Untitled - Almagesto dello Smeraldo

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Untitled - Almagesto dello Smeraldo
Nel fortino di Camelot i coloni romani, dopo la
ritirata delle legioni, resistono agli assalti delle
tribù
barbare.
Il
nuovo
comandante
dell'insediamento è Merlino Britannico, un capo
giusto e capace, e tutti, celti e romani, si affidano
a lui. Al suo fianco il cugino Uther Pendragon,
futuro padre di Artù. I due valorosi condottieri
sono nati lo stesso giorno e la loro amicizia ha
radici salde e profonde. Sono come le due facce
di una stessa moneta: Uther è il guerriero
instancabile, Merlino il sottile stratega. Finché
saranno insieme nessuno riuscirà a impadronirsi di
Camelot. Ma un crimine esecrabile, un gesto che
attenta alla vita stessa di Merlino, traccerà un
solco profondo tra di loro e metterà a repentaglio
la sopravvivenza della Colonia e il futuro dell'intera nazione britannica.
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Jack Whyte è poeta, regista cinematografico e
romanziere. Nato in Scozia, vive da molti anni
in Canada. Ha raggiunto uno straordinario
successo con Le Cronache di Camelot, ormai
considerate un bestseller in tutto il mondo. A
questo ciclo appartengono anche i titoli La
pietra del cielo, La spada che canta, Il sogno di
Merlino, Il forte, sul fiume, Il segno di
Excalibur, Le porte di Camelot e La donna di
Avalon. L'autore sta lavorando a una nuova
appassionante serie dedicata a Lancillotto, di
cui è già disponibile in Italia il primo titolo: Il
cavaliere di Artù.
Della serie Le Cronache di Camelot hanno
detto:
«Una storia semplicemente straordinaria.»
Rosamunde Pilcher
«Uno splendido
leggenda.»
mix
di
realtà
storica
e
La Stampa
In sovraccoperta:
Illustrazione di Silvia Fusetti
VOLUME DLB 150
Titolo originale dell'opera: The Eagles' Brood
© 1994, 1997 by Jack Whyte
© 2005 Edizioni Piemme Economica
© 1999 - EDIZIONI PIEMME S.p.A.
15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5 Tel.
0142/3361 - Fax 0142/74223
ISBN: 88-384-1024-0
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Stampa:
Rotolito Lombarda, Via Roma 115, Pioltello (Milano)
A mia moglie, Beverley
La leggenda della pietra
caduta dal cielo
Dal cielo notturno cadrà una pietra
che cela una fanciulla nata da profondità tenebrose,
una fanciulla i cui femminili misteri, nutriti dal fuoco,
daranno vita a una spada scintillante, baluginante.
Una spada fiammeggiante e splendente la cui potenza
genera guerrieri. Ma quest'arma conterrà anche
le astuzie di una donna e traccerà terribili fatti di uomini;
darà il nome a un'epoca; incoronerà un re,
che prenderà il nome da un popolo della montagna,
che crede di essere stato generato dal seme di un drago;
uomini vigorosi e feroci, eroici, prodi e forti,
e nelle loro anime vi è grandezza.
Questo re, questo monarca, potente oltre l'immaginabile,
forgiato nella gloria, cantando un canto di spade,
confondendo i mortali con magica follia,
darà vita a una leggenda, e tuttavia non lascerà nessuno
a condurre al trionfo il suo esercito dopo di lui.
Ma la morte non svilirà mai il suo destino che,
non morendo, vivrà per sempre, per essere ricordato.
Nomi geografici
La terra che i Romani chiamavano Britannia era soltanto la terra che noi
oggi chiamiamo Inghilterra. La Scozia, l'Irlanda e il Galles erano separate e
venivano chiamate rispettivamente Caledonia, Ibernia e Cambria. Esse non
erano considerate parte della provincia della Britannia. Le antiche città della
Britannia romana esistono ancora, ma oggi hanno nomi inglesi.
Londinium
Londra
Verulamium
St. Albans
Alchester
Glevum
Gloucester
Aquae Sulis
Bath
Lindinis
Ilchester
Sorviodunum
Old Sarum
Venta Belgarum
Winchester
Noviomagus
Chichester
Durnovaria
Dorchester
Isca Dumnoniorum
Exeter
La Colonia (Camelot)
Camulodunum
Colchester
Lindum
Lincoln
Eboracum
York
Mamucium
Manchester
Dolocauthi
Miniere d'oro del Galles
Durovemum
Canterbury
Regulbium
Reculver
Rutupiae
Richborough
Dubris
Dover
Lemanis
Lympne
Anderita
Pevensey
Il tragitto del viaggio a Verulamium e del ritorno.
Sono indicati i luoghi dei principali eventi della storia.
Il viaggio di Merlino nelle terre di Lot all’inseguimento di
Uther
Prologo
Non posso pensare a Camulod senza pensare ai cavalli. Erano
ovunque, e dominarono la mia adolescenza. La vita di quel luogo si
svolgeva completamente attorno a loro - a loro e agli uomini che li
cavalcavano - e le prime immagini e i primi odori che ricordo sono
quelli delle stalle. Quasi metà di tutta la cima della collina su cui si
ergeva il forte era destinata alle stalle e alle corti per
l'addestramento, e sulla pianura ai piedi della collina era stato creato
un campus, un terreno vasto e spoglio per le esercitazioni. A una
qualunque ora del giorno, ci si trovava fino a una dozzina di
cavalieri, che facevano conversioni e manovre al passo, al piccolo
galoppo, o al galoppo, e talvolta caricavano in formazioni
concentrate e numerose, tanto che nei mesi d'estate una coltre di
polvere stava sospesa sulla pianura e non si posava mai. I cavalli, e i
rumori e gli odori dei cavalli, erano nella vita di Camulod un fatto
costante e immutabile, e a ogni generazione i cavalli nascevano più
grandi e più grossi di quelli che li avevano generati.
Allora non lo sapevo, perché ero un ragazzo, e ai miei occhi
diventavano sempre più piccoli. Quand'ero bambino, i cavalli dei
soldati che ammiravo come divinità mi facevano sentire un nano.
Quando avevo otto anni mi facevano ancora sentire minuscolo,
finché non montai a cavallo. Ma da giovane, prossimo ormai alla
statura di un uomo, scoprii che si erano ragionevolmente
ridimensionati.
Durante la mia adolescenza Publio Varro, mio prozio e tutore in
assenza di mio padre, faceva lavorare a turni intere squadre di fabbri
in sei diverse fucine, quattro all'interno del forte e due nella villa
sulla pianura alla base della collina. Le fucine del forte erano
totalmente dedicate ai bisogni della cavalleria. Due non
producevano altro che ferri di cavallo, finimenti e armature. Una
terza fabbricava solo chiodi, migliaia e migliaia di chiodi: chiodi per i
ferri di cavallo e chiodi per la costruzione delle caserme, delle stalle e
delle poste; chiodi corti e borchie per stivali; e ribattini per cinghie e
corazze. In anni più recenti forgiavano anche il filo di bronzo e di
ferro per gli anellini che uniti formavano le maglie delle corazze
usate dai nostri cavalieri. La quarta fucina del forte produceva armi
per i soldati a cavallo: lance, spade e pugnali, prodotti che ben si
confacevano alla fucina più ampia e rumorosa.
Sulla pianura più in basso, le fucine della villa rifornivano il resto
della nostra Colonia di tutti gli attrezzi agricoli e gli arnesi e i mille e
mille utensili necessari al lavoro quotidiano di una popolazione di
più di quattromila persone.
Oggi a Camulod il forte, le fucine e il vasto campo spoglio per le
esercitazioni ai piedi della collina sono vuoti e spopolati. Le ville
protette dal forte non esistono più. Sono bruciate, demolite,
depredate, deturpate, i loro gloriosi mosaici sono disfatti, distrutti. I
Coloni che vivevano lì sono morti, quasi tutti, i pochi derelitti
superstiti sono sparsi ai quattro venti. Io solo rimango, vetusto per
gli anni ma colmo di giovanili ricordi, nascosto sulle colline vicino
alla Colonia, in solitario asilo, e di notte inveisco contro i cieli, e li
ringrazio di giorno per avermi lasciato le mani, e la mente, intatte a
sufficienza per comporre la mia storia.
Non confido che gli uomini leggeranno le parole che scrivo. A
nessuno tra i vivi vorrei farle leggere, e comunque pochi potrebbero
farlo. Gli uomini che scorrazzano a piacimento per questa terra sono
brutali, feroci nella loro inciviltà e orrendi nella loro pagana
ignoranza. Non conoscono divinità all'infuori della Lussuria e
dell'Ingordigia, nessun amore all'infuori della Sazietà, e le loro donne
sono degne di tanta bassezza. L'arte di leggere e scrivere è morta in
Britannia. E tuttavia scrivo, perché devo. Mia è l'unica voce rimasta,
seppur muta e rassegnata a pochi scarabocchi sulla pergamena, che
possa narrare ciò che fu un tempo e ciò che forse avrebbe potuto
essere.
Tutti i tesori che colmavano Camulod sono ridotti a quattro, e si
trovano qui con me in questa piccola capanna di pietra. Uno è una
finestra di vetro, incorniciata nel legno e fissata nel piombo; un vetro
così chiaro e sottile da essere quasi trasparente. Venne fatta per la
mia adorata prozia, la sorella di mio nonno, Luceia Britannico Varro,
durante la mia adolescenza, e io ero lì quando la installarono in
quella stanza buia ma adorata, il luogo che preferivo tra tutti i luoghi
della casa, e che tutti chiamavamo la Stanza di Famiglia. Non mi
stancavo mai di ammirare le trasformazioni create dalla luce di
quella finestra, e con gioia la salvai anni dopo, intatta per miracolo,
dalle rovine della casa nella quale ero cresciuto. Un altro tesoro, il
secondo, è uno specchio di argento lucido e lucente, anch'esso della
mia prozia. Lo conservo in memoria della sua stupefacente bellezza,
che perdurò fino alla morte, avvenuta in tardissima età. L'ho
mantenuto limpido e immacolato, ma in questi trent'anni non ho
osato guardarci dentro.
Suppongo che sia strano, ma in questi anni di solitudine mi sono
chiesto spesso perché, di tutta quella gente, guerrieri e campioni e re
e nobili, onorabili cavalieri nutriti e cresciuti in Camulod, i miei
ricordi più teneri e tenaci siano delle donne, e della mia prozia in
somma misura. Non è difficile, naturalmente, indovinare la risposta.
Mia madre fu uccisa a pochi giorni dalla mia nascita, perciò non l'ho
mai conosciuta, e mia zia Luceia prese il suo posto, diventando per
me l'unica vera madre. Che anche le altre donne della Colonia
godano nei miei ricordi di tanta considerazione è forse un riflesso
della mia natura, o di un aspetto della mia natura che tenni nascosto
per la maggior parte del tempo che trascorsi tra gli uomini di
Camulod. La nostra era una comunità di uomini come tante altre e
io, uomo tra uomini, vissi una vita di disciplina militare, amplificata e
limitata ancora di più dal fatto che ero quello che ero: l'erede
presuntivo al governo della Colonia. Credo che fosse una vita dura,
in termini femminili, ma dal mio punto di vista di adolescente in
crescita, con i privilegi di nascita e di rango, era una vita
meravigliosa, piena di drammaticità, di eccitazione e di preparativi
per tutte le informi Grandi Cose a venire. Le mie frequenti
interazioni con le donne erano una preziosa e gelosamente serbata
aggiunta a quella vita. La sola dolcezza, la sola bellezza che conobbi
crescendo proveniva invariabilmente dalle gentilezze e dalle semplici
cortesie delle donne della Colonia, e principalmente dalle donne di
casa, scelte con cura da mia zia, che mi trattava come un giovane
signore, eppure con un sincero rispetto e una considerazione che
non ricevetti mai altrove, e nei quali io mi crogiolavo. Quella
affabilità e quella stima si rivolgevano a me ragazzo a un livello
intimo e profondo, insegnandomi a gioire di vivere tra le donne e,
più tardi, a mostrare tale gioia alle donne che avrei amato. Sono
piaceri che generano piacere, e ricordi duraturi.
Il terzo tesoro è una Spada portentosa e scintillante, che è il mio
più sacro dovere. È riposta al sicuro, dentro il pozzo nascosto sul
retro della mia capanna.
Il quarto e ultimo tesoro ha valore ai miei occhi e alla mia mente
soltanto. È una minuscola montagna di fogli di papiro e di
pergamena finissimi, coperti di quattro calligrafie nitide e distinte,
una delle quali è la mia.
Ora che sono vecchio e sdentato, mi sento spinto a continuare e
completare la cronaca iniziata da mio nonno Caio Britannico quasi
un secolo fa, e proseguita dal suo amico, il mio prozio Publio Varro.
Anche mio padre, Pico Britannico, offrì in contributo alcuni suoi
personali giudizi, seguendo in questo la familiare tradizione di
lottare alla ricerca di parole per scrivere e descrivere la vita che
abbiamo vissuto.
Scribacchio fin da bambino, scimmiottando zio Varro, che
passava ore ogni giorno a scrivere sui suoi libri di pergamena. Ma mi
spaventerei se cedessi allo sgomento che provo quando apro i bauli
pieni di papiri e pergamene e vedo l'immensa mole di ciò che resta
del mio raccolto. Da anni ormai vaglio questi scritti: ne brucio la
maggior parte, banalità, e metto da un canto gli elementi essenziali
alla narrazione della mia storia. La prima incombenza è svolta, e le
ceneri giacciono ammucchiate in un tumulo contratto e zuppo di
pioggia davanti alla mia casa, qui nella mia valle segreta sulle colline.
L'unico compito rimasto è sistemare questi avanzi in sequenza, e
unirvi sufficienti dettagli che colleghino le poche lacune ancora
presenti. Tutto ciò che mi serve per raggiungere la meta è il tempo, e
tempo ne ho, in abbondanza. La longevità è il mio castigo; la fedeltà
alla storia il mio fardello.
Questa storia è mia, in larga misura, poiché io l'ho vissuta. Molto
di ciò che ho scritto, però, e di cui non ho avuto diretta esperienza,
l'ho scoperto semplicemente perché io sono Merlino, e gli uomini,
credendomi un mago, mi temevano e non mi mentivano. Io non mi
premurai di disilluderli: essere un mago temuto si confaceva ai miei
scopi. Ebbi assicurata la solitudine, e quindi la libertà di fare ciò che
dovevo, e insegnai bene a me stesso a non badare a quello che gli
uomini pensavano di me.
Insegnai bene a me stesso, ma fu tutt'altro che facile. Non fui
sempre solo, né temuto e sfuggito dagli uomini. Da ragazzo, il mio
nome era Cai, diminutivo di Caio Merlino Britannico, e la mia
infanzia fu gaia, incontaminata da sofferenza e dolore. Da giovane,
mi compiacqui di essere a capo della nostra Colonia, e la mia vita
traboccò di risate, avventure, e amici. Poi conobbi le gioie e le
angosce dell'amore, e sopravvissi a esse, riempiendo le mie giornate
con il dovere, come facevano gli uomini a quel tempo, fino al mio
quarantaduesimo anno. Solo allora appresi il terribile segreto che mi
separava in eterno dalla vita degli altri uomini mortali, e mi
attribuiva il rango di Stregone e tutti i dolori connessi alla solitudine.
Nacqui nell'anno che portò la catastrofe in Britannia: il primo
anno del nuovo, quinto secolo dalla nascita del Cristo, l'anno che
per i cristiani è l'Anno Domini 401. Il mondo conosciuto dai nostri
padri scomparve per sempre nel corso di quel fatidico anno, quando
incominciò il grande cambiamento, ma l'orrendo significato del
cambiamento penetrò nel mondo con lentezza.
Non che le notizie si diffondessero adagio - le notizie calamitose
viaggiano veloci - ma il cataclisma era così enorme, così travolgente
nelle sue implicazioni, da sfidare ogni credenza. La gente, pur
udendo le notizie e comunicandole ad altri, era riluttante ad
accettare la verità. La verità era talmente spaventosa, talmente
terrificante, che la gente non ne parlava. Non poteva digerirla. Non
ci poteva credere. E tuttavia non poté evitarla a lungo, perché le
strade deserte, che nessuno percorreva per miglia e miglia silenziose,
attestavano quella verità. I bambini insolenti e irriguardosi che
giocavano rumorosamente per le vie degli accampamenti disertati,
attestavano quella verità. I pianti e i lamenti delle donne
abbandonate, lasciate a migliaia su tutta la terra, attestavano quella
verità. E il terrore delle popolazioni lungo le coste orientali e
sudorientali, e nelle distese settentrionali sotto il grande vallo che
Adriano aveva costruito, attestava quella verità.
Le Aquile erano partite, volate via. Le Legioni erano state
richiamate in patria. Gli Eserciti se n'erano andati, lasciandosi alle
spalle solo una scheletrica presenza per mantenere una parvenza di
forza mentre l'Impero combatteva altrove per la propria salvezza.
Entro sei anni, anche le poche legioni rimaste indietro avevano
seguito quel primo esodo, e dopo quattrocento anni di Pax Romana
- pace romana, protezione e prosperità in Britannia - il paese era
debole e indifeso, alla mercé dei suoi nemici.
Libro Primo
IMPLUMI
I.
Avevo sei anni quell'ultimo periodo del grande ritiro, e mi
affacciavo alla vita nella Colonia di nome Camulod che, come
Roma, era stata costruita su una collina e dedicata agli alti ideali su
cui poggiava la Repubblica. Era stata la moglie di Publio Varro, la
mia prozia Luceia, a voler dare alla Colonia il nome di Camulod, in
onore di Camulodunum, il luogo di nascita di suo fratello e mio
nonno, un antico luogo sacro a Lod, dio della guerra della tribù di
Celti chiamati Trinovantes dai Romani. Oggi è solamente Colchester,
che significa il forte sulla collina, ma suo fratello si era rifiutato di
usare quel nome moderno, sfacciato, privo di grazia. Modificando il
nome antico affinché si adattasse a una località nuova, Luceia
Britannico aveva onorato il fratello e il suo monumento.
Una delle prime lezioni che mi vennero impartite ancora
giovanissimo, fu che le cose non erano sempre state così. Camulod
non aveva sempre avuto tanti cavalli, e la sua economia non era
sempre stata basata su di essi. Era stato mio padre a cambiare tutto,
l'anno in cui nacqui.
Mio padre era Pico Britannico, e aveva il titolo di legato, o
generale. Era Supremo Comandante di cavalleria e Deputato in
Britannia per il grande Flavio Stilicone, Comandante in capo degli
Eserciti dell'Imperatore Onorio. Nell'anno della mia nascita, il 401 di
Nostro Signore e il millecentocinquantacinquesimo anno di Roma,
Alarico, condottiero dei barbari Visigoti, minacciava di invadere il
cuore dell'Impero romano. Era penetrato fino a Milano, la città
natale di Stilicone, prima che Stilicone riuscisse a radunare un esercito
con un procedimento d'emergenza, ordinando a tutte le legioni non
impegnate di ritornare in Italia per combattere l'invasore. Mio
padre, amico intimo di Stilicone e suo leale collega e confidente,
aveva risposto alla convocazione, e si era imbarcato
immediatamente, con il grosso delle truppe e tutti i cavalli che poté
trasportare, nel tempo e sulle imbarcazioni disponibili. I capi rimasti,
non meno di seicentottanta animali di prima scelta, li lasciò alle cure
di suo padre, mio nonno, il proconsul Caio Britannico, già nominato
da Stilicone Legatus Emeritus - Comandante Supremo - delle Forze
irregolari della Britannia sudoccidentale. La carica implicita nel titolo
di mio nonno era il temporaneo governo del sud-ovest, e la
protezione dei territori contro l'invasione, in attesa del ritorno delle
Legioni imperiali a seguito della sconfitta di Alarico e dei suoi
Visigoti.
Ma quando arrivò la notizia della partenza di mio padre, mio
nonno era morto, assassinato da un pazzo, e il mio prozio Publio
Varro aveva assunto il comando della Colonia. Zio Varro sapeva che
cosa Caio Britannico avrebbe voluto che facesse, così usò il sigillo di
mio padre e inviò dei soldati ad accettare la consegna dei cavalli.
L'immediato quintuplicarsi dei capi ebbe sulla Colonia un effetto
rivoluzionario e permanente. Vittore, il maestro di scuderia, dovette
aumentare dieci volte il numero dei mozzi di stalla e degli stallieri, e
campi che prima venivano arati furono completamente e
immediatamente destinati all'allevamento di bestiame. Le
preoccupazioni espresse per la perdita di terreno arabile furono
subito placate dalla consapevolezza che quel grande afflusso di
cavalcature ci dava la possibilità di rivendicare terreni
precedentemente abbandonati, e anche di dissodare nuove terre,
perché i nostri soldati a cavallo erano abbastanza numerosi da
permettere costanti pattugliamenti in piena forza, e una protezione
continua per tutti i lavoratori impegnati nei campi.
Furono però i soldati di fanteria a sopportare il maggiore
impatto. Adesso che avevamo i cavalli, ogni uomo che volesse
cavalcare poteva farlo, almeno per una parte del servizio. Ben presto
sul nostro territorio le pattuglie appiedate appartennero al passato. Il
nucleo centrale della fanteria venne ridotto da millecinquecento a
ottocento uomini, distribuiti come truppe semi-permanenti di
guarnigione a tre delle fattorie periferiche più vaste e al forte di
Camulod. Come ho detto, la mia fu un'infanzia felice, e io crebbi in
allegria, e venni foggiato nell'uomo che era mio destino essere da
due tutori severi e amorevoli: i miei due prozii, Ullic, re dei
Pendragon, e Publio Varro, signore di Camulod. La mia giovinezza
fu egualmente divisa tra i colli e le montagne aspre e incantevoli
della roccaforte dei Pendragon a nordovest, nel sud della Cambria, e
la calma bellezza delle pianure boscose e delle foreste che, viste dalla
cima della collina, si stendevano intorno a Camulod come un
tappeto.
I Celti di Ullic, il popolo delle colline, mi insegnarono a cacciare
con una fionda e a tendere trappole. Mi insegnarono a tirare con
l'arco e a pescare trote nei ruscelli a mani nude. Mi insegnarono a
cantare e a pizzicare l'arpa, e ad amare la storia nei loro canti
gloriosi, tanto che prima che la mia voce uscisse dall'adolescenza
venivo salutato come un bardo di grandi speranze e, se non fossi
stato quello che ero, i druidi mi avrebbero reclamato perché
diventassi uno di loro. Trascorsi molto tempo tra i maestri druidi,
apprendendo i sacri misteri e la dottrina delle tradizioni antiche,
poiché essi rispettavano chi ero e sognavano per me grandi glorie. E
mentre ero con loro, mi insegnarono a fare tutte quelle cose che
deve saper fare un ragazzo: correre come il vento, miglio dopo
miglio senza sosta; lottare e combattere a mani e piedi nudi; e
scovare i nidi degli uccelli montani - il chiurlo e il piviere, le anatre e
le oche selvatiche - per le succulente uova che contengono.
Nutrirono nel mio spirito impaziente e inquisitivo la pazienza di
appostare il cervo, e la forza di ignorare la timida, placida dolcezza e
vedere solo il cibo in movimento. Ancor giovane mi ammaestrarono
nel comando dei pony selvaggi delle loro montagne, e a sette anni
nessun quadrupede poteva scrollarmi di dosso una volta che ero ben
saldo in groppa.
Là in quella terra incantevole, impetuosa e talvolta crudele, io
ero sempre tranquillo, ma Uther, il fratello dell'anima mia, era nel
suo elemento. Uther Pendragon e io eravamo ; cugini, nati, per una
strana congiunzione stellare, lo stesso giorno, a meno di un'ora di
distanza. Fin dall'infanzia in molte cose pensavamo come fossimo
una sola persona, e lo davamo per scontato. Per tutta la vita, finché
Uther visse, fummo simili, due facce della stessa medaglia, diversi
forse nell'aspetto, ma appartenenti al medesimo stampo.
Era l'amico più caro che avessi mai avuto: focoso, affettuoso,
generoso e gentile, e tuttavia posseduto da un carattere primitivo, e
da una fonte inesauribile di violenza elementare e incolta che sapeva
spaventarmi, all'occorrenza, tant'era implacabile. Chi lo conosceva
come amico adorava la terra su cui camminava. I nemici avevano
terrore del suo nome, perché la sua furia era mortale e il suo odio
assoluto. Scelse di non avere nemici viventi, e si dedicò a privarli
tutti della vita, perché solo allora, diceva, poteva fidarsi di loro e
sapere che cosa stavano facendo. A suo modo Uther Pendragon, re
tra i suoi Celti, era molto più feroce delle orde che ambivano a
sopraffare la nostra terra. Il mio destino era amarlo come un fratello,
e averne paura per tutta la mia vita di uomo adulto, fino alla sua
morte.
Come ho detto, Uther conosceva e amava la violenza, ma il
tradimento era una caratteristica che nessuno, nemmeno il suo
nemico acerrimo, avrebbe pensato unito al suo nome. Nessuno
tranne me, e io lo sospettai solamente, né fui mai in grado di
individuare la verità, in suo favore o sfavore. Quaranta e più anni
sono trascorsi dalla morte di Uther, e ancora mi chiedo se commise
oppure no gli atti che la mia mente gli attribuì; solo a pensarlo
capace di compierli la mia anima mi maledice. Ho giurato a me
stesso che, in mancanza di prove, ho il dovere di ammettere che
potrei sbagliare. Eppure, in fondo al cuore, so che Uther aveva un
demonio nero e orrendo incatenato con forza nel baratro della sua
anima. E tuttora mi domando se lo controllava sempre, o se a volte
ne subiva il controllo.
In qualche modo Uther non apparteneva a Camulod.
Sopportava stoicamente, ma il suo cuore era sulle colline della sua
patria, dov'era nato, figlio di Uric il re e di sua moglie Veronica,
figlia di Publio Varro, e quindi nipote di re Ullic Pendragon. A
differenza di me, era scarso negli studi, e non aveva interesse in
alcun libro di alcun genere. Non diventò mai un letterato, ed era
felice di lasciare a me gli esoterismi di testi e documenti. L'unica
eccitazione per lui a Camulod era il forte, e la nostra cavalleria.
Uther era un guerriero nato, e ogni minuto libero lo passava sul
campo a esercitarsi o nelle stalle.
Le mie ore più felici a Camulod, invece, trascorrevano nelle
stanze private di Publio Varro. La stanza che chiamava Armeria era
un paradiso per un ragazzo, piena di armi e corazze indescrivibili,
raccolte in tutto l'Impero e oltre. Anche a Uther piaceva quella
stanza, un tempo, ma se ne annoiò presto, quando scoprì che
maneggiare i suoi tesori non ci era permesso. Io potevo rimanere lì
seduto a fissare quelle esotiche fogge e sognare per ore e ore. Avevo
perfino un sedile speciale, sul quale potevo sedermi solo io. Era una
sorta di sella, sebbene insolita e sgraziata, con un alto schienale di
legno e penzolanti appendici, costruita per un ragazzo e trovata su
un cavallo appartenente a una banda di predatori franchi sconfitti. Il
giovane cavaliere che montava quel cavallo portava abiti sontuosi e
il torchio d'oro di un capo. La nostra gente pensò che si trattasse di
uno storpio, e che quello strano congegno servisse per sostenere il
corpo deforme sulla groppa del cavallo. Mio zio l'aveva custodito
come un cimelio, una tra le tante peculiarità che lo avevano attratto
nel corso di tutta la sua vita, e quell'oggetto rimase per anni
inosservato nell'Armeria finché io non fui abbastanza cresciuto da
riuscire a issarmici a cavalcioni.
L'Armeria aveva enormi porte di legno rivestite di bronzo
battuto e modellato a mano dallo stesso zio Varro. Le avevo viste
installare quando ero appena un bambino, così come avevo visto
posare il robusto pavimento di legno. Era l'unico pavimento di legno
che avessi mai veramente osservato, e a mio zio piaceva molto.
Diceva che teneva calda la stanza. Credetti che fosse matto, perché
perfino io vedevo che a tenere calda la stanza erano un massiccio
braciere nel focolare, e gli ipocausti del riscaldamento centralizzato
che giravano per tutta la casa. Rammento che una sera gli chiesi
come facesse il fumo, salendo per il camino, a impedire alla pioggia
di entrare, e ricordo che rise di me e mi mostrò l'espediente
utilizzato dai muratori nella costruzione del grande focolare. La
canna fumaria era inclinata, e sfociava in un camino verticale, in
modo che la pioggia non potesse entrare.
Fu in un'occasione analoga che gli chiesi quale arma in quella
stanza fosse il suo tesoro più prezioso. Mi guardò in silenzio, più a
lungo di quanto chiunque altro mi avesse mai guardato, e poi si
alzò, sovrastandomi come una torre.
«Cai» mi disse, «sai che cos'è un segreto?»
«Sì, zio» gli risposi, «una cosa speciale che non devi mai ; dire a
nessuno, non importa quanto sia difficile, o quanto tu abbia voglia
di dirlo.»
Allora mi sorrise. «Un segreto è esattamente questo, Cai.
Esattamente. Perché nel momento in cui cedi e riveli un segreto a
un'altra anima vivente, chiunque essa sia, tu hai distrutto il segreto.
Non è più un segreto.»
«Lo so, zio.»
«So che lo sai, Cai. È per questo che ho intenzione di condividere
un segreto con te. Un segreto tra noi soltanto. Sei pronto?»
Annuii, con il fiato sospeso nell'attesa. Mi osservò, stringendo gli
occhi, e proseguì: «Io ho un segreto, Cai, che condivido solo con il
mio compagno Equo. Adesso ne avrò un altro, che condividerò solo
con te, ed è questo: il mio tesoro più prezioso in questa stanza non
può essere visto. È celato agli occhi degli uomini».
Frugai con lo sguardo tutta la stanza, scrutando ogni angolo
buio. «Dove, zio?»
«Questo è il secondo segreto, quello che condivido con Equo,
ma lo condividerò anche con te, un giorno. Un giorno molto presto,
te lo prometto. Allora sarai la terza persona al mondo a conoscere
quel segreto. Ma prima che ciò avvenga, tu e io dobbiamo parlare.»
Un giorno. Presto. Non oggi.
La delusione doveva leggermisi in volto, perché mi sorrise
ancora e mi arruffò i capelli. «Un giorno molto presto, te lo
prometto. Quanti anni hai adesso, Cai?»
«Sette, zio Varro» dissi, sapendo che lo sapeva.
«E quando hai imparato a leggere?»
«Quando ne avevo cinque.»
«A dire il vero, ne avevi solo quattro. Ti piace leggere?»
«Sì, zio.» Perché mi faceva quelle domande? Sapeva quanto mi
piaceva leggere.
«E che cosa preferisci leggere?»
«I libri di nonno Caio.»
«Vorresti leggere i miei libri?»
Mi si spalancarono gli occhi. Che domanda stupida. Da mesi lo
imploravo di lasciarmi leggere i suoi libri! «Sì, zio. Per favore.»
«Benissimo, allora. Ti faccio un'altra promessa, qui e adesso, da
uomo a uomo, tra me e te. Puoi iniziare a leggere i miei libri
domani. Mentre li leggerai, ne parleremo, e potrai chiedermi tutto
quello che vorrai. Risponderò a tutte le tue domande. Hai capito?»
Annuii, senza osare aprire bocca. «Bene. Ora, questo è molto
importante, perciò ascolta attentamente. C'è una domanda, una
domanda di enorme rilevanza, che aspetterò che tu mi faccia, e
quando sarai grande abbastanza... No! Lascia che mi esprima in
modo diverso, perché è davvero molto importante... Quando
comprenderai a sufficienza da pormi quella domanda, ti mostrerò il
mio tesoro più prezioso. Ti sembra giusto?»
Annuii ancora, soffrendo per la delusione. Quel "quando sarai
grande abbastanza" mi risuonava nelle orecchie come una campana a
morto, ma feci del mio meglio per nascondere i miei sentimenti. Il
meglio di un ragazzino di sette anni. «C'è molto da imparare nei tuoi
libri, zio?»
Rise forte, con quella sua risata profonda e tonante. «Sì, Cai,
credo di sì» disse. «Ma sono sicuro che imparerai in fretta, vero?»
«Sì, zio.»
«Bravo ragazzo! Adesso vieni a darmi il bacio della buonanotte.
Dovresti già essere a letto, e domani inizierai a leggere i miei libri.»
Infilai il piede sinistro nel cappio penzolante dello strano seggio,
sollevai la gamba destra oltre l'alto schienale e mi lasciai scivolare sul
pavimento. Zio Varro mi prese, mi lanciò in aria e mi baciò su
entrambe le guance, come faceva tutte le sere a quell'ora. Poi chiuse
la mia mano nel suo palmo indurito e mi accompagnò a cercare
Uther e Occa, la serva che dormiva nella stessa stanza con noi.
Ho tanti ricordi di zio Varro. Per ore e ore mi parlava, e parlava
con me, che sono due cose affatto diverse. Mi insegnava tutto quello
che sapeva di armi e corazze e strategia militare, incluso l'assedio. Mi
raccontava di Alessandro, che gli uomini chiamarono il Grande, e del
padre di Alessandro, Filippo di Macedonia, e di come insieme
conquistarono il mondo. E mi affascinava con le storie dell'antica
Roma della magnifica Repubblica dove, finalmente, un uomo poteva
fare di sé quello che desiderava, affrancato nel suo diritto di essere
ciò che voleva, e libero di portare armi per proteggere tale diritto. Si
serviva di ogni artificio per illustrarmi come la Repubblica fosse stata
distorta dagli uomini, e deformata perché si adattasse ai progetti e
alle mire di pochi privilegiati, e come l'Impero che ne risultò fosse
diventato canceroso, condannato dalla propria devastante malattia.
Mi ammaestrò nell'arte del ferro, e di quelli che luì stesso
definiva «altri, minori, metalli», tra i quali l'oro e l'argento, e io nella
sua fucina trascorsi un intero inverno, quando avevo nove anni, ad
apprendere a maneggiare il ferro, e a piegarlo alla mia volontà,
perché il ferro, a detta di zio Varro, era il segreto dei fabbri ferrai. E
poiché era mio zio Varro e il mio dio, ascoltavo avidamente le sue
parole, assimilavo le sue lezioni e divoravo i suoi scritti.
Non ho mai conosciuto mio nonno, Caio Britannico, ma sono
cresciuto vedendo questa terra di Britannia attraverso i suoi occhi, in
virtù della sua abilità nel trascrivere i propri pensieri. Da lui e da zio
Varro appresi i motivi della distruzione dell'Impero prima ancora di
sapere che cosa fosse l'Impero. Fui consapevole dell'Armageddon
molto prima di sapere che nell'Armageddon ci dimoravo, e scorsi il
destino dell'Altissimo Re prima che i suoi genitori si incontrassero. E
durante tutto questo tempo in cui fui una spugna, in cui mi inzuppai
di ogni goccia di cognizione disponibile, assorbendo l'essenza dello
stupendo Sogno di mio padre e del suo amico Publio Varro, la vita
che conducevo e la società autonoma e indipendente che mi
attorniava mi protessero dal mondo. A Camulod pensavamo a noi
stessi come Britanni, piuttosto che Romano-britannici o Celti, e nella
mia gioventù, guidato da Publio Varro, attribuivo alla parola un
significato unico, metallico, e immaginavo che un Britanno fosse una
lega magistralmente ottenuta, la temperata fusione delle più forti
caratteristiche della grandezza celtica e romana.
Oltre la nostra Colonia, però, al di là del rifugio di Camulod,
nell'altro mondo separato dalla Britannia al di là delle sue coste, la
disintegrazione dell'Impero di Roma procedeva frenetica.
La nostra terra non si riprese mai dalla perdita delle legioni
richiamate da Stilicone nel 401. Cinque anni dopo, le poche legioni
rimaste, sentendosi dimenticate e abbandonate, elessero come loro
imperatore un uomo di nome Marco, che però venne assassinato da
una fazione rivale, la quale a sua volta elesse Graziano. Pochi mesi
dopo anche Graziano era morto, e un terzo candidato, Costantino
III, fu proclamato Imperatore di Britannia. Fu lui ad assestare il colpo
definitivo alla Britannia romana. Radunò tutte le truppe che poté
trovare, riunì in una flotta le navi di tutti i porti e sbarcò con il suo
esercito sul continente, disertando alfine per sempre la Britannia. Noi
della Colonia chiamata Camulod, l'unico luogo in Britannia
preparato a tale sviluppo, rimanemmo per mesi ignari
dell'avvenimento, e quando ne venimmo a conoscenza ci
ritrovammo sull'orlo del panico potenziali e improvvide vittime
delle massicce forze d'invasione.
A lungo, però - per quasi quattro anni - le razzie non
aumentarono, perché erano davvero in pochi a credere che i
Romani non sarebbero ritornati. Ma poi le malerbe infestarono le
strade maestre, e gli accampamenti mostrarono i segni del tempo e
dell'abbandono, e con il loro sgretolarsi i predatori incrementarono
le razzie. Girò voce che la via per la Britannia era libera e sicura. luti,
Danesi, Angli, Sassoni, Pitti e Scoti calarono su di noi in numero
sempre maggiore, e la Britannia conobbe il saccheggio su una scala
fino ad allora neppure immaginata.
II.
Avevo otto anni quando per la prima volta provai vero terrore
e vero sgomento. Entrambe queste esperienze mi capitarono nel
medesimo giorno, a pochi minuti l'una dall'altra, ed entrambe
lasciarono su di me un'indelebile impressione.
Uther e io avevamo come sempre trascorso la primavera e
l'estate sulle colline, con il popolo di suo padre, e stavamo
ridiscendendo a Camulod per trascorrere nella Colonia l'autunno e
l'inverno. Eravamo scortati da un'agguerrita comitiva del popolo di
re Ullic, a cavallo dei piccoli pony dal pelo lungo che venivano
allevati sulle colline. Procedevamo piacevolmente, perché il tempo
era bello; era ancora piena estate, e dell'autunno non si scorgeva
alcun indizio. Proprio quel mattino eravamo sbucati sulla pianura,
finalmente fuori dalle colline, e non mancavano più di venti miglia a
Camulod quando facemmo una sosta per rifocillarci.
Qualcuno aveva sondato con successo un ruscello montano
poche miglia indietro, e i fuochi erano già accesi per cucinare il
risultato della pesca. Essendo ragazzi e principi, né io né Uther
dovevamo contribuire alla cucina, e a cavallo ci eravamo allontanati
dai fuochi, giocando a lanciarci l'un l'altro una pietra avvolta in uno
straccio. Ci imbattemmo così in un laghetto, che a gran voce
pretendeva che lo esplorassimo. Era una pozza nera e profonda, in
un luogo dove non avrebbe dovuto esserci nessuna pozza, su un
tratto pianeggiante di terreno scoperto, in mezzo a un prato
compatto e, verdeggiante. Decidemmo che era un laghetto magico,
messo lì da una dea per accogliere le offerte delle persone che un
tempo vivevano nei pressi. In quella terra era tradizione antica
gettare offerte sacrificali nelle pozze e nei laghi, per propiziarsi la
divinità che li abitava. E Uther voleva tuffarsi in fondo alla pozza
alla ricerca dei tesori offerti alla dea.
Bastava la proposta a farmi sentire a disagio. Anche solo parlare
in quel modo sapeva di blasfemia, sebbene allora; non conoscessi la
parola. Ma il rispetto lo conoscevo, e l'acqua sembrava profonda, e
nerissima. Mentre me ne stavo seduto a fissarla, Uther era scivolato
giù dal suo pony e aveva incominciato a svestirsi.
«Uther! No!» dissi. «È troppo profonda. È pericoloso.»
«Non essere stupido, Cai. È solo una pozza, e comunque ho
caldo. Tu non vieni?»
Scossi la testa.
«Che cosa c'è? Hai paura? Non essere sciocco.» Ormai era nudo,
e saltò in acqua, scomparendo con un tonfo fragoroso. Quando le
increspature si attenuarono, lo vidi immergersi sempre più giù,
sempre più in fondo, vidi il suo corpo pallido e inconsistente, e capii
che l'acqua non era nera, ma chiara come il cristallo, e che il colore
nero dipendeva dalla grande profondità. Vidi Uther risalire verso di
me da quella profondità, infrangere la superficie e boccheggiando,
allontanarsi i capelli dagli occhi con uno scatto del capo,
«È profonda, profonda, profonda, Cai, e fredda, ma è
meravigliosa! Vieni dentro!»
Scossi di nuovo la testa, e lo guardai sorridere, riempirsi i
polmoni d'aria e prepararsi a tornare giù. «Uther» dissi, «non
raggiungerai mai il fondo. É troppo lontano. Vieni! fuori.»
Invece di rispondermi, si rituffò, e io lo guardai rimpicciolire e
poi voltarsi e schizzare in superficie rapido come un sughero. Questa
volta nuotò fino a riva e tese la mano, e io lo tirai fuori. Rimase lì
seduto per un poco, rabbrividendo, cianotico e con la pelle d'oca.
«Ebbene?» lo provocai. «Trovato qualche tesoro?»
Fece di no con la testa, battendo i denti.
«Quanto sei sceso?»
Si sfregò le mani su tutto il corpo per riscaldarsi, poi balzò in
piedi e corse a tutta velocità intorno al perimetro della pozza,
strillando allegramente con quanta voce aveva. Era un matto, ma un
matto felice, e allora mi tolsi i vestiti e saltai in acqua. Era gelida!
Ancora oggi, che lunghi decenni sono trascorsi, ricordo che fu un
trauma. Ritornai a galla, ansimando, ma Uther si tuffò accanto a me,
e mi tirò giù. Mi liberai di lui e risalii in superficie, e ripresi fiato
cercandolo sotto di me, ma mi sorprese alle spalle e mi trascinò
ancora sott'acqua, e quando infine il freddo ci sconfisse eravamo
entrambi esausti e dovemmo aiutarci reciprocamente a riguadagnare
l'argine, dove crollammo, tremanti.
«É come un pozzo» disse Uther.
«Che cosa vuoi dire?»
«Profondo. Con pareti di sasso. Diritte.»
«É probabile che sia un pozzo. Spiegherebbe la ragione per cui
l'acqua è così limpida.» Non tremavamo più, e incominciavamo a
godere il calore del sole.
«Vuoi provare a raggiungere il fondo?»
«No» rammento che dissi. «Non riusciremmo mai...»
Uther mi interruppe, con la mano levata, il corpo in subitanea
tensione. «Che cos'è?»
Si drizzò a sedere e si girò a guardare dietro di noi. «Bastardi!»
sputò. «Sassoni!»
Mi voltai di scatto e guardai in direzione dell'accampamento,
dove infuriava una battaglia nella quale i nostri erano in netta
inferiorità numerica. Quattro sconosciuti dai capelli biondi si misero
a correre verso di noi, con le armi in pugno, la bocca aperta in
lascivi urli di guerra.
Uther era già in piedi. «Svelto, Cai! Leviamoci di qui!» Annaspai
tra i miei vestiti.
«Lascia perdere i vestiti, prendi il coltello!» Uther si precipitò in
groppa al suo pony.
Io afferrai il coltello e corsi incontro alla mia cavalcatura, mi
aggrappai alla criniera e mi issai a fatica sul dorso rovente e
polveroso. I due animali si lanciarono al galoppo quasi di fermi.
«Dividiamoci» gridò Uther. «Tu vai a destra!» Si buttò a sinistra e
io incitai il mio pony nella direzione opposta, sbirciando da sopra la
spalla che cosa avrebbero fatto i nostri inseguitori. Erano ovviamente
sorpresi di vedere solo due ragazzini nudi. Dovevano essere stati
attratti dai pony, perché non avrebbero potuto vederci, sdraiati in
riva all'acqua, Quando ci eravamo divisi avevano smesso di correre,
e ci fissavano, senza speranza alcuna di prenderci a piedi e
comunque senza alcuna voglia di stancarsi a dare la caccia a degli
infanti. Arrestai il mio pony e, sentendomi a distanza di sicurezza,
rimasi a guardarli avvicinarsi al laghetto e trovare i nostri torchi, le
pesanti collane d'oro che ci distinguevano come figli di capi.
La scoperta fece loro decidere che forse inseguirci valeva la pena.
Uno di loro, il più alto, lasciò cadere l'ascia e lo scudo, si tolse l'elmo
e la tunica di pelliccia, e corse verso di me, Io attesi, sapendo che
non avrebbe mai potuto competere con il mio lestissimo pony.
Quando fu a circa venticinque passi rigirai la mia cavalcatura e le
affondai i calcagni nei fianchi. Solo allora pensai a cercare Uther, ma
non lo vidi da nessuna parte. Il limitare della foresta era lontano
duecento passi. Vi diressi il mio pony, come una freccia, distanziando
facilmente il mio inseguitore. Poi, a cinquanta passi dal riparo degli
alberi, il cavallino incespicò e cadde, e io volai sopra la sua testa,
sentendo lo schianto netto della zampa anteriore che si spezzava.
Atterrai sulla schiena, senza fiato per la violenza dell'urto.
Quando mi ripresi, con i gemiti del pony che mi echeggiavano nelle
orecchie, il grosso sassone era vicino, respirava a fatica, e aveva un
sorriso cattivo stampato sulla faccia. E mentre io lottavo per riuscire
a respirare, venne ancora più vicino. Il pony mi aveva scagliato circa
otto passi più avanti. L'uomo si fermò accanto all'animale urlante,
estrasse un coltello, e si chinò a tagliargli la gola. Quella vista scatenò
tutti i miei istinti di sopravvivenza, e mi misi a correre per quanto mi
permettevano le mie gambe. Era rimasto assorto in quel gesto,
perché quando sentii il suo grido avevo coperto metà della strada
che mi separava dagli alberi, e allora sentii anche il rumore dei suoi
passi di corsa, che mi incalzavano a ogni falcata delle sue lunghe
gambe. Ancora davanti a lui arrivai al principio della foresta, e dopo
il primo albero scattai a sinistra, e poi di nuovo a destra, e di nuovo
dopo ciascun albero, cambiando direzione bruscamente e
continuamente. Stavo correndo per la mia vita.
Per fortuna la foresta era fitta, anche lì ai margini, e io ero
piccolo, e potevo buttarmi a capofitto dove sapevo che il mio
inseguitore non sarebbe passato. Piano piano e con costanza
guadagnai terreno, avanzando a viva forza nelle folte sterpaglie,
strisciando tra i rovi, finché seppi di averlo lasciato ad arrancare
abbastanza indietro da concedermi un momento di respiro.
Mi infilai sotto le radici di un grande albero spaccato dal
fulmine, e mi acquattai terrorizzato dal fragore del mio cuore che
superava il rumoroso approssimarsi del mio inseguitore. E allora ogni
movimento cessò, e compresi che si era fermato ad ascoltare, e che
aveva occhi e orecchie puntati sulla foresta tutt'intorno, ma io non
sapevo quanto fosse vicino. Il silenzio crebbe e si protrasse fino a
quando non lo sopportai più e mi alzai piano e con cautela sollevai
la testa. Non lo vidi. E poiché avevo solo otto anni, feci una cosa
molto stupida. Mi alzai di più per vedere meglio, credendo che se ne
fosse andato, ed eccolo lì, che mi guardava da meno di trenta passi,
da sopra l'ultimo boschetto che avevo attraversato. Mi vide quando
io vidi lui e quando affondò nel folto io mi precipitai lontano,
correndo con le ali ai piedi dopo quei pochi minuti di riposo. Corsi e
corsi, scegliendo gruppi d'alberi ancora più fitti, incurante delle
pungenti sferzate di rovi e ortiche e virgulti, finché fuori da un
intrico di cespugli mi ritrovai in una radura erbosa di enormi e
vecchie querce, con i rami soffocati dal vischio, la pianta che
produce le piccole bacche sacre ai druidi. Lo sentivo troppo vicino e,
in preda al panico, raccogliendo le mie ultime forze, mi lanciai sulla
quercia più grande e mi arrampicai su in alto tra i suoi rami,
cercando un nascondiglio tra i grovigli del vischio. Salii fino a non
poter salire più in alto, e lì mi accovacciai, abbracciato a un ramo, e
lo vidi entrare nella radura.
Si fermò ai margini dello spiazzo erboso, e si guardò attorno,
scrutando e ascoltando. Poi avanzò verso l'albero su cui mi ero
arrampicato. Stavo quasi male per il terrore e per l'angoscia di
perdere la presa e capitombolare giù dal ramo e cadere ai suoi piedi,
e per la paura mi venne il singhiozzo. Mi sentì. Ammutolito dallo
spavento lo vidi alzare la testa ed esplorare la chioma della quercia
fino a trovarmi. Rammento ancora la sua espressione e quel sorriso
orrendo, e il modo in cui mi fece cenno di scendere, parlandomi
nella sua lingua pagana anche se sapevamo entrambi, lui e io, che
avrebbe dovuto salire a prendermi.
Fece tre tentativi prima di riuscire ad afferrarsi al ramo più basso,
ma poi iniziò a salire con mosse sicure e sempre più rapide verso il
mio trespolo. Io recitavo tutte le mie preghiere di bambino, e
desideravo intensamente che si fidasse di un ramo troppo debole e
cadesse, che fosse troppo grande e grosso per salire così in alto,
qualsiasi cosa pur che la smettesse di avvicinarsi a me.
E poi sentii il tonfo dei pesanti zoccoli di un cavallo, e lo vidi
fermarsi di colpo e guardare giù. Il tronco dell'albero era tra me e i
rumori, e vedevo solo il sassone, che si dimenticò subito di me e si
diede a ridiscendere, un ramo dopo l'altro, quasi cadendo per la
fretta di tornare a terra, e poi saltò e rotolò in avanti e si rialzò
come un gatto, pronto alla fuga, con la spada in mano. Il rumore
sordo degli zoccoli era sotto di me adesso, e d'un tratto c'era un
uomo, su un cavallo fulvo gigantesco e scalpitante che scaraventò a
terra il sassone. Il corpo dell'uomo non aveva ancora smesso di
ruzzolare, che il cavaliere lo inchiodò a terra puntandogli la lancia in
mezzo alle spalle, e il sassone si agitò e scalciò a lungo prima di
rimanere finalmente immobile. Il cavaliere lasciò la lancia ritta in aria
e si voltò a guardarmi, spostando il corpo di lato per riuscire a
vedere dove mi trovavo.
«Che cosa sei? Un dio dei druidi?»
Non dissi niente, deglutii a fatica, e tentai di dominare il terrore
che mi dilaniava.
«Sei capace di scendere da solo?»
Cercai di dire di sì, ma dalla mia bocca non uscì un suono.
«Allora? Scendi. È morto. Sei al sicuro, adesso. Io non ho motivo
di farti del male.»
Ancora non mi mossi. Il mio soccorritore smontò e liberò la
lancia dal corpo dell'uomo ucciso, facendo forza sul cadavere con un
piede. Ripulì la lama nella tunica del morto e si riaccostò al cavallo,
accarezzandogli il muso e parlandogli in tono sommesso, ma
abbastanza alto perché potessi sentire quello che diceva.
«Or dunque, Cavallo» disse, «qui c'è un ragazzo, un ragazzo
senza vestiti, nascosto in cima all'albero sopra la tua testa. Te lo dico
così non ti spaventi quando scende, perché ha un aspetto terribile e
feroce. Ti prometto che non ti farà del male, Cavallo, se tu non farai
del male a lui.» Si interruppe e guardò di nuovo verso di me. «Hai
intenzione di scendere, ragazzo? Mi stai trattenendo dal mio pasto.
Ho cavalcato per tutta la notte e oggi non ho ancora rotto il
digiuno, e c'è un gustoso stufato di coniglio che si sta cucinando sul
fuoco, a meno di mezzo miglio da qui. Forse tu non hai fame, ma io
sto morendo, perciò mi farebbe un immenso piacere se tu scendessi e
mi lasciassi ritornare al mio cibo.»
Lentamente, scegliendo con cura gli appigli, scesi dal mio rifugio,
e di colpo sentii tutti i tagli e i graffi che avevo accumulato nella
fuga, e mi accorsi della corteccia abrasiva della quercia che mi aveva
protetto. Quando raggiunsi l'ultimo ramo, il mio soccorritore balzò
agilmente sul dorso del cavallo e si avvicinò al passo. Io penzolavo a
circa tre piedi sopra di lui. Mi sorrise, e seppi che ero davvero in
salvo.
«Che cosa è successo? Chi era quell'uomo?» Indicò il cadavere.
«Un sassone. Un predatore. Ci hanno sorpreso lontano
dall'accampamento, mentre stavamo nuotando. Mi ha inseguito e io
sono scappato.»
«Deve averti dato la caccia a lungo. Perché l'ha fatto? Io ti avrei
lasciato andare.»
«Ha trovato il mio torchio.»
«Ha trovato cosa?»
«Ha trovato il mio torchio. La mia collana d'oro. Sapeva che
sono il figlio di un capo, e voleva uccidermi.»
«E così sei il figlio di un capo, eh? Non un semplice capitano, un
vero capo! Sono colpito. Come ti chiami? E come mai il figlio di un
capo celtico parla così bene latino?»
Mi misi in posizione eretta e parlai con tutta la dignità che riuscii
a trovare, determinato, nudo ed escoriato com'ero, a impressionare
lo sconosciuto. «Sono di sangue romano. Il mio nome è Caio. Caio
Merlino Britannico. Mio padre è un legato di Roma. Combatte al
fianco di Stilicone.»
L'effetto della mia dichiarazione fu benefico. Si strozzò.
Sputacchiò e tossì, il suo cavallo si impennò innervosito e nascose
alla mia vista il volto del cavaliere, che finalmente riacquistò il
controllo della sua cavalcatura e di se stesso e si fermò, tornando a
guardarmi con gli occhi spalancati e arrossati per il tanto tossire.
«Perdonami» disse. «Mi è andata della saliva di traverso. Allora
tuo padre è un legato? Beh, dovrebbe esserlo, per averti imposto il
fardello di un simile nome. Merlino? Non è un nome romano.
Almeno, non l'ho mai sentito prima.»
«No» ammisi. «Hai ragione, non lo è. In realtà è Merlyn. È
celtico.»
«Capisco.» Scosse la testa, con un sorriso di sincera incredulità di
cui persino io mi accorsi, e mi porse la mano destra. «Prendi la mia
mano e salta in groppa qui davanti a me. Un uomo con un nome
come quello deve cavalcare davanti.» Feci come mi diceva, e mi
sostenne con il braccio sinistro. «Sai cavalcare, ragazzo?»
«Sì, signore.»
«Bene, allora tienimi la lancia e aggrappati alla criniera del
cavallo. Saremo subito all'accampamento.»
Non mentiva. Ebbi appena il tempo di raccontargli di Uther e
della nostra fuga dal pozzo, che già sentivo il profumo del fuoco di
legna, e sbucammo dagli alberi in un accampamento bene
organizzato dove si stavano riposando altri cinque uomini. Mentre ci
avvicinavamo al fuoco ci guardarono tutti incuriositi.
«Generale» disse il mio soccorritore, «credo che dovresti fare la
conoscenza di questo giovanotto. Dice di chiamarsi Caio Merlino
Britannico.» Mi posò delicatamente a terra di fronte al fuoco, dove
un gigante d'uomo in corazza nera di cuoio si alzò e mi sovrastò,
fissandomi con una strana espressione.
«Caio Merlino Britannico» disse il mio soccorritore, «questo è il
legato Caio Pico Britannico.»
Mio padre era tornato a casa.
III.
Non avevo mai conosciuto mia madre, ma sapevo molto di lei;
anzi, tutto quello che ricordava chiunque l'avesse conosciuta. Sapevo
che si chiamava Enid e che era la sorella del grande e barbuto re dei
Celti della Cambria, Ullic Pendragon, il nonno di Uther. Avevo in
mente un'immagine di lei, composta da frammenti di descrizioni che
avevo raccolto sul suo aspetto: in quell'immagine era sempre alta e
bellissima, dal passo ardito e lo sguardo fiero, con i lunghi capelli
sciolti, neri come le ali di un corvo. Aveva zigomi alti e ampi e denti
bianchi e scintillanti che balenavano a ogni risata, e i suoi occhi
erano verdi come l'erba sugli stagni d'estate. Nella mia mente sentivo
anche la sua voce, musicale e aggraziata, cantilenante come quella
del popolo della montagna, eppure stranamente profonda e quasi
roca, traboccante d'amore e di tenerezza per me. Sapevo molto di
mia madre, ma l'avevo saputo da persone che erano contente di
raccontare a un bambino orfano di madre tutto ciò che bramava
sapere; persone ansiose di esprimere i loro desideri, piuttosto che le
loro opinioni, dei ricordi legati a una donna morta da tempo. Mio
padre, al contrario, era ancora perfettamente vivo, e il suo aspetto e
le sue dimensioni facevano in modo che nessuno desiderasse parlare
di lui a me, il suo unico figlio.
Come fa un ragazzo a scoprire la vera natura del proprio padre?
La vera natura dell'uomo, intendo dire? In realtà non la scopre.
Almeno non riguardo le cose che il mondo ritiene importanti, perché
quando un ragazzo è ancora un ragazzo, cose simili per lui non
significano nulla. Ho scoperto mio padre solo dopo essere diventato
uomo io stesso, e molto di quello che ho scoperto dopo la sua
morte mi è stato rivelato, come ho già detto, semplicemente perché
io sono Merlino. Quand'ero ragazzo, mio padre era una presenza
mistica, quasi mitica alla periferia della mia vita. Era sempre ih guerra
durante la mia infanzia e la mia adolescenza, e lo vedevo
brevemente e sporadicamente, durante le sue rare visite a casa.
Spalle larghe, torace ampio, muscolatura possente: Pico
Britannico non era solo un uomo grande e grosso. In un mondo
dove gli uomini normali erano alti cinque piedi e mezzo, lui si
elevava al di sopra di sei piedi. Di mezza testa più alto del più alto
dei suoi subordinati, era un soldato da capo a fondo, dentro e fuori.
Era magnifico da guardare, con i capelli insolitamente dorati, la
splendida tunica di lana bianca bordata da una spessa striscia nera, e
la luccicante, lucidissima corazza nera di cuoio, e l'altrettanto nero
equipaggiamento. Perfino la cresta sull'elmo era straordinaria,
composta di ciuffi di crine di cavallo bianchi e neri alternati. L'unico
tratto del suo abbigliamento che non rispettasse il rigido schema di
colori era l'elsa di bronzo della spada corta che portava al fianco
destro, la spada che gli aveva dato zio Varro quando per la prima
volta si era unito alle legioni. Anche i suoi cavalli - sempre neri come
il giaietto - venivano appositamente selezionati per la loro altezza,
così che ovunque andasse era imponente, e attirava lo sguardo degli
uomini per la sua grandezza, e per l'abbagliante biancore della
morbida lana che foderava l'ampio mantello nero da guerra. Mio
padre era un comandante agli occhi di tutti gli uomini, e i suoi
soldati lo adoravano.
Per il suo figlioletto, invece, era una figura che incuteva timore e
sgomento. Parlava poco, perché una freccia gli aveva lacerato la gola
prima che nascessi e l'aveva lasciato con un terribile tormento, e
quando parlava le sue parole erano gravose e gutturali. Era però
deciso a superare il suo difetto, e invecchiando lo sconfisse in larga
misura. Portava i capelli lunghi, un'affettazione per coprire la brutta
cicatrice dove la freccia gli aveva trapassato la bocca emergendo
dalla nuca, e anche quello lo distingueva dai Romani al suo
comando, tutti con i capelli corti.
Quel primo giorno che lo incontrai, mi soggiogò
completamente. Dopo avermi esaminato in silenzio, con gli occhi
sbarrati pieni di stupore, mi sollevò per i gomiti come se fossi una
piuma finché ci trovammo faccia a faccia. Poi si rilassò in un ampio
sorriso, tutto denti bianchissimi, mi scosse dolcemente, e mi rimise a
terra, ringhiando qualcosa che non compresi. I suoi uomini si fecero
avanti a stringermi solennemente la mano, come a un uomo, mentre
quello che mi aveva salvato riferiva la mia avventura quasi parola
per parola come gli avevo detto che era accaduta.
Quell'uomo era Tito, un amico di mio padre del quale avevo
letto e sentito parlare. Un altro, Quinto Flavio, era inginocchiato
accanto al fuoco, e badava allo stufato di coniglio che Tito
pregustava durante il giro di pattugliamento intorno al campo,
prima di trovarmi.
Non appena Tito ebbe finito di raccontare la mia storia, mio
padre mi guardò. «Uther?» ringhiò. «Dov'è?»
Alzai le spalle, conscio della mia confusione. «Non so dove sia
andato, signore.»
«L'hanno seguito?»
Di nuovo alzai le spalle. «Non lo so.»
«Va bene. A cavallo!»
Lasciammo il fuoco acceso. Flavio rovesciò la pentola sui
carboni, e nell'aria vorticò una nuvola sibilante di fumo e ceneri. In
pochi minuti eravamo tutti a cavallo, e stavamo ripercorrendo la
strada per la quale Tito e io eravamo venuti. Questa volta cavalcavo
di fronte a mio padre; la mia nudità era coperta dal suo lungo
mantello, e mi sentivo bene, seppure preoccupato da quello che
avremmo potuto trovare sulla scena dell'attacco.
Emergemmo dalla foresta quasi nello stesso punto in cui ero
entrato, e la prima persona che vidi fu Uther, completamente
vestito, che cavalcava verso di noi con quattro uomini di suo padre.
Ci scorse nel medesimo istante, e tirò le redini del suo pony
facendolo impennare, pronto a fuggire da quella nuova minaccia,
ma poi mi vide davanti a mio padre, e gridò allegramente il mio
nome agitando la mia tunica sopra la testa.
«Quello è Uther!» dissi. «Ha i miei vestiti.»
Due degli uomini che erano con Uther riconobbero mio padre, e
ci rimasero accanto quando ci unimmo al resto dei superstiti. Un
soldato di mio padre si lasciò sfuggire un fischio di stupore. «Guarda
che roba!»
Per la prima volta vedemmo l'effetto degli archi lunghi di tasso
di Ullic Pendragon se imbracciati da uomini addestrati e determinati.
I corpi dei Sassoni erano ovunque. Arrivai fino a quattordici, e poi
persi il conto. I Celti stavano estraendo le frecce da morti e feriti. La
nostra comitiva aveva perduto quattro uomini, uccisi nell'attacco
iniziale che li aveva colti di sorpresa. Nessuno era venuto a mancare
dopo che gli arcieri avevano incominciato a combattere, e i Sassoni
erano scappati terrorizzati dalle frecce contro le quali non potevano
difendersi.
Un guerriero delle colline descrisse ridendo l'accaduto.
«Pensavano dì essere al sicuro, dentro le loro belle camicie a
maglie, ma poi hanno visto che cadevano in tanti, che le nostre
frecce attraversavano le belle camicie e tutto quanto. Avevano già
combattuto contro degli arcieri, ma non gli era mai capitato niente
di così letale come le nostre nuove frecce. Huw ne ha preso uno
dritto in testa, e l'ha passato di netto, elmo compreso!»
«Quanto era lontano?» chiese mio padre.
«Non più di venti passi. Queste frecce passano da parte a parte
un asse di quercia spesso un palmo a centosessanta passi.»
Mio padre emise un grugnito di impazienza, e guardò i cadaveri
disseminati sull'erba. Erano già stati privati di armi e corazze, e
queste erano state ammucchiate vicino al fuoco di un bivacco. Huw,
il comandante del gruppo di Celti, notò l'evidente impazienza del
legato e gridò agli uomini nella loro lingua nativa di prepararsi a
partire, e di mettere i corpi dei quattro uomini uccisi di traverso sui
cavalli, per poterli poi seppellire.
Tito fece un cenno verso il mucchio di armi e corazze. «Che cosa
ne fate di quelle? Avete un carro per trasportarle?»
«No» brontolò Huw. «E non possiamo tenerle. Avevo pensato di
sotterrarle. Non posso lasciarle in giro.»
Uther si intromise, e la sua voce parve fuori posto tra le voci
degli uomini. «Offriamole alla dea del laghetto, laggiù, dove Caio e
io siamo andati a nuotare. É molto profondo.»
«Questa sì che è un'idea, ragazzo!.» Huw approfittò subito del
consiglio e incaricò quattro uomini di trasportare il bottino e gettarlo
nella pozza. «Mi spezza, il cuore vedere tanto spreco, ma un giusto
sacrificio come ringraziamento per la vittoria non ha mai fatto male
a nessuno e comunque non guasta mai.»
«E i corpi? I Sassoni?» chiese ancora Tito.
La smorfia di disprezzo che accompagnò la risposta di Huw fu
piuttosto eloquente. «I corpi? Che quei bastardi marciscano dove si
trovano. Lupi e corvi non ci metteranno molto a ripulirli.» Qualcosa
lo distrasse, e la sua voce si levò in un urlo. «Avanti, gente! Vi
sbrigate, o no? Mancano venti miglia a Camulod, e ci voglio arrivare
con la luce del giorno! Muovete il culo!»
Il leggero cipiglio di Flavio mostrava tutta la sua perplessità.
«Camulod? Che cos'è mai?»
«Noi chiamiamo così il nostro forte, signore» gli risposi.
«Camulod.»
Flavio guardò mio padre, che inarcò un sopracciglio e si strinse
nelle spalle, senza dire niente.
Lasciammo il campo coperto di cadaveri e partimmo di .buon
passo per la Colonia. Mi ero rivestito, e il mio corpo era un
ammasso dolorante per innumerevoli staffilate, lividi, escoriazioni e
tagli accumulati durante la fuga. L'occhio destro era pesto e gonfio e
avevo voglia di piangere, ma non osavo mostrare la mia debolezza.
Tito si avvicinò. «Come ti senti, giovane Merlino? Stanco?» Mi
sforzai di sorridere, e feci di sì con la testa. «Lo immaginavo»
continuò. «Hai fatto una lunga corsa.» Annuii ancora. «Perché non
cavalchi insieme a me? Così, se ti addormenti, non cadi da cavallo.»
Doveva avere letto la gratitudine sul mio viso, perché accostò il
cavallo al mio pony e mi sollevò davanti a sé. Io mi guardai attorno
per vedere se qualcuno ridesse di me, ma nessuno badava a noi, e
immediatamente mi addormentai, cullato dalle ferme braccia di Tito,
il mio protettore.
Mi svegliai molto tempo dopo al suono dei corni, ed ecco in
lontananza le mura di Camulod, che incoronavano la collina e
sovrastavano la vallata. Io ero un ragazzino irrigidito e indolenzito,
e ricordo che ci volle tutta la mia determinazione, per non gridare di
dolore quando Tito mi consegnò nelle mani accoglienti che mi
reclamarono non appena arrivammo nella corte della villa di mio
zio. La spossatezza mi sopraffece durante un bagno caldo. Non
ricordo di essere stato messo a letto. Il mattino seguente, però, mi
svegliai con tutto il mio consueto vigore, ben consapevole che mio
padre, il legato Pico, era a casa. Speravo che ci rimanesse, e fu così.
Questa volta era tornato a casa per sempre.
Stilicone, il comandante in capo di mio padre, era stato
richiamato dalla campagna contro gli Ostrogoti dal suo antico
pupillo, l'imperatore Onorio, ed era rientrato, secondo gli ordini del
suo padrone, solo per essere sommariamente giustiziato a causa di
un presunto complotto che se fosse riuscito gli avrebbe permesso di
usurpare il trono dell'Impero. Mio padre era rimasto ad affrontare
gli Ostrogoti alla testa dell'esercito di Stilicone, ignorando
completamente che i medesimi cospiratori che avevano eliminato
Stilicone avevano condannato anche lui: Pico Britannico un giorno
era un legato, e il giorno dopo era un fuorilegge ricercato.
Grazie a un tempestivo avvertimento e alla lealtà dei suoi
veterani, era fuggito prima dell'arrivo degli uomini inviati per
ucciderlo. Con un piccolo gruppo di uomini e ufficiali aveva
attraversato il continente, ed era ritornato in Britannia, dove adesso
era al sicuro dallo scontento imperiale.
Ma le speranze, che albergavo nel mio cuore di bambino, di
stare da allora in poi con mio padre erano destinate a svanire. Dal
momento del suo rientro a Camulod, le attività militari dell'intera
Colonia si erano intensificate. Zio Varro rinunciò al supremo
comando delle nostre forze a favore dì mio padre, che subito si
prefisse di migliorare e di affinare il livello del nostro operato, dal
rafforzamento delle difese della Colonia e dall'incremento delle
opere di costruzione sulle mura, al sostenuto aumento della
frequenza, e dell'accuratezza, dei pattugliamenti a cavallo nei
territori circostanti.
Nella primavera di quell'anno 409, la realtà di un'invasione su
larga scala divenne innegabile. Avevamo notizie di gravi scorrerie
lungo tutta la costa, e giungevano numerose voci di consistenti
bande di razziatori - eserciti composti da molte navi di guerrieri - che
saccheggiavano le città, uccidevano gli uomini e tenevano le donne
per abusarne all'occasione, e poi fortificavano essi stessi le città, e se
ne servivano come basi per sortite in altri luoghi della regione.
Venimmo a sapere che era stata stabilita una base di quel genere a
sudest rispetto a noi, in un villaggio situato sulla sommità di una
collinetta e perciò protetto da attacchi di sorpresa. Secondo il
rapporto che ci fece un prete errante, tre gruppi di razziatori
avevano unito le loro forze, e avevano occupato e fortificato il
villaggio, terrorizzando la regione per miglia tutt'attorno grazie alla
posizione privilegiata.
Ero nell'Armeria, intento ad ascoltare una conversazione tra mio
padre e mio zio, quando giunse la notizia. Mio padre stava
parlando, in quel suo modo lento e forzato, di costruire delle torri
lungo le mura del forte per ospitare balista, scorpioni e altri pezzi di
artiglieria di quelli usati dall'esercito di Stilicone. Le tecniche di
assedio erano progredite notevolmente dai tempi delle campagne di
Cesare in Gallia e in Iberia, ma le innovazioni più geniali venivano
sviluppate per la difesa contro le macchine da assedio. I bastioni
posti a intervalli lungo la cinta delle mura, sporgendo in fuori
permettevano ai difensori di riversare sugli attaccanti una pioggia di
fuoco micidiale, e l'efficacia dei bastioni aumentava con l'aumentare
della loro frequenza lungo le mura. Come i forti della Costa Sassone,
diceva mio padre. Il modo in cui erano costruiti li rendeva
inespugnabili. Le macchine da assedio non si potevano avvicinare. A
Camulod dovevamo fare lo stesso. Lungo la facciata dovevamo
aggiungere torri che sporgessero in fuori - molto in fuori - per
proteggere i punti più deboli delle nostre difese; torri che avrebbero
concesso
ai
nostri
soldati
una
costante
supremazia,
indipendentemente dagli sforzi degli aggressori; torri strategicamente
erette sulle alture salienti della collina di Camulod, e dalle quali i
difensori potessero guardare all'interno e in basso, verso i livelli
inferiori.
Fu a questo punto che Tito interruppe il discorso, introducendo
un messaggero con notizie dei razziatori e della loro base fortificata
a sud-est. Non appena lo vidi seppi che era uno di quei preti erranti
che diffondevano il Vangelo del Cristo in tutta la regione, a tutti
coloro che fossero disposti ad ascoltare. Era un uomo alto e magro,
con la barba, una veste semplice e senza pretese e un bastone da
pastore, simbolo della sua vocazione. Fissando estasiato lo splendore
della stanza, si fece avanti a salutare i suoi due occupanti, ignaro
della mia minuscola presenza sul pavimento dietro alla sedia di mio
padre. Zio Varro e mio padre ascoltarono la sua storia senza
interromperlo. Mio padre fece solo due domande: «Quanto dista
questo posto? E quanti Sassoni ci sono?».
L'uomo era incerto sulla distanza, che poteva essere tra le venti e
le trenta miglia, ma in due giorni aveva contato personalmente non
meno di duecento uomini dentro e fuori dal villaggio. Mio padre lo
ringraziò e fece cenno a Tito, che accompagnò il prete da qualcuno
che potesse mostrargli la strada per le cucine. Quando le porte si
furono richiuse alle loro spalle, zio Varro parlò.
