poteri sui quali non avevo controllo. Publio Varro fu uno scrittore prolifico verso la fine della sua vita, e trascrisse i ricordi di tutto quello che gli era capitato da quando aveva incontrato mio nonno, Caio Britannico. Ogni volta che gli toccava descrivere un evento o un fenomeno che non comprendeva appieno, zio Varro faceva ricorso all'affermazione che lui non era superstizioso, ma... A questo punto della mia storia capisco interamente, per la prima volta, come doveva sentirsi Publio Varro in quelle circostanze. Nemmeno io sono superstizioso, ma credo che il viaggio a Verulamium dovesse fatalmente avere luogo. E credo anche che avvenne per l'unico motivo che doveva dare origine a una serie di incontri che non sarebbero accaduti, e non avrebbero potuto accadere altrimenti. Orvic aveva ragione sulla possibilità di attraversare il fiume a monte di Londinium. A meno di un giorno di marcia dalla città - un tragitto gravemente ostacolato dai carri e dalla mancanza di una strada - giungemmo, non visti e non interpellati, a un regolare attraversamento. Un viottolo profondamente segnato dai solchi ci portò lungo il grande fiume fino a un punto in cui l'argine era stato pulito dai fitti salici e dalle sterpaglie per facilitare l'attracco di un primitivo traghetto. Il congegno, nient'altro che una vasta piattaforma galleggiante, era ancorato e mosso da un sistema di corde e pulegge, saldamente assicurate a due querce massicce, una su ciascuna sponda del fiume. Quando arrivammo, il traghetto era sulla sponda opposta, incustodito, ovviamente da parecchio tempo, perché durante la stagione calda il fiume si era ritirato, e la zattera si era incagliata all'asciutto nel fango dell'argine. Da dove ci trovavamo, per quanti uomini mettessimo a tirare le corde, non riuscivamo a spostarla. Il fiume in quel punto era ampio e fangoso, e scorreva lento e placido senza gorghi visibili e senza traccia di forti correnti. Uno dei più giovani comandanti dei nostri squadroni, sostenendo di saper nuotare come un pesce, si offrì volontario per attraversare il fiume a nuoto e verificare la corrente e la profondità del corso d'acqua. Si alzò in piedi in mezzo al fiume, con la testa fuori dall'acqua, e ci informò dell'assoluta assenza di corrente. Una dozzina di uomini a cavallo lo seguì per disincagliare il traghetto dal suo ormeggio, e in meno di due ore tutte le nostre truppe avevano raggiunto l'altra sponda in facilità e sicurezza, i carri sul traghetto e i soldati a cavallo. Ci accampammo quella notte nei pressi dell'argine, protetti sul lato del fiume da un bosco di folti salici. Il giorno seguente ci dirigemmo verso ovest, lungo il viottolo che partiva dal traghetto. Ma il viottolo scomparve presto sotto il rigoglio della vegetazione, e da lì in poi la nostra avanzata rallentò attraverso una zona boscosa e senza nemmeno l'ombra di un sentiero. Gli alberi erano grandi querce, frassini e faggi, e non c'era sottobosco a ostacolare il nostro progresso, e se non fosse stato per i pesanti carri avremmo mantenuto una buona andatura. Le enormi ruote affondavano quasi fino agli assali nel terriccio soffice della foresta, e l'eccessiva ampiezza dei carri rendeva difficile fare manovra in mezzo agli alberi; tronchi di alberi caduti e rami secchi ingombravano il passaggio e spesso bloccavano completamente la loro avanzata, tanto che i soldati trascorrevano a cavallo lo stesso tempo che trascorrevano a terra, a faticare come schiavi per rimuovere gli ostacoli più grossi e liberare le ruote. Nel tardo pomeriggio, verso il tramonto, sbucammo senza preavviso sul margine di una grande strada romana che si dirigeva a nord-ovest da Londinium a Verulamium. Quella sera non avevamo carne fresca per i nostri fuochi. Il rumore di duecento uomini a cavallo e dei carri pesanti che procedevano nella foresta tra schianti e cozzi aveva fatto fuggire la selvaggina per miglia tutt'intorno. Gli alberi che fiancheggiavano la strada su entrambi i lati erano molto più giovani dei giganti della foresta all'ombra dei quali avevamo viaggiato tutto il giorno. Erano alti e sottili, e crescevano più rapidamente delle querce massicce, degli olmi e dei faggi, ma i loro rami protesi si erano già incontrati, e avevano trasformato la strada in una verde galleria dal soffitto di foglie. La prima pietra miliare ci disse che eravamo tredici miglia a nord-ovest di Londinium. Dopo due miglia, proprio quando iniziavo a dubitare di trovare un luogo adatto in cui accamparci, uscimmo in uno spiazzo, con un corso d'acqua gorgogliale e un riparo di arboscelli che crescevano tra i resti carbonizzati di un altro vecchio incendio della foresta. Il sole tramontò pochi minuti dopo il nostro arrivo, e quando l'accampamento fu allestito era quasi completamente buio, grazie agli alberi che si ergevano alti da ogni parte. Mangiammo alla luce dei bivacchi, e decisi di concedere agli uomini il giorno seguente di riposo, è di andare personalmente a caccia con i nostri arcieri celtici. XXXII. Era un tiro lungo - forse troppo lungo - ma quel cervo maschio era un bersaglio perfetto, stagliato contro un cielo senza nubi; poiché il mio era l'arco più potente, Orvic indicò con un cenno che il tiro era mio. Sollevai l'enorme arco di Publio Varro e mirai con cura, tendendo la corda vibrante fino all'orecchio, percependo la forza di quell'arma poderosa e visualizzando il percorso che la freccia avrebbe compiuto sul filo del vento leggero. Il cervo era all'orizzonte sulla cresta di una collina, a circa duecento passi in linea d'aria, ma separato da noi da una gola stretta e profonda soffocata dalle sterpaglie. Da due ore seguivamo il cervo e le sue due consorti, e grazie al burrone gli eravamo arrivati vicini come di più non potevamo sperare. Nello spazio dei pochi battiti necessari a tendere e a rilasciare la corda dell'arco, ebbi il tempo di ammirarlo, immobile tra due alberi, il capo eretto e le corna massicce posate sul dorso, lo sguardo concentrato su qualcosa che lo aveva allarmato sull'altro versante della cresta, completamente ignaro di noi, che eravamo nascosti alla sua vista da un leggero schermo di foglie e al suo odorato dal vento che soffiava direttamente da lui verso di noi. Espirai lentamente dal naso e scoccai la freccia, la sentii volare dritta e sicura, e in quell'istante il cervo scomparve. Fu così improvviso il passaggio da un bersaglio fisso all'orizzonte deserto che a quell'apparente atto di magia provai un superstizioso mancamento. «Merda!» Contemporaneamente all'esclamazione di Orvic rividi il cervo, che balzava giù per il burrone verso di noi, seguito da vicino dalle due cerve; un balzo a destra e scomparve tra i cespugli che riempivano la gola. Solo allora abbassai l'arco e mi girai verso gli altri. «Che cosa è successo?» L'espressione di Orvic era piena di disgusto. «Qualcosa l'ha spaventato. Qualcosa dall'altra parte, qualcosa che ha visto o sentito.» Guardai Donuil e Curwin, entrambi zitti. «Nessuno di voi due ha visto o sentito niente?» Scossero la testa. «Bene» continuai, «potremmo anche muoverci. Non ci capiterà un'altra...» «Zitto» sibilò Orvic. «Ascoltate!» Ascoltammo, ma non c'era niente da ascoltare oltre al fruscio delle foglie nel vento. Orvic era come paralizzato, la personificazione della vigilanza. «Che cosa...?» Interruppe la mia domanda con un gesto violento, e io trattenni il fiato, sforzandomi di udire qualsiasi cosa avesse udito lui. Di nuovo, però, udii solo il vento. Dopo pochi istanti si rilassò, e il suo corpo perse quella tensione spigolosa che ci aveva brevemente intimiditi tutti e tre. Si girò a guardarmi. «Che cosa stavi dicendo, Caio Merlino?» Alzai una spalla, gettandomi l'arco a tracolla. «Nient'altro che una cosa ovvia. Potremmo anche proseguire. Quei tre cervi ormai sono lontani e non li ritroveremo. Che cosa hai sentito?» «Non lo so. Forse niente, ma mi è parso di sentire gridare.» Non pensai nemmeno di dubitarne. La vista e l'udito di Orvic erano leggendari. Continuò a parlare, quasi fra sé, corrucciato per i propri pensieri, stringendo gli occhi. «Qualcosa li ha fatti fuggire.» Spalancò gli occhi, di nuovo consapevole della nostra presenza. «Voi andate a prendere i cavalli. Io vado là su quella cresta.» Si avvicinò al ciglio della gola e guardò giù. «Non è così brutto qui, posso scendere e risalire facilmente, ma voi no, non con i cavalli.» Guardò verso destra, dove la gola si chiudeva a circa mezzo miglio di distanza. «Meglio che con i cavalli facciate il giro da quella parte, e poi seguitemi giù nell'altra valle. Sbrigatevi.» Andò sul ciglio del burrone, sempre stringendo il grande arco nella mano sinistra, e si lasciò cadere giù, svanendo d'un tratto com'era già svanito il cervo. Non me l'ero presa a male perché aveva assunto il comando. In una situazione come quella, Orvic era molto più capace di me. Mi rivolsi ai miei due compagni. «Andiamo.» Mezz'ora dopo, senza fiato per essere corso a rispondere ai richiami di Orvic, mi chinai ad appoggiare la mano sulla corteccia di un albero, che sporgeva come un ubriaco su un precipizio quasi verticale per almeno cinquanta passi, fino a un grande mucchio di macerie che evidentemente erano cadute dal dirupo sul quale ci trovavamo. Non ci voleva molta immaginazione per vedere che la parete del dirupo si stava sfaldando fin dall'inizio dei tempi. Oltre le macerie alla base del precipizio, il terreno erboso scendeva più gradatamente, ma comunque con una notevole inclinazione, per quasi mezzo miglio, prima di appianarsi verso il fondo della valle. Ero sul ciglio di una lunga scarpata incoronata dalla foresta, che si innalzava ripida alla mia destra; da qualche parte lassù un ruscello cascava oltre il ciglio del precipizio, splendido e scintillante nella luce del sole, si schiantava spumeggiante sulle rocce sottostanti e proseguiva vorticoso fino a unirsi al fiume che scorreva in fondo alla valle. Non avevamo occhi per la bellezza che ci circondava. Ci rendevamo conto solo della battaglia che si stava svolgendo proprio sotto di noi, a meno di un miglio. «Stranieri. Sono tutti barbari.» Dalla gola di Orvic usciva poco più di un grugnito. Notai la fierezza del suo cipiglio, e il profondo disprezzo nei suoi occhi. «Gli assalitori lo sono di sicuro» concordai. «Sembrano Sassoni.» «Sì, lo sono, Sassoni di una qualche specie. Ma anche gli altri sono barbari. Non sono della Britannia, né di un'altra regione che conosco.» «Puoi esserne così sicuro da quassù?» Socchiusi gli occhi contro la luce del sole che ci batteva in faccia, tentando invano di scorgere i dettagli che ovviamente Orvic aveva visto. «Non li vedo abbastanza da distinguere un dannato particolare. Che cosa ne pensi, Curwin?» «É inutile che tu lo chieda a. me. Io sono accecato come lo sei tu, ma se Orvic dice che sono barbari, allora lo sono. É lui quello con gli occhi di falco.» Mi girai verso Donuil, il quarto membro del nostro gruppo, che guardava da sopra la mia spalla. «E tu? Capisci chi sono?» Donuil si strinse nelle spalle e fece di no con la testa. «No» disse, «ma sono ben vestiti e bene organizzati. Sanno quello che fanno, ma sono troppo inferiori di numero per resistere a lungo.» Le sue parole riflettevano i miei pensieri. Guardai in basso, maledicendo la distanza e l'impossibilità di avvicinarsi. Gli aggressori erano in un numero compreso tra ottanta e cento, e i grossi scudi rotondi li identificavano chiaramente come Sassoni. Il gruppo avversario era composto da forse venti o trenta uomini, che avevano occupato una cascina in rovina sul fondo della valle, utilizzando le mura diroccate e gli edifici annessi per difendersi. «Devono essere arcieri» disse ancora Orvic. «Guardate come quegli altri bastardi si tengono indietro. E ce ne sono sdraiati nell'erba, vedete? Qualcuno è morto, qualcuno è vivo. Ci devono essere degli arcieri, che li inchiodano dove sono. Altrimenti niente impedirebbe loro di correre ad ammazzarli tutti, tre contro uno...» Emise tra sé e sé un grugnito di sorpresa. «Sapete, credo che gli altri siano Romani.» «Che cosa?» Le sue parole mi avevano lasciato di gesso. «Che cosa vuoi dire?» Mi guardò come se fossi stupido. «Romani, sai? Di Roma. Sono vestiti di bianco, quasi tutti. Del bianco più bianco che abbia mai visto.» «Per Dio, hai ragione.» La mia mente correva. «Come conosci questa parte della regione, Orvic?» «Non molto bene, ma abbastanza» disse con fare burbero. «Perché?» «Quanto è lontano l'accampamento?» Si guardò intorno, e parve annusare l'aria senza vento. «Meno di un miglio, se potessimo volare. Quasi tre via terra. Ci siamo mossi in un grande cerchio. Che cosa hai in mente?» La mia idea non ancora formata era evaporata prima che finisse di parlare. Scrollai le spalle e feci un cenno verso il basso, sentendomi oppresso e impotente. «Oh, niente di utile. Se quelli sono Romani, e credo che tu abbia ragione, allora sono qui per lo stesso nostro motivo. Sono diretti a Verulamium. Stavo cercando di pensare a un modo per aiutarli. Il mio primo pensiero è stato di fare arrivare la cavalleria, ma non c'è tempo, e comunque mi stavo aggrappando all'ultimo filo di speranza. Per un attimo avevo dimenticato questo dirupo.» Sorrise e indicò alla nostra sinistra. «No, i cavalli non riuscirebbero a saltare giù di lì, e nemmeno da questa parte. Ma potrebbero, se facessero il giro da nord, circa un miglio più giù.» «Che cosa? Come?» «Lungo la strada. Scende fino al lato opposto di quella vecchia fattoria.» Voltò la testa e guardò verso sud lungo il precipizio. «Vedi quella cascata? È lo stesso ruscello sul quale siamo accampati. Scorre sotto la strada, attraverso una galleria di drenaggio. Ti ricordi?» Annuii, e attesi. «Se Donuil, che è un grande corridore, seguisse il letto del fiume, potrebbe essere al campo in un attimo. Allora potrebbe guidare i soldati a cavallo lungo la strada, ed essere in posizione quasi nello stesso momento in cui noi arriveremo là.» «Arriveremo dove?» Orvic si girò verso la valle e puntò un dito. «Laggiù, ragazzo. C'è un posticino che ho scelto per fare un po' di tiro al bersaglio.» Mentre guardavo, Curwin tese a Orvic il suo arco, poi si sfilò la faretra e gli diede anche quella, e senza dire una parola si allontanò nella foresta alle nostre spalle. «Dove stai andando, Curwin?» «Frecce. Vi raggiungo.» Orvic si stava mettendo la seconda faretra a tracolla, accanto alla propria, ma prima che potessi parlare si rivolse a Donuil. «Puoi farcela, ragazzo? Correre lungo il ruscello fino al campo e portare qui gli altri?» Donuil mi lanciò un'occhiata, poi annuì. «E allora vai, più veloce che puoi! Saremo laggiù quando arriverete, e potremmo essere nei guai, perciò non perdere tempo. Sparisci.» Non appena rimanemmo soli, Orvic tirò fuori due corti lacci di cuoio dalla sacca che portava al fianco e legò assieme il suo arco e l'arco di Curwin; si gettò il doppio arco di traverso sulla spalla, le aste davanti e le corde dietro, e poi si sporse a scrutare la parete del precipizio. «Dov'è andato Curwin?» Orvic mi guardò con un principio di impazienza. «Te l'ha detto. A prendere le frecce.» «Ma le aveva. Le ha date a te. Dove ne troverà delle altre?» «Nelle bisacce. Non le hai viste?» Scossi la testa. Mise a terra un ginocchio, appoggiò le mani al bordo del precipizio, e si sporse ancora più in fuori. Poi mi fissò. Io tirai un respiro e sbirciai il punto che aveva indicato in precedenza, poi mi feci avanti e guardai oltre il ciglio del dirupo. «Credi che possiamo scendere da qui?» Si raschiò la gola e sputò in aria. «Oh, sì, non è difficile. Difficile è farlo vivi, e con le nostre gambe.» Mi riempii i polmoni, trattenni l'aria, e poi la lasciai uscire dalle labbra socchiuse. «Bene, allora. Vai tu per primo, e io ti seguo. E Curwin?» Orvic era già sdraiato sulla pancia, e aveva le gambe penzoloni nel vuoto. «Curwin che cosa? Ci verrà dietro. Lo aspetteremo in fondo, così potrà calarci le frecce.» Lentamente la sua testa scomparve, seguita dalle dita, e poi la sua voce mi raggiunse. «Non è brutto come sembra, quando stai con la faccia contro la parete. Ma devi fare piano. Guiderò io i tuoi primi passi, finché non capisci come funziona.» Aveva ragione. Non era brutto come sembrava, non tanto. Ma impiegammo quasi mezz'ora a scendere per una cinquantina di passi fino alla distesa di rocce sotto la parete del dirupo. Orvic avrebbe potuto farcela molto più in fretta se non ci fossi stato io a rallentarlo, e quando arrivammo Curwin aveva fatto in tempo a raggiungerci, sebbene avesse percorso un miglio per andare fino alla radura dove avevamo lasciato i cavalli e un miglio per tornare, da quando io mi ero calato oltre il bordo del precipizio. Ma tutti e due erano nati e cresciuti in montagna, abituati a divertirsi sulle superfici verticali. Io ero abituato a muovermi su superfici orizzontali. Arrivai sano e salvo ai piedi della parete e ripresi il respiro, aspettando che Curwin scivolasse per le ultime iarde fino a raggiungerci. Non aveva nemmeno il fiatone. Mi guardò con un'espressione eloquente, tirò su sonoramente con il naso, e si girò verso Orvic. «Ho mandato il ragazzo al campo con i cavalli. Gli ho detto di riportarli qui assieme agli altri.» Si scrollò di dosso le due enormi faretre stracolme di frecce che aveva portato giù dal dirupo, di traverso su ciascuna spalla, con le cinghie incrociate sul petto. «Bene.» Orvic aveva già separato i due archi e aveva posato la faretra di Curwin accanto al suo arco. Incominciarono subito a dividersi le frecce, stipandole ognuno nella propria faretra, e me ne porsero due grosse manciate con le quali riempire la mia. «Le avevi sul tuo cavallo, Curwin?» La mia curiosità era incontenibile. «Sì.» Non potei nascondere lo stupore. «Porti sempre così tante frecce?» «Sì. Meglio che ci muoviamo, Orvic.» «Ma perché, Curwin?» Non mi guardò nemmeno. Iniziammo a scendere e io mi misi in fila dietro a lui. «Chiedilo a mio fratello» mi disse da sopra la spalla. «Quale fratello? Non sapevo che ne avessi uno.» Tenevo gli occhi fissi a terra, e mi muovevo con cautela. «Non ce l'ho, non più. Ha finito le frecce, un giorno che era a caccia, e si è messo a discutere con altri uomini su chi aveva ucciso un cervo. Avevano più frecce di lui. E le hanno usate per ammazzarlo.» Si fermò e si voltò a guardarmi, come se si aspettasse di vedermi sorridere. «Preferisco essere deriso e bene armato piuttosto che preso di mira senza essere in grado di rispondere.» E quella fu l'ultima parola sull'argomento. Orvic ci guidò giù per il pendio percorrendo una diagonale verso il promontorio che ci aveva mostrato dalla sommità del precipizio. Camminando, Curwin arrotolò la faretra vuota e se la ficcò al sicuro sotto la cintola. La seconda faretra, ancora piena per due terzi, se la rimise in spalla. Orvic indicò davanti a noi la gola tagliata dal ruscello. «Una volta arrivati laggiù, dovremmo poterci muovere senza essere visti.» Si mise a correre e Curwin e io lo seguimmo, piegandoci verso la collina per mantenere l'equilibrio, e infine saltammo giù tra i due argini del ruscello. «Bene» grugnì Orvic. «Nessuno ci ha scorti. Adesso, io la vedo così. Ci sono dei cespugli più avanti lungo l'argine, e più in basso saranno più grossi. Quando arriveremo dove vogliamo arrivare, saranno alberi. Il letto del fiume procede verso est fino quasi al fondo della valle, poi devia verso nord, ed è lì che noi lo abbandoniamo e risaliamo la collina, verso sud. Altri due o trecento passi, ma saremo ben nascosti; c'è un punto, che finisce sul ciglio di un altro dirupo, ma non alto come quello da cui siamo appena scesi. Il terreno cade a picco su entrambi i lati. Saremo ancora circa a mezzo miglio, forse meno, dalla fattoria dove si sono barricati i Romani, ma saremo a un buon tiro d'arco dai Sassoni. Dovremmo poterli prendere come conigli. Non riusciranno a raggiungerci, non senza correre su per la collina verso di noi per cercare di aggirarci. Abbiamo frecce a sufficienza. E quando le avremo finite, quei bastardi dovrebbero essere quasi tutti morti.» Fece una pausa. «Naturalmente, se ci vengono addosso in troppi e li lasciamo liberi di girarci intorno e di sorprenderci da dietro, quelli morti saremo noi. Siete pronti?» Poco tempo dopo, eravamo tutti e tre affiancati in cima al secondo dirupo, a circa dieci passi sopra al pendio che continuava a scendere. Lo spazio in cui ci eravamo trovati uscendo da un bosco di biancospini era abbastanza ampio per consentirci di muoverci comodamente. I Sassoni erano sparsi sotto di noi, il più vicino a meno di cento passi e il grosso del gruppo a quasi duecento passi. A duecento passi oltre il sassone più lontano c'erano i muri in rovina della cascina che offriva riparo ai Romani. Nessuno ci aveva visti. Curwin estrasse una freccia dalla faretra e lisciò le alette tra il pollice e l'indice bagnati di saliva, guardando Orvic con la coda dell'occhio. «Ebbene?» disse. «Tu hai la vista migliore. Vuoi colpire il primo?» Orvic annuì. Come me, aveva già incoccato una freccia. «Calcolò la distanza del bersaglio. Perfetto.» Alzò lentamente l'arco e prese con cura la mira, ma Curwin lo interruppe prima che lasciasse partire il colpo. «Dove stai puntando?» «Là!» Vedemmo la sua freccia volare diritta verso un gruppo di una decina di uomini a circa centocinquanta passi da noi, ma l'angolo era illusorio rispetto all'altezza, e il missile si conficcò nel terreno a breve distanza dal gruppo, e scomparve senza essere vista. «Merda! Che stupido!» La seconda volta mirò con maggiore giudizio, e la freccia ne prese uno del gruppo su un lato della testa, tra l'orecchio e la mascella, scaraventandolo lontano dai suoi compagni che si dispersero confusi, cercando invano l'origine di quella morte improvvisa. Nessuno pensò di alzare lo sguardo verso il nostro promontorio così distante. Evidentemente non avevano mai incontrato prima gli archi lunghi dei Pendragon. «Bel colpo» disse Curwin. «Non sanno dove guardare. Adesso guardate questo... Il grosso bastardo laggiù a sinistra, con la barba rossa e la tunica verde.» Sollevò l'arco, piegando il braccio davanti a me in modo che il volo della sua freccia non avesse alcun riferimento con la linea di tiro di Orvic, e mentre con lo sguardo cercavo e trovavo l'uomo che aveva descritto, così fece anche la freccia di Curwin. Il sassone era in piedi dietro a un albero, con la schiena rivolta al tronco, e agitava le braccia per incitare i suoi compagni all'attacco. La freccia di Curwin lo bloccò in piedi com'era, trapassandolo di netto e infilandosi nell'albero alle sue spalle. Orvic tirò ancora prima che potessi scoccare la mia prima freccia, e iniziò così una procedura letale, che si espletava nella selezione dei singoli bersagli in modo che ognuno fosse abbastanza distante