«Venti o trenta miglia. Non sono troppo vicini. Non sono
nemmeno vicini alle nostre terre.»
«No, Publio, ti sbagli. Sono fin troppo vicini. Anche a cento
miglia sarebbero troppo vicini.»
«Che cosa vuoi dire? Per quella marmaglia sono tre giorni di
marcia, forse quattro o cinque! Se sbarcassero domani a nord o a sud
arriverebbero prima.»
Mio padre scrollò le spalle. «Garantito. Ma non lo farebbero. A
meno di essere disperati. Sarebbero troppo lontani dalla loro nave,
la loro base. Non capisci? Questo è importante, Publio! Quegli
animali si sono creati un campo base sulla terraferma. Hai sentito il
prete. È fortificato. Significa che è resistente. Non devono
preoccuparsi che qualcuno lo trovi e lo affondi. E hanno anche le
donne. Con cibo e sesso a sufficienza, non avranno fretta di tornare
da dove sono venuti. Dagli il tempo di rilassarsi e di godersela, e
potrebbero decidere di rimanere. Dagli il tempo di rinforzarsi e di
saccheggiare le campagne circostanti, e se ne andranno in cerca di
nuovi terreni di caccia.» Tacque e scosse la testa, poi riprese. «Non mi
piace per niente. Nemmeno un po'.»
La porta si aprì e Tito rientrò nella stanza.
«Ebbene, che cosa ne pensi, Tito?»
Tito fece un cenno di assenso e parlò.
«I Visigoti di Alarico, generale. Quando ci sono saltati addosso in
Tracia. Mi sono scottato una volta, e diffido del fuoco.»
«Bravo. Stavo pensando alla stessa cosa. Siediti, e dillo anche a
Publio.»
Tito si sedette, rivolgendosi a mio zio. «I Visigoti facevano così in
Tracia, comandante. Prendevano d'assalto una città, uccidevano gli
uomini, tenevano le donne, e le tenevano a bada minacciando i
bambini. Poi si fingevano cittadini, cambiavano armi e vestiti. Siamo
entrati in una di quelle città senza un dannato sospetto. Due giorni
dopo, abbiamo incontrato Alarico faccia a faccia, e proprio quando
meno ce lo aspettavamo e meno ne avevamo bisogno, quella gente
ci ha attaccati alle spalle. Abbiamo quasi perso la battaglia, e
avremmo potuto perdere molti più uomini e cavalli. Pensavamo di
avere ripulito tutta la regione, ma quelli erano sempre stati lì. Un
errore che ci è costato caro.»
Mio padre parlò ancora, con la sua voce gutturale e quasi
incomprensibile.
«Una base sicura, Publio. Non ne hanno mai avuta una prima.
L'hanno usata come una catapulta. Ci hanno quasi distrutti.»
«E allora che cosa proponi?» chiese zio Varro.
«Una spedizione. Annientiamo quei bastardi!»
Mio zio era perplesso. «Facile a dirsi, ma come possiamo fare? Il
prete dice che il villaggio è fortificato. Che cosa può fare la tua
cavalleria contro le posizioni fortificate?»
«Arcieri.»
«Quali arcieri?»
Mio padre assentì con enfasi. «Gli uomini di Ullic. Con i loro
archi. Abbatterli come piccioni.»
«Ma come, Pico? Non seguo la tua logica.»
Zio Varro era confuso, e mio padre era sempre più frustrato per
la propria incapacità di parlare con chiarezza. Alla fine sputò fuori
una parola. «Inganno!»
«Inganno? Ingannarli, vuoi dire? I Sassoni? Come?»
«Farli uscire allo scoperto. La tattica di Alessandro. Coglierli di
sorpresa. Attirarli fuori. Maledetta gola! Dammi qualcosa da bere,
Tito. E anche qualcosa per scrivere.»
Scrisse per quelle che mi parvero ore, mentre gli altri leggevano
da sopra le sue spalle, e, leggendo, la loro eccitazione aumentava. A
un certo punto zio Varro gli diede una manata sulla schiena, e con
voce resa acuta dall'emozione disse: «Per Dio, Pico, potrebbe
funzionare! Li terrorizzerà prima, e poi li attirerà verso la morte! É
geniale! Dobbiamo avvertire immediatamente Ullic e Uric. Chissà
quanti arcieri hanno adesso? Beh, lo sapremo presto. Sarà la nostra
prima occasione di mettere alla prova i nostri due eserciti insieme».
Mio padre parlò di nuovo, molto più distintamente. «Diglielo,
montagne di frecce.»
Arrivò re Ullic in persona, con mio zio Uric e cinquantaquattro
arcieri. Gli ci vollero dieci giorni per radunare gli uomini e per
prepararli. Andò Tito ad annunciare il piano. Portò con sé tre
cavalli, e praticamente senza sosta fece in tre giorni un viaggio di
quattro giorni su terreno montuoso, e poi tornò subito indietro
precedendo gli uomini delle colline. Quando arrivarono, lo schema
della campagna era stato definito, ed erano stati presi tutti gli
accordi. La notte del loro arrivo si tenne un consiglio di guerra, dal
quale Uther e io fummo banditi, e la spedizione partì presto il
mattino seguente.
Duecentottanta uomini uscirono da Camulod quel giorno,
montati sul fior fiore delle nostre cavalcature. Uther e io li
guardammo allontanarsi, la prima spedizione militare ufficiale di
Camulod; la prima manifestazione di una forza nuova nella terra di
Britannia.
Mio padre cavalcava alla loro testa, con Tito e il padre di Uther.
Re Ullic cavalcava più indietro, con il suo contingente di arcieri,
montati per l'occasione sui nostri cavalli di maggiori dimensioni.
Abituati ai pony di montagna, molti avrebbero sofferto in capo a
quella cavalcata di quaranta miglia. Ognuno portava due faretre di
frecce, a eccezione del re, ormai troppo vecchio per tendere il suo
arco possente.
In fondo al contingente cavalcava un gruppo di uomini molto
diversi dagli altri per aspetto. Zio Varro aveva trascorso molto
tempo a sperimentare un nuovo scudo adatto agli uomini a cavallo,
fino da quando, anni prima, il suo scudo l'aveva ferito alla gamba
durante l'attacco alla villa di Vegezio Sulla. Adesso la maggior parte
della nostra cavalleria portava uno scudo ovale o rotondo imbracato
dietro le spalle. Gli uomini alla retroguardia della colonna, invece,
portavano tutti il grande, pesante scutum dei legionari romani, e
ogni scutum aveva una varietà di lance e giavellotti infilati nelle
cinghie di cuoio. Costituivano un'insolita aggiunta, ma la loro
presenza aveva uno scopo.
Uther e io salimmo in cima alle mura, e li vedemmo sparire tra
gli alberi lontani. Rimanere a casa era per noi una 'delusione
cocente, ma ci ripromettemmo che sarebbe giunto il giorno in cui
non solo saremmo partiti, ma avremmo cavalcato alla testa di un
esercito.
IV.
Camulod sembrava muta e abbandonata dopo la partenza delle
truppe. Si erano portate via anche il piacere dei giochi che
normalmente occupavano il nostro tempo libero, e così Uther e io
andammo ognuno per le sue faccende, lui nelle stalle e io
nell'Armeria di mio zio, dove mi appollaiai sulla mia sella e cedetti
alla tentazione di immaginare la riuscita della spedizione con i pochi
elementi che conoscevo del piano ideato da mio padre e dagli altri.
Passarono due settimane prima che tornassero a casa, ammaccati e
insanguinati, ma giubilanti e vittoriosi.
La notte della rimpatriata Uther e io facemmo del nostro meglio
per stare appiccicati ai condottieri che dovevano riferire tutto
l'accaduto a zio Varro e agli altri membri del Consiglio ma quando
furono tutti riuniti era molto tardi, e Occa ci trovò e ci trascinò a
letto. Scappammo e ci nascondemmo, ma riuscimmo soltanto ad
attirare l'attenzione di mio padre, che quella sera non aveva né il
tempo né la pazienza di sopportare due bambini. Ci spedì a letto
con un disgusto così profondo che non ci passò nemmeno per la
mente, come di solito capitava, di spiare Occa che si preparava per
la notte.
Fummo informati della battaglia il mattino dopo, da Tito, ormai
il migliore amico che io e Uther avessimo tra gli uomini adulti di
Camulod... con l'eccezione, naturalmente, di zio Varro, il nonno di
Uther. Tito si avvicinò a noi mentre stavamo combattendo con
spade e scudi di legno, e rimase a guardare finché io non trovai
un'apertura nella guardia di Uther e con il piatto della spada gli diedi
una bella botta sulla testa, molto più violenta di quanto intendessi.
Con un ruggito di rabbia, Uther buttò a terra le armi e mi si avventò
contro a mani nude, gli occhi oltraggiati pieni di lacrime e di
desiderio di sterminio, e in un attimo ci ritrovammo a terra,
avvinghiati in una lotta mortale. Tito ci divise e ci trattenne, furenti e
scalpitanti, uno a ciascuna estremità delle forti braccia.
«Ehi» tuonò. «A che pro addestrarvi a combattere e a essere dei
capi, se cercate di uccidervi a vicenda? Tra voi due non c'è spazio per
i litigi!» D'un tratto piegò i gomiti, tirandoci a sé, guancia a guancia
contro la sua faccia feroce, e ci fulminò con un'occhiata. «Credevo
che voleste sentire come abbiamo sconfitto i Sassoni, ma se preferite
perdere tempo a battervi, fate pure; io vado a trastullarmi con una
donna.»
Il nostro bisticcio fu subito dimenticato. «Racconta, Tito,
racconta, per favore! Non facevamo sul serio» strillammo, quasi
all'unisono.
«Bene, siete certi di volere ascoltare tutta la storia? Potreste
annoiarvi.» Protestammo di essere immuni alla noia, «D'accordo,
allora, venite con me. Si sta facendo tardi e questa storia ha bisogno
di un fuoco.»
Lo seguimmo fuori dai cancelli sul pendio della collina, dove si
fermò e si guardò intorno. «Laggiù.» Indicò un punto che era stato
usato come bivacco. «C'è un cerchio per il fuoco, e dei tronchi per
sedersi, ma non c'è legna. Andate, poppanti, e trovate del
combustibile per le nostre fiamme.»
Tornammo in un baleno con le braccia cariche della legna
ammucchiata contro le mura. Nel frattempo Tito aveva trovato
degli sterpi per accendere il fuoco, e aveva preso un ceppo di legna
ardente da un fuoco vicino. Senza fiato per l'impazienza dell'attesa
lo guardammo alimentare le braci con erba secca e ramoscelli,
soffiare fino a trarne la fiamma e aggiungere legna affinché il fuoco
continuasse a bruciare da solo. Finalmente si ritenne soddisfatto:
depose sul fuoco dei grossi ceppi e si raddrizzò in tutta la sua altezza,
scrutando nel crepuscolo incombente la pianura sottostante. Infilò i
pollici nella cintola del gonnellino a strisce di cuoio e metallo, e si
girò verso di noi. Nessuno aveva più detto una parola da parecchio
tempo. Eravamo lì seduti e lo fissavamo, e aspettavamo che ci
raccontasse la sua storia.
«Da dove posso incominciare? A due gagliardi guerrieri come voi
bisognerebbe raccontare tutto. Un giorno toccherà a voi guidare le
nostre truppe.» Scherzava per metà - glielo leggevamo negli occhi ma poi divenne serio e si sedette su un tronco di fronte a noi,
dall'altra parte del fuoco. Le fiamme danzavano alte, adesso, e i
ceppi mandavano scoppiettanti scintille.
Restammo a lungo ad ascoltare il crepitio della legna secca, e poi
Uther si schiarì la voce. «La battaglia contro i Sassoni, Tito.»
«Ah, sì. La battaglia contro i Sassoni! Ecco perché siamo qui.»
Fece un'ennesima pausa, ricordando, mentre noi pendevamo dal suo
silenzio, e non distoglievamo lo sguardo dal suo viso. «Quei Sassoni
avevano una vera fortezza» disse infine. «Li osservavamo da un
boschetto sul lato opposto della vallata, e credetemi, ne fummo
impressionati. Il prete che ci aveva portato la notizia aveva detto che
erano acquartierati in un villaggio fortificato su una collina.
Speravamo che si fosse sbagliato, o che fosse stato impreciso come
sarebbe normale per un civile, ed era così. Quel posto in realtà era
costruito sull'estremità di una lunga cresta che si stendeva come un
dito sopra a una palude. C'era una grossa differenza. Sapete dirmi
perché?»
Uther fu più lesto di me a rispondere. «Una collina è più facile
da difendere di una cresta... contro di noi, almeno.»
«Perché?» Tito era mortalmente serio, e il tono della sua voce era
del tutto privo di condiscendenza.
«Perché i nostri cavalli possono andare all'attacco lungo una
cresta meglio di quanto non potrebbero fare dal basso di una
collina.»
«Ragazzo in gamba. E così un problema era risolto. Caio, qual
era l'altro problema?»
Pensai intensamente, per essere certo che la prima reazione fosse
stata esatta. «La palude. Se ci fosse stata troppa acqua, non avreste
potuto attraversarla.»
«A quale scopo? Hai ragione, ma perché avremmo dovuto
attraversare la palude?»
«Per arrivare ai piedi della collina, costringere i Sassoni a
scendere in campo contro di voi e distrarre la loro attenzione dalla
cresta e dalla nostra cavalleria.»
Spalancò gli occhi in scherzosa ammirazione. «Splendido! Un
giorno sarai un grande generale, ragazzo mio.»
«Non grande quanto suo padre» borbottò Uther, malignamente
pensai, ma poi aggiunse: «Non ha le legioni».
Tito sorrise. «Beh, forse no, ma adesso non le ha nemmeno suo
padre, eppure il piano che ha ideato, e il modo in cui l'ha messo in
atto, è stato una prova di intelligenza. Di più; è stato un colpo di
genio, puro e assoluto.»
Si spostò sul suo tronco in una posizione più confortevole e
buttò dell'altra legna sul fuoco, incantandosi a guardarla prendere a
fiammeggiare finché dovetti chiedere, nell'agonia della frustrazione:
«Che cosa ha fatto, Tito?».
«Perdonatemi» sorrise, «stavo ricordando. Osservammo dal
bosco per circa un'ora, e poi tornammo dove ci eravamo, accampati,
circa due miglia più indietro in una valle sicura. Gli uomini di Ullic
trascorsero il resto di quel giorno e la notte a fare i loro preparativi.
Un'ora dopo il calare delle tenebre, tuo padre mi mandò con una
dozzina di uomini lungo la valle a controllare la compattezza del
terreno. Pioveva forte da giorni.»
«Come avete controllato?» chiesi.
«Camminandoci sopra. Conosci un modo migliore?»
«Ma non vi ha visti nessuno?»
«Al buio? Ricorda che i nostri mantelli sono neri.»
«Ma bianchi dentro.»
«Non tutti. Solo quelli degli ufficiali. Ho scambiato il mio con
quello di un soldato. Ci siamo anneriti la faccia, e a pie- di nudi
abbiamo percorso tutto il fondo della valle fino alla base della
cresta.»
«E poi?»
«Il terreno era bagnato, ma compatto. I nostri occhi erano
abituati all'oscurità e non avemmo problemi. Tornammo al campo e
io feci rapporto. Poi ricominciò a piovere, e piovve a dirotto senza
interruzioni per tutta la notte, tuoni e lampi che spaventavano i
cavalli, e tutto così impiastrato di fango che sarebbe stato impossibile
combattere. Avevamo stabilito di attaccare all'alba, ma era
un'impresa disperata. Dovemmo restarcene nascosti nel nostro
campo e aspettare che il tempo cambiasse.»
«Quanto avete dovuto aspettare?» chiese Uther, avido di dettagli
quanto me.
«Solo un giorno. A metà mattina le nubi si sono diradate, e c'è
stato un sole abbagliante per il resto della giornata. Nel tardo
pomeriggio il generale, Uric, re Ullic e io siamo tornati nel bosco
all'estremità della valle. Il nostro tempismo era perfetto. Il giorno
prima avevamo contato un'ottantina di uomini in campo nemico,
ma il secondo giorno ci eravamo appena messi in posizione nel
bosco, quando vedemmo almeno cento uomini avvicinarsi da est.
Evidentemente tornavano da un giro di razzie. Avevano carri
stracolmi, e file di donne legate una all'altra. Li vedemmo salire la
collina ed entrare nell'accampamento, e assistemmo ai festeggiamenti
che iniziarono subito dopo. Eravamo contenti di avere aspettato,
perché sapevamo che al mattino sarebbero stati in molti ad avere la
testa pesante per i postumi di una sbornia.»
«E poi? Che cosa è successo?» Le sue pause di riflessione mi
rendevano quanto mai impaziente.
«Oh... Ritornammo al campo e correggemmo i nostri piani, e
poi dormimmo per alcune ore. Appena prima di mezzanotte, il
generale Pico partì con la sua cavalleria, per fare un largo tragitto
circolare che molto prima dell'alba li avrebbe condotti sulla cresta a
ovest della roccaforte. La notte precedente, mentre io ero nella valle
con i miei uomini, aveva mandato degli esploratori a segnare la
strada.»
Guardò Uther. «Due ore dopo, re Ullic e Uric, tuo padre,
partirono con i loro arcieri, e subito dopo partirono anche gli altri, e
io rimasi con una scorta di venti uomini a cavallo, e mi appostai sul
pendio della collina che avevamo utilizzato come punto di
osservazione. E poi si trattò solo di attendere la luce del giorno.»
Tito ridacchiò e scosse la testa.
«Perché ridi?» gli chiesi.
«Ricordavo. Non ho mai visto niente di così bello, e tra tutti io
godevo della vista migliore. Era davvero magnifico.» Scosse ancora la
testa, sorridendo beato.
«Allora?» Uther era anche più impaziente di me. «Racconta!»
«D'accordo. Che cosa accadde otto anni fa e poi di nuovo due
anni fa, di cui sono al corrente tutti i Sassoni?»
«Le legioni se ne sono andate.»
«Esatto. Le legioni se ne sono andate. Immaginate perciò l'alba di
un mattino d'estate, proprio quando gli uccelli iniziano a cantare, e
c'è un campo di predatori sassoni, al sicuro dietro le mura di pietra
sulla cima di una collina, e d'un tratto in lontananza sentono un
suono che non si aspettano e che non vorrebbero mai sentire: il
rullio di un tamburo. E lungo la valle sopraggiunge uno spettacolo
che nessuno di loro avrebbe mai pensato di rivedere in Britannia.
Una truppa di soldati romani. Legionari, a passo di marcia, in
completa armatura, elmi, scudi, lance e mantelli, e al comando tre
centurioni a cavallo. Un intero manipolo, centodieci uomini, in
marcia lungo la valle. Improvvisamente il trombettiere lancia un
segnale e tutti scattano a passo di corsa. Scommetto la mia migliore
armatura da parata che in tre minuti dal primo battito di tamburo
non c'era un solo sassone ancora addormentato. Ma poi,
inaspettatamente, il centurione anziano scorge il campo sulla collina
e da ordine di fermarsi. Tutto si ferma. I soldati sono quasi ai piedi
della collina. Il centurione manda un soldato in esplorazione. I
Sassoni sono quasi tutti nascosti sulle mura. Il soldato si avvicina,
esita, avanza, si blocca, vede qualcosa di sospetto e si volta facendo
cenno al manipolo di allontanarsi. Qualcuno dal campo scaglia una
freccia. Lo manca, e il soldato si mette a correre giù per la collina. Il
centurione anziano grida un ordine, i suoi uomini si girano, e di
corsa tornano per dove sono venuti. Romani, che scappano! I
Sassoni si riversarono giù dalle mura in un'onda compatta che
ricopriva tutto il pendio della collina, e la ritirata si tramutò in una
rotta; i legionari correvano verso le paludi alla massima velocità
permessa dalle loro gambe. E i Sassoni li seguivano, diritti lungo il
sentiero che passava in mezzo alle due file di arcieri nascosti sotto la
copertura di erba e giunchi che avevamo approntato due sere prima.
Quando i legionari ebbero raggiunto il punto concordato, la tromba
suonò ancora, e gli arcieri gettarono la copertura e si disposero al
massacro. I Sassoni erano intrappolati tra le due file di arcieri,
ventisette su ciascun lato. I Celti scagliavano una freccia dopo l'altra,
in un continuo tendersi degli archi, e il sassone più vicino doveva
fare cinquanta passi di corsa sotto quella pioggia di frecce per poterli
impegnare in un corpo a corpo.»
Uther e io eravamo ammaliati.
«Intanto» riprese a parlare Tito, «non appena il nemico si era
messo a inseguire i legionari in fuga, la cavalleria aveva sferrato un
attacco lungo la cresta senza trovare opposizione. Prendemmo quel
posto al primo attacco e non perdemmo un uomo. Lo squillo di
tromba che aveva fatto entrare in azione gli arcieri aveva anche dato
al manipolo il segnale di rimettersi in formazione. Quando
iniziarono a scarseggiare le frecce, una formazione a losanga di fanti
perfettamente disciplinati era pronta all'assalto. I Sassoni corsero in
direzione del loro accampamento, ma sulla vetta videro i nostri
cavalieri. Quelli che mantennero un minimo di sangue freddo
poterono solo correre verso la mia posizione, attraverso l'apertura
appositamente lasciata su un lato dagli arcieri. Non ne erano rimasti
più di trenta quando uscii allo scoperto con il mio squadrone per
spazzarli via. Non ho nemmeno sporcato la spada di sangue.»
«Li avete uccisi tutti?» chiesi con voce tesa.
«Fino all'ultimo. Gli arcieri di tuo zio sono spietati. Nessun
prigioniero.»
«E le donne che erano nell'accampamento?» La domanda di
Uther mi sorprese. Mi ero completamente dimenticato delle donne.
«Le donne? Abbiamo dato loro del cibo e le abbiamo lasciate
tornare a casa.»
«E l'accampamento?» Per me, era molto più importante delle
donne.
«L'abbiamo distrutto completamente. Abbiamo abbattuto le
mura. Non erano alte come le nostre, sembravano delle palizzate di
pietra. Abbiamo sparpagliato le pietre. Nessuno lo riutilizzerà mai
più come accampamento. E questo è tutto. Tranne per un'ultima
cosa, l'idea di tuo padre, Caio. Abbiamo ammucchiato i cadaveri dei
Sassoni in una enorme catasta, badando che portassero ancora elmo
e armi. In futuro, chiunque troverà quel mucchio di ossa saprà che
erano Sassoni e che sono morti in battaglia contro un esercito assai
più possente di loro.»
«Quanti erano, Tito?» chiese Uther. «Li hai contati?»
«Sì, trecento, più una ventina. Probabilmente la notte prima era
arrivato un altro grosso gruppo, dopo il primo che avevamo visto
entrare con le donne.»
Uther era impressionato. «E avete lasciato trecento uomini tutti
in un mucchio?»
«Una montagna di uomini morti, Uther Pendragon. Quel posto
puzzerà per i prossimi cinque anni. Ma dimostrerà a chiunque che in
questa terra non c'è spazio per i Sassoni vivi.»
Rimasi lì seduto, a fissare il fuoco e a cercare di immaginare una
catasta di trecento uomini morti. Chissà quante ossa!
Quelli furono anni di cambiamenti per la nostra terra, incentrati,
agli occhi dei comandanti della Colonia, su due necessità impellenti:
il cibo e le armi. La prima spedizione punitiva, unita a un altro quasi
simultaneo evento, segnò nella vita di Camulod l'inizio di una nuova
fase, così come gli avvenimenti cruciali descritti nelle cronache di
Caio Britannico e Publio Varro: il matrimonio di Varro e Luceia, che
fu il principio di tutto, la decisione di fortificare la collina dietro la
villa, il primo incontro con Ullic Pendragon, e le truppe a cavallo.
L'altro evento capitale passò in gran parte inosservato tra la
gente comune di Britannia. Solo il Concilio dei vescovi e i pochi
centri governativi rimasti ne furono informati. Al principio dell'anno
una delegazione di vescovi, agenti come messaggeri della Chiesa, era
stata inviata su una delle ultime galee armate a implorare
l'imperatore Onorio di intercedere per conto della Chiesa, e di
mandare in Britannia delle truppe regolari che servissero come
catalizzatore per le forze difensive dell'isola. La delegazione ritornò
la primavera seguente, all'incirca nel periodo del nostro intervento
sull'insediamento sassone, con la risposta di Onorio: la Britannia
;doveva organizzare le proprie difese e non cercare l'aiuto delle
forze imperiali.
Quel messaggio, unito alla distruzione dell'insediamento sassone
- l'Incursione di Pico, così veniva chiamata - costrinse i Consiglieri di
Camulod a riconoscere che in materia di difesa non potevano più
mantenere una politica isolazionista. Avevamo scoperto l'esistenza
della base sassone quasi per caso, e avevamo mandato una
spedizione a liquidare una banda di centocinquanta nemici. Ci
eravamo scontrati con una forza di più di trecento uomini, e c'era
mancato poco che arrivassimo troppo tardi per ostacolare con
successo la presenza nemica ormai sulla soglia di casa.
La lezione era ovvia: allo scopo di prevenire l'insorgere di
analoghe minacce così vicine a noi, i coloni di Camulod avrebbero
dovuto estendere i pattugliamenti oltre l'attuale perimetro della
Colonia, coprendo una superficie immensa, perché se Camulod era
al centro di un cerchio, ogni miglio di raggio in più comportava un
enorme aumento dell'area contenuta nel cerchio protetto. Era un
imperativo scomodo, ma inevitabile; non c'erano alternative. Così
città e villaggi che non avevano mai sentito parlare della Colonia
vennero visitati da pattuglie di soldati disciplinati, e il nome di
Camulod echeggiò per tutta la regione. Gli abitanti seppero di non
essere più soli e indifesi. Vennero avvertiti di stare in guardia, e
informati sul modo di trovare Camulod se avessero avuto impellente
bisogno di soccorso armato.
Uno dei primi risultati di questa nuova consapevolezza fu un
drammatico afflusso di aspiranti coloni, per lo più totalmente privi
delle qualifiche necessarie per essere ammessi nella Colonia.
Arrivavano a centinaia, in cerca di asilo, e in centinaia dovevamo
respingerli, non per durezza di cuore ma per necessità. Da quando
avevamo fondato la Colonia, avevamo sviluppato un'economia
fondata sull'approvvigionamento. Potevamo mangiare solo ciò che
producevamo, e subito ci trovammo di fronte all'impossibilità di
nutrire tutti coloro che si presentavano alle nostre porte. Filantropia
e sopravvivenza non erano per noi concetti compatibili,
Sistemammo un cordone di posti di guardia intorno alle nostre terre,
con l'unica funzione di allontanare gente che non potevamo
impiegare. Per gli uomini che si davano il cambio ai posti di guardia
era una responsabilità terribile, che li investiva in effetti del potere di
vita e di morte su tutti coloro che cercavano di entrare a Camulod.
Molti, purtroppo, ne abusarono: qualunque donna darebbe il
proprio corpo in cambio della vita, ed è raro il soldato semplice in
grado di resistere alle astuzie sessuali di donne determinate e
disperate, soprattutto donne giovani e provocanti. Poco dopo
l'introduzione del cordone di guardia incominciammo a notare nella
Colonia la presenza di un gran numero di giovani donne nubili, e
dovemmo prendere severe misure disciplinari per fermare
l'inondazione, o almeno ridurla a un rigagnolo, I giovani che si
presentavano venivano giudicati in base alla loro attitudine come
soldati, perché gli impegni che ci eravamo assunti avanzavano
eccessive pretese principalmente sulle nostre risorse militari. Al
riguardo mio padre fu inesorabile. Fin dall'inizio accettò solo i più
forti, perché presumeva, e dimostrò ben presto di avere ragione, che
avremmo avuto un'ampia possibilità di scelta.
I soldati a piedi riassunsero presto un ruolo importante nella
nuova Camulod, perché esaurimmo rapidamente i cavalli da
destinare alle reclute. Entro un anno dall'avvio della nuova politica,
erano stati stabiliti dei distaccamenti in mezza dozzina di
accampamenti decentrati a varie distanze da Camulod. Questi 58
accampamenti, come gli accampamenti romani quattrocento anni
prima, iniziarono ad attirare gruppi di coloni che dipendevano dalla
sicurezza e dalla promessa di difesa e di sopravvivenza che gli
accampamenti erano in grado di fornire. Di conseguenza vennero
dissodati altri terreni, e seminati nuovi raccolti, e tutti beneficiammo
di ulteriori scorte alimentari. Ai nostri cancelli si presentarono anche
molti artigiani, con i loro utensili e i segreti della loro arte, e nessuno
di questi fu mai respinto. Erano innegabilmente preziosi, e felici di
lavorare per il benessere collettivo in cambio di una casa sicura.
Secondo il mio pensiero, invece, il cambiamento più significativo
prodotto dall'Incursione di Pico riguardò l'atteggiamento del popolo
di Ullic nei nostri confronti. L'azione era stata il loro primo vero
assaggio della potenza dei loro nuovi archi lunghi, strategicamente
utilizzati in combinazione con una fanteria e una cavalleria
disciplinate, e ne volevano ancora. Ma i cinquantaquattro arcieri che
avevano partecipato alla spedizione erano gli unici che Ullic era in
grado di fornire, e qualunque aumento nel loro numero dipendeva
dalla disponibilità di legno per nuovi archi. La costruzione dei grandi
archi era nelle mani capaci dell'anziano maestro Cymric, che aveva
creato il primo, e dei suoi due figli, e ogni arco era un capolavoro
unico. Quell'arma, e l'albero che ne era la fonte, divennero ben
presto la forza che dominava il regno di Ullic. Quando i guerrieri ne
appresero e ne conobbero il potere, non ci fu bisogno di dire loro di
non rivelare ad altri il nome dell'albero. Il tasso divenne sacrosanto
nello spazio di una notte, dal giorno in cui il primo arco venne
completato, e la sua sacra inviolabilità contribuì alla nascita della
leggenda che tutt'oggi lo circonda. Come albero, il tasso rientrava
nella giurisdizione religiosa dei druidi, e in breve ogni druido si
aggirò per la regione con l'assistenza di un bastone lungo sette piedi.
Chiunque fosse stato abbastanza curioso, si sarebbe forse accorto che
quei bastoni erano stranamente simili: erano tutti della stessa
lunghezza e dello stesso diametro, ed erano tutti di legno di tasso.
Ma nessuno se ne accorse, e i druidi continuarono a girare per la
regione, tagliando i loro bastoni di tasso ovunque li trovassero,
mentre nei sentieri nascosti tra colline e foreste, reconditi boschetti di
tasso crescevano incustoditi, tranne che per l'occhiata puntuale e
fugace di qualche druido errante.
Ullic e Uric stabilirono per il loro popolo una nuova legge.
Nessuno poteva possedere un arco. Ciascuno ne era custode per un
certo periodo di tempo, e fintante che l'arco era in sua custodia, era
responsabile delle sue condizioni e del suo buono stato; tutti gli
uomini dovevano venire addestrati al suo uso, e tutti dovevano
essere costantemente attenti nell'individuare arboscelli di frassino
diritti, con cui poter fare frecce.
Alla fine del secondo anno dopo l'Incursione, Uric aveva
centoquattro archi lunghi e cinquecento arcieri bene addestrati, ma
ancora non poteva prendere parte attiva alle nostre imprese militari.
Era costretto a tenere i suoi archi sulla sua terra, dove potevano
venire utilizzati per l'addestramento; gli archi corti che i suoi uomini
avevano usato in passato non erano più adatti. Proprio come
l'introduzione della spada lunga aveva richiesto dei cambiamenti
nelle tecniche di addestramento, così l'arco lungo obbligava gli
uomini di Ullic ad adottare nuove tecniche di addestramento. Ma il
popolo delle colline era determinato a essere pronto per qualsiasi
emergenza, e così organizzammo una catena di torri di segnalazione,
seguendo il modello delle torri di guardia romane, affinché le nostre
due comunità potessero comunicare rapidamente.
A Camulod, Equo e Varro tennero costantemente al lavoro i
loro armieri, per forgiare le nuove spade lunghe destinate agli
uomini a cavallo, e le vecchie spade corte per la fanteria, e ancora
una volta gli apprendisti furono assegnati alla fabbricazione di
pesanti scudi per i soldati a piedi. Tutta Camulod risuonava dei
martelli delle fucine e del fragore delle armi dei soldati alle
esercitazioni, e infine tutti si abituarono al rumore e al continuo
frastuono dei preparativi militari.
Frattanto, io e Uther crescevamo in forza e in età, e io spulciavo
invano i libri di mio zio alla ricerca della domanda che mi avrebbe
autorizzato ad apprendere il suo grande segreto.
V.
I mesi diventarono anni, e disperavo talvolta di riuscire mai a
porre a mio zio l'esatta domanda. Per tre anni lessi e rilessi appunti e
cronache, e gli posi ogni domanda che mi si affacciò alla mente.
Molto appresi di tecniche guerriere e strategie, della storia e delle
lezioni del passato, e molto più appresi del carattere, della saggezza
e della personalità del mio tutore. Ma non trovai la domanda che mi
avrebbe fornito l'accesso al suo maggior segreto.
Poi un giorno notai un'incongruenza che prima mi era sfuggita.
Dapprincipio non fu altro che un impercettibile piccolo dubbio in
fondo alla mia mente, ma la sua amorfa insistenza mi tormentava, e
a lungo me ne adombrai senza tuttavia mettermi in cerca della sua
origine.
Nell'Armeria dello zio, Uther e io eravamo sottoposti a una
regola cardinale: pur essendo i benvenuti, ci era proibito toccare i
tesori ivi custoditi, e, pena l'esilio, ci era proibito dare sfogo alla
nostra esuberanza con giochi materiali di qualunque genere. Il resto
di Camulod ci offriva piena libertà e briosi divertimenti. Quella
stanza era solo per lo studio. Poiché nei dintorni c'era sempre un
adulto, normalmente non avevamo difficoltà a conformarci a quella
regola, ma in una terrificante circostanza Uther mi fece lo sgambetto,
così per scherzo, mentre trasportavo un pesantissimo libro. Caddi,
ovviamente, ma caddi addosso al tavolino che reggeva la statua di
nonno Caio, quella che zio Varro chiamava la Signora. Il tavolino si
rovesciò e la statua colpì il pavimento con un orribile frastuono che
ci paralizzò entrambi, perché le porte dell'Armeria erano aperte.
Uther imprecò e annaspò per rimettere in piedi il tavolino, e io
raddrizzai la statua consapevole del suo enorme peso - gemetti per
lo sforzo di sollevarla abbastanza in alto, e Uther dovette aiutarmi a
rimetterla sul tavolo - e consapevole anche della sgorbiatura nella
superficie lucida del prezioso pavimento di legno di zio Varro.
Quella sgorbiatura sembrava vasta e profonda come un burrone.
Sapevo che l'avrebbero vista, e che non avevamo modo di
nasconderla. Pensai di spostarci sopra il tavolino, ma il segno era
lontano un buon passo, troppo lontano perché un trasferimento
avventizio potesse passare inosservato. Lasciammo tutto così
com'era. Riposi il libro che avevo preso e sgattaiolammo fuori di lì
più in fretta che potemmo, aspettandoci a ogni passo di venire
bloccati dalla voce irosa di un adulto.
Come poi scoprimmo, nessuno aveva udito il rumore, nel corso
della giornata nessuno si accorse del segno sul pavimento. Dopo lo
spavento iniziale, ridacchiammo insieme dell'accaduto, ripensando al
trauma subito e al rischio di incorrere nel dispiacere dello zio.
Soltanto quella sera, prima di addormentarmi, divenni cosciente di
una minuta incertezza, un'anomalia, un'irritante, indefinibile
incongruenza sepolta nella mia memoria.
Ero un ragazzo pratico, dotato di una mente logica e inquisitiva.
Non mi piacevano i misteri e non tolleravo i misteri irrisolti, perciò il
giorno seguente ripassai tutta la scena, più e più volte, esattamente
come era successa. Io portavo il libro, Uther mi aveva fatto lo
sgambetto, io ero caduto contro il tavolino, poi Uther aveva
raddrizzato il tavolino, io avevo sollevato la statua in posizione
eretta e insieme l'avevamo issata al suo posto sul tavolino. Allora
avevo visto il buco nel pavimento ed ero stato colto dal panico
perché era così evidente. Avevo raccolto il libro, che cadendo si era
aperto ma era fortunatamente intatto, e l'avevo riposto, e poi
eravamo scappati entrambi dalla stanza. Che cosa non andava?
Perché tanti dubbi? L'unica cosa che infine mi venne in mente fu
l'orrendo pensiero che il libro cadendo si fosse rovinato, e che io
non avessi rilevato l'estensione del danno, giudicandolo
insignificante rispetto al danno infetto al pavimento. Più ci pensavo,
più quel pensiero mi raggelava. Conoscevo l'elevato valore che zio
Varro attribuiva ai suoi libri. Per Uther non erano importanti, ma io
non potevo non saperlo. Era la sgorbiatura nel pavimento che non
era importante. Se zio Varro avesse scoperto che per l'irriverenza di
uno sciocco ragazzino avevo rovinato, o anche solo sciupato, uno
dei suoi preziosi libri, avrebbe potuto vietarmi per sempre di
consultarli.
Arrabbiato con Uther per la sua incosciente stupidità e mancanza
di rispetto, corsi dalla mia stanza fino all'Armeria. Incontrai mio zio
che ne usciva, bianco in volto e infuriato, seguito da un altrettanto
pallido servitore. Mi fermai con una scivolata vedendolo piombare
su di me, e chinai vergognoso il capo per accogliere la sua collera,
ma lui mi ignorò, e passò oltre come se neanche ci fossi stato. Senza
quasi osare credere alla mia buona sorte, entrai nell'Armeria deserta
e mi diressi al tavolo e ai suoi preziosi libri. Erano ancora tutti lì,
incluso quello che stavo cercando. Era uno dei libri di nonno Caio, e
ricordavo di avere pensato, quel fatidico giorno, che da anni non mi
ci immergevo, sebbene conoscessi l'intero testo ormai a memoria. Lo
presi e lo esaminai con cura. Era assolutamente intatto; né un segno
né un'imperfezione visibili.
Con una sensazione di grande sollievo perché mi ero sbagliato e
tutto era in ordine, avvicinai uno sgabello, mi misi comodo e aprii il
libro a caso, ripiegando i pesanti fogli di pergamena sulle legature
che li tenevano uniti, e iniziai a leggere dei dubbi del nonno sulle
pietre del cielo, e su come le pietre potessero cadere dal cielo
avvolte dalle fiamme. E allora la mia memoria fece un balzo e
richiusi di schianto il libro e cercai tra gli altri finché non trovai
quello che cercavo, ed ecco le parole, scritte come ricordavo nella
chiara grafia del nonno:
...mi protesi per sollevarla. «Attento, Caio! È più pesante di
quello che pensi» mi avvertì Publio. «Ecco, lascia che ti aiuti.»
Insieme la sollevammo e la portammo, con qualche difficoltà,
attraverso il cortile e dentro casa e la sistemammo nel mio studio sul
tavolo accanto alla finestra...
Quella era la fonte del mio mistero, l'anomalia che mi affliggeva!
Non avevo mai visto il nonno, ma zio Varro era forte e massiccio, e
tuttavia c'era voluta la forza di entrambi per portare la statua «con
qualche difficoltà» dalla fucina dentro casa. Ma Uther e io l'avevamo
sollevata dal pavimento, anche se con manifesta fatica, e l'avevamo
rimessa sul tavolo. Avrei potuto portarla da solo per una breve
distanza, se l'avessi presa saldamente, e non avevo il minimo dubbio
che Uther e io assieme avremmo potuto trasportarla per la distanza
che avessimo voluto. Ma Uther e io avevamo tre mesi meno di
dodici anni. Zio Varro e mio nonno, ai tempi di cui scriveva mio
nonno, erano uomini adulti, uomini grandi e forti. Per quanto ormai
anziano, zio Varro era ancora più forte di me e Uther messi insieme.
Mi alzai lentamente e mi accostai alla statua, tesi la mano e
passai un dito sulla superficie fredda, rivedendo mentalmente altre
frasi che parlavano di «curve generose», e seni e natiche «opulenti».
Pensai a Occa e ai suoi grossi seni, al ventre e alle natiche. Erano
opulenti. Ma per quello che ne sapevo io, la parola non si adattava
alla forma della Signora.
Sentii un movimento dietro di me e mi voltai, e vidi zio Varro
che mi fissava, con una strana espressione che mi fece rinascere
dentro la paura.
«Zio?»
Mi ignorò, si girò adagio e uscì dalla stanza e, mentre così
faceva, io scorsi sulla sua guancia una striscia umida. Quella vista mi
sconvolse e rimasi lì a bocca aperta a guardarlo che si allontanava.
Sapevo che era successo qualcosa di brutto; non appena se ne fu
andato corsi a scoprire che cosa. Incontrai Uther in un corridoio, che
veniva a cercarmi per darmi la notizia. Equo, l'amico più caro di mio
zio, era stato trovato morto nella fucina. Sembrava che stesse
lavorando da solo, quando era morto, e che fosse caduto davanti
all'incudine. Quando l'avevano trovato, la lama alla quale stava
lavorando era fredda, ma prima di raffreddarsi si era aperta nelle
gambe di Equo una strada bruciante fino all'osso.
Uther si voltò e corse verso le stalle non appena si fu liberato
della strabiliante notizia, supponendo che io gli sarei stato alle
calcagna, impaziente quanto lui di vedere qualsiasi cosa ci fosse da
vedere, ma io non accennai nemmeno a seguirlo. Le sue parole
eccitate mi avevano repentinamente gettato in uno stato di
completo terrore e disgusto incontenibile, e crollai a terra,
stringendo forte le ginocchia tra le braccia mentre il sudore freddo
della nauseabonda paura mi ammorbava la pelle rovente.
Avevo sognato la morte di Equo due notti prima, ma la sua
agonia era stata la mia! Rabbrividii d'orrore ricordando i tremendi
dettagli del dolore straziante che mi aveva consumato e che mi
aveva destato urlante nel buio della mia stanza. Una striscia di
dolore incandescente mi era caduta di traverso sulle gambe, e mi
aveva bruciato le cosce e l'inguine, e io avevo visto il fumo eruttare
dall'atroce ferita, e avevo sentito il puzzo della mia stessa carne
carbonizzata.
Già da tempo ero ossessionato da simili sogni. Anzi, non
ricordavo momento in cui non fossi stato turbato dall'informe
ricordo di un terrore notturno. Quei sogni non capitavano con
frequenza, ma quando capitavano mi svegliavo inorridito, sul punto
di vomitare per la nausea e zuppo del sudore dell'abietta paura.
Rammentavo di rado i particolari, ma invariabilmente soffrivo per
ore, straziato dai brividi e dai crampi e da una nausea dolorosa. E
sempre i sogni che erano stati informi tornavano in schegge e
frammenti a ossessionarmi durante la veglia, inaspettatamente
evocati da un incidente o da un caso che pareva risvegliarmi echi
nell'anima e spaventarmi senza ragione.
Adesso era successo di nuovo, ma questa volta non potevo
negare la realtà. Equo, il gigante gentile e amichevole, il compagno
di tutta la vita di zio Varro, era morto proprio nel modo che io
avevo sognato! Immagini di Equo mi illuminarono a sprazzi la
mente, e tutte lo ritraevano come l'avevo sempre conosciuto, al
lavoro da solo con il suo benamato ferro nella penombra fuligginosa
della sua fucina. Le scintille si levavano a spruzzi dal martello che
affettuosamente foggiava il metallo riscaldato nella fornace e
destinato a spade, punte per le lance e vomeri per gli aratri, e
improvvisamente lo vedevo cadere, abbandonare le tenaglie e la
loro preda rovente, e ancora sentivo il dolore e l'odore della carne
bruciata.
Non so per quanto tempo rimasi lì acquattato in atterrita
solitudine, ma infine mi rialzai e uscii nella luce del pomeriggio.
Nessuno tentò di fermarmi, e corsi per miglia, cercando invano di
fuggire al terrore che portavo dentro di me. Mi sedetti poi sotto un
albero e piansi, tremando per una colpa indefinita fino a quando il
tremito nelle mie membra si placò. E per un poco dormii.
Al mio ritorno a Camulod, però, non parlai a nessuno di quello
che pensavo, o di quello che provavo, o di quello che avevo
sognato. Avrebbero pensato che ero pazzo. A volte - in quelle rare
occasioni in cui riuscivo a vincere le mie profonde reticenze quel
tanto da riflettere brevemente sull'origine dei miei terrori - pensavo
anch'io di essere pazzo. E così costrinsi me stesso a dimenticare
l'intero incidente. Solo un'altra volta, quando zio Varro disse che
Equo non poteva aver sentito male, perché il colpo apoplettico
doveva averlo reso incosciente, provai il morso della colpa e della
paura.
Quell'episodio segnò nella nostra casa l'inizio di un tragico
periodo. I druidi dicono che le morti avvengono a tre per volta e
ora, alla mia veneranda età, devo ammettere che il tre mi è sempre
parso un numero potente, dotato di mistiche propensioni, e mai più
che nello strano frangente di quelle morti. Il vecchio vescovo
Alarico, amico intimo e di antica data sia di mio nonno sia di zio
Varro, morì nel sonno tre giorni dopo Equo, e la sua morte venne
scoperta alla terza ora del mattino. Quel mese morì anche il mio
prozio Ullic, il nonno di Uther, con la schiena spezzata per una
caduta da una roccia. Per tutta la vita si era seduto su quella roccia,
un masso sul pendio spoglio di una collina dal quale giurava di poter
dominare tutto il suo regno. Dissero che si era alzato per discendere
dal suo seggio, e che semplicemente era caduto all'indietro, come se
con i talloni avesse mancato una sporgenza, che però non c'era.
Non ci fu allegria nella nostra casa quell'inverno e per molto,
molto tempo non ebbi l'opportunità di parlare a mio zio del mistero
della statua. Solo in primavera mi ritrovai solo con lui, e con lui nella
disposizione di spirito che potesse alfine lasciare spazio alla mia
curiosità. Era quel genere di pomeriggio al quale mi ero abituato
durante i lunghi mesi invernali. Zio Varro non aveva più scritto dal
giorno della morte di Equo, accontentandosi di restare seduto
immobile vicino al fuoco, con gli occhi distanti come se stesse
vivendo altrove. I capelli, e anche la barba erano diventati bianchi, e
sembrava molto vecchio. Quel giorno leggevo, e Uther era in giro
per i fatti suoi, probabilmente nei boschi più in basso con qualche
ragazza. Zia Luceia era entrata nella stanza e l'avevo a malapena
sentita affaccendarsi intorno a mio zio. C'era stata menzione del
"ragazzo", e poi se n'era andata.
Poco dopo, mio zio parlò. «Che cosa stai facendo, Caio?»
«Leggo, zio.» Era la prima volta da mesi che mi rivolgeva
direttamente la parola.
«Lo vedo, ragazzo. Che cosa leggi? É questo che voglio sapere.»
«I tuoi libri, zio. Stavo leggendo della tua fucina a Colchester.»
Mi sentii mancare quando mi resi conto che avrebbe
immediatamente pensato a Equo, e temetti che si sarebbe
nuovamente ritirato nei suoi pensieri, ma fui sorpreso.
«E allora? Perché ti interessa?»
«Ebbene, stavo rileggendo di quando hai trovato il pugnale che
tuo nonno aveva fatto per te.»
«Ah, il pugnale di pietra del cielo.» Tacque per un attimo,
ricordando, e poi, proprio quando pensavo che si fosse scordato di
me, parlò ancora. «Era bellissimo, Caio, l'oggetto più bello che avessi
mai visto. Equo l'aveva nascosto, con tutti gli altri tesori che mio
nonno aveva lasciato per me. Povero Equo! Sento la sua mancanza,
Cai. Tu non hai mai visto quel pugnale, vero?»
«No. L'hai seppellito assieme al nonno, quando io ero ancora
piccolo.»
«Già. Mi sembrava giusto.»
«Zio?»
«Sì? Che cosa?»
«Perché hai seppellito il pugnale con il nonno? Doveva essere di
grande valore.» Lo guardavo, ed ero felice di rivedere quel sorriso
sincero e affettuoso, assente da troppo tempo su quel volto caro.
«Credi che abbia sbagliato a seppellire l'oggetto che amavo di
più con l'uomo che avevo amato di più?» Fece una breve pausa di
riflessione. «Beh, probabilmente altri sarebbero d'accordo con te.»
Ancora una pausa. «Chissà se riesco a spiegarti. Quel pugnale era un
sogno, Cai. Un sogno divenuto realtà per tuo nonno e per me. Ma
Caio Britannico aveva un altro sogno, anch'esso divenuto realtà.»
«Camulod» dissi.
«Camulod. La sua Colonia. Il mio pugnale, con quella lama così
fulgida, mi sembrava incarnare tutto ciò che aveva spinto me e tuo
nonno a realizzare i nostri sogni. Era la prova lucente che dalla
mente degli uomini possono sorgere cose grandi e portentose, cose
miracolose. Indicava a entrambi la via, e ci portò alla soddisfazione.
Perciò, quando morì, mi parve giusto che dovesse portarlo con sé,
dovunque andasse. Li ho seppelliti insieme, e non me ne sono mai
pentito.» Mi fissò. «Ha senso, per te?»
«Sì, zio, ma ho una domanda da farti. Posso fartela adesso?»
«Certamente! Da quando hai bisogno del permesso per fare
domande?»
Non espressi alcun commento, ma procedetti con la domanda
che da mesi mi rendeva perplesso. «Sai la statua? La Signora?»
«La Signora del Lago. Che cosa vuoi sapere?»
«Davvero è stata fatta con una pietra del cielo?»
«Tu che cosa credi?»
«Credo di sì. I libri, tuoi e del nonno, dicono di sì.»
«E allora? Era questa la tua domanda?»
«No, veramente no, ma...» Adesso che era giunta la mia
occasione, non mi venivano le parole. «Ti ricordi la prima sera in cui
nonno Caio vide la statua nella fucina?»
«Perfettamente. Perché?» Se ne stava lì nella sua poltrona, e mi
osservava incuriosito, con un sopracciglio alzato.
«Nonno Caio dice nel suo libro che l'avete portata in casa in
due, quella sera.»
«Proprio così. É una signora pesante.»
«Non è più tanto pesante, zio.» Si drizzò a sedere, mutò
espressione, la coperta che gli avvolgeva le spalle scivolò via
inosservata. Io deglutii a fatica e andai alla carica. «L'ho fatta cadere,
un giorno, e poi l'ho alzata e l'ho rimessa sul tavolo. Ha fatto una
sgorbiatura nel pavimento, laggiù.» Indicai il punto esatto, ma non lo
degnò nemmeno di un'occhiata.
«E allora? Che cosa vuoi dire, ragazzo?»
«Solo che se è... se la statua fosse così pesante come diceva il
nonno, io non dovrei riuscire ad alzarla.»
«Forse ha esagerato un poco. É tutto?»
«No, zio, non è tutto. Diverse volte, nei vostri libri, parlate
entrambi della Signora come se fosse più... grassa... più grossa in
qualche modo. E di conseguenza più pesante.» Feci silenzio, e zio
Varro mi guardò con estrema serietà.
«Te lo chiedo di nuovo, Caio. Che cosa vuoi dirmi?»
Sentii una specie di timor panico. «Non lo so, zio Varro.
Solamente che mi sembra strano, ecco tutto. Dovrebbe essere più
grossa.»
La sua voce era dolce e sommessa. «Caio, ricordi quel giorno di
qualche anno fa quando ti dissi che avrei aspettato da te una certa
domanda?» Annuii, con gli occhi sbarrati.
«Bene, mi hai quasi fatto quella domanda. Vorresti provare a
esprimerla con altre parole?»
A un tratto lo seppi! La domanda era nel libro del nonno, non in
quello di zio Varro! Avevo la bocca secca, e i miei pensieri correvano
all'impazzata. Mille domande possibili mi attraversarono la mente in
un lampo, e le respinsi tutte, tranne una, che sapevo essere proprio
la domanda giusta.
Tuttavia, prima di compromettermi con quella domanda, passai
in rassegna ciò che sapevo. Aveva seppellito il pugnale di pietra del
cielo con nonno Caio perché, diceva, il suo sogno si era avverato.
Aveva fuso la pietra del cielo nella statua di metallo perché, diceva,
non aveva ancora deciso quale uso farne. E adesso la statua era più
leggera, molto più leggera, se io riuscivo a sollevarla, e il suo più
grande tesoro era nascosto in quella stanza.
«Zio?» Aprì di scatto gli occhi, vigile e attento. «Dopo avere fuso
di nuovo la Signora, che cosa hai fatto con il metallo della pietra del
cielo?»
Ci fu un lungo silenzio prima che zio Varro si alzasse in piedi e
mi mettesse una mano su ciascuna spalla. «Caio» disse con voce
profonda, «a volte pensavo che non me l'avresti mai chiesto.
Cominciavo a temere che non te ne saresti mai accorto, perché
avevo coperto troppo bene le mie tracce. Portami i martelli di
legno.»
Confuso, ma tremendamente eccitato, andai subito alla parete
opposta e staccai i due martelli di legno ai quali si riferiva. Di tutte le
meraviglie contenute in quella grande stanza, erano gli oggetti più
innocui, e già da tempo avevo chiesto ragione della loro presenza.
Mi aveva risposto che erano solo dei ricordi, intagliati per lui da un
vecchio amico, la riproduzione dei martelli che usava per battere
l'argento. Attraversò la stanza a lunghi passi e chiuse i battenti della
porta, e abbassò la sbarra perché nessuno entrasse.
«Portali qui.» Andai da lui, fermo in mezzo al pavimento.
«Dammene uno.» Ubbidii. «Adesso mettiti lì, di fronte a me. Più
indietro, ancora. Adesso guarda a terra. Che cosa vedi?»
«Il pavimento. La fine di un'asse. Come quella ai tuoi piedi. La
stessa asse.»
«Che altro?»
«Le bullette che la fissano.»
«Appoggia la punta del manico di quel martello sulla bulletta di
sinistra.» Lo feci. Si adattava perfettamente. «Adesso spingi, con forza
e fermezza.» Mi si spalancarono gli occhi quando la bulletta
sprofondò nel pavimento, e la bulletta nell'angolo opposto dell'asse
si alzò dalla sua sede. «Così è abbastanza! Adesso, afferra la bulletta
sporgente e solleva.»
L'asse si sconnesse dal pavimento con facilità, rivelando nel
recesso sottostante una cassa oblunga di legno lucidissimo. Nel
coperchio della cassa, a circa due terzi della lunghezza dalla mia
posizione, era intarsiata una stella scolpita nell'argento, dalla quale si
dipartivano lunghi e ondeggianti crini d'oro. Riconobbi
immediatamente il significato di quel simbolo e rimasi imbambolato
a guardarlo, e a domandarmi quale miracolo potesse occultare.
Zio Varro interruppe la mia estasi rapita chinandosi a impugnare
le estremità di una correggia di cuoio adagiate sulla superficie della
cassa dalla sua parte. «Ehi» disse, «questa è solo la cassa. Tiriamola
fuori.» Strinsi tra le mani la correggia dalla mia parte e insieme
sollevammo la cassa. Non era pesante. Tenendola in equilibrio in
mezzo a noi, la riportammo alla luce e la deponemmo con
devozione su un tavolo. Con la punta delle dita accarezzai la
polvere che la rivestiva, e fui stupito dalla setosa levigatezza del
legno. «Tieni ferma la costa in rilievo sul fondo dalla tua parte.»
Le mie dita cercarono e trovarono la costa in rilievo, e
tennero ferma mentre zio Varro girava qualcosa e sbloccava
coperchio. Quando vidi che cosa c'era dentro la cassa, un fiotto
sangue alla testa mi fece quasi perdere i sensi. Ovviamente, era
Spada.
la
il
di
la
È qui accanto a me mentre scrivo. Gli uomini ne parlano da anni
ormai, perfino gli uomini che oggi possiedono questa terra. Molti la
cercano, e già qualcuno che pure vive in questa terra dubita della sua
esistenza. Non è mai esistita una Spada come quella, dicono, se non
nella mente di sognatori e menestrelli. Avrei potuto dire loro che si
sbagliavano, ma non sapevano nemmeno che ero nei pressi, e se mi
avessero visto mi avrebbero ucciso all'istante, così li lasciai nella loro
ignoranza e nei loro dubbi.
Molti hanno visto la Spada, ma non vive più nessuno che l'abbia
impugnata, tranne me. Entrò nella vita degli uomini comuni in un
momento di pura magia, e da quel giorno in poi tutti gli uomini la
credettero autenticamente magica; io suppongo che lo sia, se magica
significa che non è di questa terra.
Scrivo di uomini comuni e del modo in cui la Spada è entrata
nella loro vita in un giorno d'estate, perciò ora dovrei pensare di
essere straordinario, perché nella mia vita ci è entrata trenta e più
anni prima che chiunque altro la vedesse. I miei occhi furono tra i
primi ad ammirarne la bellezza; essa mi fu mostrata dall'uomo che la
creò; io divenni l'ultimo Custode della Spada. So che questo, se non
altro, farebbe di me un uomo straordinario. Oggi il mio nome viene
bisbigliato tra paura e sgomento. Mago, mi chiamano; stregone. Ciò
mi rende straordinario.
Ho udito sette storie della mia morte, e anche questo mi rende
straordinario, perché erano sette storie diverse di sette morti, e io
siedo qui vivo e solo, vecchio pieno della malinconia di lunghi anni
senza amici, transitorio guardiano del tesoro più grande del mondo.
E so che se una banda di razziatori dovesse penetrare nel mio rifugio
adesso, in questo istante, la vista del mio volto di vecchio li farebbe
fuggire, urlando, dalla mia vista. Ciò mi rende davvero, e nel modo
peggiore che posso immaginare, straordinario. Ma quel giorno nella
mia mente di ragazzo non avevo idea di essere straordinario. Me ne
stavo con le ginocchia molli e la bocca aperta a contemplare la
magnificenza di quell'arma cullata in un letto scolpito nella pelle
spazzolata di un vitello non nato, Vidi la mano di mio zio allungarsi
e toglierla dal suo letto, e quando la sollevò vidi i riflessi sfrecciare
lungo la lama.
«Siediti. Vicino al fuoco.»
A tentoni ritrovai la strada fino alla mia sedia, senza osare
distogliere lo sguardo dalla letale bellezza di quella lama per paura
che scomparisse. Mio zio si avvicinò e si sedette nella sua poltrona,
di fronte a me. Appoggiò la punta sul pavimento di legno in mezzo
a noi e tenne la Spada verticale, premendo la sommità del pomo
con il polpastrello del dito indice, affinché io potessi ammirarne ogni
profilo.
«Ebbene?» mi chiese. Scossi il capo, perché non avevo parole da
dire. I miei occhi non sapevano comprendere la purezza di quella
lama. Era quasi incolore, e tuttavia era di lucido argento, liscio e
immacolato e impeccabile. La luce del fuoco si diffondeva da essa in
un modo mai visto. Nemmeno lo specchio più fine del metallo più
lustro poteva riflettere il colore con tanta stupefacente perfezione.
«Prendila» disse mio zio. «Non ti morderà, anche se potrebbe.
Attento al filo. È più tagliente di qualunque cosa tu abbia mai
toccato. Avanti, prendila.» Tesi il braccio e chiusi la mano intorno
all'elsa, e ne sentii la consistenza contro il palmo. La faccia di mio zio
era divisa in due da un sorriso enorme, che in seguito compresi
essere il sorriso estatico e soddisfatto dell'artista e del creatore
sublime. «Ti piace?»
Di nuovo potei solo scuotere il capo. Adagio, iniziai a provarla.
Seduto com'ero mi ci volle la forza di entrambe le braccia per
sollevare la punta dal pavimento, ma poi la tenni in equilibrio e
sentii il suo peso adeguarsi alla mia presa come una cosa viva.
«É viva!» sussurrai. «Che nome le hai dato, zio?»
«L'ho chiamata Excalibur.»
«Excalibur?» ripetei, ancora in un sussurro. «Excalibur! È un bel
nome. Per una bella spada.»
Rise. «Già, guarda l'elsa. Vedi quel materiale grigio-nero che
riveste l'impugnatura? É la pelle della pancia di un pesce
mastodontico. Uno squalo. Me la sono fatta mandare anni prima
che tu nascessi. Un pescatore in Africa la usava per avvolgere
l'impugnatura dei suoi coltelli. Quella pelle non scivolerà mai dalla
presa di un uomo, per quanto sudi. É sempre ferma e dura, e mai
scivolosa. Come puoi vedere l'ho fissata con fili d'oro e d'argento
intrecciati in una rete. Mi ci sono voluti cinque mesi solo per legare
quell'elsa proprio come volevo.»
«E questa?» chiesi. «La traversa? Come è stata fatta? É d'argento?
È diversa dalla lama. Come l'hai fatta?»
«È tutta d'un pezzo, ragazzo. Un segreto che ho appreso da mio
nonno. Dammela, che ti faccio vedere.» Gli consegnai la Spada, e lui
la tenne alta davanti a sé, continuando ad ammirarla mentre
parlava. «Sai come si fa una spada, come si fanno tutte le spade.
Qual è la difficoltà principale?»
Semplice. «Unire l'elsa al codolo.»
«E perché?»
«Perché sono due pezzi differenti. Se la lama è corta e ampia,
puoi fissare i lati dell'impugnatura dentro il codolo, È il modo
migliore. Ma più la spada è grande, più è difficile attaccare
saldamente l'elsa. Puoi giuntarla, e poi legarla con del filo metallico,
oppure puoi praticare un buco per tutta la lunghezza dell'elsa,
inserire il codolo, e poi legare tutto insieme a un pomo appesantito
all'estremità contro il finale dell'impugnatura, appiattendoci contro il
codolo come un rivettino.»
Sorrise ancora, compiaciuto della mia conoscenza. «Bene! Ma c'è
un altro modo, Caio, ed è quello che vedi. Riesci a indovinare come
è stato fatto?»
Riguardai la Spada con attenzione, cercando questa volta di
ignorarne la bellezza e di vedere solo la sua costruzione. Aveva una
traversa che si estendeva per quasi tutta l'ampiezza della mia mano
di dodicenne su ciascun lato dell'elsa, e sui bracci della croce si
aggrovigliavano le morbide linee di foglie e rami spinosi. L'elsa era
lunga poco più del doppio di quella di una normale spada corta, ed
era ricoperta, come ho già descritto, da pelle di squalo fissata da una
rete di fili d'oro e d'argento. Il pomo, il pezzo estremo della Spada,
era una conchiglia perfetta per forma e dettagli, e la raggiera del
pettine era perfettamente simmetrica. All'apparenza il codolo non
era mai sporto attraverso il pomo. L'intera creazione, traversa e
tutto, era, come aveva detto mio zio, un unico pezzo. Mi scervellai a
lungo cercando una spiegazione, e poi feci segno di no con la testa.
«No, zio» dissi infine. «Vedo che è un pezzo unico, come hai
detto, ma non capisco come ci sei riuscito. Come l'hai fatto?»
Il suo sorriso esprimeva uno smisurato orgoglio. «Mio nonno mi
lasciò una pergamena che illustrava il metodo scoperto da un suo
amico nell'Africa settentrionale. È un metodo oscuro per colare
figurine di metallo intere, un tempo molto usato da Parti e Medi...»
Lo interruppi. «Per fare statue?»
«Sì, qualcosa del genere.»
«Oggi usano lo stesso metodo a Roma, vero?»
«Quasi. Qualcosa del genere, come ti ho detto. Secondo il
metodo romano, il metallo viene fuso in un crogiolo, colato in una
serie di stampi e lasciato raffreddare, e i pezzi uniti formano una
copia cava di metallo di quello che hai inteso duplicare.»
Aveva risvegliato il mio interesse. «Come prepari lo stampo,
innanzitutto?» gli chiesi.
Si alzò e da uno dei molti tavoli che c'erano nella stanza prese
un piccolo oggetto a forma di scatola che avevo visto tante volte da
perdere cognizione della sua esistenza. Me lo lanciò e io lo afferrai
come una palla, rischiando di farlo cadere a causa del peso
inaspettato.
«Quello è uno stampo. Se lo guardi attentamente, capirai da solo
come aprirlo.» Lo stampo si apriva in due metà, da una delle quali
sporgeva un emisfero d'ottone che mi era familiare. Lo liberai dalla
sua sede, e nel palmo della mano mi cadde una mela d'ottone. «Te
la ricordi?» La ricordavo. Ci avevo giocato da bambino. Annuii.
«Adesso guarda dentro lo stampo. Ciascuna metà è una perfetta
copia della superficie di metà della mela, fino al picciolo.»
Mi tolse di mano lo stampo e mise insieme i due pezzi,
indicando un foro otturato sulla sommità e una serie di fori più
piccoli tutto intorno alla forma. «Se colassi piombo, argento, oppure
oro fuso in questo stampo, e lo lasciassi raffreddare, aprendolo
troverei una mela. Una ripulita e una lucidata e sarebbe perfetta
come quella che hai in mano.»
«Ed è così che hai fatto la Spada?»
«No, certo che no! Solo l'elsa.»
«Scusami, è quello che intendevo.»
«Lo so, ma devi imparare a dire esattamente quello che intendi.»
«Sì, zio. Ma, se il segreto è tutto qui, perché non lo abbiamo
sempre usato?»
«Non ho detto che il segreto è tutto qui. Ho detto che era quasi
uguale al metodo generalmente usato. Il metodo che ho appreso è
differente. Si basa su tecniche differenti, Oggi tutti colano in stampi
di argilla, ed è quasi impossibile evitare che nel metallo fuso si
formino delle bolle d'aria. Ecco perché i nostri stampi sono cavi.
Quella mela che tieni in mano è massiccia, e così anche l'elsa della
spada. Chiesi a padre Andros di scolpirmi un'elsa di legno. Io ne feci
uno stampo di argilla e poi plasmai la stessa forma nella cera, in
modo da avere una perfetta copia di cera dell'elsa di legno, mi
segui?» Assentii con un cenno. «Bene. Poi infilai la copia di cera nella
sabbia molto compatta, e versai il bronzo fuso nello stampo. Il
bronzo fuse la cera e la sostituì, perfettamente, anche se non al
primo tentativo. Quando mi convinsi che il metodo era perfetto, lo
ripetei, questa volta con il codolo della spada inserito nella cera
dentro lo stampo. Funzionò, alla fine, ma ci vollero cinque mesi e
dieci tentativi perché riuscisse. Quell'elsa è assolutamente massiccia;
metallo legato a metallo.»
«Bronzo? Ma è d'argento.»
«No, Caio. É argento battuto sul bronzo.»
Tesi la mano e zio Varro mi restituì la Spada. Sollevai l'elsa e la
osservai ancora, accuratamente e minuziosamente. Non c'era traccia
di cuciture o giunture. «Come hai detto che si chiama, zio?»
«Che cosa? La tecnica? Non ha nome, che io sappia, ma mio
nonno scrisse che i popoli dell'Africa e dell'Asia Minore chiamano i
loro stampi qalibr.»
Quella parola suonava strana ed esotica, e mi faceva rizzare i
peli sulle braccia. «Qalibr » dissi. «L'elsa è uscita da uno stampo. Exqalibr. Ecco da dove hai preso il nome!»
La assaporai sulla lingua, e la pelle d'oca mi confermò che quello
era il nome perfetto. «Ex-qalibr!»
«Excalibur.» Mio zio sorrise, assecondandomi. «Sono contento
che tu approvi, Caio.»
VI.
Da quando vidi Excalibur, non mi uscì più dalla mente. Le altre
spade che avevo ammirato e desiderato per tanto tempo
diventarono ai miei occhi opache e goffe. Avevo una spada di legno
a lama lunga che era il mio tesoro, e quell'estate la portavo con me
ovunque andassi, di traverso sulla spalla nel modo che era stato
adottato dai nostri soldati a cavallo. Ricordo che la stringevo in
pugno quando si levò il grido che annunciava il ritorno di mio padre
e dei suoi uomini da un ennesimo interminabile giro di
perlustrazione. Corsi a vederli scalpitare lungo la strada ed entrare
nel forte, e ammirai come sempre l'imponenza e la maestosità di mio
padre, il loro generale. Tito cavalcava con lui, e così anche Flavio e
molti altri suoi ufficiali che avevo imparato a conoscere, e non
appena vidi che c'erano tutti, corsi nell'Armeria di mio zio, nascosi la
mia spada di legno tra i libri e finsi di leggere, ben sapendo che mio
padre e i suoi ufficiali sarebbero venuti lì a fare immediato rapporto
a zio Varro prima di andare ai bagni.
Zio Varro arrivò poco dopo di me e si mise al lavoro al suo
scrittoio, senza badare alla mia silenziosa presenza. Trascorsero
alcuni minuti, e il rumore degli stivali chiodati precedette mio padre,
Tito e Flavio, accompagnati da tre soldati che portavano ognuno un
fardello. A un cenno di mio padre, posarono i loro carichi sul
pavimento e uscirono.
«Saluti, Publio» disse mio padre indicando i tre oggetti sul
pavimento. «Guarda queste. Familiari?»
Da sotto la fronte aggrottata osservai mio zio avvicinarsi ai tre
oggetti, e spalancare gli occhi per la sorpresa. «La sella a sedia del
ragazzo!» La sua voce era piena di meraviglia. «É lo stesso aggeggio,
ma più grande. Dove le hai trovate?»
«Sotto a tre Franchi. Le fissano al dorso dei cavalli e ci si siedono
sopra. Le abbiamo provate anche noi. Inutili. Senza senso.»
«Come? Che cosa vuoi dire?»
«Che ci devi salire sopra! Non è possibile montare a cavallo in
altro modo. Infili il piede in quel congegno - quel cappio penzolante
- e fai passare la gamba sul dorso del cavallo. L'avevamo intuito già
dopo il ritrovamento della prima sella anni fa, rammenti? Pensammo
che quel ragazzo fosse storpio. A nessuno venne mai in mente che
uomini fatti potessero aver bisogno di uno scalino per salire a
cavallo. Quando ci sei sopra, la parte posteriore più elevata ti preme
contro il deretano in un modo bizzarro. È scomoda, e non riesci
nemmeno a stringere i fianchi del cavallo, per quanto è spessa.»
Mio zio era perplesso; pensieri inconcludenti gli solcavano
visibilmente il volto. «Eppure dici che cavalcano tutti su queste cose?»
Mio padre si sedette pesantemente su una sedia, facendo stridere
il cuoio della corazza. «Sì, sembra proprio di sì. Ne ho viste sette, ma
ne ho prese solo tre. Con gli arcieri di Uric avremmo potuto averle
tutte e sette.»
Mio zio scrollava il capo con una smorfia di assoluta
incomprensione. Toccò una delle ingombranti selle. «È strano, Pico.
Mi chiedo quale sia il vantaggio nell'utilizzare queste cose. Ci deve
essere qualche vantaggio. Non credi?»
«Sì, sembrerebbe logico» si dichiarò d'accordo mio padre,
parlando piano e con chiarezza. «Ma qualsiasi vantaggio ci sia,
nessuno di noi riesce a immaginarselo. Ci abbiamo provato, ma non
le sappiamo usare e non ne sappiamo indovinare lo scopo. Forse
questi Franchi sono solo incapaci di andare a cavallo. Ma sospetto
che la verità sia tutt'altra.»
«Hai chiesto ai prigionieri di mostrarti come le usano?»
«Nessun prigioniero. Hanno combattuto come furie e sono tutti
morti. Le ho riportate per la tua collezione. Se non ti servono,
buttale via.»
Mio zio scosse la testa. «A me non servono, Pico. Ne ho già una,
anche se piccola. Non so che cosa farmene di quelle più grandi.» Si
inginocchiò accanto a uno degli inusitati aggeggi e passò la mano sul
sedile, tentando invano di decifrarne lo scopo. Ma dovette
arrendersi, e si rialzò in piedi. «Com'è stato il resto della
perlustrazione?»
Mio padre stava versando del vino per sé e per i suoi ufficiali.
Scosse la testa, liquidando subito la domanda. «Piuttosto scorrevole.
Niente, a parte quei Franchi. Quattro sono scappati, come ho detto.
A parte quello, un giro lungo, pacifico e imperturbato. Sono pronto
per un bagno caldo. Mi sembra che metà dei pidocchi di Britannia si
stia accoppiando nei miei capelli.»
«Andate, allora, tutti e tre, e lavatevi via la polvere del viaggio.
Bentornati. Dirò ai cuochi di arrostire un cervo per stasera.»
«Bravo» disse mio padre, sfoggiando uno dei suoi rari sorrisi. «Dì
loro di cucinare qualcosa anche per gli altri!» Se ne andarono tutti e
quattro, portandosi via il vino e ridendo tra loro, e mi lasciarono
solo. Mi avvicinai alle strane "sedie" abbandonate sul pavimento e le
esaminai. Erano esattamente come la mia, ma più grandi, a misura
d'uomo.
Un mite pomeriggio della primavera seguente zio Varro entrò
nell'Armeria e mi trovò, appollaiato sulla mia sedia, che menavo
fendenti con la spada di legno ai nemici immaginari che mi
brulicavano attorno. Da quando avevo scoperto che la sedia era in
realtà un arnese per cavalcare, avevo attaccato una corda che mi
servisse da briglia, e l'avevo fatta passare davanti al cavalletto sul
quale era montata la mia sedia. Prima ancora di accorgermi che mio
zio era entrato nella stanza, lo sentii esclamare «Grande Mitra!» con
voce sconvolta, e allarmato mi ero precipitato giù dalla sedia,
pronto a venire punito per essermi abbandonato a giocose
leggerezze in quella stanza sacrosanta.
«Torna dov'eri, Caio! Torna sulla tua sedia.» Non c'era collera
nella sua voce, solamente un'urgenza che non seppi definire.
Sorpreso, risalii sulla mia sedia. Zio Varro continuava a parlare. «Fai
quello che stavi facendo quando sono entrato.» Lo guardai confuso,
ma dalla sua espressione compresi che non scherzava e, sentendomi
particolarmente sciocco iniziai ad agitare la spada di legno con scarso
entusiasmo. «No, no, no! Non così! Stavi combattendo, uccidendo
degli uomini. Uno di loro era a terra, di fianco al tuo piede sinistro.
Uccidilo ancora, con la medesima ferocia.»
Decisi che non avrei mai capito le contraddizioni degli adulti, e
feci come mi chiedeva. Avevo i piedi ben saldi dentro i loro sostegni,
ed ero quasi in posizione eretta, con le "redini" strette nella mano
sinistra. Aumentai la presa sulle redini per trovare l'equilibrio, e con
tutta la mia forza roteai la spada di fronte a me e la calai a sinistra,
dove avevo immaginato che un nemico mi avesse afferrato la
caviglia.
«Ecco! Così!» disse lo zio con voce carica di emozione. «Quando
hai incominciato a stare in piedi a quel modo?»
Sbattei le palpebre. «Non lo so, zio. Non arrivavo con i piedi ai
sostegni. Devo essere cresciuto abbastanza, e adesso ci arrivo.»
«Sì, ragazzo. Ci arrivi e ci stai ben dritto! E in quella posizione,
sei in piedi come su una piattaforma!» Le sue ultime parole non
significavano nulla per me, ma lui girò sui tacchi e quasi corse nel
corridoio esterno, reclamando attenzione con tutta la potenza dei
suoi polmoni. Un servitore esterrefatto si precipitò a vedere che cosa
era successo, seguito da un soldato ugualmente allarmato. Mio zio
puntò contro il soldato un dito accusatore. «Tu! Tu sei l'uomo che
voglio! Trova il generale Pico e portalo qui immediatamente, e bada
che venga solo! Nessun altro! Svelto, o ti levo la pelle di dosso!»
L'uomo partì a passo di corsa e mio zio si rivolse al servitore che era
rimasto a bocca aperta. «Che cosa c'è che non va? Il generale sarà qui
tra poco. Porta del vino. Muoviti!» Ritornò da me, ancora
ammutolito sulla mia sedia, mi fissò a occhi stretti e poi spostò lo
sguardo lungo le pareti della stanza, posandolo infine su una mazza
leggera, ma con la testa di ferro. Andò a staccarla dalla parete e me
la portò.
«Provala. É troppo pesante? Falla roteare.» Mi tolse di mano la
spada di legno e la sostituì con la mazza da guerra. La feci roteare
con una certa esitazione, giudicandola pesantissima ma non troppo
grossa per me. La feci roteare ancora, con maggior forza. «Aspetta,
Caio!» Prese da un tavolo un vaso di coccio pieno di fiori e lo mise a
terra alla mia sinistra, tolse i fiori e lasciò con totale indifferenza che
l'acqua dei gambi formasse una pozzanghera sul suo prezioso
pavimento. «Ora» disse con voce fremente per l'eccitazione, «questo
vaso è la testa di un uomo, coperta da un pesante elmo. Vediamo se
riesci a farci un'ammaccatura.» Incrociò i miei occhi e sorrise. «Non
sono impazzito, Cai. Solo fai come ti chiedo.»
Indicai la mazza. «Con questa?»
«Naturalmente. »
«Ma lo romperò.»
«È solo un vaso, e io voglio che tu lo rompa. Drizzati su quei
pedali e fallo a pezzi, con tutta la tua forza. Avanti.»
Con il primo e con il secondo colpo lo mancai, perché non ci
mettevo sufficiente decisione, ma poi lessi il dispiacere sul volto di
zio Varro, e così il terzo fu un vero colpo. Aggiustai il deretano sul
sedile, afferrai le redini, ondeggiai leggermente per emulare il moto
di un cavallo, e poi mi sollevai sulla punta dei piedi e sferrai un
colpo al vaso con tutta la forza che avevo, tirando le redini con la
mano sinistra per mantenere l'equilibrio. I frammenti del vaso
schizzarono in ogni direzione, e l'acqua esplose in un lago di spruzzi
sul legno lucido del pavimento.
«Grande Giove!» La voce di zio Varro si abbassò per lo
sgomento, e io temetti di aver fatto troppo bene. Da un altro tavolo
prese un altro vaso e lo mise nello stesso punto, rovesciando con
noncuranza i fiori sul pavimento. Quella era la sua sacrosanta
Armeria! Lì dentro non avevo mai visto niente fuori posto e ormai
stavo pensando che avesse davvero perso il senno, ma mi parlò
ancora. «Proprio così, Cai.
Quando tuo padre arriva, voglio che frantumi questo vaso come
hai frantumato il primo. Con maggior forza, se puoi, tutta quella di
cui disponi. Ecco che viene.» Sentimmo all'esterno il passo affrettato
di mio padre, e poi entrò, e si fermò di scatto scivolando quasi al
vedere quella carneficina sul pavimento normalmente immacolato.
«Che cosa in nome di...?» Allora vide me con la mazza e il suo
viso si accese di collera. «Che cosa hai fatto, ragazzo?» La sua voce
era terribile, e io mi sentii mancare davanti alla furia che gli
straripava dagli occhi.
«Calma, Pico!» Mio zio era impaziente. «Il ragazzo non ha fatto
nulla di male. Questo è opera mia. Adesso stai tranquillo e guarda, e
impara. Impara a che cosa servono le selle a sedia dei cavalieri
franchi che noi abbiamo giudicato inutili. Il ragazzo è a cavallo, i
nemici lo circondano. Il vaso sul pavimento è la testa di un nemico
aggrappato al suo piede. Fagli vedere, Cai.»
Conscio in qualche modo che quello era un momento molto
importante, sebbene non avessi idea di come o perché, ripresi il
controllo di me stesso, raccolsi le mie forze e poi roteai la mazza una
volta intorno alla testa, distesi le gambe, tirai forte le redini, mi
sollevai in tutta la mia altezza staccando il didietro dal sedile, e
schiantai il vaso in mille pezzi, schizzando acqua ovunque, fino sulle
pareti. Quando il rumore dei frammenti che cadevano si spense,
guardai mio padre. Aveva la bocca aperta, e gli occhi sbarrati, e io
non sapevo che cosa stava succedendo.
«Allora, Pico?» disse zio Varro con una bonaria nota di orgoglio.
«Fallo ancora» disse mio padre con voce roca. Ripetemmo la
scena, e a quel punto il clamoroso effetto che provocavo
incominciava a piacermi. L'Armeria era uno scempio di macerie.
Dopo il terzo vaso, mio padre arrancò verso una sedia e si
sedette, senza mai distogliere lo sguardo da me. Zio Varro parlò di
nuovo. «Un ragazzo di dodici anni, Pico! Pensa che cosa potrebbe
significare per un uomo a cavallo.»
«Tutto il corpo» disse mio padre, sottovoce come prima mio zio.
«Ha usato tutto il corpo! Tutta la sua forza e tutta la sua potenza.
Dal dorso di un cavallo! In piedi, sorretto e puntellato, sul dorso di
un cavallo!»
«Esattamente, Pico! E noi l'abbiamo messa da parte. Abbiamo
avuto questa cosa, questo... sedile, in questa stanza per quattordici
anni e non l'abbiamo mai visto!»
Li ascoltavo, ed ero ancora intimorito e completamente confuso.
Era accaduto qualcosa di essenziale, ma che cosa ancora non lo
sapevo.
«Sono i supporti per le gambe» disse mio zio. «Sono della
lunghezza giusta adesso, e con i piedi ci arriva comodamente. Non
c'è mai arrivato prima, ci è letteralmente cresciuto dentro. E le
gambe di ogni uomo sono di una lunghezza diversa.»
Mio padre continuò da lì, con un profondo borbottio come se
stesse parlando fra sé. «Correggiamo l'equipaggiamento di ogni
uomo secondo la lunghezza delle gambe... e avremo uno squadrone
di cavalieri in grado di stare in piedi e colpire dal dorso di un
cavallo! Una forza di cavalleria come non se n'è mai visto l'eguale!»
«I Franchi l'hanno visto, Pico. Questa sella è loro.»
Mio padre abbaiò la sua risata brusca, unica. «Sì, Varro, ma i
Franchi non hanno spade lunghe come le nostre. E non hanno
disciplina, né addestramento. Questa sella potrebbe renderci
invincibili.»
«Ci renderà invincibili, Pico. Ma significherà insegnare a tutti a
cavalcare in un modo nuovo e diverso.»
«E allora?» Per mio padre si trattava di un mero tecnicismo. «I
Franchi ci riescono. Non può essere così difficile. Quanto ti ci vuole
per costruire queste cose? E a proposito, come si chiamano?»
Mio zio alzò le spalle. «Selle, suppongo. Non esiste un'altra
parola in nessuna delle lingue che conosco. Costruirle? Non lo so.
Quelle grandi le ho buttate.»
Mi schiarii la voce e parlai. «Io so dove sono.» I due uomini mi
guardarono.
«Dove?» chiese zio Varro.
«Uther e io le usiamo come sedie nel nostro posto segreto.»
«Bene» disse zio Varro. «Riportale qui. Le smonteremo e
vedremo esattamente come sono fatte, e poi costruiremo le nostre.»
Il servitore che era stato mandato a prendere il vino era
ritornato, e fissava stupefatto le condizioni della stanza, Mio zio
finalmente si accorse di lui e lo aggredì. «Che cosa stai fissando? Non
hai mai visto dell'acqua versata? Prendi la sedia del giovane mastro
Caio e seguici, e poi torna qui e da' una ripulita a questo posto. Cai,
vieni con noi alle stalle, Vediamo come ti trovi a sederti su quel
seggio a dorso del tuo pony.»
Fui la prima persona a Camulod a montare un cavallo con
quella che fu poi conosciuta con il nome di sella con le staffe. Subito
Uther impazzì di gelosia, ma gli insegnai come rilassarsi e
padroneggiare quello strano nuovo sedile, e prima che il primo
uomo di Camulod sapesse cavalcare sulla sella, noi due eravamo
esperti, e ci toccò l'onore di essere istruttori generali.
Ho già accennato alla mia convinzione che il numero tre abbia
mistici poteri. Ho parlato di morti avvenute a tre per volta, ma la
potenza della congiunzione trina non si limita alla sola morte; la
triade sembra godere di eguale rilevanza nel raggruppamento degli
eventi cruciali della vita. Tutti i grandi drammaturghi scrissero
seguendo la credenza che una relazione tripartita è tra gli uomini
elemento essenziale del conflitto eroico. Ristretto a due persone, il
conflitto, per quanto violento, diventa meschineria tra rivali; è
necessaria l'interazione di una terza persona per estendere il conflitto
alla tragedia. Guardando indietro, vedo con chiarezza che la mia
vita, e il destino della nostra Colonia, furono influenzati allora da
una triade di avvenimenti che, combinati, mutarono per sempre la
vita di tutti. La scoperta del segreto della sella e l'adozione dei
supporti che chiamammo staffe fu il primo avvenimento; la mia
scoperta della Spada, il secondo.
Il terzo fatidico avvenimento era di natura molto diversa dai due
che l'avevano preceduto. Camulod ricevette una visita dalla regione
nel lontano sud-ovest, il luogo che la nostra gente chiama
Cornovaglia perché si protende nel mare come un grande cornu, o
corno. Emrys, il re del popolo di laggiù, si faceva chiamare duca di
Cornovaglia, secondo l'antico titolo romano di dux, capo. Aveva
sentito parlare di Camulod, e si era spinto a nord per verificare da
solo l'esattezza delle dicerie. Era uno sbruffone sguaiato, nient'affatto
amabile, che non faceva nulla per rendersi simpatico a zio Varro, e
aveva un figlio corpulento, uno sbruffone sguaiato anche meno
amabile di lui, che si chiamava Lot, Gulrhys Lot, che faceva ancora
meno per rendersi simpatico a me o a Uther. Il nostro rapporto si
basò quasi a prima vista sulla reciproca avversione.
Lot aveva due anni più di noi e per la sua età era grande e
grosso, e dal momento in cui zio Varro ci disse di prenderci cura di
lui, si dedicò a farci capire chi di noi tre fosse il padrone e chi i
servitori. Lo accompagnammo fuori dalla Sala del Consiglio fino
nella corte dove, memore della rigorosa legge dell'ospitalità di mio
zio, mi offrii di mostrargli il forte. Mi ignorò e si fermò a gambe
divaricate, con i pugni chiusi sui fianchi, e osservò ogni cosa con un
gran ghigno stampato sulla faccia.
«Forte?» disse. «Chiamate forte questo buco? É come i canili che
usiamo noi a casa per tenerci i cani.» Io guardai Uther e non dissi
nulla. Mio cugino aveva un'espressione che avevo imparato a
conoscere bene, e annunciava sempre guai.
«Tenete i cani in un posto come questo?» chiese, apparentemente
pieno di meraviglia. «I vostri cani?»
«Già. I nostri cani.»
Uther fece un profondo cenno di assenso, come accettando la
spiegazione chiara e semplice di una faccenda complicata. «Così si
spiega la puzza che ti sta intorno. Avete ceduto i vostri alloggi ai
cani. Lodevole, Lot, ma stupido. Ovviamente adesso abitate nella
porcilaia, con i maiali.»
Ma Lot non era tipo da lasciarsi provocare a un'azione
immediata. Fece un sorriso cattivo e si dondolò in avanti sulla punta
dei piedi. «Che cosa puoi saperne tu dei maiali sani e robusti, piccola
merda? I maiali sono troppo puliti per un mucchio di sterco romano
raccolto in una fogna come te. Ho sentito dire che tua madre era
una puttana di Roma che si vendeva ai mendicanti prima di cadere
veramente in disgrazia abbassandosi fino a tuo padre Uric.»
Ero sconvolto. Mai in vita mia avevo sentito un insulto più
eccessivo. Uther impallidì. «Bastardo» disse con voce calma. «Sei
morto. Non ti crescerà mai la barba. Resta qui e non muoverti. Cai,
non permettergli di svignarsela.» Iniziò ad allontanarsi camminando
all'indietro, poi si girò e corse verso la casa di zio Varro.
«Dove stai andando, mucchio di sterco? A dirlo a tuo nonno?» gli
gridò Lot.
«Tu rimani lì!» gli urlò Uther di rimando, e scomparve dietro
l'angolo di un edificio.
«Bene» sogghignò Lot volgendo lo sguardo su di me. «Minaccia
morte e poi scappa. Sono tutti così coraggiosi, i vostri uomini?»
Lo fissai con un disgusto tale da non essere quasi in grado di
parlare. «Tornerà» fu tutto quello che riuscii a dire all'inizio, e poi
aggiunsi: «E quando torna, sei tu che farai meglio a scappare. Uther ti
ucciderà.»
«Uccidermi? Davvero? Morto stecchito? Sono terrorizzato. Forse
farei meglio ad andarmene subito.»
Anelavo a cancellare quel ghigno dalla sua faccia, ma sapevo che
se avessi fatto un passo verso di lui me le avrebbe date di santa
ragione.
«Non ti piaccio, eh, ragazzino? Lo vedo da quella tua faccia
slavata di romano.»
«No» dissi, d'accordo con lui, «non mi piaci. Non mi piaci per
niente.»
«Perché no? Ci siamo appena conosciuti. Potremmo essere buoni
amici. Potresti reggermi il pene mentre piscio, e se mi fossi proprio
simpatico potrei anche lasciartelo scrollare.»
Non credevo alle mie orecchie. Uther e io usavamo un
linguaggio che ci avrebbe guadagnato una frustata da zio Varro, se
mai ci avesse sentito, ma nessuno di noi due era mai stato così
volgare come quel forestiero maleducato. Adesso capisco che anche
allora a offendermi era il suo modo di pensare, non la scelta delle
parole.
Fece un passo rapido verso di me e io involontariamente mi
ritrassi quando ringhiò: «Fai sparire quello sguardo dalla faccia,
ragazzino, prima che ti faccia sparire la faccia dal cranio!».
Non so che cosa avrei fatto se proprio in quel momento Uther
non fosse riapparso da dietro l'angolo, stringendosi un fagotto al
petto. Non sapevo che cosa quel fagotto contenesse, ma temevo il
peggio, e mi si rivoltò lo stomaco. Andò diritto da Lot e lo guardò
negli occhi.
«D'accordo, bocca sacrilega, vieni con me.» Si voltò ed entrò
nell'edificio più vicino, che io sapevo essere vuoto, perché non era
finito e mancava ancora la paglia del tetto. Lot entrò
baldanzosamente dietro di lui e io li seguii, lanciando occhiate a
destra e a sinistra nella speranza di vedere qualcuno a cui chiedere di
intervenire, ma non c'era nessuno. Quando entrai, Uther aveva già
svolto il fagotto, scoprendo due delle letali spade corte di zio Varro.
Ne impugnò una e con un calcio mandò l'altra ai piedi di Lot. «Spero
che tu sappia come usarla, stronzo schifoso. É l'unica cosa che
potrebbe tenerti in vita.» E così dicendo fece sibilare la spada in un
breve arco. Io avevo la bocca secca. Conoscevo Uther e sapevo che
pensava ogni parola che aveva detto. La morte aveva il suo stesso
aspetto. Entrambi eravamo addestrati all'uso delle spade, bene
addestrati, e lui era più che capace di uccidere. Mi intromisi.
«No, Uther! Questo è male. Combattilo a mani nude. Ti aiuterò,
se hai bisogno d'aiuto, ma non fare così. Lo zio ci fustigherà
entrambi.»
Uther mi guardò come se fossi ammattito. «L'hai guardato, quel
bastardo? Quanto è grosso? Ci storpierebbe tutti e due. E poi, hai
sentito quello che ha detto. Fatti da parte, Cai.»
Non avevo scelta, ma non mi feci da parte. Sentii il peso di Lot
piombarmi tra le spalle e catapultarmi verso Uther, e il fischio
sibilante di una lama passarmi con violenza vicino alla testa. Caddi in
malo modo, carponi, e battei forte la testa contro il muro, restando
per un poco stordito e con la vista annebbiata. La vista ritornò poi,
accompagnata a un sonoro ronzio nelle orecchie e dentro la testa, e
dal rumore esterno, metallico, di spada che si schiantava contro
spada. Sollevai incredulo la testa che mi girava vertiginosamente, e li
vidi girarsi intorno nella postura acquattata dei combattenti. Lot era
grosso il doppio di Uther, e senza dubbio conosceva la sensazione di
una spada stretta in pugno Mentre li guardavo, prima che avessi il
tempo di muovermi, affondarono ancora, e ancora il fragore delle
lame infranse il silenzio.
Combattevano con furia e durezza, e le spade scontrandosi
mandavano scintille. Lot avanzava, servendosi del proprio peso e
della propria altezza per costringere Uther a in dietreggiare, e poi ci
fu un conflitto e udii un gemito profondo e vidi la lama della spada
di Lot affondare nella coscia di Uther. In ginocchio dov'ero caduto,
stordito e stupefatto, vidi sgorgare il sangue e fui colto dalla nausea;
loro due se ne stavano lì, immobili, e poi Uther scattò in avanti con
un sibilo, e affondò la spada nel petto di Lot.
«Gesù Cristo del Cielo! Che cosa succede qui dentro?» Sentii il
ruggito e vidi la sagoma enorme di mio padre oscurare lo spazio
della porta, e vidi Lot vacillare e cadere, e poi fu tutto nero.
Purtroppo, non rimasi privo di sensi abbastanza a lungo da
evitare la collera di mio padre, o quella di zio Varro. Non faceva
differenza alcuna che io non fossi personalmente coinvolto nel
combattimento vero e proprio; per quanto li riguardava, ne ero
stato complice e non avevo tentato di impedirlo. In realtà avevo
tentato, ma sapevo di non avere tentato a sufficienza, perciò non
potevo protestare la mia innocenza. Uther e Lot vennero portati via
per ricevere le debite cure, e io venni condotto a viva forza dentro
casa, per affrontare mio padre, il padre di Lot, il duca Emrys, e zio
Varro. Sedevano fianco a fianco al lungo scrittoio di mio zio, e io
dovetti stare in piedi davanti a loro dall'altra parte del tavolo. Circa
un'ora era trascorsa dal combattimento, un'ora durante la quale io
ero stato confinato sotto custodia nella mia stanza, forse perché
temevano che avrei cercato di fuggire. A zia Luceia era stato proibito
di venire a farmi visita prima del colloquio. Mi scortarono
nell'Armeria come un prigioniero militare alla corte marziale. I tre
uomini mi fissavano con fiero cipiglio, e dei tre il duca Emrys aveva
lo sguardo più malevolo.
Mio padre era ancora furioso, ma teneva la sua collera sotto
controllo, il controllo più visibile e tenace che avessi mai visto.
Avevo la sensazione che potesse balzarmi addosso di qua dal tavolo
in qualsiasi istante. Zio Varro sembrava più turbato e ferito che
arrabbiato. Mi guardò con grande solennità, e parlò.
«Caio Britannico, oggi in questo luogo è stato commesso un
torto gravissimo, e tu vi hai preso parte. Due ragazzi giacciono offesi
e sanguinanti, gravemente feriti, forse prossimi alla morte. Tu sei
l'unico che possa gettare luce sull'accaduto. Nella mia casa sono state
violate le leggi dell'ospitalità, leggi sacrosante, come ben sai. Il duca
di Cornovaglia, qui sotto il mio tetto, durante la sua permanenza è
protetto da tali leggi. E così suo figlio, che si trova qui con lui. E
adesso suo figlio giace ferito, trafitto da mio nipote come da un
selvaggio sassone. È meglio che tu ci dica perché è successo, tenendo
bene a mente che il castigo per un così scandaloso oltraggio
dovrebbe essere la morte.»
Quel lungo discorso, pronunciato in toni tanto innaturali da zio
Varro, mi spaventò. Mi si contrasse lo stomaco, e dovetti deglutire
per impedirmi di vomitare. ricordo ancora la terrificante sensazione
di inadeguatezza che mi sopraffece. Non potei parlare, mossi solo le
labbra.
Nel silenzio parlò mio padre. «Ascoltami, ragazzo, e ascoltami
bene. Vogliamo la verità che sta dietro a quest'insulto.» La sua voce,
impacciata dalla ferita alla gola, era praticamente un ringhio, ma io
l'avevo ormai frequentato abbastanza da capire chiaramente le
parole sotto quei suoni gutturali. «Niente scuse. Niente
interpretazioni. E niente bugie! Dicci esattamente che cosa è successo:
che cosa è stato detto e fatto, e da chi a chi.» Mi si accapponò la
pelle, Come potevo ripetere a quelle orecchie le parole che avevo
udito?
Fu allora che il duca Emrys parlò per la prima volta, e le sue
parole furono intempestive per lo scopo che si prefiggevano, perché
l'accento derisorio e sarcastico della sua voce stridula disperse il mio
terrore e i miei dubbi come una doccia d'acqua fredda. «Non
otterremo la verità da questa canaglia! Guardate la paura sulla sua
faccia. Mio figlio sta morendo e voi pretendete la verità da uno dei
due che l'hanno ucciso?»
Aveva appena smesso di parlare quando gli risposi, con una
voce forte e adirata che sorprese perfino me. «Non sono un
bugiardo! Vi dirò che cosa è successo.» Guardai zio Varro,
rivolgendomi a lui solo, e la grande rabbia mi donò un'eloquenza al
di là dei miei anni. «Tu mi hai insegnato a rammentare con esattezza
le parole, zio Varro, siano esse scritte o pronunciate. Anche i druidi
mi hanno insegnato, nello stesso modo. Lot ha provocato il
combattimento. Uther doveva ucciderlo per le cose che ha detto.
Avrei dovuto ucciderlo anch'io, se fossi stato Uther, ma non lo
sono.»
Mio padre rispose al mio impeto, e già il suo tono era molto
meno collerico. «Dicci che cosa è successo, ragazzo.» Io raccolsi i miei
pensieri e riferii ogni cosa dall'inizio, fatti e conversazioni parola per
parola come si erano susseguiti. Non dimenticai nulla, non omisi
alcuna ingiuria, non aggiunsi nulla.
Quand'ebbi finito, ci fu silenzio per un poco, e poi mio padre
parlò: «Una brutta faccenda».
Il duca Emrys ne convenne. «Sì, generale, una brutta faccenda
davvero. Un ragazzo ucciso per avere sputato sentenze da ragazzo.
Davvero una brutta faccenda.»
«Non è stato ucciso nessuno, duca Emrys» disse mio zio, che
aveva finalmente ritrovato il consueto tono di voce. «I ragazzi sono
vivi entrambi, non certo grazie a loro, e grazie agli dei sono ragazzi,
perché se quelle parole fossero state pronunciate tra uomini, allora la
fine sarebbe stata la morte, senz'ombra di dubbio.»
«Puah! Date troppa importanza alle parole!» La voce di Emrys
era piena di disgusto.
Mio padre si era alzato e si era scostato dal tavolo; a quella frase
si voltò e si avvicinò al duca di Cornovaglia, e parlò con voce tanto
più minacciosa perché sommessa e chiara nonostante la lesione alla
gola. «Ascoltami bene, duca di Cornovaglia. Questo ragazzo è mio
figlio. Il giovane Uther è mio nipote. La madre di Uther, la vittima
delle sconce calunnie del tuo infame figlio, era la figlia di Publio
Varro. Mia moglie era sorella del nonno del giovane Uther. Non
conosco tuo figlio, ma so che non è compagnia adatta per nessuno
dei miei figli. Se fosse qui, invece di essere a letto a sanguinare per i
suoi peccati scurrili, avvicinerei il mio stivale al suo screanzato
deretano. E che vadano al diavolo le leggi dell'ospitalità! Se desideri
difendere l'onore del tuo maleducato marmocchio come Uther ha
difeso l'onore di sua madre, sarò felice di uscire dalle mura in tua
compagnia. Ho ascoltato fin troppo a lungo i tuoi motteggi e i tuoi
insulti. Ti considero villano, prepotente, invidioso e nient'affatto
simpatico. I nostri dottori guariranno alla svelta quella chiavica di
tuo figlio. E quando sarà guarito, ti metterò alla porta io stesso. Non
siete i benvenuti qui, né tu né tuo figlio. Ho parlato chiaramente?
Hai capito bene? Metti in dubbio le mie parole?»
Il duca Emrys, rosso in volto e con la mascella cadente, era
rimasto seduto a fissare mio padre. Nel silenzio che seguì, io lo
esaminai come avrei esaminato un insetto. Sapevo con certezza che
non avrebbe raccolto la sfida di mio padre, ma non sapevo che cosa
avrebbe fatto. I miei occhi non lo abbandonarono mai. Lo vidi
lottare per nascondere la paura e poi sforzarsi di mettere insieme un
poco di dignità che gli fosse di sostegno. Infine si girò verso mio zio
e tentò di parlare in modo sprezzante. «Credevo che fossi tu il
padrone qui. E questo è un esempio del tuo dominio? Permettere
che i tuoi ospiti vengano maltrattati alla tua mensa?»
Mio zio inspirò a fondo. «Troppo tardi, Emrys. Dimentichi che la
dama in questione, la madre di Uther, era mia figlia. Inoltre, io qui
sono il signore, non il padrone. Non ci servono simili distinzioni.
Pico ha detto ciò che dovrei dire io, se non fossi il tuo ospite. Ora
che è stato detto, mi accorgo che in coscienza non posso dissentire.
Puoi andartene quando lo desideri. E sei pregato di non tornare.» Si
alzò e lasciò il tavolo, e mio padre gli si affiancò. Passando mi fece
un cenno e abbandonammo Emrys nella solitudine dell'Armeria.
La ferita di Lot guarì rapidamente. Non era profonda e non
aveva toccato punti vitali. Quattro giorni dopo Lot e suo padre se
ne andarono. Uther zoppicò per un mese. E l'inimicizia che nacque
quel giorno sopravvisse per anni e annientò migliaia di vite.
VII.
Mi stavo gustando un pasto a base di salsiccia fredda, formaggio,
pane e birra fatta in casa, quando fuori nella via sentii chiamare il
mio nome. Un pugno batté alla porta e la donna della casa mi
guardò interrogativamente. Le feci un cenno affermativo e lei aprì la
porta a un mio caposquadra, che entrò nella stanza e scattò
sull'attenti non appena mi vide seduto a tavola.
«Comandante Caio, signore, pensavo che stessi dormendo.»
«Dormivo, ma adesso sto mangiando, come vedi. Che cosa c'è?»
L'uomo aveva gli occhi spalancati per l'eccezionalità del
messaggio. «Corriere, signore, da Camulod. Devi rientrare
immediatamente. Mastro Varro giace morente.»
Prima che avesse finito di parlare avevo rovesciato
fragorosamente la sedia e mi ero alzato in piedi. «Dov'è il
comandante Uther?»
Scrollò le spalle, e nei suoi occhi lessi che aveva già tentato di
trovarlo. «Sembra che nessuno lo sappia, signore.»
«Dannazione a lui! Non è mai...» Mi interruppi, pentendomi
delle mie parole nel momento stesso in cui mi sfuggivano di bocca.
«Manda degli uomini a cercarlo nelle vinerie. É fuori servizio.
Trovatelo, e in fretta!»
«Sì, comandante.» Fece il saluto e si ritirò. Io raddrizzai la sedia e
mi rimisi a sedere, ma il cibo non era più nei miei pensieri.
Publio Varro era una presenza costante nella mia vita, L'idea che
fosse malato mi risultava estranea eppure, se la sua malattia era così
grave da esigere il nostro rientro, doveva davvero essere in punto di
morte. Cercai di indovinare quanti anni aveva, ma non potei. Zio
Varro era senza età, Gli altri uomini invecchiavano, ma lui no.
L'unica volta che l'avevo visto indisposto era stato quando Equo,
Ullic e il vescovo Alarico erano morti a breve distanza di tempo, Ma
la gioia di mostrarmi Excalibur l'aveva riportato alla salute, a se
stesso, di nuovo alla vita. E adesso era malato.
Improvvisamente, senza alcuna ragione, seppi dove si trovava
Uther. Lungo la strada verso la città ci eravamo fermati a una casa,
un luogo che prima della partenza delle legioni era una mansio, un
albergo ufficiale per viaggiatori e soldati. Ma funzionava ancora, e
dava ristoro ai viaggiatori tanto coraggiosi o tanto disperati da
affrontare le strade tra Glevum e Aquae Sulis. Il tizio che la gestiva
era ben fornito di servette di facili costumi, e una o due avevano
attratto lo sguardo errante di Uther. Sapevo che l'avrei trovato lì.
Avevamo appena concluso il giro settentrionale di perlustrazione a
Glevum, e dovevamo rimanerci tre giorni per far riposare i cavalli e
consentire al nostro quartiermastro di acquistare gli articoli che non
avrebbe trovato ad Aquae Sulis, la città che avremmo dovuto
attraversare nel secondo tratto della nostra perlustrazione che ci
avrebbe riportati a Camulod. Quello era il nostro primo giorno di
rilassamento. E Uther per rilassarsi aveva bisogno di donne.
Uther mi aveva sempre preceduto nelle questioni di donne e di
sesso. Eravamo nati alla stessa ora dello stesso giorno, ma aveva
aperto lui, passo per passo, la strada verso la maturità fisica e
sessuale. Sua era stata la prima erezione, suo il primo pelo sul pube,
sua la prima eiaculazione e, naturalmente, la prima penetrazione di
un corpo femminile. Io restavo sempre indietro, e imparavo da lui,
lasciavo che lui mi mostrasse come fare. In qualunque altro campo a
eccezione della guerra, ero io il primo e Uther mi seguiva, ma per un
adolescente non c'è attività della vita più cruciale di quella sessuale, e
io mi sentivo costantemente tradito, condannato dal mio stesso
corpo a essere sempre secondo. Pur essendo nel pieno della virilità,
facevo un sogno in cui partecipavo con Uther a una grande orgia.
Era un sogno diverso da quelli che chiamavo sogni del terrore: non
cambiava mai ed era sempre chiaro. Eravamo circondati da
voluttuose e dissolute bellezze; Uther giaceva supino, e rideva di
sensuale piacere ostentando ai loro sguardi ammirati e alle loro
carezze la sua mascolinità protesa e arrogante, e sempre una donna
gli pettinava con le dita i peli del ventre nudo e gli stringeva il fallo.
Il sangue mi pulsava ormai dietro agli occhi, mani sconosciute mi
strattonavano gli abiti, e il mio seme minacciava di sgorgare, e allora
sentivo le risate, e la vergogna di abbassare gli occhi sul mio corpo
imberbe e sul minuscolo pene di un bambino. La mente ci può
giocare strani scherzi. Il mio sviluppo, a qualsiasi livello, non ritardò
mai più di un mese rispetto a Uther, e non ero meno equipaggiato di
lui, né avevo problemi di prestazioni o difficoltà a soddisfare il
desiderio di una donna, e tuttavia, nei meandri della mia mente,
quella paura persisteva radicata e profonda.
Ringraziai la donna che mi aveva dato da mangiare e lasciai sul
tavolo qualche moneta d'argento. Il mio cavallo era legato appena
fuori dalla porta. Montai in sella e scrutai la via deserta, cercando
invano uno dei miei uomini. Due strade più a sud incrociai un
gruppo di soldati a piedi, tutti ragionevolmente sobri.
«Quinto» chiamai il più grosso. «Sono stato richiamato a
Camulod con il comandante Uther per una questione di assoluta
emergenza. Malattia in famiglia. Trova Dedalo, presentagli le mie
scuse per non essermi fermato a contattarlo personalmente, e digli
che da questo momento il comando è in mano sua. Il comandante
Uther e io cavalcheremo soli.
Dedalo finirà il giro di perlustrazione come stabilito. Digli che il
comandante Varro sta morendo e dobbiamo fare ritorno
anticipatamente. Ci sono fuori delle pattuglie in cerca del
comandante Uther, ma credo di sapere dov'è, e non lo troveranno.
Se mi sbaglio, ed è ancora qui a Glevum, lo aspetterò all'albergo
dieci miglia a sud della città. Avrò con me dei cavalli in più, perciò
digli di non perdere tempo. Capito?» Attesi che ripetesse parola per
parola, poi gli restituii il saluto e spinsi il cavallo al galoppo fino al
nostro deposito, dove presi altri due cavalli e del cibo prima di
dirigermi fuori città.
Ricordo che percorsi quelle prime dieci miglia sforzandomi di
pensare a qualsiasi cosa che distogliesse la mia mente da zio Varro e
da ciò che la sua morte avrebbe significato, Avevo diciotto anni e,
sebbene quello fosse il mio quarto pattugliamento, era il primo che
Uther e io comandavamo insieme senza esplicita supervisione. Forse
la nostra prima responsabilità doveva essere verso la pattuglia, ma
Dedalo era centurione anziano e mio padre gli aveva conferito
l'autorità di ignorare i nostri ordini se avesse creduto in qualsiasi
momento che Uther e io agissimo avventatamente. Mi aveva ferito
nell'orgoglio pensare che eravamo comandanti solo di nome, ma
l'intelletto mi aveva rassicurato che quell'ultimo pattugliamento con
Dedalo sarebbe stato il nostro esame finale. E mi avevano appena
comunicato che non potevamo completarlo.
Era tardo pomeriggio quando mi avvicinai all'albergo e
incominciai a provare una brutta sensazione, una sensazione che i
maestri druidi della mia fanciullezza mi avevano insegnato a
rispettare, poiché credevano che ciò che chiamiamo intuizione sia un
dono naturale che l'uomo ha lasciato arrugginire. Ho sempre
apprezzato l'importanza che davano a quell'insegnamento. Quel
giorno quasi sicuramente mi salvò la vita.
A circa cento passi mi fermai a guardare quel posto,
rammentando che alcuni personaggi che avevo visto lì al nostro
arrivo due giorni prima non mi erano piaciuti. Se Uther fosse entrato
da solo, ed ero certo che fosse entrato da solo, perché lui era fatto
così, assieme a un boccale di birra avrebbe potuto comprarsi un
sacco di guai. Se invece non c'era entrato affatto e fossi arrivato io,
montando un cavallo e portandone altri due, mi sarei comprato guai
con la stessa moneta. La mia uniforme non mi avrebbe salvato, né
mi avrebbe salvato un atteggiamento autoritario. Ero un uomo solo,
che poteva essere spacciato alla svelta ed eliminato senza lasciare
tracce. Una eventuale ricerca successiva non sarebbe approdata a
nulla. Mi guardai attorno, ma non vidi il cavallo di Uther. Doveva
essere in una costruzione adibita a stalla sul retro o di fianco
all'edificio principale.
Quasi mi convinsi che ero uno sciocco. Grazie a Dio non mi
credetti. Lasciai la strada e passai tra gli alberi e intorno all'albergo
senza essere visto, legai i cavalli al sicuro discosto dalla strada sul lato
meridionale, e tornai indietro a piedi. Lasciai il mantello da guerra,
lo scudo e la spada lunga con i cavalli e mi portai appresso solo la
spada corta e il pugnale. L'elmo mi pesava sulla testa, e gli stivali
chiodati risuonavano sull'acciottolato. Avanzai in mezzo all'ingresso
del cortile principale e mi fermai a guardare con attenzione l'interno
del cortile. Era deserto. Non c'era segno di vita. Attraversai
rapidamente il cortile, e dirigendomi alla porta sentii rumori confusi
e grida provenire dall'interno. Prima ancora di entrare sapevo che
cosa avrei trovato, e rimpiansi di avere lasciato lo scudo con i
cavalli. Sulla soglia feci una pausa, respirai a fondo, poi spalancai la
porta ed entrai, spostandomi immediatamente con la schiena contro
la parete.
L'albergo era piuttosto simile a un fienile: una enorme stanza
comune con della paglia sparsa a terra e tavoli su cavalletti
disseminati qua e là perché la clientela potesse mangiare, o bere. Su
un tavolo lungo appoggiato contro il muro alla mia destra c'erano
anfore e barili di birra. Un massiccio camino aperto nella parete
opposta ospitava spiedi per arrostire la carne. Proprio di fronte a me
una larga scala di legno portava a un secondo piano, come un
soppalco, che serviva da dormitorio e per intrattenersi con le donne.
Uther aveva gettato un tavolo di traverso in cima alla scala, e
con la spada in una mano e il pugnale nell'altra si affannava a
difenderlo contro una feccia di otto o nove manigoldi disperati. Non
sapevo da quanto tempo fosse in quella posizione, ma avevo la
netta impressione che il divertimento fosse appena cominciato,
altrimenti sarebbero state visibili molte più tracce di violenza. Uther
non poteva comunque sperare di resistere a lungo contro tanti
avversari; si erano tutti ammassati in cima alla scala, e si
ostacolavano l'un l'altro, ma con un po' di pazienza l'avrebbero
presto o tardi sopraffatto. Mentre analizzavo la situazione, una delle
ragazze nel soppalco balzò sulla schiena di Uther, stringendogli le
gambe intorno alla vita e cercando con le braccia di immobilizzarlo
per impedirgli di difendersi. Un boato si levò con temporaneamente
dai suoi assalitori e da Uther, che spezzò la presa della ragazza, se la
strappò di dosso e se la fece passare sopra le spalle, buttandola giù
verso i suoi aggressori.
La ragazza atterrò con un grido in mezzo al gruppo di uomini, e
se ne trascinò appresso uno oltre la fiancata della scala priva di
protezione, andando a sfracellarsi sul pavimento di pietra. La paglia
non attenuò la caduta, e giacquero entrambi immobili. Mi guardai
attorno in cerca di qualcosa di meglio di una spada corta e di un
pugnale, e riconobbi sul pavimento accanto a me la lancia di Uther.
La raccolsi, ne saggiai il bilanciamento, e corsi su per la scala,
sentendo la lama affondare tra le scapole del primo uomo che
raggiunsi. Liberai la punta della lancia con uno strattone e trapassai i
lombi di un altro uomo quando il primo non mi era ancora
ruzzolato di fianco. Scattai a sinistra, spingendo e guidando la mia
vittima oltre il bordo della scala, perdendo quasi l'equilibrio quando
il peso del corpo disincagliò la li ma della lancia. Non si erano
ancora accorti della mia presenza alle loro spalle.
«Caio! Che cosa ti ha trattenuto?» Il ruggito di benvenuto di
Uther annunciò a tutti il mio arrivo, e tutti come un solo uomo si
voltarono verso di me. La spada lunga di Uther decapitò l'uomo più
vicino, e lo zampillante cadavere senza testa venne mandato con un
calcio a rotolare tra le gambe degli altri. Il proprietario dell'albergo,
un misantropo guercio mi stava di fronte impugnando una spada
romana. Gli ficcai la lancia nel ventre, appena sotto le costole, e con
la morte negli occhi lasciò cadere la spada e afferrò l'asta della lancia,
impedendomi di disimpegnarla. Perversamente torsi la lancia per
piantare i barbigli, e tirai il corpo verso di me, spostandomi a sinistra
per evitare di venire travolto e quasi precipitando di lato dalla scala.
Rimasi lì ad agitare le braccia mentre i superstiti si riavevano dalla
sorpresa. Vidi Uther conficcare la spada nella schiena di un altro, ma
io ne avevo di fronte ancora tre, la spada di Uther era incastrata e io
ero praticamente indifeso.
Uno mi si scagliò addosso con un urlo nell'istante in cui
ritrovavo l'equilibrio. Sentii fischiare un'ascia e saltai, indietro e
all'infuori, flettendo le ginocchia nella speranza di atterrare senza
rompermi una gamba. A mezz'aria vidi l'ascia penetrare nello scalino
dove un secondo prima c'erano i miei piedi, e vidi Uther sollevare il
tavolo che l'aveva protetto e spingere con esso i tre uomini rimasti
sulla scala fino a farli cadere. Per pura fortuna atterrai come un
gatto, carponi, e fui addosso al bastardo che aveva impugnato l'ascia
prima che raggiungesse il fondo della scala. Nei miei pensieri non
c'era clemenza. La punta della mia spada stridette contro il
pavimento di pietra, e dovetti puntargli un piede sul petto per
liberare la lama. Sentii un grugnito, un colpo secco, e un rantolo
d'agonia quando Uther ne trafisse un altro, e poi passi di corsa e una
porta sbattuta. Era finita. Crollai ansando sugli scalini, con la testa tra
le ginocchia, e sentii di nuovo il rumore della porta.
Alzai gli occhi, e vidi Uther in mezzo alla stanza, che mi
sorrideva respirando a grandi boccate che gli sollevavano il petto.
«Uno di loro è scappato» ansimò.
«Che sollievo! Lascialo andare.» Ero troppo esausto per corrergli
dietro.
Uther venne a sedersi sugli scalini al mio fianco, piegò un braccio
a gomito intorno al mio collo e strinse forte, con mio estremo
disagio. Ero troppo stanco anche solo per reagire, e così rimasi lì
seduto, contro di lui, fissando il pelo ricciuto sulle sue cosce a pochi
pollici dalla mia faccia, annusando il suo odore familiare e
ringraziando Dio perché ero arrivato quand'ero arrivato.
Finalmente mi lasciò il collo e si appoggiò agli scalini, e il nostro
respiro gradatamente ritornò normale. Dopo la pressione e la
tensione del combattimento - la prima vera e propria lotta per la
vita e per la morte nella quale fossi stato personalmente coinvolto mi sentivo debole come un neonato, e tremavo in tutto il corpo. Mi
sedetti in posizione eretta e mi afferrai forte le mani nel tentativo di
controllare il tremito, e solo allora mi accorsi del sangue. Era
dappertutto, Ovunque guardassi vedevo sangue, in pozze e schizzi e
lunghe strisce sulla paglia del pavimento. L'uomo che aveva cercato
di uccidermi con l'ascia era a meno di tre piedi da me, di traverso
sulle gambe del proprietario di quel posto, bizzarramente ritto a
sedere, impalato sulla lancia spezzata di Uther. Evidentemente aveva
spezzato l'asta cadendoci sopra, e la punta gli aveva attraversato la
parte superiore del corpo. Tutto si annebbiò, e vomitai dove mi
trovavo, tossendo e sputacchiando l'amaro fiele della vittoria.
Quando riaprii gli occhi ero in ginocchio sul pavimento, e Uther mi
stava togliendo l'elmo affinché l'aria fresca mi asciugasse la fronte
surriscaldata e i capelli zuppi di sudore.
«Ti senti meglio?» Annuii, tergendomi le labbra e il mento e
sputando per levarmi di bocca l'acidità. «Bene» continuò. «Ho deciso
che non voglio mai più che tu ti arrabbi con me. Sei un uomo
spietato, cugino, quando sei arrabbiato. Hai ammazzato quattro di
questi uomini.»
Girai lo sguardo per quel macello. «Anche tu.»
Sorrise. «Ah, ma io li ho uccisi tutti alle spalle, mentre stavano
guardando te.»
«Rammenta che anch'io li ho presi alle spalle. Per fortuna ho
trovato la tua lancia sul pavimento.» Mi tremava la voce, «E per
fortuna li tenevi tutti impegnati in cima alla scala. Se le cose fossero
state diverse, adesso saremmo morti, tu e io,»
«Sciocchezze. Non erano diverse e noi non siamo morti,»
Sputai ancora. «Ho in bocca un saporaccio. Ho bisogno di bere
qualcosa.» Mi alzai, andai al tavolo con i barili e mi versai una tazza
di birra. Era stantia e priva di effervescenza, così amara e
nauseabonda che non riuscii a mandarla giù; mi sciacquai la bocca e
feci qualche gargarismo e poi sputai sul pavimento, sentendomi
meglio a ogni secondo che passava. Mi guardai attorno e indicai la
carneficina. «Che cosa facciamo?» Sentii un rumore sopra di me, alzai
di scatto la testa e vidi due donne che ci fissavano dal soppalco, con
grandi occhi pieni di spavento. «Altre amiche tue?» chiesi.
Uther guardò in su e le vide. «Venite qui, svelte!» Quando ci
ebbero raggiunti, rannicchiate una contro l'altra per il terrore, con gli
occhi che guizzavano come impazziti da uno all'altro di noi, Uther
sfoderò la spada. «Toglietevi quei vestiti!» Le donne ubbidirono, e
davanti alla loro nudità Uther scosse lentamente la testa in
malinconico divertimento. «Caio, riesci a credere che sono stato
quasi ucciso per questo? Noi siamo stati quasi uccisi per questo, e so
che tu non infileresti il mio dentro una di queste, tanto meno il tuo!»
Le donne se ne stavano vicine, e lo fissavano impaurite,
domandandosi se sarebbero morte o vissute, ma assolutamente certe
di stare guardando in mio cugino la Morte personificata. «Tu!» disse,
puntando la spada contro la più voluminosa. «Voltati. Guarda il mio
amico.» La donna si girò verso di me, con le grosse mammelle
pesanti contro le costole, il ventre tristemente flaccido sulla peluria
del pube. «L'hai quasi fatto ammazzare, baldracca, ed è un principe!
É quasi morto perché hai alimentato la mia concupiscenza con le tue
grosse tette a mantice!» Con il piatto della spada le schiaffeggiò forte
le natiche, facendole fare un salto per la paura e per il dolore, e
facendole sgorgare le lacrime dagli occhi. «Allontanatevi dalla mia
vista, tutte e due» ruggì. «Via! Via, via, via!» La più minuta allungò
una mano verso i vestiti, ma Uther fece roteare di nuovo la spada, e
la colpì di piatto su un fianco. «No! Prendete la vostra vita di furti e
assassinii e accontentatevi! Niente vestiti. Rinascete, come dicono i
cristiani. Procedete verso una nuova vita ignude come siete entrate
in questa, e pensateci due volte prima di azzardarvi a tentare a
morte un altro ottuso gaudente! Fuori!» Corsero via, saltellando
terrorizzate per il pavimento disseminato di cadaveri, e uscirono nel
crepuscolo incombente.
Uther restò a guardarle con quel sorriso un po' pazzo che
amavo, e poi fece scivolare la spada nell'anello della tracolla, in
modo che la lama scendesse sulla schiena. «Ho fatto male a lasciarle
andare, cugino? Hanno cercato di uccidermi.»
«No, Uther. Ti hanno solo irretito. Tutte e tre insieme non
sarebbero riuscite a violentarti, ma solo una ti ha aggredito, e ha
pagato per questo.»
Mi osservava attentamente, con quel mezzo sorriso che gli
indugiava sulle labbra.
«Credi che sia stato troppo duro con loro?»
«No, non troppo duro. Immagino che meritassero una
punizione. Se la sono cavata con poco.»
«Ma?»
Scossi la testa. «Ma niente. Solo mi domando come faranno a
procurarsi da mangiare, adesso che non hanno più un mezzo di
sostentamento.»
Uther grugnì. «Troveranno il modo. Che cosa avresti voluto che
facessi, le dovevo portare con noi?» Raccolse il mio elmo e salì la
scala fino al soppalco, dove prese il suo mantello, infilò l'elmo e
imbracciò lo scudo prima di ritornare dov'ero rimasto ad aspettarlo.
Mi restituì il mio elmo e disse: «Ti ho già detto come sono stato
contento di vederti?». Annuii, e lui andò a prendere una lampada
che bruciava di fianco ai barili di birra. «Sono sempre contento di
vederti, Cai, ma oggi eri bellissimo. Di solito sei insignificante. Anzi,
la maggior parte delle volte sei quasi brutto. Oggi, invece, eri
magnifico. Pazzo furioso, ma magnifico.» Chiacchierando, spingeva a
calci la paglia in un mucchio ai piedi della scala di legno. Finalmente
decise che bastava e lasciò cadere la lampada piena d'olio, che si
ruppe sulle pietre del pavimento. Le fiamme si diffusero rapide.
«Questo non era comunque un posto adatto alla gente per
bene.» Diede un'ultima occhiata ai corpi. «Che riposino in pace,
come dicono i cristiani. Usciamo di qui. Perché ci .sei venuto, a
proposito?»
Fu come una doccia gelida. L'avevo scordato! «Varro sta
morendo, Uther. Siamo stati richiamati a Camulod.»
L'emozione violenta e improvvisa lo fece impallidire.
«No... Non può essere, Cai. Non il nonno!»
Potei solo scuotere la testa. La sua incredulità rispecchiava così
fedelmente la mia da essere disarmante. «Dobbiamo sbrigarci. Ho
portato due cavalli in più.»
Lasciammo l'albergo e i suoi silenziosi ospiti alle fiamme
crepitanti. Il cavallo di Uther era al sicuro in una delle costruzioni sul
retro; glielo tenni fermo mentre lo sellava e stringeva il sottopancia
dopo aver dato una ginocchiata nella pancia del cavallo per
assicurarsi che non fosse ingannevolmente gonfia. Le prime volte ci
era capitato di cadere di lato perché le cinghie non erano state
correttamente allacciate.
Uther balzò in sella e io dietro a lui, e lo diressi dove avevo
nascosto gli altri animali. Gli diedi le redini di uno dei cavalli di
riserva e ci dirigemmo a sud, evitando la strada per risparmiare gli
zoccoli delle bestie.
Da quando avevamo lasciato l'albergo non avevamo detto una
parola, a parte poche brusche indicazioni, e il silenzio si prolungò
per tre o quattro miglia al piccolo galoppo. Fu Uther a parlare per
primo, interrompendo il corso dei miei pensieri e rivelando un lato
di sé più serio e assennato.
«É stata una scempiaggine, un'insensatezza. Avrebbero potuto
uccidermi... mi avrebbero ucciso se tu non fossi arrivato. Non
sarebbe stata una gran perdita, ma adesso mi rendo conto che tu e
gli altri avreste perso tempo a rivoltare tutto il paese alla mia ricerca.
É stato un gesto criminale e stupido. Perdonami, Cai. Non sparirò
più senza prima lasciar detto dove possono trovarmi. Ma in nome di
tutti gli dei romani, tu come facevi a sapere dov'ero?»
«Corpi» dissi. «Corpi femminili e compiacenti. Li hai visti quando
siamo passati la prima volta, e non ne hai potuto approfittare, e poi
ti sei ritrovato con tre giorni di libertà a dieci miglia da loro. Non è
stato difficile. Ti conosco, cugino. Ma hai ragione. É stato un
comportamento stupido, ma dubito che la tua morte non sarebbe
stata considerata una gran perdita. Non dal punto di vista di tuo
nonno. Ai suoi occhi, sei stato cresciuto e addestrato per un fine, e
non certo quello di farti ammazzare in un covo di ladri e di
puttane.»
Non disse nulla per un poco. «Quanto sta male? Quanto tempo
abbiamo perso a causa mia?»
«Non so quanto stia male, ma deve stare male davvero, o non ci
avrebbero richiamati dal giro di perlustrazione. A questa velocità ci
vorranno circa tre giorni per raggiungere Camulod, meno se ci
priviamo del sonno. Il tempo perso non è stato più di un'ora, tutto
considerato. Dovevo venire da questa parte e non ho perso tempo a
cercarti a Glevum. Il combattimento è stato breve, sebbene sia parso
lungo.»
Mi alzai nelle staffe e guardai nella direzione dalla quale
venivamo. Eravamo su un tratto di prateria che già mostrava di
arrendersi alla foresta, e che doveva essere stato disboscato anni
prima da un fattore, di certo ormai defunto. In lontananza, al di
sopra degli alberi, c'era una cappa di fumo nero. Ricademmo nel
silenzio, e continuammo a cavalcare, ognuno immerso nei propri
pensieri.
Cambiavamo regolarmente i cavalli e le miglia scorrevano alle
nostre spalle. Quando scese l'oscurità, riportammo i cavalli sulla
strada fiancheggiata dagli alberi, e proseguimmo alla luce della luna.
Ci fermammo a dormire un poco dopo il tramonto della luna, e
ripartimmo prima delle prime luci dell'alba; il secondo giorno ci
fermammo solo a vuotare vescica e viscere. Ogni volta che scendevo
dalla sella per questo o per quel motivo mi sembrava che non sarei
più stato capace di camminare normalmente, e il pensiero di
rimettere in sella il corpo indolenzito mi deprimeva. Ma lungo la
strada non avemmo problemi, e a metà pomeriggio del terzo giorno
giungemmo in vista di Camulod.
L'ultima parte del viaggio si era svolta sui possedimenti della
Colonia, e dai nostri avamposti avevamo appreso solo che Varro era
caduto, e si era spezzato le gambe e le costole rotolando giù per il
pendio della collina. Aveva i polmoni congestionati, e da otto giorni
sputava sangue. Proseguimmo cupi in volto, e all'ingresso della villa
fummo accolti da zia Luceia. Aveva un aspetto fragile, eppure
indomito, e d sorrise tra le lacrime.
La baciammo, e poi Uther parlò. «Come sta, nonna?»
«Soffre molto. Ma è un uomo cocciuto, e non morirà prima di
aver parlato a tutti e due.»
Era così. Sapevamo entrambi che era inutile mettersi a dire
sciocchezze, come che non sarebbe morto.
«Possiamo andare subito da lui?» chiesi.
«Certamente. È nel suo salottino.» La lasciammo e ci dirigemmo a
rapidi passi verso la stanza che era stata il salottino anche di mio
nonno. I nostri padri erano già lì, uno a ciascun lato del letto. C'era
anche Patrico, il capo del Consiglio della Colonia, canuto e solenne.
Avrei pianto quando vidi come era cambiato il mio prozio da
quando eravamo partiti, appena due settimane prima. Era un uomo
diverso, un estraneo al mio sguardo. Solo gli occhi, infossati in quel
volto distrutto, avvizzito, devastato dal dolore, mi mostravano il
Publio Varro che amavo, e anche gli occhi erano annebbiati dal
dolore.
«Uther» disse. «E Caio. Benvenuti a casa.» La sua voce era un
rauco sussurro. Tese a ciascuno di noi una mano raggrinzita, più
simile a un artiglio, e quando la strinsi nella mia vidi la pelle del
polso un tempo possente pendere a pieghe e rughe dalle ossa. Mi
premetti quella mano contro la guancia, e tra le due superfici sentii
l'umidore delle mie lacrime. «A che cosa servono le lacrime, ragazzo?
E così per tutti gli uomini. Tutti dobbiamo morire. Io ho vissuto
molto più a lungo del dovuto, e ho vissuto bene. Siete stati molto a
cavallo?» Feci segno di sì, incapace di parlare. «Lo immaginavo.» Il
fruscio come di pergamena della sua voce conservava una traccia
dell'antico buonumore. «Puzzate come dei cavalli, tutti e due. Caio,
questo era il letto di tuo nonno. Se l'è goduto per anni prima di
morire. Io ci sto solo da pochi giorni. E non ho intenzione di morirci
con la puzza di sudore rancido di cavallo nelle narici.» Le sue dita
strinsero dolcemente la mia mano. «Andate a farvi un bagno, tutti e
due. Sarò ancora qui quando vi sarete ripuliti. Allora parlerò con
ciascuno di voi singolarmente.» La sua mano premette dolcemente
contro la mia. «Andate. Non morirò prima di aver parlato con
entrambi, lo prometto. Pico, i bagni sono pronti?»
«Certo, Varro. È mai successo che non lo fossero?»
«Sì, una volta. Gli ipocausti erano bloccati. Ma tu non eri qui, a
quel tempo.»
Mio padre si rivolse a noi. «Fate come dice. Vi sentirete meglio.
E trovate qualcosa da mangiare. Publio Varro ha bisogno di un po'
di riposo.» A malincuore ci alzammo e ubbidimmo.
Quando ritornammo, ristorati e profumati di pulito, trovammo
al capezzale zia Luceia, che stringeva tra le sue la mano smagrita del
marito. Publio Varro aveva gli occhi chiusi, ma li aprì udendo il
rumore dei nostri passi, e ci sorrise. «Ah» sussurrò. «Così va meglio.
Questi sono i ragazzi che conosco. Caio, vai con tua zia Luceia e
tienile compagnia intanto che io parlo con Uther. Uther, vieni qui e
siediti dove posso vederti.»
Zia Luceia e io li lasciammo soli. Uscendo dalla stanza mi chiusi
la porta alle spalle. Zia Luceia mi guidò attraverso la casa fino alla
stanza di famiglia, il suo dominio, e mi fece cenno di sedermi su un
divano. «Caio» disse. «Publio Varro non rimarrà con noi per molto,
ormai.» Deglutii il tormentoso groppo che mi chiudeva la gola e le
chiesi che cosa era accaduto. Si strinse nelle spalle in un gesto
sorprendentemente simile a quello che avevo notato mille volte in
suo marito. «Nessuno lo sa, Cai. Lui non vuole dirlo, e nessuno l'ha
visto. Era stato tutto il pomeriggio qui alla villa e stava tornando al
forte quando è successo. Sappiamo solo che era già buio, perché
altrimenti qualcuno l'avrebbe visto.» Allora crollò, e si mise a
piangere. Le andai vicino e la abbracciai, e ascoltai le sue parole di
dolore. «É sempre stato un uomo forte e testardo. Troppo testardo
per invecchiare come gli altri. Troppo testardo per confessare la
perdita della forza o della giovinezza. Credo che abbia diretto il
cavallo su per il pendio, invece di fare il giro più lungo, dalla strada.
Credo che abbia perso l'equilibrio e che sia caduto da cavallo. Non
ha mai accettato di usare una sella, diceva che aveva cavalcato a
pelo per troppo tempo per cambiare abitudine. Comunque, un
venditore ambulante l'ha trovato ai piedi della collina il giorno dopo
di primo mattino. Il suo cavallo pascolava, illeso, poco lontano. Era
lì da ore, bagnato fino all'osso, e freddo di rugiada.» Fece una pausa,
e poi scosse la testa con violenza, spargendo ovunque le lacrime.
«Non mi sono nemmeno accorta che non era tornato a casa. Cioè,
mi sono accorta, ma non ci ho dato peso. Qualche volta dormiva
qui alla villa, quando lavorava fino a tardi. Credevo che fosse qui.
Come potevo immaginare che quel vecchio sciocco avrebbe cercato
di scalare la collina come un dodicenne? E adesso sta per morire e io
per tutta la vita che mi resta continuerò a chiedermi se avrei potuto
trovarlo prima.»
La abbracciai forte e tentai di rassicurarla dicendole che non
avrebbe potuto fare niente, ma non era disposta a lasciarsi consolare
tanto facilmente.
«Oh, Cai» singhiozzò. «Non riesco a credere che una caduta
l'abbia ridotto così. Tutta la sua carne si è sciolta! Non è rimasto
nulla dell'uomo che amo, solo pelle e ossa e dolore e la forza
interiore che non vuole lasciarlo morire!»
«Lo so» dissi nei suoi capelli attraverso le lacrime. «Lo so. Ha una
forza disumana. Non se ne andrà finché non vorrà andarsene.»
«E quando vorrà, io rimarrò sola.» Le sue stesse parole la
sconvolsero, la sentii irrigidirsi tra le mie braccia, e tendere le sue a
spezzare la mia stretta affettuosa. Si alzò in piedi e con un lembo
della stola si asciugò gli occhi, e io vidi la forza fluire in lei e farla
sembrare più grande. Quando parlò, la sua voce era ferma e calma.
«Basta» dichiarò repentinamente. «Per un giorno solo ci sono state
lacrime e sciocche debolezze a sufficienza. Mio marito si sarebbe
vergognato di me se avesse sentito la mia ultima considerazione.» Si
girò e io vidi i suoi occhi pieni di calore. «Tuo zio è uno degli uomini
migliori che siano mai esistiti al mondo. Tutto quello che ho, tutta la
felicità che ho conosciuto, tutto proviene direttamente da lui. Ora
che la sua vita è alla fine, toccherà a me e a te, Caio, e a Uther, e ai
vostri figli e nipoti, fare in modo che la vita che ha vissuto e le
meraviglie che ha compiuto non vengano dimenticate.»
Mentre Luceia diceva queste parole, nella mia mente c'era
Excalibur, perché io sapevo che in essa risiedeva l'immortalità di
Varro. Il nome mi vibrò sulla punta della lingua, ma non gli detti
voce, ricordando che solo cinque paia d'occhi l'avevano vista e
conosciuta, a parte i miei. Quegli occhi appartenevano allo stesso
Varro, ai suoi amici Equo e Plauto, a padre Andros - l'uomo che
aveva disegnato lo stampo dell'elsa - e a mio nonno. Mi domandai
allora se zia Luceia sapesse, ma non osai chiedere. Per quanto
incredibile mi sembrasse allora, forse zio Varro l'aveva tenuta
all'oscuro, Dopo tutto, e sopra a tutto, era una donna, e forse
avrebbe visto in essa solo uno strumento per uccidere, e l'avrebbe
disapprovata, malgrado l'orgoglio per una creazione tanto sublime.
E così non chiesi, per il timore di ferirla con l'improvvisa conoscenza
del segreto di suo marito. Tacqui.
Scorgendo e fraintendendo la mia angosciata indecisione, Luceia
mi strinse il braccio. «Tuo zio avrà presto finito con Uther. So che
deve parlarti. Vai da lui, Caio. Aspetta fuori che Uther esca, e
mandalo qui da me.»
Quando imboccai il corridoio, Uther stava richiudendo la porta
della stanza di mio zio. Si fermò e mi attese con espressione tetra.
«Vuole vedere te, adesso.»
«Come sta?»
«Male, Cai. Molto, molto male.»
«Zia Luceia ti aspetta nella stanza di famiglia.» Annuì e si
allontanò. Io rimasi lì un momento con la mano sulla maniglia della
porta, poi inspirai a fondo ed entrai. Questa volta, avvicinandomi al
letto, compresi che cosa a prima vista mi fosse sembrato così
sconvolgente, così diverso in lui. La barba era sparita, e quella
mancanza aveva mutato completamente l'aspetto del suo viso.
«Zio? Sei sveglio?» bisbigliai.
«Sì, Caio, sono sveglio. Avvicinati.»
Mi avvicinai e mi sedetti sulla sedia accanto al cuscino. «Zio? Ti
sei tagliato la barba.»
Il suo sorriso era spettrale, come la sua voce. «Non io, ragazzo.
Quei dannati dottori. Non potevo tenerla pulita quando avevo la
febbre. È una sensazione strana, come se fossi nudo.» Mi guardò di
traverso. «Sei un uomo in gamba, Caio, o lo sarai tra breve. Adesso
ascolta. Ho molto da dire e poco tempo. Ma io so quello che devo
dire e tu no, perciò non interrompermi. D'accordo?» Feci cenno di sì
e lui alzò gli occhi al soffitto, raccogliendo le forze.
«Excalibur è tua. In sacra eredità. Nessun altro sa della sua
esistenza, ora. Lasciala sotto il pavimento dove si trova. Lì è al
sicuro. Proteggila a costo della vita, Cai. Quella lama fenderà catene
di ferro. Ne ha la forza. È la spada di un re, di un imperatore. Tienila
in custodia per l'Imperatore di Britannia. Non Uther. È troppo
impulsivo, troppo violento. Non ne sa nulla.»
«E zia Luceia?»
Giacque in silenzio, meditando, concentrandosi, e poi riprese
con maggior vigore. «No. È la cosa più eccelsa che ho fatto, e gliel'ho
tenuta nascosta. Una simile conoscenza sarebbe stata troppo
pericolosa per lei. Gli uomini scatenerebbero guerre per possedere
Excalibur, Cai. Non permetterlo. Custodiscila in segreto. Un giorno,
il tempo verrà. Riconoscerai il momento giusto, e riconoscerai
l'uomo giusto. Se il tempo non sarà venuto prima della tua morte,
consegna la Spada a qualcuno di cui ti fidi. Tuo figlio. Lo saprai. Hai
ricevuto buoni insegnamenti. E hai imparato bene. Hai scoperto il
segreto della Signora del Lago, Cai, e poi il segreto della sella. Un
giorno scoprirai il segreto del Re. Lo riconoscerai a prima vista.»
Trattenevo il fiato nello sforzo di ascoltare, e ogni parola si
imprimeva a fuoco nella mia mente. «Tuo nonno Caio era il mio
migliore amico. Lo sai. Era un sognatore, Cai, un grande sognatore.
Nei suoi sogni osava maestosamente, e aveva la forza e il coraggio di
far sì che i suoi sogni si avverassero...» Attesi, finché proseguì: «Diede
inizio a un processo, Cai, a un'evoluzione che tu e i tuoi figli
continuerete. Sognava - e intraprese - la rinascita della grandezza di
Roma qui in questa Britannia. Voleva unire il suo sangue, il sangue
del suo popolo, con il sangue del popolo di Ullic. Uther è il seme del
suo progetto. E lo sei anche tu. Tieni d'occhio Uther, Cai; non ha la
tua lungimiranza. Gli manca il tuo senso di giustizia. Tienilo a bada.
Sarà re dei Pendragon quando morirà suo padre Uric, quando...». La
sua voce si spense e poi si rianimò. «Fai di lui un buon re, Cai.
Consiglialo. Ti ascolterà. Ha un grande amore per te.»
Ci fu di nuovo una pausa, una lunga pausa, prima che l'esile
voce riprendesse: «Usa i cavalli, Cai, e allevane altri. Tanti, tantissimi
cavalli. I Sassoni non possono resistere a una carica di cavalleria. I
cavalli, e le spade lunghe. Usale, e crea un esercito che le usi. Ti
serviranno legioni. Creale. Tu sai come. E gli archi lunghi di Ullic. Le
armi del popolo di Uther. Non trascurarli. Rappresentano il potere,
ragazzo. Possono vincere le battaglie da lontano. Usali. È tutto
quello che ho da dire. Adesso chiama tua zia e vai con Dio».
Mi alzai per andarmene, ma le sue dita si strinsero sulle mie e mi
tirarono giù verso di lui. «Avevo dimenticato. L'Armeria e tutti i suoi
tesori sono tuoi. Uther lo sa. Là dentro c'è molto di cui si può ancora
approfittare.» Chiuse gli occhi e allora fui certo che dormisse, ma
quando mi rialzai per andare da zia Luceia mi fermò un'altra volta.
Dovetti chinarmi vicino alle sue labbra per sentire, tanto si era
affievolita la sua voce «Tuo nonno Caio vuole che tu usi il nome che
ti ha dato tua madre...» Mi si rizzarono i capelli sulla nuca
sentendolo usare il tempo presente, ma le sue dita abbandonarono
lai mia mano, e improvvisamente spaventato corsi fuori per
chiamare mia zia. Lei e Uther erano in piedi nel corridoio. Le feci un
cenno, e Luceia corse al fianco di suo marito. Uther e io ci
guardammo, condividendo senza parlare il reciproco dolore.
Seppellimmo Publio Varro due giorni dopo, accanto al suo
amico Caio Britannico. Quella notte Uther e io ci ubriacammo
insieme, e ci confidammo quanto potemmo delle parole di Varro.
Uther sarebbe diventato re. Io sarei stato il suo consigliere. Da quel
giorno tutti, a eccezione dei miei familiari più intimi, mi conobbero
con il nome di Merlino.
Caio, il ragazzo, era morto con suo zio Publio Varro.
Libro Secondo
AQUILOTTI
VIII.
Ho trascorso anni a riflettere sugli avvenimenti che forgiano il
destino degli uomini, e spesso sono giunto ad accettare l'evidenza
dei miei cimenti, che con tutta la loro disperazione mostrano come
lo zenit e il nadir della vita di ogni uomo, tutta la magnanimità e
l'assurdità della vita in generale, siano dettati dal caso puro e
semplice e dalla cieca coincidenza. L'immagine che più mi schernisce
quando rimugino questi pensieri è la bocca di una donna. Ed è una
visione che appartiene ai miei ricordi, non alla mia immaginazione.
L'integrità di questa cronaca esige ora che io scriva degli
avvenimenti che originarono quella particolare immagine, e i viottoli
tortuosi e involuti che si irraggiarono, da una serie centrale di
circostanze, a confondere i passi di tutto un popolo. Non sono
certo, però, di poterlo fare con distacco, nemmeno dopo cinque
decenni, perché le mie emozioni sono vive oggi quanto lo erano
allora. Concedetemi perciò di incominciare adagio, e di tentare la
ricostruzione di tali circostanze e della sciocca, infantile arroganza
che condusse alla morte della mia giovinezza.