da quello che l'aveva appena preceduto, e nel loro conseguente abbattimento, finché i nostri sforzi combinati non ebbero eliminato quattordici avversari. Mentre colpivo il quindicesimo qualcuno individuò la nostra piattaforma di tiro sulla collina che li sovrastava, e allora i Sassoni si scagliarono contro di noi in una ondata ribollente e urlante di rabbia. Da quel momento, tutti e tre incoccammo e scoccammo frecce alla massima velocità possibile, e quando gli uomini alla carica ebbero dimezzato la distanza che ci separava, il braccio e le dita incominciavano a farmi male. All'estremità del mio campo visivo un gigante a capo scoperto correva a lunghe falcate davanti ai suoi commilitoni; brandeggiai l'arco e mirai all'ampio petto, ma quando scoccai la freccia l'uomo cadde in ginocchio e scomparve. Pensai subito che uno dei miei compagni l'avesse ucciso, ma avevano gli archi a terra, le frecce ancora incoccate, e gli occhi spalancati. E lungo tutta la linea di attacco, i Sassoni erano svaniti, lasciando in vista solo un gran numero di morti e di feriti. Orvic imprecò. «Si sono rintanati. Ci dev'essere una ripa che da qui non riusciamo a vedere. Adesso la situazione diventa spiacevole. Cercheranno il modo di aggirarci, perciò teniamo gli occhi bene aperti.» Aspettammo. Da qualche parte davanti a noi un uomo urlava. Sopra di noi il canto degli uccelli riempiva il cielo. L'urlo dell'uomo si levò in uno strido e poi si spense in un gemito gorgogliante e agonizzante, e divenne silenzio, Niente si muoveva. Avevo i crampi ai muscoli del braccio per lo sforzo di tendere l'arco. Lo rilasciai lentamente, ma tenni la freccia incoccata. «Orvic, non dovremmo pensare a tirarci fuori da qui?» «Sì, ma non possiamo andare da nessuna parte, ragazzo. Possiamo solo tornare da dove siamo venuti. E se ci proviamo, ci tirano giù. Quanti ne abbiamo presi?» Scrutai il terreno di fronte a noi. «Ne ho contati trentaquattro.» «Sì, anch'io. Niente male per essere in tre.» Era una cifra fenomenale, ma non risposi. Ottanta meno trentaquattro faceva quarantasei: più che abbastanza per farci fuori alla svelta, adesso che i nostri archi erano quasi inutilizzabili, e meno di quaranta passi ci separavano dalla ripa dietro la quale si erano rintanati. «Guardate laggiù.» La voce di Curwin era vicina alla mia spalla. «Gli abbiamo dato un po' di respiro, almeno.» Guardai verso la cascina che aveva protetto gli assediati. C'erano uomini che si spostavano con rapidità, davanti ai muri che li avevano difesi, si muovevano piegati in due, senza perdere di vista il campo di battaglia. «Non badare a loro, Caio Merlino, tieni d'occhio quei bastardi che ci stanno addosso!» La voce brusca di Orvic mi fece riportare di scatto gli occhi sul terreno sottostante, ma niente si muoveva. Orvic continuò a parlare, esplorando con lo sguardo il fondovalle e poi brevemente la fattoria. «Chiunque abbia il comando laggiù, non è uno sciocco. Ma i Romani non sono mai stati degli sciocchi, non è vero? Stanno raccogliendo le frecce cadute, mentre i Sassoni sono impegnati con noi. Adesso mi domando se verranno fuori ad aiutarci, o se ci lasceranno qui a crepare e correranno il rischio solo quando saremo spacciati.» Indicò alla nostra sinistra, dove il letto del fiume che avevamo seguito dal ciglio del dirupo precipitava lontano verso nord. «Tu guarda da quella parte, io bado all'altra, e tu, Curwin, stai attento al fronte. Quella ripa dietro a cui si nascondono non può essere a più di trenta passi dal letto del fiume, perciò state attenti, Al primo segno di movimento, scoccate, e cercate di non sbagliare! Se arrivano al letto del fiume, sotto l'argine dove non possiamo vederli, o ci girano intorno dall'altra parte, siamo uomini morti.» Si allontanò verso destra, scostando i rami degli alberi con un braccio per passare proprio sul ciglio del nostro piccolo promontorio. Curwin si esibì in una sonora scatarrata, e in quel momento il sassone al quale avevo mirato in precedenza riapparve, e si mise a correre verso il letto del fiume, seguito da un'orda di suoi compagni. Tirai rapido una freccia e lo mancai, ma la seconda freccia lo fece cadere in ginocchio; uno di quelli che lo seguivano lo buttò a terra, barcollò, quasi perse l'equilibrio e poi si tuffò in avanti oltre l'argine del fiume e scomparve. Ne vidi cadere un altro, colpito da Curwin, e poi un altro abbattuto da me. E in vista non c'era più un sassone. «Orvic» gridai. «Sono passati, nel letto del fiume. Sono in sei o sette.» Curwin era di fianco a me. «Non possono salire quassù senza uscire da quella spaccatura. Li tengo in pugno.» E sparì tra gli alberi alle mie spalle. Alla mia destra sentivo vibrare l'arco di Orvic che lanciava una freccia dopo l'altra, e sentivo salire dal basso urla e strilli. Sotto di me niente si muoveva. «Orvic, ti serve aiuto? Vuoi che venga lì?» «No, dannazione, resta dove sei. Questi bastardi non vanno da nessuna parte.» Una pausa, e poi: «Dov'è Curwin?». «Li sta tenendo inchiodati nel letto del fiume.» Qualcosa mi passò davanti alla faccia con un sibilo, facendomi indietreggiare terrorizzato: una freccia si conficcò nella corteccia del tronco al mio fianco. Guardai giù, ma non vidi traccia dell'arciere. Alla mia destra, Orvic aveva smesso di lanciare frecce. «Hanno degli archi» gridai. «Lo so.» La sua voce, appena dietro di me, mi sorprese. Mi girai di scatto e lo vidi appoggiato a un albero di biancospino, con la faccia grigia come la cenere, la tunica tessuta in casa cremisi di sangue dove una freccia l'aveva trapassato di netto, puntando verso l'alto sotto la scapola. Sotto ai miei occhi esterrefatti piegò le ginocchia e cadde in avanti, spingendo la freccia attraverso la spalla. Dal basso ricominciarono le grida, e allora tornai al mio posto di guardia, tendendo nuovamente l'arco. I Sassoni correvano verso il fiume, ma adesso esitavano, e correndo si voltavano, e alcuni erano fermi a guardare indietro. Ne abbattei uno, con una freccia alla base del cranio, e lo scaraventai giù per la china. Ma prima che potessi abbatterne un altro li vidi correre tutti in direzione opposta alla mia, verso la valle, e dietro di loro vidi i Romani che avevano abbandonato la fattoria caricarli con un drappello compatto di soldati a cavallo, avventarsi dalla mia destra addosso alla retroguardia dei Sassoni e spingerli verso nord, giù per la collina e verso un altro gruppo lontano, un gruppo molto più numeroso, di cavalleria in avanzamento. La mia cavalleria! Lasciai cadere l'arco, estrassi il coltello e corsi da Orvic. Era privo di sensi. Tagliai la freccia sotto le alette, in fretta e senza badare alle buone maniere, e sfilai l'asta dalla ferita nella stessa direzione da cui era entrata. Orvic non sentì niente. Strappai un brandello della mia tunica e chiusi i due fori della ferita, quello d'ingresso e quello d'uscita, e poi fermai i due tamponi legandoli con le corde dei nostri due archi. Non avevo ancora finito quando Curwin tornò indietro, canticchiando di piacere e di sollievo, ma quando vide che cosa stavo facendo si fermò di colpo. «Non è grave come sembra» gli dissi. «Una ferita pulita, e poco profonda, diretta verso l'alto. La freccia deve avere preso di striscio le costole, e si è infilata sotto la scapola. Non ha toccato niente di vitale. Orvic guarirà e tenderà ancora l'arco con i migliori di noi.» Lasciai Curwin a prendersi cura di Orvic, ancora privo di sensi, e iniziai a scendere verso il luogo in cui si stavano compiendo le ultime gesta del dramma. Dall'alto vedevo che i Sassoni vendevano cara la pelle, non si aspettavano tregua e non ne concedevano, ognuno evidentemente pronto a morire in combattimento. Mio malgrado provai un moto di ammirazione per il loro coraggio cocciuto e pagano. Il combattimento si andava allontanando da me, e attraversai da solo il campo di battaglia, in mezzo a morti e moribondi. Mi fermai e mi voltai a guardare il punto dal quale poco prima avevo teso tante volte il mio arco. Il dirupo era inarrivabile, inespugnabile, torreggiava su di me come il muro di una fortezza ed era sorretto dal grandioso pendio della collina che saliva in scarpata, decorato dai pizzi dell'argentea cascata del ruscello. Il promontorio sembrava più distante e inaccessibile dal basso di quanto mi fosse parso dall'alto. Non vedevo traccia di Curwin e Orvic. La mia ombra si stendeva davanti a me verso ovest, e mi accorsi con sconcerto che il sole non aveva ancora raggiunto il suo zenit meridiano. Sentii gridare il mio nome, mi girai verso la valle e vidi Donuil che mi veniva incontro a un piccolo e goffo galoppo, tenendo in una mano le redini del suo e del mio cavallo, e stringendo sotto l'altro braccio il mio elmo come se fosse un'ancora che potesse tenerlo in sella. Pochi momenti dopo, a cavallo e con l'elmo in testa e sentendomi molto più grande e più padrone del mio destino di quanto mi fossi sentito a piedi, consegnai a Donuil arco e faretra e lo precedetti al trotto fino all'accolta di persone che segnava la conclusione della battaglia. A parte un breve ringraziamento, non gli avevo detto nulla, e mi lasciò ai miei pensieri. Vidi Lucano chino su un giovane soldato e mi diressi verso di lui. Gli dissi di Orvic sul promontorio, e mandò due barellieri affinché portassero il celta in salvo, ammonendoli di non lasciar cadere il loro carico sul ripido pendio. Poi riportò l'attenzione sul soldato ai suoi piedi, ignorandomi completamente. «Quante vittime, Lucano?» «Troppe. Cinque morti, sette feriti incluso il tuo amico sulla collina. Questo è il ferito che sta peggio.» «È grave?» Il giovane soldato era incosciente. «Ferita di ascia alla gamba, come puoi vedere, ferita di coltello a un rene, e probabilmente il cranio spaccato. Non si riprenderà.» Non aveva ancora alzato lo sguardo. Con un sospiro lo lasciai al suo lavoro, e mi guardai intorno. Il centro dell'attività, adesso che il combattimento era finito, era un gruppo di soldati a cavallo che si accalcavano e si giravano intorno nell'euforia che sempre accompagna chi sopravvive a una battaglia. Al centro del vortice c'era un capannello di quattro o cinque ufficiali in uniforme che parlavano ad alcuni miei ufficiali, riconoscibili per la dignità e per la calma del portamento. Spinsi il cavallo verso di loro mentre loro avanzavano verso di me, facendosi strada con autorità tra la folla che li circondava; i miei soldati mi riconobbero e levarono un grido di benvenuto, e si riunirono intorno a me formando un grande cerchio. In mezzo al cerchio mi ritrovai faccia a faccia con gli stranieri, e fummo avvolti dal silenzio. «Caio Britannico?» Chi parlava era evidentemente il loro capo, e io annuii, appropriandomi di ogni dettaglio di quell'uomo. Era maggiore di me, più vecchio, forse tra i cinquanta e i sessant'anni, ma aveva l'inconfondibile atteggiamento e l'autorità del soldato di professione e del comandante nato. La sua uniforme era magnifica: elmo, corazza, gonnellino e gambali di bronzo intarsiato d'oro, tutto su una tunica così bianca da abbagliare gli occhi. Un mantello arrotolato di un intenso color turchino era legato al dorso del suo cavallo. «É il mio nome.» «Piacere di conoscerti, allora! Siamo tutti grandemente in debito con te. Non so da dove siete venuti tu e i tuoi uomini, ma ringrazio Dio che siate arrivati quando siete arrivati.» Indicò in alto la punta del promontorio dietro di me. «Se non fosse stato per il vostro arrivo e per l'assistenza che abbiamo ricevuto da lassù, dubito che qualcuno di noi sarebbe vissuto per vedere tramontare il sole. I pagani ci avevano messo intrappola, e ci avrebbero fatti fuori a uno a uno.» Mi guardò e sorrise, e il suo viso si illuminò di calore; parve riscuotersi, e disse, mostrando in lontananza le rovine della fattoria: «Ma ti prego, permettimi di essere ospitale. Abbiamo trascorso la notte tra quelle rovine, non pensando certo che al mattino avremmo avuto una visita indesiderata, e per un poco ci siamo trovati comodi. Volete tu e i tuoi uomini essere miei ospiti per oggi?». «Con gioia» dissi, provando già una profonda simpatia per quell'uomo. Mi girai verso Ciro Appio, il capo delle mie truppe a cavallo fermo alla mia destra ad ascoltare, e gli dissi di radunare gli uomini e di condurli alla fattoria. I pochi feriti sarebbero stati accuditi da Lucano e dalla squadra affidatagli a tale scopo. «Perdona la mia domanda, ma perché hai lasciato che vi tenessero in trappola in quel modo?» Cavalcavo accanto al loro capo, conscio del fatto che non mi aveva ancora detto il suo nome. «Siete soldati a cavallo. Avreste potuto rompere agevolmente l'accerchiamento.» «Sì, ma non siamo abbastanza. Meno di venti in grado di combattere. Avremmo potuto rompere l'accerchiamento, ma abbiamo dei preti con noi, un gruppo numeroso. Sarebbero stati facili prede dei Sassoni. Non potevo abbandonarli. Nel tempo che avrei impiegato a uscire, farmi strada attraverso il nemico, radunare i miei uomini e girarmi per attaccare, i Sassoni sarebbero entrati, dietro le mura, e ci avrebbero tenuti fuori. Non pensavo che avrebbe funzionato, e così ho deciso di restare dov'ero e di combattere. Erano in sovrannumero, almeno tre contro uno. Ma da dove diamine siete saltati fuori? È ovvio che non siete un esercito regolare, perché in Britannia non c'è più nessun esercito regolare. Ma allora chi siete? E che cosa fate qui, in capo al mondo, con duecento soldati a cavallo? E come ci avete trovati?» Mentre lo sconosciuto parlava, il mio cavallo era rimasto leggermente indietro; lo incitai ad aumentare l'andatura, e mi rimisi al fianco di quell'uomo. «Siamo diretti a nord, come dicevo, e stavamo cacciando. Alcune città che abbiamo passato sembrano colpite dalla peste, perciò le abbiamo evitate. Non abbiamo potuto acquistare cibo, e questa mattina ho organizzato delle battute di caccia. Il mio gruppo era lassù sulla scarpata quando abbiamo sentito il rumore del combattimento. Il resto lo sai.» Girò di scatto la testa, e spalancò gli occhi. «Eravate voi, là in alto? Gli arcieri, sul promontorio?» Mi strinsi nelle spalle e sorrisi. «Sì, io e altri due. Vi abbiamo visti dalla cima del precipizio, dove parte la cascata, e siamo scesi ad aiutarvi. Donuil è corso indietro a chiamare gli altri e li ha guidati lungo la strada verso nord.» I suoi occhi si colmarono di un'emozione simile a sgomento. «Beh, comandante» disse infine. «Mi lasci senza parole, ma mi perdonerai se per un poco ti riterrò una specie di deus ex machina, poiché il tuo arrivo e la tua intercessione sembrano davvero soprannaturali.» Mi sentivo improvvisamente a disagio, e non sapevo come rispondere. Cambiò bruscamente argomento. «Siete diretti a nord, hai detto. Anche noi. A Verulamium.» Gli sorrisi. «L'avevo immaginato. È l'unica ragione per cui potevo giustificare la vostra presenza qui. Ho pensato che dovevate scortare dei preti in viaggio per ascoltare il dibattito del vescovo Germano con i nostri vescovi.» Fermò il cavallo e si girò a guardarmi con maggiore attenzione, spostandosi di lato con un'espressione che mi parve di patetica sorpresa. Sorrisi ancora. «Ho ragione?» Anch'egli torse la bocca in un piccolo sorriso, e inclinò il capo in un gesto che poco ci mancava fosse un'ammissione. «Quasi» disse. «Io sono il vescovo Germano.» XXXIII. La mia prima impressione del vescovo Germano e dei suoi accoliti fu caotica: una serie di immagini sconnesse ancora più ingarbugliate dallo stordimento e dall'eccitazione della vittoria, e dalla turbinosa, indisciplinata euforia da essa generata, e sovvertite dal mio profondo sconvolgimento legato alla rivelazione dell'identità di Germano. Un vescovo guerriero era estraneo alla mia esperienza, una assoluta contraddizione in termini per uno che era giunto alla maturità pensando che i vescovi fossero uomini gentili, spesso solitari, pacifisti e pacificatori. Certo, sapevo che Germano era stato un soldato, con una lunga e riuscita carriera come ufficiale di Stato maggiore, e che si era ritirato con il titolo di legato, generale al comando di un intero corpo d'armata. Ma non avevo riflettuto sul modo in cui poteva essersi compiuta la transizione da generale a vescovo, da uomo d'armi a uomo di Dio. Con la massima indifferenza, senza valutare né eccepire, avevo accettato la nozione di una metamorfosi nebulosa, mistica della natura dell'uomo in oggetto, da militante a penitente; da gesso a formaggio; da un archetipo a un altro. Dopo il trauma dell'inevitabile confronto con le mie malformate previsioni, ne riconobbi immediatamente l'impossibilità. Era inconcepibile che Germano il vescovo reagisse all'aggressione e alla minaccia fisica in modo essenzialmente diverso da Germano il legato. L'uomo che mi stava di fronte era un'anomalia dissimile da qualunque mia esperienza: un devoto uomo di Dio, perfettamente addestrato ed esperto nella guerra. Era una combinazione radicale e inattesa. Germano doveva aver letto la costernazione nei miei occhi, perché scoppiò a ridere e voltò il suo cavallo in un'alta impennata che lo portò vicino a me, sul fianco sinistro, e si chinò in avanti per parlare a me solo. «Il nostro gentile Maestro ci ha detto di porgere l'altra guancia a chi ci avesse calunniato, Caio Merlino, ma ha preso in mano egli stesso una frusta quando nel Tempio si è sentito oltraggiato.» Indicò i corpi dei Sassoni sparsi sul pendio. «Porgi l'altra guancia a gente come quella, amico mio, e ti strapperanno le cristiane orecchie, prima di staccarti la testa.» Mi rivolse allora un sorriso pieno di affetto e di amicizia. «Bada alle tue truppe. Parleremo al nostro accampamento, laggiù.» Ci scambiammo un cenno di saluto e rimasi a guardarlo allontanarsi con i suoi seguaci, prima di ritornare dai miei uomini che proprio in quel momento si stavano rimettendo in formazione. Lucano aveva già mandato i feriti, su una serie di lettighe, fino al campo sottostante, e si stava avvicinando lentamente a cavallo. Attesi che mi raggiungesse e diedi il segnale ai miei uomini, e poi mi feci da parte con lui e li osservai sfilare davanti a noi. In lontananza, i nostri carri scorrevano rumorosamente sulle grosse ruote lungo la strada che scendeva dalla cresta. «Allora, Lucano? È andata molto male?» «Sei feriti, nessuno gravemente, adesso. Il settimo è morto, quello ferito dall'ascia. Siamo stati fortunati a cavarcela con così poco. Chi era quello con cui stavi parlando? Il loro capo?» «Sì, in più di un senso. Quello è l'uomo che stiamo andando ad ascoltare. Il vescovo Germano.» Vidi i suoi occhi spalancarsi stupiti, come dovevano avere fatto i miei. «Un vescovo? Comandante di cavalleria?» «No» gli dissi sorridendo. «Un soldato, che esegue il lavoro di Dio meglio che può.» «É scandaloso.» «No, non lo è, Luca. È differente, te lo assicuro, ma non c'è niente di innaturale se consideri l'uomo e la vita che ha vissuto.» Mi fermai e annusai l'aria, e sentii l'odore della mia ipocrisia. «Bada» continuai, «all'inizio ho reagito come te, finché non ho avuto il tempo di adeguarmi alla realtà della situazione.» Gli riferii le parole di Germano. Lucano guardò i cadaveri dei Sassoni disseminati tutt'intorno e sospirò. «I vescovi guerrieri bevono del buon vino?» Risi. «Non ne ho idea, ma lo spero. Andiamo a scoprirlo.» E seguimmo i nostri uomini fino alla cascina diroccata. La prima valutazione dalla sommità del dirupo era stata piuttosto accurata. Al seguito di Germano c'erano ventotto uomini, dei quali quattordici erano chierici di vario genere; quattro erano vescovi come Germano, e venivano dalla Galla e dall'Italia. I chierici erano un gruppo stranamente anonimo; per età andavano dalla fine dell'adolescenza ai quarant'anni passati, e tutti si distinguevano per mancanza di individualità. Erano vestiti in modo simile, con vesti lunghe e semplici di tessuto grezzo marrone, nero o grigio; molti portavano in vita robuste cinture di cuoio, altri invece si stringevano la veste con un pezzo di corda, come gli sgradevoli zeloti che avevano invaso Camulod. Avrei saputo poi da Germano che quei simboli di povertà erano manifestazioni di un'inclinazione crescente tra gli ecclesiastici per l'austerità, una proclività favorita dagli aderenti al monachesimo, che esercitava una vasta influenza sulla comunità religiosa di Roma, dove si era diffusa dalla Grecia e dall'Impero d'Oriente. Il resto del gruppo, che aveva formato il cuneo di cavalleria venuto in nostro soccorso, era diverso sia per carattere sia per aspetto. Erano soldati, con l'uniforme, il portamento, e i modi dei soldati, anche se i modi erano contenuti per rispetto al gruppo devoto cui facevano da scorta. Il loro comandante, un tribuno di nome Mario Tribo, era un giovane socievole che trattava i suoi due, ugualmente giovani, subalterni, i decurioni Piatone e Rufo, con severa ma tollerante autorità e benvolere. Piatone e Rufo utilizzavano un analogo approccio con i loro soldati, una squadra di nove uomini che evidentemente servivano insieme da tempo ed erano buoni amici come possono esserlo solo i soldati in servizio. Davanti a una coppa di vino eccellente, Tribo mi disse che erano stati in Gallia per quattro anni, a combattere contro i Burgundi che minacciavano di impossessarsi dell'intera regione. A dire il vero, ammise, di fatto se ne erano già impossessati. Era rimasto solo un corridoio lungo la costa nordoccidentale, dove le forze romane si sentivano vagamente al sicuro. Lui, i suoi due subalterni e nove uomini erano tutto quello che restava di ottanta uomini, due squadroni di cavalleria al completo. Non vedevano più rimpiazzi da un anno, quando avevano ricevuto il piacevole ordine di scortare il vescovo Germano e i suoi quattro episcopali compagni in Britannia per partecipare al dibattito di Verulamium. Il resto del gruppo di Germano si sarebbe radunato là. Gli ecclesiastici minori si erano uniti a loro in Britannia, lungo la strada dalla costa meridionale. Mentre Lucano e io parlavamo con Tribo e i suoi due decurioni intorno al fuoco, Germano si avvicinò e, prendendomi per il gomito, fece un cortese cenno di scuse e li privò della mia compagnia. Lo seguii a un altro fuoco poco discosto, dove nessuno cucinava e nessuno poteva sentirci. Si era tolto l'armatura, e indossava solo una semplice tunica bianca e i gambali. Si sedette su uno sgabello e me ne indicò un altro accanto a sé. Mi sedetti anch'io, sentendo i suoi occhi su di me ma preferendo non offenderlo con uno sguardo altrettanto franco. Era una giornata bella e calda, e il fuoco mi sorprese. Tutti gli altri fuochi dell'accampamento erano sormontati da pietre ollari per cucinare, ma quel fuoco sembrava essere acceso solo per diffondere calore. «Una terra fredda, la vostra, Caio Merlino, anche in una giornata calda come questa.» Germano tese le mani verso le