Quattro anni erano trascorsi dalla morte di Publio Varro, e nel
frattempo i due titubanti neofiti capitani richiamati da quel primo
pattugliamento probatorio si erano evoluti in comandanti temerari e
impudenti, ma competenti e capaci, delle truppe di cavalleria di
Camulod, provati e collaudati in battaglia. Uther e io eravamo
emersi da un crogiolo di dure esperienze trasformati in soldati di
mestiere, guerrieri nel vero senso della parola. Eravamo diventati
uomini, e nel perseguimento di quello stato avevamo fatto molto
per costituire le legioni di cui - come ci aveva detto Publio Varro avremmo avuto bisogno nei giorni a venire.
Uther era un gaudente, un libertino e un edonista. E lo ero
anch'io. Ma nessuno dei due pensava a se stesso in quei termini.
Perché avremmo dovuto? Ai tempi della nostra giovinezza il
concetto di peccato carnale si limitava alle relazioni incestuose con i
parenti stretti. Fu solo molto più tardi che i nuovi ecclesiastici
monacali introdussero nella nostra bella isola la nozione della
peccaminosità del piacere occasionale, e sono convinto che la
usassero indiscriminatamente, come uno strumento per indurre la
mente degli uomini ad accettare l'idea che le donne fossero esseri
inferiori e ricettacoli di peccato.
I loro sforzi furono vani, grazie a Dio, ma nel tentativo di
imporre la loro volontà al nostro popolo causarono gravi afflizioni e
molte sofferenze in ogni angolo della nostra terra, dove uomini di
Dio e uomini di buona volontà lottavano contro gli incompatibili
desideri di servire Dio prestando ascolto agli editti della sua Chiesa che ora pretendeva nientemeno che di soggiogare e privare dei
diritti civili metà della nostra società - e di compiacerlo seguitando
ad amare,; onorare e rispettare le fiere donne di Britannia, che da
tempi immemori erano degne eguali dei loro uomini.
Ma niente di tutto ciò si ripercuoteva sulla nostra gioventù.
Come ho detto, eravamo libertini e, in merito al peccato carnale,
completamente innocenti. Ugualmente innocenti; erano le giovani
donne che condividevano la nostra vita e i nostri piaceri carnali. Per
la maggior parte, erano attraenti e talvolta perfino belle forestiere
che non avevano o avevano vaghi legami familiari all'interno della
Colonia. Lavoravano per mantenersi, come facevano tutti,
svolgendo durante il giorno l'attività più consona alla loro natura e
capacità, e godendosi le sere e le notti secondo i piaceri per loro
disponibili. In realtà erano la parte civile al seguito dell'esercito di
Camulod e, come succede spesso a sostenitrici di tal fatta, molte
trovavano tra i soldati della Colonia un compagno permanente. E
come fanno ovunque i giovani, sempre si consideravano immortali,
abili, sane e piene di vita e di amore e ammirazione per i soldati
ugualmente giovani e sani che assicuravano loro sicurezza e
prosperità in un tempo in cui la sicurezza e la prosperità erano lussi
che in lungo e in largo per la Britannia nemmeno si sognavano.
E così ci davamo reciprocamente piacere. Come noi eravamo
insaziabili senza essere dei satiri, esse erano concupiscenti senza
essere concubine; come noi eravamo riottosi senza brutalità, esse
erano materialiste senza venalità. Nessuno criticava la nostra
condotta, e nessuno provava o tradiva censura o sorpresa. Perché
avrebbero dovuto? Uther e io vivevamo al massimo con tutti i nostri
amici, eravamo i principi di Camulod e i portenti della tribù.
Eravamo all'apice della nostra focosa giovinezza, ed eravamo
invincibili in guerra. E quando non c'erano guerre da combattere,
pattugliavamo duramente e a lungo, e lavoravamo duramente e a
lungo agli onerosi compiti del Consiglio amministrativo, fondato dai
nostri padri per il governo della Colonia, del quale eravamo
entrambi membri. Che cosa poteva essere più naturale che
trascorrere le sere e le notti a Camulod e altrove riempiendoci la
pancia e vuotando i lombi a ogni occasione? Il cibo e il sesso
dominavano la nostra esistenza fuori servizio, e il cibo aveva sul
piacere sessuale solo la precedenza necessaria a mantenere la forza
per generare nuovo seme. I vecchi sogni di inferiorità nei confronti
di Uther avevano da tempo cessato di infastidirmi. Ero suo pari in
dimensioni, resistenza e prontezza in qualsiasi momento. In quei
giorni, l'impotenza era un fenomeno temporaneo indotto solo da
un'eccessiva indulgenza, facilmente e rapidamente curato dal riposo
e dalla vellicazione.
Ero proprio in quello stato quando notai per la prima volta
Cassandra. L'avevo già vista in precedenza, ma c'è un'enorme
differenza tra vedere semplicemente una donna e notarla per
davvero. Eravamo ritornati quello stesso giorno da un giro di
perlustrazione lungo e tedioso, e lei faceva parte del bagaglio che
avevamo raccolto nel corso della nostra avanzata. Uther, che
procedeva separato dal corpo principale, l'aveva trovata in una
radura nel fitto della foresta, nascosta dalla strada e accovacciata
accanto ai cadaveri di due persone che supponemmo essere i suoi
genitori. Non c'era accampamento, solo un rifugio raffazzonato di
rami verdi e legna secca buttati insieme così che restavano in piedi a
malapena intorno ai corpi supini. Non c'era traccia di lotta né di
violenza, né c'era modo di dire come quei due fossero morti. Uther
aveva dovuto trascinare la ragazza per un braccio e costringerla a
seguirlo, e l'aveva issata sul suo cavallo e aveva cavalcato tenendola
tra le braccia per i restanti due giorni di pattuglia. Era una cosuccia
esile e smorta, con grandi occhi grigi e una bocca larga che
dominava la piccola faccia appuntita. Ed era assolutamente
silenziosa. Da quando l'avevamo trovata non aveva detto una
parola. Mi ricordava un coniglietto spaventato, non guardava
nessuno, e camminava come se si tenesse insieme con le proprie
braccia. Al nostro ritorno a Camulod, si era rifiutata di lasciare
Uther. Nessuno sapeva parlarle, nessuno sapeva penetrare il suo
totale silenzio, e per tutto quel giorno si rifiutò risolutamente di
abbandonare il fianco di Uther, anche quando le sue voglie lo
condussero dove lei non avrebbe dovuto essere presente.
Quella sera ci vide tutti e tre in quella che Uther chiamava la
stanza dei giochi. Io ero appena stato servito da due delle nostre
nubili e disponibili adoratrici di eroi, e mi ero adagiato come un
imperatore su un letto di folte pellicce, con nel ventre quella
sensazione di sazia vacuità che temporaneamente mi imponeva di
non partecipare ai giochi. Giacevo sul dorso, con le mani
comodamente intrecciate dietro la nuca, e osservavo le mie due
compagne tentare invano di riportare in vita ciò che era morto, e
volere l'impossibile con le teste unite e le dita titillanti,
mordicchiando e stuzzicando con le labbra e con la lingua.
Una serie di gemiti profondi e decisi da parte di Uther, alla mia
sinistra, mi avvertì che stava rapidamente giungendo alla meta, e
pigramente mi girai a guardare, scoprendomi nella piacevole
posizione di vedere il suo fallo sprofondare e riemergere dalla
ragazzotta che lo montava per lo stallone che era. Le natiche della
donna vibravano e sussultavano nell'impegno di accoglierlo, e
costituivano uno spettacolo notevole al mio sguardo clinico e cinico
alquanto. A Uther le donne piacevano grosse. Fu allora che notai
Cassandra, come Uther l'aveva chiamata. Era seduta sul bordo del
mucchio di pellicce, e assisteva alla scena con la massima
indifferenza, come se si fosse trattato di una cena. Mi sollevai su un
gomito per vedere meglio, sottraendomi così alle cure delle mie
assistenti, che ripresero le loro attività non appena mi fui
riaccomodato.
Come me, Uther aveva due compagne, quella che si stava tanto
risolutamente impalando sul suo spuntone, e un'altra che in
ginocchio dietro di lui gli reggeva le spalle in grembo, e i cui grossi
seni gli servivano da appiglio per esercitare i necessari sforzi. La
prima, che le stava di fronte, per stare in equilibrio a cavallo di
Uther si afferrava saldamente alle sue spalle.
Il volto di Cassandra era privo di espressione. Non mostrava
desiderio, né interesse. I suoi occhi scivolavano senza emozione su
quel quadro ansimante e mugolante. La vidi guardare il punto in cui
un ventre sbatteva contro l'altro, e poi i seni dell'altra donna e le
mani che li strizzavano, e allora la donna che reggeva Uther per le
spalle aprì la bocca e sporse la lingua simile a un grosso serpente rosa
luccicante di saliva. A quella vista la compagna raggiunse il culmine
del piacere, e in un impeto di parossismo attirò l'altra verso di sé e
risucchiò nella propria bocca la lingua protesa. Ma il movimento
inopportuno la sottrasse alla carne che la penetrava, e ci fu un
frenetico tafferuglio per reinserire il già zampillante membro prima
che fosse troppo tardi. Mi sorpresi a ridere dell'involontaria
pantomima, e riportai lo sguardo su Cassandra.
La sua espressione non era mutata, ma mi accorsi che la ruvida
stoffa grigia della semplice blusa si tendeva contro la sua coscia,
evidenziandone le curve, e i miei lombi si contrassero di riflesso in
un turgore che non sfuggì alle mie due amiche, le quali
raddoppiarono gli sforzi e trovarono vita dove non ce n'era stata
alcuna. La reazione, non voluta e non prevista, mi stupì, e mi indusse
a considerare con maggiore attenzione quella strana giovane donna.
Non aveva nessuno degli attributi che normalmente trovavo
seducenti. Anzi, decisi, era quasi brutta. E di sicuro nella sua testa
c'era qualcosa che non funzionava bene.
Uther e la sua amazzone erano crollati, e io sentivo progredire la
mia risurrezione. Lasciai Cassandra alle sue distratte osservazioni e
ritornai alle vicende che si svolgevano sotto la mia cintola.
Persi la nozione del tempo che trascorse da quel momento al
momento in cui Uther chiamò il mio nome. Ma ero assorto: nella
beata intimità che avevo raggiunto con le mie compagne, e che mi
permetteva di passare da una all'altra con grande agio e celerità, e
perciò lo ignorai e mi concentrai nel non concentrarmi troppo su
alcunché. Ma Uther non voleva essere ignorato, e la sua insistenza
infine mi distrasse.
«Che cosa c'è, Uther? Che cosa vuoi?»
«Vieni qui! Vieni qui e guarda.»
«Sono occupato! Che cosa devo guardare?»
«Vieni a vedere. Guarda che cosa ho qui!»
Tentai di nuovo di ignorarlo, affondando la faccia in una dovizia
di carne, ma la sua insistenza non si quietava, e dovetti rispondergli,
almeno per farlo tacere. «Non mi importa che cos'hai tu» gli dissi,
«ho cose mie a cui badare.»
«Puoi finire dopo. Vieni a guardare questo.»
Mi alzai con un sospiro e andai da lui, conscio della fresca aria
notturna sulle parti umide del mio corpo. «Che cosa?»
«Guarda qui. Hai mai visto niente del genere?» Certamente sì,
ma stavo guardando la cosa sbagliata. Una delle sue due compagne
si dedicava con la bocca al suo fallo eretto, e intanto si godeva la
bocca dell'altra, che succhiava e aspirava tra le sue cosce
languidamente divaricate. «Non quello! Questo, questo, questo!»
Uther diresse la mia attenzione sul viso di Cassandra, stretto nella sua
mano destra, che stringeva le guance tra pollice e indice in modo che
le labbra sporgessero in una massa informe, soffice e carnosa. Al di
sopra delle labbra arricciate, gli occhi continuavano a fissare Uther
con la medesima, apparentemente sconclusionata docilità. «Guarda
questa bocca, Caio. Non ti ricorda niente?» Guardai. Mi ricordava
qualcosa.
«Credo di sì» dissi, «ma non so che cosa. Lasciala andare.» Uther
ritirò la mano, e la bocca ritornò normale. Era una bocca
stupefacente, che occupava più di metà ampiezza del viso con labbra
morbide e piene. La bocca, e quegli occhi che non si staccavano mai
da quelli di Uther, eclissavano completamente il resto di lei.
Desiderai che guardasse me, invece.
«É una gran bocca» dissi, e Uther la strinse ancora da entrambe le
parti, non tanto forte da farle male, ma abbastanza da comprimere
le labbra nella forma voluta. «Per te a che cosa somiglia, Uther?»
Uther scoppiò in una risata e lasciò la ragazza, voltandosi ad
afferrare per i fianchi la ragazzotta che si stava facendo slinguazzare
dall'amica. «A questa!» gridò, tirandola verso di sé con una mano e
allontanando la compagna con l'altra. Ignorando le contrariate
proteste di entrambe, trascinò e rigirò quella che voleva,
sollevandole le gambe davanti a sé fino a metterla a faccia in giù,
diagonalmente rispetto a lui, con la sua nudità verso l'alto e la testa
ai suoi piedi.
«Vieni qui e guarda!»
Sorridendo, mi spostai dietro la sua spalla destra. La ragazza sulle
sue ginocchia tentò di divincolarsi, ma Uther le mollò un sonoro
ceffone sulle natiche. «Stai buona, donna, e allarga le gambe!» Strinse
le labbra della vulva tra il pollice e l'indice della mano sinistra con
sufficiente forza e pressione verso il basso da socchiuderle. «Ecco!
Vedi? È più bagnata, ma è la stessa cosa!»
«É anche più pelosa» confermai con un sorriso, «ma una
rassomiglianza c'è.»
Uther allungò la mano destra e strinse ancora una volta la bocca
di Cassandra, spostando gli occhi da quelle labbra alle labbra che
teneva strette nell'altra mano.
«Uther! Mi fai male!» disse una voce proveniente dai suoi piedi.
Le diede un altro schiaffo sul sedere. «E allora toglimi dalla faccia
quel tuo culone bagnato, donna!» Improvvisamente congedata, la
donna si allontanò da lui, facendogli da sopra la spalla una smorfia
di rimprovero di cui Uther nemmeno si accorse. La sua amica invece
se la trasse pigramente vicino, onde poter riprendere l'attività
interrotta, Uther continuava a fissare la bocca di Cassandra.
Lentamente, senza abbandonare la presa sul mento della ragazza, si
alzò in piedi e le si mise di fronte, con la punta del pene sospesa a
un pollice dalle labbra arricciate. Cassandra aveva spostato gli occhi
verso l'alto, per seguire quelli di Uther, inclinando così la testa
all'indietro. Uther le infilò le dita della mano sinistra tra i capelli con
sufficiente dolcezza, e la costrinse ad abbassare il volto.
«Ecco» disse, spingendosi leggermente in avanti, aprendosi uno
spazio tra quelle labbra e introducendo appena la punta. La ragazza
non reagì in alcun modo e Uther si ritrasse e ci riprovò, con
maggiore fermezza. Ancora nessuna reazione, ma chiaramente i
denti erano serrati, e gli impedivano l'accesso. La mia tumescenza si
era ridotta a un bottoncino, e le mie due compagne di letto stavano
a guardare con annoiato interesse. Cominciavo a sentirmi inquieto
per quello che Uther stava facendo, anche se non avrei saputo dire
perché. La ragazza si trovava lì di sua spontanea volontà, e Uther
non le stava facendo del male in alcun modo. Tuttavia, mi sentivo a
disagio.
«Uther...»
«Zitto, Caio! Osserva! Andiamo, bellezza, aprila.» Le pizzicò più
forte le guance, costringendola a schiudere i denti. «Così va meglio.
Così va bene...» Lo vidi penetrare nella sua bocca, scivolare dentro
piano e poi ritrarsi, poi scivolare dentro ancora e lasciarle il mento e
metterle la mano sulla testa, e allora lei lo morse. Seppi che l'avrebbe
fatto un intero secondo prima che lo facesse, perché la stavo
guardando negli occhi.
Uther lanciò un urlo come un toro ferito, e si allontanò di scatto
da lei, volando con le mani a cullare la parte offesa. Nell'istante che
ebbi per guardare, non vidi sangue né i segni dei denti, ma qualsiasi
ferita sarebbe stata troppo recente per avere avuto il tempo di
sanguinare. Cassandra balzò in piedi, con i grandi occhi grigi che
scintillavano, non sapevo se per paura, per rabbia o per
soddisfazione. Uther urlò ancora e si scagliò verso di lei con il
braccio levato per annientarla. Un colpo andò a segno, e la
scaraventò dall'altra parte della stanza prima che potessi fermarlo.
Agganciai un gomito al suo, gli gettai l'altro braccio intorno al collo,
e lo buttai a terra, nell'unica mossa che poteva immobilizzarlo. Era in
preda a una collera mostruosa, e lì per lì sarebbe stato capace di
ucciderla. Per trattenerlo dovetti usare tutto il mio peso e tutta la
mia forza. Si agitava e si dibatteva sotto di me come un demente, e
poi all'improvviso smise e giacque inerte. Pensai che fosse un trucco
e non allentai la pressione, ma quando parlò compresi che il pericolo
era passato.
«Va tutto bene, Cai. Puoi lasciarmi andare. Non le farò del male.
Alzati.»
Compresi che diceva la verità e lo liberai. Cercai la ragazza, ma
era sparita. Le altre quattro fissavano noi due a occhi spalancati.
«Dov'è andata?»
Quella con la lingua lunga si strinse nelle spalle grassocce. «Non
so. É corsa via.»
Mi alzai e andai alla porta e guardai fuori nel cortile pieno di
oscurità. Di Cassandra non c'era traccia. Sentii avvicinarsi i passi di
una guardia e mi resi conto di essere nudo, così ritornai nella stanza
e chiusi la porta.
«Quella cagna. La troverò e le darò una lezione che non
dimenticherà tanto in fretta.» Uther era seduto, ingobbito a
esaminare il cosino che teneva tra le dita. «Me l'ha quasi staccato con
quel morso! L'ammazzerò quella cagna.»
«No, Uther» dissi con un sorriso. «Non l'ammazzerai. Non
adesso. Ma per un attimo, prima, ho creduto che l'avresti
ammazzata. Sanguina?»
Controllò ancora. «No. Ma avrebbe potuto. Quella cagna!»
«Andiamo, Uther! Non ha nemmeno morso forte. Stavo
guardando. Sei più scosso e offeso che ferito, ammettilo. Il tuo
orgoglio ha sofferto più del tuo uccello.»
Mi fulminò con uno sguardo. «E tu che cosa ne sai? Tu non li hai
sentiti, i suoi denti!»
«Diamogli un'occhiata, allora. Sono rimasti dei segni?» Feci un
passo verso di lui, ma lo nascose nella mano chiusa protettivamente
a coppa, e io per il sollievo risi apertamente, dimentico del suo
orgoglio. «Dalle dimensioni attuali, direi che te ne ha staccati tre
quarti!» Solo allora mi accorsi che, era ancora sottosopra, e che non
avrei dovuto prenderlo in giro. Mantenni però un tono leggero,
sperando di mostrargli il lato buffo della situazione. Per l'orgoglio
ferito non c'è cataplasma più efficace della capacità di ridere di se
stessi «Ehi!» dissi. «Scherzavo! Probabilmente funzionerà bene come
prima quando smetterai di pensarci. Ragazze, perché non provate a
vedere se il bastone di Uther è ancora abbastanza robusto da
potercisi appoggiare?»
Erano ben disposte, e lo circondarono di nudità calde e
impetuose, ma Uther non ne volle sapere. Le allontanò bruscamente
e si alzò in piedi con fiero cipiglio, afferrò la tunica e se la infilò. «Ci
vediamo domattina» disse in malo modo già sulla porta, e ci lasciò
tutti e cinque a fissare esterrefatti la porta chiusa.
Mi alzai e mi versai del vino dalla brocca che c'era sul tavolo.
«Bene, signore» dissi. «Tornerà quando gli sarà passata.» Feci un
silenzioso brindisi a tutte e quattro. «Nel frattempo, perché non
cerchiamo di scoprire quante volte l'uno sta nel quattro?» Il fuoco
bruciava basso, e nella stanza era rimasta accesa solo una lampada.
Una di loro, quella con la lunga lingua rosa, la spense con un soffio
quando mi avvicinai.
IX.
Mi sbagliavo. Uther non ritornò quella notte, e solo due persone
avrebbero potuto vederlo nel corso della settimana che seguì. La
prima era la guardia di servizio nel cortile, quando Uther uscì a
precipizio dalla stanza dei giochi; l'altra era la ragazza, Cassandra.
Mi svegliai il mattino successivo poco dopo l'alba e lasciai le mie
quattro compagne addormentate in un intrico di membra. Non
avevo avuto più di due ore di sonno, e quando finalmente mi ero
arreso, almeno due ragazze erano ancora impegnate a darsi
reciproco piacere. Mentre mi vestivo, notai che Uther non era
tornato, ma in quel momento non mi parve importante. Andai alle
stalle e galoppai fino alla villa; l'aria fresca e frizzante di quel gelido
mattino mi schiarì le idee, e mi consentì di pregustare il calore umido
e seducente dei bagni, dove l'acqua e il vapore avrebbero purificato
il mio corpo degli eccessi della notte precedente.
Una regolare seduta del Consiglio era prevista per mezzogiorno,
e fino a quell'ora non avevo niente da fare, così trascorsi un'ora a
vagare per la villa. Per molti anni era stata il cuore della famiglia
Britannico, e oggi era un luogo silenzioso e disabitato, a malapena
utilizzato da quando tutta la famiglia si era trasferita nel forte in cima
alla collina, anche se i servitori la mantenevano in perfette
condizioni come alloggio per gli ospiti e avevano cura dei magnifici
bagni. Anche al forte c'erano i bagni, ovviamente, pratici, austeri, e
appena funzionali, primitivi rispetto al lusso offerto dalle comodità
di villa Britannico.
Era mattino inoltrato quando risalii la collina fino al forte, dove
indossai abiti più formali e mi diressi alle cucine per mangiare un
boccone prima di prepararmi alla riunione del Consiglio. Sentii
chiamare il mio nome, mi girai e vidi Lucano, il capo del personale
medico, che guardava verso di me e mi faceva cenno. Mi fermai,
perplesso, e lasciai che si avvicinasse. Era un abile chirurgo, il nostro
chirurgo migliore infatti, ma avevo la convinzione che non fosse un
uomo simpatico. Mi chiese se avevo visto Uther.
«No, Lucano, non l'ho visto. Non lo vedo da ieri sera. C'è un
problema? Posso aiutarti?»
Aggrottò la fronte e si mordicchiò il labbro inferiore. «Sì,
comandante, c'è un problema, ma non so...»
«Non sai se posso aiutarti. Beh, non lo sapremo finché non mi
dirai qual è il problema.» Sembrava ancora indeciso.
«Ebbene? Andiamo, sputa!»
Fece una smorfia. «Si tratta della ragazza, comandante.»
Mi accigliai, senza capire il significato delle sue parole. «Quale
ragazza, Lucano? Non so leggere nel pensiero.»
«La donna, signore. Quella che il comandante Uther ha riportato
con sé ieri.»
Allora compresi. «Cassandra. Che cosa mi dici di lei?»
«Si trova nel mio alloggio, comandante.»
«Davvero?» Gli rivolsi un sorriso. «Otterrai poca collaborazione
da lei, Lucano. Bada ai suoi denti.»
Quell'uomo non aveva il senso dell'umorismo. Mi guardò con
occhi torvi, le sopracciglia appesantite dalla disapprovazione. «È stata
picchiata, comandante. Brutalmente, quasi a morte.» Mentre
proseguiva smisi di respirare. «Alcuni soldati l'hanno trovata questa
mattina, nelle stalle contro il muro occidentale. L'hanno portata da
me. Pensavo che, siccome il comandante Uther è il suo protettore,
bisognerebbe informarlo immediatamente, ma non sono riuscito a
trovarlo. Quando ti ho visto, mi è venuto in mente che forse potevi
sapere dov'era.»
Sentivo un'acidità malsana alla bocca dello stomaco, ma la bugia
mi venne alle labbra spontaneamente. «Non posso dirtelo. È partito
dal forte ieri notte per una questione privata. Non so quando
tornerà. Accompagnami dalla ragazza.» Lo seguii fino al suo alloggio,
fermandomi solo per dire a uno degli uomini diretti alla Sala del
Consiglio che avrei potuto tardare e che la seduta avrebbe dovuto
iniziare senza di me e senza Uther.
Lucano non aveva esagerato. La ragazza giaceva nuda su un
lettino, nascosta alla vista da un paravento pieghevole. Era stata
picchiata senza misericordia con un bastone, e le contusioni sulla sua
pelle bianca avrebbero impiegato settimane a guarire. Il sangue era
stato lavato via, e i tagli più slabbrati e profondi erano stati cuciti. I
suoi occhi erano lividi e completamente chiusi dal gonfiore, e la sua
bocca sbalorditiva, che fui immediatamente certo fosse stata la causa
di tutto, era una massa frantumata e sanguinolenta. La troverò e le
darò una lezione che non dimenticherà tanto in fretta! Al riudire la
voce di Uther, mi si accapponò la pelle per il disgusto. Come aveva
potuto fare una cosa simile a una ragazzina tutt'ossa? La mia mente
non riusciva ad accettarlo, ma la prova mi stava di fronte, nuda e
malmenata.
«Le è stata fatta violenza?»
«Credo che si possa dire così.»
Colsi il sarcasmo nel tono della sua voce e lo aggredii come una
furia. «Sessualmente, intendo, sciocco che sei! É stata violentata?»
Gli occhi di Lucano erano gelidi. Mi ero fatto un nemico. «Sì,
comandante. É stata stuprata e sodomizzata. Entrambe le cose con
estrema brutalità. Sia l'ano sia la vagina sono malamente lacerati.»
Sentii la stanza girarmi intorno. «Vivrà?»
«Credo di sì, se lo vuole.»
«Che cosa intendi dire?»
Scrollò le spalle e inclinò la testa in un modo strano, stringendo
le labbra. «Proprio quello che ho detto. Se desidera vivere, vivrà. C'è
gente che muore semplicemente scegliendo di non vivere; Questa
giovane donna ha subito un'esperienza terribile. É vero che è muta?»
La guardai. «Non lo sappiamo. Non parla da quando l'abbiamo
trovata vicino ai corpi di due persone che potevano essere i suoi
genitori. Il comandante Uther ha pensato che potesse avere avuto
una sorta di collasso emotivo per avere assistito alla loro morte.»
«Com'erano morti?»
«Non sappiamo nemmeno quello. Non c'erano segni di violenza,
e non abbiamo visto niente che potesse indicare una malattia. Erano
solo morti, e la ragazza era in ginocchio accanto a loro.»
Lucano ripeté quel singolare gesto. «Suppongo che possa essere
vero. Potrebbe aver subito un trauma psichico. I sistemi di difesa
dell'organismo sono un fenomeno di cui
praticamente nulla. Quando l'avete trovata?»
non
conosciamo
Feci un rapido calcolo. «Sei giorni fa.»
«Mmh...! Beh, anche se non era traumatizzata allora, lo è
sicuramente adesso.»
Il suo corpo giaceva sul lettino davanti a me. La pelle era bianca
e la costituzione minuta, ma non era emaciata come avevo creduto.
Le gambe erano sode e ben tornite, e il seno piccolo ma pieno e
fermo. Sentii un altro rimescolio di desiderio, e un'ondata di ribrezzo
per me stesso.
«Ci sono ossa rotte?»
«No. Nessuna frattura. Solo contusioni, come puoi vedere, sia
davanti sia dietro. E forse delle emorragie interne. Chiunque abbia
fatto questo è un animale.»
«Già, non c'è dubbio. Come fai a sapere delle emorragie interne?
La gente sanguina dentro?» Non ci avevo mai pensato veramente. Il
suo sopracciglio alzato era un evidente sberleffo.
«Sì, comandante, è questo che causa i lividi. A volte un forte
colpo può rompere un vaso sanguigno importante, e provocare una
grossa perdita di sangue all'interno delle cavità corporee.»
«E che cosa significa?»
Di nuovo l'alzata di spalle e quel gesto peculiare. «Significa che il
paziente probabilmente morirà.»
Sentii che la testa avrebbe potuto esplodermi, e mi premetti le
tempie con la mano sinistra. «A che ora è successo, puoi dirlo?»
«Durante la notte. Non sappiamo quando. Ma quando l’hanno
trovata il sangue si era rappreso.»
«E le guardie?» Parlavo a me stesso, più che con lui. «Non ha
sentito niente nessuno? Dio sa se deve aver gridato.»
«No, se è muta davvero, comandante.»
Mi sfuggì un sospiro che era in parte un singhiozzo e distolsi lo
sguardo dal corpo devastato della ragazza, lottando per tenere sotto
controllo la rabbia e la ripugnanza, e voltai le spalle a Lucano finché
non riuscii a dominare i muscoli del viso. Finalmente mi calmai
abbastanza per nascondere l'inquieto malessere della mia anima e
per parlare in tono pacato.
«Grazie, Lucano. Hai fatto bene. Dove sono gli uomini che
l'hanno trovata?»
«Li ho rimandati alle loro faccende.»
«Mmh...! Perciò la notizia avrà fatto il giro del forte, ormai.
Chiunque ne sia responsabile saprà che è ancora viva. Voglio delle
guardie fisse fuori da ogni porta che conduce a questo luogo.
Provvederò io stesso. Non appena saprai se vivrà o no, voglio essere
informato. Nel frattempo, rimarrai qui con lei. Non lasciarla sola
nemmeno per un istante. É un ordine.» Lucano fece un cenno di
assenso, e io mi costrinsi a proseguire. «Se il comandante Uther
dovesse tornare oggi, lo manderò qui. Fai quello che puoi per lei,
Lucano. Non ha fatto niente per meritarselo.» Nemmeno se
gliel'avesse staccato con un morso, aggiunsi tra me.
Lucano mi bloccò sulla porta. «Comandante?»
«Sì? Che cosa c'è?»
«Come conosci il suo nome?»
Lo guardai accigliato, e poi capii. «Non lo conosco» gli dissi.
«Non è il suo nome, è il nostro. Anche allora aveva un aspetto
abbastanza tragico, per essere Cassandra di Troia, Uther le ha dato
quel nome.»
«Capisco.»
Feci una smorfia, conscio di non avere sorrisi dentro di me. «No,
Lucano, non capisci.» Perché non hai visto quello che ho visto io,
aggiunsi mentalmente.
All'esterno, alla luce del sole, l'immagine di quel corpo coperto
di lividi continuò a tormentare i miei occhi. Iniziai a camminare
verso la Sala del Consiglio, ma quando vidi altri consiglieri affollarsi
in quella direzione e pensai alle arie fredde, noiose banalità
all'ordine del giorno, seppi che nel mio attuale stato d'animo non
avrei potuto affrontarle. Cambiai direzione e mi allontanai,
sforzandomi di mantenere il volto inespressivo e la mente vuota, e
di fare un cenno alle persone che mi salutavano a ogni passo. Mi
ritrovai sotto l'impalcatura contro il muro interno, dove i muratori
erano al lavoro per aggiungere nuovi alloggi addossati alle difese
principali del forte. Rimasi lì seduto nella penombra per lungo
tempo, ripensando a tutto quel pasticcio.
Fossi stato il solo a conoscere le circostanze della faccenda, avrei
serbato i miei dubbi finché non avessi potuto parlarne direttamente
e privatamente con Uther, ma non ero il solo a sapere. Le nostre
quattro consorti della notte precedente avevano assistito
all'accaduto, e non avrebbero perso tempo a spifferare quello che
sapevano. Colpito da un pensiero improvviso, mi alzai in fretta e
ritornai alla stanza dei giochi. Non era ancora mezzogiorno.
Mentre mi stavo avvicinando alla porta, questa si aprì e due
delle ragazze uscirono. Le fermai con un sorriso rigido e insincero, a
braccia aperte, e chiesi loro dove stessero andando. A mangiare, mi
dissero. Non avevano ancora rotto il digiuno? No, si erano appena
svegliate. E dov'erano le altre ragazze? Ancora a letto. Il mio sollievo
quasi mi tradì, ma riuscii a controllarmi, come un mentitore incallito.
Le feci voltare, le ricondussi nella stanza, dissi loro di spogliarsi
un'altra volta, e promisi di ritornare di lì a poco con del cibo, del
vino, un massaggiatore e Uther. Furono sorprese, ma compiacenti.
Feci qualche moina alla ragazza con la lunga lingua rosa - non riuscii
mai a ricordare il suo nome, ma non la dimenticai mai - e le chiesi se
avesse gustato le altre due come quella che aveva condiviso con
Uther. No, disse, ma era disposta a farlo, se erano disposte loro.
Le mie due precedenti compagne si guardarono indecise,
domandandosi che cosa avessi in mente, ma sistemai la faccenda
offrendo una moneta d'oro a quella che avesse mostrato maggiore
entusiasmo quando fossi tornato con Uther. Anche in una società in
cui non si usa denaro, l'oro è un persuasore potente. Le lasciai a fare
gli approcci del caso e mi diressi all'alloggio di Tito.
Stava lavorando ai suoi registri, e al mio ingresso alzò gli occhi
sorpreso. «Non dovresti essere nella Sala del Consiglio?»
«Dovrei, ma è capitato qualcosa. C'è qualcuno in giro?
Ho bisogno di parlarti da solo.»
«Adesso?»
«Immediatamente.»
«Parla allora. Non c'è nessuno. Che cosa succede?»
«Ti dirò tutto più tardi, Tito. Per il momento, posso solo
chiederti di fidarti di me, e di fare per me qualcosa subito, senza
spiegazione.»
«É una domanda sciocca, Cai. Che cosa c'è? Che cosa hai
bisogno?»
«Una squadra di uomini assolutamente affidabili. Voglio che tu
venga con me fino alla stanza dei giochi e che mi aiuti a rapire
quattro donne.»
«Solo quattro?» Sorrideva.
«Sono serio, Tito. Ti dirò dopo di che cosa si tratta. Hai visto
Uther oggi?»
«No. Perché?»
«Niente, non è importante adesso. Farai quello che ti chiedo?»
Mi guardò per tre lunghi secondi cercando di valutare la portata
delle mie parole e poi si alzò. «Mi ci vorrà un po' per mettere
insieme degli uomini affidabili. Presumo che tu voglia uomini in
grado di mantenere il silenzio.»
«Sì, soprattutto. Devo mettere insieme alcune cose anch'io. Ci
vediamo nella corte tra poco.»
Quando aprii la porta ed entrai con Tito al seguito, le espressioni
sul viso delle quattro ragazze variavano dal vivace interesse al
disappunto.
«Dov'è Uther? E dov'è il nostro cibo?» chiese quella con la lingua
lunga.
«Il cibo sta arrivando, ragazze. Uther ha lasciato il forte per una
questione di emergenza. Adesso mettetevi a sedere, tutte quante, e
ascoltate attentamente quello che devo dirvi. É importante.» Si
sedettero e mi fissarono, cominciando a chiedersi che cosa stava
succedendo. Io appoggiai una natica sul bordo del tavolo e le
guardai, riflettendo su ciò che avrei detto loro, e su come gliel'avrei
detto. Quelle giovani donne erano creature di piacere. Infilai una
mano nella tunica e tirai fuori una borsa di cuoio, pesante e sfarzosa,
e la lasciai cadere sul tavolo con un tonfo massiccio e metallico.
«Oro» dissi. «Uther e io abbiamo una proposta da fare a voi
signore.» Aprii i cordoni della borsa e rovesciai sul tavolo una cascata
di monete d'oro. «Qui ci sono ottanta monete d'oro, venti per
ciascuna di voi. É denaro sufficiente a sistemarvi per tutta la vita.
Secondo il valore corrente, state guardando circa quarantamila
denari d'argento.» Quattro paia d'occhi erano incollate al mucchietto
di luccicanti monete. Tirai fuori un'altra borsa e versai una seconda
cascata d'oro. «Altre venti ciascuna. Ma ci sono delle condizioni.
Dovete guadagnarle.» Tutte e quattro insieme non avrebbero
guadagnato venti monete d'oro nemmeno se avessero servito a letto
un'intera legione per cinque anni.
Lingua Lunga si umettò le labbra. «Quali... condizioni?»
«Partite da Camulod adesso, immediatamente, senza salutare
nessuno. Vi fornirò una scorta fino a Glevum.» Erano più di sessanta
miglia. «Quando arriverete a Glevum, comprerete una casa, e la
sistemerete per... diciamo i vostri propositi? ...e la terrete calda e
accogliente per il comandante Uther e me e per il legato Tito, qui
presente. Come sapete, siamo tornati ieri da un lungo giro di
pattuglia. A Glevum non abbiamo trovato nessuno svago.
Incominciavamo a sentirci attratti l'uno dall'altro.»
Nessuna sorrise al mio tentativo di fare dello spirito. Una delle
due che erano state le mie compagne mi chiese con voce roca:
«Quando avremo il denaro?».
«Adesso. É vostro non appena accettate i termini dell'accordo.»
«Perché dovremmo partire subito? Che cosa sta succedendo qui?»
chiese una, imbronciata, con voce sospettosa.
«Succedendo?» La mia mente girava a vuoto. « É facile
rispondere. Vi dirò che cosa sta succedendo, se davvero volete
saperlo.»
«Allora? Vogliamo davvero saperlo.»
Mi schiarii la voce e mi lanciai alla carica con una menzogna
improvvisata. «Uther e io eravamo a Glevum quando abbiamo
deciso di farlo. Di mettere su una casa, intendo dire. Stamattina, a
colazione, abbiamo concluso che se volevamo farlo, dovevamo farlo
in fretta, oggi stesso. Il ritorno del generale Pico, mio padre, è atteso
per oggi. Lo proibirebbe, categoricamente. Trascorre molto tempo
con i preti cristiani, e parla dei piaceri della vita ultraterrena.
Disapprova la nostra condotta con le donne, e gli verrebbe un colpo
apoplettico se pensasse che abbiamo intenzione di mandare dei
soldati di scorta per una simile impresa. Se partite adesso,
immediatamente, quando lui arriverà non sarete più qui, e non lo
saprà mai. Ma dovete partire adesso, e di nascosto, perché se
qualcuno sospetta che cosa stiamo facendo, e il generale Pico lo
viene a sapere, ci sottoporrà alla corte marziale e la nostra vita non
varrà la pena di essere vissuta. Tantomeno la vostra.»
Quella imbronciata non era ancora convinta.
«Naturalmente» proseguii spudoratamente, «se l'idea non vi
piace, potete rimanere qui e lasciare tutto come sta. Restituirò il
denaro al tesoriere e ci scorderemo l'intera faccenda.» Raccolsi una
manciata di monete e me ne lasciai scivolare alcune tra le dita.
Funzionò.
«Come ci arriviamo?» chiese una. «Io non so andare a cavallo.»
«Non essere stupida, ragazza. Vi ci manderemo su un carro
coperto, con i sedili e tutte le comodità. Ve ne andrete in fretta, ma
con stile.»
«E i vostri soldatini?» chiese Lingua Lunga. «Non avete paura che
chiacchierino?»
«No.» Sorrisi. «Non finché non saranno tornati. E poi, quando
rischieranno di perdere il privilegio di farvi visite a Glevum e di
mettersi nei guai con il generale, non avranno voglia di
chiacchierare. E sono certo che faranno un viaggio piacevole,
almeno all'andata.» Fu la sua volta di sorridere.
Mezz'ora dopo erano sul carro, con le monete strette in pugno e
razioni di cibo sufficienti per un esercito. Tito aveva dato istruzioni
agli uomini della scorta, e insieme restammo a guardare la comitiva
che usciva dai cancelli e scendeva lungo la strada. La stanza dei
giochi di Uther era vuota. Pelli e pellicce e cuscini se n'erano andati a
bordo del carro.
Quando furono scomparsi alla vista, Tito si girò verso di me con
l'accenno di un sorriso. «La mia pazienza non ti stupisce? Che cosa
succede, Cai? Hai appena distribuito il riscatto di un imperatore. Di
che cosa si tratta?»
«Dicerie e reputazione, Tito, ecco di che cosa si tratta, Facciamo
due passi dove nessuno ci possa ascoltare, e ti racconterò tutta
questa spiacevole storia.»
Mi osservava attentamente ora, e ragionava alla svelta, «Dov'è
Uther, Cai? Qui c'è qualcosa che mi sfugge.»
«Uh» grugnii. «Qui c'è qualcosa che puzza fin nelle narici di Dio,
amico mio.»
Scendemmo lungo la collina e io parlai per mezz'ora, e gli dissi
tutto quello che sapevo. Ne fu sconvolto, e profondamente turbato
come lo ero stato io. Quand'ebbi finito di parlare si fermò e mi prese
per il gomito, mi fece voltare e mi guardò negli occhi.
«Non penserai davvero che sia stato Uther?»
Mi girai dall'altra parte e ripresi a camminare, lasciando che le
mie parole lo raggiungessero da sopra la spalla. «Che cos'altro posso
pensare, Tito? Ti ho detto ciò che ho visto e udito. Tutto punta a
Uther, e Uther è sparito. Ho torto?»
Mi si affiancò. «Devi averlo, Cai. Devi avere torto. Uther non
può essere capace della bestiale ferocia di cui stai parlando.»
«Lo so, Tito. L'avrei detto anch'io, prima di oggi. Ma devi
ammettere che di ferocia è capace. L'hai visto infuriato; l'abbiamo
visto entrambi. É capace di uccidere.»
«Certo che è capace, in battaglia. Siamo capaci tutti.» Scosse la
testa. «No, non ci credo. Avrebbe potuto picchiarla dopo che l'aveva
morso, mentre era così arrabbiato, ma non in questo modo! Non a
sangue freddo.» A un tratto il suo viso si rischiarò, e la speranza gli
brillò negli occhi. «Ma hai detto che è stata stuprata, davanti e
dietro. Non avrebbe potuto farlo, dopo quel morso.»
Scossi la testa io, allora. «Non lo so, Tito. Non lo so. É venuto in
mente anche a me, ma non so davvero con quanta violenza l'abbia
morso. In quel momento ho pensato che fosse più offeso che ferito,
ma non ne sono certo. Avrebbe potuto essere ancora in grado di
farlo. E mi è venuta in mente un'altra cosa, anche se sto saltando a
conclusioni avventate.»
«Che cosa?»
«É stata picchiata con un bastone. A quanto pare nessuno è
riuscito a trovarlo.» Dovetti tacere, e pensare di nuovo a quello che
stavo insinuando, prima di continuare. «Mi è venuto in mente che
avrebbe potuto usare lo stesso bastone per penetrarla, così sarebbe
sembrata vittima di uno stupro quando lui non avrebbe potuto
stuprare nessuno per via del morso.»
«Dolce Gesù, Cai! Stai facendo di lui una bestia rabbiosa!»
«Non hai visto quella ragazza, Tito. Chiunque l'abbia ridotta così
è una bestia rabbiosa!»
«Ma semplicemente non è Uther!»
Lo aggredii. «E allora chi è, Tito? Sei tu? Sono io? Mio padre?
Qualcuno è stato! Qualcuno proprio qui a Camulod. Non me lo sto
inventando. É successo!» Mi resi conto che stavo gridando, e abbassai
la voce. «Quella ragazza è nell'alloggio di Lucano, Tito. Non è un
parto della mia fantasia, e non lo è nemmeno quello che le è
capitato. Qualcuno in questo forte l'ha brutalizzata come avrebbe
fatto un animale selvaggio - peggio di un animale selvaggio - e l'ha
lasciata per morta. Mi meraviglia che sia ancora viva, e mentre
parliamo potrebbe benissimo essere morta. Spero di no. Se
sopravvive, potrà identificare il suo aggressore.»
«Come? Pensavo che fosse sorda e muta.»
«Andiamo, Tito! Può puntare un dito.»
«Oh, ovviamente. Che stupido.»
«Deve vivere, Tito, perché non sono in grado di funzionare in
modo appropriato con in mente questi sospetti e nessuna prova in
un senso o nell'altro. Deve vivere per guardare Uther in faccia, e
quando succede io devo esserci, e perciò devo far sì che rimanga in
vita quando incomincerà a guarire.»
Tito mi guardò corrugando la fronte. «Non capisco. Quello che
dici non ha senso. Se incomincia a guarire, di certo sopravviverà.»
Misi un freno alla mia impazienza e riuscii a non rispondergli in
modo brusco. «Pensaci, Tito. Pensaci bene. Non abbiamo a che fare
con una persona normale. Supponi di essere stato tu a fare questa
cosa, e di pensare che la ragazza sia morta e che il tuo segreto sia
salvo. E poi scopri che è viva e in punto di guarigione, e che potrà
identificarti. Che cosa faresti?»
«Scapperei.» Nella sua voce non c'era un minimo di esitazione.
«Esatto. É una buona risposta, proprio quella che mi sarei
aspettato da te, anche se dovresti correre veloce e lontano per essere
al sicuro dalla giustizia di Pico. Ma supponi, per una qualunque di
mille ragioni, di non potere, o non volere fuggire da Camulod. Che
cosa faresti? Quale sarebbe la tua prossima mossa? Ricorda, stiamo
parlando di una ragazzina inferma, sorda e muta, l'unica testimone
che potrebbe condannarti. Che cosa potresti tentare di fare, allora?»
Gli stavo mettendo le parole in bocca, ma dovevo farlo.
«Tentare di ucciderla. Hai ragione, Cai. Dovremo proteggerla
giorno e notte.»
«Come, Tito?»
«Che cosa vuol dire, come?» Era perplesso.
«Chi metterai di guardia? É stato qualcuno in questo forte, non
dimenticarlo.»
Si rabbuiò. «Metteremo una doppia guardia.»
«Per guardare le guardie? E se fossero coinvolti due o più
uomini? Non lo sappiamo, e non possiamo permetterci di correre
rischi.»
Smise di camminare e mi fissò, «Tu mi spaventi, Caio. Mi stai
dicendo che non posso fidarmi dei miei stessi uomini.»
Gli posai una mano sulla spalla. «É anche peggio di così, Tito. In
questa storia non possiamo fidarci di nessuno. In realtà è questo il
crimine che è stato commesso qui. In questo forte, l'unica persona
della cui innocenza posso essere assolutamente certo sono io. Io so
di non essere stato. Posso essere certo anche del medico, Lucano,
perché la sta tenendo in vita. E tu, amico mio, sei semplicemente te
stesso, incapace di tanta bestialità. Mio padre e i suoi uomini sono di
pattuglia. Quando torneranno, la proteggeranno loro. Fino ad
allora, tocca a noi.» Feci una pausa. «É l'unica che può discolpare
Uther, o condannarlo.»
«Dannazione! Questa faccenda puzza come le fogne di Roma!»
La sua voce traboccava di disgusto. «Che cosa facciamo? Come ci
comportiamo? Hai qualche idea?»
Sentii la sua ultima domanda solo per metà, perché eravamo
rientrati nel forte e in lontananza avevo scorto l'inconfondibile
sagoma di Daffyd, il mio migliore amico tra i druidi, che scompariva
in direzione delle cucine. La sua vista suscitò nella mia mente
un'associazione di immagini perfettamente formate, sentii in petto
un grande sollievo, come se fossi stato liberato da un peso, e mi
sentii subito molto meglio. Parlai a Tito da sopra la spalla.
«Mi è appena venuta un'idea, Tito. Lasciami solo per un po' a
rimuginarci sopra.»
Si strinse nelle spalle e scosse la testa, poi sollevò le mani con i
palmi rivolti all'esterno. «Spero che sia una buona idea, Cai. Abbine
cura, perché Dio sa che ne abbiamo bisogno. Sarò nel mio
cubiculum.»
Lo guardai allontanarsi, poi ritornai sui miei passi nella solitudine
dell'impalcatura contro le mura. Li, sicuro che nessuno dei muratori
si sarebbe azzardato ad avvicinarsi o a disturbarmi, mi misi
comodamente a riflettere sull'idea che mi era balenata,
correggendola e adattandola finché non si fu trasformata in un
realizzabile piano d'azione.
La sicurezza di Cassandra era essenziale. Da essa dipendeva la
fine dei miei dubbi, per quanto lievi, concernenti la colpa di mio
cugino. Dovevano essere messi a confronto, se volevo continuare a
vivere e a essere sano di mente. Ero convinto che la sua prima
reazione nei confronti di Uther avrebbe stabilito immediatamente la
sua innocenza o la sua colpa, e in entrambi i casi io sarei stato
sollevato da quei tormentosi sospetti. Nel frattempo, però, fino al
ritorno della pattuglia di mio padre, avevo l'impellente problema
che avevo condiviso con Tito: chi avrebbe guardato le guardie?
Non so quando mi fosse passata per la mente l'idea di una
sparizione misteriosa, ma vi si era cristallizzata nel momento in cui
avevo visto Daffyd in lontananza, perché sapevo che con lui ci
sarebbe stato Mod, uno dei suoi due apprendisti, un adolescente
snello, dall'aspetto androgino. Avevo subito pensato di sostituire
Mod a Cassandra, e di organizzare la sostituzione in modo che
nessuno se ne accorgesse.
Quello era il fondamento del mio piano. Ma il piano e la sua
attuazione erano rimasti sconnessi e indefiniti, e la loro informità
pesante e massiccia si trovava nel mio stomaco come una massa di
cibo non digerito. Analizzando a fondo la questione, e progettando
mentalmente la linea di azione, i tasselli si composero fino all'ultimo
in un mosaico convincente, e il mio entusiasmo si rafforzò. Avrei
potuto fare poco da solo, ma avevo amici leali di cui potevo
fidarmi, e il medico Lucano, sul quale potevo contare garantendogli
la continuità del suo incarico. Sapevo che il mio piano poteva
funzionare.
Meno di un'ora dopo il mio arrivo sotto l'impalcatura, iniziai a
mettere in atto il mio stratagemma. Convocai i miei amici
nell'infermeria di Lucano, spiegai loro la situazione e che cosa mi
proponevo di fare e mi assicurai il loro sostegno.
Ludo, uno dei miei più vecchi amici a Camulod e il capo delle
cucine del commissariato, avrebbe avuto nel rapimento una parte
cruciale. Durante la nostra fanciullezza, Uther mi aveva spesso messo
in guardia contro di lui, a causa della sua nota passione per i
giovanotti del suo stesso sesso, ma Ludo non aveva mai tentato con
me indelicati approcci, né io gli avevo mai dato motivo di risentirsi.
Si impegnò nel mio progetto con assoluta e istantanea dedizione.
Accettò di vuotare entro un'ora uno dei suoi ripostigli vicino
all'infermeria, e di lasciarlo a mia disposizione. Lucano si occupò di
trasferire Cassandra dal suo alloggio, e di nasconderla al sicuro nel
ripostiglio non appena fosse stato vuoto. Mod avrebbe preso
immediatamente il posto di Cassandra, celando la propria identità
sotto lo stesso tipo di indumenti nei quali Lucano aveva avvolto la
ragazza. Alcuni indumenti già della ragazza, macchiati del suo
sangue, avrebbero amplificato l'effetto. Quando tutti questi passi
fossero stati compiuti, in un'ora circa, io avrei fatto montare una
guardia stretta sull'infermeria, notte e giorno, non senza prima
essermi accertato che ogni guardia verificasse personalmente la
presenza di Mod - credendolo Cassandra - e le sue penose
condizioni.
Al crepuscolo, Ludo avrebbe caricato un carro di "provviste" per
le cucine della villa, e avrebbe trasportato la ragazza ferita ai piedi
della collina, dove Daffyd l'avrebbe attesa per condurla in un luogo
sicuro. Più tardi, nel cuore della notte, Mod sarebbe "scomparso"
passando al buio attraverso la porta posteriore che dall'alloggio di
Lucano conduceva alle cucine. Le guardie avrebbero cercato di
prevenire un'intrusione nell'alloggio del medico; non avrebbero mai
pensato di dover contenere una fuga. L'unica critica al mio piano
venne da Lucano, che volle sapere dove avremmo portato la
ragazza. Era decisamente contrario a muoverla, e dubitava che
sarebbe sopravvissuta a un simile cimento, e quando rifiutai,
protestando la necessità di tenere perfino tra noi il segreto della
destinazione di Daffyd, si indispettì, In mancanza di alternative,
dovette accondiscendere, suo malgrado, e affrontare come noi
quella situazione di estrema urgenza.
E così facemmo. Cassandra venne rimossa senza inconvenienti, e
Lucano mise Mod al suo posto, avvolgendolo cosi abilmente in
lenzuola e bendaggi insanguinati che la vista del suo corpo esile e
inerte era sufficiente a ispirare pietà. Trascorsi il pomeriggio a
diffondere capillarmente la notizia, innanzitutto al Consiglio,
interrompendone la seduta, che la ragazza era sopravvissuta alla
violenza subita, e che sarebbe stata sotto la protezione continua
delle guardie da quel momento fino a quando non si fosse ripresa
abbastanza da identificare il suo aggressore. Al tramonto, tutti nel
forte erano a conoscenza dello stato della ragazza, e un flusso
costante di curiosi scorreva davanti all'infermeria per osservare le
impassibili guardie al loro posto.
Al calare delle tenebre la ragazza venne trasportata fuori da
Camulod su un carretto carico di pelli di pecora, ceste e casse, e Tito
e io distraemmo le guardie del secondo turno quel tanto da
permettere a Mod di fuggire dall'infermeria.
Molte ore dopo, durante il quarto e ultimo turno di guardia,
quando l'oscurità era assoluta, mi presentai un'altra volta all'ingresso
dell'infermeria, e mi intrattenni con il comandante delle guardie sul
motivo del suo incarico. Era uno dei più abili e fidati veterani di mio
padre, il nostro centurione anziano e quindi a Camulod l'equivalente
del nobile e antico rango di primus pilus. Provavo un'intensa
sensazione di colpa a ingannarlo in quel modo, ma avevo stabilito
che a quel punto era necessario un tocco finale per cementare e
sigillare l'elemento misterioso di ciò che avevamo fatto e speravamo
di ottenere. Gli chiesi di passare in rassegna le guardie insieme a me,
e poi rimasi a parlare con lui per qualche minuto.
«Un brutto affare, questo, Popilio.»
«Sì, comandante» brontolò. «Brutto fino al midollo, ma la
ragazza adesso è al sicuro. Nessuno le farà più del male, e se guarirà
punterà il dito contro il bastardo che le ha fatto questo. Se è uno dei
miei, gli strapperò le palle prima di vederlo morire.»
Gli credetti implicitamente; tacqui e lasciai che il silenzio tra noi
si prolungasse, e poi gli feci una domanda: «Credi nei sogni,
Popilio?».
Era un vecchio soldato, troppo vecchio per rispondere
impulsivamente a una simile domanda. «Sogni, comandante?» disse
poi, meditabondo. «Credo che esistano, perché sogno. Ma non è
questo che mi stai chiedendo, vero? Non credo che abbiano
importanza. Non credo in quelle storie di magia. Qualche volta
faccio dei sogni, ma spesso non me li ricordo. Perché vuoi saperlo?»
La sua risposta mi sorprese, perché anch'io ricordavo di rado i
miei sogni, ed era la mancanza di quei ricordi, la loro incompletezza,
che mi aveva spinto a fare quello che stavo facendo. Mi girai a
guardarlo nella luce tremolante delle torce murali ai lati della porta,
con un sorriso umile e triste.
«Perché ho fatto un sogno stanotte che mi ha svegliato
completamente, tant'era vivido nella mia memoria, e perciò sono
qui.»
«Un incubo?» Nella sua voce c'era un tono di ruvida
comprensione, come se gli incubi gli fossero familiari.
«No, no, non era un incubo. Non c'era paura. Ho sognato una
tempesta, venti forti e ululanti, e una luce rossa e accecante. Nella
luce avanzava una figura con un lungo mantello nero e un cappuccio
alto e puntuto. Portava in braccio la ragazza, fuori attraverso i
cancelli del forte. È ridicolo, 'naturalmente, ma questo dannato
pasticcio mi ha ossessionato per tutto il giorno, e quando mi sono
svegliato di soprassalto il sogno sembrava molto reale. Tanto reale, a
dire il vero, che ho dovuto venire qui e accertarmi che tutto andasse
bene.»
Popilio sorrise e annuì. «Va tutto bene, comandante, ma so
come ti senti. Sogno anch'io a volte, te l'ho detto. Strane cose, i
sogni. Ma la ragazza non è andata da nessuna parte, e nessuno è
entrato nell'edificio. Lucano dorme nella stanza con lei.»
«Mmh... Ovviamente hai ragione. Forse sono troppo
apprensivo. Vado a cercare di dormire ancora un poco. Se succede
qualcosa di particolare o di insolito, mandami subito a chiamare,
capito?»
«Lo farò, comandante. Buonanotte a te.»
«Buonanotte, Popilio.»
E così nacque la prima storia degli arcani e magici poteri di
Merlino, perché quando trovarono il lettino vuoto, Popilio era lì per
ricordare la nostra conversazione, e non perse tempo a informare
tutti. Ancora oggi non so che cosa mi spinse a fare ciò che feci quella
notte, perché allora non avevo idea che un giorno sarei stato
qualcosa di diverso da quello che ero allora, un soldato. Ma
qualcosa dentro di me mi disse che cosa fare, e io lo feci.
Conducemmo un'indagine, naturalmente, sulla sparizione della
ragazza, ma contro le preoccupatissime guardie non furono presi
provvedimenti disciplinari. Avevo badato a organizzare le cose in
modo che in qualsiasi momento della notte ci fossero abbastanza
uomini di guardia da precludere eventuali accuse di negligenza,
collusione, o corruzione. La ragazza era scomparsa da un luogo
sottoposto a vigilanza continua mentre il suo medico dormiva a
portata di mano. Non era uscita da nessuna delle porte
dell'infermeria e nessuno era entrato nell'infermeria dall'ultima volta
in cui l'avevano vista le guardie durante il terzo turno, quando Tito e
io avevamo controllato di persona.
Lucano giurò che quando l'aveva visitata non era in grado di
camminare. Popilio giurò che non era stata rapita durante il suo
turno di guardia, anche se il comandante Merlino gli aveva
raccontato di avere sognato che la ragazza era stata rapita tra le ire
di una tempesta da una figura ammantellata. Dichiarò che già prima
era stato vigile al suo posto - e nessuno dubitava di lui e dei suoi
uomini - ma che in seguito era stato ancora più sollecito nel suo
incarico. La scomparsa della ragazza ferita era, e rimase, un mistero.
Diventò parte della leggenda della Colonia, e nessuna delle persone
coinvolte rivelò mai la verità fino a ora. Era il nostro segreto.
Essendo un druido, Daffyd conosceva il luogo che definivo la
mia valle segreta; era, ed era sempre stata, una valle sacra a lui e alla
sua razza, che considerava alberi, colline incoronate da alberi, e
avvallamenti pieni di alberi l'ambiente naturale dei loro antichi dei.
Uther, invece, non aveva idea dell'esistenza di quella valle, anche se
ero stato spesso seriamente tentato di condividere con lui il mio
segreto. Se non l'avevo mai fatto era perché l'avevo promesso a zio
Varro, che un giorno mi aveva mostrato la valle per la prima volta e
me l'aveva donata, dicendomi che ogni uomo aveva bisogno di un
luogo segreto dove essere se stesso, per se stesso. Ci sarebbero stati
momenti, mi assicurò, in cui sarei stato felice di fuggire dalla mia vita
pubblica per riposare in solitudine, recuperare le forze e raccogliere i
miei pensieri. Solamente lì, mi disse, sarei stato al sicuro da Uther.
Non avevo capito che cosa intendesse con la parola "sicuro", e così
mi spiegò che un giorno Uther sarebbe stato re, e che re e imperatori
sono padroni crudeli, convinti che i loro crucci diano loro il diritto di
ordinare in ogni momento la vita altrui.
Quel luogo, mi disse, quella valle, avrebbe potuto essere il mio
solo rifugio in tutto il mondo, ma solo se ne avessi custodito
gelosamente il segreto. Lì avrei potuto trovare di tanto in tanto la
pace, lasciando che Uther sbraitasse e delirasse fino al mio ritorno.
Gli avrebbe fatto bene, mi disse suo nonno, rendersi conto che c'era
almeno un uomo nel suo regno in grado di mantenersi indipendente
dal re. Uther non era ancora re, ma le parole di suo nonno si erano
già dimostrate veritiere.
Dopo la morte di mio zio avevo creduto che il segreto
appartenesse a me solo, finché un giorno avevo aperto gli occhi da
un buon sonno e avevo visto mio padre che mi guardava, Veniva lì
a pescare quand'era ragazzo, mi disse. Pescammo insieme quel
giorno, e gli raccontai quello che mi aveva detto zio Varro. Il suo
unico commento fu che Varro era stato un uomo saggio, e da allora
mio padre non si avvicinò più a quel luogo. Anche lui me l'aveva
offerto, perché fosse solo mio. Nel corso degli anni avevo costruito
una robusta capanna di pietra sul margine dell'acqua, con un bel
tetto, resistente alle intemperie, di tegole di argilla rossa che avevo
recuperato, poche alla volta, da un grande mucchio rimasto per anni
dietro a uno degli edifici annessi a villa Britannico. Adoravo dormire
lì accanto al piccolo lago, cullato dal dolce suono della cascatella.
Nel corso degli stessi anni avevo anche cambiato di continuo la via
d'accesso all'unico passaggio, in modo che nessun sentiero rivelasse il
mio rifugio a occhi profani.
E adesso me ne stavo fuori dalla porta della capanna con Mod, e
fissavo la luce gialla della lampada che splendeva attraverso il vetro
traslucido della finestra che avevo costruito nel muro. Mi ci era
voluto molto tempo per fare quella finestra, dieci pezzi di vetro
spesso, saldati con il piombo e accuratamente fissati dentro una
cornice di legno. Era un'ottima finestra, lasciava passare la luce e
teneva fuori il maltempo. Tenevo la mano sinistra sulla spalla del
giovane Mod, e per chissà quale ragione ero riluttante a entrare.
Alla fine Mod torse il collo e mi guardò di sotto in su.
«Entriamo?»
«Sì, Mod, entriamo.» Feci un passo avanti e aprii la porta con
una spinta.
La stanza era piccola, e tre persone la affollavano. Tumac, il più
giovane dei due apprendisti di Daffyd, dormiva su un mucchio di
pellicce contro il muro, e Daffyd era seduto accanto al lettino, e
nutriva Cassandra con un cucchiaio. Quando ci sentì entrare si voltò
e sorrise. La ragazza non dava segno di essersi accorta della nostra
presenza. Non ci sentì entrare e i suoi occhi erano coperti da una
striscia di tessuto bianco. Attraversai la stanza e abbassai lo sguardo
su di lei. La sua bocca era ancora un disastro, ma il gonfiore
sembrava leggermente diminuito.
«Come sta?» gli chiesi.
«In via di guarigione. Ha molto dolore davanti a sé, ma è il
dolore della guarigione.»
«Quanto le ci vorrà per guarire completamente?»
«Una settimana, due settimane, forse tre.»
«Perché ha gli occhi coperti?»
Allungò una mano e prima di rispondermi sistemò meglio un
angolo della benda. «Per protezione. Sono terribilmente gonfi. Sul
tessuto c'è dell'unguento.»
«Perché? La vista è stata danneggiata?»
«Non credo, ma non posso esserne certo.» Mi guardò. «Ma tu
come stai, Merlino? Mi sembri sfibrato.»
«Sto abbastanza bene, Daffyd. Ho solo bisogno di dormire. Non
ho dormito molto queste ultime notti.»
«Uther è tornato?»
«No.»
«E non hai nessuna idea di dove possa essere andato?»
«Nessuna.» Daffyd scrollò il capo e continuò a versare una specie
di brodaglia tra le labbra della ragazza. «Che cosa le dai da
mangiare?» gli chiesi.
«Solo il succo bollito di alcune erbe. É troppo debole per
sopportare qualcosa di più forte. Forse domani lesserò un coniglio e
inizierò a darle del brodo.» Posò per un attimo il cucchiaio e si girò
verso di me. «Credi davvero che Uther abbia fatto questo?»
Mi sedetti sulla sedia di legno vicino al tavolo. «Non lo so,
Daffyd. Non so che cosa pensare. E più ci penso più mi confondo.»
Guardai la ragazza e sentii nei suoi confronti un'ondata di rabbia e di
risentimento. La sua improvvisa intrusione nella nostra vita aveva
sconvolto ogni cosa. Era apparsa dal nulla, non annunciata, e la sua
presenza era bastata a distruggere lo schema della mia vita. A causa
di quella ragazza, il mio più caro amico era diventato nella mia
mente un mostro e tutta la Colonia era stata gettata nello
scompiglio. Cassandra era il suo degno nome, messaggera di morte e
rovina. E poi, inaspettatamente com'era venuta, quella sensazione
passò, e io rimasi a guardare una tragica ragazzina che non aveva
avuto controllo alcuno sui colpi che il destino le aveva inferto. Da
rabbia e ripulsione le mie emozioni si mutarono in compassione e
interessamento. Mi resi conto di essere estenuato. D'un tratto l'idea
di sdraiarmi e chiudere gli occhi fu irresistibile. «Daffyd» dissi. «Devo
dormire. In questo istante.»
«Lo so, mio giovane amico. Speravo che te ne accorgessi anche
tu.» Indicò un angolo vuoto. «Sdraiati laggiù.»
Andai dove Tumac dormiva e presi una pelliccia dal mucchio,
ma prima di abbandonarmi del tutto alla tentazione, parlai ancora
con Daffyd. «Per quanto tempo puoi rimanere con lei, Daffyd?»
«Per il tempo in cui avrà bisogno delle mie cure. Perché?
Pensavi che la lasciassi sola?»
«No, ma forse ti aspettavi che rimanessi io con lei, e non posso.
Devo essere a Camulod domani mattina presto. Arriverà mio padre,
e non voglio che sappia questa storia da nessun altro che da me.»
«É comprensibile. Dormi, e non preoccuparti. La ragazza riceverà
le cure necessarie.»
«Grazie, amico mio.» Distesi la pelliccia sul pavimento, mi sdraiai
e caddi addormentato prima di riuscire ad avvolgermela intorno.
X.
Quando entrai a Camulod il mattino seguente incontrai Tito,
stanco e insolitamente irritabile, che attraversava la corte principale.
Mi disse subito che mio padre era ritornato dal giro di pattuglia
poco prima dell'alba e mi aveva cercato, e c'era un tono nella sua
voce che poco mancava fosse di biasimo. Lo ringraziai e non feci
commenti sul suo contegno inconsueto, di cui avevo vagamente
intuito la ragione. Portai il mio cavallo alle stalle e andai
immediatamente da mio padre, che stava scrivendo certi documenti
nel suo studio. Alzò gli occhi da quello che stava facendo, mi indicò
una sedia, e io mi sedetti.
Terminò finalmente un documento, lo sigillò e lo diede alla
guardia alla porta, con l'ordine di consegnarlo al legato Tito.
«Tito?» chiesi. «Non potresti semplicemente dirgli quello che
vuoi?»
Prima di rispondermi chiuse con cura la porta. «Ci sono cose che
devono essere scritte... è necessario, per il bene dell'ordine... e per
un eventuale futuro riferimento.» E avendo detto questo, ritornò
flemmaticamente al suo tavolo e si sedette. «Ora. Per favore, con
meno parole che sia possibile... che cosa, per Ade, è accaduto qui
durante la mia assenza?» Parlava con estrema lentezza, combattendo
la tendenza a biascicare le parole alla quale lo costringeva la lesione
alla gola.
«Che cosa hai saputo?»
«Niente a cui potessi credere. Pettegolezzi... assassinio e
stregoneria. Tito è stato... innaturalmente taciturno. Mi ha detto in
faccia che avrei dovuto aspettare te. Ho aspettato, Sto aspettando.»
Incominciai dal principio e gli raccontai tutta la storia di come
avevamo trovato la ragazza e l'avevamo condotta a Camulod, e poi
dell'aggressione e della sua scomparsa. Non gli mentii, omisi
solamente la scena nella stanza dei giochi e il rapimento
dall'infermeria.
Quando ebbi finito rimase a guardarmi a lungo. «Bene» disse
infine, inceppandosi su quell'unica parola. «Questo è ciò che sanno i
soldati. E ora... Che cosa è successo realmente? Dov'è Uther? Come
ha fatto la ragazza a sparire... dall'infermeria? Perché...» Si interruppe
e si raschiò la gola, poi continuò con cautela. «Perché tutto questo
interesse... in primo luogo... per una trovatella muta che si ficca nei
guai? In questa storia c'è più... C'è più di quello che hai...
raccontato.»
Sospirai e incominciai da capo, raccontandogli questa volta tutto
l'accaduto, senza tralasciare alcun dettaglio. Mentre parlavo, si alzò e
misurò a lunghi passi la piccola stanza, mordendosi l'interno del
labbro inferiore. I suoi commenti e le sue domande furono lapidari e
mirati.
«La ragazza è nella tua valle?»
«Sì. É l'unico luogo sicuro che conosco.»
«Sicuro da Uther, vuoi dire.»
«Sì.»
«Sei convinto che sia stato lui.» Non era una domanda. Non dissi
nulla. «Perché?» Tacqui ancora. «Perché sei così disposto a credere
che Uther... tuo cugino carnale... il tuo migliore amico... che conosci
letteralmente da tutta la vita... abbia potuto commettere... questo
abominio che hai descritto? Voglio una risposta, Caio.»
Mi strinsi nelle spalle con gesto impotente. «Non ho scelta,
padre. Non voglio crederci, ma tutte le prove indicano Uther. Non
c'è un'altra persona sospettabile in tutto il forte!»
«L'hai verificato?»
«Che cosa? Che non ci siano altri sospetti? Certo, padre.
Chiunque fosse di servizio quella notte, chiunque fosse sveglio o in
piedi o in giro è stato interrogato a fondo, e la sua versione
controllata. Solo i movimenti e le attività di Uther non possono
essere giustificati.»
«Dov'è Uther?»
«Dimmelo tu, padre. Dov'è? Perché è sparito proprio adesso?
Prima o più tardi sarebbe stato accettabile, ma se n'è andato pochi
istanti dopo la ragazza e da allora nessuno l'ha più visto né sentito.»
«Che cosa significa questa ragazza per te?»
«Per me?» Ero sorpreso. «Nulla. Assolutamente nulla.
Non ho avuto niente a che fare con lei, a parte averla fatta
portare via dall'alloggio di Lucano quella notte.»
« É graziosa? Attraente?»
«Che cosa c'entra? Attraente? No, non è attraente. É scialba,
magra, insignificante. Straordinariamente poco attraente, a dire il
vero.»
«Sei in collera con lei. Perché?»
«Che cosa?» riflettei e mi resi conto di essere in collera con la
ragazza. «Non so perché sono in collera con lei. Non è colpa sua, in
effetti. Sono risentito con lei perché se non fosse stata dov'era
quando c'era, niente di tutto questo sarebbe accaduto.»
«Forse, e forse no.» Tacque per un momento, e mi chiesi che
cosa avesse voluto dire con quelle parole. Poi si diresse allo scrittoio
e prese un coltello che vi stava appoggiato. Ne saggiò l'equilibrio e
poi lo lanciò con forza contro la porta chiusa, e il coltello si piantò
vibrando nel legno massiccio. Mio padre andò alla porta, estrasse il
coltello e ne esaminò la punta, sempre evidentemente immerso in
pensieri profondi. Infine si voltò verso di me. «Tieni» disse facendogli
compiere un lento arco verso di me, con l'elsa in avanti. «L'ho
portato per te. É equilibrato per il lancio... perfettamente. Un giro
completo ogni venti passi, se lo alzi in modo corretto.» Rimase in
silenzio, mentre io esaminavo il coltello da vicino, e poi chiese: «Hai
mai sentito parlare di concedere a qualcuno il beneficio del
dubbio?».
«Vuoi dire a Uther?» Lo guardai negli occhi. «Gliel'ho già
concesso sbarazzandomi delle quattro donne. E tenendo per me i
miei sospetti, tranne che con Tito. Doveva conoscerli, se volevo che
mi aiutasse. Il mio problema con il beneficio del dubbio, padre, il
mio solo problema, è definire che dubbio. Non sono certo di
averne.»
«Certo che ne hai. Se non ne avessi, non saresti così turbato.»
Annuii, accettando la verità. «Hai ragione. Ma i miei dubbi sono
tutti emozionali. La prova di cui devo tenere conto non lo è. I nudi
fatti non lasciano adito a dubbi.»
«Quali nudi fatti? Non ne hai.» Mi lasciò a bocca aperta e tornò
a sedersi al tavolo. «Gli unici fatti che hai sono questi.» Levò un dito
per ognuno dei punti che elencava. «La ragazza è stata, aggredita. Tu
hai preso provvedimenti per proteggerla. E questi sono gli unici fatti.
La spiegazione di quello che è accaduto tra il momento in cui la
ragazza è fuggita dalla stanza e quando è stata ritrovata il mattino
seguente sono supposizioni... pure congetture. Niente fatti.»
«Ma l'evidenza...»
«Quale evidenza? Nessuna evidenza, a eccezione delle ferite
riportate dalla ragazza. Nulla che possa indicare chi, quando o
perché.»
«Sì, invece! Uther...»
«Uther...» Si schiarì di nuovo la voce con insofferenza; da tempo
non lo vedevo tanto frustrato a causa della propria voce. «Uther se
n'è andato poco dopo la ragazza. È tutto quello che sai. Qualsiasi
altra cosa tu senta... o creda... si basa sulla tua personale
interpretazione delle circostanze.»
Abbassai gli occhi sul coltello che tenevo in mano e lo scagliai
contro la porta. La colpì di piatto e rimbalzò fino quasi ai miei piedi,
e io rimasi con gli occhi fissi a terra senza vederlo.
Mio padre parlò ancora, e la sua voce era gentile. «Come
dicevo, devi alzarlo correttamente. Una questione di equilibrio, Cai.
Come ogni altra cosa. Ammettilo. Tutto quello che puoi puntare
contro Uther è la tua interpretazione delle circostanze. È stato un
fatto orribile... non lo giustifico in alcun modo, maniera, o forma. Il
suo autore verrà punito. Se è stato Uther, non troverà in me
indulgenza alcuna. Ma ai miei occhi sei ben lontano dal dimostrarne
l'implicazione, per non parlare della sua colpevolezza. La tua
interpretazione non è altro che questo... un fatto non dimostrabile.
Puoi provare soltanto che Uther lasciò la stanza dopo la fuga della
ragazza, e per tua stessa ammissione non sembrava intenzionato a
inseguirla.»
Raccolsi il coltello e lo soppesai, digerendo faticosamente le
parole di mio padre, lottando contro l'impulso di urlargli che lui non
c'era, che non aveva visto quello che avevo visto io. La frustrazione
mi montò dentro e di nuovo lanciai il coltello contro la porta, e
questa volta la punta penetrò nel legno per almeno mezzo pollice.
Andai a liberare la punta, e attesi di essere calmo prima di
riaffrontare mio padre.
«Molto bene, padre. Riconosco la verità delle tue parole. Ho
solo la mia interpretazione di quello che ho visto e udito. Aiutami,
dunque! Come interpreti l'evidenza?»
«In totale assenza di testimoni, non la interpreterei.» Vide la mia
replica prendere forma, e mi anticipò con un gesto della mano.
«Totale, ho detto, Caio, totale! Abbiamo un testimone. Possiamo
provare la verità. La ragazza saprà. Forse non saprà chi l'ha
aggredita... se non è stato Uther... ma saprà se è stato Uther oppure
no!» Rimasi con le spalle alla porta, con lo stomaco contratto per la
tensione.
«Hai fatto una cosa giusta, Caio, a spostarla dall'infermeria.» Una
lunga pausa. «A essere sincero, sembra che tu abbia fatto tutte cose
giuste. Hai agito bene.» Indicò la sedia su cui mi ero seduto
entrando. «Siediti. Voglio raccontarti una storia. Potrebbe dimostrare
il mio punto di vista.» Si alzò e andò a dire alla guardia fuori dalla
porta che non desiderava essere interrotto, poi tornò e si sedette
.allo scrittoio, premette le mani palmo contro palmo e se le
.esaminò minuziosamente. Dopo alcuni minuti strinse le labbra e mi
guardò con un'espressione strana e una piega tra le sopracciglia che
rivelava un'intensa concentrazione. Io rimasi immobile, aspettando
che incominciasse, e quando mi accontentò c'era nella sua voce
qualcosa di nuovo. Non so spiegare che cosa fosse, e allora ne ero
quasi inconsapevole, ma pendevo dalle sue labbra, e avevo
dimenticato le sue difficoltà di parola.
«Caio...?» esordì. La sua voce si affievolì nell'incertezza, poi si
schiarì bruscamente; mi sorrise. «La storia che ti sto per raccontare
forse ti sconvolgerà, ma solo perché è capitata a me e io sono tuo
padre. Se fosse capitata a un altro, potresti accettare la sua versione
senza commentare o giudicare, ma ne dubito. So che se la
raccontassero a me... la mia prima reazione sarebbe di incredulità.
Ma sono tuo padre, ed è successo a me. Voglio che tu non nutra
alcun dubbio. È successo.»
Incominciavo a chiedermi dove volesse andare a parare, ma
l'attesa non fu lunga. «Riportai questa ferita alla gola l'anno in cui
nascesti. Lo sapevi?» Annuii, e proseguì. «Fu quasi mortale... avrebbe
dovuto esserlo. Era una brutta ferita. Ricordo che da ragazzo avevi
paura di me, la mia voce ti spaventava. Te lo leggevo negli occhi...
Ma con il passare degli anni ti sei abituato al suono della mia voce e
ora a malapena noti la sua stranezza. Ho ragione?» Annuii ancora, e
mi rivolse un esile sorriso. «Ma forse invecchiando parlo meglio, non
lo so e non ho modo di giudicare. Ma per i primi tre anni da
quando presi quella freccia in bocca, Caio, non dissi una parola.
Scrivevo... ogni cosa. E studiavo un linguaggio dei segni in modo che
i miei ufficiali e i miei uomini comprendessero e ubbidissero
istantaneamente a ogni ordine. Ma sto divagando. Il nocciolo del
discorso è questo: durante la mia convalescenza in seguito a quella
ferita, strangolai un uomo a mani nude. Aveva cercato di uccidermi,
cercava di uccidermi quando lo strangolai.» Mi mossi sulla sedia. Ne
avevo letto un accenno sui libri di mio zio, ma non conoscevo la
storia.
«Venni ferito in una scaramuccia con i Pitti del nord, che erano
scesi attraverso il Vallo approfittando dell'ultima breccia di
quell'anno. Erano scesi molto più a sud del previsto, e ci
imbattemmo in loro molto in anticipo sui nostri calcoli. Uno di loro
mi scagliò una freccia in bocca. Avevo la bocca aperta in quel
momento. Gridavo ordini... Comunque, quella per me fu la fine
della battaglia, e avrebbe dovuto essere anche la mia fine. Tito prese
il mio posto e li mise in rotta, e li rispedì al nord a leccarsi alcune
profonde ferite. Eravamo nel nord della Britannia, nei pressi della
città di Lindum... tra qui e Danum, praticamente. Nessuno si
aspettava che vivessi, ma li sorpresi tutti e mi lasciarono infine alla
villa di un certo Marco Aurelio Ambrosiano, un nobile romano di
antica famiglia che si era ritirato dalla vita pubblica a Roma per
vivere nella sua villa in Britannia. Era un uomo anziano e nobile; in
quei giorni pochi suoi compatrioti erano nobili quanto lui.»
Interruppe la narrazione per andare ad aprire un piccolo scrigno,
dal quale trasse una fiaschetta di idromele e due coppe di corno. « É
presto» disse, «ma parlare tanto mi asciuga e mi irrita la gola.» Mescé
per entrambi e mi porse una coppa prima di sedersi a sorseggiare il
suo idromele, tenendolo per un poco in bocca e poi lasciandoselo
scivolare piano in gola. « É buono» mormorò, bevendone un altro
sorso. «Beh, come sai, la nostra non è una stirpe dappoco.
Ambrosiano mi accolse in casa sua e la sua gente aiutò la mia nel
prendersi cura di me. Io non sapevo nulla della sua cortesia, poiché
ero in punto di morte, e in quel punto giacqui per-più-di un mese.
Mi nutrivano con dei liquidi, grazie a tubi di intestino animale che i
nostri segaossa mi inserivano nella gola attraverso le narici. Mi
consideravano tutti un miracolo vivente. Avrei dovuto morire
subito. Sopravvissi. Avrei dovuto morire in seguito, di fame, perché
non potevo mangiare. Sopravvissi ancora, per merito di quel medico
pazzo! E sai che oggi non ricordo nemmeno il suo nome?»
«Perdesti molto peso?»
«Sì, certo, ma non quanto potresti pensare. Quel medico mi
nutriva costantemente: brodi ristretti, latte e miele, perfino birra!
Quando finalmente iniziai a mangiare pane in poltiglia nel latte
caldo non ero Ercole, ma non ero nemmeno uno scheletro.
Comunque, la mia storia... Una notte mi svegliai, o passai in uno
stato di dormiveglia, e mi accorsi che nella mia stanza c'era
qualcuno. Nella semioscurità vidi ai piedi del letto una sagoma che si
disponeva a colpirmi con una spada. Rotolai di lato, non so
nemmeno io dove trovai la forza o la rapidità, e la lama mi affondò
nel fianco. Il mio aggressore cadde su di me e io lo afferrai per la
gola e cercai con tutte le mie forze di strangolarlo. Lo sforzo mi
causò un dolore che non avevo mai sentito, ma non cedetti e strinsi
fino a quando non ce la feci più e svenni.
Poco tempo dopo, come avveniva due volte ogni notte,
vennero nella mia stanza a controllare le mie condizioni, e mi
trovarono con le mani chiuse intorno al collo del mio ospite, Marco
Aurelio Ambrosiano.»
Mi si strinse lo stomaco per l'orrore. «Ambrosiano? Ma perché?
Hai detto che era un vecchio!»
«Aveva sessantanove anni, ed era debole.»
«Ma perché mai avrebbe fatto una cosa simile?»
«Ottima domanda, una domanda che si ponevano tutti, incluso
me.»
«Era impazzito? Uscito di senno? Così semplicemente?»
Mio padre, impassibile, alzò le spalle.
«Il verdetto fu questo. Non avevo mai conosciuto quell'uomo,
almeno non mentre ero cosciente. Ero stato ospite in casa sua per
più di tre mesi, e in tutto quel tempo non mi ero mosso dal letto.
Era passato qualche volta a farmi visita durante il primo mese della
mia permanenza, ma dormivo sempre o ero privo di sensi, e così
aveva smesso di venire.
Sembra che il giorno prima avesse affilato la sua spada. E si era
comportato stranamente, aveva evitato là sua famiglia e i suoi
servitori ed era rimasto chiuso nelle sue stanze per parecchi giorni
prima del fatto. La mia innocenza non venne mai messa in dubbio.
Mi trovarono ancora avviluppato in lenzuola e coperte, e
sanguinavo dalla ferita al fianco. Trovarono una lampada accesa sul
pavimento in corridoio dietro l'angolo della mia stanza, e la guaina
della sua spada dove l'aveva lasciata, nella sua stanza... L'evidenza
era schiacciante. Aveva perso il senno e tramato la mia morte con
sufficiente anticipo da aver preso la spada che era appesa nel suo
salottino, e da assicurarsi che il filo fosse abbastanza tagliente da
uccidere. Poi aveva aspettato fino a notte fonda, aveva sfoderato la
spada e lasciato la guaina sul letto, ed era strisciato nella mia stanza
appoggiando la lampada nel corridoio perché la luce non mi
svegliasse, e per poter ritornare rapidamente nella sua stanza dopo
avermi ucciso.»
Ero perplesso. «Ma non ha senso, padre. Perché te?»
«Non aveva senso per nessuno, Cai, ma la follia ha il proprio
senso. Mi fecero i complimenti per i miei riflessi, infermo com'ero, e
tutta la faccenda venne messa a tacere. In seguito recuperai le forze
molto in fretta, e dopo quindici giorni mi alzai dal letto. Dopo altri
quindici giorni, ero di nuovo in servizio. Servizio di guarnigione,
naturalmente. Ero ancora troppo debole per salire a cavallo e non
ero in grado di parlare.»
«Perché non ti hanno fatto ritirare?»
«Ci hanno provato. Non gliel'ho permesso. Ricordati che non
avevo superiori. Ero il deputato di Stilicone in Britannia, e Stilicone
era reggente dell'Impero. Quando riuscirono a lamentarsi con lui era
troppo tardi. Fummo richiamati a combattere contro Alarico e i suoi
Visigoti, e c'era necessità di ogni uomo disponibile, anche di un
ufficiale muto.»
Ero sconcertato e insoddisfatto di quella storia sconclusionata. Ed
ero deluso. Se c'era un parallelo con la situazione attuale, mi era
sfuggito. « É una storia portentosa, padre, ma che cosa ha a che fare
con il caso di Uther?»
Mi rivolse un sorriso lento e privo di umorismo. «Niente, in
superficie, Caio. In profondità invece tutto. Stavamo parlando di
evidenza e di circostanze. Nel caso di Uther le circostanze lasciano
supporre la sua colpa. Se non fosse per le circostanze che lo fecero
uscire da quella stanza con un motivo per aggredire la ragazza, non
si sospetterebbe assolutamente il suo coinvolgimento in una simile
sozzura.»
«E allora?» dissi, esitante. «Sono circostanze importanti.»
« É vero. Te lo concedo. Marco Ambrosiano ha attentato alla
mia vita e per questo è morto. É stato accusato post mortem di
follia, perché le circostanze delle sue azioni imponevano che fosse
folle. Io non gli avevo fatto nessun torto. Ma considera il seguito.
Come posso spiegarti?» Si pizzicò il labbro inferiore, e continuò. «Ero
in casa sua da più di tre mesi. Era un uomo anziano. Aveva una
bellissima figlia di tredici o quattordici anni, non di più. Avevo
sentito i medici parlare di lei con parole di meraviglia. I suoi capelli
erano così bianchi da sembrare d'argento. Mi avevano detto che era
una vera bellezza, di quelle per cui gli uomini combattono. Sebbene
fossi gravemente ferito, sotto ogni altro aspetto ero in buone
condizioni. La ferita era alla bocca e al collo. Il resto del mio corpo
dopo un mese funzionava normalmente. Non ero di molto
maggiore di te adesso. Capisci?»
Annuii. «Hai mai visto la ragazza?»
«No, ma era stata nella mia stanza, e avevo udito la sua voce.
Era venuta un paio di volte, con i suoi servitori. A ogni modo, avevo
fatto un sogno... un sogno ricorrente. Sempre lo stesso, e sempre
molto... piacevole. Dormivo profondamente ogni notte, ma una
notte sognai che mi svegliavo e venivo, beh, "cavalcato" suppongo
che sia la parola migliore, da una donna. Attraverso le bende non
potevo vederla, e non potevo muovermi. Mi portava a completa
soddisfazione e se ne andava, senza un suono, senza un rumore, e io
mi riaddormentavo. Quando mi svegliai ricordai il sogno e mi
controllai per vedere se era successo realmente, ma non c'era alcun
indizio che qualcosa fosse accaduto. Era stato piacevole,
estremamente piacevole, ma era un sogno abbastanza normale, e
non ci pensai più... Diverse notti dopo capitò ancora, e ancora non
c'erano tracce che fosse stato reale; anzi, quella seconda volta dubitai
perfino di avere sognato. Circa una settimana dopo capitò un'altra
volta, e nel caso che tu stia pensando che ti sto facendo perdere
tempo, ti garantisco di no. Poi capitò ogni notte per una settimana e
poi a notti alterne per un'altra settimana. In alcune di queste
occasioni ero a malapena consapevole, in altre il sogno era alquanto
vivido. E una particolare notte, che mi avevano tolto le bende, c'era
la luna e vidi l'amante dei miei sogni.»
«Sua figlia!»
«No, e ne fui piuttosto deluso, perché mi ero convinto che fosse
lei, l'amante dei miei sogni. Ma quella era una sconosciuta. Un sogno
vero. Non l'avevo mai vista prima. Non la vidi chiaramente, ma vidi
abbastanza da rendermi conto che non la conoscevo. Era solo una
donna in un sogno.»
«E il sogno non cambiava mai?»
«Mai. Mi imponevo di svegliarmi e mi ritrovavo dentro di lei.
Non ricordavo mai di essermi riaddormentato.»
«L'hai mai detto a nessuno?»
Mi sorrise con ironia. «Che cosa? Che facevo dei sogni erotici?»
«E allora? Che cosa accadde?»
Scosse brevemente il capo. «Niente. I sogni cessarono, e io li
dimenticai. Circa una settimana dopo, il mio ospite mi aggredì.»
Inarcai le sopracciglia. «Non hai mai più fatto quel sogno?»
«Mai più. Dalla notte dell'aggressione, il mio sonno si fece più
leggero, come puoi bene immaginare. Udivo ogni rumore in quella
casa. Le forze mi ritornarono con sempre maggiore rapidità e me ne
andai da lì in poche settimane.»
«Che cosa ne fu della figlia?»
«Partì, dopo il funerale, e andò a vivere presso dei parenti a
Danum. Non la rividi mai più.»
«E allora qual è il significato della storia? Come ha fatto il
vecchio a scoprire che sognavi sua figlia? Era stregoneria?»
Sbuffò. «Sì, in un certo senso. In realtà non scoprì mai che
sognavo sua figlia. Non seppe mai che facevo dei sogni.» Inspirò una
grande quantità d'aria attraverso le narici. «Ma c'è un seguito a
questa storia. Molti mesi dopo, poco prima di lasciare Lindum per
tornare a Londinium e poi salpare per l'Italia, vidi una donna che
somigliava alla donna dei miei sogni tanto da turbarmi. Eravamo in
un'affollata piazza del mercato e la vidi al di sopra della folla che ci
separava. Tentai di raggiungerla ma non ci riuscii. Allora tentai di
seguirla, ma la persi per strada in una ressa di persone, così tornai al
mercato e trovai il mercante alla cui bancarella aveva fatto acquisti.
Gli scrissi un biglietto, chiedendogli chi era.» Mi guardò negli occhi.
«Quel tizio non sapeva leggere, E io non potevo parlare. Dovevo
trovare qualcuno che sapesse fare entrambe le cose. Scoprii che era
la giovane vedova di Marco Ambrosiano. Ed era incinta.»
I peli sulle braccia e sulla nuca mi si rizzarono per lo stupore.
Dovetti cambiare anche espressione, perché mio padre abbaiò la sua
risata brusca e breve.
«Una rivelazione stupefacente, eh? Fui stupefatto anch'io, allora.
Quella donna era colpevole di omicidio, e io ero lo strumento che
lei aveva usato, e tuttavia le circostanze non la includevano affatto.
Il vecchio doveva essere pazzo per il dolore e per l'orgoglio ferito,
ma non era più folle di me. Mi nutrivano attraverso dei tubi.
Attraverso gli stessi tubi, ogni notte venivo drogato e usato come
toro da monta, ma Ambrosiano non poteva saperlo... In qualche
modo aveva scoperto che sua moglie si divertiva con me, e in quelle
circostanze non aveva altra scelta che di credere che io fossi il suo
compiacente compagno.» Fece una breve pausa, e mi osservò
acutamente prima di continuare con enfatici scatti, «Non nego che
avrei potuto essere condiscendente, se avessi avuto voce in capitolo,
ma il vecchio interpretò l'evidenza secondo ciò che sentiva, e
concluse che gli stavo mettendo le corna sotto il suo tetto mentre
approfittavo della sua ospitalità. Se fossi stato in lui, avrei potuto
risolvere diversamente la faccenda, ma il bastardo in quel letto
sarebbe morto!» Si sporse sul tavolo e mi prese il coltello di mano.
«Come avresti interpretato i "nudi fatti" se fossi stato in lui, Caio?»
Ero mortificato, e la mia voce era ridotta a un sussurro
dall'enormità di ciò che solo in quel momento comprendevo e
valutavo in tutta la sua portata. «Capisco che cosa vuoi dire, padre.»
«Lo spero. E non perdere di vista il fatto che se ne avessi avuta la
possibilità avrei potuto essere il suo amante consenziente. Il punto è
che non ne ho avuto la possibilità, e non ho avuto scelta. Malgrado
tutta l'evidenza del contrario, in ultima analisi io non ero colpevole
del peccato per il quale il marito mi ha condannato.»
Nascosi la faccia tra le mani e mi passai le dita tra i capelli,
inspirando a fondo. «E tutto questo a che punto ci lascia con Uther?»
Mi rispose la voce più gentile che avessi mai sentito dalle labbra
di mio padre. «Ad aspettare di vedere come reagirà la ragazza
quando starà bene e potrai metterla a confronto con lui.»
«E se è colpevole?»
«Chi sbaglia paga.»
«E poi?»
Mio padre bevve quel che restava del suo idromele e si alzò,
prendendo l'elmo per indicare che il nostro colloquio era finito. «E
niente, Caio. Sai bene quanto me che chi violenta una donna sotto il
mio comando paga con la morte.»
XI.
Ancora oggi mi riesce difficile credere che il confronto tra Uther
e Cassandra non sia mai avvenuto. Non ho spiegazione che un
giudice razionale possa dichiarare perfettamente plausibile. Accadde
semplicemente che, per un motivo o per l'altro, non si trovarono
mai faccia a faccia in mia presenza.
Il primo e più importante di questi motivi fu l'avere ricevuto
informazioni a sostegno di un più che ragionevole dubbio
concernente la colpa di Uther nientemeno che da zia Luceia, la quale
non aveva il minimo sospetto che Uther potesse essere coinvolto
nella faccenda.
Venni convocato nelle sue stanze il pomeriggio del giorno in cui
mio padre mi raccontò la sua storia, e mi presentai da lei afflitto dai
sensi di colpa per averla negli ultimi tempi troppo trascurata. Zia
Luceia era ormai molto vecchia, e di rado si avventurava fuori dalle
stanze di famiglia, come era solita chiamare i locali in cui viveva.
Dall'età di sei o sette anni, attraverso le descrizioni nei libri di mio
zio, avevo conosciuto un'altra Luceia. L'avevo incontrata quando
aveva venticinque anni, prima di diventare la moglie di Publio
Varro, e così era rimasta su quelle pagine nel corso degli anni,
emancipata e incontaminata dal loro passaggio. In realtà erano
trascorsi da allora più di quarantacinque anni, e sebbene la Luceia
Britannico di oggi mostrasse più che una lieve somiglianza con la
bella donna dai capelli corvini di cui avevo letto nei libri, i suoi
capelli adesso erano bianchi come la neve, e il suo viso, ancora
bellissimo nei tratti scolpiti e negli alti zigomi, era profondamente
scavato dal tempo. Non la vedevo dal giorno in cui eravamo tornati
dal servizio di pattuglia, quando mi ero fermato a renderle visita
obbligatoria a conferma del nostro avvenuto rientro. Quel
pomeriggio la trovai seduta alla luce della finestra che era il suo più
grande vanto, un'apertura molto più splendida di quella nella mia
capanna, fatta di quattro enormi e perfettamente combacianti fogli
di vetro così fine da essere quasi trasparente.
Non appena sentì i miei passi si girò, e attese un bacio a braccia
levate. La abbracciai e mi strinse con affetto. «Oh, che bella
sensazione quando non sei tutto coperto dall'armatura! Ti proibisco
di indossare l'armatura quando vieni a trovarmi, anche se
probabilmente significherà che non ti vedrò più del tutto, adesso che
ti ho dato una scusa.»
Accolsi il rimprovero così com'era inteso, con dolcezza. «Mi
dispiace, zietta. So di averti trascurata, ma sono stato davvero
impegnato. Stanno succedendo tante cose.»
Mi sciolse dalla sua stretta ma continuò a tenermi per le braccia,
inclinandosi appena all'indietro per potermi guardare negli occhi.
«Dio, come mi sono familiari quelle parole! Era il ritornello preferito
di Publio Varro! Ma almeno lui tornava a casa da me, ogni tanto.
Non era come te, che te ne stai lontano e spezzi il cuore di una
vecchia donna mentre cerchi di spezzare l'imene di una donna
giovane.»
«Zia Luceia!»
«Non chiamarmi zia Luceia! So tutto di te, giovanotto. E non hai
bisogno di fingerti scandalizzato. Uno dei pochi privilegi di essere
vecchia è che non devi preoccuparti di quello che pensa la gente, e
un altro è che ti ricordi ancora com'è essere giovane. Preferiresti che
fingessi di non ricordare com'è la vita? O di non avere mai
conosciuto la passione o l'amore di un uomo? Sarebbe un disonore
per me, e lo sarebbe per Publio Varro. Vieni!» Mi afferrò per un
polso e mi tirò giù verso di lei. «Inginocchiati, ragazzo, ho delle cose
da dirti.»
Sorridendo, mi inginocchiai davanti a lei, e lei si sporse verso di
me, rivolgendo le sue parole diritte nei miei occhi, «Io - sono - viva!
Ci credi, nipote?»
Risi forte. «Certo che ci credo, zietta. Perché? Tu no?»
«Oh, sì, nipote, ci credo, ma sono circondata da troppe persone
che sembrano non crederci. Mi camminano intorno in punta di piedi
come se non ci fossi, o come se fossi addormentata, o gravemente
ammalata, e avessero paura di disturbarmi. Peggio ancora, sembra
che qualcuno pensi che sono un mobile che resta dove lo mettono e
non comunica altro che la sua presenza, e tacitamente! Mmh...!»
Scosse la testa e batté un piede a terra per sottolineare le sue parole.
«Ma io so che cosa succede qui» continuò. «So più di quanto creda la
maggior parte della gente. Per esempio, so di quella povera ragazza
nelle stalle.»
Quasi mi si fermò il cuore a quell'inattesa rivelazione. La guardai
a lungo, tentando di celare il mio sgomento, mentre lei mi sorrideva
con un'espressione di puro trionfo. Come l'aveva scoperto? E quanto
aveva scoperto? Con voce forzatamente calma, le chiesi: «Che cosa
sai, zietta? Che cosa sai di lei?».
«So chi è stato.»
Inghiottii il groppo che mi si era improvvisamente formato in
gola. «Allora sai più di chiunque altro. Chi è stato?»
«Remo.»
«Chi?» Quel nome non significava assolutamente nulla per me.
«Remo. Il prete.»
«Quale prete, zietta?»
«Quel prete strano. Lo conosci! Remo, quello con gli occhi gelidi.
É un uomo malvagio, quello.»
Respirai a fondo. «Zia Luceia, non ho idea di chi, o di che cosa,
tu stia parlando.»
«E invece sì, Caio, oppure ti sei dimenticato di lui. Sto parlando
del prete, il prete cristiano di nome Remo. Almeno, lui si fa chiamare
prete. L'hai conosciuto qui, il giorno che sei tornato dal tuo ultimo
pattugliamento.»
Rammentai allora che durante la mia ultima visita c'era un prete
nella stanza, ma non gli avevo prestato attenzione, non più di
quanto avrei fatto con un qualunque altro ecclesiastico, e cioè
l'avevo ignorato. Zia Luceia riceveva in continuazione visite di
ecclesiastici in cerca di elemosine e carità, e avevo smesso da tempo
di badare a loro. Erano semplicemente una consuetudine nella vita
di zia Luceia. Era una donna molto religiosa. Deglutii ancora, a
fatica.
«L'hai definito malvagio. Perché?»
«Perché odia le donne.»
Mi rilassai, e un sorriso superiore mi illuminò il volto. «Andiamo,
zietta! Conosco almeno una dozzina di uomini a cui non piacciono
le donne, e non per questo sono malvagi.» La faccia di Ludo mi era
balzata subito in mente.
«Caio, ascoltami» disse spazientita per la mia maschile ottusità.
«Ascolta quello che ti dico. Conosco gli uomini, che cosa gli piace e
che cosa non gli piace. Quello odia le donne. Non sa celare il suo
odio. Tenta di dissimularlo, ma è più forte di lui. Non sto insinuando
che quell'uomo sia effeminato. Sto dicendo che è depravato.»
Il sorriso si era tramutato in un cipiglio. «Zietta, ricordo di averlo
visto, ma non ricordo nulla di lui. Chi è? Dove posso trovarlo? E
perché pensi che abbia potuto fare una cosa simile? Voglio dire, che
le donne non gli piacciano, che le odi addirittura, è una cosa, ma
picchiare una ragazza fino quasi ad ammazzarla per nessun altro
motivo che quello è una cosa completamente diversa. In particolare
se si tratta di un prete cristiano.»
Zia Luceia raddrizzò le spalle e si diede quasi con sussiego a
lisciare una piega dell'abito. «Conosci il vescovo Patrizio?» Annuii, e
lei continuò. «É un uomo piacevole, e benintenzionato, ma non vale
la metà del suo predecessore, il vescovo Alarico.» Alarico era stato
un caro e vecchio amico della mia prozia e di tutta la famiglia, e lo
conoscevo bene grazie ai loro scritti. «Me ne sono accorta subito la
prima volta che l'ho visto, ma non potevo certo condannarlo per
questo. Dio ne ha creati pochi come Alarico. Patrizio sarà un
vescovo capace, ma non è illuminato. Non sa capire gli uomini come
sapeva farlo Alarico. Comunque, Patrizio è venuto a trovarmi, e ha
portato con sé questo Remo. Non mi piacque già allora. Mi
disturbava, ma non dissi niente a Patrizio. Remo è tornato lo stesso
giorno in cui siete tornati tu e Uther, e l'ho mandato via.
Normalmente non sono né scortese né inospitale, ma mi ha
profondamente offeso e così l'ho cacciato. Gli ho detto di lasciare
immediatamente casa mia e questo forte, e di non tornare mai più.
Ho minacciato di chiamare le guardie e di farlo scortare fuori dai
cancelli, ma se n'è andato prima che potessi farlo.»
Ero impressionato. Quell'uomo doveva essere un vero zotico per
avere un simile effetto su mia zia, che era la persona più affabile che
conoscessi.
«Che cosa ha fatto per offenderti cosi gravemente?»
«Era se stesso, ecco tutto. Ha rifiutato di accettare una bevanda
dalle mani di una delle ragazze al mio servizio. Le ha fatto volare via
la coppa dalle mani e le ha detto di stargli lontano, che era impura!
Impura, Caio! In casa mia!»
«Capisco. E allora che cosa hai fatto?»
«L'ho buttato fuori. Gli ho detto di andarsene immediatamente,
non solo da casa mia, ma da Camulod. Non era il benvenuto qui e
non lo sarebbe mai stato.»
«E hai minacciato di chiamare le guardie?»
«Sì.»
«Ma non l'hai fatto?»
«No.» Scosse la testa. «Te l'ho detto, non ce n'è stato bisogno. Se
n'è andato.»
«E poi? Questo è tutto?»
«No, non proprio. É tutto quello che è successo, ma c'era un
altro particolare che allora ho trascurato perché non mi sembrava
importante: zoppicava leggermente, e invece che a un bordone si
appoggiava a un bastone insolito, robusto e scolpito per adattarsi
alla sua mano.»
«Dolce Gesù! Perché hai aspettato tanto per dirlo?»
Al mio tono scandalizzato sollevò il capo di scatto in muta
protesta, con un'espressione che tradiva uno strano miscuglio di
risentimento e di colpa, e l'asprezza della sua risposta mi dimostrò
quanto fosse profondamente consapevole di non aver parlato
prima. «Perché solo questo pomeriggio ho saputo che la ragazza è
stata picchiata con un bastone. Quando l'ho saputo, ti ho mandato a
chiamare immediatamente. Era pomeriggio inoltrato quando quel
tale Remo se n'è andato da qui. Quasi il crepuscolo. Mi viene in
mente adesso che avrebbe potuto attardarsi qui al forte per
trascorrere la notte nelle stalle.»
«Avrebbe potuto!» Ero già in piedi. «Zietta, hai fatto bene a
pensare al bastone e a dirmelo. Quanto bene, non lo saprai mai. Ma
vorrei che tu avessi chiamato subito le guardie. Scusami, adesso,
devo trovare quell'uomo.» La baciai sulla guancia e quasi corsi via.
Una perquisizione dell'intero forte, unita a interrogatori
intensivi, ci procurò solo cinque persone che avevano visto il prete,
e tutte lo avevano visto dirigersi verso l'alloggio di zia Luceia.
Nessuno l'aveva visto ripartire, e nessuno l'aveva più visto in seguito.
Inviai le pattuglie a perlustrare i nostri territori, ma la ricerca era
senza speranza. Aveva avuto tre giorni e tre notti per allontanarsi, e
non trovammo tracce di lui, né allora né mai più sulle nostre terre.
La dimostrazione della sua esistenza aveva tuttavia stabilito nella mia
mente un ragionevole dubbio sulla colpevolezza di Uther, e ne ero
felice. C'era un altro sospetto, l'unico, per quanto ne sapeva zia
Luceia, e io non sottovalutavo il suo giudizio.
Malgrado tutto ciò, il secondo motivo per cui tralasciai di
mettere a confronto Uther e Cassandra fu che a Camulod la vita
ritornò presto normale, vale a dire che arrivò un messaggero
implorando il nostro aiuto contro una banda di razziatori sassoni nel
sud-est. Mio padre era appena tornato da un giro di pattuglia, e così
andai io, con una colonna volante, a fare il possibile contro gli
invasori. Ma quando arrivammo sul posto erano salpati da tempo, e
dopo essere rimasti un giorno ad aiutare gli abitanti del villaggio a
rimettere insieme la loro vita, facemmo ritorno al forte.
Uther si era ripresentato durante la mia assenza accompagnato
da venti arcieri di suo padre, non aveva detto a nessuno dov'era
stato ed era già ripartito, questa volta per una perlustrazione dei
nostri territori sudoccidentali. Ero contento di averlo mancato per
parecchie ore, perché nonostante i miei ragionevoli dubbi non mi
entusiasmava l'idea di incontrarlo faccia a faccia senza avere risolto
tutte le mie incertezze.
«Com'era?» chiesi a mio padre.
«Lo stesso di sempre, semplicemente Uther. Nessun apparente
senso di colpa, se è questo che intendi.»
« É quello che intendo. Gli hai raccontato la storia?»
«Sì, l'ho fatto.»
«Come ha reagito?»
«Era sconvolto, e preoccupato, sinceramente, secondo me. Ma
non ha creduto alla storia della magica sparizione. Sapeva che
c'entravi tu.»
«Come faceva a saperlo?»
«Non sapeva niente, Cai. Ha solo detto che puzzava come uno
dei tuoi trucchi.»
«Quali trucchi?» Rammento il tono di innocenza offesa, prima
che subentrasse un altro pensiero. «Non gli hai detto come abbiamo
fatto, vero, padre? Non gliel'hai detto?»
«No, non gliel'ho detto, e lui non me l'ha chiesto.»
«Chissà se l'ha chiesto a Tito?»
«L'ho domandato a Tito. Non gliel'ha chiesto.»
«È così» alzai le spalle, sollevando l'armatura affinché si
assestasse, «sconvolto, preoccupato, e senza colpa. Meglio per
Uther.» Scossi la testa. «Sarò felice quando questa faccenda sarà finita,
in un modo o nell'altro.»
Il giorno dopo andai a cavallo fino alla valle per controllare le
condizioni di Cassandra. Speravo di trovarla migliorata, e lo era. Lo
vidi nel momento stesso in cui aprii la porta della capanna. Era
seduta contro il muro, e si nutriva da sé con un cucchiaio dalla
ciotola che Daffyd le teneva vicino. Guardai all'interno della
stanzetta.
«Salve, Daffyd. Dove sono i ragazzi?»
«Salve a te, principotto. Se ne sono andati. Li ho spediti a casa
giorni fa. Mi facevano diventare matto, confinati qui dentro come
un paio di donnole selvatiche.»
«Come sta?» Mi fissava al di sopra della spalla di Daffyd e i suoi
occhi erano enormi, molto più grandi di quanto ricordassi. I lividi si
stavano riassorbendo, e la sua faccia era tutta screziata di giallo
sfumato di blu. Aveva alcune piccole croste sulle sopracciglia, e
intorno alla bocca dove si erano spaccate le labbra.
«Sta guarendo. Non credi che abbia un aspetto migliore?»
«Sì, è vero. Come sono i denti?» Non so che cosa mi avesse
spinto a fare quella domanda.
«Oh, morderà ancora. Ci sono ancora tutti. Due dondolavano
un poco, ma si stanno consolidando. É giovane e sana e si ripara in
fretta.»
«Bene. Ossa rotte?»
«No, e i suoi occhi sono a posto, prima che tu me lo chieda. Ma
è sorda, e muta, come sospettavamo. Tieni, vieni qui e reggile la
ciotola. Devo fare pipì.»
Presi la ciotola e Daffyd uscì, e sentii il fiotto di urina contro il
muro della capanna. Da vicino, il viso della ragazza era uno
stupefacente enorme livido, dalla fronte al mento. Teneva gli occhi
fissi nei miei, e non accennava a voler riprendere a mangiare. Mossi
appena la ciotola verso di lei, per mostrarle che doveva continuare a
mangiare, ma lei continuava a fissarmi e i suoi occhi si riempirono di
lacrime, gettandomi in uno stato di costernazione. Le lacrime
femminili mi hanno sempre innervosito e, con quella donna
specialmente, proprio non sapevo che cosa fare. Guardavo
sgomento quelle grosse gocce che sembravano stare eternamente
sospese alle ciglia prima di rotolare sulle guance ingiallite; cercai
freneticamente qualcosa per asciugarle, vidi un panno accanto a me
e con goffi gesti le tamponai il viso. A quel contatto si ritrasse e,
rendendomi conto di quanto il viso dovesse farle male mi ritrassi
anch'io, per simpatia, e allora attraverso le lacrime mi sorrise e il mio
stomaco si ribaltò.
Non avevo mai visto prima il suo sorriso, né avevo mai visto
prima un sorriso che potesse eguagliarlo. Le trasformava il volto, lo
illuminava dall'interno, livido e macchiato com'era, e lo inondava di
eterea bellezza. Fui disfatto all'istante. Ancora oggi, dopo decenni,
rammento che quel sorriso tremulo, lento e doloroso aveva
decretato che non cercassi mai più un sorriso in nessun'altra donna.
Nemmeno il fatto che il movimento le straziasse le morbide labbra e
la facesse trasalire di dolore spezzò l'incantesimo. Ero già perduto,
Abbassò gli occhi sulla ciotola che avevo abbandonato, e allora la
ripresi e gliela porsi di nuovo. Ricominciò a mangiare, o sorseggiare,
con la stessa delicatezza di un fauno che beve a una pozza. Persi la
nozione del tempo e rimasi li seduto, estasiato, finché la ciotola non
fu vuota, e lei batté il cucchiaio sulla ciotola e mi sorrise,
riportandomi alla realtà.
«Credevo che la ritenessi brutta, ragazzino» disse Daffyd da
dietro di me, ma non distolsi gli occhi da quel viso colorato di giallo.
«Infatti, ma non l'avevo mai vista sorridere. Dovevo essere
cieco.»
«Già, o preoccupato, forse. Comunque, dal modo in cui ti
guarda, sembra che nemmeno lei ti trovi troppo orripilante.»
«Mmh....» Non perdevo di vista la sua faccia. «Daffyd, come...
Come vanno le sue... Altre lesioni?»
«Gli orifizi? Stanno guarendo. Starà bene, fisicamente, almeno.
La sua mente... non lo so, Merlino. Ho visto donne che erano state
violentate in guerra, alcune in modo brutale. La maggior parte ha
superato il trauma. Ma in vita mia ho visto solo due donne oggetto
di una violenza cieca, trattate così per nessun motivo apparente.
Nessuna è più stata la stessa.»
Sentii la morsa del gelo all'imboccatura dello stomaco. «Che cosa
vuoi dire? In che modo? Chi era stato? Lo stesso uomo?»
«No, no, era successo a distanza di anni.» Si allontanò dal tavolo
e dedicò la sua attenzione al fuoco nel piccolo focolare aperto,
soffiando cautamente sulle braci e aggiungendo un ramo alla volta
finché il fuoco tornò a bruciare allegramente. Io rimasi seduto a
guardare Cassandra, che ricambiava il mio sguardo. Finalmente
soddisfatto, Daffyd tornò a parlare con me.
«Il primo era veramente pazzo. Completamente posseduto. Si
buttò in uno strapiombo e si ammazzò e fu una liberazione. L'altro,
anni dopo, non fu mai preso. Mai saputo chi fosse.»
«Quanto tempo fa è stato, Daffyd?»
«L'ultimo? Oh, ormai devono essere passati dieci anni.»
«Hai detto che il primo era posseduto. Credi nella possessione?»
Mi guardò severamente, flettendo un sopracciglio. «Chiunque
non ci creda è uno sciocco.»
«Allora credi nella malvagità.» Zia Luceia aveva detto che Remo
era malvagio.
«Certo che ci credo. Se credi nella bontà, ragazzo, devi credere
nella malvagità.»
Non mi sentivo a mio agio con quella sua vaga definizione della
bontà contrapposta alla malvagità. Guardai di nuovo Cassandra. Era
l'antitesi di tutto ciò che stavo cercando di affrontare. Scossi la testa
nella ferma negazione di quello che Daffyd aveva appena detto.
«No» dissi, «l'opposto di buono è cattivo, Daffyd. La malvagità va
molto oltre la semplice cattiveria. È tutta un'altra cosa.»
Daffyd mi fissava stranito. «Che cosa stai cercando di dire,
Merlino?»
Potei solo scrollare il capo. «Non lo so, Daffyd. Ma questo...»
Feci un cenno verso la silenziosa ragazza sul letto. «Mi sembra che
chiunque sia davvero malvagio non possa essere degno di vivere.»
«Quante persone così, persone davvero malvagie, credi che ci
siano a questo mondo, ragazzo?»
«Davvero malvagie? Non so nemmeno questo, ma non possono
essercene molte. Io non ne ho mai conosciuta una.» Qualcosa scattò
nella mia memoria. «No, aspetta! Sbaglio. Una l'ho conosciuta. Una
persona.» I miei ricordi ribollivano, e sgranavano una lunga serie di
immagini collegate. «Quando Uther e io eravamo ragazzi,
conoscemmo Lot, il figlio del duca di Cornovaglia. Lui e Uther
combatterono, e tentarono reciprocamente di uccidersi. Non era una
lotta tra ragazzi, Daffyd. Si affrontarono con le spade e rimasero
feriti entrambi. Mio padre li divise prima che potessero uccidersi.
Ripensandoci adesso, ricordo che Lot
era malvagio...
profondamente, incredibilmente perverso, fino in fondo, per il puro
piacere di esserlo... cattivo in modo quasi inconsapevole, ma senza
la grazia dell'inconsapevolezza, perché sapeva esattamente che cosa
stava facendo.»
«Mmh...! Provi le stesse cose nei confronti di Uther?»
«Uther? Per gli dei, no!» Ero sinceramente scandalizzato.
Daffyd sorrise appena. «Sono contento di sentirtelo dire,
ragazzo. Lot di Cornovaglia, eh? Buffo, che tu abbia pensato proprio
a lui. Non sei il primo che ne parla in quel modo. È un cattivo
elemento, siamo d'accordo. Si fa chiamare re Lot adesso. Governa da
quel forte che il suo vecchio padre si è fatto costruire dopo aver
visto Camulod. Un posto notevole, dicono.»
Il tono con cui aveva menzionato il forte di Lot mi incuriosiva.
«L'hai visto? Il forte?»
Si piegò su se stesso in uno sprezzante diniego. «No, mai stato da
quelle parti. Ho cose migliori da fare con il mio tempo, io. Ma
l'hanno costruito proprio in riva al mare, dicono, sul punto più alto
di un'isola che è scogliere su tutti i lati. Nessun modo di prenderlo,
dicono. È una roccaforte, non c'è dubbio.»
«E ha un nome, questa fortezza?»
Scosse la testa. «No, che io sappia, ma non mi interessa
nemmeno, ragazzo. A ogni modo, è un luogo insolito. Forse lo
vedrai con i tuoi occhi, un giorno.»
«Forse, Daffyd, ma spero di no. Non sarei il benvenuto.»
«Già» grugnì. «Oso dire che hai ragione. I conquistatori sono di
rado i benvenuti, ovunque vadano.»
«Conquistatori? Perché hai usato questo termine? Mi hai appena
detto che è imprendibile.»
«No, ragazzo» ribatté. «Stai iniziando a dimenticare tutte le
lezioni che ti ho insegnato. Hai già dimenticato come usare le
orecchie. Io ho detto che dicono che non c'è modo di prenderlo, ma
chi lo dice? E comunque, se la gente vuole dare loro ascolto,
chiunque essi siano, allora nessuno ci proverà mai e quel forte non
verrà mai preso, e così sarebbe davvero imprendibile, non sei
d'accordo?» Mi osservava.
Annuii. «Credo di sì.»
«Bene, allora, perché quello che ho detto, e quello che tu hai
pensato che io avessi detto, non erano affatto la stessa cosa. Ma ti
dirò un'altra cosa, e ascoltami bene: laggiù da quelle parti non c'è
molta terra coltivabile, e se Lot di Cornovaglia è un maiale, o un re,
grosso come dicono, presto o tardi si troverà sulla tua strada. Ha un
popolo da nutrire, perciò arriverà più probabilmente presto che
tardi. E quando arriverà - bada che non sto dicendo se arriverà dovrai insegnargli a stare al suo posto, ricorda quello che dico.»
XII.
Poche battaglie sono più infruttuose di quelle amare e silenziose
che un uomo innamorato conduce con le poche parole a sua
disposizione. Le odi che scrissi a celebrazione di Cassandra e della
nuova vita alla quale mi introdusse erano pietose, ma io seguitavo a
lottare, cieco di fronte alla verità: non esistono parole adatte a
descrivere quello che provavo. Cassandra, invece, non aveva
bisogno di parole. Il suo era un mondo senza parole, un mondo di
totale semplicità nel quale i suoi sentimenti splendevano chiari
attraverso i suoi occhi, e permeavano tutto il suo essere.
Dopo quella prima occasione in cui mi sorrise, mi costrinsi a
stare lontano dalla valle per un'intera settimana. Dovevo essere
severo con me stesso, perché ogni giorno trovavo cento e una
buone ragioni per andarci. Per sette giorni fui ossessionato dalla
visione di quegli enormi occhi grigi. Quando tornai, le contusioni
erano completamente svanite dal suo volto, e mi ritrovai a fissarla
spudoratamente, e a chiedermi come avevo potuto giudicarla scialba
e non attraente. Quella volta rimasi tre giorni, e i momenti più felici
di quei giorni furono i suoi pasti, quando la nutrivo perché era
ancora troppo debole per drizzarsi a sedere sul mucchio di pelli, e
per mangiare senza aiuto. Mi guardava raramente e sembrava
inconsapevole del mio costante scrutinio del suo viso, che per me
era diventato ormai il più bello del mondo.
Tornai ancora dopo una settimana e, pur essendo sempre molto
debole, era tuttavia in grado di camminare. Da quel momento
migliorò ogni giorno, e presto sparì ogni traccia delle lesioni che
aveva subito. Sparì anche l'estrema malinconia che l'affliggeva da
quando l'avevamo trovata accanto ai corpi di quelli che
supponevamo essere i suoi genitori. Costituiva per me un'assoluta
delizia. Era evidente che Daffyd l'aveva salvata. Lui l'aveva riportata
alla vita, non solo dall'abisso di dolore per le offese subite, ma dal
lutto che l'ammantava.
E poi, mentre cavalcavo verso la valle un mattino di otto
settimane dopo il suo ritrovamento, ebbi una sorpresa. Ero sempre
assillato dalla necessità di variare il mio accesso alla valle. Quella
volta avevo scelto la via più lunga, dirigendomi da Camulod verso
nord, e voltando a est e poi a sud in un ampio arco, non appena ero
stato al sicuro fuori vista dalle mura. Quell'approccio indiretto
richiedeva due ore di viaggio in più rispetto all'alternativa più breve,
e tendevo a servirmene solo in caso di bel tempo, poiché non
seguiva nessun sentiero e attraversava diversi tratti di terreno
depresso e paludoso che durante o dopo il brutto tempo avrebbero
potuto essere impercorribili. Ma una volta intrapreso quel tragitto,
non dovevo più preoccuparmi di non essere visto: ero lontano dai
confini della fattoria più vicina, e la regione era talmente inospitale
da costituire una ben misera attrazione per il visitatore casuale. A
parte le zone depresse e paludose, il resto del percorso era
caratterizzato da fitti boschi e distese di rocce. Solo vicino alle basse
colline che racchiudevano la mia valle e il suo prezioso segreto, la
terra si gonfiava dolcemente al riparo degli alberi, fino ad
accogliermi tra pendii erbosi e vallate boscose poco profonde.
Quel giorno il sole del primo mattino si era fatto caldo sulle mie
spalle e sul dorso del mio cavallo, cullandomi e annullando i miei
pensieri, distogliendo la mia attenzione dal paesaggio e concedendo
alla mia cavalcatura di procedere a proprio piacimento. Ripresi
bruscamente conoscenza intravedendo un subitaneo e fugace
biancore che si spostava veloce nella valle alla mia destra.
La mia reazione fu istintiva, nonostante l'immediata confusione
dei pensieri. Tirai subito le redini, contrassi ogni muscolo per
mantenere immobile me stesso e la mia cavalcatura mentre scrutavo
la zona in cui avevo visto, o percepito, un movimento. Esposto sul
fianco della collina, incapace di decidere la mia prossima mossa, ero
sul punto di cedere al panico. Non distinguevo movimento alcuno
nella valle, ma il battito frenetico del cuore mi pulsava nelle
orecchie, e lottando contro l'irrazionale terrore della scoperta mi
sforzai di controllare il respiro e la paura. Anche se fossi stato visto,
riflettei, non era successo niente di irreparabile; ero a un miglio,
quasi due miglia dalla mia destinazione, e potevo ancora scegliere
fra tre direzioni, ognuna delle quali mi avrebbe portato lontano
dalla valle nascosta. E mentre me ne stavo lì, in preda all'agonia, vidi
sul fondo della valle una forma umana, vestita di bianco, che come
un lampo si allontanava, protetta dal fitto fogliame. Scorsi solo una
breve immagine del fuggitivo, e forse fu la velocità con cui
scomparve alla mia vista che mi attirò all'inseguimento, giù per la
collina a rotta di collo, con le redini allentate in modo che il cavallo
scendesse il pendio secondo il suo discernimento. Raggiungemmo
rapidamente il fondo, e puntai il cavallo in direzione del fuggitivo,
lasciandolo libero di stabilire tra gli alberi una rotta facile e spedita, e
concentrandomi nell'evitare i rami bassi. Una svolta a sinistra intorno
al grosso tronco di una quercia ci condusse sul margine di un
valleggio ripido e stretto, che cadde a precipizio sotto di noi quando
il mio cavallo si lanciò su per la china, estendendo e gonfiando i
muscoli fino a portarci venti e più passi al di sopra del fondo vallivo.
Dove il terreno ridiventava pianeggiante tirai le redini, e perlustrai la
fenditura che si apriva sotto di me alla ricerca della mia preda. Dopo
il roboante fragore dei pesanti zoccoli del mio cavallo su rocce e
sparse zolle erbose, non sentivo altro che il suo sonoro ansimare e il
cigolio della mia sella e dei finimenti. Solo gradatamente divenni
conscio del profondo silenzio. Nemmeno il canto degli uccelli
disturbava la quiete assoluta, e nulla si muoveva. Stavo per voltare il
cavallo e ridiscendere a cercare altrove, quando udii una specie di
lontano brontolio provenire dall'unico grosso albero in quella
piccola gola, a un centinaio di passi alla mia sinistra. Guardai in
quella direzione e vidi uno spettacolo stupefacente.
Avevo letto sui libri di mio zio di creature che vivevano in Africa
sugli alberi e si arrampicavano così in fretta che sembravano volare
da un ramo all'altro. Proprio una di quelle creature si parò davanti ai
miei occhi, vestita con abiti umani, una corta tunica di un bianco
immacolato e lucente. Naturalmente, non appena mi riebbi dalla
sorpresa iniziale e i miei occhi si adeguarono alla distanza, mi accorsi
che era un ragazzo, ma non avevo mai visto un ragazzo arrampicarsi
in quel modo. Sotto il mio sguardo esterrefatto, si sollevò in piedi
senza sforzo su un ramo robusto alto da terra, poi si rannicchiò, si
raccolse carponi e si lanciò in un grande balzo fino ad afferrare un
altro ramo più alto, si dondolò un poco e poi divaricò le gambe e le
chiuse intorno al ramo e con un agile volteggio vi si sedette
cavalcioni, a una vertiginosa altezza sul fondo roccioso della foresta.
Senza nemmeno guardarsi attorno ripeté l'intera sequenza e
continuò a salire, a volare sembrava, finché i rami del grande albero
si fecero così vicini che poté usarli come i pioli di una scala, e
praticamente corse verso l'alto fino a sparire del tutto tra il fitto
fogliame sulla sommità dell'albero.
La ragione mi diceva che era solo un ragazzo, ma quando lo
persi di vista dovetti reprimere un brivido di superstizioso terrore, di
paura antica e informe risvegliata dal ricordo di storie di driadi e
spiriti della foresta. E poi, mentre ero lì seduto immobile, ridiscese,
calandosi di ramo in ramo e di fronda in fronda come cadendo
senza freno, eppure controllando e sincronizzando perfettamente
ogni movimento e ogni salto così che di nuovo mi si accapponò la
pelle, non più per paura ma per incredula ammirazione.
Dalla biforcazione più bassa balzò destramente a terra, e
scomparve tra i cespugli prima che mi svegliassi e spingessi il cavallo
all'inseguimento.
Come il tuono, io e il mio cavallo raggiungemmo il fondo della
valle e ci buttammo a coprire la distanza che ci separava dal ragazzo
in fuga, e intanto io mi domandavo chi potesse essere. Sbucammo al
galoppo dal riparo di una folta macchia di arbusti e ancora costrinsi
il mio cavallo ad arrestarsi, così repentinamente che scivolò a zampe
dritte, e il posteriore quasi gli strisciò per terra mentre io mi ergevo
sulle staffe sbalordito. Davanti a noi, la parete del burrone si levava
in verticale per trenta passi e più, e, sul piano erboso alla base, il
ragazzo si era fermato a fissare il dirupo che lo sovrastava. Prima che
potessi fare un gesto il ragazzo saltò su e iniziò a inerpicarsi sulla
parete di erba e sassi. Ci separavano non più di trenta passi e un
leggero schermo di foglie, ma sapevo che non mi aveva né visto né
sentito avvicinarmi, e non si era accorto di me. Affondai i calcagni
nei fianchi del cavallo e allora, proprio mentre stavo balzando in
avanti, il ragazzo smise di arrampicarsi e guardò di lato,
permettendomi per la prima volta di vederlo in volto.
Era Cassandra! Quella rivelazione mi sconvolse. Il suo nome mi
salì alle labbra, incitai il cavallo, ma lei aveva già compiuto la sua
scelta e diretto tutta la sua concentrazione sulla parete del dirupo e
sulla scalata. Gridai, sapendo che non poteva udirmi. Agitai
selvaggiamente le braccia, ma la sua concentrazione era assoluta. In
men che non si dica aveva raggiunto il ciglio del dirupo, ed era
sparita senza girarsi neppure una volta. Ma avevo avuto tutto il
tempo di osservarla, e di chiedermi come avessi mai potuto, anche
se fossi stato a cento passi, scambiarla per un ragazzo.
Amaramente deluso dalla sua fulminea scomparsa oltre il ciglio
del dirupo, conscio di non avere nessuna speranza di raggiungerla, e
tuttavia traboccante di gloriosa euforia, mi sedetti sotto la parete
rocciosa e pensai a lei: i muscoli scolpiti delle gambe lunghe e snelle
sotto il gonnellino rimboccato e infilato nella cintura della tunica, e
la forma del suo : corpo più volte fermo durante l'ascesa, il peso
perfettamente distribuito, gli occhi che esaminavano la roccia in
cerca dell'appiglio successivo, tutto di lei mi dava una dolorosa fitta
alla gola. Che genere di ragazza era quella? Come e dove aveva
imparato a fare quelle acrobazie? Da dove veniva? E dove sarebbe
scomparsa, quando si fosse ripresa completamente da
quell'esperienza atroce? Una cosa mi era spaventosamente chiara. Il
suo corpo si era già ripreso completamente, e quel giorno non
avevo visto indizi di altri danni, né alla mente né allo spirito.
Alla fine mi diressi alla valle nascosta, con il cuore e i pensieri
ancora in subbuglio, e mi fu stranamente difficile avvicinarmi alla
casetta di pietra. Cassandra era lì, e c'era anche Daffyd. Quando
entrai, Cassandra sollevò lo sguardo e mi fece un cenno di saluto,
poi continuò a raschiare e conciare quella che mi parve la pelle di un
coniglio. Si era tolta la tunica bianca e indossava il semplice abito di
stoffa grossa che portava normalmente. Daffyd borbottò qualcosa, e
anche lui continuò a lavorare a qualsiasi cosa che avesse richiesto
quel pomeriggio la sua attenzione.
Mi sentivo a disagio, anche se la concentrazione di entrambi mi
lasciava libero di guardare Cassandra come meglio desideravo. I
capelli sciolti le ricadevano sul viso, mostrando solo il profilo di uno
zigomo. La morbida pienezza di un seno era allusione sufficiente a
interferire con il mio respiro. La linea della coscia sotto l'abito era
nitida e pura come la volta dell'arcobaleno. Mi sentivo colpevole e
miserabile, e ancora oggi non so perché, e dì lì a poco presi congedo
e tornai a casa in uno stato per metà di tristezza e per metà di
intollerabile eccitazione. Sapevo che era guarita. Sapevo che
l'amavo. E sapevo che non avevo modo di dirglielo, di corteggiarla,
o di tenerla vicino a me.
Un mattino, di ritorno da una parata antelucana, mi stavo
dirigendo al mio alloggio quando vidi Daffyd venirmi incontro. Lo
fissai perplesso, chiedendomi che cosa facesse a Camulod, così
lontano dalla sua pupilla.
«Daffyd» dissi, incredulo. «Che cosa stai facendo qui? Dov'è
Cassandra?»
«A casa, ragazzo! Nella valle.»
«Da sola? Che cosa ti salta in mente?»
«Mi salta in mente il lavoro che devo fare, e i doveri che ho
trascurato.»
«Che cosa? Che cosa significa?»
Strizzò gli occhi e scosse la testa in un gesto di biasimo. «Merlino,
ho detto che sarei rimasto con la ragazza finché avesse avuto
bisogno di me. Adesso non ha più bisogno di me, e spero che invece
altri abbiano bisogno. Mod e Tumac, tanto per cominciare. In queste
ultime settimane mi sono disinteressato della loro istruzione. Saranno
inselvatichiti come l'erica. Probabilmente dovrò batterli per farli
rientrare nei ranghi.»
Lo guardavo ancora con la bocca aperta; la gente si muoveva
intorno a me, i calzari chiodati risuonavano sui ciottoli; finita la
parata, i soldati si disperdevano. In cielo non c'era una nuvola,
sarebbe stata una giornata calda. Un merlo cantava poco lontano, e
io quasi bisbigliavo per la pressante necessità di rimproverare Daffyd
senza che nessuno sentisse le mie parole. «Ma l'hai lasciata tutta sola
là fuori?»
Mi guardò come se avessi perso la ragione, e non fece nessun
tentativo di abbassare la voce. «Fuori dove, ragazzo? Non è "fuori"
da nessuna parte. Se ne sta acquattata al sicuro in una casetta di
pietra con un focolare e un tetto robusto in una valle che è segreta
come non lo è certo questo posto.»
Costernato dal volume della sua voce, lo presi per un braccio e
lo tirai da parte, in un angolo tra i muri di un edificio dove nessuno
ci avrebbe urtati o sentiti, «Per l'amore di Gesù, Daffyd, tieni bassa la
voce. Ricorda che c'è in gioco la vita della ragazza!»
Liberò il braccio dalla mia stretta e sistemò le pieghe della lunga
cappa, lanciando occhiate casuali ai passanti e deplorando
l'irriguardoso utilizzo della preghiera di mia zia, che sulle mie labbra
era diventata una bestemmia. «Per l'amore di Gesù, eh?» mormorò a
denti stretti. «Io sono un druido, ragazzo. Che cosa vuoi che ne
sappia dell'amore di Gesù? Ma la ragazza è ben nascosta. Nessuno
andrà a disturbarla, tranne forse tu.» Si schiarì la voce e continuò: «É
una ragazza forte, la tua Cassandra, e anche sana come un cavallo,
adesso. Non è necessario avere cura di lei. Non più». Cambiò
espressione e mi sorrise, stringendomi la spalla con una mano. «Là
nella tua valle è felice, Merlino. Forse più felice di quanto lo sia da
tempo. Chissà? Ha cibo e una pozza limpida per il pesce e per
l'acqua e sa prendere in trappola i conigli meglio di me. É felice.
Niente e nessuno la minaccia. Si aspetterà che tu vada a trovarla. Il
resto dipende da te. Ricordati, però, che cosa ha passato. Adesso si
fida di te, ma chissà che cosa pensa degli uomini? Capisci che cosa
voglio dire? Se la tratti con gentilezza, e con dolcezza, farai di lei una
donna eccellente e completa, ma corrile dietro come uno dei tuoi
grossi stalloni in fregola e non mi riterrò responsabile per quello che
le farai, o che lei farà a te. Rammenta, Merlino. Quella giovane
donna è stata ferita in modi che tu e io non possiamo neppure
immaginare, e tanto meno capire. Mi ascolti?»
«Sì, Daffyd, ti ascolto. So che cosa vuoi dire. Sei certo che abbia
abbastanza cibo?»
«Cibo? Quella? Ruberebbe il miele alle api! Starà bene. La
prossima volta che passi da quelle parti, portale della farina e un po'
di sale. É tutto quello di cui ha bisogno. E non preoccuparti. Ha una
casa che è il luogo ideale per lei. Lascia che se la goda per un poco e
poi vai a trovarla. Ma stai attento, Merlino. Non ferirla.»
Mi sentii offeso. «Credi che potrei?»
«So che potresti, senza averne l'intenzione, perciò vacci piano.
Adesso devo andare e, da come sei vestito, devi andare anche tu.»
«No, ho finito. C'è stata una parata. Ho un po' di tempo libero
prima di un incontro con mio padre.»
«Allora vai per la tua strada, ragazzo, e lasciami andare per la
mia.»
Lo ringraziai ancora e lo guardai allontanarsi, poi tornai al mio
alloggio, con la mente piena di un'unica verità: la donna che era
diventata il cuore della mia esistenza era sola nella mia valle, ignota
a chiunque al mondo a eccezione di Daffyd, Mod, Tumac, e mio
padre, e mi aspettava.
Amavo quella piccola valle segreta da tutta la vita, e ora era
diventata la casa del mio amore e nulla avrebbe potuto essere più
appropriato. Nel corso di quella mattina, le persone con cui ebbi a
che fare dovettero chiedersi se fossi malato, dimentico com'ero del
luogo in cui mi trovavo e di quello che stavo facendo. La mia valle e
il suo prezioso segreto carpivano tutta la mia concentrazione. Non
abbandonarono mai la mia mente, e un capriccio con il quale mi
trastullavo da più di una settimana divenne realtà. Era la mia valle, il
mio luogo sacro e segreto, con la sua cascata sommessa e guizzante e
la sua pozza profonda, con i suoi scogli muscosi, l'erba verdeggiante
e una superba barriera di alberi, annidata in mezzo all'anfiteatro
delle colline, e sentivo che doveva avere un nome che riflettesse la
sua pacifica solitudine e il suo mistico isolamento. La chiamai Avalon,
come il favoloso luogo di leggende.
Quello stesso giorno, poco dopo mezzogiorno, pieno di una
quasi dolorosa impazienza che mi rendeva incapace di sopportare il
tedio delle mie mansioni quotidiane, delegai i miei ultimi compiti a
un subordinato e uscii da Camulod, e andai lontano a sud prima di
dirigermi, compiendo un lungo giro, verso la mia valle e Cassandra.
Sembrava che mi si fossero aggrovigliate le viscere quando
raggiunsi l'ingresso della valle e iniziai a scendere tra le alte file di
cespugli che fiancheggiavano il sentiero. Avevo trascorso il viaggio
cercando di immaginare l'espressione che sarebbe apparsa nei suoi
occhi alla mia vista. Avrebbe mostrato piacere o collera, o peggio
ancora indifferenza? I dubbi mi spossavano. Invano tentai di
convincermi che ero uno sciocco, e che mi comportavo come un
imberbe ragazzino consumato d'amore. Ma la ragione non trovava
posto tra speranze e paure. A volte vedevo il suo viso illuminarsi di
piacere, e allora mi sentivo euforico e spensierato, ma per lo più la
vedevo sfoggiare un'interminabile serie di cipigli, sguardi spenti e
occhiate di riprovazione e di scontento.
Ma tutta la mia agonia non era nulla in confronto alla
disperazione che mi sopraffece quando raggiunsi il fondo della valle,
perché la valle era deserta e abbandonata. Nemmeno un filo di
fumo si levava dal comignolo per diradarsi sull'acqua, e su tutta la
scena gravava quel senso di vuoto che rivela la totale assenza
dell'uomo. Stupefatto e incredulo, sentii dentro di me un vuoto
immenso risuonare di funebri rintocchi. Il cavallo, senza più la guida
dei miei muscoli improvvisamente inflacciditi, avanzò piano verso la
casetta, si fermò a pochi passi dalla porta, e chinò la testa a
pascolare, mentre io fissavo disperato le muscose tegole rosse del
tetto. Il rumore dell'erba strappata, amplificato dal pesante silenzio
che mi circondava, era assordante.
Con le gambe irrigidite, liberai i piedi dalle staffe e smontai,
appoggiandomi al cavallo con tutto il mio peso prima di riuscire a
raddrizzarmi e dirigermi alla porta della capanna. La porta si aprì
lentamente al mio tocco, ed entrai nella luce fioca piena di ombre,
così sicuro che fosse disabitata che quasi non vidi il panno disteso sul
tavolino, sagomato dalle forme che copriva. Mezzo passo mi
avvicinò al tavolo; sollevai il panno, e scoprii un piatto di legno, un
coltellino affilato, una coppa di terracotta, una caraffa di vino, bassa
e chiusa, un pezzo di pagnotta e una mezzaluna di salsiccia secca.
Senza capire, mi chiesi perché, dopo essersi preparata il pasto, se ne
fosse andata senza mangiare. Ci volle del tempo perché nella mia
confusione si facesse strada l'idea che non era scappata, e che quel
pasto attendeva il suo ritorno. La mia disperazione si tramutò
all'istante in euforia, e spaventai il mio povero cavallo
precipitandomi fuori dalla capanna e facendo rimbalzare la porta sui
suoi cardini. Era lì, da qualche parte! Stordito dal sollievo mi misi a
girare su me stesso come un ubriaco, rimirando la sommità delle
colline come se potessi indovinare la sua presenza dall'aria che ci
separava.
Alle mie spalle sentii un pesce saltare nel lago, un tonfo forte e
chiaro, mi voltai e vidi le increspature irraggiarsi dal punto in cui si
era rituffato. Mentre guardavo, un altro tonfo infranse l'acqua a
pochi passi dal primo, ma questa volta vidi che nulla aveva
preceduto quel tonfo repentino e singolare, né un vorticare
dell'acqua, né un lampo di colore, nient'altro che quel solitario,
imprevisto, verticale impatto sull'acqua. Allora osservai e attesi, che
cosa non lo sapevo. E poi colsi un movimento indistinto e i miei
occhi fecero in tempo a mettere a fuoco la frattura, l'acqua spaccata
da un sasso cadente! Qualcuno sull'altra riva lanciava ciottoli da
dietro i cespugli. Guardai attentamente, con gli occhi bene aperti
adesso, e vidi un movimento, e un altro sasso formare un arco
altissimo e librarsi nel cielo prima di iniziare la caduta.
Il sasso non aveva ancora colpito la superficie che già stavo
correndo lungo la riva, immemore di corazza e gambali. Lei era là,
dall'altra parte del lago, e si prendeva gioco di me. Feci il giro del
lago e mi buttai nella densa vegetazione di alberi e cespugli, e allora
scorsi un altro guizzo sul pendio sopra di me e udii quel che mi
parve un gridolino di gioia e di esaltazione. Volevo cantare forte la
mia esultanza, ma andai con determinazione alla carica del pendio,
sapendo che avrebbe sentito il rumore e intuito la velocità del mio
avvicinamento, e poi improvvisamente fui schiacciato dalla
consapevolezza che non avrebbe sentito. In pochi minuti,
attaccandomi a ogni passo ai polloni che crescevano fitti tra i pioppi
tremuli e le betulle, fui prossimo alla sommità del ripido argine. Mi
fermai e ascoltai con attenzione, ma non udii nulla. Il silenzio era
assoluto. Procedetti con maggiore cautela. Un fagiano si alzò in volo
da sotto i miei piedi, sorprendendomi tanto che scivolai, persi
l'equilibrio e mi sedetti pesantemente, ruzzolando poi all'indietro
fino ad appoggiarmi contro il tronco di una betulla. Questa volta
udii distintamente un risolino femminile provenire da un punto
sopra e davanti a me.
Di nuovo mi gettai all'inseguimento, ma non vidi né sentii più
nulla della mia preda, a eccezione dell'impatto violento ; di un sasso
ben mirato contro il dorso della mia corazza, che mi fece
ridiscendere dalla cima di una collina e mi indirizzò verso i cespugli
sul pendio alle mie spalle. Un'ora dopo, frustrato e arrabbiato,
rinunciai alla caccia e ritornai alla capanna. Il mio cavallo pascolava
sempre vicino alla porta, ma sella e coperta erano state tolte, e un
fumo leggero saliva dal comignolo. Dominando l'orgoglio e la
dignità offesi, tirai un bel respiro e socchiusi piano la porta.
La capanna era ancora vuota. Un piccolo fuoco ardeva nel
braciere del focolare. Cassandra aveva mangiato. Piatto, coltello,
coppa e caraffa erano stati accomodati a mio beneficio sul lato del
tavolo più vicino a me, insieme ai resti del pane e della salsiccia.
Mangiai lentamente, soffocando il mio risentimento, deciso ad
aspettarla con pazienza. Ma non venne. Quando il giorno iniziò a
cedere il passo alla sera mi arresi e uscii a sellare il cavallo. Un
mazzolino di fiori gialli, tenuti insieme da uno stolone, era posato
sul sedile della sella. Lo presi e lo annusai, respirando a fondo il
profumo fragile e dolce, poi lo misi da parte per sellare la mia
cavalcatura. Lo raccolsi prima di risalire in sella e poi indugiai un
poco, strofinandomi sulle labbra i petali setosi. Quando diressi il mio
cavallo verso casa mi sentivo in pace, soddisfatto sotto molti aspetti
sebbene senza alcuna prova: Cassandra era vicina, e mi osservava;
era autosufficiente e cercarla sarebbe stato inutile; si sarebbe
presentata da sola quando fosse stata pronta a farlo,
indipendentemente dai miei desideri; non era maldisposta nei miei
confronti; e non aveva intenzione di lasciare la valle. Fischiettai per
tutta la strada fino a Camulod.
Nulla di ciò che ho da dire renderà mai giustizia all'amore, alla
gioia e all'intimo splendore degli anni che seguirono. In quei primi
giorni, Cassandra diventò la mia vita e tutto quello che dalla vita
volevo, e io ero suo e tutto quello di cui lei sembrava aver bisogno.
Ma la responsabilità è un fardello irrinunciabile dell'età adulta;
anch'io avevo il mio fardello, e la mia coscienza non mi permetteva
di ignorarlo. Cassandra e Avalon erano la mia vita segreta e tutto il
mio mondo privato, ma c'era anche il mondo di Camulod, e non
potevo trascurarlo. Cassandra sapeva sempre quando dovevo farvi
ritorno, e non tentò mai di trattenermi, ma ogni volta che dovevo
lasciarla nella nostra valle di Avalon, la separazione diventava per
me più difficile.