fiamme. Lo guardai sorpreso, e sorrise. «Non mi sono ancora abituato a stare lontano dal sole dell'Africa. Ho il sangue annacquato. Perfino in Italia, dove fa molto più caldo di qui, sono costantemente afflitto dai brividi.» Parlando fissava il fuoco, e mi sentii libero di osservarlo apertamente. Doveva avere tra i quarantacinque e i cinquantanni, forse più vicino ai cinquanta. Aveva i capelli scuri e ricciuti, tagliati cortissimi secondo la moda militare romana. Anche la pelle era scura, abbronzata da anni di esposizione alla bruciante luce del sole, e gli occhi marroni erano infossati tra piccole rughe. Era una faccia forte e buona, e il resto del corpo le assomigliava. Le spalle e il petto erano ampi, le braccia robuste e muscolose senza traccia di incipiente vecchiaia. Le gambe, la destra tesa verso il fuoco, erano massicce e ben proporzionate. Un fisico decisamente formidabile, pensai, per un soldato, e tanto più per un ecclesiastico. Si schiarì la voce e parlò senza guardarmi. «Caio Merlino Britannico... Un tempo servivo con un uomo di nome Britannico... Pico Britannico. Parenti?» «Era mio padre, signore.» «Davvero?» Mi guardò. «Il colore dei capelli avrebbe dovuto bastarmi. Lo conoscevo bene, un tempo. É stato mio amico per molti anni, sotto Stilicone.» Fece una pausa. «Quando è morto?» «Pochi mesi fa.» «Così di recente? Le mie condoglianze. Era un uomo in gamba, e un soldato di cavalleria per passione.» «Grazie, signore. Anche lui pensava bene di te. Quando la mia prozia Luceia ha sentito fare il tuo nome, ti ha riconosciuto subito grazie alle lettere di mio padre. É stata lei a dirmi chi eri... chi sei. Le è dispiaciuto non poter venire con noi, ma ormai è una vecchia signora.» Germano mi guardava pensieroso, stringendo tra i denti il labbro superiore. Tacqui, aspettando che desse voce ai suoi pensieri. Non mi fece aspettare a lungo. «Caio? Merlino? Come ti chiamano i tuoi amici?» «Con entrambi i nomi» gli dissi, sorridendo. «Ma per lo più Merlino.» «Bene, Merlino, allora... un nome insolito... É britanno?» «Celtico, della Cambria. Merlino è un dio dei Celti.» «Capisco. Sono venuto qui in Britannia, Merlino, per discutere le teorie della Chiesa di Roma e dovunque con i... sostenitori - stavo per dire discepoli - di un uomo condannato per apostasia, se non più recisamente per eresia.» Annuii. «Lo so. Pelagio.» «Sì, Pelagio. Sono sorpreso che tu lo conosca. Ne hai sentito parlare?» «Mio padre lo conosceva.» «Ah!» Germano fece un cenno di assenso, sorridendo tra sé. «Era necessario chiedere? Tuo padre doveva conoscerlo certamente. Pelagio veniva dalla Britannia e si è fatto un nome. Tuo padre sarebbe andato a cercarlo solo per quello. Pico era molto fiero di essere della Britannia.» Corrugò la fronte. «Ma ciò non cambia nulla. Come dicevo, sono venuto a discutere gli insegnamenti di Pelagio, le sue convinzioni che si sono rivelate eretiche. Ma questo dibattito è teologico, da vescovi a vescovi. Può avere poca importanza - la forma e il contenuto del dibattito in sé, non il risultato - per gli uomini comuni. E non dovrebbe averne nessuna per le donne. Perciò dimmi, se ti garba, di questa tua prozia... Luceia, si chiama? Come ne è venuta al corrente? E perché mai desiderava assistervi? E perché» continuò, «volendo assistervi, non l'ha fatto, malgrado l'età avanzata? Se la sua mente è tanto lucida da comprendere i problemi in questione, e il suo interesse così acuto da riuscire a scoprire la data e il luogo, l'età da sola non dovrebbe essere un ostacolo sufficiente.» Feci un cenno di acconsentimento prima ancora che finisse di parlare. «Non è stata solo l'età, ma la distanza.» «La distanza?» Era sorpreso. «Quanta strada avete fatto?» «Più di cento miglia.» «Gran Dio! Per sentire discutere dei vescovi?» Il suo stupore era chiaramente sincero. «Perché? Che cosa ti ha spinto a fare un viaggio simile a un simile scopo?» Esitai, meditando la risposta che mi tremava sulle labbra, conscio che si aspettava di trovarmi impreparato tra gli aspetti tecnici e dottrinali del dibattito. Forse aveva ragione, ma l'avrei scoperto personalmente. Vuotai la coppa e buttai la feccia nel fuoco. «Credo di essere venuto fino qui per un buon motivo, vescovo...» Esitai ancora, poi perseverai, improvvisamente convinto della verità dei miei pensieri. «E credo che tu abbia torto a sostenere che questo dibattito non è di alcun interesse per la gente comune. Giudichi male noi della Britannia, e la qualità delle nostre idee.» Mi fissava con un'espressione difficile da interpretare, ma vidi solo interesse e nessun indizio di censura, né di offesa, per l'ardire delle mie parole. Il silenzio crebbe, finché Germano non lo interruppe. «Prosegui. Non hai finito, immagino.» Il tono della sua voce era gentile. «No, non ho finito.» Tacqui, e diedi un colpo di tosse per schiarirmi la gola, prima di continuare. «Ma sono venuto per ascoltarti discutere l'errore degli insegnamenti di Pelagio secondo la posizione della Chiesa di Roma, non per discutere con te, o per parlare dei miei problemi.» «Hai paura di parlarne?» «No, per niente.» «Allora parla. Ti ascolto.» Esitai ancora, passando rapidamente in rassegna le argomentazioni e i punti di vista che avevo sentito mio padre formulare e difendere. Germano non tradì alcuna impazienza per il mio silenzio. Una voce vicina si levò in uno scoppio di risa e si spense. Gli uccelli cantavano. Il rumore delle fiamme che consumavano il legno sembrava molto forte. Finalmente parlai, e, quand'ebbi incominciato, le parole si susseguirono fluenti. «Il padre di mio padre aveva un amico di lunga data, un vescovo di nome Alarico, di Verulamium, che è anche il luogo in cui avverrà il vostro dibattito. Lo conobbi quand'ero bambino; ora rammento poco di lui, eppure so tante cose della sua vita, perché mio nonno, e poi il suo amico, il mio prozio, scrissero tanto di lui, e io ho letto tutti i loro scritti. Era un uomo semplice e devoto di grande fede e profonda umanità. Visse la sua vita come un esempio di carità cristiana rivolto a tutti coloro che lo conoscevano, o che sapevano di lui. Non fece mai del male a nessuno, non mostrò mai meno che perfetto decoro e perfetta misericordia, in tutta la vita mai una volta giurò il falso, non abiurò mai il suo Dio e la sua fede, e mai ebbe a che fare con tradimenti di alcun genere. Morì, diciotto anni fa, poco prima del mio undicesimo compleanno, e lasciò questa vita come l'aveva vissuta, sostenuto dalla sua fede e dalla sua fiducia in Dio e nella sua perfezione.» Smisi di parlare finché Germano non mi guardò. E quando incontrai il suo sguardo, dissi: «Hai detto che Pelagio è stato condannato per apostasia, se non per eresia...». Annuì, e io continuai. «Comprendo l'apostasia, nel senso dell'abbandono di una politica o di una dottrina stabilita-e non vedo come qualcuno possa accusare Pelagio di avere abbandonato il cristianesimo o i suoi insegnamenti - ma non comprendo il significato di eresia. Ho sentito quel termine - mia zia Luceia l'ha usato - ma non so che cosa implica. La parola apostasia ha un suono nefasto, ma eresia dev'essere peggiore.» Germano si mosse e distolse lo sguardo da me, rivolgendolo verso il fuoco, che crollò su se stesso sollevando pallide scintille a malapena visibili nell'aria chiara del pomeriggio. «Lo è» disse con un sospiro accorato. «Molto peggio. Apostasia, come l'hai correttamente definita, è l'abbandono della fede e dei principi religiosi. Eresia è l'adozione, e l'insegnamento, di un'opinione che va direttamente contro gli insegnamenti ortodossi della Chiesa. È un peccato mortale.» «Mmh...!» Infilai le mani sotto di me, tra le cosce e lo sgabello, e mi sporsi in avanti. «Secondo chi? Questo pensiero mi angustia. Mi angustia profondamente. Mi è già difficile immaginare che qualcuno possa accusare Pelagio di essere non-cristiano, ma questa eresia è spaventosa.» Mi stava guardando di nuovo, e continuai. «É peccato mortale avere un'opinione che contrasta gli insegnamenti ortodossi della Chiesa. É questo che stai dicendo?» Annuì, e io scrollai il capo. «É una cosa nuova per me. Dimmi, se puoi, chi definisce l'ortodossia?» Sembrava preoccupato. Un solco profondo gli era apparso tra le sopracciglia. «I Padri della Chiesa.» «E chi sono questi padri?» «I vescovi anziani.» «Perdonami, ma quali vescovi anziani?» «I vescovi delle Sedi primarie: Roma, Antiochia, Ippona e diverse altre.» «Ippona. Il vescovo Agostino.» «Sì.» Le sopracciglia si erano inarcate di scatto. «Conosci il santo Agostino?» «Solo per sentito dire, e non ho sentito parlare della sua santità ma solo delle sue opinioni, che sembrano avere grande peso.» Un altro solco. «La tua voce è piena di amarezza.» «Sono pieno di amarezza!» Mi alzai dallo sgabello e girai intorno al fuoco, guardandolo e parlandogli attraverso le fiamme. «Il vescovo Alarico, che ho nominato poco fa, era uno degli uomini migliori che mio nonno, il mio prozio e mio padre avessero mai conosciuto. Era davvero un sant'uomo. E giunto ormai alla fine della sua vita, riconobbe che gli insegnamenti di Pelagio erano ispirati da Dio. Non vedeva in essi alcun motivo per mettere in dubbio le convinzioni di un cristiano fedele: né conflitti, né trasgressione, non vedeva in essi vergogna né peccato. Ma il vescovo di Ippona sì, sicuramente, e adesso Pelagio viene condannato dal potere di Agostino. E vuoi dirmi che il vescovo Alarico è morto in una condizione di peccato mortale, a causa di quella diatriba? Perché la sua opinione differiva da quella del vescovo Agostino? E Agostino è un santo? A tutti noi rimane ben poco da sperare nella salvezza, se uomini come Alarico possono venire condannati alla perdizione eterna da un santo!» Il mio sfogo turbava intensamente Germano. Il suo viso era segnato dalla preoccupazione, ma non esprimeva rabbia né giudizio. «Merlino» disse con parole lente e misurate, «tu non conosci Agostino. Io sì. É un uomo brillante e meritevole, benedetto da Dio, e da quando è entrato nella Chiesa ha condotto una vita in contemplazione e in penitenza, alla ricerca della verità di Dio.» «No, perdonami se ti offendo, ma non posso accettarlo, Sarà brillante, come dici, ma è un uomo, vescovo, come lo sono io, e come lo sei tu. Nessun uomo può essere Dio. Da dove viene questa ortodossia?» Il mio disgusto era tanto che quasi sputai quella parola, ma proseguii in fretta, senza dargli la possibilità di rispondere. «Alarico ci ha parlato di un Cristo amorevole, venuto a portare agli uomini pace e amicizia, perdono e mansuetudine, carità e tolleranza... di un semplice falegname che si esprimeva con parabole e definiva beatitudini, e che morì in ignominia affinché gli uomini potessero essere redenti grazie alla misericordia infinita. Dov'è andato quell'insegnamento, quell'esempio? Mi sembra di non vederlo nella Chiesa del Cristo di oggi, dove uomini - uomini, vescovo - si aggrappano al potere e abrogano è negano e annullano il ruolo del Salvatore, elaborando e ridefinendo la Parola e la Volontà di Dio secondo i loro fini in nome dell'ortodossia, e consegnando altri uomini alla dannazione eterna perché le loro opinioni sono diverse!» Mi mancarono il fiato e le parole e mi accorsi che lo stavo fissando attraverso il fuoco, con occhi che bruciavano per il fumo acre, eppure lo ignoravano. Germano mi fissava di rimando, immobile, attento. Il cuore mi martellava in petto, e nella pancia sentii formicolare una vergogna informe, o forse era terrore. Sapevo al di là di ogni dubbio che le sue prossime parole, la sua immediata risposta al mio sfogo, avrebbero segnato per sempre il mio atteggiamento e il mio comportamento. Germano evidentemente intuiva come me l'importanza della sua risposta, perché si trattenne. Alzò la mano destra, con il palmo rivolto verso di me, in un gesto inequivocabile che richiedeva di rimanere dov'ero, lasciò il fuoco ed entrò nella tenda più vicina. Io rimasi lì, a guardare l'ingresso della tenda in cui era sparito, a serrare e disserrare i pugni in preda all'agitazione, cercando di rallentare i battiti del mio cuore di ritrovare la calma. Pochi momenti dopo Germano riapparve con due calici puliti e un fiasco di vino. «Siediti, Caio Merlino.» Ripresi posto sul mio sgabello. Senza parlare versò il vino, e me ne porse una coppa. La coppa era fredda, il vino era giallo chiaro. Presi la coppa e bevvi, assaporando il buon gusto del vino nonostante l'agitazione. Germano richiuse il fiasco e si sedette sul suo sgabello, sorseggiando il vino con fare riflessivo. Il fuoco crepitò, e crollò ancora su se stesso. Avrebbe presto avuto bisogno di altra legna. «Non c'è niente da guadagnare nell'amarezza, Merlino, e tu sei amareggiato. Anche tu sei nell'errore.» Lo guardai, pronto a ribattere, ma continuò: «Il tuo amico Alarico è nelle mani di Dio e non ha niente da temere. Il suo errore, quando lo commise, non era un errore, poiché non era ancora stato definito tale. Perciò mettiti l'animo in pace». «Ma...» «Ma cosa?» Scossi la testa, perplesso. «Come puoi saperlo, vescovo? Se avere una determinata opinione oggi è peccato mortale, come poteva la medesima opinione essere ineccepibile meno di due decenni fa? Non capisco.» Si strinse nelle ampie spalle. «Mi rendo conto del tuo dilemma. Tuttavia, così vanno queste cose. La Chiesa, nella sua saggezza, ha deciso che Pelagio era gravemente in errore.» «Ma la Chiesa è composta da uomini, vescovo, da comuni mortali. Come possono quegli uomini decidere per tutti gli altri in questioni così gravide di conseguenze?» «Perché hanno il potere di farlo - di interpretare la legge - e ci vogliono leggi chiare per guidare i passi della massa degli uomini.» Scossi ancora la testa in segno di diniego, e sentii che la frustrazione mi riassaliva. «No. Qui c'è in gioco più del potere della legge. Sei caduto in un paradosso, vescovo. Pelagio difendeva la legge. Era un avvocato. La teoria della Grazia Divina - la necessità dell'intervento diretto e soprannaturale perché il genere umano possa conquistare la salvezza - nega il bisogno della legge umana, perché nessuno può condannare un criminale che affermi che Dio non gli ha dato la Grazia per resistere alla tentazione. E adesso dici che gli uomini hanno bisogno di leggi - stabilite da pochi per condannare i difensori della legge.» Liquidò la mia polemica con una solenne scrollata di capo. «Tu male interpreti le mie parole. Secondo il giudizio di chiunque, questi Padri della Chiesa sono ben lontani dall'essere ordinari. Sono tutti uomini straordinari, di grande erudizione, devozione e merito.» «Per definizione di chi?» Si stava palesemente spazientendo. Strinse le labbra, e parlò con freddezza. «Per definizione dei vescovi della Chiesa in conclave.» «Altri uomini, che si appropriano delle parole di Dio.» «Bada a te, Caio Merlino! Ti stai spingendo troppo oltre.» «No, vescovo Germano, mi sono spinto fino a qui, e sono qui a causa degli uomini che hanno portato la parola della Roma di oggi della Chiesa di oggi a Roma - nella casa di mio padre e l'hanno costretto a bandirli per la loro presunzione. Uomini che si sono arrogati il titolo di uomini di Dio, e hanno preteso che Pico Britannico accettasse loro, la loro intolleranza, e la loro intollerabile arroganza, in virtù solo della loro parola.» Aveva spalancato gli occhi per lo stupore. «Che cosa? Di che arroganza stai parlando? E tuo padre li ha banditi? Vescovi di Roma? Non ne so niente.» «Non erano vescovi. Si definivano preti. Ma mio padre li ha buttati fuori dalle nostre terre, al confino.» «Gran Dio! Racconta.» Bevvi un altro sorso di quel vino delizioso, e poi gli raccontai tutta la storia dei fanatici zeloti che avevano mandato in collera prima mio padre, e poi me. Ascoltò in silenzio, senza interrompermi. Quando ebbi finito di parlare, gli sfuggì un possente sospiro. «Zeloti» disse, usando la parola che io non avevo pronunciato. «Temo che stiano diventando numerosi. E il danno che provocano può essere irreparabile. Adesso comprendo la tua ostilità, non verso di me, perché non ne sento, ma verso la Chiesa e la sua autorità.» Non dissi nulla, incoraggiato comunque dalla sua approvazione. Sospirò ancora. «Ed è stato questo... evento... che ti ha indotto a intraprendere questo viaggio?» Annuii. «Te lo chiedo di nuovo, a quale scopo?» Finii il mio vino e ne rifiutai dell'altro con un cenno del capo. «Mio padre disse loro che avrebbe potuto ritornare sulla sua decisione, se e quando avesse ricevuto istruzioni, o almeno comunicazioni, dalle autorità ecclesiastiche a Roma. Non abbiamo più saputo niente, e adesso mio padre è morto. La tua è la prima missione di rilievo di cui abbiamo sentito parlare da allora, e mia zia e io crediamo che sia importante ascoltare il tuo messaggio direttamente.» «Capisco. Beh, ascoltarlo lo ascolterai certamente. Te lo posso assicurare. Ma tu sei un soldato, e quindi un pragmatista, e queste sono chiacchiere da ecclesiastici: teologia, semantica e teoretica metafisica. Che cosa farai se non riuscirai a coglierne il senso?» Gli sorrisi, di nuovo di buon umore. «Ti chiederò di spiegarmelo, vescovo, con parole che un soldato possa capire.» Fece una smorfia. «É semplicistico. In un certo senso sono sia carne sia pesce, mai però simultaneamente. Quando assumo una personalità, abbandono completamente l'altra. Devo farlo, per non correre il rischio di non sussistere in alcuno dei due ruoli.» Rifletté un momento. «Dimmi, Caio Merlino, se puoi, se ci fosse un... elemento, un attributo di questo dibattito che ti aspetteresti di trovare, e che cercheresti forse... quale sarebbe?» Quasi non dovetti pensare prima di rispondere. «Il potere.» Vidi che era perplesso, e parlai più chiaramente. «Come ho detto, tu sei il primo vescovo anziano che viene in Britannia dalla partenza delle legioni - il primo, almeno, con una missione considerevole della quale io sia al corrente - e il messaggio che porti con te possiede potere, un grande potere, e una grande autorità. Con una quantità sufficiente dell'uno e dell'altra, potresti convincere i tuoi pari in questa terra a mutare il modo di pensare e di agire della nostra gente. Questo potere sarà scoperto e attivo a Verulamium. Voglio vederlo e valutarne la tempra.» Feci una pausa per dargli il tempo di rispondere, ma non disse nulla. «Per estensione» ripresi, «se il vostro dibattito dovesse rivelarsi inconcludente, o insufficiente a convincere i nostri vescovi della giustezza della tua causa e della posizione di quei Padri della Chiesa di cui parli, allora io, e il mio popolo, continueremo a vivere secondo le regole insegnateci dal vescovo Alarico e da uomini come lui. Queste regole affermano che tutti gli uomini e tutte le donne sono nati uguali agli occhi di Dio, ognuno dotato di forza propria, ognuno con un compito da adempiere, e ognuno con la capacità donata da Dio di riconoscere e discernere sia il Bene sia il Male e di assumersi l'onere di scegliere tra i due. E tutti i cristiani accettano la personale responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte, davanti a Dio e attraverso l'esercizio del libero arbitrio.» Germano rimase seduto eretto durante tutta la mia arringa, fissandomi a occhi socchiusi, il mento annidato in una mano, il gomito appoggiato al dorso dell'altro braccio piegato sulla cintola. Quando ebbi finito distolse lo sguardo e lo fissò nel cuore del fuoco morente. «Avresti dovuto fare l'avvocato.» «No, signore» replicai. «Io sono un soldato. Pelagio è avvocato a sufficienza per me, e per il mio popolo.» «Mmh.... Sai che è morto?» Annuii, senza dire nulla. Germano si alzò in piedi. «Merlino, potrei rispondere a quello che hai detto, ma non lo farò, non ora. Le tue parole, e la semplicità con cui le affermi, sembrano irrefutabili, lo so, e non intendo condannare la tua chiara fiducia nella loro verità.» L'ennesimo sospiro mi parve più una sonora raffica di fiato che proveniva fino dalla pianta dei piedi. «Ma c'è molto più di quanto puoi immaginare. Ed è per questo, naturalmente, che sono stato mandato qui.» Mi sorrise e mi tese la mano. «Ancora una volta, Caio Merlino, lascia che ti ringrazi per il tuo aiuto di oggi. Senza di esso, non avremmo forse mai visto Verulamium, e per molti altri anni non ci sarebbe stato nessun dibattito. Devo andare adesso, e ridiventare vescovo, abbandonare armi e armatura e pregare che l'umiltà mi fortifichi nella grazia per affrontare il compito che mi aspetta.» Esitò per un istante. «Parleremo ancora di tutto questo, te lo prometto.» Rimasi accanto al fuoco e lo guardai entrare nella tenda che era ovviamente la sua, e da quel momento in poi non vidi più Germano il legato. Da quel momento in poi fummo la scorta di Germano l'Ecclesiastico. XXXIV. Trovarmi a Verulamium mi disturbava profondamente. Avevo la stessa sensazione aliena di meraviglia e di terrore che avrei provato molto più tardi nella mia vita, al mio primo funerale celtico in Ibernia, circondato da una ressa di gente che faceva baldoria, mangiava e beveva e celebrava l'umanità del defunto, mentre il cadavere giaceva rigido e serio in mezzo a loro. In una macabra parodia della vita nella morte, Verulamium era una città la cui dipartita veniva festeggiata, sicuramente in modo inconscio, dalla maggior parte dei celebranti. Era un luogo spettrale, moribondo, devastato e fatiscente, che sperimentava un ultimo guizzo di vita frenetica e urbana grazie alle folle che erano discese su di esso e intorno a esso, attirate da Germano e dai suoi vescovi e dall'importanza dell'occasione. La prima incongruenza che notai furono gli edifici. Alcuni erano abitati, ma quasi tutti erano gusci, abbastanza belli all'esterno, ma vuoti e sconquassati all'interno, che non offrivano nemmeno una scintilla di calore o di comodità. Pensavo di conoscere bene quella città dalle mie letture, e per tutta la vita me l'ero immaginata come la città del vescovo Alarico. Nella mia mente avevo sempre visto Verulamium come un luogo incantevole e maestoso, ricco eppure bucolico e ben tenuto, con una popolazione sana e prosperosa. Nella realtà era una landa desolata e in rovina, e ci vivevano in pochi. Solo dietro le originali mura romane, un'enclave grande quanto un accampamento fortificato - quella era stata la sua prima destinazione - c'erano tracce di dimore permanenti e durature. La moltitudine di gente che si accalcava per le vie di giorno, di notte si accampava, per la maggior parte, nei campi intorno alla città. La basilica e i bagni pubblici erano stati frettolosamente restaurati per accogliere l'afflusso di delegati al dibattito, ma erano dolorosamente inadatti a servire le orde che si erano materializzate all'improvviso, allettate dalla promessa di grandiosi sviluppi, e gli edifici vuoti diventarono presto latrine pubbliche, il cui fetore non impiegò