Tentai di portarla con me solo una volta. Salii a cavallo e la
sollevai davanti a me, e quando la cinsi con un braccio intorno alla
vita, la visione di Uther che la teneva nello stesso modo mi fece
sussultare. Quel giorno avevo giurato a me stesso che avrei scoperto
la verità, perché Uther era tornato a Camulod e io volevo che il
confronto avesse luogo. Cassandra si adagiò tra le mie braccia
quando il cavallo risalì l'angusto sentiero alberato, e li rimase,
appagata, finché non lasciammo il riparo degli arbusti, oltre il ciglio
della valle che celava la sua casa. Quando vide le torri di Camulod in
cima alla collina, a miglia di distanza al di là della vallata, e si rese
conto che proprio lì ero diretto, si irrigidì, afferrò le redini e fece
fermare il cavallo. Con dolcezza allontanò il braccio che le stringeva
la vita, e scivolò agilmente a terra, dove rimase con il viso rivolto
verso di me. Sorpreso, e leggermente contrariato, le feci cenno di
montare a cavallo, che per me era importante, ma mi bastò
un'occhiata a quel suo sguardo calmo e inflessibile per convincermi
di ciò che avrei dovuto sapere. Cassandra non desiderava andare a
Camulod, e nemmeno vedere le sue torri in lontananza sulla collina.
Il mio cuore era pieno d'amore per lei, e di vergogna per il
significato che Camulod aveva assunto ai suoi occhi.
Decisi allora che la colpa o l'innocenza di Uther non erano
importanti. Era accaduto in un'altra vita. Se l'avessi messa a
confronto con lui in quel momento, e fosse stato colpevole, avrei
strappato la crosta da una ferita appena risanata. Se invece non fosse
stato colpevole l'avrei comunque inutilmente costretta a rivivere
quell'esperienza, e forse l'avrei perfino messa pericolosamente vicino
al vero criminale. Cassandra non meritava nulla di tutto ciò. Smontai
e lasciai che il cavallo brucasse a lato del sentiero, e abbracciati
ripercorremmo il sentiero tortuoso e segreto fino ad Avalon.
Mentre camminavamo insieme lungo il sentiero mi si agitò nella
mente un altro pensiero, impuro e già formato. Se, come ormai ero
quasi giunto a credere, Uther era innocente di qualsiasi violenza
commessa ai danni di Cassandra, non avevo alcun desiderio di
esporre lei a lui, o lui a lei. Quando la giudicavo brutta, lei era
affascinata dal mio galante cugino e a me non importava. Adesso
che mi ero perduto nella sua bellezza, non potevo sopportare l'idea
di vederla guardare Uther come aveva fatto un tempo.
Come ero immancabilmente solito fare quando lasciavo la valle,
guidai il cavallo dietro la collina, tenendola tra me e il forte e
facendo il giro da sud-est. Aggiungevo così un'altra ora a un viaggio
di un'ora, ma ero più che mai determinato a non farmi seguire e a
non farmi vedere uscire da Avalon. Quel giorno avevo completato
la deviazione, e mi stavo avvicinando all'ultimo boschetto prima
della valle aperta, quando udii un suono che mi sconvolse e che mi
fece spingere il cavallo a un galoppo sfrenato.
Mio padre sapeva sempre dov'ero quando non ero a Camulod,
e avevamo concordato un segnale per cui potesse convocarmi
immediatamente in caso di bisogno. Intorno alla pianura di
Camulod c'erano tre alte colline. Entrambi sapevamo che solo una
mi interessava, ma non volevamo che si sapesse che-mi trovavo
sempre vicino allo stesso punto, e perciò in caso di emergenza
avrebbe inviato un cavaliere in cima a ognuna delle tre colline, e
ogni cavaliere avrebbe portato con sé una di quelle pietre attaccate a
una corda che lanciavano uno strido acutissimo e di cui Vegezio Sulla
si era servito per zittire un Consiglio rumoroso molto prima della
mia nascita, quelle pietre fischianti o sibilanti che i barbari oltre il
Reno usavano come missili.
Il segnale non era mai stato utilizzato prima, e non lo fu mai più,
ma quando lo udii ero già a più di due terzi della strada verso il
forte. Affrontai subito al galoppo la strada che saliva la collina, e
salendo incrociai i soldati che scendevano in squadroni e truppe a
unirsi ai ranghi dell'esercito che si stava radunando sul grande
campus, il terreno per le esercitazioni ai piedi della collina. Il fatto
che dalla corte scendessero già divisi in formazione significava che
qualsiasi fosse la causa di quel tumulto doveva essere gravissima.
Portai il cavallo sul pendio, lasciando la strada agli squadroni di
soldati, e continuai a salire; alla mia destra vidi la cavalleria
avvicinarsi dalla villa e dalle fattorie confinanti.
Mio padre era già in riunione con Uther, Tito, Havio, Popilio il
centurione anziano della fanteria, e parecchi altri, tra i quali
riconobbi Gwynn, il capitano degli arcieri di Uric. Si voltarono tutti
al mio ingresso nell'Armeria, e vidi che tutti erano completamente
equipaggiati per la battaglia. Malgrado la tensione del momento
notai che Uther, che mi dava le spalle quando entrai, indossava un
nuovo mantello rosso con un drago imponente ricamato in oro, e
capii subito a chi apparteneva il grande stendardo nuovo che avevo
visto fuori nella corte.
«Che cosa succede?» chiesi attraversando la stanza.
«Merlino!» Il sorriso di Uther era il sorriso che avevo sempre
conosciuto e amato. «Torni per magia! Dove sei stato?»
«A cavalcare» risposi seccamente. «Padre?»
Mio padre fece un brusco cenno di saluto. «Ci attaccano... in
doppia forza, sembra. Il nostro allevamento è stato saccheggiato. I
cavalli rubati. Un attacco da nord, dall'estuario del fiume - Gwynn ci
ha dato notizia di una flotta che risale la corrente - e un attacco da
sud e da ovest.»
«Sud e ovest?» Guardai Uther. «Ma è...»
«Sì, cugino» concluse Uther per me. «Il nostro amico d'infanzia,
Lot di Cornovaglia. A quanto pare la Cornovaglia non è più
abbastanza grande per lui.»
Ricordai le parole pronunciate da Daffyd solo pochi mesi prima.
«Che cosa cerca?»
«Quello che cerca e quello che troverà sono due cose alquanto
differenti.»
Mio padre ci interruppe entrambi battendo di piatto la lama
della spada sul tavolo. «Signori! Abbiamo del lavoro da fare, e non
c'è tempo per chiacchiere oziose. Caio, Gwynn dice che a nord è
approdata una flotta di più di cento galee.»
«Cento!» Ero perplesso «Ma significa più di tremila uomini!»
«Grazie, ce n'eravamo accorti.» Tacqui, e mio padre continuò.
«Gwynn pensa che siano Iberni. Chiunque siano, non avrebbero
potuto scegliere un momento peggiore per attaccarci. Abbiamo già
sostenuto pesanti perdite nel sud-ovest. L'esercito nemico conta
armeno quattrocento uomini, e possiede una cavalleria abbastanza
forte da invadere le fattorie più decentrate e rubare le nostre
mandrie di cavalli.»
«Come lo sappiamo?» Speravo di non sentire quello che mi disse.
«Perché due dei nostri uomini sono sopravvissuti e ci hanno
informato.»
«Due? E basta?»
«E basta. Gli altri sono tutti morti.»
Non potevo crederci. «Padre, avevamo più di duecento uomini
di stanza laggiù!»
«Era ieri, Caio. Oggi non ne abbiamo alcuno. In qualsiasi modo
ci sia riuscito, Lot ha sferrato un attacco di sorpresa nell'oscurità
prima dell'alba. Da quello che mi hanno detto i superstiti, i nostri
uomini sono stati massacrati prima che avessero il tempo di reagire.»
«Come hanno fatto i due superstiti a scappare?»
«Non sono scappati. Uno era diretto al campo principale con dei
dispacci per me. L'altro tornava da una visita alla madre morente. Si
sono incontrati sulla strada verso ovest e hanno proseguito insieme.
Sono arrivati in vista del campo poco dopo il sorgere del sole e
hanno visto che cosa era successo.»
«Quanti nemici hanno contato?»
«Approssimativamente quattrocento, tutti a cavallo e pronti a
ripartire, nella nostra direzione.»
«I nostri uomini sono stati visti?»
«Pensano di no.»
Passai in rassegna i volti dei miei compagni. «Qual è il nostro
piano?»
«Non abbiamo tempo di preparare nulla di troppo elaborato.
Uther e Havio gli andranno incontro con cinquecento soldati a
cavallo. Affronteranno l'esercito di Lot come e quando se lo
troveranno di fronte. Sarà la nostra cavalleria disciplinata contro la
loro mancanza di disciplina.»
Feci una smorfia. «Speriamo! Avrei detto che ci voleva una
manovra ben disciplinata per sorprendere il nostro campo. Chi era al
comando?»
«Lucio Sato.»
«Come pensavo. Era un uomo in gamba.» La mia mente era
completamente assorta nella comprensione della logistica di quello
che ci aspettava. Alla fine annuii, soddisfatto perché sapevo che cosa
fare. «Allora Uther e Flavio affronteranno gli uomini di Lot a sud-
ovest. E gli altri? A nord? Quanto tempo abbiamo?»
In risposta mio padre guardò Gwynn.
Il gigantesco celta si strinse nelle spalle. «Abbiamo sfiancato i
cavalli per arrivare là, e quando siamo ripartiti la flotta era ancora in
acqua. Non possono essere sbarcati prima di ieri pomeriggio.
Significa che non possono arrivare qui prima di domani.»
«Vuol dire che non li avete visti sbarcare? Allora come sappiamo
che hanno intenzione di attaccarci? Possono essere sbarcati sulla
costa settentrionale dell'estuario. Forse cercano ancora le miniere
d'oro.»
«No.» Gwynn scosse enfaticamente la testa. «Ci abbiamo
pensato. Se gli Scoti fossero venuti in questa direzione, sarebbero
stati accesi i fuochi di segnalazione. Abbiamo visto i fuochi questa
mattina lungo il tragitto.»
Mi rivolsi a mio padre. «E allora?»
«Partiamo immediatamente. Se tutti e tremila vengono in questa
direzione, li bloccheremo nella valle a quindici miglia a nord di qui,
quella con il pantano. È una trappola naturale. Li lasceremo entrare
e gliela chiuderemo addosso.» Si girò verso Uther e Flavio. «Voi due
potete andare. Buona fortuna e che Mitra, il dio dei soldati, cavalchi
con voi.»
«Aspettate!» Li fermai prima ancora che facessero il saluto. Si
voltarono tutti e due a guardarmi. «Padre, perché mandi solo
cinquecento uomini?»
«Contro quattrocento? Perché sono abbastanza.»
«Non sono d'accordo. E se Uther ci pensa onestamente, capirà
perché. Sono in quattrocento e procedono rapidamente. Il loro
morale è alto, ricordate che hanno già trucidato un contingente dei
nostri.»
Mio padre corrugò la fronte. «Che cosa stai cercando di dire,
Caio?»
«Io non sto cercando di dire niente. Io credo che dovremmo
mandare con Uther e Flavio anche i duecento di Tito. Settecento
contro quattrocento. Diamo agli uomini di Lot un assaggio della
nostra superiorità numerica. E poi lasciamo che provino a
combattere contro la nostra tattica sul campo. Annientiamoli adesso
che ne abbiamo l'opportunità. Non sanno che noi sappiamo del loro
arrivo. Insegniamo loro a non invadere la nostra Colonia.
Annientiamoli, padre, adesso!»
Uther intervenne, cupo in viso. «Possiamo farlo con le truppe
che abbiamo. Non ce ne servono altre.»
«Sii ragionevole, Uther» scattai. «Dimentica la gloria, e pensa ai
rischi! Quella gente è pericolosa. Se Gulrhys Lot si è alleato con gli
Scoti iberni non possiamo permettere a nessuno dei suoi uomini di
fuggire. Prendi duecento uomini in più e distruggilo.»
Uther guardò mio padre, che mi rispose in sua vece. «Capisco la
tua obiezione, ma avremo bisogno di quei duecento uomini a
cavallo su a nord.»
«No, padre, non ne avremo bisogno. Unendo i tuoi uomini e i
miei abbiamo sempre quattrocento cavalieri. Se vuoi intrappolare gli
Scoti nella valle, possiamo portare i nostri quattrocento uomini alle
loro spalle e spingerli incontro alla fanteria appostata. Gli Scoti non
hanno cavalli. Possiamo nascondere duemila e più soldati appiedi tra
gli alberi ai lati della strada che esce da quella valle, e metterne un
altro migliaio ad aspettarli quando supereranno la collina dall'oro
lato. Possiamo attaccarli di fronte, alle spalle, e sui fianchi
contemporaneamente. Se arriviamo là in tempo!»
Gli occhi di mio padre mandavano lampi. «Hai ragione, Caio!»
Presa la decisione, si rivolse a Tito. «Tito, prendi il comando assieme
a Uther e Flavio. Tra tutti e tre, spazzate via Lot dal vostro
cammino. Noi porteremo gli altri nella valle su a nord. E adesso
«moviamoci, signori, non abbiamo tempo da perdere.» Mentre
uscivamo dalla stanza, nella corte esterna le trombe iniziarono a
squillare. Mio padre teneva per il braccio il grande Gwynn e gli
parlava animatamente.
Mi fermai accanto a loro. «Padre, io mi devo armare. Ti
raggiungerò nella corte.» Mi fece un cenno di assenso e io mi girai
per uscire dalla stanza, e allora esitai e guardai a terra. Ero in piedi
sull'asse più corta del pavimento, l'asse che celava Excalibur. Sentii un
brivido improvviso al pensiero di portare in battaglia quella spada
lucente.
«Che cosa c'è, Caio?» La voce di mio padre era impaziente.
«Niente, padre.» Ripresi a camminare. «Mi era venuta in mente
una cosa, ecco tutto. Niente di importante.»
Quando mi precipitai fuori dal mio alloggio, cercando di
allacciarmi il mantello intorno al collo, mio padre e gli ufficiali
anziani erano tutti a cavallo. Corsi al mio cavallo, un enorme
morello fresco e riposato, e avevo già un piede nella staffa quando
mio padre mi chiamò. Mi voltai a guardarlo.
«Un momento, Caio.» Spinse il suo cavallo verso di me.
«Volevo dirtelo allora, ma ero distratto e me ne dimenticai. Un
giorno, circa un mese fa, eravamo in piedi faccia a faccia, e stavamo
discutendo qualcosa, e mi accorsi che dovevo quasi alzare gli occhi
per fissarli nei tuoi...» Sorrise, e nel suo volto lessi amore e orgoglio.
«Quasi, ho detto. Intendimi bene. Non ho mai dovuto alzare gli
occhi per guardare in faccia nessuno, a parte quand'ero bambino, ma
il fatto è, figlio mio, che ormai sei alto, e grande e grosso, quanto
me.» Fece un cenno a qualcuno, e vidi un soldato avvicinarsi a me
con un ampio mantello nero da guerra di traverso sulle braccia.
«Domani avremmo fatto una cerimonia» continuò mio padre, «ma
questo è un momento buono come un altro. Stendardi nuovi per te
e per Uther. Il suo è un drago d'oro, il tuo è questo.» Il soldato che
reggeva il mantello lo aprì con uno svolazzo e me lo presentò. La
fodera interna era bianca, come per il mantello di mio padre, ma
sull'esterno nero era disegnato in sfarzosi ricami d'argento un enorme
orso rampante, con le zampe anteriori levate a mostrare i poderosi
artigli. Era magnifico. Non trovavo parole, perché mio padre e io
avevamo quasi litigato poco tempo addietro a causa di una creatura
come quella, lui arrabbiato perché affrontandola avevo messo
avventatamente in pericolo la mia vita, e io perché voleva sminuire
la mia vittoria solitaria sul mostro. Quello era un ramo d'ulivo.
«Indossalo» gridò mio padre. «I nostri nemici devono imparare a
temerlo prima possibile.» Tra uno scroscio di risate slacciai il mio
semplice mantello, e il soldato mi aiutò a indossare quello nuovo.
Quando lo affibbiai, i soldati nella corte levarono una possente
acclamazione e io mi sentii maestoso. Montai in sella e al mio fianco
apparve un altro soldato con uno scudo decorato con un orso
d'argento, e una lunga lancia dall'asta nera. Li presi e mi sedetti
eretto e fiero sul mio grande morello. Mio padre alzò il braccio e i
cavalli scalpitarono, e si avvicinò un altro soldato, portando il mio
nuovo stendardo nero e argento. Il generale Pico abbassò il braccio,
le trombe squillarono, e uscimmo a cavallo dai cancelli di Camulod,
ancora una volta diretti in guerra.
Dalla strada fuori dai cancelli dominavamo la pianura
sottostante, dove i nostri tremila soldati a piedi stavano già
avanzando in coorti di cinquecento uomini ciascuna. La polvere ci
offuscava la vista, ma sapevamo tutti di assistere a un fatto
fenomenale: il più numeroso esercito che la nostra Colonia avesse
mai radunato per un attacco offensivo. Avevamo duecento uomini
da vendicare, e non volevamo fallire.
Libro Terzo
RAPACI
XIII.
Dal mio posto di osservazione al limitare del bosco vidi da
lontano il mio decurione esploratore uscire da un folto di cespugli e
farmi cenno. Parlai da sopra la spalla.
«Ecco il segnale. Sono passati. Andiamo.» Spinsi il mio cavallo al
passo lungo la valletta simile a una gola che ci aveva nascosti tra due
creste. Dietro a me, quattrocento uomini cavalcavano in doppia fila.
Attraversai l'ampio sentiero battuto dagli Scoti iberni e contai cento
passi prima di voltare il cavallo a sinistra verso il ripido pendio che
saliva fino alla cresta. I miei uomini si allinearono a sinistra in attesa
del mio comando. Guardai la sommità della cresta davanti a me e
contai ancora fino a cento, lentamente. Sapevo che cosa c'era
dall'altro lato della cresta e non volevo compromettere troppo
presto la nostra posizione. Finalmente diedi il segnale, spingemmo i
cavalli su per il pendio e arrivammo sulla cresta che sovrastava la
valle. In quattrocento, una doppia fila di uomini e cavalli, duecento
per fila, occupavamo adesso la strada che gli Iberni avevano seguito
fino in fondo alla valle. Mi fermai, accarezzando il collo del cavallo
e rimirando la scena che si stendeva davanti a me.
La maggior parte delle valli in quella regione si allungava da est
a ovest, allargandosi verso la costa. Eravamo rivolti a sud in una
valle che invece si approfondiva allontanandosi dalla costa verso
l'interno. Era larga circa due miglia dal lato in cui ci trovavamo fino
alla sommità della cresta opposta. Una fitta foresta la ostruiva
all'interno verso est e copriva il pendio della collina di fronte a noi,
ma sul nostro lato la collina era spoglia e verde, come il fondo della
valle, che si levava gradatamente in direzione del mare alla nostra
destra rastremandosi poi tra le alte scogliere. Era il fondo della valle
che ci aveva fatto scegliere quel posto per la nostra azione; una
trappola mortale, come aveva detto mio padre. La strada
attraversava perpendicolarmente la valle e proseguiva verso sud, da
cresta a cresta, e più di mezzo miglio correva lungo il fondo
pianeggiante della valle, fiancheggiata su ogni lato da erba
dall'aspetto innocente che copriva acquitrini infidi e profondi capaci
di inghiottire una truppa di cavalieri e i loro cavalli senza lasciarne
alcuna traccia. Sull'altro lato di quel tratto pianeggiante, la strada
ricominciava a salire verso sud, attraverso alberi sempre più fitti che
la assediavano da ogni parte fino a farla somigliare a una galleria.
Dal punto in cui ero seduto a cavallo non vedevo nessun segno dei
duemila uomini che avevamo nascosto tra gli alberi.
Adesso il tempismo era cruciale. Prima che ci muovessimo, i
nostri avversari dovevano avere superato il punto di non ritorno.
Dovevano essere circondati dagli acquitrini, in modo che quando li
avessimo attaccati alle spalle non avrebbero potuto disporsi su una
linea di difesa. Volevamo indurli al panico. Ma gli acquitrini erano
nemici nostri quanto loro. Dovevamo fermarci prima degli
acquitrini, e prima ancora dovevamo far correre quegli Iberni lungo
la strada davanti a loro e in mezzo agli alberi con i duemila uomini
nascosti, e fuori dalla valle dove mio padre aspettava con altri mille
uomini per ricevere quelli che fossero sfuggiti alla trappola.
Levai alto il braccio con lo scudo e attesi il momento propizio,
godendo la tensione dei muscoli del braccio e della spalla. L'esercito
nemico era un grosso bruco nero sulla strada sotto di noi; più di
metà era già sul tratto che attraversava gli acquitrini. Abbassai il
braccio, squillarono le trombe, e avanzammo al passo. L'effetto fu
istantaneo: quelli della retroguardia che udirono le nostre trombe si
girarono e ci videro arrivare, e nonostante il rumore della nostra
avanzata li sentimmo gridare e avvertire gli uomini che li
precedevano, e vedemmo il bruco dimenarsi terrorizzato.
Rompemmo il passo per un piccolo galoppo, e la nostra linea
posteriore si spostò tra gli uomini della prima linea formando una
solida barriera. Nella retroguardia nemica apparvero segni di
effettivo disordine: gli uomini avevano aumentato il passo,
incalzando e urtando quelli più avanti. Ma non tutti erano in preda
al panico. Alcuni uomini si staccarono dalla colonna e iniziarono a
organizzare linee di difesa, ma era troppo tardi. La mia scelta del
tempo era stata perfetta. Erano negli acquitrini. Le linee che
cercavano di allargarsi sui fianchi si dibattevano nel fango, gli uomini
scivolavano e cadevano impotenti, risucchiati dalla palude. E allora li
mettemmo in rotta. Avevo ordinato ai trombettieri di suonare senza
posa, e in quel momento i miei uomini iniziarono a urlare. La
velocità della nostra avanzata era andata costantemente
aumentando, ed eravamo a meno di trecento passi dalla
retroguardia nemica, e a circa duecentocinquanta passi dagli
acquitrini. Non c'era un solo uomo dell'esercito avversario che non
sapesse che eravamo alle loro spalle. La crescente pressione da dietro
si trasmetteva visibilmente alla colonna larga non meno di sei
uomini e lunga cinquecento. Lo spazio tra gli uomini in marcia
diminuì fino a sparire, e l'avanguardia ruppe i ranghi e corse via dalla
calca, diretta all'apparente salvezza di un'altra valle che si apriva tra
gli alberi in fondo alla strettoia. Tutta la colonna era in precipitosa
fuga quando fermai i miei cavalieri appena prima degli acquitrini.
Rimanemmo lì seduti a guardare l'ondata frangersi e spezzarsi sulla
cresta della collina, dove i nemici in fuga si trovarono di fronte due
coorti romane riunite in manipoli pronti ad accoglierli. Mentre
l'esitazione fatale li spingeva in un mucchio, i nostri uomini nascosti li
colpirono da entrambi i lati.
Militarmente, suppongo che sia stato un grande successo. Fu un
massacro spaventoso, perché il nemico, ammassato sulla strada, era
impossibilitato a rispondere all'attacco combinato dei nostri uomini
che sbucavano dai boschi. Noi, la cavalleria, eravamo serviti allo
scopo. Adesso dovevamo solo osservare e aspettare eventuali
tentativi di ritirata nella nostra direzione.
All'inizio ci furono una dozzina, forse una ventina di uomini che
ripiegarono dalla galleria della morte che quella strada era diventata.
Quando videro che li aspettavamo si fermarono. Ma non erano in
una posizione di immediato pericolo, e il loro numero crebbe fino a
circa duecento, ammassati in un grande gruppo sulla strada, a mezza
via tra noi e i boschi. Dopo un poco, i fuggitivi iniziarono ad
arrivare in numero sempre minore, fino a cessare completamente.
Invece di affrontarci, alcuni tentarono disperatamente di scappare
attraverso gli acquitrini che fiancheggiavano la strada, ma l'uomo che
andò più lontano fece meno di cento passi prima di cadere per
l'ultima volta. Portava sgargianti colori, rosso e verde, ma quando
svanì non era altro che un grumo nero. Mi rivolsi a Catone Achmed,
il mio luogotenente.
«Quanti credi che siano?»
«Due, forse trecento. Difficile contarli, comandante.»
«Diciamo trecento. Su tremila.» Li guardai, rammentando Publio
Varro. «Sei cristiano, Catone?»
«Sì, comandante, a Camulod.»
«Che cosa vuoi dire?» Lo fissai. «Non qui?»
Sorrise, imbarazzato. «Mitra è il dio dei soldati, comandante.
Non mi ha mai abbandonato in battaglia.»
«Capisco. Il cristianesimo può essere scomodo quando si tratta di
uccidere. Talvolta penso che i druidi abbiano ragione. I loro dei non
sono così permalosi. Sembrano più vecchi, convivere con loro è più
semplice.» Ricordai che Publio Varro aveva descritto il proprio
dilemma di fronte a tre iberni legati su una spiaggia sassosa. Erano
indifesi, ma cattivi e pericolosi. Ucciderli sarebbe stato un omicidio,
secondo la fede cristiana, ma se li avesse liberati avrebbero ucciso
altre persone, e non poteva portarli con sé. Io ne avevo di fronte
trecento, adesso, e non avevo arcieri appostati in cima al dirupo che
mi sollevassero dalla responsabilità di compiere una scelta. «Chissà se
la Chiesa cristiana vanterà mai dei soldati tra le sue schiere?» Catone
mi guardò come se fossi impazzito. Non aveva idea di che cosa mi
passasse per la mente. «Catone» continuai, «questi uomini ci
affronteranno. Non voglio ucciderli, ma non possiamo prendere
trecento prigionieri.»
«Allora lascia che combattano, comandante.»
«Potrebbero non avere voglia di combattere. A vederli, non si
direbbero granché belligeranti.»
«Prendili come schiavi, allora.»
«A Camulod? Non abbiamo schiavi, e non ne abbiamo bisogno.
Gli schiavi sono una malattia. Richiama all'attenzione i trombettieri.»
Anche l'assassinio è una malattia, mi diceva la mia mente, e uccidere
questi uomini sarebbe un assassinio. Anche se decidessero di
combattere, sarebbero morti prima ancora di iniziare. Mi chiedevo
quanti ne fossero usciti dall'altra parte dei boschi, e come se la
stessero passando.
Un unico squillo di tromba mi diede l'attenzione di ogni uomo.
Alzai la voce. «Al prossimo segnale, vi disporrete intorno a me in un
cerchio, aperto verso gli acquitrini. Quegli uomini entreranno nel
cerchio. Lo voglio profondo un uomo. Se decidono di combattere,
un uomo ogni due dalla mia sinistra e dalla mia destra comporrà
immediatamente tre formazioni a punta di freccia, una dietro di me,
una dietro al luogotenente Catone e una dietro al luogotenente
Maripone. Che questi uomini si facciano riconoscere ora.» Mentre in
un rimescolio di interesse i soldati si contavano a partire dalla mia
sinistra e dalla mia destra, io girai il mio cavallo, chiedendo a Catone
e a Maripone di seguirmi, e tornai indietro fino a essere settanta
passi buoni dal punto in cui la strada emergeva dagli acquitrini sulla
terraferma. Feci cenno al trombettiere e un altro squillo diede inizio
al comporsi delle formazioni secondo i miei ordini.
«Maripone» dissi, «voglio che tu ti metta qui alla mia destra, a
metà tra me e la fine della linea. Prendi posizione trenta passi
indietro rispetto al cerchio. Catone, fai lo stesso alla mia sinistra.»
Feci un altro cenno al trombettiere, e un altro squillo riportò a me
l'attenzione di tutti. Alzai di nuovo la voce. «Quando le punte di
freccia saranno formate, due squilli saranno il segnale per gli uomini
ancora rimasti nel cerchio di indietreggiare immediatamente e di
mettersi in formazione dietro alla mia punta. Voglio una formazione
compatta, quattro ranghi di cinquanta uomini. Quando il blocco sarà
disposto, muoverò la mia formazione a destra, sgomberando il
terreno. È chiaro?» Li vidi annuire. Avevano capito. Alzai ancora di
più la voce. «Voglio intimidire quegli uomini, ma non combatterli a
meno che non ci siamo costretti. Se tentano di attaccare una sezione
del cerchio durante la formazione delle punte di freccia, quella
sezione indietreggerà e cercherà di evitarli senza permettere loro di
fuggire. Ricordate che sono appiedati. Dovranno corrervi dietro. Li
aspetteremo qui. Senza parlare. Senza muoverci. Che vedano la
nostra disciplina.» Mi rivolsi al soldato che era dietro a me, alla mia
destra, e reggeva il mio stendardo. «Vieni con me.» Spinsi il mio
cavallo fino davanti al cerchio e lì mi fermai. Nel pugno d'uomini
alla testa del gruppo sulla strada c'era del fermento. Alla fine un
uomo enorme, che superava di tutta la testa e le spalle i suoi
compagni, si staccò dagli altri e avanzò con passo deciso verso di
me. I suoi compagni lo seguirono, e io rimasi ad aspettarli.
L'uomo in testa al gruppetto camminava con fare altezzoso, e
quando fu più vicino vidi che era sbarbato. La cosa mi sorprese,
perché gli esponenti del suo popolo che avevo incontrato in passato
portavano barbe intere o lussureggianti baffoni. Quando fu più
vicino ancora, e vidi perché non aveva peli sul viso, la sorpresa si
mutò in sconcerto. Era solo un ragazzo! Un ragazzo gigantesco, ma
per età pur sempre un adolescente. Intorno a lui aleggiava un
barbarico sfarzo: indossava una tunica gialla bordata di rosso, il
torace massiccio era protetto da una corazza di bronzo, e gambali di
pelliccia gli avvolgevano i polpacci robusti; al braccio sinistro, sopra
al polso, portava un bracciale d'oro battuto, e il torchio d'oro di un
capo celtico gli adornava il collo. Una spada alquanto lunga
pendeva da una cinghia buttata a tracolla sulla spalla destra.
Quando raggiunse il confine degli acquitrini tra le punte
dell'anello formato dai miei uomini, si fermò e percorse con lo
sguardo il cerchio aperto, da sinistra a destra, prima di riportare gli
occhi su di me. Il suo volto era inespressivo. Gli uomini alle sue
spalle si erano fermati insieme a lui. Nessuno muoveva un muscolo.
Alla mia destra un cavallo sbuffò forte e scalpitò, morso da un
insetto. Il silenzio si prolungò, e poi il ragazzo imberbe allungò una
mano dietro a sé e tolse dalla tracolla un'ascia di guerra. La roteò
piano tenendo la lama nella destra e afferrò l'impugnatura con la
sinistra, dietro la nuca. Avanzò ancora, e si fermò a circa dodici passi
da me, mentre i suoi uomini si aprivano a ventaglio formando un
semicerchio opposto a quello dei miei. Ovviamente aveva dato gli
ordini prima di avvicinarsi. Non aveva distolto gli occhi da me.
«È così» disse. «É tempo per noi tutti di morire.» I suoi occhi pieni
di disprezzo andarono da me al cerchio dei miei uomini. «Vedrete
che non esiteremo a portarci appresso un po' di compagnia.»
Mi accorsi con stupore che parlava nella sua lingua e che tuttavia
lo comprendevo con facilità. Pronunciava alcune parole in modo
diverso, era diverso l'accento, ma il linguaggio fondamentale era lo
stesso del popolo di Uric. Scelsi le parole con cura e gli risposi nella
sua lingua. «Se desiderate morire, possiamo accontentarvi in fretta»
dissi. «Ma chiediti prima se è davvero necessario.»
Restò a bocca aperta per la meraviglia. Era evidente che stava
parlando a se stesso.
«Come mai uno stronzo romano come te parla la lingua dei Re?»
«La lingua dei Re? I Romani la chiamano la lingua dei barbari,
che io sappia. Ma noi non siamo Romani.»
Corrugò appena la fronte, e i suoi occhi guizzarono incerti dalla
mia armatura alle insegne. «Non siete Romani? Che cosa significa?
Siete vestiti come Romani. Agite come Romani. Chi siete, allora, se
non siete Romani?»
Strinsi l'asta della lancia e tirai le redini del cavallo che cercava di
sottrarsi alle mosche. «Siamo i possessori di questa terra» dissi. «E voi
siete predatori. Forse siamo vestiti come Romani e combattiamo di
certo come Romani, ma siamo Britanni, preoccupati solo di
difendere le nostre case, il nostro popolo e le nostre terre da quelli
come voi, invasori d'oltremare.»
Sollevò la testa altera. «Invasori, eh?»
Scrollai le spalle. «Invasori, pirati, predatori, non fa differenza.
Non appartenete a questo luogo e venite in guerra, perciò, come hai
detto, è tempo per voi di morire.»
Si acquattò in posizione d'attacco e i suoi uomini si prepararono
a imitarlo. «Venite a ucciderci, allora, se potete.»
Gli sorrisi dall'alto del mio cavallo. «Oh, possiamo. Non
dubitarne.» Iniziai ad alzare il braccio per dare il segnale di
ingaggiare battaglia, ma mi fermò.
«Aspetta!»
Abbassai il braccio. «Ebbene?»
Si bagnò le labbra e guardò di nuovo i miei uomini in cerchio,
tutti con gli occhi puntati su di me. «Prendici prigionieri!»
Sorrisi mio malgrado, ammirando l'impudenza di quel ragazzo.
«Prigionieri? Trecento uomini? Non puoi dirlo seriamente! Che cosa
ce ne faremmo di trecento prigionieri? Dovremmo passare il resto
della nostra vita a farvi la guardia in attesa che vi ribelliate e
cerchiate di scappare?» Scossi la testa. «No, non credo che sia una
buona soluzione...»
Mi interruppe. «Non dovrete trattenerci a lungo. Re Lot pagherà
per la nostra libertà.»
Allora risi forte. «Lot? Re Lot? A quel bruco immondo sono
spuntate ali di farfalla? Re Lot!» Smisi di ridere e scossi di nuovo il
capo. «Sei due volte pazzo, gigante. Pazzo a pensare che a
quell'animale importi se vivete o morite, e pazzo a pensare che vi
venderemmo a lui per permettergli di usarvi ancora contro di noi.»
Il ragazzo riprese a parlare con enfasi e convinzione. «Pagherà il
nostro riscatto, lo giuro! Deve farlo! Non ha altra scelta.»
Le sue parole mi fecero riflettere. Calmai di nuovo il mio cavallo
e guardai il gigante negli occhi. «Tu mi incuriosisci. Lot, da quel poco
che so di lui, avrà sempre un'altra scelta. Ma prosegui. Dimmi che
cosa intendi.»
Si bagnò ancora le labbra e lasciò cadere a terra la testa
dell'ascia, raddrizzandosi dalla posizione di attacco. «Io sono Donuil,
nobile principe del popolo che i Romani chiamano Scotii. Mio padre
Athol è Ard Righ, Alto Re. Mia sorella Ygraine è promessa sposa a
Lot di Cornovaglia, e Lot e mio padre hanno stretto un'alleanza: lui
ci aiuta nelle nostre guerre; noi lo aiutiamo nelle sue. Questo era il
nostro primo combattimento in suo nome.»
«Non è andato molto bene, vero?» Alzai il braccio e il nostro
cerchio si divise come avevo ordinato, lasciando un anello di uomini
a cavallo dietro ai quali si disposero tre grandi formazioni a punta di
freccia, con la punta rivolta all'interno. Il gigante osservò i miei
uomini eseguire gli ordini come macchine, e il suo viso perse un po'
del suo altezzoso colorito. Tre singoli squilli di tromba mi avvisarono
che la manovra era stata portata a termine, e alzai nuovamente il
braccio. Il resto del cerchio si ruppe e formò un massiccio blocco
quadrato dietro la mia punta di freccia. Il giovane gigante mi guardò
con espressione desolata.
«É tempo di morire, amico mio» dissi. «Non possiamo
permetterci di lasciarvi in vita, e inoltre, con un po' di fortuna, mio
cugino Uther ha già ucciso Re Lot. Combattete lealmente, e addio.»
Di nuovo feci per alzare il braccio e di nuovo mi fermò.
«Tuo cugino Uther? Allora tu devi essere Merlino.»
Chinai leggermente il capo. «Lo sono.»
«Dicono che sei un uomo di buon senso e di onore.»
«Davvero?» Un sorriso asciutto mi tirò le labbra, e rimpiansi di
dover uccidere quel ragazzo. «E chi lo dice? Lot di Cornovaglia non
sa nulla di buon senso o di onore, e sono sorpreso di sentire che i
suoi alleati fan mostra di conoscerli.»
«Ho sentito i druidi parlare di te.»
Stavo diventando impaziente, e quella situazione iniziava a
mettermi a disagio. Non avevo nessuna voglia di fare amicizia con
un nemico prima di ucciderlo.
«Dove vuoi arrivare?» La mia voce rifletteva la mia impazienza.
«Farò un patto con te, Merlino.» Nei suoi occhi vidi la
disperazione, e sentii un informe rimescolio di disgusto.
«Che patto dovrei fare con te?» chiesi con un mezzo ghigno che
mi era involontariamente salito alle labbra.
«Vita! Vite... I tuoi uomini e i miei.»
«Prosegui» dissi, «ti ascolto.»
Deglutì a fatica e guardò gli uomini raccolti alle sue spalle. Erano
cupi in volto, ma in segno di rispetto per il figlio del loro re
mantenevano un silenzio assoluto. Il ragazzo parlò.
«Sono morti in molti. Il mio popolo non si riavrà mai da questa
perdita. Siamo battuti.» Sospirò rabbrividendo di raccapriccio. «Se
dobbiamo morire adesso moriremo, ma porteremo con noi parecchi
dei tuoi uomini.»
«Ebbene? É il rischio dei soldati.» Strinsi le labbra. «Sto ancora
aspettando che tu mi dica dove vuoi arrivare.»
«Ecco: combatti con me, da uomo a uomo, a piedi. Se vinco io,
lasci andare liberi me e i miei uomini, sulle nostre imbarcazioni e in
patria. Hai la mia parola d'onore che non sentirai più parlare di noi.»
Sollevai un sopracciglio. «E se vinco io?»
Alzò le spalle. «Allora i miei uomini si ritirano, lasciando qui le
loro armi.»
«E tornano in patria comunque? Lo chiami un patto? Vinci tu in
entrambi i casi.»
Scosse la testa, una scossa breve e violenta. «No! Tu vinci. Tutti i
tuoi uomini rimangono vivi, ma in ogni caso tengono le loro armi.
Se i miei uomini tornano a casa senza, saranno disonorati per
sempre.»
«Disonorati per sempre? Perché?»
Alzò di nuovo le grosse spalle. «É l'usanza del nostro popolo. La
codardia è imperdonabile.»
«E allora perché mai proponi una soluzione simile?»
Mi guardò, e nei suoi occhi lessi la verità. «Penso di poterti
battere. Ma anche se perdo, i miei uomini rimarranno in vita.
Continueranno la mia razza.»
Decisi improvvisamente che quel giovanotto mi piaceva.
Aveva una dignità che mi ricordava il mio prozio Ullic. Riflettei
sulla sua offerta e la mia mente andò subito oltre. Era grande e
grosso e forte abbastanza da sconfiggermi, ma quello non mi
preoccupava. Sentivo che se avessimo combattuto, la vittoria
sarebbe stata mia, ma poi ricordai il recente rimprovero di mio
padre per quell'insulso confronto con l'orso. Nel combattimento che
il giovane celta proponeva, uno dei due doveva morire, e le
probabilità di cadere erano eque per entrambi. Sarei stato un
irresponsabile a correre un simile rischio di fronte alle mie truppe.
Scossi la testa.
«No» dissi. «Ma ho una proposta alternativa. Arrenditi, da solo, a
me personalmente, come mio prigioniero. Se accetti, scorterò i tuoi
uomini alle loro imbarcazioni e li rimanderò in patria, con le loro
armi. Tu rimarrai in ostaggio per la loro buona condotta.»
Mi guardò accigliato. «Senza un combattimento?»
«Il combattimento l'hai avuto.» Indicai la strada alle sue spalle.
«Hai perso, ricordi?»
Si strinse nelle spalle e guardò l'ascia che giaceva a terra.
«Non ho scelta, vero? Per quanto tempo mi terrai prigioniero?»
Non ci avevo nemmeno pensato. Lo feci subito. «Cinque anni»
gli dissi. «Se alla fine di quel periodo non avremo avuto altri
contrasti con il tuo popolo, ti lascerò andare.»
«Cinque anni?» Era atterrito. «Cinque anni di schiavitù?
Incatenato come un orso?»
Scossi lievemente la testa. «Non ho parlato di incatenarti. Sarai
mio prigioniero. Secondo il patto iniziale mi hai dato la tua parola
che i tuoi uomini partiranno e non torneranno. E dal tuo
atteggiamento mi è parso di potermi fidare di quella parola. E sarei
pronto a fidarmi ancora, se promettessi di non tentare la fuga, e di
trascorrere con me il tuo tempo di prigionia.»
«A servire te?»
«A servire con me.»
Socchiuse gli occhi come per cercare di vedere oltre i miei, nella
mia mente. Poi fece un breve cenno di assenso.
«D'accordo. Ma lascia andare i miei uomini.»
«Lo farò. Si è salvato qualcuno dall'altra parte dei boschi?»
«Non lo so.» Aveva gli occhi tristi.
«Lo scopriremo» dissi. «Se con le truppe di mio padre ci fossero
dei sopravvissuti, sarebbero legati anche loro dal tuo patto?»
Socchiuse ancora gli occhi. «Sì. Sono il popolo di mio padre.»
«Bene; allora è meglio che andiamo a vedere se c'è qualcuno
ancora vivo. Spiega ai tuoi uomini che cosa sta succedendo. Io lo
spiegherò ai miei.» Mi rivolsi al mio vessillifero e parlai nella mia
lingua. «Portami qui i luogotenenti Catone Achmed e Maripone.»
Quando arrivarono dissi loro dell'accordo. Maripone non disse
niente, ma Catone era preoccupato.
«Comandante, puoi fidarti di un uomo come quello? Di un
pirata?»
Annuii. «Credo di sì, Catone. Non è un pirata nel senso comune
del termine. È un inviato di suo padre, il re degli Scoti. Comunque, il
tempo proverà il mio torto o la mia ragione, e intanto abbiamo
evitato di perdere degli uomini inutilmente. Voglio mandare
duecento uomini a scortarli fino alla costa. Voi li guiderete. Non
penso che avrete difficoltà lungo la strada, ma se così fosse, mi
aspetto che vi comportiate di conseguenza. Se non mantengono la
parola data, sterminateli. Li disarmeremo prima della partenza e
terrete le loro armi sotto custodia. Caricatele sulle loro imbarcazioni,
e quando saranno partiti tornate direttamente alla Colonia.»
«E permetteremo loro di tenere le armi? Davvero?» Era
visibilmente sorpreso.
«Sì.» Mi sfuggì un piccolo sorriso. «Quando gli uomini saranno a
bordo, riconsegnate loro le armi.»
Era ancora dubbioso, ma non sollevò obiezioni; si strinse nelle
spalle e disse solo: «Il comandante sei tu, comandante».
Il sorriso si ingrandì. Gli diedi istruzioni di trattenere i prigionieri
nell'eventualità di altri arrivi o di ulteriori ordini, e ritornai al mio
giovane prigioniero, che aveva finito di parlare con i suoi uomini.
«Hai detto loro che potranno tenere le armi?» gli chiesi.
«Sì. Ho detto loro che le riavranno quando saranno a bordo
delle navi.»
«Esatto. Ho dato istruzioni al comandante della scorta che li
riaccompagnerà alle loro navi. Sono al corrente delle condizioni del
tuo stato di ostaggio?»
«Sì. Sono al corrente.»
«Bene. Spero che abbiano di te grande stima. Adesso chiedi loro
di buttare a terra le armi, tutte in un mucchio, e di allontanarsi. I
miei uomini le caricheranno più tardi su uno dei nostri carri di
commissariato. Sai cavalcare?»
«No.»
«Allora spero che cammini svelto. Andiamo a controllare l'entità
del massacro più avanti, nei boschi. Dovrai venire con me. Non sarà
un tragitto piacevole, ma se dall'altra parte qualcuno dei tuoi uomini
è ancora vivo, dovremmo cercare di arrivarci prima che decidano di
giustiziarli tutti.»
«Che cosa ti ha preso in nome di Dio per stringere uno stupido
patto con un selvaggio culonudo?» Mio padre aveva sfiancato il
cavallo per arrivare in cima a una collinetta e aspettarmi, e mi aveva
accolto così prima che avessi il tempo di fermarmi, ma non ero
impreparato.
«Forse proprio il nome di Dio, padre.»
Il suo cavallo si impennava, inquieto, e saltellava di lato per
evitare il mio.
«Che cosa vorresti dire?» Quasi mi ringhiava contro.
«Risparmiami le tue stravaganze, Caio. Non è il momento di fare
sofismi.»
«Non intendevo farne, padre. Parlavo seriamente.» Mi girai a
guardare i suoi prigionieri ammassati e miserrimi, circondati dai
soldati. A prima vista stimai il loro numero almeno uguale a quello
dei miei prigionieri, forse qualche decina in più. Scrollai le spalle.
«Più di duemila uomini hanno imboccato quella strada, e solo
trecento sono tornati indietro. Non sapevo in quanti erano arrivati
dalla tua parte, ma sapevo che più di mille erano morti in quella
trappola.»
«E allora?» Non aveva pazienza per seguire il mio ragionamento.
«Ebbene? Che cosa stai dicendo? Ti sembra strano? Erano soldati,
Caio. I soldati si aspettano di morire.»
«Non così, signore. Non i soldati. Quelli erano uomini, I soldati
erano i nostri, e hanno attaccato di nascosto, a tradimento.»
Mio padre era completamente sconcertato, e pensava che avessi
perduto il senno. «E poi?» chiese, incredulo. «Avresti preferito che
fossero morti loro? I nostri uomini?»
«No! Mi fraintendi. Dammi almeno la possibilità di spiegarti.»
Slegai il sottogola e mi tolsi l'elmo per la prima volta quel giorno.
«Vuoi ascoltarmi?»
«Ne dubiti?»
«No, padre. Perdonami.» Mi passai una mano tra i capelli, fradici
e appiccicati dal sudore. «So quello che voglio dire, ma non so da
dove incominciare.» Smontai da cavallo e mi sedetti sull'erba e mio
padre fece lo stesso, lasciandomi il tempo di raccogliere i pensieri.
Finalmente, mi misi a parlare.
«Noi siamo cristiani, padre, non è così? Ci dicono di amare il
nostro nemico, di porgere l'altra guancia. Naturalmente non
possiamo farlo, nella vita, ma possiamo provarci. Non possiamo
dichiararci cristiani se passiamo sopra a un massacro inutile e non
necessario. Sei stato tu a insegnarmi ad assumermi personalmente la
responsabilità delle mie azioni.» Mi interruppi, e pensai meglio a
quello che volevo dire. «Credo di voler dire che ho scelto di non
essere responsabile della morte secondo me inutile di trecento
uomini sconfitti, più i miei uomini che sarebbero morti nel corso
dello sterminio.» Lo guardai, aspettandomi che mi interrompesse, ma
non disse nulla e io continuai. «Immagino che tu avessi esattamente
lo stesso genere di problema, quando sono arrivato, ho ragione?
Oppure li avresti fatti ammazzare dai tuoi soldati su due piedi, a
sangue freddo?» Corrugò la fronte e gli si assottigliarono le labbra,
ma mi affrettai a proseguire prima che potesse rispondere. «È pura
retorica, ovviamente. Se avessi avuto tale intenzione, non li avresti
presi prigionieri. In ogni caso, il giovane Donuil ha proposto una
soluzione. La sua vita, in servitù, come ostaggio per l'assenza dei suoi
uomini dalla nostra terra. Mi è sembrata una proposta onesta.»
«Da quale punto di vista?» La voce di mio padre era più calma,
adesso.
Strappai un lungo filo d'erba e ne mordicchiai l'estremità più
morbida.
«Dal punto di vista storico, suppongo. Della nostra storia. Roma
ha dato l'esempio secoli fa, e ha continuato a farlo da allora. Meglio,
ho pensato, lasciarli andare con la loro vita, e responsabili della vita
del loro principe, piuttosto che sterminarli e attendere rappresaglie.»
Si succhiava un labbro, e aveva gli occhi fissi nei miei. «E tu credi
che questo principe, questo Donuil, manterrà la parola data?»
«Sì, padre. Io credo di sì.»
Si girò su un fianco e armeggiò con la cintura cercando di
sistemarsela più comodamente, ma ci riuscì solo in parte, e finì per
estrarre il pugnale dal fodero e osservarne la punta.
«Vortigern» disse.
«Scusami?»
«Vortigern. É il nome di un uomo. Un condottiero del nord-est.
Ne hai sentito parlare?»
Feci segno di no. «No. Mai. Avrei dovuto? Chi è?»
Mio padre ficcò in terra il pugnale, con forza, e poi lo ritirò, e il
rumore sabbioso, estraneo, della terra che grattava contro la lama di
ferro, mi fece allegare i denti. «Vortigern sta facendo quello che fai
tu» disse. «Sta mettendo a rischio la sua vita e la vita del suo popolo
fidandosi di un popolo straniero che non ha idea di che cosa sia la
fiducia. La ragione mi dice che l'idea della fiducia, come la
concepiamo noi, dev'essere per loro un concetto del tutto
sconosciuto.» Fece una pausa e mi guardò e poi, vedendo la mia
incomprensione, pulì la lama sull'orlo della tunica e continuò a
spiegare.
«Le terre di Vortigern sono sulla costa nordorientale, nella zona
che ha subito le scorrerie più gravi e il trattamento più rude da parte
degli invasori sassoni. Lui e il suo popolo li hanno combattuti per
anni, ma ogni anno arrivavano nuovi predatori, mentre gli uomini
migliori di Vortigern venivano eliminati a ritmo costante. Infine ha
preso un accordo con un uomo di nome Hengist, un capo sassone
che tornava ogni anno. Gli disse che avrebbe dato ai Sassoni della
terra, terra da coltivare e su cui vivere, se in cambio lo avesse aiutato
a difendere la sua terra e la loro da altri predatori.»
«E allora?» dovetti chiedere. «Ha accettato?»
Pensai a lungo che non mi avrebbe risposto, ma poi alzò le
spalle e sospirò. «Sì, ha accettato.»
«Beh, è splendido» dissi, pieno di entusiasmo.
Mio padre mi guardò con una strana espressione, in parte di
compassione e in parte di insofferenza. «Credi? E che cosa accadrà
domani, o tra un anno, o un altr'anno ancora, quando i Sassoni che
ha invitato a vivere con lui vorranno andare in patria e tornare con
moglie e figli e fratelli e familiari? E che cosa succederà quando tutti i
loro amici e le loro famiglie arriveranno qui e non ci sarà abbastanza
terra da coltivare per tutti?»
Sbattei le
coltiveranno.»
palpebre.
«Diboscheranno
altra
terra
e
la
«Sì, Caio, lo faranno. E il loro numero aumenterà e ne avranno
bisogno dell'altra, e un giorno decideranno che non c'è più posto per
Vortigern e per il suo popolo, perché la sua terra sarà diventata la
loro terra, e cacceranno Vortigern e i suoi discendenti, vivi, se sono
fortunati.» Parlando aveva alzato la voce; tacque, ritrovò la sua
pazienza, e riprese con un tono più basso. «Vortigern sta facendo un
gioco suicida, Caio. Non sta solo accogliendo degli stranieri nella sua
terra. Sta consentendo l'ingresso incontestato a una razza straniera, a
una cultura straniera, a un popolo incivile e selvaggio
intrinsecamente ostile alle sue tradizioni e al suo modo di vivere.
Presto o tardi Vortigern perderà tutto. È inevitabile. Lo capisci?»
Annuii. «Sì, padre, capisco, adesso che me lo spieghi con tanta
chiarezza. Ma non capisco che rapporto abbia con la mia decisione
nei confronti di questo giovane capitano celtico. Non lo sto
invitando a venire qui e a coltivare la mia terra. Non riesco a
convincermi di aver preso la decisione sbagliata.»
Mio padre si strinse le guance tra i palmi delle mani e si alzò. La
sua decisione era presa. «Molto bene, Caio. Sei mio figlio e sei un
soldato. Non solo; sei un uomo a sé stante, con il diritto di
esprimere i suoi personali giudizi. Io ho i miei dubbi, ma se sbagli
non ti dirò che te l'avevo detto. Spero solo che imparerai dal tuo
sbaglio, se ne hai fatto uno. Come intendi procedere, adesso?»
Faticai a non mostrare il mio sollievo, e mi alzai in piedi con la
massima indifferenza, rimettendomi in testa l'elmo. Mio padre
riusciva ancora a farmi sentire come un bambino. «Chiederò a
Donuil di parlare ai tuoi prigionieri e di spiegare loro la situazione.
Non dovrebbero esserci difficoltà, poiché non hanno alternative.
Sono dei barbari, ma credo che non difettino di onore. Li scorterò
fino alla costa e li rimanderò in patria. Poi ritorneremo a Camulod.
Saremo non più di tre giorni dietro di voi.»
«Quanti ne liberiamo in tutto?»
«Seicento qui, cinquecento sulla costa, di guardia alle navi.»
«Millecento uomini...» Scosse di nuovo la testa. «Spero che tu
abbia ragione, Caio, perché se sbagli ti mangeranno vivo.»
«Lo so, padre. Credo di avere ragione.»
Annuì. «Bene, non tardare più di tre giorni, o ti dichiarerò
morto.»
Sorrisi. «Non sarà necessario, comandante. A proposito, quanti
uomini abbiamo perso su quella strada?»
«Meno di cento» disse, guardandosi intorno. «Ne abbiamo perso
uno per dieci di loro. Niente male come scambio, considerate le
circostanze.»
«No» dissi. «Suppongo di no.»
Mi scrutò attentamente. «Che cosa c'è?»
«Oh, niente. Questa è la mia prima grande battaglia, per numero
di uomini coinvolti. Sto ancora cercando di adeguarmi all'idea di
millecento o milleduecento vite spente con un soffio come lampade
nello spazio di un'ora. Millecento. Sono un mucchio di cadaveri.
Daranno da mangiare a un mucchio di vermi.»
Aggrottò appena la fronte. «Senza il tuo accordo sarebbero stati
il doppio! Ma hai ragione. Non sarà una strada piacevole da
percorrere nei prossimi mesi. Ma non credo che tu abbia perso di
vista che cosa sarebbe successo a Camulod se li avessimo lasciati
attraversare illesi questa valle.»
Ne convenni. «Dovevamo farlo, lo so, ma non è per questo
un'esperienza meno rivoltante.» Infilai un piede nella staffa e montai
a cavallo. «Finché popoli come gli Scoti e i Pitti, e i Sassoni, ci
vedono come vittime deboli e indifese in una terra senza guida,
questo genere di carneficina continuerà. Ma mi stupisce che Lot di
Cornovaglia scenda così in basso da chiamare degli invasori che lo
aiutino.»
Mio padre si schiarì ironicamente la voce, e notai meravigliato
che le sue parole si facevano sempre più chiare e distinte con il
passare del tempo. «Beh, figlio mio, posso garantirti che Lot non
direbbe di se stesso che scende in basso per raggiungere i suoi scopi.
Quello punta in alto. Ambisce al dominio. Lot di Cornovaglia vede
se stesso come Alto re di Britannia, temo.» Salì a cavallo.
«Alto re di Britannia? Lot di Cornovaglia? Tu scherzi, padre.»
Ma nel viso cupo di mio padre non c'era allegria. Si raschiò la
gola e sputò, e parlò ancora. «No, per gli antichi dei, non scherzo.
Mi hanno consegnato dei brutti rapporti su di lui. Vuole conquistarci
tutti.»
«Allora la sua ambizione lo ucciderà, perché deve fare i conti con
Uther, con me e con te, e non è abbastanza uomo per nessuno di
noi. Chissà come se la starà passando Uther in questo momento?»
Mio padre si voltò sulla sella a guardare il suo esercito che lo
stava aspettando. «Lo scopriremo presto» disse, distrattamente. «Vai
a portare i tuoi prigionieri fino al mare. E non metterci troppo
tempo. Ti aspettiamo a Camulod.»
XIV.
Di fatto, arrivammo a Camulod solo un giorno dopo padre.
Portai il principe Donuil a incontrare i suoi uomini subito dopo aver
concluso il colloquio con mio padre, e la gioia con cui accolsero il
giovane meritava di essere vista, Spiegò loro le condizioni alle quali
aveva comprato le loro vite e fece loro promettere di onorare il suo
impegno. Ci furono poche discussioni.
Il giorno seguente raggiungemmo la costa dove avevano
ormeggiato la loro flotta. I miei quattrocento uomini a cavallo
scortavano settecento Scoti. Donuil si recò personalmente a parlare
con gli uomini di guardia alle navi, e io gli concessi di farlo senza
scorta. Rimase lontano per più di un'ora e tornò con un veterano
brizzolato grande quasi quanto lui. Arrivarono in vista del nostro
schieramento e si fermarono, e io andai loro incontro a cavallo.
L'uomo grande e grosso insieme a Donuil parlò per primo.
«Mio nipote mi ha esposto l'accordo che ha preso con te,
Merlino Britannico, e io non ho altra scelta che attenermi alle sue e
alle tue condizioni.» Tacque e io attesi che continuasse, cosa che fece
dopo essersi raschiato la gola e avere sputato. «Sia chiaro che se
avessimo saputo di dover affrontare dei Romani, ci saremmo
comportati molto diversamente!»
Non potevo lasciargliela passare liscia, perché il suo contegno
implicava che se si fossero comportati diversamente avrebbero
potuto batterci. «Che cosa significa? Avete perso più di mille uomini.
Siete avanzati in terra straniera senza nemmeno mandare avanti
degli esploratori. Siete fortunati a essere ancora vivi, e ancora più
fortunati a essere pronti a salpare verso casa con tutte le vostre armi
e l'onore intatto.»
L'uomo avvampò. «Lo so. Non intendevo sminuire il vostro
valore. Ma stavamo andando a raggiungere re Lot. Secondo le sue
chiacchiere non eravate altro che una banda d: malviventi che
minacciavano l'esistenza del suo regno. C: aveva detto che eravate
feccia.»
Grugnii. «Beh, se feccia siamo, siamo feccia ben disciplinata.»
«Già, e straordinariamente onorevole. Io sono Fergus
fratello di re Athol e zio di Donuil. Mio nipote mi ha detto come
vi siete comportati e come l'avete trattato. Riferirò le vostre
condizioni a mio fratello Athol, e sono qui per giurare il mio
impegno solenne a non importunarvi più per cinque anni da questa
data.» Feci un cenno di assenso, accettando il suo impegno, e lui
continuò: «Fra cinque anni da oggi ritorneremo in questo luogo a
pretendere il nostro principe Se è vivo e sta bene, lo prenderemo
con noi e ripartiremo»
«Lo sarà.»
«Sarà meglio, nobile romano! Abbi buona cura di lui perché se
non sarà qui il giorno convenuto, ogni uomo sulla nostra isola ti
dichiarerà guerra, e nessuno stratagemma ro mano vincerà quella
guerra per te.»
Lo guardai dritto negli occhi. «Se il vostro principe rispetta la
parola che mi ha dato non gli verrà fatto alcun male né per mia
mano, né per mano di nessuno del mio popolo.»
L'uomo non staccò gli occhi dai miei. «Bada che non gì venga
fatto del male per mano di nessuno, sia esso amico e nemico.»
Un sorriso addolcì le mie parole. «Vuoi continuare a minacciarmi
in eterno, oppure possiamo prendere congedo?»
Annuì. «Così sia. È nelle tue mani.»
Donuil non aveva ancora parlato. Si girò verso lo zio e lo
abbracciò, e insieme dal pendio di una collina guardammo suo zio e
i suoi uomini imbarcarsi e salpare, ogni nave con una nave vuota al
traino. Quando la flotta si fu ridotta alla grandezza di un giocattolo,
mi girai a osservare il mio giovane prigioniero. Era eretto, diritto
come una lancia, con gli occhi fissi sulla flotta lontana, e il suo viso
non rivelava il minimo indizio di quali pensieri gli passassero per la
testa. Comprendevo il suo stato d'animo, perché immaginavo quali
sarebbero stati i miei sentimenti se fossimo stati uno al posto
dell'altro.
«Principe Donuil» dissi. « É ora. Dobbiamo tornare a Camulod.
Puoi cavalcare dietro a uno dei miei uomini.»
Mi guardò con occhi vuoti e inespressivi. «Camminerò.»
«Così sia.» Diedi il segnale alle mie truppe in attesa e iniziammo il
lungo viaggio verso casa.
Fece a piedi ogni passo del cammino, con andatura instancabile
e costante, al lato sinistro del mio cavallo. In un'occasione, durante
l'attraversamento di un terreno paludoso, gli dissi di aggrapparsi alla
mia staffa, ma si limitò a rivolgermi un'occhiata e tenne le mani
lungo i fianchi. Non dicemmo più una parola. Quando ci
accampammo la prima e la seconda notte accettò il cibo in silenzio e
poi si sdraiò a dormire nel punto che gli indicai, e dovette dormire
profondamente perché avevamo spinto i nostri cavalli a un passo
sostenuto, che significava velocità spietata per un uomo a piedi.
Non appena arrivammo a Camulod, consegnai il mio
prigioniero alla custodia di un centurione, con l'ordine di confinarlo,
senza catene, in una delle celle che tenevamo per i trasgressori da
poco, e lì lo lasciai per ventiquattr'ore, dandogli tempo di riflettere
sulla prigionia in senso stretto mentre io sbrigavo le questioni che si
erano accumulate durante la mia assenza.
Uther non era tornato dalla sua incursione contro Lot, ma aveva
rimandato indietro i legati Tito e Flavio con duecento dei
quattrocento uomini al loro comando. Deluso per non essere riuscito
a trovare Lot sulle nostre terre, Uther aveva deciso di inseguirlo fino
in Cornovaglia se fosse stato necessario, ma non poteva privare
Camulod di tre dei suoi comandanti anziani per un compito che
poteva venire efficacemente svolto da uno solo. Aveva preso metà
delle loro truppe in aggiunta ed era penetrato nella penisola
sudoccidentale con una forza di cinquecento uomini. Da quel
momento di lui non si era saputo più nulla. Mio padre era
preoccupato. Al suo ritorno, dopo aver parlato con i due legati,
aveva convocato una riunione immediata del Consiglio per discutere
tutto quello che era accaduto dopo la nostra partenza, e per stabilire
uno stato di preallarme al forte e in tutta la Colonia. Quando arrivai
con la mia cavalleria, aveva tutto sotto controllo. Stava
riorganizzando la fanteria, che aveva avuto ventiquattr'ore di riposo
ed era pronta a tutto, e io fui felice di scoprire che per me non c'era
quasi nulla da fare. Provvidi rapidamente alle poche incombenze
minori che mi spettavano, e fui libero di andare nella mia valle
nascosta, da Cassandra. Lo lasciai detto a mio padre e uscii dal forte
a cavallo proprio mentre le ombre si allungavano nel tardo
pomeriggio.
Nonostante l'ora tarda, il sole era ancora caldo, e cavalcando
sudavo copiosamente. Il sudore mi gocciolava da sotto la fascia
dell'elmo sulla fronte e scendeva a bruciarmi gli occhi; altri rivoletti
tormentatori mi solleticavano gli impluvi della schiena e del petto
sotto la pesante corazza. Eppure non trovavo strano recarmi a un
convegno amoroso con armi e armatura, e se ci avessi pensato allora
avrei faticato a ricordare il tempo in cui andavo ovunque, anche a
Camulod, senza quei pesanti e ingombranti impedimenti. La mia
armatura, dall'elmo agli stivali, mi era abituale come la mia pelle,
tanto che mi rendevo conto di averla - e che fosse scomoda - solo
quando la toglievo, o ne toglievo una parte.
Si avvicinava la sera quando il mio cavallo sbucò dallo stretto
sentiero attraverso i cespugli nella tranquillità di Avalon. Cassandra
mi volgeva le spalle, e fissava l'acqua nella pozza ai suoi piedi.
L'istinto doveva averla avvertita che qualcuno la stava osservando,
perché si girò e mi vide.
Pur nel crepuscolo incombente scorsi nei suoi occhi il piacere di
vedermi. Mi corse incontro sul breve tratto di erba verde, con i denti
scintillanti in un sorriso di benvenuto, e io la guardai dall'alto del
mio cavallo, sentendo che le guance mi si gonfiavano in un sorriso.
Si fermò proprio di fronte a me e con un gesto delle mani mi diede il
benvenuto, e mi invitò a scendere di sella.
Posai i piedi a terra e subito mi prese per mano e mi tirò in
direzione della capanna. Lasciai che mi guidasse e io mi tirai appresso
il cavallo, e davanti alla porta lo lasciai libero di pascolare.
La stanza era piena di fiori. Vasi e ciotole di boccioli ricoprivano
ogni superficie disponibile, e il loro profumo gravava dolcissimo
nell'aria. Un piccolo fuoco bruciava nel camino, ma non c'era un filo
di fumo, e ancora una volta fui grato a mio zio per avermi insegnato
il segreto della canna fumaria. Cassandra mi fece fermare in mezzo
alla stanza e mi prese entrambe le mani, tenendomele a braccia tese
e ammirandomi dalla testa ai piedi. Io feci lo stesso con lei, e tuttora
non so come avevo potuto considerarla brutta. Sollevò le mani a
slegarmi l'elmo e me lo sfilò, lo posò sul tavolo e poi slacciò il
mantello nuovo, e passò le dita ammirate sul grande orso d'argento
ricamato prima di piegarlo e appoggiarlo accanto all'elmo. Poi mi
tolse il cinturone e il gonnellino di strisce di cuoio, e rimasi con
indosso solo la tunica lunga fino al ginocchio. Non aveva mai fatto
prima una cosa simile, e io stetti lì come un bue, sorridendo
compiaciuto, senza fare il minimo movimento per aiutarla, felice che
mi accudisse.
Quando mi ebbe tolto tutta l'armatura mi sorrise, mi diede un
colpetto nello stomaco, parve volare fino alla porta, e corse fuori.
Sorridendo, e chiedendomi che cosa avesse in mente, la seguii con
calma, solo per accorgermi che era già a metà strada dal sentiero per
il quale ero appena arrivato. Evidentemente, dovevo seguirla.
Respirai a fondo e partii all'inseguimento, pensando di raggiungerla
facilmente, ma quando sperimentai il mio primo fiato grosso, a
meno di metà del sentiero ripido e angusto, iniziai a rendermi conto
che quella giovane donna non si sarebbe fatta raggiungere
facilmente; non solo rimaneva invisibile davanti a me, ma i suoi
movimenti erano anche assolutamente silenziosi. Accettai la sfida,
allungai il passo e controllai scrupolosamente la respirazione,
intuendo che la vittoria non sarebbe giunta tanto presto.
Ansimavo forte, e mi mancava quasi il fiato, quando arrivai in
cima al sentiero, nello spiazzo sulla sommità della collina. Cassandra
mi aspettava, sorridendo allegramente, a cento passi da me sul lato
opposto del cocuzzolo. Non appena capì che l'avevo vista, si girò e
scomparve di nuovo giù per la collina. Repressi l'impulso di
imprecare, mi fermai per parecchi battiti a riprendere fiato, e la
seguii.
Nel corso dell'ora successiva ricevetti un'umiliante lezione di
forma fisica e autosufficienza, e le arrivai vicino solo due volte, e
ogni volta solo perché lei me lo permise. La prima volta mi ero
fermato, ancora senza fiato, a chiedermi dove fosse andata, e mi
piombò sulle spalle da un albero, buttandomi a terra e giù per una
ripa erbosa. Mi strinse forte a sé con le braccia e rotolammo insieme,
e le mie narici si riempirono della sua calda fragranza, capelli e
sudore e fiori selvatici, mischiata all'aroma pungente dell'erba
schiacciata e della terra asciutta e acre e friabile. Ci arrestammo in
fondo alla ripa, io sdraiato sulla schiena incapace di respirare, con
una mano sulla sua coscia nuda, e lei seduta a cavalcioni sul mio
petto, che mi sorrideva. Prima che potessi muovermi o riprendermi
o emettere un suono, Cassandra rise piano, mi arruffò i capelli e
corse via, e non ansimava nemmeno! Poco dopo uscì a tuffo da
sotto un cespuglio, chiuse le braccia intorno alle mie ginocchia e mi
ributtò a terra, ma questa volta non si fermò ad assaporare la
vittoria, né a celebrare la mia sconfitta, e sfrecciò via di nuovo.
A quel punto, in un ultimo, disperato tentativo di salvaguardare
i pochi pietosi frammenti di dignità rimastimi, abbandonai la caccia e
ritornai sui miei passi, imponendomi una corsa leggera fino alla
valle. Passarono solo alcuni istanti, e vidi Cassandra che correva
agilmente al mio fianco, con gli occhi fissi sul sentiero. Riconoscendo
la futilità di qualsivoglia ragionamento, e comunque di ogni
tentativo di comunicare con lei a mio modo, continuai a correre
senza guardarla. Durante il pacato rientro alla capanna, però, sentii
che la spossatezza e la frustrazione e la rabbia defluivano dal mio
corpo con lenta costanza, così che arrivai alla fine del tragitto
ritemprato e solo piacevolmente stanco. Cassandra si fermò in riva al
laghetto e mi guardò con gli occhi scintillanti, il colorito roseo e la
pelle lucida di sudore. Si girò e corse nel lago, avanzando con l'acqua
alle ginocchia fino a dove era abbastanza profondo, e allora si tuffò
e si mise a nuotare. La seguii a breve distanza, e l'acqua era
meravigliosa.
Più tardi uscimmo rabbrividendo e corremmo nella capanna, e
Cassandra prese due coperte, e poi mi trascinò alla sedia di legno
accanto al fuoco, e mi tirò e spinse finché mi sedetti. Si inginocchiò,
avvolta nella coperta, e attizzò e alimentò il fuoco, stuzzicando le
fiamme e aggiungendo grossi pezzi di legna secca. Accese una
candela al fuoco e se ne servì per accendere tre lampade a olio, e
per tutto quel tempo io fui contento di starmene lì a tremare e ad
ammirarla, bevendo ogni suo movimento, ogni fugace immagine
della tunica bagnata che le aderiva al corpo sotto la coperta, e
fremendo dal desiderio di prenderla per la vita e di baciare quel
portento di bocca dalle grandi labbra turgide.
Di fronte all'evidente piacere che le dava la mia presenza, le
uniche cose che tenevano le mie mani lontane da lei erano
l'avvertimento di Daffyd e il ricordo di quello che le era stato fatto.
Il suo corpo era guarito, ma le ferite erano ancora fresche nella sua
mente. Mi accontentavo di guardarla, e di chiedermi se il tumulto
delle mie emozioni fosse solo concupiscenza inappagata, accentuata
e aggravata dallo sforzo fisico a cui ero stato sottoposto, oppure la
magia di cui parlavano gli uomini chiamandola amore. Mi ero
creduto a conoscenza di entrambi, perché da anni frequentavo il
piacere carnale, e nutrivo amore per molte persone, per lo più di
sesso maschile, con l'unica eccezione di Luceia. Quello che ora
sentivo nella mente e nel corpo, però, somigliava ben poco
all'amore che provavo per la mia prozia.
Il calore del fuoco ci asciugò in fretta. Fuori calò il crepuscolo, e
la luce unita del fuoco e delle lampade crebbe, gettando ombre
danzanti sulle pareti della capanna. Era una costruzione semplice e
grezza alla luce del giorno, ma ora, nel buio della sera, assumeva un
calore e un aspetto confortevole che erano deliziosi, quasi magici.
Cassandra ripose la coperta che la copriva e prese dal tavolo il
mucchio dei miei indumenti e della mia armatura per spostarlo in un
angolo. Era un fagotto voluminoso, e feci per alzarmi e aiutarla, ma
vide il mio gesto e scosse la testa, indicandomi con la mano di
restare dov'ero, così mi rilassai e continuai a osservarla.
Sgomberò il tavolo e da una fila di scatole su uno scaffale tirò
fuori pane, formaggio, mele e vino, e dispose tutto sul tavolo
davanti a me. Sentii l'acquolina sotto la lingua e mi resi conto di non
avere mangiato niente dall'alba. Lei mangiò poco, ma mi guardò
trangugiare il mio cibo, muovendo gli occhi dal piatto alla mia bocca
a ogni boccone. Volli dividere il cibo con lei, ma sorrise e fece di no
con la testa, apparentemente soddisfatta di vedermi mangiare.
Quando fui sazio allontanai il piatto. Mi riempì la coppa di vino, e
ritirò sullo scaffale il pane e il formaggio avanzati. Fuori ormai era
buio. La luce del fuoco era indebolita.
«Ascolta» dissi quando fuori un usignolo iniziò a cantare.
Non fece attenzione, né alla mia parola né al canto dell'uccello,
e di nuovo si abbatté su di me il durissimo ricordo di tutta la bellezza
del mondo che le era preclusa. Sapevo che era sorda, e l'avevo
accettato, ma fino a quel momento non avevo capito che non
avrebbe mai potuto godere del canto di un uccello. Sentii un groppo
in gola e mi si offuscarono gli occhi, e subito mi fu accanto, con gli
occhi grandi di spavento e angoscia alla vista delle mie lacrime.
Scossi forte la testa e feci per asciugarle con il polso, ma mi fermò e
mi asciugò le guance con le morbide dita. Sul suo volto leggevo la
domanda: Perché piangi, Caio Merlino?
Soffocai il dolore e cercai di sorriderle, e non fu difficile. Fu
difficile invece conciliare le differenze che percepivo tra il
maschiaccio scatenato che mi aveva battuto e umiliato quel
pomeriggio e la persona pudica e gentile che adesso era così
evidentemente paga di dividere con me la casa e il focolare. Mi
prese per mano e mi ricondusse alla sedia accanto al fuoco, mi fece
sedere e sedette lei stessa ai miei piedi, fissando lo sguardo nel fuoco
e tenendo la mia mano nella sua e appoggiando la guancia contro il
dorso della mia mano. Sentivo la soavità del suo viso contro la mia
mano con ogni fibra del mio essere, e osai allora muovere appena la
punta di un dito, estasiato dal contatto con la sua pelle. Per quanto
minuscolo fosse quel gesto, Cassandra si girò e mi sorrise, mi strinse
la mano e mise fine alla libertà di quel dito.
Non ho idea di quanto tempo restammo seduti così, silenziosi e
immobili, ma il calore del fuoco mi assopì, e io feci trasalire entrambi
destandomi con un sussulto quando i muscoli del collo si rilassarono
e la testa mi cadde in avanti. Mi costrinsi a svegliarmi del tutto e con
estrema riluttanza mi alzai per andare, odiando il pensiero di lasciare
Cassandra e di tornare a Camulod da solo.
Mi fissò intensamente mentre mi dirigevo all'angolo in cui
giaceva la mia armatura, e allora si alzò e tese le mani per aiutarmi a
rivestirmi. Mi stavo allacciando in vita il gonnellino di cuoio; prese la
fibbia in una mano e l'estremità della cinghia nell'altra, e mi guardò
seria. Le sorrisi e tirai dentro la pancia, ma lei non accennò
nemmeno a infilare la cinghia nella fibbia. Scosse la testa, invece, e
mi rivolse un'espressione interrogativa. Supposi che mi stesse
chiedendo se dovevo andarmene così presto, e mimai la stanchezza
e il bisogno di dormire, indicai la porta e per associazione Camulod.
In risposta, si girò verso la pila di pellicce che era il suo letto, sempre
tenendo strette le cinghie del mio gonnellino. Ma sapevo di non
poter dormire lì. Non ero abbastanza forte. Feci di no con la testa e
sorrisi ancora, e lei lasciò cadere a terra il gonnellino. Aveva un
atteggiamento determinato che mi sorprese. La guardai andare in
fretta al focolare e mettere altra legna sulle braci, poi tornare da me,
raccogliere il gonnellino e rialzarsi e fissarmi negli occhi.
Deliberatamente, come sfidandomi a fermarla, gettò il gonnellino di
strisce di cuoio nell'angolo e mi prese con fermezza le mani,
trascinandomi, nient'affatto riluttante, verso il suo letto, dove mi
strattonò fino a farmi sedere.
Allora mi mise una mano sul petto e mi spinse indietro sulle
pellicce, e iniziò a disfare i lacci dei miei sandali. Mi rilassai e la lasciai
fare, divertendomi immensamente e lottando arduamente per tenere
separato il piacere di guardarla e godermi le sue cure dal desiderio
sessuale che mi incitava ad afferrarla e ad affondarmi con lei
nell'intimità delle soffici pellicce. Il primo era consentito; il secondo
assolutamente no.
Era a capo chino, intenta a disfare il nodo che stringeva il
sandalo sinistro; mi sollevai sui gomiti, per meglio gustare la vista
della sua bellezza nella luce lambente del fuoco. Decisi che la
prossima volta le avrei portato da indossare qualcosa di più pregiato
e di più morbido della sua semplice tunica di stoffa. Il nodo si sciolse,
e fui finalmente libero di sgranchirmi le dita dei piedi; vedendomi
muovere le dita in quel modo Cassandra rise forte. Quel suono mi
sconvolse, perché era la prima volta che lo udivo, ed ero stupito di
sentirla ridere come una qualsiasi altra donna, in un gorgoglio di
note liquide e chiare, di grande purezza e beltà.
«Cassandra!» dissi, ma come sempre non prestò attenzione. Le
sfiorai il capo e mi guardò incuriosita, e la risata le illuminava ancora
tutto il viso. «Hai riso!» Vide le mie labbra muoversi e inclinò la testa
di lato come un cucciolo di cane, e ancora mi sopraffece il dolore
per l'impossibilità di comunicare con lei. Il ricordo della risata
rimaneva un sorriso; sorridendole a mia volta scossi la testa, per dirle
che non era importante. Mi prese le mani e mi fece inginocchiare.
Non opposi resistenza. Poi fece uno strano gesto che mi lasciò
interdetto. Si accorse della mia incomprensione e ripeté il gesto,
incrociando le braccia davanti a sé e alzando le mani lungo i fianchi,
e capii che voleva che mi togliessi la tunica. In un attimo fui travolto
dall'imbarazzo, e feci rigorosamente di no con la testa.
L'impercettibile cenno del capo e il lieve inarcarsi delle sopracciglia
dissero Perché no?, con la stessa chiarezza che se avesse parlato.
Potei solo stringermi nelle spalle per mostrarle la mia impotenza.
Intenzionalmente inclinò il capo dall'altro lato, e scrutò a fondo il
mio viso, poi si alzò in piedi e con lentezza si sfilò la blusa, senza mai
staccare gli occhi dai miei.
Ammirai stupefatto tanta bellezza. Aveva acquistato peso, e
perso ogni traccia delle lesioni che tempo prima avevo fissato
inorridito. Allora, il suo corpo straziato mi era parso magro e
denutrito; adesso davanti a me c'era un'altra donna. I suoi seni,
seppur non grossi, erano pieni e tondeggianti, il ventre era liscio e
piatto e senza difetti. Teneva i piedi leggermente divaricati, e solo un
cieco avrebbe potuto ignorare la profusione ricciuta tra le cosce sode
e formose. Sapevo di essere rimasto a bocca aperta, rapito nello
splendore di quella vista. E poi, rapida come il baleno che quasi non
la vidi, si chinò, afferrò la prima pelliccia della pila e si infilò sotto,
tirandosela fino al mento in modo che solo il viso perfetto con
quegli occhi enormi e quelle labbra restò visibile al mio sguardo, e
ancora non mi mossi, malgrado il sangue mi martellasse nelle
orecchie.
Supina, gli occhi incatenati ai miei, sollevò piano la coltre di
pelliccia in un esplicito invito a unirmi a lei. Quando finalmente mi
decisi, e tesi la mano verso il lembo della pelliccia, lo lasciò cadere e
scosse la testa e indicò con il mento la mia tunica. La tolsi,
sentendomi strano, non ridicolo, ma insicuro, perché Daffyd mi
aveva esortato a non fare nulla che potesse ferirla nel corpo o nella
mente. Mi diressi verso di lei, con nient'altro indosso che le brache di
tela, e di nuovo mi fermò levando il palmo e puntando seccamente
tre volte il dito indice. Feci un cenno di assenso e andai a spegnere le
lampade; al mio ritorno la coltre era sollevata, e cautamente mi
sdraiai a riposare accanto a lei.
Le pellicce odoravano di rose e di lavanda silvestre, e mi
domandai come fosse riuscita a ottenere quel risultato. A casa a
Camulod avevamo soffici lenzuola, ma durante le campagne militari
usavamo ancora le pelli. Le mie puzzavano ancora di selvatico dopo
anni che le usavo. Alla luce tremolante del fuoco vedevo
chiaramente il suo viso, ma il mio per lei doveva essere in ombra. Mi
sdraiai sul fianco sinistro, per poterla guardare, e lei si mosse un
poco verso di me, appoggiando una gamba soffice e calda contro il
mio ginocchio piegato. Trattenni il respiro, senza osare ancora
credere che tutto ciò stesse realmente accadendo. Giacqui lì
immobile, a ubriacarmi della sua bellezza, mentre il mio ginocchio,
l'unico punto di contatto, bruciava di fuoco squisito. Restammo così
a lungo, finché il mio respiro si normalizzò e il mio sorriso si addolcì,
e allora sentii la sua gamba ritrarsi dal mio ginocchio, e la delusione
fu amara prima che mi accorgessi delle sue intenzioni. Si sollevò sul
gomito destro e con la mano sinistra aprì il fermaglio dei capelli, che
le caddero sul volto in una copiosa cascata. Il gesto espose i suoi seni
alla mia vista a meno di una spanna di distanza, e contemplai la
tensione della pelle e i poggioli rosa dei capezzoli. Tese la mano
verso di me e seguì il profilo della mia guancia in una carezza lieve
come una piuma, e per l'infinita tenerezza mi si chiuse la gola. Le sue
dita quasi senza peso scesero dal mento al collo e lungo lo sterno.
Tutto il mio corpo fu percorso da un brivido. Cassandra vide che
smisi di respirare e dovette sentire il mio involontario irrigidimento,
perché sorrise ancora e aumentò di un soffio la pressione del dito
indice, continuando la sua strada fino all'ombelico. Avevo lo
stomaco teso come un tamburo. La sua mano rifece il delizioso
viaggio fino a racchiudere come in una coppa la spalla destra, e poi
spinse e mi costrinse a sdraiarmi sulla schiena. Chiusi gli occhi e la
pressione dei suoi seni sul mio petto mi diede un fremito; il soffice,
umido, incredibile tepore della sua splendida bocca coprì le mie
labbra, e io compresi che in tutti i baci della mia vita avevo cercato
quel bacio.
Sono vecchio, ormai, e rammento quella notte al di qua di un
abisso di cinquanta e più anni, ma il ricordo di quel baciò mi da
ancora la pelle d'oca e nella mia memoria fa cantare gli usignoli. In
tutti i suoi scritti, a parte quando parlava di Febe, la sorella del suo
amico Equo, e di Cilla Titens, e di alcuni intimi ricordi del suo
matrimonio, Publio Varro tenne per sé ciò che pensava delle sue
donne, così come mio nonno Caio. Mio padre in poche occasioni mi
parlò di amore e di piacere, con i modi diretti di un soldato, ma io
non parlai mai a nessuno d'amore. Ero considerato celibe, e infatti lo
divenni. Ma ho conosciuto un amore che trasformò la mia vita e
plasmò l'uomo che sarei diventato, e oggi non mi imbarazza,
scrivere dell'amore che sorse quella notte, mi fece rinascere in un
mondo di colori brillanti e stupefacenti sfumature, cambiò la mia
vita e rimodellò le fondamenta della mia virilità.
Fu la notte più meravigliosa di tutta la mia vita, e l'attraversai
come un mondo di fiabe e di pura fantasia, desiderando che la
sabbia del tempo fluttuasse come la lanugine del cardo negli zefiri
estivi, e lottando con forza, ribellandomi con rabbia, ogni volta che
un errante pensiero di Camulod e di quell'altra, più piccola, vita
tormentava i margini della mia coscienza per ricordarmi cose non
fatte e doveri non compiuti. Le ore passavano piano, colme di
oscurità increspata e prodigiosa e gioie arcane quali mai avevo
immaginato.
Evitai l'ora della resa dei conti - l'ora del risveglio - con tutta la
mia determinazione. Ma ci fu un momento in cui non potei
rimandare più a lungo. Camulod e i miei doveri mi aspettavano, e
dovevo andare. Cassandra mi aiutò a vestirmi e mi accompagnò al
cavallo tenendomi un braccio intorno alla vita. Mi sentivo in colpa
per aver lasciato quella povera bestia tutta la notte con addosso la
sella. Strinsi il sottopancia e mi voltai per dire addio alla mia amata,
ma era svanita. Guardai tutto intorno, perlustrai con gli occhi tutta la
valle. Non la vidi, eppure sapevo che mi stava osservando, e che
non voleva mostrarmi le lacrime della separazione.
Montai in sella e mi allontanai al passo, e tornai nel mondo
degli uomini e delle loro preoccupazioni e dei loro dolori.
XV.
La porta dello studio di mio padre era aperta e la sentinella di
servizio mi salutò con efficienza. Restituii il saluto e oltrepassai la
soglia, battendo piano le nocche sullo stipite. Mio padre era allo
scrittoio nella solita posizione, con la testa china su un rapporto da
finire. Alzò gli occhi e mi degnò di un grugnito.
«Ah! Sei tornato, bene. Siediti. Sarò da te in un momento.»
Tolsi l'elmo e mi misi comodo a osservare l'austerità spartana
della stanzetta in cui il generale Pico Britannico trascorreva tante ore
di lavoro. Misurava meno di quattro passi buoni in lunghezza per
altrettanti in larghezza, e non conteneva altro che il tavolino di mio
padre, due sedie, due casse di legno bordate di ferro, e il suo
sgabello. Lungo la parete di fondo correva una doppia fila di scaffali
con qualche libro rilegato, una pigna di rapporti e delle mappe
arrotolate. Il cinturone, l'elmo e il mantello erano appesi a pioli di
legno a lato della porta, e un grosso secchio di cuoio ai suoi piedi
serviva da ricettacolo per qualsiasi cosa non volesse tenere in giro.
Guardai a lungo il tavolo sgangherato al quale stava scrivendo;
faceva parte di mio padre, come tutto quello che possedeva. Lungo
e stretto, si chiudeva a formare una cassa profonda due spanne e
poggiava su due cavalletti pieghevoli che rientravano in apposite
scanalature sotto la superficie del tavolo. Si chiudeva a chiave con
una serratura a cilindro caricata a molla, e seguiva mio padre
ovunque andasse, sul carro di commissariato. Durante le campagne,
occupava nella tenda lo stesso posto che occupava lì nel suo studio.
Alla parete alle sue spalle, sopra ai due scaffali, era appesa una
semplice croce di legno, un dono del suo vecchio amico, il vescovo
Alarico, e per l'ennesima volta mi meravigliai per la forza della fede
degli uomini che avevano trasformato quel simbolo di infamia e
degradazione in un simbolo di trionfo e d'amore.
Agli occhi dei Romani la croce non aveva mai avuto niente di
ammirevole. Fin dall'inizio dei tempi rappresentava la condanna più
atroce che si potesse infliggere a un criminale. La morte sulla croce
significava una morte lenta per gradi di consumata agonia, mentre la
forza di gravita attirava inesorabilmente il corpo della vittima,
strappando le ossa dalla loro sede, lacerando giunture e tendini,
arroventando il cervello con un dolore che non dava tregua fino alla
morte, che subentrava per sete e per fame più spesso che per altre
cause, e morire di sete e di fame è un modo lento di morire.
Dicevano che Cristo era morto in tre ore, inchiodato alla croce.
Se era vero, era stato fortunato, e quasi non aveva conosciuto il
dolore della crocifissione. Alcuni urlavano per giorni. Era stato
fortunato o l'avevano aiutato. La lancia gli aveva trafitto il costato
prematuramente, e forse era stata scagliata con forza eccessiva.
Avrebbe dovuto essere una prova, per vedere se nelle vene dei
condannati il sangue scorreva ancora: se il sangue scorreva, c'era
vita, e finché c'era vita il corpo restava sulla croce. Ho sentito gente
dichiarare che erano stati i chiodi a ucciderlo. Non è vero. Chiodi
confitti nei polsi e nelle caviglie possono storpiare e menomare, ma
non causano la morte. E comunque sarebbe stata una morte troppo
misericordiosa per un uomo condannato alla croce. Altri dicevano
che la flagellazione aveva causato la morte. Era verosimile,
specialmente se quell'uomo era debole, ma quell'uomo era il Figlio
di Dio. Come poteva, allora, essere debole? E poi conoscevo l'abilità
dei flagellatori romani. La loro arte aveva secoli di tradizione, e
sapevano con precisione fino a che punto spingersi senza provocare
danni fatali. La voce di mio padre interruppe i miei pensieri.
«Come sta la tua trovatella?»
Ritornai di colpo al presente. «Cassandra? Oh, sta bene.» Cercai
di sembrare indifferente, e di non tradire le mie emozioni. Ma non ci
riuscii, perché mio padre inarcò subito un sopracciglio.
«Sta... bene, dici? Mi fa piacere. E quando starà bene abbastanza
da venire a farci visita qui a Camulod?»
«Io... io non so, padre.» Con l'espressione più solenne, affinché
pensasse che avevo ancora delle notevoli riserve sul suo stato di
salute generale, dissi: «Non saprei. È ancora... debole, in un certo
senso».
«Già. E decisamente forte in certi altri, a quanto vedo.» Il suo
tono di voce era pesantemente ironico, e arrossii.
«Mi hai mandato a chiamare?»
«Sì, infatti. Per diversi motivi, il primo dei quali è in realtà il
meno importante. Quel barbaro, lo scoto. Che cosa intendi fare con
lui?»
«Fare con lui?» La domanda mi coglieva impreparato. «Che cosa
vuoi dire?»
Mi guardò con gli occhi spalancati in un atipico stupore, e
ammise: «Non lo so che cosa voglio dire. Speravo che mi aiutassi tu a
definire che cosa voglio dire. Sei riuscito ad appiopparci una bocca in
più da sfamare, e la responsabilità di sorvegliare quest'uomo per
anni. Mi auguro che tu abbia una vaga idea di che cosa significa. Ci
hai pensato?». Malgrado lo stupore, il suo cipiglio indicava che la
faccenda meritava di essere presa in seria considerazione.
Annuii. «Certo che ci ho pensato.»
«E poi?»
Scrollai le spalle, e tentai di sembrare convinto. «Ho deciso di
offrirgli l'opportunità di trascorrere il suo tempo qui in modo utile.»
«Come, in nome di Dio? Quell'uomo è un barbaro, e un
nemico!» Era quasi un latrato.
Scrollai di nuovo le spalle, mi accorsi della ripetizione e cercai
inutilmente di reprimere il movimento prima che fosse completo.
«Non lo so ancora.»
«Non come soldato, allora?»
«No... non lo so. Forse, o forse come una specie di servitore.»
«Un servitore? Caio, quell'uomo è un guerriero e il figlio di un
re, e uno scoto, per di più. Cercare di farne un servitore sarebbe
come addestrare un lupo adulto a fare il cane da guardia a un
bambino! Non è nella sua natura essere un servitore. Non si
sottometterà mai.»
«Beh, allora forse come soldato.»
«Addestrato secondo i nostri sistemi?» Quasi trasalii a tanto
disprezzo. «Nello stesso modo in cui i Romani hanno insegnato ai
loro nemici il modo di sconfiggerli? Te lo dico io, ragazzo, tu insegna
a quell'uomo a combattere come noi, e lui tornerà in patria e
insegnerà ai suoi il modo di sconfiggerci.»
Scossi la testa. «No, padre, non lo farà. Non sono così stupido da
allevarmi una serpe in seno. Ho intenzione di parlare con lui, oggi.
L'ho messo dentro non appena siamo arrivati per dargli il tempo di
riflettere sulla prigionia. Spero che ascolterà ragione e che capirà di
avere più da guadagnare a lavorare con noi che a marcire in una
cella. Vedremo. Ti informerò più tardi del risultato dell'incontro. Di
che cos'altro volevi discutere?»
«Uther» ringhiò. «Non si sa ancora niente di lui. Incomincio a
essere in ansia.»
«Perché?» Io non avevo nemmeno iniziato a preoccuparmi.
«Niente nuove significa buone nuove, in questo caso. Se Uther fosse
stato ucciso o sconfitto, lo sapremmo. Gli uomini di Lot sarebbero
ovunque, ubriachi di vittoria.»
Mio padre non sembrava convinto. «Forse hai ragione» disse.
«Padre, sai che ho ragione. Uther li ha ricacciati indietro e,
conoscendo Uther, gli sta alle calcagna come un cane aizzato contro
un orso. Li manderà a casa in Cornovaglia e poi tornerà a prendere
altri uomini per tenerceli, confinati nella loro roccaforte di legno.
Vedrai. Sarei pronto a scommetterci.» Mi guadagnai un'occhiata
fulminante e un brusco avvertimento.
«É esattamente quello che stai facendo, ragazzo.»
«Ebbene» dissi, cambiando argomento, «chi vivrà vedrà. Che
altro c'è?»
«Questo!» Indicò la pergamena che aveva di fronte con un gesto
di disgusto, e seppi che eravamo giunti al nocciolo del nostro
incontro. «Vittore è morto da quanto tempo, ormai? Dieci anni? Da
quando è morto, nessuno è stato capace di fornirmi un rapporto
conciso sulla nostra forza equestre. Nessuno. Ho qui quattro
rapporti. Quattro separate risposte alle stesse domande: quanti capi
possediamo in tutto e come procede il nostro programma di
allevamento? Le risposte sono tutte diverse, non ce n'è una che si
avvicini all'altra. Le due più lontane implicano una differenza di
seicentoventi capi. Seicento venti! Quando sono tornato in Britannia
con Stilicone non c'erano tanti cavalli in tutta la Colonia. Adesso
possiamo perderne seicentoventi senza nemmeno accorgercene,
secondo i nostri mastri stallieri!»
«Quale cifra credi che sia la più accurata?» gli chiesi. «Ne abbiamo
così tanti da lasciarcene sfuggire seicento?»
Scosse la testa, frustrato. «Caio, non ho modo di saperlo! É per
questo che sono così infuriato. Io non ne ho idea, e non ce l'ha
nessun altro.»
Le immagini delle mandrie di cavalli che ormai sembravano
ovunque sulle nostre terre si susseguirono rapide nella mia mente.
«Dev'esserci sicuramente qualcosa che possiamo fare per rimediare!»
Picchiò il pugno sulla superficie dello scrittoio. «C'è. Voglio che
tu, personalmente, faccia un censimento del nostro bestiame, a
partire da ora. Voglio un dettagliato calcolo dei capi di bestiame
nella Colonia, in particolare dei cavalli, ma anche delle vacche. Per
quanto riguarda i cavalli, ho bisogno di sapere quanti cavalli da
battaglia abbiamo, rispetto ai cavalli da lavoro, e poi mi servono
informazioni sulle nostre scuderie: quanti stalloni, fattrici e puledre;
quanti castrati; quanti puledri e quanti appena nati; tutto quello che
puoi scoprire. E lo voglio leggere in un rapporto scritto, che elenchi
nei particolari tutte le nostre risorse, fino al numero delle cavalle
gravide.» Mi puntò contro un dito, per sottolineare quello che stava
per dire. «Questo compito non è delegabile, Cai, è troppo
importante. Devo avere delle cifre di cui potermi fidare. La tua
presenza e la tua autorità conferiranno ufficialità a questo
censimento, ed è esattamente così che voglio che sia percepito. È di
importanza vitale. Voglio i risultati non appena possibile. Di quanto
tempo ritieni di avere bisogno?»
Mi alzai. «Del tempo necessario, immagino. Di certo non meno
di una settimana e probabilmente due, visitando tutte le fattorie
periferiche e controllando i capi di ognuna. Potrebbe volerci anche
di più. Attualmente abbiamo un sacco di cavalli.»
«Parlami di cifre accurate, Cai, non di sacchi. Va bene. Inizia
subito, con i cavalli che ci sono qui nel forte e nelle stalle. E sii
accurato, Caio. Voglio che tu prenda nota di ogni singolo capo.»
Feci un cenno di assenso, lo salutai, e me ne andai nell'Armeria a
raccogliere i miei pensieri e a fare i debiti piani. Due ore dopo
convocai un segretario e gli consegnai l'editto che avevo preparato,
con l'ordine di farne venti copie con il mio sigillo. Era un semplice
editto rivolto ai comandanti di ogni campo della Colonia, e ai
signori di ogni fattoria, affinché radunassero tutto il loro bestiame in
previsione di una mia visita ispettiva entro pochi giorni. Quando il
segretario se ne andò mi permisi di rilassarmi e di sbadigliare, e di
ripensare ai piaceri di cui avevo goduto la notte prima, e di
assaporare l'immagine di Cassandra che mi bruciava nitida nella
mente. Nel corso del mio sogno a occhi aperti ricordai il mio
proposito di portarle qualcosa di bello da indossare, balzai in piedi e
andai direttamente a casa di mia zia Luceia.
Fu così contenta di vedermi che fui assalito dal consueto senso di
colpa per non avere trascorso più tempo con lei. Mi colmò di
attenzioni, mandò a prendere del vino, e mi fece sedere nella sua
poltrona più comoda. Chiacchierò per un poco allegramente delle
sue faccende domestiche e poi mi domandò la ragione della mia
visita. Mi resi conto allora che aveva saputo fin dall'inizio, con quella
irritante perspicacia così frequente negli anziani, che ero venuto a
chiederle un favore. Ora so che fui un ingenuo a non accorgermi che
aveva capito subito il mio intento. Ero stato così insolitamente
timido al mio arrivo che non doveva essere stato necessario un
grande sforzo mentale per intuire che c'entrava una donna.
Giocò per un poco a indovinare chi potesse essere. Sapeva che
non avevo difficoltà ad attrarre una qualsiasi delle donne disponibili
nella Colonia, e quando le ebbi assicurato che non ero nei guai con
un marito geloso e non dedicavo le mie attenzioni a una ragazza
troppo giovane, rimase piuttosto perplessa. Ero sul punto di
confessare la verità quando improvvisamente esclamò: «Aspetta! Ho
trovato!». Le si illuminò il viso. «La ragazza. Come si chiama! La
ragazza misteriosa scomparsa dalla stanza sotto gli occhi delle
guardie dopo essere stata così selvaggiamente picchiata e violentata.
Come si chiama? Cassandra! Ecco. Ce l'hai tu, vero?»
Annuii con un mesto sorriso, ammirando una volta di più la sua
sagacia, e incominciai esitante a spiegarle le circostanze della
sparizione di Cassandra. Non le nascosi nulla, nemmeno i miei
sospetti su Uther, che costituivano una confessione spaventosa di
fronte al suo amore incrollabile per il nipote. Ascoltò impassibile, e
quand'ebbi finito rimase in silenzio, senza giudicare Uther e senza
condannare me per la mancanza di fiducia nella famiglia, anche se si
trovò più a suo agio di me con la filosofia di mio padre sul beneficio
del dubbio.
«Dimmi» chiese infine. «Che cosa senti per Uther? Provi rabbia
nel tuo cuore?»
Scossi lentamente la testa. «Non credo, zietta. Non rabbia.
Confusione, soprattutto. I tuoi sospetti nei confronti del prete Remo
hanno molto più senso dei miei sospetti nei confronti di Uther.
Vorrei che avessimo trovato quell'uomo, ma non è così, e il dubbio
rimane. Uno di questi giorni dovrò mettere Uther faccia a faccia con
Cassandra. È l'unico modo per poterne essere certo, e il solo
pensiero mi sgomenta.»
Dovevo fare un'altra confessione, ed era il mio amore per
Cassandra. La balbettante ammissione intenerì il cuore della mia
prozia e tramutò la mia faccia in una bacca rossa. L'espressione di zia
Luceia era assolutamente seria e benevola. Desideravo portare
Cassandra a Camulod e farla vivere con lei? Ne sarebbe stata
deliziata. Le spiegai le mie riserve al riguardo, l'opportunità e la
convenienza di proteggere Cassandra in segretezza, invece del mio
egoismo e della mia troppo razionale paura di perderla, e zia Luceia
le accettò.
«Dunque, se non cerchi un rifugio per lei, che cosa sei venuto a
chiedermi?»
Mi schiarii la voce. «Vestiti. Ha solo un indumento, zietta, ed è
una cosuccia misera e grezza. Speravo che fossi disposta a darle
qualche tuo abito vecchio, che le andrebbe sicuramente bene.»
Sorrise dolcemente, e mi guardò con un'espressione di lieve
incredulità. «Vestiti? Tutto qui? Beh, capisco. Se deve passare
l'inverno là fuori avrà bisogno di più di una semplice blusa. Vieni con
me. Dammi il braccio, e andiamo a vedere se c'è qualche straccio che
posso darle.»
La sorressi per il braccio, notando il suo fragile peso, e la seguii
nel suo guardaroba, dove scoperchiò un baule dopo l'altro, tutti
pieni di indumenti femminili.
«Di che colore ha gli occhi?»
«Grigi.»
«E i capelli?»
«Biondi.»
«Biondi! Non sai fare di meglio?»
«Non credo. Non sono gialli, e non sono dorati. Sono biondi.»
Passò rapidamente in rassegna il contenuto dei bauli, gettandomi
di tanto in tanto un vestito finché ne ebbi le braccia colme. Allora si
fermò.
«Ecco» disse. «Questi per un poco le dovrebbero bastare. »
«Tutti questi? Zia Luceia, sono bellissimi! Sono fin...»
Mi interruppe bruscamente. «Troppo belli? É quello che stavi per
dire?» Annuii, subito a disagio. «Vergognati, Caio Britannico. Vorresti
farmi credere che ami questa ragazza, e poi mi dici che queste cose
sono troppo belle per lei? Se con indosso una semplice blusa
possiede quello che ci vuole per affascinarti, nipote, allora queste
cose non sono abbastanza belle per lei.»
Fece una pausa, guardandomi di traverso, poi arricciò il naso e si
girò in fretta, non prima però che scorgessi nei suoi occhi un guizzo
di divertimento. «Dovrò fare la conoscenza di questa giovane
donna» disse da sopra la spalla. «Se non vuole venire da me, allora
troverò il modo di andare io da lei. Ora, quelli sono tutti abiti
leggeri. Avrà bisogno di qualcosa di lana per il freddo, e io ho
proprio quello che ci vuole.» Attraversò la stanza e si mise a scegliere
un altro visibilio di vestiti, tutti più pesanti di quelli che avevo sulle
braccia, e il mio carico divenne sempre più voluminoso. Terminò
con un magnifico, caldo mantello con cappuccio di spessa lana
bianca che avrebbe impedito l'accesso alla più violenta tempesta
invernale. Finalmente, fu soddisfatta. «Bene. Porta tutto nella stanza
di famiglia. Ludmilla sistemerà gli abiti in un baule, e tra un'ora
potrai mandare un soldato a prenderlo. Dovrebbe stare sul
posteriore del tuo cavallo, così non avrai problemi per trasportarlo.
Ha bisogno di nient'altro?»
Non mi venne in mente nient'altro,
ringraziamenti che lei rifiutò con un cenno.
e
mi
profusi
in
«Adesso dammi un bacio e lasciami tornare ai miei impegni. Ho
compagnia in arrivo.»
Le sorrisi. «Un amante segreto?»
«No. Un prete.»
«Ancora preti, zietta? Non ne hai avuto abbastanza?»
«Non essere impertinente. Dammi un bacio e vattene.»
Ubbidii, sentendomi molto meglio di quando ero arrivato.
Tornai al mio alloggio e chiamai l'uomo di guardia, e gli dissi di
farmi portare il mio prigioniero sotto scorta, e di mandarmi
immediatamente il legato Tito. Quando sentii la scorta avvicinarsi a
passo di marcia, avevo firmato le copie dei miei ordini per il
censimento dei capi di bestiame e stavo finendo di dare istruzioni a
Tito, che rivolse un'occhiata curiosa al giovane gigante scoto, mi
salutò brillantemente e se ne andò a iniziare il computo dei capi nel
forte. Guardai il mio prigioniero.
Stava in posizione eretta, il ritratto dell'orgoglio e
dell'indifferenza, e fissava un punto sopra la mia testa. La sua scorta
era rigorosamente sull'attenti.
«Grazie» dissi, «potete aspettare fuori.» Si ritirarono chiudendo la
porta. Lasciai lì in piedi il giovane Donuil e ritornai ai documenti,
dando loro un'ulteriore superflua scorsa. Poi mi appoggiai allo
schienale e accavallai le gambe. «Ebbene, principe Donuil, che cosa
pensi di Camulod, finora?»
Non rispose; mi alzai e andai alla finestra, voltandogli
deliberatamente le spalle, conscio di avere lasciato la spada sul
tavolo alla sua portata. Le imposte erano aperte, e rimasi qualche
minuto a osservare la vita che si svolgeva all'esterno. Dietro di me
non ci fu un suono, né un movimento. Mi girai. Non aveva mosso
un muscolo. Incrociai le braccia di fronte a me e gli parlai di nuovo,
caricando la mia voce con una punta di malumore.
«Tieni il broncio per farmi dispetto? O sei già pentito
dell'accordo? La tua presenza qui ha risparmiato la vita di più di
mille uomini. Hai intenzione di celebrare l'avvenimento trascorrendo
cinque anni in silenzio? E in una cella?» Ancora nessuna risposta. Mi
risedetti e lo guardai in silenzio, pronto ad aspettare con calma. Non
avevo da perdere altro che il tempo, e il tempo era dalla mia parte.
Il silenzio si protrasse e crebbe fino ad avvicinarsi al punto in cui
tacere diventava una questione di orgoglio, ma ero preparato a
quell'eventualità. Poco prima che giudicassi giunto quel momento,
presi un martelletto di legno e percossi il piatto di ottone sul mio
tavolo. La porta si aprì immediatamente e la guardia entrò nella
stanza.
«Comandante?»
«Chiedi al centurione delle guardie di mandarmi subito un
messaggero.»
La guardia uscì e tornammo al gioco dell'attesa, e io mi dedicai a
uno dei codici di mio zio finché non bussarono alla porta.
«Avanti!»
Entrò un soldato. «Mi manda il centurione Terzio, comandante.»
«Bene. Vai per favore all'abitazione di mia zia, Luceia Varro, e
ritira un baule per me. Se non è pronto, aspetta che lo sia e portalo
al mio alloggio. Sei atteso.»
«Sì, comandante.» Uscì anche lui, e allora parlai un'altra volta al
principe Donuil.
«É ovvio che non hai niente da dire. Desideri ritornare nella tua
cella?» Nemmeno l'ombra di una reazione, così proseguii: «Avevo
pensato di offrirti una sistemazione migliore, ma poiché non hai
alcuna intenzione di essere civile, devo desumere che ti trovi bene
nel tuo presente alloggio. Mi sorprende. Cinque anni possono essere
lunghi, dietro le sbarre». Avevo colpito nel segno. Corrugò la fronte
e mi guardò in tralice.
«Che genere di sistemazione migliore?»
Resistetti all'impulso di sorridere. «Un alloggio aperto, per
cominciare. Forse non adatto a un principe, ma sufficientemente
comodo per un principesco prigioniero.»
«Che cosa dovrei fare?» La sua voce era appesantita dal sospetto,
dall'incertezza di non sapere che cosa avrei preteso da lui in cambio
di un rilassamento nella sorveglianza. «Se dovessi accettare questo
alloggio migliore, che cosa ti aspetteresti da me?»
Sollevai una spalla. «Poco più di quello che hai già promesso. Ho
la tua parola che non tenterai la fuga. Adesso, in cambio della tua
collaborazione, potrei concederti una stanza, con relative intimità e
riservatezza.»
«Collaborazione?» Dal suo tono di voce sapeva che ero sul punto
di dire che cosa volevo. «In che cosa consisterebbe questa
collaborazione?»
«La fine di questo tuo risentimento, innanzitutto. Non occorre, e
genera solo antipatia e sospetto.» Sbattè le palpebre e tacque per un
momento, ovviamente confuso e riluttante a dimostrarlo.
«E poi? Cos'altro?»
«La disponibilità a contribuire alla vita di questa Colonia mentre
ne fai parte.»
«Contribuire? Contribuire sotto quale forma?»
«Un lavoro, non necessariamente servile. Contribuiamo tutti,
ognuno secondo le sue capacità.»
Sembrava scettico. «Perfino tu?»
«Certo!» risi. «Perfino mio padre, il generale. Non ci sono
parassiti a Camulod.»
Non riuscii a classificare la sfumatura del suo tono di voce. «Che
cosa fa tuo padre?»
«È amministratore e comandante in capo delle nostre forze.
Presiede il Consiglio dei Governatori della Colonia.»
«E tu, che cosa fai?»
«Aiuto mio padre. Aggiorno i documenti. Comando un
reggimento. E conto i cavalli.»
Era chiaramente stupito. «Tu che cosa?»
«Conto i cavalli. Sono appena stato incaricato di fare il
censimento di tutti i cavalli posseduti dalla Colonia.»
«Avete così tanti cavalli?» I suoi occhi erano pieni di meraviglia.
«Quanto tempo ci vorrà?»
Feci una smorfia per evidenziare la mia ignoranza al riguardo.
«Non lo so. E non ne ho la minima idea. Una settimana, forse due,
se non capitano imprevisti, come un'altra invasione.»
«Che cosa potrei fare?» chiese, con espressione corrucciata. «Non
sono stato addestrato a eseguire nessun lavoro del genere che
descrivi, e non farò lavori manuali come uno schiavo.»
«Non pensavo che l'avresti fatto, e non ti chiedo di farlo, ma ci
deve essere qualcosa che sai fare. Hai pratica con il ferro?»
«Vuoi dire se so lavorarlo? No.»
«Sai leggere e scrivere?»
«No.»
«Sai rilassarti?» Sbarrò gli occhi, e gli indicai la sedia che gli stava
davanti. «Siediti, sei troppo alto per continuare a guardarti da sotto
in su.» Lentamente si sedette; presi la spada che c'era sul tavolo, la
sfoderai e gliela misi di fronte. «Guardala» dissi. «Questa spada è stata
fatta dal mio prozio, Publio Varro, un mastro fabbro. Era un soldato
e un fondatore di questa Colonia, ma ha lavorato i metalli con le
mani per tutta la vita, e non se ne è mai vergognato.» Rinfoderai la
spada. «Ogni uomo ha capacità che sono esclusivamente sue, Donuil.
Nella nostra Colonia chiediamo che ogni uomo utilizzi le sue
capacità a beneficio di tutti, ottenendo in cambio il diritto di vivere
qui, e di condividere la prosperità della Colonia. Dando il tuo
contributo ti guadagneresti il tuo mantenimento, né più né meno.
Non ti sarà chiesto di fare nulla che ti metta in imbarazzo o che ti
faccia sentire in colpa in alcun modo. Se, per esempio, il tuo popolo
dovesse invadere di nuovo le nostre terre, non ti verrebbe chiesto di
combattere contro di esso; un simile evento ti metterebbe comunque
in una brutta posizione, poiché la tua presenza qui significa che
siamo in pace con l'Ibernia per cinque anni.»
«No! Questo non è vero» disse con sollecitudine, scuotendo
decisamente la testa. «Siete in pace con il mio popolo, ma non con
tutti i miei compatrioti. Sulla nostra isola ci sono molti re, e pochi
sono amici. Il fatto che mi tieni come ostaggio non significa nulla per
gli altri re. Non hanno simpatia per me o per il mio popolo.
Combattono contro di noi come combattono contro la Britannia.»
«Mmh...!» Mi mordicchiai il labbro inferiore, come se non ci
avessi pensato. «Potrebbe essere imbarazzante. Come sapremo che i
futuri invasori non appartengono al tuo popolo?»
Il giovane tenne alta la testa. «Lo stendardo di mio padre è una
galea nera in campo d'oro. Sventola su tutte le nostre navi. Il mio
popolo starà lontano da voi e dalle vostre terre.»
«Bene» assentii. «Ti credo. Ma abbiamo cambiato discorso. Sei
disposto a riflettere sull'idea di prendere parte in qualche modo alla
vita di Camulod?»
Mi guardò negli occhi. «Sì, Caio Merlino, ma c'è un problema.»
«Quale?»
«Non conosco la vostra lingua romano-britannica. Tu sei l'unica
persona che ho incontrato finora con cui posso parlare. »
«Allora dovrai lavorare con me finché non avrai appreso la
nostra lingua. Ti irriterebbe? » Sul suo volto si aprì un sorriso, adagio
ma senza riluttanza.
«No, penso di no. »
«Bene, allora non è un problema. Quanti anni hai? »
«Diciassette. Quasi diciotto. »
Feci un fischio di sorpresa. «Sei grande e grosso per la tua età.
Rifletti sulla mia proposta. Pensa a che cosa potresti fare che secondo
te mi sia d'aiuto e domani ne riparleremo. » In quel momento la
porta si aprì di colpo e mio padre, cupo come il tuono, entrò a
lunghi passi nella stanza. Quando vide che ero in compagnia si
bloccò, e guardò alternativamente me e Donuil senza salutare
nessuno.
«Caio. Quando hai finito, vieni nel mio alloggio. » Se ne andò
improvvisamente com'era venuto, e mi chiesi che cosa potesse averlo
tanto turbato. Mi rivolsi al mio prigioniero.
«Così sia. Fino a domani avrai tempo di pensare a quello che ti
ho detto. Nel frattempo, ti farò assegnare dal legato Tito una stanza
tutta per te. Sei libero di muoverti per il forte, ma stai attento.
Ricorda che non conosci la lingua. Anzi, forse è meglio che tu non ti
faccia vedere da solo finché non ti avrò mostrato in giro. Farò anche
questo domani. Adesso devo andare da mio padre a scoprire che
cosa è successo vieni con me. Lungo la strada ti lascerò da Tito e gli
dirò di sistemarti.» Andai alla porta e la tenni aperta, e quando mi
passò davanti lo fermai appoggiandogli una mano sul braccio.
«Benvenuto a Camulod» gli dissi con un sorriso «Credo che qui ti
piacerà, quando ti sarai abituato.» Gli offrii la mano, e me la strinse
senza esitazione.
XVI.
Mi ci volle quasi mezz'ora per trovare Tito e spiegargli che cosa
desideravo che facesse riguardo a Donuil. Avvicinandomi allo studio
di mio padre pensavo che la sua collera doveva ormai avere avuto il
tempo di sbollire, e che sarebbe stato più obiettivo nei confronti di
qualsiasi cosa l'avesse fatto infuriare.
«Dove sei stato?» sbottò quando attraversai la soglia. Lo guardai
sorpreso.
«Perdonami. Ho provveduto all'adeguato alloggiamento del mio
prigioniero.»
«Quale alloggiamento? Dovrebbe essere in una cella. Abbiamo
cose più gravi di cui preoccuparci, altro che la comodità e il
benessere di un invasore straniero.»
Decisi di non insistere. «Che cosa succede, padre? Non ti ho mai
visto così sconvolto.»
«Sconvolto? Non sono sconvolto! Sono turbato e inquieto, e a
corto di pazienza con gli sciocchi, ma non sono sconvolto!»
«Oh! Benissimo, allora, che cosa ti preoccupa e ti turba?» Non
avevo pensato di chiudermi la porta alle spalle, forse perché la sua
stizza mi aveva colto alla sprovvista. Mio padre era normalmente il
più imperturbabile degli uomini, per natura freddo e assennato, ma
nei suoi infrequenti attacchi di collera sapeva essere implacabile. Mi
passò davanti e chiuse lui stesso la porta. Mi girai a guardarlo, e
notai lo sforzo che faceva per calmarsi prima di rivolgermi la parola.
«Siediti, Caio. Questo non ha niente a che fare con te. Ho
bisogno del tuo consiglio. Tu sei molto più equilibrato di me in
queste faccende.» Sentii le mie sopracciglia sollevarsi. Che cosa mai,
in nome di Dio, poteva avere avuto su di lui un effetto simile? Ero
felice e sollevato di sapere che non aveva niente a che fare con me,
perché ciò lasciava anche Cassandra fuori dalla sua collera. Mi sedetti
e lo guardai ritornare di fronte a me, dietro la sua grossa sedia di
legno con i braccioli. Si sporse leggermente in avanti e afferrò i
braccioli. "Preti!» disse, quasi sputando la parola. «Dimmi dei preti,
Caio.»
Ero sbigottito. «Che cosa posso dirti, padre? Non so quasi nulla
di loro. Vivono per predicare la parola di Dio agli uomini.»
«Sì, ma che cosa sono? Che genere di creature?»
«Che cosa intendi dire, creature? Sono preti! Uomini!»
Mi interruppe bruscamente, fendendo l'aria con il taglio della
mano. «No! No, Caio, non è così. Non lo accetto. Non sono uomini.
Non nel senso che tu e io attribuiamo agli uomini. Quel bastardo
zoppo, Remo, quello che non sei riuscito a trovare dopo che la
ragazza è stata picchiata, era un uomo? Non credo!»
Ero completamente frastornato, e alzai le mani con un sorriso
che sperai disarmante. «Ehi, padre, non ti seguo. Non ho idea di che
cosa tu stia parlando. Per favore! Parti dal principio e dimmi che
cosa è successo. Ne sono completamente all'oscuro.»
Girò intorno alla sedia e si sedette, fregandosi la faccia con le
mani. Sbattè le palpebre, distendendosi la pelle intorno agli occhi
come per sforzarsi di rimanere sveglio. «Hai ragione, Caio, hai
ragione, sto reagendo in modo irrazionale. Perdonami. Questa bestia
mi è balzata addosso che era già cresciuta. Avrei dovuto accorgermi
prima, ma ho preferito ignorare le avvisaglie.»
Attesi, lasciando che riordinasse i suoi pensieri, e finalmente i
suoi lineamenti scomposti si rilassarono, e i suoi occhi assunsero
un'espressione meditativa. E attesi ancora, malgrado fosse chiaro che
si era immerso così profondamente nelle sue riflessioni da avere
dimenticato la mia presenza. Poi diedi un lieve colpo di tosse e dissi:
«I preti, padre?».
«Che cosa? Oh sì, i preti. Trafficano in potere, Cai. Trafficano in
potere.»
«Certo» confermai. «Il potere di Dio.»
Mi scoccò un'occhiata piena di compassione. «Dio ci ha poco a
che fare, Caio. Il potere è potere. Esiste da e per se stesso. E il potere
di dominare la mente degli uomini è il potere più letale di tutti.
Perché pensi che debbano esistere i preti?» Scossi leggermente la testa
e mio padre continuò. «Non lo sai? Allora lascia che ti faccia un'altra
domanda. Quando hai conosciuto qualcuno che avesse parlato
direttamente con Dio? Non a Lui, ma con Lui?»
«Mai.» Percepii l'incredulità nella mia voce.
«Perché no?»
«Perché Dio non parla agli uomini direttamente.»
Con aria di trionfo mio padre abbatté il pugno chiuso sul tavolo.
«Esatto, Caio! Mai direttamente! Solo attraverso i preti. E che il dio si
chiami Baal o Moloch o Giove o Elios, ha i suoi preti per dichiarare
agli uomini la propria volontà. Possiamo parlare di falsi dei e falsi
preti, ma non è mai esistito un dio senza preti. I preti accettano i
sacrifici per conto del dio, e plasmano la mente dei suoi adoratori
secondo i loro desideri. Non ne sono mai stato realmente
consapevole, ma vedo sempre i preti con le mani tese, a pretendere
sacrifici o a declamare accuse.»
Strinsi gli occhi. «Che cosa stai dicendo, padre?»
«Sto dicendo che i preti - tutti i preti - sono mercanti di potere.
Trafficano nello sfruttamento, e sfruttano la mente degli uomini.»
Non ero d'accordo. «No, poteva essere vero nei tempi antichi,
padre, ma oggi non è così. Non so pensare al vescovo Alarico come
a uno sfruttatore.»
«Nemmeno io, e non lo era. Ma poteva essere l'unica eccezione
a conferma della regola. Non ho mai incontrato nessuno come lui,
mai.» Fece una breve pausa, ripensando ad Alarico. Quando riprese,
la sua voce era più controllata, non meno collerica ma
rigorosamente trattenuta. «Nel mondo oggi gira una nuova razza di
preti, Caio, e si moltiplicano come vermi. Si definiscono cristiani, ma
credo che abbiano poco in comune con la fede cristiana. Secondo i
loro dettami, gli uomini come il vecchio vescovo Alarico erano
eretici e miscredenti, peccatori che fuorviavano le loro greggi, per
usare l'immagine del pastore che a loro piace tanto.»
Le mie parole erano piene di disprezzo. «É ridicolo! Il vescovo
Alarico era l'uomo più devoto e santo che io abbia mai conosciuto!»
«Sì, lo era. Non c'è dubbio.» Il consenso di mio padre veniva dal
cuore. «Ma quegli zeloti dallo sguardo feroce che adesso
spadroneggiano a Roma dicono che Alarico era un peccatore. Lui e
tutti quelli come lui. Seguaci di Pelagio!»
«Che cosa?» Ero stupefatto. «Ma significherebbe metà dei vescovi
di Britannia!»
«Più di metà.» Ero in un mare di confusione, e cercavo invano di
dare un senso a quello che udivo. Mio padre proseguì con voce
piatta e priva di emozione. «A quanto pare i cristiani di Roma hanno
fatto progressi negli ultimi anni. Noi in Britannia abbiamo avuto
pochi contatti con la gerarchia ecclesiastica da quando diciotto anni
fa Onorio ci ha detto di badare ai fatti nostri. Dalla rivolta dei
Burgundi in Gallia pochi anni dopo, e lo sterminio indiscriminato dei
preti, non ci sono stati contatti tra i nostri vescovi e quelli di Roma. I
Burgundi mangiano i preti cristiani. E le cose sono cambiate.»
«Quali cose? Come?»
Mio padre emise un profondo grugnito di gola. «Ti do tre nomi:
Paolo, il santo di Tarso; Pelagio, l'avvocato di Britannia; Agostino, il
vescovo di Ippona. È tutto quello che ti serve. Tre uomini, e in tre
hanno dato origine a quella che forse è la più grande lotta per il
potere in tutta la storia dell'uomo, una lotta che eclissa gli intrighi
politici di tutti gli imperatori messi insieme.»
«Pelagio?» Ero perplesso. «Non vedo la connessione. Pelagio non
è un prete. È un avvocato, come hai detto, e un tuo amico. Ti ho
sentito spesso parlare di lui.»
Mio padre mosse appena il capo. «Non proprio un amico. L'ho
incontrato una volta e ho trascorso del tempo con lui. Mi ha fatto
una grande impressione.»
«Lo so» dissi. «Ho letto il resoconto che ha fatto zio Varro della
conversazione che aveste vent'anni fa, quando tornasti in Britannia.
Pelagio e Agostino erano in conflitto già allora, secondo quel
resoconto.»
«È vero. E il conflitto continua tuttora. Sembra che Agostino
abbia denunciato Pelagio al vescovo di Roma - che adesso, a
proposito, si fa chiamare Papa, reclamando per sé la supremazia su
tutti gli altri vescovi - chiedendone la scomunica per eresia. Il caso ha
avuto vicende alterne per parecchi anni, ma Agostino ha vinto.
Pelagio è stato scomunicato e tutte le sue dottrine, il suo credo e le
sue teorie sono stati dichiarati eretici... Rammento quella
conversazione con Varro, ma non sapevo che l'avesse trascritta. Mi
piacerebbe leggerla. Ce l'hai ancora?»
Annuii, e la mia mente corse subito al luogo in cui quel libro era
conservato. «Certo. Te lo porterò questa sera. É in uno dei codici
nell'Armeria. Ma quando è successo tutto questo, padre? Quando c'è
stata la scomunica? E che cosa ha a che fare con Paolo di Tarso?»
«Niente... e tutto. Gli insegnamenti di Paolo vengono utilizzati
come mezzi per un fine, e ne discuteremo più tardi. Qui nella
Colonia l'importante per noi - per te, per me, per tutti noi - è che
Pelagio è stato dichiarato fuorilegge, eretico, e tutte le sue dottrine
eresia. Significa che tutti noi che seguiamo i suoi principi siamo esclusi
dalla salvezza. Praticamente l'intera popolazione di quest'isola su cui
viviamo!»
Scossi la testa. «Io sono un soldato, padre, non un teologo. Non
capisco che cosa ci sia di così peccaminoso o terribile nelle teorie di
Pelagio.»
«Credi che io sia diverso da te? Ma intuisco l'errore per cui è
stato condannato. Ha osato ergersi contro Agostino di Ippona.
Pelagio è un umanista, Caio. Crede nella dignità dell'uomo, nella
responsabilità, individuale, nella libertà di scelta e nel libero arbitrio!
Si è condannato da sé, con le proprie parole, perché le sue dottrine
scalzano l'autorità dei preti. Se dai all'uomo il diritto di parlare di
Dio secondo i suoi termini, di portare Dio in cuor suo e di trattare
equamente con lui, per ciò che lo riguarda, neghi la necessità dei
preti! Ecco perché Pelagio è stato scomunicato! Il vescovo Alarico e
la sua gente hanno insegnato la parola del Cristo a noi in Britannia.
Predicano amore e misericordia infinita, e sostengono che niente nessun peccato - è imperdonabile. Ma adesso gli uomini di Dio a
Roma hanno decretato che Pelagio è imperdonabile. L'hanno
dannato per avere osato dissentire dalle loro idee. Questa è politica,
Caio; qui non si parla dell'amore di Dio. Nella loro ambizione di
esercitare il potere sugli uomini, quei vescovi hanno condannato alla
perdizione eterna dell'anima la maggior parte della gente comune di
tutto il mondo, a meno che il mondo non si penta e faccia come
dicono i vescovi, e cioè cambi la propria fede! Forse non fa molto
effetto detto così, ma quando inizio a pensare che cosa implica, ho
paura fino in fondo all'anima.» La sua voce si spense nel silenzio.
«Ma possono farlo, padre? Sono così potenti, questi vescovi?»
«Chi può contraddirli? Si fanno chiamare Padri della Chiesa.
Sostengono di parlare con la piena autorità di Dio e dei suoi santi.»
«Incluso Paolo di Tarso?»
«Incluso Paolo di Tarso.»
«Qui c'è sotto dell'altro, padre, almeno per me. Che cosa c'è di
così importante riguardo a Paolo?»
«Le donne.» Mio padre pronunciò quella parola con enfasi
estrema. «Tra tutti gli evangelisti, Paolo è il misogino, quello che
odia le donne. Sembra che ci sia la tendenza, ormai affermata, a
prestare molto più credito oggi che in passato alle sue parole.»
«Come può essere? Che cosa vuol dire?»
Inspirò con forza. «È di moda tra gli ecclesiastici romani
denigrare le donne in generale. È una moda cresciuta sotto i Cesari,
quando i pederasti e gli omosessuali ottennero la loro ostentata
uguaglianza, e si è rafforzata dopo che alcune donne romane delle
famiglie più in vista hanno incominciato a speculare in capitali
azionari e proprietà immobiliari. Ma di recente si è oltremodo
diffusa. Oggi a Roma, grazie alle macchinazioni degli ecclesiastici, le
donne sono considerate progenie e serve del Diavolo, dedite alla
dannazione degli uomini.»
Non avevo mai sentito mio padre parlare con tanta eloquenza e
vigoria di un argomento non militare. Ero sbalordito. «Tu scherzi,
padre! Non può essere altrimenti.»
Mi guardò in faccia. «No, Cai, non scherzo. Tra i nuovi
ecclesiastici l'abitudine attuale è condannare le donne, con sempre
maggiore virulenza.»
«Ma perché?»
«Come posso saperlo? Perché ciò fa al caso loro, suppongo. La
Chiesa di Roma è caratterizzata, fin dai tempi più antichi da una
gerarchia prevalentemente maschile. Forse adesso gli anziani cercano
di cristallizzare la loro egemonia. Non conosco i motivi occulti, Caio,
ma è così.» Fece una pausa, trapassandomi con lo sguardo. «In realtà
tu non credi a quello che ti sto dicendo, vero?»
Dovetti riconoscerlo, perché non potevo proprio convincermi
che avesse ragione. Che fosse serio e che credesse nel proprio
giudizio, non dubitavo, ma il buon senso pretendeva che avesse
torto.
«Scuoti la testa quanto vuoi, Caio, ma disilluditi. È la verità.
Queste cose stanno accadendo, e sono arrivate fino a Camulod.
Quell'indecoroso disastro ieri sera in sala da pranzo ne è la prova.»
«Quale disastro? Di che cosa stai parlando?»
«Come puoi non saperlo? C'è stata quasi una rissa qui ieri sera
per questa faccenda. Come puoi non esserne al corrente?»
«Ieri sera ero via. Sono tornato stamattina, ho parlato con te e
sono stato indaffarato finora. Che cosa è successo?»
«Buon Dio, Cai! Devi tenerti più informato su quello che
succede. Ho passato tre ore questo pomeriggio a parlare con preti di
entrambe le fazioni, i nostri britanni e i loro romani o pelagiani e
ortodossi come dicono questi zeloti! Hanno dato un ultimatum, a
me e a tutti noi: salvezza o dannazione, alle condizioni della Chiesa
di Roma, senza ricorsi o processi. Ecco che cosa è successo!»
Ero sconcertato e lo ammisi. «Mi dispiace, padre. Non avevo
idea. Abbiamo scelta?»
Dal modo in cui aprì la bocca compresi che avrebbe gridato
volentieri qualche improperio, ma poi rinunciò, e abbassò lo
sguardo sul tavolo.
Continuai a parlare. «Che cosa possiamo fare? Sembra che la
linea di battaglia tra le due scuole di pensiero sia già stata tirata
chiaramente. Siamo forse in una posizione da poter discutere?»
Emise un sospiro lungo e sofferto. «Non lo so, Cai. Proprio non
lo so. L'unica cosa che so con qualche certezza è che tutta la
questione si è sollevata in un attimo, anche se è stata in fermento per
anni. Credo che sia la questione più grave e spiacevole che dovremo
affrontare nel corso della nostra vita, o della vita dei nostri figli. In
che modo vivremo la nostra vita e adoreremo il nostro Dio da oggi
in poi?»
Tacque ancora brevemente, e poi riprese: «Vorrei che mio padre
fosse ancora vivo. La sua mente era adatta ad astrazioni come
questa. La mia no. Come posso sottoporre questo problema al
Consiglio? Ci costringerà a discutere per anni.
Se accettiamo i dettami del Papa di Roma e del vescovo di
Ippona, dobbiamo - categoricamente dobbiamo - abbandonare in
assoluto tutte le regole secondo le quali finora ci hanno insegnato a
vivere. Ciò comporta la condanna certa del vescovo Alarico e dei
suoi seguaci, che in buona fede adottarono gli insegnamenti di
Pelagio. Ma su un piano molto più sottile comporta la resa della
nostra volontà ai comandi degli uomini di Roma, ed era a questo
che Pelagio era contrario fin dal principio. La sua opinione e la sua
paura era che i cosiddetti uomini di Dio si stessero assumendo gli
attributi di Dio. Prendevano gli insegnamenti del Cristo e li
interpretavano secondo le loro esigenze. E Pelagio aveva ragione,
Cai! Aveva ragione! E hanno dimostrato che aveva ragione
scomunicandolo. L'hanno condannato in eterno senza possibilità di
salvezza. Il Cristo di cui seguono i comandamenti non
giustificherebbe mai un castigo così estremo. Eppure questi uomini,
che si dice vivano a Roma nel lusso, si sono arrogati il potere di dire
agli altri come vivere, e di condannarli alla perdizione se non
ubbidiscono». Si fermò, e trasse un altro profondo respiro.
«Gli insegnamenti di Pelagio sono semplici. In lui non c'è niente
che vada contro il Cristo. Ci insegna che dobbiamo scegliere tra le
leggi di Dio e l'immoralità. Dice che sta a noi scegliere di seguire il
Cristo o respingerlo. Dice che siamo fatti a immagine di Dio, con
l'innata capacità di aspirare a unirci alla schiera celeste di Dio. Questa
innata capacità è al centro della controversia. La nostra volontà è
libera, così com'era libera la volontà di colui che chiamiamo Satana.
Le tentazioni che affrontiamo sono le stesse che ha affrontato
Lucifero. Ma Pelagio ci da la speranza in noi stessi, e la dignità, e la
coscienza del merito.»
Ero affascinato da quel nuovo aspetto di mio padre, e ascoltavo,
rapito, le sue parole.
«I seguaci di Agostino di Ippona, invece, ci negano la possibilità
del merito. Siamo nati nel peccato, dicono, già condannati al nostro
destino, a meno che ci sottomettiamo ai loro metodi, implorando la
loro intercessione presso il Divino affinché ci conceda la grazia.» Gli
stava rimontando la collera. Picchiò la mano sul tavolo e si raddrizzò
in tutta la sua altezza. «Devi provvedere a qualche faccenda di
particolare importanza, adesso?»
Mi strinsi nelle spalle. «No, niente che non possa aspettare fino a
domani.»
«Bene. Usciamo di qui e andiamo a farci una cavalcata. Voglio
gridare e farneticare e sfogare la mia rabbia, e non c'è niente da
guadagnarci a farlo dove mi possono sentire. Ti dispiace?»
«Nient'affatto. Fai strada.»
Mentre in silenzio ci dirigevamo alle stalle e sellavamo i nostri
cavalli, ripensai a tutto quello che mio padre aveva detto e al
conflitto che così improvvisamente l'aveva travolto. Sapevo che era
importante, ma non sapevo che l'ora appena passata e l'ora seguente
avrebbero avuto su di me un tale effetto da influenzare nel corso
degli anni a venire l'evoluzione di un intero paese.
Lasciammo il forte e prendemmo la strada nuova che conduceva
alla villa, ma ai piedi della collina la abbandonammo e voltammo a
sud verso il limitare della foresta. Cavalcavamo in silenzio, ognuno
assorto nei propri pensieri, finché il silenzio della foresta ci avvolse e
tutti i rumori di Camulod si persero lontano alle nostre spalle.
Attraversammo una serie di fitti boschi, che ci impegnò entrambi a
cercare di rimanere in sella, e sbucammo in una radura bellissima con
vaste distese erbose ombreggiate da magnifici faggi. Doveva essere
un luogo sacro ai druidi. I miei amici druidi non erano cristiani, e
perciò non dovevano preoccuparsi della salvezza o della vita eterna.
Qualcuno si era di recente convertito al cristianesimo, e tuttavia
conduceva una vita ben poco diversa rispetto a prima. I nuovi ordini
di Roma sarebbero stati male accolti da coloro che erano stati
convertiti proprio grazie alla compatibilità della dottrina umanitaria
di Pelagio con la pacata benignità delle tradizioni druidiche. Alcuni
avrebbero potuto trovarsi al forte la sera precedente, e assistere a
quella che mio padre aveva descritto come una rissa, e forse ne
sarebbero rimasti suggestionati. Quando forse per la decima volta
ebbi ripensato alle parole di mio padre, non riuscii più a sopportare
il suo silenzio.
«Padre?» Si girò verso di me. «Che cosa è successo ieri sera? Hai
detto che è quasi scoppiata una rissa. Che cosa l'ha provocata? Chi
era coinvolto?»
«I preti l'hanno provocata, preti cristiani in lotta contro preti
cristiani. Io non c'ero. Stavo mangiando nel mio alloggio con Tito e
Flavio. Siamo stati interrotti da un messaggero inviato dal tuo amico
Ludo. La sala da pranzo comune era affollata, come sempre a
quell'ora, e quando dei preti arrivati quel pomeriggio si sono rifiutati
di sedersi allo stesso tavolo con due druidi tuoi amici, è nata una
discussione. Popilio, il centurione anziano, era nella sala. Si è offerto
di farli sedere a un altro tavolo dove c'erano già degli altri preti. Si
sono rifiutati di sedersi anche con loro, e uno si è messo a urlare di
anatema e dannazione. Popilio ha cercato di farlo stare zitto, ma le
parole si sono susseguite e quei due gruppi di preti sono venuti alle
mani! Riesci a immaginarlo? Beh, quando il povero Popilio ha
ritrovato la sua presenza di spirito, la sala da pranzo era degenerata
in un campo di battaglia. Non posso biasimarlo. Certo non
prevedeva un simile scoppio di violenza da parte degli ecclesiastici, e
poi diretta contro altri ecclesiastici. La situazione gli è sfuggita di
mano troppo in fretta. Ma quel Ludo è uno sveglio. Non appena ha
visto da che parte soffiava il vento, mi ha fatto avvisare. Quando
sono arrivato, la guardia li aveva tutti sotto custodia.»
«E che cosa hai fatto?»
«Li ho messi tutti sotto chiave per la notte.»
«In cella?» Inorridivo al pensiero, ma mio padre liquidò
bruscamente le mie apprensioni.
«Dove avrei dovuto metterli? Nel mio alloggio?»
«Buon Dio! Non riesco a immaginare dei preti che si mettono le
mani addosso.»
«Non ci riuscivo nemmeno io. Ma oggi ho trascorso tre ore con
quella gente, e adesso non ho nessuna difficoltà a immaginarlo. Per
quanto ne so è stata la prima volta, ma temo che non sarà l'ultima.
Nemmeno prendendo le dovute precauzioni.»
Mio padre tirò le redini, e io feci lo stesso, e poi parlò a voce
bassa e vibrante. «Caio, ascolta. Questa nuova banda di preti, sette
individui in tutto, ha provocato deliberatamente quell'indecoroso
disastro ieri sera. Oggi hanno rivolto le loro lingue affilate e la loro
intolleranza contro di me. Contro di me! Sono venuti nel mio forte ed è mio, a tutti gli effetti - e hanno preteso la mia ospitalità, ne
hanno abusato in flagrante arroganza, e hanno trattato me come un
criminale per avere osato rinchiuderli, e come un pagano
scomunicato per avere osato dissentire dalle loro opinioni e
convinzioni. Mi hanno detto che devo ripulire Camulod; fare piazza
pulita di tutte le donne del forte; e chiudere le porte di Camulod in
faccia a tutti i preti che non giurino di abiurare Pelagio e le sue
dottrine. E che devo riconoscere i miei errori con umiltà e implorare
il loro perdono per i miei peccati!» La sua voce tremava di rabbia. «E
poi!» continuò, «quando avrò chiesto e ricevuto il loro perdono, e
quando mi sarà stato accordato il diritto alla salvezza, dovrò dare
inizio a una serie di... indagini sulla fede e sulle convinzioni di
ognuno dei nostri coloni, e fare tutto il possibile perché si
conformino alle nuove dottrine! Tutto il possibile, capisci, inclusa
l'espulsione dalla Colonia.»
Mi stava dicendo più di quello che volevo sentire.
«Quale è stata la tua reazione?»
«La mia reazione? Ho dovuto rimandarla, la mia reazione. Non
ricordo di essermi mai sentito così impotente in tutta la mia vita.
Avrei potuto prenderli e togliere loro la pelle dalle ossa a frustate,
Cai, ma non avrei mutato di una virgola il loro atteggiamento. Non
avevo il potere di cambiarli. Quegli uomini sono convinti di avere
ragione, e credono che il resto del mondo abbia torto. In loro non
c'è dare, nessun compromesso, nessuna gentilezza, nessuna umanità.
Sono zeloti. Fanatici. Sono tutta una nuova razza di preti, e mi
spaventano, non per me stesso ma per il mondo che cercano di
conquistare e di dominare e di modificare. E si chiamano cristiani.»
Sospirò, rumorosamente, un misto di rabbia e indignazione.
«Quattrocento anni hanno prodotto molte trasformazioni nella
Parola del Cristo. Ricordi la storia di Gesù sulla montagna, quando
ha predicato la beatitudine degli umili, dei puri di cuore, di coloro
che cercano la giustizia? Ebbene, quella storia e i concetti che esprime
contrastano stranamente con il comportamento che hanno oggi
quegli uomini di Dio. Il Figlio del falegname è stato perso di vista,
Caio.
Le sue parole vengono reinterpretate e "migliorate". Gesù, il
Cristo, parlava d'amore e di pace. Adesso all'interno della sua Chiesa
le fazioni si fanno la guerra, e si condannano a vicenda con odio
acerrimo e intolleranza. L'amore è caduto in disgrazia.»
«E così non hai detto niente quando ti hanno inveito contro?»
Mi gettò un'occhiata che parlava da sola, e negli occhi dì mio
padre Pico vidi anche Pico il legato. «No, non proprio, Ma non ho
detto niente di avventato, niente in preda alla rabbia. Ho detto loro
che avrei preso in considerazione le loro parole, che ci avrei
riflettuto, e avrei dato presto una risposta. E nel frattempo li ho
rimandati in cella, e ho dato ordine alle guardie che non
permettessero loro di parlare a nessuno finché non avessi preso una
decisione.»
«E poi?»
«E cosa?»
«Hai preso una decisione?»
«Sì, ho preso una decisione.» Piantò i calcagni nei fianchi del
cavallo e ci muovemmo. «Ma solo in questi ultimi minuti,
discorrendo con te.» La sua voce si affievolì, e io non vidi lo scopo di
commentare il valore del mio contributo alla discussione.
Cavalcammo fianco a fianco in silenzio per un poco e poi ricominciò
a parlare.
«Uno di loro mi disse di un nuovo stile di vita seguito oggi
all'interno della Chiesa. Si chiama monachesimo. Prevede il definitivo
ritiro dalla vita pubblica. Coloro che vi aderiscono vivono nei
monasteri, comunità di clausura di soli uomini, che si dedicano
completamente alla penitenza. Quegli uomini mortificano la loro
carne, Cai. Si mortificano costantemente davanti al loro Dio, che è
una contraddizione in termini: un Dio cristiano severo e inflessibile
come loro. Il piacere terreno di qualunque genere per loro è
anatema. Le donne sono strumenti del Diavolo, utilizzate da Satana
per adescare gli uomini e distrarli dal cammino verso la salvezza.
Che cosa ne pensi?»
Dovetti sorridere. «Zia Luceia ne sarebbe impressionata.»
Latrò la sua breve e brusca risata, e il suo senso dell'umorismo si
riaffermò all'istante. «Sì, lo credo anch'io, Caio. L'arroganza di questi
uomini mi sbalordisce. Dal mio punto di vista, tutto quello che
fanno disubbidisce apertamente a quel Cristo gentile e umano che mi
hanno insegnato a riverire e adorare.»
«Allora che cos'hai deciso, padre?»
Mi guardò di traverso, e spinse il suo cavallo più vicino al mio.
«Credo che la decisione presa anni fa di seguire le idee di Pelagio
fosse la decisione corretta. Questi zeloti parlano del pelagianismo
come se fosse onanismo. Io lo considero l'unico modo sano e
decente in cui un uomo responsabile e fiero può vivere la propria
vita... con il libero arbitrio e l'integrità della sua fede individuale. Se
sbaglio, quando morirò ne sopporterò le conseguenze. Frattanto,
vivrò la mia vita secondo i dettami della mia coscienza, e non
tollererò che nessuno, uomo o donna che sia, sotto la mia
giurisdizione venga calunniato, angariato o perseguitato per le sue
idee religiose. Quei sette preti lasceranno le nostre terre domani
sotto scorta. Non li minaccerò. Se torneranno, verranno costretti a
ripartire. E sarà così finché non saranno vecchi e stanchi.» Sospirò.
«Ho vissuto per più di cinquant'anni per sentirmi dire che sono
condannato come eretico. E a dirmelo è un uomo cencioso e sudicio
che offende le mie narici e la mia sensibilità... Io scelgo di vivere
come ho sempre vissuto, forse come un eretico, forse no. Ma
almeno io sopporto il mio odore. Se è peccato mortale fare il bagno,
ridere, godere la vita con moderazione e onorare le donne, allora
temo che dovrò continuare a vivere nel peccato. Sono troppo
vecchio per cambiare.»
Mi sentii gonfiare d'orgoglio e d'amore per quell'uomo che mi
aveva generato.
«Quei preti sono sconsiderati. Ma sono anche pericolosi. Nel
mondo si sta svolgendo una guerra imponente per il dominio, Caio.