molto a permeare l'aria in ogni direzione. Il grande dibattito si sarebbe tenuto nel vasto anfiteatro fuori città che, come sapevo dai racconti di zio Varro, poteva ospitare più di settemila persone sedute; ma quando arrivammo, con tre giorni di anticipo sull'inaugurazione, dentro e intorno alla città c'era già più di due volte quel numero di persone. C'erano chierici in abbondanza, naturalmente. Ogni vescovo di Britannia in grado di partecipare era presente di persona, con tanto di assistenti e accompagnatori. Dapprima mi divertì - poi mi sconvolse - vedere quanto ampiamente variavano nell'aspetto i diversi gruppi e sottogruppi di ecclesiastici. Alcuni erano vestiti in modo semplice e dignitoso, come si confaceva alla loro vocazione, ma molti, molti di più si comportavano come uomini ricchi e facoltosi, indossavano abiti sontuosi e ostentavano croci ingioiellate e calici d'oro. E poi c'erano le folle. Molte erano persone sobrie e decenti, abitanti della Britannia venuti come noi ad ascoltare e a vedere discutere e decidere il loro destino. Altri, invece, ed erano in assoluto i più numerosi, appartenevano a quel genere di persone sempre attratte dalle grandi adunanze, bramose di ingrassarsi grazie alla dabbenaggine degli sciocchi. C'erano venditori ambulanti e ciarlatani e ladri e tagliaborse, meretrici e arpie e puttane, musicanti e cantastorie, attori e cantanti e indovini. C'erano mercanti di vini e birra e idromele e cibo di ogni tipo. In nessun luogo c'erano custodi dell'ordine. E il risultato era il caos. Dal giorno del nostro primo incontro avevo scambiato sì e no una decina di parole con il vescovo Germano. Per tutta la durata del nostro viaggio insieme verso nord, si era tenuto in disparte ed era tornato a essere vescovo, trascorrendo il suo tempo in preghiera e in contemplazione, e preparandosi all'imminente dibattito. Ci eravamo divisi alla periferia della città il mattino del nostro arrivo: lui e i suoi compagni si erano diretti all'interno per incontrare il resto del seguito, e noi avevamo voltato verso est alla ricerca di uno spazio vasto abbastanza per accamparci e poter comunque raggiungere facilmente la città e l'anfiteatro. Quella sera, però, poco dopo il tramonto, mentre il nostro accampamento stava ritrovando la calma dopo il pasto serale, e io mi stavo godendo con Lucano un fiasco di idromele alla luce del nostro bivacco, Germano venne a farci visita, in veste di vescovo, con tanto di tunica lunga e pastorale, accompagnato da un altro. Parecchio sorpreso, perché non mi aspettavo davvero di incontrarlo di nuovo, e men che meno di parlare con lui, diedi il benvenuto a lui e al suo compagno, e chiamai Donuil affinché servisse loro dell'idromele. Lucano fece subito per allontanarsi con un pretesto, ma Germano lo invitò a rimanere, scusandosi invece per l'interruzione. Si girò poi verso di me, indicando l'uomo che lo accompagnava. «Caio Merlino, non hai ancora incontrato il vescovo Patrizio di Verulamium, anche se lui conosce tua zia, donna Luceia.» Mi ricordai immediatamente. Quello era il vescovo che per primo aveva portato a Camulod il prete pazzo di nome Remo, anche se non potevo certo incolpare lui per la follia di Remo. Gli strinsi la mano e gli dissi che avevo sentito mia zia parlare di lui, ma mi trattenni dal dirgli che pensava che non valesse la metà del suo predecessore. Era un vecchio grande e grosso, dall'aspetto compiaciuto e ben nutrito, ma dai modi educati e inoffensivi. Li presentai a Lucano, che aveva già visto Germano ma non gli aveva mai parlato, e chiesi loro di accomodarsi sui due sgabelli pieghevoli che Donuil aveva sistemato accanto ai nostri. Quando si furono messi a loro agio accanto al fuoco e avemmo levato un amichevole brindisi al tanto atteso evento, chiesi lo scopo della loro visita. Fin dal loro arrivo mi ero accorto che Germano sembrava il imbarazzo, ma non avrei potuto indovinarne la ragione. Aggrottò la fronte e risucchiò le labbra come per togliersi di bocca un sapore sgradevole e, quando parlò, le sue parole furono inequivocabili. «Lo scopo della nostra visita, Caio Merlino» disse, «è sia sfacciato sia imperdonabile.» Scoccai un'occhiata a Lucano, che già mi stava guardando sorpreso con un'espressione interrogativa. Mi rivolsi a Germano. «Bene, vescovo, ti sei assicurato la mia completa attenzione.» «Mmh...! Sei stato in città?» Feci un cenno di diniego. «No, non ancora. Abbiamo montato il campo.» «C'è stato qualcuno dei tuoi uomini?» «No, e non ci andranno fino a domani. Perché?» Mosse la testa in un moto di disgusto. «Quel posto è in uno stato di anarchia... di assoluta confusione... Migliaia di persone, di ogni genere, senza rispetto per la legge e l'autorità, e nessun mezzo per mantenere l'ordine, nessuno.» Lo fissai, stupito. «Ce n'è così tanto bisogno?» «Bisogno? Di ordine?» Era incredulo. «Come puoi fare una domanda simile? Ci sono migliaia di persone più del previsto, e non hanno né una sistemazione né latrine. Latrine, Merlino, il flagello di tutti i comandanti sul campo. Il sudiciume ha già incominciato ad ammucchiarsi ovunque, e lo sporco genera pestilenze, come ben sai. Ma la cosa peggiore, per il momento, è la mancanza di cibo. Nessuno ha preso alcun provvedimento per nutrire queste migliaia di persone, che da giorni e giorni arrivano a sciami. Qualcuno è qui da settimane. La maggior patte si è portata delle provviste, che però sono già state consumate, perché molti pensavano di comprarlo qui il cibo, e qui di cibo non ce n'è, o ce n'è poco. E il poco che c'è è stato requisito da un gruppo di briganti...» «Requisito? Come hanno fatto? Nessuno ha cercato di impedirglielo?» Nel momento stesso in cui formulavo la domanda, seppi che era una domanda sciocca. L'espressione di Germano e le sue parole me lo dimostrarono. «Merlino, sono bene organizzati, e perciò pericolosi e potenti. A Verulamium abitano quattrocento anime. Un onest'uomo di nome Michele funge da aedile, o sindaco. Quattro cittadini lo aiutano a mantenere la pace in tempi normali. Adesso che i tempi a Verulamium sono anormali, lui e i suoi quattro, seppure con il contributo della mia scorta, non servono a niente. Questi ladri sono organizzati, e apparentemente disciplinati, almeno in parte. Da quello che ho saputo, si tratta di una sconclusionata banda di più di cinquanta canaglie, probabilmente mercenari o peggio, attirati qui dalla notizia del nostro raduno. Sono arrivati qualche giorno fa, hanno fatto una stima della situazione, hanno visto l'opportunità e preso il controllo del cibo disponibile servendosi della forza e delle minacce. Mentre parliamo si preparano guai. Non tutti quelli che sono qui riuniti sono pecore. Si è formato un nucleo di resistenza, anche se in ritardo, e un confronto violento sembra inevitabile. Prima dell'alba l'intera città potrebbe essere in fiamme. Morirà della gente stanotte, Merlino, e con il passare del tempo e l'aumentare delle cifre, lo stato delle cose si deteriorerà di più e più rapidamente.» Fece una pausa e si schiarì la voce, con evidente disagio. «Sono venuto a chiederti se useresti i tuoi uomini per imporre l'ordine nella città. Ci sono gli uomini della mia scorta, ma non bastano. Li metto a tua disposizione.» Non riuscivo a credere alle mie orecchie, ma non dubitavo di una sola parola. Né dubitavo che i miei uomini fossero di cruciale importanza per il benessere di chiunque, a Verulamium. Il dubbio che subito mi aveva assalito concerneva il mio diritto di scaraventare i miei uomini in un confronto che non li riguardava, un confronto che quasi sicuramente sarebbe stato violento e sanguinosamente brutale se si fosse svolto per le vie della città, cosa di cui invece non dubitavo, in particolare se quelle stesse vie fossero state piene di civili facinorosi. Guardai Lucano in cerca di sostegno, ma aveva la testa china e fissava il fuoco. Guardai il vescovo Patrizio. Era impassibile, il suo volto non tradiva nient'altro che preoccupazione, non potevo sapere se per il mio dilemma o per la sorte della città. Germano mi restituì serenamente lo sguardo. «Dannazione, vescovo» dissi, lottando contro il panico crescente. «Non posso ordinare ai miei uomini di irrompere nella città. Non ne ho il diritto e nemmeno l'autorità. Sono qui con me in missione diplomatica, nient'altro; per manifestare una presenza da parte della nostra Colonia. Non ho il diritto di mettere in pericolo la loro vita in una situazione come questa.» «L'hai messa in pericolo per aiutare noi.» «Era diverso. Eravate attaccati da predatori sassoni, barbari. In quella città ci sono dei Britanni.» Scossi la testa, odiandomi. «No, non posso ordinare una cosa del genere ai miei soldati.» Annuì. «Comprendo la tua riluttanza.» Una lunga pausa, e poi: «Potresti chiederglielo, però». Lo fissai. «Come, chiederglielo? Di offrirsi volontari?» «Sì.» «E se rifiutano, come dovrebbero?» «Allora rifiutano.» Rimasi seduto in silenzio per molti lunghi momenti, fissando senza vederle le fiamme del bivacco, con in mente un vortice di possibilità. Quando rialzai gli occhi abbagliati dalla luce del fuoco, avevo deciso. Chiamai Donuil e gli dissi di convocare gli ufficiali davanti alla mia tenda. Aspettammo insieme in silenzio per il tempo necessario. Quando tutti e tredici si furono riuniti appena oltre il circolo illuminato dalla luce del fuoco, dissi loro di venire avanti, li presentai a Germano, che già conoscevano, e a Patrizio, che non avevano mai visto, e spiegai loro l'accaduto. Ascoltarono in silenzio, e sempre in silenzio meditarono le mie parole. Non avevo fatto niente per nascondere le mie apprensioni per la richiesta di Germano, e mi ero spinto fino a sottolineare che non avevano nessun obbligo. Quando pensai che avessero avuto il tempo di riflettere, chiesi la loro opinione sul da farsi. Fello, il capo degli esploratori, fu il primo a parlare. «Non serve discutere, comandante. Dovremmo andare, Non stanotte, se possiamo evitarlo... non senza aver dato una bella occhiata in giro... ma c'è un lavoro da fare, e non possiamo starcene qui seduti e lasciare che succedano queste cose. Se questi bastardi la passano liscia qui, poi saranno da un'altra parte tra una settimana, o tra un mese.» Si voltò verso Ciro Appio, il capo del primo squadrone. «Che cosa ne dici, Ciro?» Appio annuì. «Assolutamente corretto, signore» concordò guardandomi negli occhi. «Non ce lo aspettavamo, ma non possiamo ignorarlo. Non abbiamo altra scelta che andare là dentro e mettere a posto le cose. Dovremmo anche organizzare delle battute per procurare del cibo.» Guardai gli altri. «Nessuno dissente? Qualcuno ha argomenti da discutere?» Nessuno si mosse, e nessuno parlò. «Benissimo, allora» continuai. «Ma il criterio che è stato applicato a voi deve essere applicato anche ai vostri uomini. Non può esserci coercizione. Questa è una faccenda solo per volontari. Radunate i vostri uomini. Parlerò con loro non appena saranno tutti nell'area del commissariato.» Gli ufficiali si dispersero, e io mi rivolsi a Germano. «Ce l'hai fatta, a quanto pare. Con gli ufficiali a favore, metà degli uomini accetterà.» Scosse la testa e sorrise. «No, Merlino, accetteranno tutti, e io te ne sono grato... Te ne siamo grati.» Il vescovo Patrizio confermò le parole di Germano. Io ero già alle prese con la logistica, «Posso avere i tuoi dodici Romani?» «Naturalmente.» «Bene, allora ecco che cosa faremo. Pello, il capo degli esploratori, vorrà dare un'occhiata in città per valutare lo stato delle cose. Io andrò con lui, ma non in uniforme. Credo che sarebbe un gesto sovversivo. Inoltre, come è stato detto, se possiamo evitarlo non manderemo là dentro i nostri uomini stanotte. Li metteremo subito in allarme, in ogni caso, ma li terremo pronti a muoversi all'alba, quando staranno quasi tutti dormendo. Così, saremo in situ prima che qualcuno possa obiettare, e sarà tutto più facile. Nel frattempo, fai in modo che la tua scorta di Romani, che sono già stati visti da tutti, sia pronta a entrare a tirarci fuori stanotte in caso di difficoltà. Puoi farlo?» Annuì. «Avrò anche bisogno di incontrare l’aedile, Michele, e i suoi uomini. Dì loro che si facciano trovare all'ora decima davanti all'ingresso principale della basilica. E gli altri di cui hai parlato, quelli che stanno organizzando la resistenza, puoi portarmi da loro?» Annuì ancora, senza tradire alcun segno di acrimonia per il mio istintivo esercizio del comando. Cercavo di pensare in fretta a tutto quello che poteva essere importante. Infine scrollai il capo. «É tutto, per il momento. I soldati dovrebbero essersi riuniti, ormai. Non appena saranno pronti, esporrò loro la mia richiesta di volontari. Poi dovranno prepararsi a qualsiasi eventualità. A quel punto, non ci sarà più niente a trattenerti qui, vescovo Germano. Potrai andare a provvedere alle cose che ti ho detto, e incontreremo i tuoi uomini davanti alla basilica, all'ora convenuta. Frattanto avrò avuto il tempo di fare il giro della città e di rendermi conto personalmente della situazione.» Quando i soldati si offrirono volontari come un sol uomo, Germano mi strinse il braccio, mi ringraziò ancora, e lasciò il nostro accampamento. Fu una notte lunga. Dopo avere perlustrato la città, accompagnato da una scorta bene armata ma discreta, incontrai Germano e il suo contingente di caporioni nel cortile della basilica immerso nell'oscurità. Il vescovo aveva ragione. La morte violenta si era già affermata per le vie di Verulamium: avevamo trovato diversi cadaveri gettati alla rinfusa per le vie e i vicoli che avevamo percorso. C'era una tensione quasi palpabile intorno al gruppo furtivo che mi aspettava alla luce delle fiamme gocciolanti di sei coppie di torce, e guardando le loro facce in ombra non ebbi il minimo dubbio che quello che era già accaduto sarebbe stato un'inezia se fosse scoppiata una scintilla in mezzo a quel materiale infiammabile. Le presentazioni furono brevi, e l'incontro incominciò con le brutte notizie. I ladri, consapevoli del pericolo costituito dagli organizzatori della resistenza, si erano chiusi dentro una casa robusta addossata alle mura. Uno di loro era stato catturato, e prima di morire, cadendo sbadatamente dall'alto di un tetto, si era premurato di informare i suoi catturatori che un messaggero era già stato inviato il giorno precedente a procurare rinforzi dal campo base dei rinnegati a circa trenta miglia di distanza. Almeno altri cento di quei buoni a nulla si stavano dirigendo a Verulamium, sbavando in previsione delle ricchezze che avrebbero trovato, e ci sarebbero arrivati prima dell'alba. La notizia, per quanto sgradita, associata al sorprendente numero di uomini comandati da quel gruppetto di caporioni, mi liberò dal dilemma che mi tormentava. La mia cavalleria sarebbe stata inutile in una battaglia per le vie della città, ma avremmo potuto schiacciare i rinforzi in arrivo quando fossero stati a portata di voce dalle mura cittadine. Avremmo così fiaccato lo spirito combattivo della banda in attesa di essere rimpinguata a Verulamium, specialmente se fossimo riusciti a impedire qualunque sortita. Lino, il più formidabile degli uomini che Germano aveva condotto all'incontro, mi assicurò di avere quasi trecento uomini, gente del luogo e visitatori, disposti a combattere con lui per riconquistare le provviste requisite dai fuorilegge. Mi assicurò inoltre che i suoi uomini potevano trattenere i briganti semplicemente trasformando la loro casa fortificata in una prigione, sigillando ogni via di uscita. Andai con lui per verificare che avesse il necessario numero di uomini e che questi fossero effettivamente in grado di mantenere la sua promessa. Poi tornai al campo e iniziai subito a organizzare e a istruire i miei comandanti. Sei brevi ore dopo l'incontro alla basilica, l'alba faceva capolino all'orizzonte, ma i rinforzi ancora non si vedevano. Avevo lo stomaco contratto dall'inquietudine, perché all'alba avrei dovuto riportare gli uomini in città, lasciandomi il nemico alle spalle. Ben conoscendo i pericoli dell'indugio e la necessità dell'immediata efficacia, i miei ufficiali si erano radunati intorno a me, in silenzio sui loro cavalli, in attesa della mia decisione. Eravamo a meno di un miglio da Verulamium, sull'accesso da nord-est, dove la strada si tuffava in una valle alla fine del tratto diritto che partiva dai cancelli orientali. I miei uomini erano disposti su entrambi i lati della strada, rivolti a nord-est. Al buio, su un terreno sconosciuto, la nostra scelta del posizionamento era stata piuttosto limitata, ma quella avrebbe dovuto essere un'azione notturna, con il nemico ammassato sulla strada. Adesso, i miei soldati sarebbero rimasti accecati, quando il sole fosse sorto in quel cielo senza una nuvola. Sentii degli zoccoli avvicinarsi rapidi sull'erba, e vidi il giovane Yerka, uno dei miei decurioni, arrivare al galoppo e impennare il cavallo proprio davanti a me. «Stanno arrivando, comandante, ma sono ancora molto lontani, a più di due miglia sulla strada, e tutti a piedi. Fello ha dato la notizia non appena i suoi uomini li hanno visti.» La decisione era stata presa mio malgrado. Non aveva senso rimanere lì in cima alla collina di fronte a una valle. I nuovi arrivati si sarebbero dati alla fuga non appena ci avessero visti alla luce dell'alba. Mi girai verso i miei comandanti. «Non abbiamo niente da guadagnare a restare qui. Quella valle è larga quasi un miglio. Scenderemo e la attraverseremo, al passo. Quando raggiungeremo l'estremità opposta dovrebbe essere chiaro, e il nemico dovrebbe essere a un quarto di miglio da noi. Caricheremo su per la collina e oltre, metà delle nostre forze su ciascun lato della strada, e la sorpresa dovrebbe essere completa. Non ci scapperanno, e li avremo in pugno. Ci allargheremo e li aggireremo sui fianchi, poi ci volteremo e li prenderemo da dietro, con il sole alle nostre spalle. Poi li cacceremo quaggiù nella valle e ci assicureremo che nessuno ne esca vivo. Non appena sarà finita, ci raggrupperemo e torneremo a Verulamium. Adesso andate.» Scesi nella piccola valle - che sembrava il letto asciutto di un fiume poco più grande del ruscelletto che ci scorreva in quel momento - percorrendo la strada tra i nostri due gruppi, e diedi il segnale di fermarsi a meno di duecento passi dal margine settentrionale della valle. Controllai a destra e a sinistra che le linee fossero pronte, poi ordinai l'avanzata. Il rumore degli zoccoli dei nostri cavalli si gonfiò come un tuono con l'aumentare della velocità, e ben presto fummo in cima al pendio e superammo la collinetta in fondo alla valle. La mia valutazione era stata esatta. Le forze avversarie erano a meno di un quarto di miglio dal bordo della valle quando ci presentammo alla loro vista stupefatta, e le due estremità delle mie formazioni si erano già distese in un abbraccio avvolgente prima che mi rendessi ben conto di quello che ci stava di fronte. Mi ero aspettato di vedere un centinaio di manigoldi che non dubitavo si sarebbero fermati e sparpagliati in preda al panico. Ciò che vidi, in realtà, fu una forza quasi uguale alla mia, ma di soldati a piedi. E invece di farsi prendere dal panico si stavano già spiegando in due compatte formazioni difensive a forma di diamante, irte di lunghe lance dall'aspetto poco raccomandabile. Tutto si svolse in fretta, molto in fretta, e io ebbi appena il tempo di lanciare un urlo al mio trombettiere prima che fosse troppo tardi. Vidi la sua espressione stupita mentre portava la tromba alle labbra e fermava il cavallo. Anch'io tirai le redini della mia cavalcatura, e diedi a tutti il segnale di fare altrettanto; lo squillante richiamo risuonò forte e chiaro, e vidi la splendida e impetuosa carica dei miei uomini vacillare e morire. Meno di cinquanta passi restavano tra me e le forze adesso schierate contro di noi. Fermo a cavallo, osservai e attesi che le mie truppe si riorganizzassero, guidando i cavalli verso l'interno e poi convergendo silenziosamente verso le forze nemiche finché la mia posizione divenne un punto in un cerchio. Nella formazione nemica c'erano quattro uomini a cavallo. Per molto tempo nessuno si mosse, e un silenzio innaturale dilagò dentro e intorno al cerchio. Infine spinsi avanti il mio cavallo, e Donuil, e forse il centurione Rufio, si mossero dietro a me. Avanzai fino a coprire metà della distanza che mi separava dai ranghi avversari, e lì mi fermai e aspettai. Le lance nemiche ruotarono e si divisero, e i quattro uomini a cavallo uscirono e mi vennero incontro. Ebbi il tempo di studiarli, e individuai subito il loro capo. Era un uomo attraente, di bell'aspetto, con enormi baffi spioventi alla moda celtica. Doveva avere circa dieci anni più di me, ed essere quindi verso la fine dei trent'anni. Portava un elmo conico di metallo, senza protezione per il volto, e una corazza di cuoio trapunta di placche di bronzo, e cavalcava con la schiena diritta, la testa eretta a mostrare il torchio d'oro massiccio che gli ornava il collo. Gli altri tre stavano leggermente indietro rispetto a lui. Uno era enorme, grande non meno di me; portava un elmo di tipo romano, con un'alta cresta di crine e un guanciale di bronzo che gli nascondeva quasi tutta la faccia, ma era più giovane dei suoi compagni, aveva occhi azzurri e barba rasata. Gli altri due portavano la barba intera. Il capo si fermò alla distanza di un cavallo davanti a me, e con lo sguardo percorse gli uomini schierati alla mia destra e alla mia sinistra. Aveva evidentemente apprezzato la mia apparizione quanto io avevo apprezzato la sua. Parlò in latino, con voce profonda e gradevole. «Chi siete? Romani?» Feci di no con la testa. «Siamo Britanni, dall'Occidente.» Alzò un sopracciglio. «Dove, in Occidente?» «Un luogo di nome Camulod.» Scosse lentamente il capo. «Non l'ho mai sentito.» Annuii, accettando la verità della sua affermazione. «Lo sentirai.» «Chi sei?» «Il mio nome è Britannico. Caio Merlino Britannico. Chi sei tu, e da dove vieni?» Sorrise. «Io sono Vortigern, re di Northumbria. Nel nord-est.» Uno dei suoi tre compagni avanzò al suo fianco. Lo ignorai, e tenni gli occhi fissi su Vortigern. Quello era l'uomo che mio padre aveva criticato. Il re del nord-est che aveva stretto un patto suicida con i barbari. Mantenni un tono di voce piacevole. «E perché il re I Northumbria attraversa la Britannia meridionale con un esercito?» Scoppiò in una breve risata, e provai simpatia per lui, nonostante i dubbi che ancora nutrivo sul nostro incontro. «Esercito?» schernì. «Questo non è un esercito. É una scorta, e non è nemmeno la mia. Mi è stata offerta per buona grazia dal mio amico, Giacobbe di Lindum.» Indicò l'uomo dai capelli brizzolati fermo al suo fianco. Guardai Giacobbe di Lindum e gli rivolsi un cenno, che mi restituì con uguale sobrietà. «Ciò risponde solo a metà della mia domanda, sire» continuai. «Non hai detto che cosa ti porta nel sud della Britannia.» «No, infatti. E tu non mi hai detto perché mi hai attaccato, o quasi.» Scrollai le spalle. «L'attacco era predisposto, ma non contro di voi. Stavamo aspettando... un nemico diverso.» «Che genere di nemico?» «Marmaglia, venuta a rimpinguare le file di una banda di ladri che si sono barricati nella città alle nostre spalle.» Si girò sul cavallo e guardò l'uomo dietro di lui, e tra loro passò una sorta di segnale. Sentii un brivido di tensione, ma Vortigern mi tolse subito dall'imbarazzo. «Credo allora che vi abbiamo risparmiato il disturbo. Li abbiamo incontrati ieri, nel tardo pomeriggio. Hanno cercato di approfittare della nostra avanguardia, senza rendersi conto che dietro c'eravamo noi. Li abbiamo castigati, e i superstiti si stanno leccando le ferite.» Provai un grande sollievo, e lo dimostrai dicendo: «Allora esserci incontrati qui è stato un piacere. Dove siete diretti?». «A Verulamium, per il dibattito dei vescovi.» Risi forte. «Benvenuto a Verulamium, re Vortigern, e benvenuti tutti i tuoi amici. Ora, se vuoi fare abbassare la guardia ai tuoi uomini, dirò ai miei di unirsi a loro, ed entreremo insieme a Verulamium, dove ti presenterò al vescovo Germano, che è venuto da Roma e di sicuro sta aspettando il nostro ritorno con una certa ansietà.» Mentre ci dirigevamo verso la città, spiegai ciò che era accaduto a Vortigern e a Giacobbe di Lindum, e dal momento in cui le nostre forze unite arrivarono in vista della città, i fermenti si placarono. Di fronte alla minaccia dei nostri due eserciti, e in condizioni di inferiorità numerica per più di sei contro uno, i briganti si arresero immediatamente al vescovo Germano - non erano disposti a trattare con nessun altro - chiedendo asilo e riuscendo a ottenere salva la vita in cambio della restituzione delle provviste intatte. L'alternativa, alla quale credetti senza difficoltà riconoscendo la loro disperazione, era che avrebbero dato fuoco a tutto e sarebbero morti combattendo. Malgrado lo scontento espresso dagli ausiliari di Lino, frustrati per avere perso l'occasione di versare un po' di sangue, la loro proposta fu accettata, e loro stessi furono banditi sotto pena di morte. Le provviste rubate vennero restituite ai legittimi proprietari, e organizzammo regolari battute di caccia e di foraggiamento per procurare cibo sufficiente per tutti. Solo molto più tardi quello stesso giorno ci ritrovammo insieme, a crisi risolta, e ci furono varie occasioni di piacevoli ragionamenti e conversazioni. Gli uomini di Vortigern, o piuttosto di Giacobbe di Lindum, si erano accampati vicino ai miei, e dietro invito di Vortigern mi ero recato, con i miei ufficiali, a spartire con lui buon cibo e buon vino. Durante la serata mi ritrovai da solo con il vescovo Patrizio, e ne approfittai per chiedergli notizie del prete di nome Remo. Patrizio lo ricordava abbastanza chiaramente, ma non lo conosceva bene. Avevano viaggiato insieme fino a Camulod, la zona occidentale più lontana che Patrizio avesse mai visitato. L'aveva incontrato dopo essersi fermato da un vescovo confratello nell'ormai derelitta città di Isca Dumnoniorum nel sud-ovest, mentre si stava dirigendo a nord, verso Camulod, solo per rendere i suoi omaggi a mia zia, della quale aveva tanto sentito parlare da amici vescovi che la conoscevano fin dai tempi del vescovo Alarico. Remo l'aveva accompagnato a seguito di quell'incontro casuale. Proseguì dicendomi di avere appreso, solo poche settimane prima in una lettera del suo amico di Isca, che un prete di nome Remo era stato ucciso in quella città dopo essere stato sorpreso a picchiare a morte una giovane donna. Ancora visibilmente sconvolto da un simile comportamento e da una simile morte, si domandava se potesse essere lo stesso prete. Io, sbalordito dalle implicazioni della sua storia, gli raccontai per intero la disavventura di Cassandra, ed egli mi promise di pregare per entrambi. Poi lo lasciai e mi allontanai per rimanere solo con il cuore che mi batteva forte in petto. Remo aveva ripetuto il suo crimine, ed era morto per esso, e ciò significava che Uther era innocente, assolto, e io ero libero da dubbi e agonie. Sempre che, naturalmente, quel prete morto fosse lo stesso Remo! Non appena fossi tornato a casa avrei svolto indagini presso il vescovo di Isca. Di certo non potevano esistere due preti di nome Remo che camminavano con l'aiuto di un bastone! XXXV. Quella sera tardi andai a cercare Lucano per metterlo a parte delle rivelazioni di Patrizio, ma prima che potessi trovarlo mi sentii osservato. È una strana sensazione, quasi impossibile da descrivere, ma quando la si prova, quando ci si sente addosso gli occhi di qualcuno, non ci si può sbagliare. Mi fermai a metà di un passo, tentando di decifrare l'origine delle mie percezioni, poi mi voltai lentamente e vidi una figura in piedi nell'ombra, che mi osservava. Strizzai gli occhi, cercando invano di penetrare l'oscurità e di scorgere qualcosa di più di quella sagoma nera. «Chi va là?» dissi. «Chi sei? Vieni fuori, dove posso vederti!» La figura avanzò alla luce; il cuore mi balzò violentemente in gola, mi mancò il respiro e rischiai di soffocare. Stavo guardando, sbalordito e incredulo, me stesso! E "me stesso" mi fissava con occhi di fuoco. Ammutoliti, persi entrambi nello sbalordimento e nell'incredulità, ci avvicinammo lentamente uno all'altro. L'apparizione che mi stava di fronte era diversamente abbigliata, ma per altezza, costituzione e aspetto mi somigliava perfettamente. Parlai per primo. «Chi sei, in nome di Dio?» Sembrava riflettere se rispondermi oppure no. «Ambrogio. Ambrogio di Lindum. E tu chi sei?» «Merlino Britannico.» «Allora eri tu! Ci siamo incontrati questa mattina. Cavalco con Vortigern.» Iniziò a muoversi lateralmente, intorno a me, esaminandomi dalla testa ai piedi, e io feci lo stesso, così che per un poco ci girammo attorno come lottatori. Lo riconobbi: era il guerriero alto con l'elmo che cavalcava dietro a Giacobbe. «Ambrogio di Lindum?» Frugavo nella mente alla ricerca di una spiegazione per quella strabiliante somiglianza, e mi dicevo che coincidenze come quella - una sorprendente somiglianza tra completi sconosciuti - potevano capitare, e in effetti capitavano. Ma continuavo a vedere la tozza corpulenza, le gambe corte e storte, la faccia quadrata e rubizza e la barba brizzolata dell'unico altro uomo di Lindum che conoscevo. «Sei il figlio di Giacobbe di Lindum?» Scosse la testa. «No. È mio zio.» «Il fratello di tuo padre?» «No.» Un'altra scrollata di capo. Continuò, sottoponendomi quasi a uno scrutinio: «Giacobbe è il marito della sorella di mia madre. Mio padre era un Romano. Morì prima che nascessi. Il suo nome era Ambrosiano... Marc...». «Marco Aurelio Ambrosiano!» Il nome mi esplose nella mente e sulle labbra come un fulmine, e d'un tratto seppi con assoluta certezza con chi stavo parlando. Spalancò gli occhi per lo stupore. «Come potevi saperlo?» Gli voltai le spalle, e mi presi la testa tra le mani, colto alla sprovvista da una tempesta di emozioni contrastanti; disperazione mista a esaltazione, e altri sentimenti troppo nuovi e repentini perché potessi analizzarli o definirli, minacciavano di travolgermi. Era mio fratello! Il mio fratellastro! Mio padre aveva avuto un altro figlio! Ed era morto senza saperlo! L'improvvisa rivelazione mi diede le vertigini, i sensi quasi mi abbandonarono e caddi su un ginocchio, incapace di mantenere l'equilibrio. In un attimo si inginocchiò davanti a me, mi afferrò per una spalla, mi rivolse parole piene di preoccupazione. «Ti senti male? Che cosa c'è? Lascia che ti aiuti.» Mi aggrappai al suo braccio e, malgrado la confusione, intuii la forza di quei muscoli; mi rialzai lottando per non barcollare e cadere ancora. Mio fratello! Sbucato dal nulla, senza preavviso, senza che l'avessi pensato e cercato... ma non senza che l'avessi desiderato, e questo lo sapevo con assoluta e stupefacente chiarezza. Ma adesso che cosa dovevo fare? Che cosa potevo dirgli? Come potevo dirgli che cosa aveva trovato, davanti a chi si trovava? Come faceva un uomo a dire a un altro uomo una verità come quella? Di certo non alla sprovveduta, non potevo pensare di spiattellare tutto quanto senza prepararlo in qualche modo. Di fronte all'inattesa, sicura conoscenza dell'infedeltà della madre, un uomo poteva uccidere - e giustificatamente - il latore di tale notizia. Sapevo anche, al di là di ogni dubbio, che dovevo allontanarmi immediatamente da Ambrogio di Lindum, armeno per il tempo sufficiente a vagliare i miei pensieri e a scendere a una sorta di compromesso, a stabilire un modo per informarlo, per accoglierlo senza essere troppo precipitoso e senza causare più dolore del necessario. Né mi sfuggiva l'ironia di una simile "accoglienza": non mi avrebbe ringraziato, non subito. La mia accoglienza poteva essere l'accoglienza più sgradita di tuttala sua vita. Non mi passò nemmeno per la mente, però, di non dirglielo; nel mio cuore e nella mia mente non c'era animosità né astio verso di lui. Ma dovevo andarmene subito, e quanto più lontano da lui tanto meglio. Lo ringraziai per l'aiuto e mi scusai, adducendo come pretesto una nausea improvvisa per qualcosa che sicuramente avevo mangiato; lo lasciai lì, perplesso, e me ne andai a cercare l'avvolgente anonimità del buio oltre i fuochi del campo. La notte era fredda ma piacevole, e quando i miei occhi si furono abituati all'oscurità camminai in fretta, a lunghi passi che mi distendevano le gambe e mi obbligavano a fare attenzione a dove mettevo i piedi, e che permettevano ai tumultuosi pensieri dentro la mia testa di scatenarsi, vorticare e capriolare, di cercare il loro giusto livello nelle acque alluvionali della mia mente, roboanti e turbolente, violente e fragorose e che solo lentamente, gradatamente e inevitabilmente si placarono e addolcirono al punto in cui dal loro caos potei ricostruire l'ordine. Rammentai la storia che mio padre mi aveva raccontato, e la tragica incompletezza della sua conoscenza: per tutta la vita aveva ignorato che quella illecita comunione notturna con la "donna del sogno" che l'aveva usato e ripagato quasi con la morte, era sfociata in un figlio che era l'immagine del suo ignoto genitore, un soldato il cui solo portamento - come l'avevo visto al fianco di Vortigern.- avrebbe gonfiato d'orgoglio il petto di mio padre e del suo. Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente, ebbi il tempo di stupirmi delle reazioni che questo Ambrogio aveva suscitato in me, di dirmi con mestizia che non avevo motivo di attribuirgli tante doti. Non sapevo niente di lui, se non quello che avevo visto dal nostro unico brevissimo incontro, e conoscevo bene la follia di riporre troppa fiducia, troppo presto, in qualunque uomo. Eppure sapevo di potermi fidare del mio istintivo giudizio degli uomini, fossero anche completi sconosciuti. Troppe volte la mia vita era dipesa da quella capacità per dubitarne adesso. Ambrogio doveva essere in tutto come sembrava, ed ero certo, intimamente e profondamente, che sarebbe venuto il giorno in cui io e lui saremmo stati fratelli in ogni senso della parola. Quando smisi di camminare avevo superato di molto i confini dell'accampamento. Rimasi a lungo in mezzo a un prato, a fissare la miriade di stelle vorticanti e spiraleggianti nel cielo senza nuvole, a lasciare che la mia mente si vuotasse, e poi a ricordare che una notte ai tempi del padre di mio nonno, una di quelle stesse stelle era precipitata sulla terra, portando nel mondo degli uomini la pietra del cielo ed Excalibur. Si chiamava Ambrogio, Ambrogio Ambrosiano, era fiero del suo sangue romano, ma si trovava nell'errore e nell'ignoranza. Il suo vero nome era Britannico, Ambrogio Britannico, figlio di Pico Britannico, figlio di Caio Britannico, ultimo di una lunga stirpe di Aquile. Era, o avrebbe dovuto essere, come me principe di Camulod, alla pari con me e con Uther. Mi si accapponò la pelle. Forse questo era l'uomo che avrebbe impugnato Excalibur! Forse era lui che, secondo zio Varro, io avrei riconosciuto tra e sopra a tutti gli altri, il Campione la cui venuta era stata tanto sognata. Possedeva sangue di Caio Britannico; forse ne possedeva anche la lungimiranza. Faticando a contenere l'eccitazione, mi voltai a guardare le luci dell'accampamento; ero troppo lontano per vedere chi si muoveva al loro chiarore, ma mi emozionava fino alle ossa sapere che una di quelle forme in movimento era mio fratello, Ambrogio Britannico. Mi resi lentamente conto che il Grande dibattito era ormai diventato quasi insignificante per me, perché era stato usurpato dal comandamento più imperioso di tutta la mia vita: il bisogno di trarre in disparte, informare, abbracciare e conoscere mio fratello. Riconquistai la calma, imbrigliai saldamente il cuore, e tornai all'accampamento, per trovarlo e condurlo in un luogo appartato dove avrei potuto dirgli tutto ciò che doveva sapere. Al mio ritorno, però, Ambrogio non era rintracciabile. Il campo di Vortigern era pieno dei rumori del cameratismo e del festeggiamento, ma mio fratello non era seduto in nessuno dei gruppi che si erano riuniti intorno ai fuochi. Infine, dopo il mio secondo infruttuoso giro, mi avvicinai di nuovo al convegno principale, fracassone e rilassato, di ufficiali e chierici che informalmente si attardavano in mezzo al grappolo di grandi fuochi fuori dalla spaziosa tenda di Vortigern. Pochi si accorsero del mio arrivo, e mi diressi subito al gruppo che comprendeva lo stesso Vortigern, Lucano, Fello, Ciro Appio, Giacobbe di Lindum e parecchi altri a me sconosciuti. La vista di Giacobbe mi fece riflettere, e per non farmi vedere da lui cambiai direzione e girai intorno al gruppo fino a trovarmi dietro di lui, fuori dal cerchio di luce del fuoco. Anche lui, come Ambrogio, mi aveva visto solo in armatura, anonimo sotto l'elmo pesante. I miei capelli biondi e la mia arcana somiglianza con suo "nipote" potevano turbarlo e suscitare prematuramente quel genere di speculazioni che sapevo di dover evitare finché non avessi parlato con Ambrogio. Quando mi ero avvicinato, Fello stava dicendo qualcosa, e adesso proprio Giacobbe gli rispondeva con voce incalzante, cercando di riconoscere e tuttavia di confutare qualsiasi cosa avesse detto Fello. Gli occhi di tutti, Vortigern incluso, erano puntati su Giacobbe, e mentre scrutavo i volti dei presenti, senza trovarvi Ambrogio, con un orecchio ascoltavo la conversazione. «...la stessa, quando ne ho sentito parlare la prima volta. La mia reazione è stata esattamente la stessa. Sciocco, ho pensato. Stupido e pericoloso e irresponsabile. Questi sono stati i miei primi giudizi. Ma è stato più di dieci anni fa, prima che conoscessi Vortigern, e prima che conoscessi la gente che aveva introdotto nelle sue terre. Da allora ho cambiato idea. Adesso li conosco, li conosco tutti, e posso accettare quello che sta accadendo... Non sono completamente tranquillo, devo ammetterlo, ma in confronto all'alternativa, non c'è molto che io possa dire con sicurezza per dimostrare che ha torto. Insomma...» «Ma deve avere torto!» disse ancora Fello, rivolgendosi a Vortigern. «Non sei disposto a riconoscere, re Vortigern, che nel tuo modo di pensare esiste la possibilità di un grave errore? Sono dei barbari, in fin dei conti... Barbari proprio come quelli dai quali, grazie al loro aiuto, stai cercando di proteggerti. Le loro origini, i loro usi, la loro mentalità sono estranei al nostro sistema di vita.» Vortigern, con il bel volto guastato dall'ombra di un cipiglio, fissava Fello negli occhi. Avendo compreso di che cosa stavano discutendo, mi sedetti non visto all'estremità di un tronco, ben nascosto da tutti dalle ampie spalle dell'uomo che mi stava davanti. Ricordavo chiaramente che mio padre aveva parlato di re Vortigern: di come stesse tentando la sorte permettendo a mercenari stranieri di insediarsi sulle sue terre, pagando la loro protezione con delle piccole proprietà e quindi garantendo loro un punto d'appoggio e un futuro in Britannia. Una politica accettabile, aveva sottolineato mio padre, se solo avesse potuto assicurarsi che quegli stessi barbari non avrebbero desiderato, in futuro, condividere la recente libertà, la ricchezza e le ricompense con amici e famiglie, vicini e parenti ancora in lotta per la sopravvivenza oltremare. Un giorno, aveva predetto mio padre, i nuovi arrivati si sarebbero sollevati in forze, e per allargarsi avrebbero preteso altra terra, e per ottenerla l'avrebbero tolta ai loro ospiti. In silenzio attesi come gli altri che Vortigern parlasse, ammirando lo sforzo con cui controllava il comprensibile desiderio di tirare il collo a Fello. Infine si schiarì la gola e parlò, con voce chiara, quasi monotona per l'assenza di enfasi, e con le labbra arcuate da un sorriso benevolo. «Potrebbe effettivamente esserci la possibilità di un errore nel mio pensiero, mastro Fello, ma Giacobbe ha parlato di alternative, e io vorrei chiederti di considerare che in alternativa io avrei potuto non dedicare affatto il mio pensiero a questa faccenda...» Le sue parole rimasero come sospese, vibranti per un attimo nel silenzio. «Sarebbe meglio non pensarci, e di conseguenza non fare niente? Aspettare, e stare a guardare mentre le mie terre e il mio popolo vengono aggrediti e devastati da un'interminabile epidemia di razziatori da ogni dove?» Scosse la testa, con calma. «No. Posso assicurarti che questo sarebbe successo, per anni ormai, se non avessi fatto niente. Perché noi, il mio popolo e io da soli, eravamo impotenti di fronte agli assalti che ci minacciavano ancora prima della partenza delle legioni.» Malgrado avessi i miei dubbi, mi ritrovai a encomiare la dignità di Vortigern, il suo decoro e la sua totale assenza di irritazione. Continuò a parlare, osservando le facce di tutti quelli che gli stavano intorno. «Dovete capire, tutti quanti, che questa gente che ho... reso partecipe... è venuta perché l'ho invitata. Non erano invasori; non erano pirati e nemmeno selvaggi. Sono andato io a cercarli, nella loro terra, e ho chiesto loro di venire. Le loro flotte hanno reso nuovamente sicuri i nostri mari, e i loro soldati precludono i nostri territori agli invasori da nord. Il loro capo Hengist era mio amico d'infanzia. È mio amico ancora adesso. Lo conosco bene, conosco lui e la sua gente, e li rispetto. E mi servo di loro in un modo che riesce vantaggioso per entrambe le parti. Abbiamo dato della terra in cambio della loro abilità nel combattimento e della loro assistenza nel proteggere ciò che è nostro. So che sono forestieri e barbari, ma l'interesse comune nel proteggere ciò che possediamo insieme condurrà alla prosperità di entrambi i popoli. C'è una parola greca simbiosi - che descrive questa situazione. Due specie diverse, con esigenze completamente diverse, coesistono in armonia e con reciproco beneficio. Questo abbiamo ottenuto in Northumbria, e sta funzionando bene.» Dopo il sorprendente discorso di Vortigern, i suoi ascoltatori assimilarono in silenzio il significato delle sue parole. Fello scosse la testa. «Ebbene, re Vortigern» disse, «non ho mai sentito parlare della tua simbiosi, ma so che cosa secondo me ha senso e che cosa non ce l'ha. Questa storia con i barbari mi sembra come dormire con una vipera nel letto. Meglio il tuo letto del mio.» Si schiarì la voce, e scosse di nuovo la testa. «Non voglio offenderti. Ho condiviso il tuo fuoco e il tuo cibo e le tue bevande e non ti combatterò con parole che non desideri ascoltare. I tuoi barbari sono affar tuo, e le tue terre si trovano lontano a nord-est, mentre le nostre terre sono a sud-ovest. Prego che la tua avventurosa impresa abbia buon esito, ma spero di non vedere mai i tuoi "alleati" vicino a Camulod.» Vortigern sorrise e si alzò, facendo così alzare tutta la sua gente. «Non li vedrai, amico Fello, ma forse verrà un giorno in cui tu e i tuoi potreste essere felici di seguire il nostro esempio. Per ora ti lascio con la tua afflizione, e libero di esprimere la tua opinione senza timore di offendermi. Buona notte.» Si girò ed entrò nella sua tenda, e al suo saluto i gruppi dei suoi uomini intorno ai fuochi si sciolsero. Mi alzai in fretta e me ne andai prima che qualcuno notasse che ero rimasto seduto nell'ombra, e mentre attraversavo l'accampamento diretto a un altro fuoco vidi Ambrogio davanti a me. Chiamai il suo nome e gli feci un cenno, in modo che .mi aspettasse. Aveva ancora quell'espressione leggermente stupita, quasi ostile. Mi fermai vicino a lui, tanto vicino che allungando un braccio avrebbe potuto toccarmi. «Tu e io dobbiamo parlare. Vuoi camminare con me?» Annuì, e camminò al mio fianco attraverso le file di tende, fino al prato dove mi ero fermato a riflettere. Quando ci fummo allontanati dal bagliore dei fuochi dell'accampamento, i nostri occhi si abituarono all'oscurità, e la luce della luna gibbosa nel cielo sereno bastò a illuminare i nostri passi fino a un gruppo fitto di grossi massi al sicuro da orecchie indiscrete. «Qui siamo lontani a sufficienza.» «Lontani a sufficienza per che cosa?» Nel tono della sua voce c'erano cautela, curiosità, e un pizzico di ostilità latente. «Perché possiamo parlare senza che qualcuno ci senta.» Mosse la testa in un gesto teso e controllato, come per scacciare una mosca, o un insetto fastidioso. «Perché dovremmo avere paura, o dovresti tu avere paura che qualcuno ci senta?» «Perché ho cose da dire solo per le tue orecchie.» Si guardò intorno, si appoggiò contro un masso, e incrociò le braccia davanti a sé. «Ebbene?» Mi allontanai leggermente da lui, e guardai verso i fuochi lontani. I prossimi momenti sarebbero stati molto importanti. «Dimmi di tua madre. Come si chiama?» «Budicca» disse, e nient'altro. Il nome mi sorprese. «Budicca? Come la regina guerriera?» «Sì.» Non c'era traccia di leggerezza in lui. «Mia madre discende direttamente da Budicca, la regina degli Iceni.» «Attraverso trecento anni di storia?» Mi guardò inarcando un sopracciglio come faceva mio padre, e come faceva suo padre prima di lui, e per un attimo pensai che non mi avrebbe risposto. Poi disse: «Sì, attraverso trecento anni di storia. Lo trovi strano? Il nostro sangue è puro, immisto e integro.» «Ma hai detto che tuo padre era un romano.» «Un'eccezione alla regola. Ce ne sono stati altri, ma in complesso non molti. Gli Iceni di oggi sono ancora gli Iceni che combatterono le legioni di Cesare. Gli stessi che misero a fuoco la città di Camulodunum e quasi ripresero questa terra dalle mani di Roma.» «Ma oggi non vi chiamate Iceni.» Scosse la testa, sul suo volto apparve l'accenno di un piccolo sorriso. «Nemmeno allora. Erano i Romani che ci chiamavano con quel nome.» «Naturalmente» dissi imitando il suo sorriso. «Dov'è tua madre oggi?» La sua faccia si indurì in una maschera. «Perché vorresti saperlo?» Mi strinsi nelle spalle. «Semplice curiosità. È a Lindum?» «No.» Il brusco diniego fu accompagnato da uno scatto della testa. «Non so dove sia. Non ho mai conosciuto mia madre. Sono stato cresciuto da sua sorella, Gwilla, e da Giacobbe, suo marito.» Era chiaro che non aveva altro da dire, ma non potevo accettare che la sua conoscenza fosse così incompleta. «Hai detto che non sai dove si trova, non che è morta. É quindi viva?» «Te l'ho detto, non lo so. Non lo sa nessuno. Mi ha lasciato con sua sorella quand'ero bambino ed è scomparsa. Nessuno l'ha più vista.» «Capisco. E tuo padre è morto prima che tu nascessi?» «Sì.» «E adesso quanti anni hai, ventotto?» «Come fai a saperlo con tanta sicurezza?» chiese, scuro in volto. Sorrisi. «Perché hai sei mesi meno di me, e io ho ventinove anni.» Fece per parlare, ma lo zittii con un cenno. «Ambrogio» continuai, «devo raccontarti una storia, e probabilmente non ti piacerà, ma ascoltandola potrai giudicare da te stesso che è vera. Tutto ciò che ti chiedo è di lasciarmi parlare senza interrompermi con domande o dinieghi, perché se mi interromperai ci allontaneremo troppo dal seminato, e la storia potrebbe non venire più raccontata. Ascolterai? E non mi interromperai, anche se ti garantisco che non sarà facile?» Si raddrizzò e premette forte le mani insieme, respirando a fondo ed emettendo un fragoroso sospiro. «Sembra un esordio di cattivo auspicio, ma sì, ti ascolterò senza interromperti, anche se ciò che dirai mi farà venire voglia di ucciderti.» «Spero che non ti venga una simile voglia» dissi, e iniziai. Gli raccontai tutta la storia di Pico Britannico e della sua ferita, e del modo in cui aveva ucciso il suo ospite, Marco Aurelio Ambrosiano. Ci volle molto tempo, e prima che fossi a metà della storia, Ambrogio mi girò le spalle e si appoggiò con tutto il suo peso al masso dietro di lui, fissando l'oscurità e impedendomi di vederlo in volto. Quando ebbi finito di parlare, tra noi si fece silenzio. Non feci alcun tentativo per infrangerlo, sapendo per istinto che ne aveva abbastanza della mia voce e delle mie parole e che, qualsiasi cosa gli stesse passando per la mente, il significato della mia storia e lo scompiglio in cui essa aveva gettato la sua vita l'avrebbero spinto a reagire. Finalmente, dopo un lungo e assoluto silenzio, parlò senza girarsi verso di me, e la sua voce mi arrivò da dietro le sue spalle. «Così sia» disse. «Accetto e credo la tua storia. Mia madre era una puttana e mio padre uno sciocco incapace e un assassino, e tuo padre - che è improvvisamente mio padre l'ha ucciso. Li ha uccisi entrambi, in realtà.» Attesi, ma non disse altro, e mi resi conto con crescente incredulità che aveva trascurato la maggior parte di quello che gli avevo detto; non aveva preso in considerazione nient'altro che l'unico aspetto che l'aveva colpito. Irritato malgrado la mia intenzione di accettare qualsiasi sua reazione, sbottai: «Non giudico tua madre! Non l'ho conosciuta, e non l'hai conosciuta nemmeno tu, perciò nessuno di noi due può presumere di conoscere i suoi pensieri o di contestare le sue ragioni. E suo marito, tuo padre come lo chiami tu, era un vecchio, spinto dalla disperazione di un vecchio a salvare il suo onore». Si girò di scatto a guardarmi, con occhi fiammeggianti alla luce della luna. «Quale onore? Mia madre e tuo padre si sono messi in combutta per privarlo di ogni onore!» Trattenni una replica indignata, e trattenni anche il fiato, prima di parlare di nuovo. Allora scelsi le mie parole con cura, con il desiderio di non dargli motivo di combattermi, e parlai con voce calma e ragionevole. «Ambrogio, non abbiamo ragione di crederlo... e l'evidenza dimostra in ogni caso che non è vero.» «L'evidenza!» La voce gli tremava per il disgusto e l'orgoglio ferito. «Quale evidenza? A che cosa serve l'evidenza? É evidente sommamente evidente - che mia madre era una depravata. Le sue azioni la condannano, di fronte a chiunque abbia orecchie per ascoltare la storia della sua infamia...» Tacque infine e io trattenni ancora il fiato, e quando ripresi non tentò di interrompermi. «Ascolta» continuai con maggiore dolcezza. «Ci ho pensato intensamente da quando ti ho visto e ho capito che cosa doveva essere successo...» Feci una pausa, soffrendo per la smania di aiutarlo. «Hai detto che credi alla mia storia. Ebbene, se ci credi, allora devi credere tutto. Non devi semplicemente ascoltare quello che ti fa comodo. Devi esaminare l'intera storia, non soltanto le sue parti.» «È ridicolo.» Le sue parole erano un distillato di amarezza. «Che cosa c'è da esaminare? Ascoltarla significa crederci senza esitazione. Quella donna - mia... mia madre - era una sgualdrina infedele. Senza la sua infedeltà, non ci sarebbe stata nessuna storia da raccontare.» «No, Ambrogio, ti sbagli. Non è così.» Il mio cuore aveva accelerato i battiti, perché avevo visto il suo errore, e l'incongruenza delle sue parole, e mi affrettai a dar voce al pensiero che mi era balzato alla mente. «Se mio padre non l'avesse riconosciuta - per purissimo caso - in quel mercato quando stava per imbarcarsi per l'Italia, non ci sarebbe stata nessuna storia! Mio padre credeva fino a quel momento di avere sognato, e nei sogni non c'è colpa né peccato. Non avrebbe più pensato a quei sogni, e perché tuo padre l'avesse aggredito nel sonno sarebbe rimasto un mistero, sfortunato e inesplicabile. Solo avere visto quella donna di sfuggita, per fatalità, cambiò tutto per sempre. E se ciò non fosse accaduto, la tua vita non sarebbe cambiata.» «Che cosa... che cosa vuoi dire?» Era adesso in preda all'incertezza, spintovi forse dall'ordine delle mie parole. Levai la mano a chiedere il tempo per poter pensare, perché stavo esprimendo idee che non avevo mai pensato prima. «Non sapremo mai con esattezza che cosa passasse per la mente di tua madre, o che cosa motivasse il suo comportamento» dissi. «Ma prova a riflettere...» Le mie idee correvano talmente veloci che non riuscivo a dar loro voce. «Supponi... supponiamo, per quanto possa sembrarti ridicolo, che tua madre avesse un amore sincero e profondo per il suo vecchio marito. Non aveva figli. Non è così? Solo una figlia adolescente. Eri tu il suo unico figlio?» Annuì, perplesso. «Allora supponiamo che l'età lo rendesse incapace di avere figli. Non di portare a compimento l'atto, comprendimi, ma di renderlo fruttuoso. Per quanto ne sappiamo, lui e sua moglie potrebbero avere tentato per anni. Sei d'accordo?» Annuì ancora, ma vedevo che era sconcertato e arrabbiato. Perseverai nella mia idea, prima che potesse parlare. «Rifletti. Un soldato sano e virile di nobile nascita, orribilmente ferito al collo e al volto ma altrimenti integro e completo, va a vivere in casa loro. Quest'uomo è costantemente afflitto dai dolori, e la sua faccia è sempre coperta da pesanti bendaggi. Per la maggior parte del tempo è cieco, sordo e muto, e sempre sotto l'effetto di forti narcotici contro il male. Non vede, e sembra non rendersi conto della presenza di nessuno, ma è sottoposto a un'attenta sorveglianza da parte dei medici, dei domestici, della figlia dei padroni - lo sappiamo perché mio padre ha parlato di lei - e probabilmente anche della signora della casa. Adesso supponiamo ancora che in qualche modo, forse ascoltando involontariamente i medici discutere tra loro del paziente, venga a sapere che il soldato è sessualmente attivo, e che sognando ha delle polluzioni notturne, come capita a uomini forti in caso di astinenza. Non avrebbe potuto considerarlo con rimpianto, quasi fosse uno spreco? Parlo seriamente, Ambrogio, e chi può mai sapere quali pensieri passano per la mente di un altro? Forse l'ha pensato per lunghe settimane, durante le quali la forza del soldato è aumentata, anche se le sue ferite non sono migliorate... e forse, per amore, o per disperazione, ha escogitato un mezzo per usare mutuare, si potrebbe dire - la forza naturale e traboccante di un uomo, a lei completamente sconosciuto perché perennemente sotto l'effetto delle droghe, a beneficio della forza languente di un altro uomo, invece da lei profondamente amato?» Allora mi interruppe. «Aspetta! Stai insinuando che mia madre potrebbe aver fatto quello che ha fatto per amore di mio padre?» «Sì.» «Ma è osceno! Non ho mai sentito niente del genere...» «Nemmeno io, ma ha senso quanto l'alternativa! Rifletti! Non era ordinaria concupiscenza. Non c'era nulla di personale in quello che ha sognato mio padre. Ricordava una visione, nient'altro ! Ricordava vagamente un'immagine notturna. Credere tua madre capace di una simile meccanica impersonalità, di una libidine scriteriata, autodistruttiva e aggressiva, significherebbe ritenerla davvero un mostro, e dubito che lo fosse.» «É una follia! Ho sentito abbastanza. Grazie per aver tentato di rimediare alla spregevolezza di mia madre, anche se non so che cosa tu sperassi di ottenere.» «No, dannazione, ascoltami, perché questo è nuovo per me quanto lo è per te, e nemmeno io so che cosa significhi, ma mi sembra che abbia un senso. Non ho niente da guadagnarci. Tua madre non è niente, anzi è meno di niente per me. Perché dovrei cercare di migliorare i ricordi che hai di lei?» «Già, questa è la verità!» La sua voce era stridente. «La donna che stai provando a descrivere sarebbe stata capace di grande amore, non è così? Grande tanto da abbandonare un bambino? Il frutto della sua perfidia e della sua infedeltà!» «O il ricordo del suo fallimento!» Mi fissò, come paralizzato. «Non capisci? Non capisci che cosa avrebbe significato per lei? Cerca di rimanere incinta, utilizzando una fonte disponibile che non costituisce minaccia. E lo fa per un amore profondo e altruista... altrimenti non avrebbe potuto farlo senza perdere ogni briciola di umanità. Sa che la sua gravidanza esalterà il marito, che sa quanto ella lo ami, e implicitamente si fida di lei. E poi qualcosa va storto. Suo marito scopre quello che sta facendo, ma non il motivo... non la verità. Sospetta il peggio... cospirazione e seduzione all'interno della sua casa. Nel suo dolore, nel suo sentirsi tradito, cerca di annientare l'autore del misfatto... ma ai suoi occhi, Ambrogio, l'autore del misfatto non è sua moglie! Avrebbe potuto ucciderla impunemente per adulterio, secondo la legge romana. Ha scelto diversamente. Per quanto tentare un omicidio in casa propria fosse una pazzia, non ha cercato di uccidere sua moglie. Ha scelto invece la parte innocente, senza rendersi conto che non c'era colpa se non quella nata dall'amore di sua moglie per lui. E nel tentativo è morto, lasciando la moglie addolorata e incinta a portare la propria colpa e il figlio che aveva provocato la sua morte. Te. Rammenta, è fuggita da quella casa subito dopo la morte del marito, Mio padre non l'ha mai vista, non l'ha mai conosciuta...» Quella frase rimase un momento in sospeso, in mezzo a noi. «E così ti ha abbandonato, ma non del tutto... non del tutto, Ambrogio. Non ti ha lasciato morire sul ciglio di una strada qualunque, come avrebbe potuto. Ti ha lasciato a sua sorella. Con la sua famiglia, sapendo che come parte di quella stessa famiglia ti avrebbero accettato. E ha lasciato credere che suo marito fosse tuo padre. Solo allora è scomparsa, probabilmente in preda alla disperazione e senza alcun desiderio di continuare a vivere. E nessuno l'ha mai più vista, da allora... Adesso puoi dirmi perché mai ti avrebbe abbandonato in quel modo, invece di lasciarti semplicemente a morire da qualche parte?» Scosse la testa, in silenzio, quasi rilassato, e io finii di dire quello che dovevo dire, sapendo in cuor mio che la spiegazione che era sorta dagli intimi recessi della mia mente era giusta. «Semplicemente perché non poteva sopportare di vivere con te, anche se tu eri innocente. Era una donna meravigliosa, Ambrogio, se il mio ragionamento è corretto, e io credo che lo sia. Pensa a lei con compassione, se puoi, e con affetto. Per amore di un uomo anziano, e spinta da benintenzionata disperazione, ha intrapreso un cammino disseminato di gravi rischi, e che avrebbe potuto darle ben poco piacere. E da tutti questi generosi sacrifici è nata la tragedia. Suo marito, per amore del quale aveva fatto tutto questo, è stato ignominiosamente ucciso, credendola infedele e infrangendo la sacrosanta legge romana dell'ospitalità. Ed è rimasta con te, come monito quotidiano della sua colpevolezza. Marco Aurelio Ambrosiano era il marito di tua madre, Ambrogio, ma non era tuo padre. E ogni volta che tua madre ti avesse guardato l'avrebbe visto, e avrebbe visto che il tuo vero padre - per lei nient'altro che un mezzo - non era nulla ai suoi occhi e non sapeva nemmeno della sua - e della tua esistenza. Tu e tuo padre eravate solo i procreatori della sua colpa, gli strumenti da lei follemente usati per conseguire l'indesiderata morte di suo marito. Grazie a Dio ti ha lasciato vivere. Più di una donna ti avrebbe ucciso ancora in grembo.» Senza più parole si rigirò a scrutare l'oscurità oltre le rocce, ma non prima che vedessi lo scintillio della luna sulle lacrime che gli rigavano le guance. Attesi, ma sapevo che non avrebbe detto altro, e dopo un poco feci un passo avanti e gli posai una mano sulla spalla, e la sentii contratta dalla tensione. «Ascolta» gli dissi. «É tardi, e tu non hai bisogno di compagnia, perciò me ne vado. Pensa a quello che ti ho detto. Tu sei mio fratello, il figlio di mio padre, e hai una casa nella mia casa a Camulod, se mai dovessi decidere di volerla. Parleremo ancora domani, ma non cercherò di importi la mia presenza. Vieni a cercarmi, quando sei pronto. Buona notte.» Lo lasciai solo, in piedi tra i massi, e ritornai alla mia tenda, dove giacqui sveglio a lungo. XXXVI. Era già metà mattina e di Ambrogio non avevo saputo niente, anche se ero rimasto nei pressi della mia tenda, delegando a Ciro Appio le mie consuete incombenze. Non avevo parlato né a Donuil né a nessun altro dell'incontro con mio fratello la sera prima, e Donuil mi osservava con sollecitudine ogni volta che mi credeva ignaro della sua attenzione. Ma ero disposto ad aspettare. Ambrogio poteva venire a cercarmi in qualunque momento. Ero certo che avrebbe passato una notte insonne con tante cose da pensare, e forse era rimasto a letto più a lungo del solito. Era un bel mattino di primo autunno, l'aria annunciava frizzando il prossimo arrivo dell'inverno, e il campo era quasi deserto; un terzo delle nostre forze era in città, di pattuglia, e il resto era andato ad assistere al dibattito. Ero seduto pigramente accanto al fuoco, e ascoltavo il rumore aspro e stridente della cote che Donuil, dentro la tenda, usava sul filo della mia spada, quando un'ombra mi cadde addosso. Mi girai e vidi Lucano, con le spalle al sole, che mi guardava. «Buon giorno a te» mi salutò. «Che cosa c'è che non va?» «Che non va? Niente al mondo, che io sappia.» Gli feci cenno di unirsi a me. Si avvicinò, ma rimase in piedi. «Dove sei stato tutta la mattina?» Alzò le spalle. «Ho camminato, e lavorato. Uno dei nostri soldati stanotte è caduto e si è rotto malamente una gamba. L'ho sistemata e steccata, ma questa mattina ho dovuto rimettergliela a posto.» «Era ubriaco?» «No, è caduto da non so che scala, ma era sobrio.» Accantonò l'argomento con un gesto e continuò: «Sono più preoccupato per te. Che cos'hai? Oggi non hai fatto altro che ciondolare qui intorno. Non è da te». «Vero?» Sorrisi. «Penso, ecco tutto, e aspetto.» «Aspetti che cosa? Caio Merlino Britannico non aspetta niente e nessuno... almeno che io sappia. Perciò, che cosa sta succedendo?» Risi. «Non sta succedendo niente, niente che debba preoccuparti. Ti ho cercato ieri sera. Avevo parlato con il vescovo Patrizio, e volevo dirti di Uther.» «Di quel prete, Remo?» Annuii. «L'ho saputo. Ho parlato con Patrizio dopo di te. Mi ha informato sull'argomento della vostra conversazione.» Fece una pausa, e mi guardò con occhi indagatori. «Dev'essere stato un grande sollievo sapere che i tuoi sospetti erano infondati.» Il suo tono fece di un'affermazione una domanda. «Infatti. Ho dormito bene, stanotte. Ho delle altre notizie per te, su un'altra faccenda, ma dovranno attendere. Dove stai andando, adesso?» «Al dibattito. Speravo che venissi con me. L'inaugurazione ufficiale c'è stata stamattina, e ce la siamo persa entrambi. Abbiamo fatto un lungo viaggio per assistere a questo dibattito.» «Sì, noi...» La mia voce si affievolì; vidi Lucano guardare oltre la mia testa e seppi, dal modo in cui spalancò gli occhi e la bocca, che cosa aveva visto. Mi girai e vidi Ambrogio accanto alla mia tenda, e compresi che Lucano aveva subito un trauma. Nell'oscurità, Ambrogio mi somigliava in modo sorprendente. Alla luce del giorno l'effetto era accentuato. Avremmo potuto essere gemelli. «Ah, Ambrogio!» Mi alzai subito in piedi. «Benvenuto. Lascia che ti presenti a un mio amico, Lucano, il nostro superbo medico, che però si definisce chirurgo.» Lucano aveva ancora gli occhi vitrei. «Luca, questo è Ambrogio... di Lindum.» Non potevo dire altro, finché non avessi conosciuto le sue intenzioni. Ambrogio avanzò di un passo e si inchinò leggermente, un gesto formale eppure cortese e amichevole. «Mastro Lucano, Caio Merlino ti induce in errore, ma per eccessiva compitezza, e vedo che te ne rendi conto da te stesso. Il mio nome è Britannico... Ambrogio Britannico.» Mi sfuggì un gran sospiro di sollievo. «Donuil» chiamai, «vieni fuori a conoscere mio fratello.» Seguì un momento di confusione e di stupore, mentre Donuil e Lucano cercavano di comprendere la realtà di quel confronto, ma promisi che avrei dato loro in seguito spiegazioni più approfondite. Avevo intuito dall'espressione di Ambrogio che non era ancora perfettamente a suo agio in quel nuovo ruolo. Chiesi agli altri di concederci un po' di intimità, e immediatamente se ne andarono. Condussi Ambrogio nella mia tenda e lo invitai a sedersi. Restammo per un poco in silenzio, guardandoci l'un l'altro, apprezzando la somiglianza. «Vorresti qualcosa da bere?» Sentivo un improvviso bisogno di metterlo a suo agio, ma scosse la testa e poi parve rilassarsi. «Ieri sera... Ieri sera hai detto che avrei dovuto ringraziare Dio perché mia madre mi aveva permesso di vivere...» Tentò di sorridere e, malgrado il risultato fosse piuttosto malfermo, mi sentii meglio di quanto mi sentissi da molte ore. «Sono venuto questa mattina a dirti che sono d'accordo con te... e che invero ringrazio Dio.» Aveva le lacrime agli occhi; parlò ancora, con voce appena un poco tremante. «Merlino, ho pensato per tutta la notte a quello che hai detto, e ora, conoscendo e riflettendo sulla tua stessa incertezza, credo che sia vero. Da un lato sembra contrario alla ragione, ma dall'altro sa di verità. Non lo sapremo mai con certezza, come hai detto tu. Lo so, e mi dispiace, ma qui dentro sento che è vero!» E si batté un pugno sul petto. «Ti ringrazio» proseguì, lottando per controllare le sue emozioni. «Mi hai restituito mia madre.» Deglutii. «Ti ho restituito molto di più, amico mio, e con vantaggio di entrambi, perché adesso io ho un fratello quasi gemello, e tu erediti un'altra vita: un nobile padre che non sapevi di avere, un'intera tribù di parenti e una Colonia come non esiste uguale su questa terra... Per non parlare di Uther Pendragon, che attualmente non conosci, ma che ululerà di giubilo e indignazione quando ti metterà gli occhi addosso. Ma avremo tante opportunità per parlare, ora che ti stai adeguando all'idea. Intanto, stavo per andare al dibattito con Lucano. Vuoi unirti a noi?» Scosse il capo dispiaciuto, e si alzò in piedi. «Non posso, anche se vorrei. Ho troppe cose da fare, e questa mattina ho oziato, ma ho detto a mio zio tutto quello che tu hai detto a me, e lui conferma la tua ricostruzione dei fatti. Ceni con me stasera?» Mi si inarcò un sopracciglio sentendo che Giacobbe di Lindum approvava la mia teoria, ma preferii non fare commenti. Sorrisi, invece. «Con chi altro potrei anche solo pensare di cenare? Volentieri. Verrai qui?» Annuì. «Quando il dibattito per oggi sarà finito.» Ci abbracciammo per la prima volta come fratelli, e andammo ognuno per la sua strada, lui ai suoi affari, e io verso l'anfiteatro e il Grande dibattito. Dopo avere a lungo perlustrato la folla stranamente festosa che riempiva l'anfiteatro, trovai Lucano in mezzo a un gruppo di uomini seduti ognuno in disparte dagli altri. Ne riconobbi alcuni; sembrava che solo loro, in quel vasto luogo, ascoltassero veramente il dibattito che si svolgeva nell'arena. Lucano mi vide, e mi fece posto tra sé e il suo vicino che era, notai sorpreso, nientemeno che re Vortigern, sebbene quel giorno avesse un'aria tutt'altro che regale, intento com'era al dibattito avvolto in un ampio mantello grigio. Vortigern mi guardò e mi salutò con un cenno. «Merlino.» Parlava a bassa voce. «Freddo, via dal sole.» Ritornò con occhi e orecchie al dibattito, e io diedi di gomito a Lucano. «Che cosa succede?» «Tra non molto ne saprai quanto me.» Non mi guardò, e torcendo la bocca disse: «Quel tizio ha appena iniziato a parlare, e io mi sono già perso. Non ho idea di chi sia... uno dei nuovi discepoli di Germano, che erano già qui quando siamo arrivati. Il vecchio che ha parlato prima di lui dissertava sulle scoperte del Concilio di Nicea riunito cent'anni fa da Costantino... Qualcosa sull'arianesimo e la divinità del Cristo... Credo che si stesse difendendo da una precedente accusa di arianesimo, ma non ne sono sicuro. È difficile sentire con chiarezza. Quegli uomini sono chierici, non attori di professione». Aveva ragione. L'oratore attuale aveva una voce esile e querula che non si sarebbe sentita dall'altra parte di un tavolo da pranzo. Da dov'eravamo, seduti a venti passi di distanza in mezzo alla gente, era quasi impossibile sentirlo, nemmeno con la massima concentrazione. Per un poco tesi le orecchie alla sua voce gemebonda, tentando invano di decifrare le parole, ma poi la mia mente divagò verso Ambrogio e i cambiamenti che la sua vita avrebbe apportato alla mia vita. Quando con un sussulto disertai le mie fantasticherie e riportai la mia attenzione allo svolgimento del dibattito, un altro uomo stava parlando. Non mi ero nemmeno accorto del cambiamento, e comunque non notai una grande differenza. Avevo le natiche indolenzite. Cambiai posizione alla ricerca di un po' di comodità, e il movimento attrasse l'attenzione di re Vortigern, che mi guardò in tralice con l'ombra di un sorriso. «Ti senti illuminato, mastro Merlino?» «No, sire.» Gli sorrisi mestamente. «Sono annoiato, e perduto, e incomincio a rimpiangere il lungo viaggio che ho affrontato con tante elevate speranze. Non riesco a sentire la metà di quello che dicono, e più della metà di quello che sento mi vola via sopra la testa.» «Sentirai meglio domani» disse Lucano, e Vortigern e io ci girammo verso di lui. «Come mai?» chiese Vortigern, strappando a Lucano un «Perché domani non ci sarà nessuno tranne i vescovi. Guardate, questo è il primo giorno e già più di metà della gente se n'è andata a fare altre cose. Il rumore sta diminuendo anche adesso mentre parliamo. Non so che cosa si aspettassero tutti, ma qui non c'è, qualsiasi cosa fosse. Niente spettacoli, niente fasto, niente divertimento... solo una riunione di ecclesiastici, che discutono astrazioni.» Mi guardò. «É per questo che siamo venuti, no? Ecclesiastici che discutono astrazioni?» Dovetti sorridere, malgrado la serietà della faccenda che stava dietro la sua domanda. «Sì, Luca» risposi, «ma non avevamo previsto per delle astrazioni un ambiente così astratto.» «Mmh...! Mi pare di capire che avresti preferito delle distrazioni.» «No» obiettai con una risata, «non proprio. Ma avrei preferito un po' più di cemento nell'impasto.» «Oh!» Arricciò il naso disgustato dall'infelice metafora, ma Vortigern rise forte. Altra gente si girava a guardarci, chiedendosi quale potesse essere il motivo di tanta ilarità, e Vortigern si alzò, facendo alzare tutto il suo seguito. «Basta così» disse. «Sono annoiato anch'io. Stasera chiederò a Germano di raccontarci l'accaduto. Adesso ho voglia di farmi una bella cavalcata in campagna.» Si congedò con un cenno cortese e se ne andò con i suoi cortigiani. Dopo pochi minuti, Lucano e io lo imitammo, lasciando i vescovi alle loro polemiche. L'accuratezza della previsione di Lucano non sorprese nessuno. Dopo il deprimente e arcano argomento della prima giornata, poca gente comune si ripresentò sulla scena del dibattito. Io assistetti ogni giorno, per almeno un'ora o due, nel corso della prima settimana, ma poi, con il crescere del mio disappunto per l'incapacità di comprendere il senso delle questioni dibattute, la mia frequenza diminuì in proporzione. E dovettero trascorrere due settimane, fino alla vigilia dell'ultimo giorno, prima che avessi l'opportunità di parlare ancora con Germano. Il tempo si era fatto gradatamente più freddo, un giorno dopo l'altro, e già si parlava di neve, sebbene sugli alberi le foglie fossero ancora verdi, e mostrassero solo vaghe tracce di marrone rossiccio. Spinta alla ricerca di un po' di calore dal freddo precoce della sera, già all'inizio della seconda settimana la gente aveva iniziato a radunarsi nelle provvisorie taverne che erano state allestite nelle più vaste case abbandonate. Vie e vicoli erano tutti pattugliati dagli uomini miei e di Vortigern, e in nessun luogo c'era aria di agitazioni o di disordini. Al contrario, malgrado la recente costituzione e il carattere temporaneo, erano ritrovi accoglienti, luminosi e allegri, dove si vendevano cibo semplice - e talvolta non così semplice - e nutriente, birra e idromele, e dove più di un visitatore scuoteva ammirato la testa per l'abilità dell'uomo nel volgere ogni circostanza a proprio profitto. Vortigern, Giacobbe, Lucano, Ambrogio e io, insieme a molti altri tra cui Fello, Ciro Appio e alcuni rappresentanti della cerchia di Vortigern, avevamo formato una cricca indipendente i cui membri liberi da impegni e doveri si riunivano in una di quelle taverne, che avevamo battezzato Carpe Diem in riconoscimento della brevità della sua esistenza - passata e futura - e dell'opportunismo del suo proprietario. Come spesso accade in analoghe circostanze, la nostra presenza attraeva altri soldati ma allontanava la maggior parte dei civili, così che in pochi giorni il Carpe Diem era diventato famoso come luogo di ritrovo abituale per i soldati. Quella particolare sera, però, ero caduto vittima della mia coscienza, ed ero rimasto al campo per mostrare la mia faccia ai soldati e aggiornare il mio diario, un compito che odiavo ma che godeva a Camulod di un'atavica tradizione. L'abitudine era incominciata con mio nonno, la cui insistenza nel tenere un simile registro aveva salvato la vita di tutti i suoi uomini, la sua e quella di Publio Varro, dall'accusa di diserzione e sedizione. Da quel giorno in poi, per ogni spedizione condotta da mio nonno o da un membro della sua famiglia o da uno dei suoi discendenti era stata scritta una minuziosa cronaca quotidiana. Nel mio caso, ero abbastanza istruito, e disinvolto nella scrittura, da avere perfezionato l'arte di prendere appunti concisi sugli eventi di ogni giorno, Di tanto in tanto, però, e normalmente di tre giorni in tre giorni, rivedevo gli appunti e li ampliavo nella forma di un giornale. Tale era il mio impegno quella sera. Ma sentivo freddo alla punta delle dita, e così avevo chiesto a Donuil di accendere un braciere nella mia tenda, e avevo spostato il vecchio scrittoio da campo di mio padre in modo da poter godere il calore del fuoco. Era tardi, l'oscurità era calata da tempo, ma la presenza di tanti chierici aveva fornito una utilissima pletora di eccellenti candele di cera, quindici delle quali splendevano ferme e lussuose su tre tripodi dietro e ai lati dello scrittoio, consentendomi di scrivere con una luce e un agio inusitati. Per una volta il compito mi piaceva. Stavo scrivendo compiutamente e doviziosamente i miei ricordi e le mie impressioni sui recenti avvenimenti e sul profluvio di nuovi amici. Mi ero già intrattenuto su Ambrogio e sull'inattesa soluzione del mistero della convalescenza di mio padre e dell'attentato alla sua vita. Stavo definendo i miei pensieri pro e contro l'impiego di mercenari sassoni da parte di Vortigern in Northumbria, e sull'autodifesa in caso di invasione, quando udii delle voci fuori dalla tenda, dove Donuil stava ancora badando alle sue faccende. Pochi istanti dopo vidi aprirsi i lembi della tenda, e il vescovo Germano fece capolino. «Merlino? Posso disturbarti?» «Naturalmente!» Mi alzai subito in piedi per accoglierlo, senza nascondere la sorpresa e il piacere che provavo alla sua visita. «Entra, vescovo, te ne prego. Non mi disturbi affatto. Avevo quasi finito, e stavo pensando a una coppa di vino o di idromele.» «Non pensarci più.» Con uno svolazzo tirò fuori un fiasco da dietro la schiena. «Porto un'offerta per compensare l'impertinenza di importi la mia presenza. Al Carpe Diem mi hanno detto che eri qui, a sgobbare tutto solo, e così sono venuto a trovarti.» «Al Carpe Diem? Sei andato là?» Capì che ero stupito, ed entrando nella tenda mi sorrise. «Sì. Un piccolo peccato di intolleranza sfociato in un altro peccato di indulgenza alle passioni. Stasera non potevo sopportare l'idea di un altro erudito dibattito, così ho preferito cercare la compagnia dei soldati.» Si guardava intorno, e gradiva visibilmente la luce e il calore. «Ti sei organizzato bene, almeno per lavorare fino a tardi.» Strinse gli occhi in un'espressione canzonatoria. «Sei sicuro di avere abbastanza luce?» Risi. «Sì, grazie all'ottima qualità dei rifornimenti dei tuoi chierici. Da ora in poi, quando sentirò parlare della luce della dottrina portata dalla Chiesa, saprò che cosa significa. Siediti, ti prego.» Spiegai uno sgabello accanto al fuoco e presi due coppe; Germano tolse il tappo al suo fiasco e versò idromele per entrambi. Per un poco chiacchierammo di cose irrilevanti, godendoci il conforto del braciere acceso e la voluttà dell'eccellente idromele, contenti di trascorrere qualche momento in piacevole ozio senza nessuna impellente incombenza. Esaurite le banalità, parlammo delle condizioni della città di Verulamium e dell'identico fato che sembrava gravare su tutte le città della Britannia, adesso che Roma, con l'influenza della sua civiltà, non faceva più parte della vita del paese. Germano era convinto che tutte le città sarebbero infine cadute nel completo abbandono, ma quel pensiero mi molestava. Osservò che senza una forza unificante e centralizzatrice come l'esercito, e mancando il necessario volume di traffico commerciale da una regione all'altra, non ci sarebbe più stato un effettivo bisogno di città nel senso in cui si erano sviluppate. Ma non tutte le città si sarebbero estinte. Ci sarebbero sempre stati punti di naturale confluenza intorno ai quali si sarebbero costituite le colonie, proprio come Camulod era sorta dalla necessità di difendere le nostre fattorie, ma mi convinse che le città civilmente amministrate di Britannia, che conoscevamo, avrebbero continuato nel loro rapido declino fino a quando il commercio e il traffico regolari non fossero riemersi in grande scala. Gli chiesi quando pensava che sarebbe successo, e allora scrollò cupamente il capo. Non aveva speranze che potesse accadere presto, né durante la vita di chi fosse già nato. Aveva visto la patria dei Sassoni che razziavano con tanta costanza la Britannia, e nulla che avesse visto lo incoraggiava a pensare che le incursioni sarebbero diminuite. I Sassoni, secondo lui, consideravano la Britannia un po' come gli Israeliti consideravano Canaan: una terra in cui scorrono latte e miele, ricca di tutte le benedizioni che mancano altrove. Per questa nostra terra non vedeva speranza di liberazione dalle invasioni. Le razzie sarebbero continuate, e sarebbero aumentate finché Dio non avesse pensato bene di porvi fine. Simili sconfortanti osservazioni ci portarono a parlare dell'organizzazione delle difese contro il pericolo, e fu Germano il legato a discutere le scelte di Vortigern. Alla ricerca di cieli più luminosi parlammo del fratello che avevo appena trovato, e poi di sogni e di simboli. Credevo, forse stolidamente, che essendo un soldato di carriera e un vescovo avesse poca pazienza con quei concetti immateriali e quasi superstiziosi. Germano mi disilluse e mi sorprese prontamente, sottolineando che, almeno in qualità di vescovo, aveva a che fare e utilizzava i simboli continuamente. La croce cristiana era il simbolo della nostra fede. Non potevo negarlo, ma discutemmo a lungo della croce e del nuovo utilizzo del crocifisso. La croce e il crocifisso non erano la stessa cosa, mi disse Germano. Il crocifisso, con la sua vittima martoriata, simboleggiava la crocifissione nel suo senso proprio, e glorificava l'orrendo fato del Divino Salvatore per mano dell'uomo. La croce era sostanzialmente diversa. Germano mi assicurò che era un simbolo molto più remoto di luce e di rivelazione, venerato già nell'antico Egitto e ancora prima a Babilonia. La croce era anche uno dei simboli distintivi di Mitra, il dio della luce, adorato in segreto. Mitra era stato inoltre per secoli il dio dei soldati romani che rappresentava la bellicosità, la mascolinità e le virtù virili. Erano cose che sapevo, ma ascoltai in silenzio, incerto su che cosa pensare, poiché tutte quelle affermazioni uscivano dalla bocca di un vescovo cristiano. Un fatto era certo, concluse, facendomi sentire molto meglio: un emblema, la forma di un simbolo semplice e immediatamente riconoscibile, un sigillo di appartenenza, di conformità, di identità, era essenziale al successo di qualunque grande movimento popolare. Ascoltavo e facevo saggiamente di sì con la testa, che mi girava per effetto dell'idromele, ed ero completamente inconsapevole del fatto che Germano, vescovo militante della Chiesa di Dio a Roma, stava piantando nella mia coscienza un seme che sarebbe cresciuto e avrebbe influenzato un intero popolo. Trascorsero più di due ore prima che permettessimo alla conversazione di scivolare verso il dibattito che aveva informato di sé le due settimane passate, e anche allora ci accostammo all'argomento con cautela, e Germano resistette alla tentazione di parlarne in termini di polemica e di teologia. «Ebbene» mi chiese, «come soldato, che cosa ne pensi?» Feci una smorfia. «Come soldato? La stessa cosa che ne penso come uomo. Mi sono smarrito fin dal primo giorno. Quasi non ho capito una parola, e ancora meno ho capito le idee che venivano diffuse tanto strenuamente.» Sorrise amabilmente. «Sì, ho notato che diventava sempre più difficile individuare la tua presenza. Ma ti avevo avvertito, già durante il nostro primo incontro.» «É vero, vescovo, mi avevi avvertito.» Ricordavo la mia reazione alla sua sorpresa per il mio desiderio anche solo di assistere al dibattito. «Ma volevo essere qui, come ti dissi allora, per essere testimone di questo evento, a causa della sua importanza per noi tutti. Ti dico francamente, però, che a volte volevo saltare in piedi e chiedere a gran voce che qualcuno dicesse qualcosa in un linguaggio semplice, qualcosa che un uomo potesse sperare di capire. E infine ho perso la speranza, e ho confidato invece di poter parlare con te, di poterti chiedere che cosa era successo, che cosa era stato deciso.» «Sono qui. Chiedi.» Lo guardai, e vidi l'uomo e non l'ecclesiastico. Dal suo arrivo avevamo inferto notevoli danni al contenuto del suo fiasco, e Germano era rilassato e in perfetto agio. Donuil aveva riempito il braciere da poco, prima di andare a letto, cortesemente rifiutando il nostro invito a unirsi a noi. Le braci ardevano quanto più non avrebbero potuto, emanando un calore ospitale e senza fumo che ci aveva cullati entrambi in uno stato di perfetta equanimità. Gli sorrisi, felice di quell'atmosfera. «Vescovo, non so da dove incominciare... Non so che cosa chiedere.» Tirò su con il naso e sollevò di nuovo il fiasco, e dopo il mio rifiuto versò nella sua coppa le poche gocce rimaste. «Allora» mormorò, «lascia che ti aiuti, poiché so che cosa hai bisogno di chiedere nonostante la tua riluttanza.» Sorseggiò l'idromele, sospirò e appoggiò la coppa a terra, accanto ai suoi piedi. «Per quanto riguarda la scomunica per vecchi peccati, non ho emesso decreti. Vedi, avevo preso a cuore la tua eloquente osservazione secondo la quale in assenza di una guida ufficiale dall'esterno, da Roma, tu e la tua gente avreste continuato a vivere onorevolmente in virtù degli insegnamenti dei vostri vescovi e della vostra antica fede. Nessuno potrebbe trovare colpa in questo, Merlino; la sua verità è incontestabile.» Meditò sulle successive parole, e proseguì. «Il beneficio del dubbio, perciò - quella sofisticata perla di saggezza propugnata da tuo padre e così abilmente trasmessa da te a me deve venire applicato a chiunque in simili casi. Non sono state stabilite gravi» cercò la parola giusta «proibizioni. E tuttavia l'eresia è eresia e non può essere tollerata.» Tacque ancora, osservandomi scaltramente. «Credo di sapere come funziona la tua mente di soldato. So che non hai pazienza con i sofismi, perciò parlerò chiaramente.» Raddrizzò la schiena, e i tratti del suo volto persero la piacevole morbidezza di un attimo prima. «Come soldato e come ufficiale, hai un alto rispetto per la legge. Devi averlo; è imprescindibile dalla responsabilità... È proprio della legge che ti sto parlando; la legge della Chiesa, con tutta l'immane responsabilità che essa comporta. A parte tutte le discussioni polemiche e teologiche che si sono sviluppate in queste due settimane qui a Verulamium, credo che una verità si sia manifestata ai vescovi riunitisi qui da tutta la Britannia: senza legge c'è il caos. Noi abbiamo visto tale verità quando siamo arrivati. Quella verità rimane tale anche nel governo degli affari di Dio sulla terra. In qualche modo, da qualche parte, deve esistere un nucleo centrale di verità ratificata e accettata - un nucleo dogmatico, se preferisci - affinché la vita possa prosperare in modo equilibrato. Il confronto tra le filosofie di Pelagio e di Agostino di Ippona ha condotto a una situazione intricata che doveva essere risolta. Un uomo ragionevole e istruito può scorgere molte verità apparenti, molte plausibilità, da entrambe le parti. Ma le differenze sono puramente filosofiche, Merlino, e perciò umane. In fondo, non sono teologiche. All'interno di tali differenze risiede l'incapacità umana di comprendere la natura, e la gravità, della disputa.» Mi osservò, per vedere come reagivo alle sue parole. Ma mi costrinsi all'impassibilità, e infine riprese. «La legge richiede la presenza di giudici, arbitri, uomini dotti che, in virtù della loro saggezza, sono ritenuti idonei ad accertare e assimilare tutti gli aspetti pertinenti alla situazione in discussione, e a raggiungere perciò una soluzione giusta, compassionevole e umana. I vescovi del conclave romano, e quelli di Antiochia e delle altre sedi principali, svolgono la medesima funzione e, nella loro sapienza, hanno scelto di dirimere questa controversia come hanno fatto. Pelagio è un apostata, e la sua filosofia e i suoi insegnamenti sono soggetti a condanna. Tu, uomo singolo, puoi protestare contro questo giudizio, ma devi forzatamente accettarlo. Non esiste possibilità di ricorso. Il caso è stato estesamente considerato, nel corso di molti anni e da molte persone, e il giudizio è stato emesso.» Sospirò. «I vescovi di Britannia sono ora stati ufficialmente informati, da me, su come stanno le cose. Possono quindi scegliere di ignorare il mio messaggio, ma se lo faranno, sarà nella piena e cosciente consapevolezza di procedere sfidando il verdetto della Chiesa nel suo complesso. Procederanno perciò nel peccato, e ipso facto sotto pena di scomunica e di dannazione... Nessun uomo, però, vescovo o altro, verrà scomunicato per come ha creduto o ha agito prima di questo momento.» Fece una pausa, e corrugò la fronte. «Merlino» disse infine, «non posso pronunciare parole di condanna rivolte a te personalmente. Tu vivrai, come devi, secondo la tua coscienza. Sei un uomo buono, e in te non vedo empietà. Nel giorno del Giudizio, Dio saprà come trattarti, e Dio è misericordioso quando la misericordia è giustificata. I vescovi, invece, sono tutta un'altra faccenda. Essi sono i docenti, gli esempi, e la loro vita è soggetta a un attento scrutinio da parte di Dio e dei suoi angeli. Ho decretato l'apertura di scuole, scuole teologiche dedicate all'insegnamento della dottrina ortodossa ai vescovi di Britannia ora e in futuro. Nell'istruzione cristiana in Britannia non si sentirà più parlare degli insegnamenti di Pelagio... Ecco che cosa abbiamo concluso, e io credo, con tutto il cuore e con tutta l'anima, che questa conclusione sia importante e positiva.» Non c'era molto che potessi dire. Mi aveva tranquillizzato, e mi aveva tolto ogni preoccupazione riguardante il vescovo Alarico e il suo destino eterno, e mi aveva promesso che, se avessi continuato a vivere come avevo vissuto finora, senza indurre in comportamenti malvagi, avrei potuto accostarmi a Dio con rettitudine e fiducia. Un atteggiamento particolarmente pelagiano nel campione dell'ortodossia. L'idromele era finito, e sembrava che fossimo le uniche due persone rimaste vive in tutto l'accampamento. Era molto tardi quando accompagnai Germano al margine del nostro campo e lo vidi dirigersi sano e salvo al suo alloggio. XXXVII. Il Grande dibattito terminò in un'atmosfera molto diversa da quella che ne aveva accolto l'inizio solo due settimane prima. La grande folla di festaioli si era dispersa nei giorni precedenti, ed erano rimasti solo i chierici e i militari, cioè noi e gli uomini di Giacobbe di Lindum. La città di Verulamium, brevemente risorta, era ricaduta nella vacuità e nella decadenza, e Michele e i suoi tutori dell'ordine avevano di nuovo il compito di mantenere la pace nel loro piccolo villaggio dentro le mura. Fuori dalla cittadella, il vasto anfiteatro era deserto; il palco, e le file e gli ordini di posti a sedere attendevano una futura rappresentazione che forse non sarebbe mai avvenuta. Il giorno della nostra partenza, dopo una colazione tarda e un ultimo giro di saluti, ci dirigemmo separatamente verso casa. La compagnia di Vortigern e Giacobbe, incluso Ambrogio, partì per prima, verso est, per raggiungere la grande strada più a nord che percorreva la Britannia per tutta la lunghezza. Malgrado la tristezza di dividermi da mio fratello, pensavo con piacere che l'avrei rivisto presto, quando fosse venuto a Camulod come aveva promesso. Germano e il suo seguito, con la loro scorta di cavalleria, andarono a sud, a Londinium, da dove avrebbero preso per sudovest fino alla costa, evitando il nuovo insediamento sassone nel sud-est, e da lì una nave li avrebbe portati in Gallia. Noi di Camulod, come avevamo programmato, ci mettemmo in viaggio verso ovest, per Alchester e Corinium, dove avremmo deviato a sud per Aquae Sulis e per arrivare a casa. Faceva freddo quando partimmo, e proseguendo il freddo aumentò. Eravamo a meno di una giornata di cavallo da Verulamium, su una strada irregolare che saliva attraverso una nebbia di nubi sarmentose e gravide d'acqua, quando la neve incominciò a cadere in fiocchi grossi e pesanti che vorticavano in un vento infido e gelido e limitavano la visibilità a poche dozzine di passi. Gli uomini reagirono a quella neve precoce con rabbia e sconcerto, malgrado il freddo premonitore delle precedenti settimane. Non eravamo ancora nel pieno dell'autunno, e gli alberi avevano ancora tutte le foglie, seppure ormai rossicce. Riunii i comandanti di squadrone e diedi ordine di accamparci immediatamente e di aspettare che quell'anacronistica bufera cessasse. Con quel freddo fu un miserevole bivacco, che durò per tre lunghi giorni invernali, durante i quali la bufera si alternò a periodi calmi e silenziosi in cui la neve scendeva fitta, e a interminabili periodi di efferatezza infernale in cui il vento glaciale e ululante soffiava innanzi a sé letali pallottole di neve ghiacciata. Tanta furia finalmente si placò, e potemmo proseguire circondati da un paesaggio alieno, arrancando tra profondi cumuli di neve sotto un cielo ancora ammantato di nubi cupe e imbronciate, e travagliato da un vento che aveva perso poco della sua perfidia. Eravamo in alta quota, e i pochi alberi erano bassi e stentati: le foglie erano state ghiacciate dalla neve e dal vento, e penzolavano accartocciate e vizze; molte erano cadute ancora verdi, con i frutti ancora acerbi, i semi abortiti e distrutti. Eravamo troppo in alto e troppo lontani da zone abitate perché ci fossero campi coltivati, ma mi domandavo inquieto come sarebbero andati i raccolti se quell'insolito maltempo fosse stato esteso a tutta la regione. A mezzogiorno del giorno seguente eravamo di nuovo in viaggio, l'aria si intiepidiva rapidamente e la coltre di nubi si apriva e si diradava lasciando filtrare un debole raggio di sole, che illuminò e innalzò visibilmente il morale degli uomini. Cavalcavo pensieroso, rimuginando per l'ennesima volta la conversazione con il vescovo Patrizio sul destino del prete di nome Remo. A un tratto voltai la mia cavalcatura e risalii verso la coda della colonna alla ricerca di Lucano; sentivo l'impellente necessità di parlare un poco con lui, ma lo trovai seriamente impegnato con Ciro Appio, interamente concentrato nella conversazione e nello sforzo di competere con la superba arte equestre di Appio stesso. Tornai indietro prima di raggiungerli: non volevo interrompere il loro colloquio solo per alleviare la mia noia. Quando fui di nuovo in testa alla colonna, liberai la mente dai pensieri, raddrizzai le spalle e aumentai leggermente il passo, sorridendo tra me per il piccolo, malizioso piacere di sapere che il povero Luca avrebbe dovuto faticare come non mai per continuare nelle due attività che richiedevano la sua attenzione. Il sole splendeva su di me, caldo e gradevole, e mi sentii bene come non mi sentivo da giorni. Più tardi, quel pomeriggio, superando la cresta di una collina, vidi una prateria verde e uniforme scendere dolcemente davanti a me senza traccia di neve e, agendo d'impulso, fermai il cavallo e attesi che la colonna mi raggiungesse. Ciro Appio si avvicinò e mi guardò con un'espressione interrogativa, e io gli sorrisi. «I nostri cavalli hanno bisogno di correre, Ciro, e noi dobbiamo toglierci di dosso qualche ragnatela. Sotto di noi c'è una valle deserta, che si apre con un pendio lungo e lieve. Schiera i tuoi uomini in squadroni. Ci lanciamo all'attacco.» Mi rivolsi a Donuil. «Porta il mio stendardo a Rufio e digli di portarlo fino a metà del versante opposto. Quando gli uomini saranno nel fondovalle, potrà andare dove vorrà. Il primo che lo raggiungerà e reclamerà lo stendardo vince un fiasco del mio vino migliore per ognuno dei suoi compagni di squadra, stasera quando piazzeremo il campo. Ma dì a Rufio che non deve farsi prendere troppo facilmente.» Tornai a parlare con Ciro Appio. «Sono circa due miglia, più quello che Rufio riesce a guadagnare. Che cosa ne pensi?» Mi sorrise, salutò, e si precipitò a comunicare i miei ordini. Cavalcai con loro, esultando nell'euforia della carica e cercando di essere presente quando Rufio fu finalmente raggiunto, ma ero cento passi lontano, e il mio grande cavallo recalcitrava, quando un soldato dello squadrone di Ciro pretese il premio tra gli applausi e le acclamazioni e i gemiti di disappunto. Quando la confusione e l'allegria si furono calmate e una parvenza d'ordine fu ristabilita, il sole era già basso, e ordinai ai miei ufficiali di accamparsi. Facemmo una sosta felice, quella notte, e io me ne andai a dormire compiaciuto di me stesso e dei miei uomini. Due giorni dopo ci ritrovammo, storditi, in cima a un'altra collina, a fissare le fumanti rovine di quella che un tempo era stata la cittadina di Alchester. Fello aveva riferito personalmente la notizia, e per tre ore non avevamo dato tregua ai cavalli, ma era ormai troppo tardi per essere d'aiuto. Gli esploratori avevano trovato solo rovine fumanti già al mattino presto, e ciò significava che l'incendio doveva risalire almeno al giorno prima, perché se fosse scoppiato di notte avremmo visto le fiamme. Nel minuscolo foro davanti al municipio era ammucchiata una catasta di corpi, più di settanta, e altri trenta orrendi pupazzi oscenamente carbonizzati erano stati trovati dentro la basilica. I cadaveri in piazza erano uomini, ragazzi e bambini di entrambi i sessi. Identificammo solo i corpi di quattro donne vecchie e avvizzite. I resti nella basilica potevano essere qualsiasi cosa. Non appena avevamo oltrepassato la cresta della collina, Fello era andato a consultarsi con uno dei suoi esploratori; tornò verso di noi al galoppo. «Sono venuti da ovest, lungo la strada principale.» Fello era un uomo dai modi bruschi che non aveva tempo per i titoli e le cortesie militari, e mi ero abituato da tempo alle sue maniere. «Una grossa banda, più di cento unità, ma questo già lo sapevamo. I miei uomini mi hanno detto che se ne sono andati per dove sono venuti. Hanno lasciato una quantità enorme di tracce, e si sono allargati sul terreno soffice su entrambi i lati della strada. Sono in tanti. Non sappiamo chi sono, ma non sono Sassoni; siamo troppo lontani dal mare, e hanno cavalli.» Lo fulminai con un'occhiata. «Cavalleria?» Scosse la testa. «Non ho detto questo. Ho detto che hanno cavalli. Forse anche carri. Ma ce ne sono parecchi a piedi. Hanno preso il bottino che hanno trovato, che non doveva essere né molto né di valore, e tutte le donne. Paolo, un mio uomo, pensa che abbiano un giorno, un giorno e mezzo di vantaggio, e che se la prendano comoda. Non si aspettano nessuna opposizione. Sicuramente non si aspettano che gli arriviamo di corsa alle spalle.» «Per loro disgrazia» dissi, e mi girai verso Ciro Appio. «Marcia forzata da qui in avanti. Razioni asciutte a tutti i ranghi in movimento; mangeremo a cavallo. Riposo di un quarto d'ora ogni dieci miglia. Voglio prendere questa gentaglia per domani a quest'ora. Dillo ai tuoi uomini.» Tornai a Fello. «Voglio tutti i tuoi uomini in avanscoperta in uno stretto arco. Non preoccuparti dei fianchi. Quella gente non sa che stiamo arrivando. Trovateli più in fretta che sia possibile, teneteli d'occhio ma non fatevi vedere. Sapete che cosa fare. Andate.» Cavalcammo fino a notte fonda, dormimmo solo quattro ore e rimontammo in sella prima dell'alba, e quando il cielo iniziò a schiarirsi a est, dietro a noi avevamo già percorso dieci miglia sulla solida strada romana. Fu lì che un esploratore tornò a dirci che il nemico era a meno di tre miglia, ancora accampato. Fello stimava che fossero poco meno di trecento, di cui meno di cento a cavallo. La notizia più sorprendente era che tra le forze nemiche sembrava nessuno si era avvicinato abbastanza per poter fornire una conferma - che non ci fossero civili. Niente donne e nessun prigioniero. Sorpreso quindi, ma non eccessivamente preoccupato, ne dedussi che le donne erano state uccise oppure - ed era un'alternativa più probabile, poiché non avevamo trovato cadaveri, e le donne erano considerate una merce di lusso nel traffico degli schiavi - erano state mandate per un'altra strada verso il luogo di eventuale raccolta e vendita. Decisi di attaccare immediatamente il campo addormentato. Caricammo sospinti dal sole nascente e sorprendemmo gli stranieri in una breve, dura, aspra battaglia. Fu per loro una completa disfatta, e i nostri trombettieri dovettero soffiare forte e a lungo nei loro strumenti per richiamare i soldati assetati di sangue all'inseguimento degli ultimi predatori fuggiaschi. Il nostro bilancio fu di ventitré morti e due volte tanti feriti, contrapposti a centottantuno nemici morti e nessun prigioniero. Forse un centinaio erano scappati, ma la notizia che riportò il centurione Rufio ci fece abbandonare ogni idea di dare loro la caccia. Rufio aveva combattuto e ucciso uno dei loro capi, e prima di morire l'uomo aveva maledetto Rufio, aggiungendo che Gulrhys Lot di Cornovaglia si sarebbe vendicato. Era una notizia terribile. Se Lot si era scatenato così a nord - più di cento miglia sopra e a est della nostra Colonia - allora il mio posto era a Camulod, e io non avevo tempo da perdere. Ma adesso, grazie a quell'ultimo episodio, avevo più di quaranta uomini invalidi, con lesioni che andavano da piccoli tagli a ferite gravi, e solo centotrenta uomini effettivamente in grado di combattere; ciò significava che non potevo dividere le nostre forze e precedere i feriti a Camulod. Lasciare indietro i feriti, anche con una grossa scorta, in un territorio che forse brulicava di nemici, voleva dire condannarli a morte. E di conseguenza le truppe rimaste, meno la scorta per i feriti, sarebbero state pericolosamente scarse, ai limiti della follia, se avessimo incontrato una seria opposizione lungo la strada verso sud. Mi maledissi per avere costretto i miei uomini, per la mia colpevole ignoranza e irresponsabilità, a strisciare come delle lumache, che era la massima velocità a cui potevano viaggiare i feriti gravi. Una rapida consultazione con i miei ufficiali confermò la mia analisi. Non potevamo dividerci adesso che sospettavamo - e avevamo ragione di credere - che una supposta banda isolata di predatori fosse in realtà un elemento di una forza molto più vasta: un esercito invasore. Mandai Lucano a distribuire i quindici feriti più gravi fra tre dei nostri grossi carri, e a ripartire il carico tra gli altri. Poi distaccai uno squadrone di quaranta unità per aumentare il numero degli esploratori di Fello, e feci loro cambiare uniforme perché potessero formare intorno a noi uno schermo protettivo più vasto, mobile e impercettibile. Presi tali provvedimenti, ripartimmo per Camulod alla velocità più elevata possibile senza procurare gravi danni ai feriti, e per lo stesso motivo mantenendoci sulla strada principale, che era la via più regolare e diretta, ma anche la più visibile la più vulnerabile. L'esatta verità iniziò ad affermarsi nel giro di poche ore. Per quanto numeroso, il gruppo di "predatori" nel quale ci eravamo inavvertitamente imbattuti non era altro che una singola fazione, buona per scaramucce, di un esercito sparpagliato ma in rapida aggregazione che doveva contare migliaia di unità. Gli esploratori tornavano al galoppo da ogni fazione per avvertirmi della presenza di forze ostili, e nella mia mente si formò ben presto un'immagine della situazione. Folti gruppi di soldati - non mi restava che considerarli tali, per quanto indisciplinati e ingovernabili potessero essere - stavano convergendo, per lo più a piedi, verso un punto di incontro prestabilito che sembrava trovarsi a sud e a ovest della nostra attuale posizione. Secondo gli esploratori, tra questi gruppi c'erano uomini a cavallo e anche delle vecchie bighe, ma nessun indizio di cavalleria organizzata. C'erano avvistamenti a nord-ovest e a ovest, a est e a sud-est. Avevo già inviato un distaccamento di cavalieri veloci a nord, alle nostre spalle, per vedere se da quella direzione stesse arrivando qualcuno. Infatti. A circa quindici miglia dietro di noi era ammassata una grossa concentrazione di uomini a cavallo, che come noi seguivano la strada. L'esploratore che aveva riferito la notizia era riuscito a spiarli dal margine di un bosco che arrivava fin sul ciglio della strada, la quale in quel punto formava un'ampia ansa in mezzo a due colline. Poi aveva tagliato per la campagna, evitando l'ansa e riguadagnando la superficie della strada in tempo per non essere visto dal gruppo che emergeva dal passo tra le colline. Comunicò con assoluta certezza che quegli uomini viaggiavano a cavallo, ma erano indisciplinati e disorganizzati, e di certo non erano uno squadrone di cavalleria. Colsi finalmente un nesso che mi era sfuggito. I nostri esploratori passavano così liberamente tra i vari gruppi armati proprio perché ce n'erano tanti che attraversavano e intersecavano la regione intorno a noi. Evidentemente nessuno si aspettava di venire avvicinato o sfidato; nessuno sospettava che noi, o altre forze avverse, fossimo in mezzo a loro. Quello stato di cose sarebbe perdurato fino al momento in cui qualcuno si fosse accorto delle nostre uniformi. Scendemmo in una piccola valle boscosa, che ci offrì protezione abbastanza a lungo da permetterci di sostare, togliere oppure occultare l'armatura, e acquisire un aspetto quanto più eterogeneo possibile. Pochi di noi portavano indumenti che non fossero l'uniforme e i colori regolari, ma facemmo del nostro meglio per nascondere il fatto che eravamo soldati, molti celando proprio il motivo del loro orgoglio sotto coperte da cavallo adattate allo scopo. Per gli elmi c'era poco che potessimo fare. Erano tutti uguali, e non potevamo levarli, perché se avessimo finto di andare in guerra a capo scoperto saremmo stati ancora più appariscenti. Spezzai la loro uniformità chiedendo a un uomo su tre di toglierlo e di portarlo appeso all'arcione. Avevano tutti i capelli corti, un'altra inconfondibile caratteristica dell'uniformità militare, ma speravo che la distanza li avrebbe protetti da uno sguardo casuale. Per fortuna, molti avevano acquistato indumenti esterni pesanti di vario genere a Verulamium, a causa del tempo insolitamente freddo, e mi era sembrata una buona idea, più per necessità che per favorire il deterioramento del loro aspetto. Prima di rimontare in sella, spiegai a tutti il mio pensiero, e a tutti feci capire l'importanza del camuffamento; tutti dovevano essere consapevoli che, da quel momento e fino a quando non avessimo più potuto sostenere la finzione, vigeva la necessità assoluta di evitare ogni e qualsiasi cosa che potesse venire riconosciuta come disciplina o procedura militare. Dopo avere impiegato anni a imparare a cavalcare come un tutt'uno, la loro vita ora dipendeva da quanto riuscivano ad assomigliare a una marmaglia disordinata. Verso mezzogiorno uscimmo dalla valletta alberata con un aspetto completamente diverso da quando eravamo entrati, e nel corso delle successive quattro miglia rimproverai i miei uomini di continuo, costringendoli a disperdersi in una carovana irregolare, scomposta e sparpagliata, in gruppi di non più di cinque unità, fino a dove i boschi lo consentivano su entrambi i lati della strada. Speravo di creare così l'impressione che non più di quaranta uomini appartenessero alla comitiva più vicina, e presumibilmente di scorta, ai cinque carri che avevamo lasciato in coda. Dentro uno di quei carri c'erano il mio grande stendardo nero con l'orso, piegato e nascosto, e tutto l'armamentario che fino a poco prima ci classificava così chiaramente come una forza da tenere in debita considerazione. Poche miglia più oltre, dopo avere attraversato un lungo tratto di fitta foresta, incontrammo i primi "nemici". La strada sbucava dalla foresta su un terreno aperto, erboso e senza neve, malgrado il vento ancora abbastanza freddo da farsi beffe del sole accecante. Stavamo avanzando nel bagliore del sole, e ci trovammo di fronte un gruppo di una ventina di cavalieri che si avvicinavano alla strada dalla nostra destra. Quando ci videro tirarono le redini, e rimasero a guardarci con sospetto ma senza ostilità apparente. Erano chiaramente preparati ad accettarci, ma erano curiosi di sapere chi eravamo e che cosa facevamo. La repentinità dell'incontro cristallizzò i pensieri che mi turbinavano nella mente, e agii d'impulso: mi voltai con disinvoltura sulla sella e parlai ai miei compagni senza tradire alcuna delle caotiche reazioni che mi si accavallavano nel petto. «Ciro, passa parola tra gli uomini, ma senza dare nell'occhio. Siamo della Northumbria, distaccati da Vortigern a Verulamium come ambasciatori. Donuil, vieni con me. Andiamo a parlare con quella gente. Voi rimanete calmi e seguite le mie mosse.» Spinsi il mio cavallo verso destra e mi accostai agli sconosciuti come se mi fossi aspettato di incontrarli. Il loro capo manifesto era un uomo enorme, barbuto, dagli occhi feroci e i muscoli ben rilevati, la cui immensa struttura faceva sembrare piccolo il grande cavallo su cui era montato. La sua corazza era costituita da spessi strati di pelle di toro temprata e rinforzata con placche di bronzo, e di traverso sulla schiena portava un grande scudo rotondo. Se ne stava seduto con perfetta calma, aveva abbandonato le redini sul collo del cavallo, e mi osservava impassibile, senza tradire alcuna emozione. Mi rivolsi a lui nel misto di latino e celtico che avevo usato con la gente di Vortigern. «Ben trovato» dissi a voce alta quando fui a venti passi da lui. «Io sono Ambrogio di Lindum, nipote di Giacobbe, consigliere di Lindum, e porto i saluti di re Vortigern di Northumbria a re Lot di Cornovaglia. Questa è la prima volta che ci spingiamo così a sud, e siamo senza guida. Puoi dirmi quanto dista ancora il luogo d'incontro?» Ero pronto alla sfida e all'azione immediata, perché l'unico mio riferimento a un luogo d'incontro derivava da quanto avevo dedotto dalle informazioni degli esploratori, ma la mia domanda non suscitò sospetti né reazioni. Mi fermai quasi a portata di spada da lui, e spostai pigramente lo sguardo sui suoi compagni. Erano un'accozzaglia sgradevole alla vista, tutti pesantemente armati e corazzati come il loro capo, tutti scarmigliati, con capelli lunghi, barba e baffi. Il loro capo continuava a fissarmi in silenzio, meditando sulle mie parole, e poi i suoi occhi si spostarono su Donuil, e notarono le dimensioni del giovane. «Chi sei tu?» gli chiese. Donuil scrollò le ampie spalle e guardò l'omone con aria di sfida. «Cormac» disse. «Cormac? Che razza di nome è? Sei uno dei Sassoni addomesticati di Vortigern?» Ero contento di quel segnale di accettazione, ma contemporaneamente allarmato che gli affari di Vortigern, e la sua follia, fossero così diffusamente noti. Donuil parlò ancora. «È un nome gaelico, e nobile. Anch'io cavalco con Vortigern... per mia scelta.» «Un mercenario.» Il capo lasciò perdere Donuil e riportò lo sguardo su di me, indicando con disapprovazione il mio abbigliamento. «Sembri un romano.» Lo disse come se fosse un insulto. Io non mi offesi, e gli risposi affabilmente. «Mio padre lo era. Il mio nome per esteso è Ambrogio Ambrosiano. E la nostra armatura è romana perché funziona bene. I Romani capivano certe cose.» Corrugò la fronte e sbuffò. «Derek» disse poi, «di Ravenglass, sulla costa nordoccidentale. Era una città romana, una volta, prima che li sbattessimo fuori.» «Ne ho sentito parlare» risposi, ignorando la sua spavalda millanteria, e infatti ne avevo sentito parlare dallo stesso Vortigern meno di una settimana prima. «I Romani avevano un forte lì vicino, una volta, un luogo chiamato Mediobogdum.» Spalancò gli occhi, leggermente sorpreso. «Uh» grugnì. «C'è ancora, vuoto e abbandonato, sopra la strada che attraversa l'alto passo. Come fai a saperlo?» Scossi la testa per mostrare che non era importante. «Ho memoria per le cose insignificanti. Qualcuno me ne ha parlato, tanto tempo fa, non so chi né quando, ma ricordo che era il forte più occidentale lungo il Vallo.» «Non c'è nessun vallo.» La sua voce era carica di disprezzo. «La brughiera è vallo sufficiente. È un luogo cupo e desolato, popolato da spiriti e schivato dagli uomini di buon senso. Cavalcheremo insieme. Dovremmo raggiungere il luogo prescelto domani, tardi.» Guardai i suoi uomini, e decisi di correre il rischio e di affermare subito la mia autorità. «Se così desideri, così sia, ma dì ai tuoi uomini di stare lontani dai miei. Abbiamo viaggiato molto e i miei uomini sono stanchi e insofferenti della strada. Vedrai che alcuni sono feriti. Abbiamo già incontrato degli stranieri poco amichevoli, e non voglio che altre sciocchezze provochino stupidi danni. Siamo in missione diplomatica, e non voglio guastarla per dei meschini bisticci con ogni collerico sconosciuto che incontriamo.» La sua risposta mi sorprese. «Nemmeno io. I miei uomini se ne staranno tranquilli, perciò bada che i tuoi non li stuzzichino.» E così avvenne che cavalcammo in compagnia dei nostri nemici per diverse ore, durante le quali appresi molto di Lot e dei suoi piani e di quello che aveva fatto dopo il suo ultimo attacco a Camulod. Mi stupì - ma a ben pensarci non mi stupì poi tanto - scoprire che Lot, come suo padre Emrys prima di lui, era padrone di una grande flotta di galee permanentemente impegnate nella pirateria. Possedeva una roccaforte, adesso, dotata di fortificazioni naturali: una terra irta di alte scogliere, circondata dal mare, sulla costa settentrionale della Cornovaglia, che garantiva ai suoi pirati una base sicura, e a lui la possibilità di attingere ai loro bottini e di accumulare ricchezze sempre maggiori. Le ricchezze così accuratamente ammassate venivano utilizzate per acquistare ovunque appoggio armato, e costituire un grande esercito pagando in oro, e con la promessa di ingenti ricchezze frutto della futura conquista della prosperosa zona intorno a Glevum, Aquae Sulis e, per associazione, Camulod. Derek, re di diritto, era stato reclutato da uno dei capitani di mare di Lot, che aveva comprato i suoi servizi con l'oro e la promessa di poterne conquistare altro. Derek aveva preso l'oro, e poi lui e i suoi venti uomini a cavallo erano partiti da soli dalla loro terra montuosa diretti a sud, per unirsi alla schiera di Lot. Il resto dei suoi uomini, una forza di forse duecento unità, si era imbarcata sulle galee di Lot, e l'avrebbe raggiunto al luogo d'incontro, trenta miglia a nord di Aquae Sulis e circa venti miglia a sud-ovest della nostra posizione. Ascoltai tutto ciò e dissi poco in cambio. Mentre cavalcavamo e parlavamo, la strada aveva incominciato a scendere in lieve ma costante pendenza, riportandoci in mezzo a fitti e alti alberi; sapevo che la foresta si sarebbe estesa ancora più densa e indomita da lì fino al punto di riunione dell'esercito di Lot. Se volevamo evitare di rimanere intrappolati, dovevamo fare dietrofront, e subito, e tornare sul terreno elevato e senz'alberi, dove avremmo avuto qualche speranza di aggirare il luogo d'incontro e proseguire verso sud e verso Camulod. Guardai la piccola chiazza di cielo tra le cime degli alberi che si affollavano ai lati della strada. Si stava facendo tardi, e la mia mente fremeva per l'urgenza della nostra situazione in via di rapido peggioramento. Più ci fossimo avvicinati al raduno di Lot, maggiore sarebbe diventata la concentrazione di truppe ostili, e presto o tardi saremmo arrivati a un punto - sempre che non l'avessimo già oltrepassato - in cui la scoperta della nostra identità sarebbe diventata inevitabile. Derek di Ravenglass, malgrado la rozzezza e i modi inurbani, si era rivelato un compagno di viaggio abbastanza piacevole, ma incominciavo a pensare seriamente al modo di uccidere lui e i suoi uomini senza fare troppo rumore e senza attrarre indesiderata attenzione. Si andava rapidamente approssimando il momento in cui il nostro nuovo compagno avrebbe voluto fermarsi per la notte, e ciò era impensabile. Se fossimo rimasti con lui fino al mattino, i miei uomini e io non avremmo avuto possibilità di scampo dalla trappola nella quale ci eravamo ficcati, e che ci si stava stringendo addosso ogni momento di più. Voltai il cavallo e tornai indietro verso i carri, lasciando in testa Derek e Donuil con tre uomini di Derek, poi mi ritirai dalla strada in mezzo ai cespugli e guardai i carri passare in un fragore di ruote. Un gruppo misto dei miei uomini e degli uomini di Derek cavalcava tra e intorno ai carri: non vedevo indizi di ostilità; erano tutti soldati, all'apparenza, contenti di spartire il fardello della noia tra un pericolo e l'altro. Passando, alcuni mi fecero un cenno ma, miracolosamente, nessuno scattò nel consueto e rigoroso saluto romano. Non vidi Lucano, e supposi che fosse su uno dei carri con i feriti. La retroguardia della carovana si stava avvicinando; in coda a tutti cavalcava Fello. Mi raggiunse, e ins