Queste persone sono i proseliti dei mercanti di potere. Se il nuovo
Papa verrà qui personalmente da Roma per convincermi che sbaglio,
lo ascolterò, ma dovrà portare argomentazioni più ragionevoli di
quelle che mi hanno portato i suoi scagnozzi. Andiamocene a casa.
Devo parlare a quei preti."
Non mi attraversò la mente, né allora né mai, che mio padre
potesse avere torto. Mio nonno e Publio Varro avevano vissuto la
loro vita come modelli di probità, in nobiltà e dignità naturali, e
avevano cresciuto mio padre. E così avvenne che quando il ragazzo
che sarebbe stato il mio pupillo subì la mia influenza, io gli insegnai
secondo le antiche tradizioni dell'antica Roma, e della Roma
repubblicana, e secondo le idee del vecchio vescovo Alarico e di
Palagio, e secondo le idee che regnavano a Camulod ai tempi di mio
padre e di suo padre, e che non erano le idee della nuova Roma. Il
ragazzo a cui feci da maestro apprese la pulizia, la semplice
religiosità, la disciplina e la vita di un guerriero. Apprese a godere la
bontà della vita, a godere e ad apprezzare la bontà e la forza delle
donne, e ad accettare per vere l'intrinseca nobiltà e la bontà
dell'uomo.
XVII.
Alla decima ora del mattino seguente assistetti a quello che fu
probabilmente l'evento più portentoso che mai avvenne nella Sala
del Consiglio di Camulod, un'occasione che, ai miei occhi almeno, fa
sembrare incontestabilmente piccole tutte le glorie a venire nei giorni
del regno di Artù, e indubbiamente tutte le influenzò. Era una
riunione - quasi un rituale - che, seppure in sé modesta, avrebbe
segnato per sempre il corso della vita nella provincia di Britannia.
Mio padre aveva convocato una riunione plenaria del Consiglio,
e aumentato la compagnia con il complemento degli ufficiali della
guarnigione, inclusi i dieci membri anziani della Centuria, gli
aspiranti ufficiali. Tutto il personale militare era stato avvertito di
presentarsi in uniforme da parata, e l'assemblea era variopinta e
sgargiante. Nella Sala del Consiglio erano stati aggiunti posti a sedere
per fare accomodare la straordinaria affluenza di pubblico, e il
cerchio di cinquanta e forse più uomini occupava quasi l'intera
circonferenza della Sala; il centro era vuoto, e in fondo al cerchio
c'era un segmento libero per consentire l'ingresso del gruppo di preti.
Furono tutti puntuali. Mio padre iniziò a delineare la situazione
a beneficio dei parzialmente informati e dei completamente
disinformati, che erano davvero pochi. Poi annunciò che era giunto
a una decisione unilaterale, e che la sua decisione sarebbe stata
vincolante per tutti i membri della Colonia per il successivo periodo
di ventiquattr'ore, al termine del quale sarebbe stato pronto ad
ascoltare obiezioni e ad accettare compromessi in risposta a
un'opposizione intelligente e informata. Fino a quel momento, però,
la sua decisione e l'imposizione di detta decisione sarebbero state
assolute.
Continuò dicendo che aveva invitato i presenti affinché
assistessero alla comunicazione della sua decisione sui preti in visita,
in modo che nessuno, sia nel Consiglio sia nel personale della
guarnigione, potesse lamentarsi di non essere a conoscenza degli
sviluppi. Dopo aver detto tutto questo, ordinò che i preti venissero
condotti sotto scorta nell'assemblea.
A commento e critica di quest'ordine ci fu un sonoro mormorio,
che mio padre scelse di ignorare e, nell'intervallo che seguì, il
mormorio crebbe e si mantenne costante. Notai che mio padre
faceva molta attenzione a non incrociare lo sguardo di nessuno dei
membri dell'assemblea. Qualcuno gridò il suo nome, ma mio padre
lo ignorò, e si voltò invece a chiamarmi con un cenno. Mi avvicinai
e mi chinai verso di lui.
«Mi dispiace solo che Uther non sia tornato. Di tutta questa
gente, è quello che a maggior diritto avrebbe dovuto essere
consultato.»
«Non lasciarti affliggere troppo dalla sua assenza» gli dissi con un
sorrisetto. «Conosciamo entrambi Uther abbastanza bene da sapere
che non contesterà il tuo giudizio, se non a causa del tuo eccessivo
ritegno. Se fosse stato qui e avesse subito l'oltraggio che tu hai
dovuto subire, questi preti oggi sarebbero alquanto malridotti.»
Ritornai al mio posto e un improvviso silenzio si diffuse
dall'ingresso verso l'interno della sala, mentre i sette preti venivano
introdotti nel cerchio. Il centurione Popilio avanzò alla testa dei sei
uomini di scorta che riunirono i preti nel centro del cerchio, e poi si
fermò. Nella stanza il silenzio era assoluto e mio padre, che come
tutti era seduto, lo infranse senza alzarsi.
«Grazie, centurione Popilio. Puoi licenziare i tuoi uomini, ma
chiedi loro di rimanere qui fuori. Tu puoi unirti a noi. C'è un posto
per te.» Popilio salutò ed eseguì gli ordini del suo generale, dando
istruzioni agli uomini di rimanere a portata di voce. Mentre la scorta
lasciava la sala, osservai francamente incuriosito i preti in piedi
davanti a noi.
Erano tutti giovani, e tutti indossavano una tonaca nera lacera e
sporca, legata in vita con della corda. Fu all'abbigliamento che
istintivamente attribuii quell'aura di uniformità che percepivo
intorno a loro. Mi ci volle un momento per ridefinire la reazione
iniziale. C'era sicuramente un'uniformità, ma non aveva niente a che
fare con gli abiti; era negli occhi, ed era quasi indescrivibile. La prima
parola che mi venne in mente era furore, ma con il procedere
dell'esame la cambiai con arroganza, poi disdegno, poi intolleranza,
e infine fanatismo, anche se avevo udito quell'espressione solo il
giorno precedente, da mio padre.
Qualsiasi cosa significasse quell'espressione nei loro occhi, la
trovai sconcertante, anzi quasi paurosa. Allora rammentai il nome
dei fanatici ebrei dei tempi biblici, i seguaci di Simone Zelota, gli
zeloti, uomini che sarebbero stati felici di morire per le convinzioni
che sentivano di avere nel sangue. Bastava guardarli per capire che
credevano, nel profondo del cuore, di essere i padroni, e che noi
tutti fossimo loro subalterni. Non c'era deferenza né cortesia
apparente nel loro contegno. Si guardavano attorno nell'assemblea
con sogghigni di sfida. E poi il loro capo fece un lungo passo in
avanti e si rivolse a mio padre con un tono altisonante e prepotente
che nessuno nella sala dell'assemblea poté fare a meno di udire.
«Suppongo, Pico Britannico, dalla folla che hai qui riunito, che tu
abbia deciso di rendere pubblica la tua rinuncia all'eretico Pelagio e
ai suoi malaccorti insegnamenti, e di cercare il perdono della Santa
Madre Chiesa!» Qualcuno nel cerchio trattenne il respiro con un
sonoro sibilo, ma il prete continuò: «Devo però avvisarti che, alla
luce del trattamento inflitto a me e a questi miei confratelli, che con
me hanno condiviso le tue prigioni, la clemenza che cerchi potrebbe
venirti concessa con maggiore lentezza. Mettere le mani addosso agli
inviati del Santo Padre a Roma e insidiarli non è il modo migliore
per cercare il favore della Chiesa».
L'oratore, un uomo alto e scarno che avrebbe potuto avere una
qualsiasi età tra i venticinque e i trentacinque anni, aveva una voce
che straziava le orecchie. Il volto era così emaciato da parere
cadaverico, e sapevo che il suo alito sarebbe stato rancido e
nauseabondo. Mio padre lo percorse con lo sguardo dall'orlo della
veste alla punta dei capelli e parlò come se il prete non avesse
ancora aperto bocca.
«Ho radunato qui questa gente per assistere alla comunicazione
della decisione che vi ho promesso durante il nostro ultimo
incontro.» Fece una pausa, soppesando le parole. «Io qui sono il
comandante, Comandante in capo di questa Colonia. In termini di
anni, sono vecchio, anche se per grazia di Dio sono ancora giovane e
in buona salute...»
«Bada a te, Britannico! Sei scomunicato! Non parlare della grazia
di Dio riferita a te stesso. Blasfemo!»
Tanta irruenza scandalizzò l'assemblea. Mio padre ristabilì il
silenzio con un gesto, inspirò a fondo e trattenne il fiato fino quasi a
scoppiare, e poi rilasciò l'aria compressa in modo graduale e
perfettamente udibile. Io, che conoscevo tutti i segni, non l'avevo
mai visto così arrabbiato. Il prete alto non si scompose; la sua faccia
era una maschera di sfrontatezza e di arrogante intransigenza.
Finalmente mio padre pronunciò parole lente e sibilanti, con un
tono di voce basso e nefasto. «Prete, ascoltami bene senza
fraintendere. Non mi piacciono le minacce, né fatte né ricevute. E
non mi piacciono i giudizi affrettati. Soprattutto, non mi piacciono le
cattive maniere. Sei qui per ascoltare la mia decisione su una
faccenda di grande importanza, e per il Cristo crocifisso, Figlio del
Dio vivente, la ascolterai in educato silenzio, dovessi imbavagliarti e
legarti mani e piedi!»
Di nuovo placò la reazione assembleare, questa volta di
approvazione, con un'occhiata di implacabile collera, e il sostegno
spontaneo subito si tacque. Riportò lo sguardo sui preti. «Adesso
ascoltatemi! Ieri ho sopportato le vostre offese e il vostro vilipendio
per ore... ma era ieri. Oggi è il mio turno di parlare, e una
qualunque interruzione non solo sarà sgradita, ma non verrà
tollerata! Come ho detto, vi imbavaglierò e vi legherò se mi
costringete a farlo. La scelta è vostra.» Si fermò in attesa di una
reazione e, non ricevendone nessuna, continuò.
«Io sono un soldato. Quando ero un giovane soldato non avevo
tempo per seguire la religione. Invecchiando, però, ho fatto qualche
studio sulla dottrina cristiana, e in particolare sulla sua diffusione in
Britannia. É stata, in gran parte, una religione romana, che si è
propagata, nel corso degli anni, attraverso gli insediamenti romani e
la civiltà romana. Il popolo di Britannia non è, o non è stato fino a
periodi recenti, prevalentemente cristiano. Negli ultimi anni, da
quando Roma si è ritirata, ha avuto altro a cui pensare. La
sopravvivenza, per esempio... Il popolo di questa terra è assediato
dagli invasori. A nord, a sud, a est e a ovest devono lottare contro
Pitti, Sassoni, Angli, luti, Franchi e Scoti. Tutti vengono per uccidere,
conquistare e depredare, saccheggiare e distruggere. Nessuno ha il
minimo riguardo per il popolo di Britannia se non come pecora da
sacrificio. In tutta la Britannia troverete templi dedicati agli antichi
dei, ancora in uso. La presenza della Chiesa Cristiana in questa terra
è tenue, quando c'è. La sua esistenza è dovuta esclusivamente agli
sforzi dei vescovi di Britannia, uomini come il nostro vescovo
Alarico, la cui santa compassione e il cui altruismo hanno dato
speranza a coloro che lo conoscevano. Quando un uomo, o una
donna, non può sperare di mantenere nulla in proprio possesso per
nessun lasso di tempo, allora la coscienza della dignità e del valore
personali, della sua stessa integrità, diventa speciale. Il vescovo
Alarico e i suoi compagni hanno lavorato duramente perché il
popolo di questa terra rimanesse affrancato dalla disperazione. Gli
hanno insegnato l'amore, la carità, e la fede nella misericordiosa
onnipotenza di Dio e di Suo Figlio, Gesù... Hanno offerto al popolo
la speranza della felicità al di là della squallida e spiacevole vita su
questa terra, e hanno adottato i principi di Pelagio perché credevano
che i suoi insegnamenti e le sue convinzioni fossero giusti e buoni
agli occhi di Dio.» Fece un'altra pausa, e tale era il potere del suo
discorso che nessuno tentò di interromperlo.
Continuò: «Lasciate che lo ripeta. Alarico e i vescovi suoi
compagni credevano che le opinioni e le dottrine di Pelagio fossero
buone e giuste agli occhi di Dio. Per diretta associazione, Alarico e
quelli come lui non videro dicotomia alcuna tra i principi di Pelagio
e la parola stessa del Cristo». Il prete alto fece per parlare, ma venne
bloccato dal violento fendente della mano di mio padre. «E ora»
proseguì mio padre con voce piatta e controllata, meditata e lenta,
"ora, nello spazio di tre brevi giorni, ci viene ordinato - non chiesto
di accettare l'asserzione gratuita - non il fatto - che Pelagio è un
apostata, che i suoi insegnamenti sono peccaminosi, e che il nostro
benamato amico e mentore, il vescovo Alarico di Verulamium, era
un peccatore, fuorviato e inetto, irresponsabile e incompetente... Ci
viene comandato di abiurare la nostra fede presumibilmente empia;
di accettare la vostra inconsistente assicurazione che tutto il nostro
modo di vivere è un errore; di ammettere, sotto pena di eterna
dannazione, che il vostro modo di adorare il nostro Dio è il modo
giusto e l'unico modo; e di implorare la vostra clemenza. Ci viene
richiesto di rivedere la nostra intera struttura sociale e di relegare le
nostre donne in uno stato inferiore completamente estraneo a noi in
quanto Celti e Romani in primo luogo, e alle tradizioni sociali del
popolo di Britannia.»
La voce di Pico era l'unico suono udibile nella stanza. Sì fermò
un momento perché i presenti recepissero quello che aveva detto, e
proseguì.
«Tutto ciò l'avete reso perfettamente chiaro ieri. Dolorosamente
chiaro. E ieri vi dissi che avrei riflettuto sulle vostre parole e sul
vostro messaggio e che sarei arrivato a una decisione su come da
oggi in avanti procederà la vita in questa Colonia. Nel frattempo,
siete stati tenuti divisi dalla mia gente. Imprigionati, come avete
preferito dire. Permettetemi di osservare che le leggi dell'ospitalità in
questa Colonia e in questa terra sono sacrosante, e vincolano sia
l'ospite sia il visitatore... Siete stati voi a forzare la mia mano nella
faccenda della detenzione, provocando sotto il mio tetto un
conflitto non necessario, ingiustificato, e senza precedenti. Dopo il
mio colloquio di ieri con voi ho pensato di prolungare tale
detenzione, allarmato dall'effetto che il vostro zelo intollerante
avrebbe potuto avere su questa nostra gente, gente semplice, non
usa alle sofisticherie, all'oratoria e alla semantica. É con la mente
rivolta ai bisogni e alla generale prosperità del popolo della nostra
Colonia che ho meditato sulle vostre parole e ho preso la mia
decisione. Ho detto di essere un soldato. Non sono un filosofo, e
non sono un teologo, ma nel bene e nel male ho la responsabilità
del benessere di questa Colonia, e credo nell'adempimento delle
responsabilità individuali. Credo perciò che sia mia responsabilità
prendere ulteriori informazioni su questi immensi cambiamenti dei
quali voi recate notizia, e cercare conferma, presso il più alto livello
di autorità al quale posso accedere, che tali cambiamenti siano il
risultato di attenta riflessione e discussione, e non ci vengano
semplicemente imposti per il capriccio di un uomo solo o di un
gruppo di uomini allo scopo di promuovere i loro disegni. Sarebbe
irresponsabile da parte mia accettare le vostre asserzioni con
superficialità: sono di troppo vasta portata, troppo estreme e troppo
importanti per essere prese alla leggera. Questa è la mia decisione
amministrativa, come Comandante in capo di questa Colonia.
Riportatela a Roma... Non siamo ostinati, ma non siamo nemmeno
disposti a mettere a rischio la nostra anima immortale senza una
prudente investigazione delle circostanze che governano questa
notevole riforma all'interno della Chiesa.» Fece un'altra pausa, e di
nuovo il silenzio si protrasse finché non riprese.
«D'altronde, come uomo e come soldato, mi accorgo di non
avere simpatia per il vostro punto di vista. Trovo che questa idea del
monachesimo sia odiosa e offensiva. É innaturale. Credo che se Gesù
avesse desiderato che i suoi discepoli si comportassero in quel modo,
l'avrebbe detto chiaramente. Su ogni altro argomento era un
eloquente oratore. Nelle parole di Gesù non sento alcuna misoginia.
Non è stato lui che ha detto: Chi è senza peccato lanci la prima
pietra? Questo, signori preti, mi dice che il Cristo riconosceva il
diritto dell'uomo alla responsabilità e all'autodeterminazione. Io
personalmente abbraccerò le dottrine di Pelagio fino a quando
qualcuno più morale e più ragionevole di voi mi convincerà che
sbaglio.»
Il prete non poté più sopportare di tacere. «Tu sei maledetto!»
esclamò. «Sei marchiato con il peccato di Lucifero, l'orgoglio ottuso!
E brucerai all'Inferno!»
La pazienza di mio padre si esaurì, e la sua voce crepitò di
disgusto. «Allontanate questa gente dalla mia vista! Popilio, che gli
venga dato da bere e da mangiare e che vengano accompagnati
sotto pesante scorta fuori dai confini della nostra terra, e che sia loro
proibito di rientrarvi.» Dovette gridare per farsi sentire al di sopra
delle imprecazioni dei preti, che adesso urlavano tutti, facendo un
pandemonio. Gli uomini di Popilio dovevano essere rimasti in attesa
appena fuori dalla porta, perché apparvero immediatamente e
sospinsero gli urlanti zeloti fuori dalla sala; anche dopo che furono
usciti, le urla continuarono. «Popilio!» La voce di mio padre si era
levata in un ruggito.
«Generale?»
«Una pesante scorta. Voglio che quei preti siano fuori di qui alla
svelta, e subito. Caricali su un carro. Imbavagliali se è necessario.»
Popilio uscì e mio padre si sedette, livido in volto. Per molto
tempo nella sala nessuno si mosse e nessuno parlò. Fuori le urla si
spensero nel silenzio. Allora Giulio Terrice, capo del Consiglio e
figlio di uno dei primi coloni, si alzò in piedi.
«Pico Britannico. Hai detto che la tua decisione sarà inviolabile
per ventiquattro ore, e ti sei assunto una ponderosa responsabilità
comportandoti come hai fatto oggi.» La tensione si riannidò nella
bocca del mio stomaco. «Non ho il diritto di parlare a nome di
nessun altro, poiché in questa faccenda non abbiamo agito come un
Consiglio, ma io, personalmente, approvo la tua posizione e la tua
decisione, e la considerazione con cui le hai presentate. Da parte mia
e di mia moglie, ti ringrazio.»
Credo che tutti, come me, stessero trattenendo il respiro in
attesa che Giulio Terrice facesse la sua solenne dichiarazione, perché
non appena ebbe pronunciato il suo ringraziamento tutti gli uomini
in circolo si alzarono, acclamando mio padre come non si era mai
sentito. Andai al suo fianco, con il cuore gonfio di orgoglio e di
affetto, e gli offrii la mia mano, e solo la stretta d'acciaio delle sue
dita sul mio braccio tradì il suo enorme sollievo per la dimostrazione
di generale consenso. L'avrei lasciato alle sue congratulazioni, ma
mantenne la presa sul mio braccio e mi trasse in disparte.
«Ebbene» grugnì. «Un peso fuori dai piedi.»
Gli sorrisi. «Già, proprio fuori dai piedi.»
Aggrottò la fronte. «Torneranno, credimi. Sentiremo parlare
ancora di questa faccenda.»
«Hai detto "un peso", padre. Ce ne sono altri?»
«Sì. Ancora uno, ma adesso è tuo.»
Lo fissai, ammutolito, e lui continuò, parlando a bassa voce e
guardandosi attorno per accertarsi che nessuno ascoltasse.
«Mi hanno trasformato in un amministratore, Cai, e mi hanno
vincolato a questa Camera del Consiglio. I miei giorni di soldato
sono finiti.» Fece con la mano un gesto perentorio per zittire le mie
proteste. «No, ascoltami, ragazzo, e ascoltami bene. Non sono
scontento. E non è un capriccio improvviso, né una decisione
affrettata. La questione alberga nella mia mente da mesi oramai. É
tempo che tu assuma ufficialmente il comando delle nostre forze
combattenti.» Tacque un istante, scrutandomi con un sopracciglio
alzato. «Non sto dicendo di essere troppo vecchio, ragazzo, perciò
non mi guardare in quel modo. Sto dicendo che tu sei pronto per il
comando, e che altre questioni, alcune vitali, esigono la mia
attenzione. Cavalcherò ancora in battaglia, se e quando sarà
necessario, ma il tempo mi sfugge come sabbia tra le dita, e qui a
Camulod c'è molto da fare. Questa è la mia decisione e non c'è
alternativa, nessun appello. Comandi tu. Uther risponderà a te, e tu
risponderai sempre a me in tutto ciò che non concerne le questioni
militari. In quel campo da questo momento in poi l'ultima parola
spetta a te. Siamo d'accordo?»
«Sì» dissi infine, senza parole e con un'insopprimibile tendenza
alla balbuzie. «Ma... »
«Niente ma. Informerò gli altri - tutti gli altri - stasera. Questa
posizione te la sei guadagnata, figlio mio. Adesso convivici. »
Brevemente e con forza mi strinse il braccio, e mi sorrise con un
cenno del capo. «Non vedo l'ora di servire sotto di te, Caio
Britannico.»
Girò sui tacchi e senza voltarsi andò a unirsi ai suoi sostenitori,
lasciandomi ai miei caotici pensieri. Quando mi ripresi tornai al mio
alloggio per liberarmi di tutti gli ingombranti ornamenti prima del
pasto di mezzogiorno.
Fui sorpreso e contento di trovare il giovane principe Donuil che
mi aspettava. Si alzò al mio ingresso e mi fece un cortese e di certo
non ostile cenno di saluto. Gli risposi con un sorriso e gettai il
mantello sul tavolo che fungeva da scrittoio.
«Buongiorno. Spero che l'attesa non sia stata lunga. C'è stata una
riunione del Consiglio.»
«Lo so. Uno dei tuoi soldati parla la mia lingua. Mi ha detto che
c'era grande eccitazione. Poi ho sentito le grida e la confusione nella
corte. Pensavo di andare a vedere che cosa stava succedendo, ma le
voci erano piene di rabbia e così invece sono venuto qui.»
«Saggia idea. Sì, le voci erano senza dubbio piene di rabbia.»
«Che cosa sta succedendo? O forse non me lo puoi dire?»
«Perché no?» Mentre indossavo l'uniforme più leggera gli
raccontai l'accaduto e come mio padre aveva risolto la questione.
Ascoltò in silenzio finché non ebbi finito e poi disse,
semplicemente: «Tuo padre sembra un uomo di principi. Lui e mio
padre andrebbero d'accordo».
«Credi davvero? Interessante. Ma hai ragione, mio padre è un
uomo di principi. Sei cristiano?»
Scosse la testa. «No. Da qualche anno ci sono dei preti all'opera
sulle nostre terre. Sono innocui, e qui e là hanno convinto qualcuno,
ma non molti, non da noi almeno. Ci sono re che li incoraggiano,
però. A Occidente un vescovo di nome Patrizio si sta creando una
folla di seguaci. Si narrano di lui storie meravigliose. Ma credo che ci
vorrà più di qualche storia, per farmi abbandonare le antiche
tradizioni.»
«Vuoi dire che preferisci giocare piuttosto che pregare?»
«Preferisco combattere.»
Gli sorrisi. «Sì, ne sono certo. Andiamo a cercare del cibo. Hai
pensato a quello che ti piacerebbe fare mentre ti trovi qui con noi?»
«Sì.»
«E allora?» Attesi.
«Sono mezzo morto di fame. Potremmo trovare prima del cibo?
Credo che a stomaco pieno mi riuscirebbe più facile dire quello che
ho da dire, e forse tu ascolteresti più volentieri, con un buon
fondamento.»
Ero incuriosito. Non doveva essere stato facile decidere, qualsiasi
cosa avesse deciso, ma nel suo atteggiamento non c'era tracotanza,
né risentimento, così lo guidai fino al refettorio adiacente alle cucine
e lo guardai stupefatto divorare tre volte la quantità di cibo che
riuscii a mangiare io. Era un'ora tranquilla; vicino a noi c'era qualche
giovane ufficiale e un capannello di soldati di fanteria fuori servizio
all'altra estremità dello stanzone. Il mio prigioniero ingurgitò l'ultimo
pezzo di pane e formaggio e spinse via il piatto vuoto con un rutto
di soddisfazione.
«Adesso capisco perché sei così grande e grosso» dissi,
sorridendo. «Fa parte del tuo piano? Mangiare tutte le nostre
provviste e prenderci per fame?» Alcuni giovani ufficiali si voltarono
sorpresi al suono delle mie parole celtiche. Li ignorai e continuai a
sorridere al mio prigioniero, che a lungo ricambiò il mio sguardo
cercando in quella frase un significato nascosto, e poi mi sorrise di
rimando.
«È mia opinione che tu e la tua gente non vi sottometterete per
fame.»
«Su questo non discuto. Hai altre opinioni?»
«È mia opinione anche che non conosco Lot di Cornovaglia
meglio di quanto conosca te, avendolo visto solo due volte e ogni
volta per poco tempo.»
«E poi?»
«Ritengo che il mio popolo trarrebbe più beneficio da
un'alleanza con voi invece che con Lot.»
«Come mai?»
Fece per rispondere immediatamente, ma poi si fermò a
riflettere, e la sua espressione era seria quando disse: «Non ne sono
sicuro. Credo che si tratti dell'onore. Voi siete uomini d'onore e
comprendete la necessità dell'onore. Il re di Cornovaglia ci ha poco
a che fare, da quello che ho saputo».
«Come puoi saperlo, Donuil, se non lo conosci?»
Scrollò le grosse spalle. «Come faccio a sapere se il sole splende
prima di uscire dalla mia capanna al mattino? Ci sono segni e suoni
che lo annunciano. Ugualmente da certi segni capisco che noi Scoti
faremmo meglio ad allearci con la vostra Colonia.»
«Ma la nostra Colonia non ha bisogno di alleati. Specialmente in
un'altra terra oltre il mare.»
«Forse no, Caio Merlino, ma che bisogno hai di nemici, oltre lo
stesso mare?»
«Una buona risposta, principe Donuil. Se i nostri nemici hanno
alleati oltremare, allora noi abbiamo nemici oltremare e dovremmo
darci da fare per allearci con qualcuno che possa tenere quei nemici
a casa loro.» Annuì, e io continuai.
Ma diventa complicato, anche a dirlo, e abbiamo già risolto il
problema. La tua presenza qui ha tagliato i fili dell'alleanza di Lot. Il
tuo popolo non ci minaccia, per adesso.»
«Non per cinque anni almeno, vuoi dire.»
«Non per cinque anni almeno.»
«E poi? Che cosa credi che succederà quando il mio tempo con
voi sarà finito?»
Toccò a me scrollare le spalle. «Chi lo sa? In cinque anni possono
accadere molte cose. Il peggio che potrebbe succedere è che il tuo
popolo scenda in guerra contro di noi. Ma noi saremo preparati a
riceverlo. Non sarebbe piacevole, ma ci saremo premuniti e saremo
pronti.» Lo guardai negli occhi grandi e sinceri che fissavano
direttamente i miei. «Ma non siamo qui per discutere di una guerra
che forse scoppierà tra cinque anni. Siamo qui per discutere dei tuoi
pensieri su come potresti vantaggiosamente trascorrere quei cinque
anni, badando al tuo benessere e alle tue comodità, e a un non
proditorio beneficio per la comunità che sarà tua ospite durante quel
periodo.»
Sorrise. «Ben espresso, Caio Merlino.»
«Bene» sorrisi anch'io, vedendolo comprendere le mie intenzioni
con tanta chiarezza. «Che cos'hai deciso? Ti ci vuole parecchio tempo
per venire al sodo.»
«Sì, suppongo di sì, dal tuo punto di vista. Dal mio, invece, non
vedo la necessità di impegnarmi a fondo con avventatezza. Mio
padre mi ha sempre insegnato che nulla di importante dovrebbe
essere messo in pericolo da un approccio frettoloso.»
Fummo interrotti da Tito che, diplomatico come sempre, mi
salutò formalmente di fronte al mio prigioniero e presentò le sue
scuse per averci importunato. Mi alzai e rifiutai con un cenno le sue
scuse superflue.
«Che cosa c'è, Tito?»
«Ho pensato che avresti voluto saperlo immediatamente, Cai.
Abbiamo appena ricevuto notizia dagli avamposti che Uther e i suoi
uomini stanno per arrivare. Dovrebbero essere qui entro un'ora.»
«Uther sta bene? » Mi cadde un peso dal cuore; fin da quando
mio padre aveva espresso la sua apprensione per la prolungata
assenza di Uther, mi ero preoccupato anch'io come tutti che potesse
essergli successo qualcosa.
«Sembra di sì. Cavalca alla testa dei suoi uomini.»
«Grazie, Tito. È una buona notizia. Sarò pronto a salutarlo ai
cancelli. Dillo a mio padre.»
Tito lanciò un'occhiata a Donuil, mi salutò di nuovo
formalmente e se ne andò, e Donuil lo seguì con lo sguardo fino
fuori dal refettorio. Tito e io avevamo parlato in latino, e Donuil
non poteva aver capito quello che avevamo detto.
«Chi è, quell'uomo? Che cosa fa?»
«É Tito, l'aiutante di mio padre.»
«Aiutante? Che cos'è un aiutante?»
Ci dovetti pensare. Che cosa era un aiutante? «Assistente
dovrebbe essere una parola buona come un'altra, ma in molte cose
fa da amministratore per mio padre, perciò è molto più di un
semplice assistente. Detiene una posizione di incontestabile fiducia.»
«Capisco. È con tuo padre da molto?»
«Sì. Da più di trent'anni. Perché?»
Scosse la testa. «Pensavo solo che mi sembra un po' vecchiotto
per fare ancora il galoppino.»
«Galoppino? Che cosa significa?»
«Inserviente, fattorino.»
I lineamenti mi si indurirono in una maschera di
disapprovazione. «Credo che faresti meglio a stare attento a quello
che insinui con le tue parole, principe Donuil. Quell'uomo è l'amico
più intimo di mio padre. All'interno del forte e del governo di questa
Colonia non è secondo a nessuno se non al generale in persona.
Non c'è nulla di servile in Tito e nelle sue funzioni, e in questo luogo
non c'è nessuno, tranne te che parli per ignoranza, che non lo tenga
nella massima considerazione.»
Prima che avessi concluso la mia replica, punto sul vivo dallo
sgarbo che avevo desunto dalla sua osservazione, aveva sollevato
entrambe le mani con i palmi verso di me, e i suoi denti luccicavano
in un ampio sorriso. «Basta! Basta! Non volevo offendere! Calmati,
adesso!»
Mi morsi la lingua e tentai di moderare il tono delle mie parole.
«Che cosa intendevi dire, allora?»
«Ebbene, comandante, ho osservato quello che fa un aiutante, e
ho cercato di definire le sue mansioni. Ti ho detto che uno dei tuoi
uomini parla la mia lingua. Ieri sera gli ho chiesto dei chiarimenti, e
le sue informazioni sono state molto istruttive. É uomo di molti
ruoli, il tuo Tito. Molti ruoli e molte capacità; molte doti e molto
valore.» Sorrideva ancora, ma senza ironia. «Ma ammetterai che
quello che fa, in tutto quello che fa, è servire tuo padre - anche se tu
forse preferisci il termine assiste - qualsiasi siano le necessità di tuo
padre. Non è così?»
«Sì. É così. Serve mio padre, il suo generale. Meglio di chiunque
altro.»
«E non si risente di un simile servizio?»
«Come potrebbe?»
«Non lo so, Caio Merlino! Tra la mia gente credo che per un
uomo sarebbe impossibile mostrare quel tipo di asservimento a un
altro uomo senza perdere la propria indipendenza.»
Ero ancora stizzito. «Pensi che manchiamo di orgoglio?»
«No, no, nient'affatto!» Si stava davvero sforzando di non
offendere. «Semplicemente c'è una differenza nel tipo di orgoglio,
ecco tutto. Tra di noi ritengo che possa essere una debolezza, perché
siamo troppo accaniti nel nostro orgoglio. Ognuno teme di sembrare
dipendente da un altro. Questa è una debolezza, perché la forza e la
responsabilità condivise, come qui, generano solidarietà. Lo vedo,
anche se sono in tua compagnia solo da pochi giorni. Ma me ne
sono accorto solo qui, osservando i tuoi uomini. No» proseguì,
«l'orgoglio non vi manca. Solo che lo portate al di là della nostra
comprensione. Il vostro genere di orgoglio si estende agli altri, alla
gente che vi circonda, e non avete paura di venire giudicati
dipendenti. Questa deve essere una forza.» Donuil fece una pausa.
«Tuo padre non è più giovane. Quando morirà, comanderai tu?»
«Sì. Qui nella Colonia, comanderò io.»
«E allora Tito diventerà il tuo aiutante?»
«Se sarà ancora vivo, immagino di sì. Perché me lo chiedi?»
«Per curiosità, nient'altro. Non hai un tuo aiutante personale?»
«No, non ne ho bisogno.» Il suo tono mi lasciava stranito.
«Comunque, siamo di nuovo fuori argomento. Quando Tito è
arrivato, stavi per dirmi che cosa vorresti fare qui a Camulod.»
«Sì, è vero. È quello che mi piacerebbe fare.» Non capivo. «Lui.
L'aiutante, Tito. È quello che mi piacerebbe fare.»
«Vuoi dire, essere un aiutante?» Ero stupefatto.
«Sì» annuì. «Il tuo aiutante.»
«Il mio aiutante?» Non avrei potuto essere più sbalordito.
«Ma... ma... non è possibile!»
«Perché?»
Mi trovavo in difficoltà. «Beh... non sai niente! Non sai niente di
noi. Non hai addestramento! Non sai nemmeno cavalcare. Non parli
la lingua. Sei un ostaggio, per Dio!»
«Che cosa c'entra? Sono un ostaggio adesso, ma non lo sarò per
sempre. Non sostengo che potrei incominciare oggi. Ma potrei
incominciare a imparare.»
«Come?» Ero completamente attonito, e cercavo di non ridere
perché sapevo che l'avrei offeso.
«Nello stesso modo in cui ho imparato a camminare e a parlare,
dandomi da fare! Posso imparare a parlare il tuo latino. Potrei
imparare a cavalcare. E ti servirei onorevolmente e con dignità!»
Quell'ultima frase mi fece passare la voglia di ridere; malgrado le
molte obiezioni che mi venivano in mente, quel ragazzo faceva sul
serio. Iniziai a sentirmi a disagio, perché davvero non desideravo
offenderlo o insultarlo. Scossi la testa, e gli parlai a bassa voce,
sperando che dal tono sommesso intuisse il sincero rammarico con
cui ero costretto a respingere la sua proposta.
«Donuil» dissi. «Tu sei un principe del tuo popolo e sei qui come
ostaggio per il suo comportamento. Quando ti ho chiesto di pensare
come avresti voluto trascorrere il tuo tempo, non mi è proprio
venuto in mente che potessi pensare a una cosa simile. Non puoi
non vederne l'impossibilità. Tra cinque anni tornerai in patria, e a
tempo debito reclamerai il tuo regno. Se quando ciò avverrà saremo
amici, mi farà piacere, ma nel frattempo sei un nemico, per
definizione.» Scrollai il capo. «Sono onorato, ragazzo, della tua
scelta, ma...» Mi mancarono le parole.
Mi fissava negli occhi. «Posso parlare?»
«Parla. Accomodati, ma...»
«E mi ascolterai fino in fondo?»
Sospirai. «Ti ascolterò, ma perdi il tuo tempo se credi di riuscire a
farmi cambiare idea.»
«Come dovrei chiamarti?»
«Durante una conversazione? Chiamami comandante Merlino.
Lo fanno tutti.»
«Comandante Merlino. Benissimo. Comandante Merlino.
Innanzitutto, dovresti sapere che non sono un ragazzo. Tre anni fa
ho affrontato i riti della virilità. Sono un uomo, qui e in patria tra gli
uomini di mio padre." Fece una pausa e attesi, determinato a non
interromperlo più. "Non c'è la benché minima possibilità che un
domani io reclami il mio regno, come hai detto tu. Quel regno non
è mio e non lo sarà mai. Io sono il penultimo di otto figli. Il rango
più elevato a cui potrò mai aspirare in patria è quello di un
insignificante capitano, e potrei ottenerlo solo per grazia dei miei sei
fratelli maggiori, quattro dei quali non sanno che farsene di me. È
per orgoglio che mio padre manterrà la mia promessa per il tempo
che io trascorrerò qui come ostaggio. Se dovesse morire prima che il
mio tempo sia finito, i miei fratelli considereranno assurdo il nostro
patto senza pensare a me. È giusto che tu lo sappia. Ci ho pensato la
prima notte in cella e la verità di questo fatto ha formato il mio
pensiero al riguardo. Ho un fratello, Connor, che ammiro. Tu gli
somigli, ma Connor è uno storpio. Ha perso l'uso delle gambe
combattendo contro un orso. Nemmeno lui diventerà re. Il suo
valore è grande, ma la sua infermità è ancora più grande. Pensavo
che mi sarebbe piaciuto servirti, servire con te, come hai detto tu
quel primo giorno. Non so come potrei farlo meglio, so solo che
potrei.»
Feci per parlare, ma mi prevenne con un gesto della mano.
«Questa faccenda della lingua: potrei imparare in fretta il latino, se
ce ne fosse bisogno. Ma mi è venuto in mente che potrebbe esserti
molto utile avere qualcuno con cui parlare, qualcuno di cui ti fidi,
senza che altri sappiano che cosa stai dicendo. Sono convinto che
essere un aiutante sia come essere un amico fidato. Fidato e stimato.
Non mi sentirei disonorato a guadagnarmi la tua fiducia e la tua
stima, e ritengo che non dovresti sentirti disonorato nemmeno tu se
insinuo che andrebbe anche a tuo beneficio. Se c'è una cosa che mio
padre mi ha insegnato bene, comandante Merlino, è valutare gli
uomini. Ti guardo e vedo il modo in cui tratti gli uomini, da tuo
padre ai tuoi servitori ai tuoi soldati. Hai il loro rispetto, e non hai
paura di mostrare loro il tuo rispetto. Ma soprattutto hai la loro
simpatia, la loro ammirazione per quello che fai, prima che per
quello che sei. Queste due cose, il rispetto e la simpatia, non vanno
sempre insieme. So che tutti qui, tu incluso, mi considerate un pirata
barbaro. Barbaro forse lo sono, secondo il vostro giudizio, ma non
sono un pirata e non sono uno stupido. Conosco il mio valore. E so
quanto potrebbe valere per te, Caio Merlino Britannico.»
Ascoltavo esterrefatto quel giovane dotato di molto più
intelletto e maturità di quanto mi aspettassi, e continuai ad ascoltarlo
presentare i suoi pensieri in impeccabile ordine. «Adesso non so
cavalcare, ma posso imparare a prendermi cura dei tuoi cavalli e
della loro bardatura, e, imparando quello, imparerò a cavalcare.
Non conosco le vostre armi, ma mi impegnerei a pulire e a custodire
le tue, e cosi facendo imparerei a usarle e a maneggiarle. Lo stesso
dicasi per la tua armatura e per i tuoi abiti. Non appena avrò
imparato il latino, sarò il tuo messaggero personale.» Sorrise. «Nel
frattempo ti farò da guardia del corpo. Almeno per quello ho le
dimensioni e la forza. Ho cinque anni da trascorrere qui,
comandante. Se, in questi cinque anni, non riuscirò a eseguire i
compiti che mi assegnerai, mi farò da parte. Se, invece, mi riterrai
adatto e lavoreremo bene insieme, rimarrò qui con te, di mia
spontanea volontà, dopo essermi guadagnato il diritto di costruire a
Camulod la mia casa. È tutto quello che ho da dire.»
Da parecchi minuti me ne stavo a capo chino, stringendomi tra
le dita la radice del naso per nascondergli la mia espressione. Rimasi
in quella posizione e lasciai che il silenzio si prolungasse per poter
fare ordine negli scandalosi pensieri che mi attraversavano la mente.
Quando rialzai la testa con un sospiro vidi i suoi occhi che mi
fissavano senza battere ciglio. Scossi la testa, ancora sconcertato dai
miei pensieri. Ogni cosa in me mi stimolava a prenderlo in parola.
«Che cosa devo dire? Tu mi fai onore, Donuil. Su questo non ho
dubbi. Hai preso le mie riserve e le hai smantellate, e ora mi
sembrano meschine. Devo ammettere che l'idea non è così
stravagante come all'inizio ho creduto che fosse. Sono cinque anni.
La proposta è encomiabile, ma tu che cosa ci guadagni da un simile
accordo?»
Sorrise. «Un posto a Camulod, nella vostra Colonia. Il diritto di
cavalcare al tuo fianco e di adottare i tuoi modi. Non avrei
rimpianti.»
Scossi di nuovo la testa. «A mio padre verrebbe un colpo
apoplettico.»
«Perché?» Sorrise ancora, in un lampeggiare di denti. «Sta per
acquistare grande forza, invece. Uno scoto leale nella sua casa.»
Toccò a me sorridere. «Preferirebbe averne cento nelle sue celle.
Ma ci penserò. Sinceramente, l'idea mi interessa, e più ci penso più
mi attira. Ci dormirò sopra e ti comunicherò domani la mia
decisione.»
«Molto bene, comandante. Posso aspettare.»
«Mi fa piacere. Nel frattempo, l'arrivo di mio cugino Uther è
previsto da un momento all'altro. Questo era venuto a dirmi il
legato Tito. Ha avuto a che fare con il tuo precedente alleato, il
sedicente re di Cornovaglia. Sono curioso di sentire che cosa ha da
raccontare. Vieni con me ai cancelli a vedere il loro ingresso. Uther
merita sempre un'occhiata.»
Si alzò in piedi, sovrastandomi. «Uther Pendragon. Non vedo
l'ora di incontrarlo. Ho sentito tanto parlare di lui.»
«In Ibernia?»
«Dove? Oh, vuoi dire in Eire. Ibernia? Che brutto nome. Ma è lì
che ho sentito parlare di Uther l'Usurpatore e di Cai il Codardo. È
così che vi chiamano gli uomini di Lot.»
Sentii un impeto di rabbia. «Un giorno, se mai lo rivedrò, farò in
modo di sistemare anche questa faccenda.»
XVIII.
Uther entrò a Camulod con stile, malgrado il fatto che la
colonna alle sue spalle contasse meno di quattrocento cavalieri dei
cinquecento partiti per la Cornovaglia, e malgrado il fatto che non
pochi recassero segni di ferite. Vedendolo avvicinarsi, notai che lui e
i suoi uomini sembravano freschi e riposati per essere reduci da
un'incursione, e pensai che dovevano essersi fermati a ripulirsi prima
di arrivare a Camulod. Quel pensiero era malizioso, quasi maligno, e
me ne vergognai. Guardai di sottecchi mio padre lontano meno di
tre passi, con Tito al suo fianco, e lo sentii osservare: «Ecco, Tito, un
comandante che si preoccupa del morale, non solo tra i suoi uomini,
ma nella guarnigione. Devono essersi fermati a darsi una ripulita per
fare una buona impressione sugli spettatori qui a Camulod. Buona
pensata, ottima per la disciplina!».
Il commento di mio padre, così a proposito, mi fece sentire
meschino, ma mi rese anche consapevole della causa della mia
meschinità: l'incertezza su come trattare Uther e affrontare i
problemi a lui connessi. Sapevo di non essere pronto ad agire come
se tra noi niente fosse successo, anche se probabilmente Uther era
all'oscuro di tutto. Erano passate più di sei settimane dall'aggressione
a Cassandra, e in tutto quel tempo non ci eravamo rivolti la parola,
con l'eccezione delle poche battute che ci eravamo scambiati al
Consiglio di guerra prima che andassi a combattere gli invasori
dall'Ibernia.
Sapevo che Uther sarebbe stato felice di vedermi, e mi si rivoltò
lo stomaco per l'ipocrisia di abbracciarlo con tutti i dubbi ancora vivi
nella mia mente. Decisi che non potevo affrontarlo e mi girai per
andarmene, ma mi imbattei alla mia sinistra nel giovane Donuil, e fui
d'un tratto acutamente consapevole della folla che intorno a me
osservava la colonna in avvicinamento. Se me ne fossi andato così,
all'improvviso e senza motivo, tutti si sarebbero chiesti perché, con
la possibile eccezione di mio padre, che nutriva i suoi dubbi ma era
pronto a estendere a Uther il beneficio di tali dubbi. Mi controllai e
rimasi dov'ero, a guardare l'arrivo del corteo di Uther.
Due vessilliferi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra,
portavano ognuno un ampio stendardo: uno raffigurava il drago
rosso della sua famiglia, i Pendragon, e l'altro il grande drago dorato
che era il suo simbolo personale. Fianco a fianco dietro al terzetto
cavalcavano i quattro comandanti di squadrone anziani, seguiti a
loro volta da una sfavillante schiera dello squadrone di Uther, i suoi
Dragoni, così li chiamava. A una distanza di circa quindici passi
avanzava un quartetto di stranieri, che a giudicare dall'abbigliamento
dovevano venire dalla Cornovaglia, e dietro a loro chiudeva il
corteo il resto delle truppe di Uther, in una colonna di otto file.
La mia attenzione fu immediatamente calamitata dagli stranieri,
che subito credetti prigionieri. Ma rinunciai immediatamente a quel
pensiero, a causa della sicumera del loro portamento e dello stato
dei loro abiti, che non denotavano né lotte né privazioni. Vidi infatti
che cavalcavano a coppie, padroni e servitori, perché la prima
coppia procedeva liberamente, mentre i due uomini e i due cavalli
che la seguivano erano carichi di bagagli. Dovevano essere ostaggi
d'alto rango, oppure ambasciatori da parte di Lot, anche se mi
sfuggiva il motivo per cui un capo vittorioso dovesse tornare con gli
ambasciatori del nemico sconfitto, e un nemico sleale per di più. Gli
eserciti sconfitti non dettavano condizioni né pretendevano
trattamenti speciali o trattati di pace; si sottomettevano, e basta.
«Un'ambasceria di qualche sorta, ovviamente» mormorò mio
padre accanto a me, «ma a quale scopo non saprei. Perché Lot
dovrebbe pensare che siamo interessati a parlare con i suoi sgherri?
Se fossi in lui, avrei paura che i miei servi possano essere
sommariamente giustiziati a ricompensa della mia perfidia!»
«Tu non sei Lot, padre. Da quello che so di lui, non perderebbe
un solo istante di sonno per evitare tale conseguenza. Con questa
mossa sta cercando di ottenere qualcosa. Forse del tempo. Ma lo
scopriremo presto.»
Le acclamazioni degli spettatori erano assordanti; ci ritirammo
sulla tribuna per consentire alle truppe di Uther di radunarsi nella
corte. Quando furono tutte allineate davanti a noi squillarono le
trombe, e si fece silenzio.
Uther si raddrizzò in sella e salutò mio padre. «Generale, salute!
Ho l'onore di riferire la riuscita di questa spedizione. Proclamiamo la
vittoria contro i nemici della Colonia, e portiamo ambasciatori» nella
voce di Uther c'era solo una lieve sfumatura ironica «di Lot di
Cornovaglia, le cui istanze verranno presentate a te e al nostro
Consiglio nel tempo che deciderai. Devo comunicare che altri trenta
uomini sono fermi ai confini delle nostre terre, e stanno ricevendo
assistenza dal nostro medico in attesa di venire trasportati a
Camulod.»
Mio padre fece un formale cenno di assenso e rivolse uno
sguardo di apprezzamento agli uomini appena ritornati, con il fermo
proposito di ignorare completamente gli "ambasciatori" finché non
avesse potuto formarsi una chiara idea delle loro mire.
«Soldati di Camulod!» La sua voce non era particolarmente alta,
ma raggiunse limpida e distinta ogni angolo della corte. «Benvenuti a
casa. Vi siete comportati bene. Ognuno di voi è sospeso dal servizio
per quarantotto ore.»
Uther salutò di nuovo per conto dei suoi uomini. «Grazie,
generale. Permesso di rompere le righe?»
«Concesso.»
Uther fece cenno al centurione anziano, e le righe ruotarono e
sfilarono fuori dalla corte, dirette alle stalle; davanti a noi rimasero
solo Uther e gli "ambasciatori" di Lot. Gli spettatori, per la maggior
parte parenti e amici dei soldati, andarono con loro fino alle stalle.
Uther scoccò un'occhiata agli ambasciatori e saltò giù di sella,
dirigendosi verso di me a braccia spalancate, con quel suo enorme
sorriso che minacciava di spaccargli la faccia in due.
«Cai, bastardo! Mi sembrano anni che non ci ubriachiamo
assieme!» Le sue braccia si chiusero intorno a me in una stretta
stritolante, e non potei fare a meno di rispondere al suo affetto e
all'evidente piacere di rivedermi. Puzzava di sudore, suo e del suo
cavallo, anche se si era appena sbarbato e lavato. Gli restituii
l'abbraccio, sollevato di scoprire che il mio piacere era assolutamente
sincero.
«Puzzi!» gli dissi. «Anche peggio di come ricordavo. Benvenuto a
casa. Dal tuo silenzio incominciavamo a pensare che avessi
incontrato la tua inevitabile fine per mano di un marito o di un
amante geloso. Ma avevo scordato che, puzzando così, ti sarebbe
impossibile avvicinarti a una donna.»
«Non dovresti perdere tempo a preoccuparti per me, Cai. Sono
troppo veloce da prendere, troppo pericoloso da combattere, e
troppo bravo perché una donna si lamenti di me con un qualsiasi
amante! Sono indistruttibile! Zio Pico!» Mi liberò e gettò le braccia
intorno a mio padre, e non scorsi nessuna riserva nell'affetto con cui
mio padre lo salutò. Cercai il giovane Donuil, ma non lo vidi, e
rivolsi la mia attenzione ai quattro stranieri ancora a cavallo, che si
godevano spassionatamente la loro prima visita all'interno di
Camulod. Due erano servitori, come avevo immaginato. Gli altri due
erano chiaramente di posizione elevata. Tutti e quattro cavalcavano
senza sella. Esaminai i due portavoce, apparentemente inconsapevoli
della mia attenzione.
Erano entrambi della stessa razza, capelli neri e carnagione scura,
e i loro abiti avevano molto in comune con quelli dei Celti che
conoscevo, anche se i Celti di Cornovaglia sostenevano di discendere
dalla tribù che gli uomini di Cesare avevano chiamato Ordoviceii.
Sembravano anche della stessa altezza, ma quello più vicino a me era
in qualche modo sproporzionato. Ne fui sconcertato e cercai una
spiegazione, e la trovai. I loro cavalli erano di taglia differente.
L'uomo più vicino montava un cavallo molto più piccolo, e tuttavia
la sua testa era allo stesso livello di quella del suo compagno. Mi
accorsi che aveva una colonna vertebrale eccessivamente lunga, e le
gambe corte e tozze. La faccia era lunga e ossuta, e gli occhi infossati
e troppo vicini rispetto alla larghezza della faccia. La bocca era
nascosta da lunghi baffi spioventi. Aveva le spalle strette, e i capelli
lunghi e unti gli si arricciavano tra le scapole. Lo presi subito in
antipatia e rivolsi la mia attenzione al suo compagno.
Non aveva nulla di strano a parte gli occhi, che erano quanto di
più insolito si potesse immaginare: erano due bulbi di diverso colore.
L'occhio destro era così scuro da parere nero, e l'iride non si
distingueva dalla pupilla. L'occhio sinistro, invece era di un azzurro
brillante e stupefacente. Era una faccia da spaventare i bambini,
perché sembrava che il cranio fosse stato modellato senza globi
oculari, e gli occhi fossero stati appiccicati sulla faccia soltanto dopo,
così che sporgevano orribilmente. Mi domandai come lo
chiamassero dietro le spalle; i suoi vestiti erano abbastanza ricchi da
garantire che pochi avessero l'ardire di sbeffeggiarlo apertamente.
Mio padre si girò verso Uther. «Comandante Uther! Permettimi
una parola.» Nel tono della sua voce nulla indicava disagio o
impazienza. Uther lasciò Tito e Flavio e si avvicinò a noi.
«Zio? Che cosa state complottando voi due?»
«Quegli uomini, Uther. Perché sono qui? Sono in missione
diplomatica o sono prigionieri? Sarebbe bene che condividessi con
noi i tuoi pensieri sull'argomento. Non guardarli.»
Uther sorrise. «Non ho nessuna intenzione di guardarli, zio. Si
sono avvicinati al mio campo una notte, invocando la protezione
della Chiesa cristiana, e hanno voluto che li scortassi qui da te per
discutere una questione della massima importanza, sia per il signore
di Camulod sia per il signore di Cornovaglia.»
«Di quale gravosa faccenda si tratta?»
«Non lo so, ma con loro c'era un vescovo che mi implorava con
il terrore negli occhi di esaudire le loro richieste, anche se mi
sembravano più pretese che richieste. La mia prima reazione fu di
mandarli al diavolo senza vestiti né servi, ma qualcosa nel terrore di
quel vescovo mi fece cambiare idea.»
«Ancora preti! Dov'è il vescovo adesso?»
«É ritornato al forte. Avevo la sensazione che preferisse restare
con noi, ma era soggetto a una qualche costrizione.»
«É tornato indietro da solo?»
«Sì, e malvolentieri, m'è parso.»
Mio padre mi guardò con un sopracciglio alzato.
«Caio? Qual è la tua impressione?»
«Interessante. Quando pensi di parlare con loro?»
«Uther? Che cosa ne pensi?»
«Non riconoscerei nemmeno la loro dannata esistenza, se
dipendesse da me, ma suppongo che dovresti riceverli domani, o
dopodomani.»
«Non stasera?»
«Assolutamente no, zio. Sono uomini di Lot e Lot è un bastardo
malvagio e maligno. Lascia che facciano anticamera per un paio di
giorni. Non guasterà. Accoglili, alloggiali, nutrili, e falli aspettare.»
D'un tratto mi sentii a disagio. «No» dissi. «Aspettate un
momento. C'è qualcosa che non quadra qui, qualcosa che non mi
piace.» Mi guardarono entrambi interrogativamente e io scossi la
testa. «Non ha senso. Lot può essere tutto quello che dici, cugino, ma
è anche temerario, e astuto. Deve avere in mente un piano se ha
mandato qui questi uomini e, qualsiasi cosa siano in realtà,
scommetto che non sono ambasciatori. Potrebbero essere spie, ma a
quale scopo?»
Un pensiero errante e repentino andò al suo posto con uno
scatto. «Tempo!» dissi. «Forse sta cercando di guadagnare tempo.» Mi
fissarono perplessi, senza capire. Io scossi ancora la testa. «Non so
perché, ma lasciandoli aspettare è possibile che facciamo proprio
quello che vuole Lot.»
«Forse hai ragione, cugino sagace.» Uther era ancora perplesso,
però stava riflettendo. «Ma comunque non risolveremmo nulla
parlando con loro stasera. Io non ti sarei di nessun aiuto, questo
posso assicurartelo. Sono qui in piedi a chiacchierare, ma sono stanco
morto, eppure voglio ascoltare che cos'hanno da dire.»
«Così sia.» Mio padre aveva preso una decisione. «Parleremo con
loro domattina. Per ora li lasciamo alle tue attenzioni, e noi due non
ce ne cureremo. Provvedi al loro alloggio, ma vieni da me prima di
fare qualsiasi altra cosa. Cai e io ti aspetteremo.» Batté una mano
sulla spalla di Uther e mi sospinse avanti con l'altro braccio, e ci
allontanammo insieme, abbandonando Uther con i suoi ospiti.
Ci dirigemmo all'alloggio di mio padre, e quando giungemmo in
prossimità dell'edificio vidi il giovane Donuil che cercava di attirare
la mia attenzione. Anche mio padre lo vide, e non mi lasciò dubbi su
quello che pensava. «Per la Croce di Cristo, ecco che arriva il tuo
pagano domestico. Liberatene, Cai. Abbiamo cose più importanti da
fare che perdere tempo con lui!»
Mi fermai. Donuil si affrettò a raggiungermi, e rivolse un saluto
incerto a mio padre che proseguì impassibile. Levai una mano ad
arginare le parole del giovane prima ancora che potesse
pronunciarle. «Donuil, non ho tempo di parlare con te adesso. Mio
padre mi ha chiamato a colloquio e non ha tempo da perdere.»
«Ma...»
«Niente ma, Donuil! Ho ricevuto un ordine, e se devi lavorare
con me è meglio che impari che cosa significa. Adesso devo andare.»
Ripresi a camminare e lui si fece da parte, con un'espressione
angosciata e mortificata.
Entrando nell'alloggio di mio padre mi scontrai con un soldato
che usciva di corsa. Entrai nella stanza che ancora lo stavo
guardando.
«L'ho mandato a prendere del vino. Suppongo che Uther avrà
sete, e parlare secca la gola.»
«E ascoltare anche. Mi sembri preoccupato, padre. Che cosa
sospetti?»
Si era già tolto elmo e mantello; si sfilò la tracolla con la spada e
si abbandonò scompostamente su una comoda poltrona. «Siediti.
Non so perché, ma non mi piace. Nemmeno un poco. Voglio
interrogare Uther sulle circostanze della "richiesta" del vescovo. Lot è
un animale astuto. Questa faccenda puzza di perfidia incombente.»
Mi tolsi anch'io gli indumenti superflui, e mi accomodai su una
sedia di fronte a lui.
«Ci ho pensato» dissi, distendendo la tunica. «Uther ha detto che
il vescovo è tornato al forte. Significa che Uther era accampato nei
pressi, forse proprio di fronte ai cancelli. E significherebbe che Uther
è stato in grado, con soli cinquecento uomini, dei quali ne ha persi
quasi un centinaio, di spingere tutto l'esercito di Lot dentro il forte.»
«Stai facendo delle ipotesi.» Mio padre era scettico. «Non vedo
come Uther avrebbe potuto sconfiggere l'esercito di Lot con soli
cinquecento uomini. Ma su una cosa hai ragione. È strano che si
sentisse tranquillo ad accamparsi così vicino alla roccaforte di Lot.»
Uther entrò slacciandosi il mantello, seguito a ruota dal soldato
che reggeva un vassoio con un bottiglione e delle coppe. «Ah! Latte
di mamma!» disse vedendo il vino. «Riempimi una bella coppa,
soldato. Ho metà della polvere del sud-ovest appiccicata al palato.»
Il soldato riempì e distribuì le coppe, e ci lasciò a brindare al ritorno
dell'eroe. Uther vuotò la sua coppa e la riempì di nuovo prima di
appollaiarsi comodamente sul bordo del tavolo, «Dio! Che buon
sapore! Zio Pico, stai ovviamente aspettando qualcosa. Che cosa?»
«Le notizie della tua campagna.»
«Te l'ho detto. Abbiamo vinto.»
«Hai perso cento uomini.»
Uther ridiventò serio. «Già. Ne ho persi un centinaio. Trenta
avranno la possibilità di risalire a cavallo, ma gli altri settanta sono
andati.»
«Come?»
«Quasi tutti in una brutta trappola, lungo la costa della
Cornovaglia.»
«Che cosa è successo?»
«Ho imparato una lezione a caro prezzo. Siamo caduti in una
trappola in pieno giorno, e ci hanno stroncati.»
«Racconta.»
«Non ho mai visto niente di simile» disse con un sospiro.
«Da tre giorni non avvistavamo il nemico, ma stavamo seguendo
tracce ben visibili. Siamo arrivati sulla scena di una scaramuccia.
C'erano forse sessanta cadaveri, evidentemente uccisi in battaglia, e
una decina che erano stati giustiziati. Erano stati spogliati degli abiti e
delle armi.»
«Chi erano? Ne hai idea?»
Uther scrollò il capo. «Nessuna. So solo che non erano i miei.
Comunque, le tracce che si allontanavano da quel luogo erano
nitide, e le abbiamo seguite.»
«Per tre giorni?»
«Esatto.»
«E il nemico non l'avete visto?»
«Non sapevamo nemmeno se era il nemico. Se erano gli uomini
di Lot, almeno, perché chiunque avessimo incontrato laggiù sarebbe
stato un nemico.»
«Aspetta un momento. E il gruppo a cui siete andati incontro?
Quelli che hanno distrutto il nostro avamposto?»
«Non ne abbiamo visto nemmeno l'ombra. Abbiamo trovato
tracce del loro passaggio, in direzione sud-ovest, e le abbiamo
seguite, ma le abbiamo perse non appena siamo arrivati sul terreno
roccioso. E poi abbiamo dato la caccia ai fantasmi.»
«Non avete visto nessuno?»
«Esattamente, zio. Neppure un'anima. Tutto deserto.»
«Finché non avete trovato quei cadaveri?» Uther annuì
solennemente. «E poi avete seguito altre tracce per tre giorni e siete
caduti in una trappola?» Un altro cenno di assenso. «Non avevate
mandato avanti gli esploratori?» Uther si limitò a inarcare un
sopracciglio. «Ebbene? Avevate mandato avanti gli esploratori?»
«Certamente.»
«E allora, in nome della Croce di Cristo, come avete potuto
cadere in una trappola?»
«Senza la minima difficoltà, zio. I nostri esploratori ci sono
passati in mezzo senza nemmeno sospettarne l'esistenza, e noi li
abbiamo seguiti.»
Mio padre sbuffò. «Immagino che ce ne parlerai, prima o poi?» Il
suo pesante sarcasmo era completamente sprecato con Uther.
«Se me lo permetti.» Abbassai la testa per nascondere un
involontario sorriso. Io non avrei osato prendere mio padre per il
naso in quel modo. Ma Uther proseguì, imperturbabile. «Alla fine
siamo arrivati sulla costa. Da quelle parti il terreno è molto roccioso,
e le tracce che seguivamo si mantenevano vicine al margine della
scogliera. Avevamo la scogliera e il mare alla nostra destra, e il
terreno saliva piano e per gradi a sinistra. Non c'erano alberi
neanche a parlarne, e i nostri esploratori stavano sulle colline, da
dove potevano vedere per miglia tutt'intorno. Li avevo mandati tre
miglia avanti e tre miglia sul fianco sinistro. Non c'era niente,
nessuno. E poi il nemico ci ha colpiti.» Fece una pausa e ci
rassegnammo ad aspettare. «Da più di un giorno ci trovavamo su un
terreno ondulato, immutabile, erboso e scoperto lungo la sommità
delle scogliere. Più in su a sinistra si affondava fino al ginocchio in
felci e ginestroni, non tanto alti da nascondere un uomo sdraiato,
ma spinosi e dolorosi abbastanza da rendere vita dura ai nostri
cavalli, e così restammo in basso, sull'erba.»
«Ecco da dove vi hanno attaccati!» Mio padre non resisteva più.
«Vi sono arrivati addosso dai ginestroni!»
Uther socchiuse gli occhi e strinse le labbra, e a lungo non disse
nulla. «No, zio, ti ho detto che non erano né fitti né alti abbastanza
da nascondere un uomo, nemmeno se si fosse schiacciato a terra. Ci
hanno attaccato dall'erba. Dal terreno scoperto!»
«É impossibile! Devo forse credere alla magia, adesso?»
«É proprio quello che mi sono chiesto quando li ho visti apparire
dal nulla. Ho pensato: É impossibile! E poi ho pensato: É magia! Lo
confesso, ho avuto paura della morte in più di un modo. Ma non
era impossibile, e non era magia. Era brillante strategia. E mi sono
ricordato che te n'eri servito tu stesso, anni fa. Eravamo in un
avvallamento, una depressione tra due promontori, forse mezzo
miglio da cresta a cresta. Ho scoperto poi che in passato - Dio sa
quanto tempo fa - un moto del suolo aveva aperto nel terreno una
grande crepa che si estendeva per quasi tutto il mezzo miglio. Era
come se tutta la scogliera si fosse piegata su un fianco, verso il mare.
In alcuni punti la crepa scendeva apparentemente per miglia, ma
altrimenti era piena di detriti, e sul fondo ci era addirittura cresciuta
l'erba. L'imboscata aveva richiesto una lunga pianificazione.
Ginestroni e felci crescevano fin sul bordo superiore della crepa, ma
l'intera lunghezza della spaccatura era completamente coperta da
una rete a maglie fitte sulla quale erano sparse zolle, ginestroni e
felci. Si erano messi sotto la rete, ben nascosti, e avevano aspettato il
nostro arrivo.»
Mio padre era cupo in volto. «Quanti erano?»
«Più di duecento.»
«Come combattevano?»
«Efficacemente, e da lontano. Erano tutti arcieri.»
«E tu che cosa hai fatto?»
«Che cosa potevo fare? Dopo la sorpresa iniziale ho guidato una
carica su per la collina.»
«E poi?»
«Sono scappati. A sinistra e a destra. In squadre alterne, e
ciascuna metà copriva la fuga dell'altra metà. Erano letali. Siamo stati
fortunati a perdere così pochi uomini.»
«Vuoi dire che vi hanno completamente battuti? Quanti ne avete
presi?»
«Quattro.»
«Quattro! Su duecento?»
«Sì, zio. Avevo altre cose a cui badare e ho deciso di rinunciare
all'inseguimento.»
«Altre cose? Quali altre cose?»
«Le urla dei miei uomini e dei miei cavalli.»
Il silenzio si protrasse per alcuni istanti.
«Uther, quello che dici non ha senso. Quali urla? Perché le urla
dovrebbero trattenerti dall'inseguire il nemico in fuga?»
Uther si chinò a riempire la sua coppa, imperturbabile. Bevve un
sorso e si risistemò sul bordo del tavolo, dove rimase, senza parlare,
a fissare il contenuto della coppa. Finalmente parlò, e le sue parole
ci agghiacciarono il sangue.
«Zio Pico, ogni uomo, e ogni cavallo, anche solo graffiato da
una di quelle frecce, è morto urlando come se stesse bruciando vivo.
Sono tutti morti in crudele agonia, con i muscoli contratti dagli
spasmi. Non ci sono state eccezioni.»
«Buon Dio!» disse mio padre. Io non trovavo parole.
Uther continuò a parlare. «Capii subito che c'era qualcosa che
non andava. In battaglia ci sono sempre delle urla, soprattutto
quando vengono feriti i cavalli, ma nel tono e nel volume di quelle
urla c'era l'impronta della demenza. Così alla prima carica cercai di
scoprire la causa, e c'era un soldato, un uomo flemmatico che
conosco da anni, che gridava come una ragazza violentata e agitava
una mano sanguinante come se volesse strapparsela dal braccio. E
vicino a lui ce n'era un altro, che scalciava e strillava, con una freccia
nella carne del braccio. Era una ferita superficiale. Non spiegava
certo quella reazione. Solo pochi uomini erano morti, zio, ma gli
altri stavano impazzendo. Ho fatto suonare la ritirata, ma anche
quando abbiamo smesso di inseguirli quei bastardi continuavano a
lanciare frecce, e ogni volta che una freccia colpiva nel segno, le urla
aumentavano.» Scosse la testa, nauseato. «Ho perso sessantatré
uomini e settantadue cavalli. Tutti morti. Tutte le ferite sono state
fatali. Nessuno si è ripreso. Ecco perché dico che siamo stati
fortunati. Anche dopo che ho richiamato i soldati, avrebbero potuto
ritornare a finire il massacro.»
«Perché non l'hanno fatto?»
Uther bevve un altro sorso di vino, poi rispose: «Perché erano
stati troppo avidi. Avevano esaurito le frecce. Sapevano fin
dall'inizio che, grazie al veleno sui barbigli, non avevano bisogno di
mirare per uccidere, così tiravano a casaccio, sperando di fare il
massimo danno nel minor tempo possibile. Hanno mancato troppi
bersagli, tutto qui».
«E non li avete inseguiti?»
«Non subito. Come ho detto, avevo altre cose a cui badare.
Allora non sapevo che tutti i feriti sarebbero morti come sono morti.
Cercavamo di aiutarli. Solo più tardi ci siamo resi conto di quanto
erano stati inutili i nostri sforzi. E ormai gli assassini erano spariti.
Avevano delle galee nascoste sotto lo strapiombo della scogliera,
davanti e dietro di noi.»
«Che genere di galee?» chiese mio padre con acuito interesse.
«Grandi. Biremi.»
«E i trenta feriti che hai detto di aver lasciato al confine? Perché
non sono morti anche loro?»
«Sono stati feriti lealmente, in battaglia.»
Mio padre si alzò e camminò per la stanza, ripensando a quello
che aveva appena saputo. «Lot avrà molto di cui rispondere, quando
ci troveremo faccia a faccia.»
Uther lo guardò con una smorfia di disgusto. «Sembra di no, zio.
I suoi due corvi là fuori dicono di non sapere niente di frecce
avvelenate. Sostengono che i nostri aggressori non erano uomini di
Lot.»
«Come può essere? Era la terra di Lot. E vi stavano aspettando.»
«Sì. Ma Lot afferma di avere perso sessanta uomini in una
battaglia contro dei predatori venuti dal mare. E quegli arcieri se ne
sono andati per mare.»
«Puah! E tu gli credi?»
«No. Non gli credo. Ma non dimostra niente.» Uther finì il suo
vino e posò la coppa sul tavolo accanto all'anca sinistra.
Parlai per la prima volta. «Allora chi erano gli uomini che hai
trovato morti? E chi erano gli altri dieci che erano stati giustiziati?»
Uther emise un grugnito di sdegno. «Per quello che ne so,
potrebbero essere stati tutti uomini di Lot. È una bestia a sangue
freddo. Sarebbe stato perfettamente capace di allestire la sua
trappola uccidendo qualcuno dei suoi, in particolare se si trattava di
ospiti delle sue prigioni, o di contestatori. Morti in quel modo, gli
sarebbero stati utili. Vivi sarebbero stati solo un fastidio.»
«Pensi davvero che potrebbe aver fatto una cosa simile?» chiesi.
L'espressione di amaro stupore di Uther fu eloquente. «Non
essere ingenuo, Caio. Certo che potrebbe! Ha usato frecce
avvelenate, no? La sua trappola ha funzionato, no? E c'è voluto del
tempo per congegnarla. Quel maiale userebbe qualsiasi mezzo per i
suoi sporchi fini.»
«E quali sono i suoi fini, Uther?» chiese mio padre a voce bassa.
«A che cosa punta in realtà questo sedicente re di Cornovaglia?»
«Vuoi che tiri a indovinare?» Uther si drizzò in piedi,
allontanandosi dal tavolo. «Io direi al dominio.»
«Dominio su che cosa?»
«Su tutta questa terra, a partire da Camulod, e su ogni persona
che ci vive.»
Mio padre accusò il colpo in silenzio, tornò a sedersi e congiunse
i polpastrelli sotto la punta del naso. Io cambiai posizione sulla sedia,
e non dissi nulla, aspettando, come Uther, che mio padre
continuasse a parlare. Infine alzò la testa e tirò su rumorosamente
con il naso, guardandomi.
«Dominio... conquistarci tutti. Ti suona familiare?»
Annuii, rammentando di avergli sentito dire quelle stesse parole.
Ma si stava già rivolgendo a Uther.
«Questi ambasciatori. Dicci qualcosa di più.»
«Non c'è molto da dire. Abbiamo proseguito fino al campo di
Lot - è un forte dalle mura di tronchi, primitivo ma ben situato incontrando lungo il cammino solo una resistenza simbolica.
Quando siamo arrivati, abbiamo trovato il forte sprangato e tutti
dentro. Ci siamo fermati fuori dalle mura e un gruppetto è uscito a
parlamentare. Ci hanno chiesto perché avevamo invaso il loro
territorio. Non ci avevano provocato. Ho chiesto di parlare con Lot,
ma non ha voluto onorarci della sua presenza. Ci siamo accampati a
un miglio dal forte. La sera sono capitati quei due tizi con il vescovo,
e quello che hanno detto mi ha convinto che non ci avrei
guadagnato molto a restarmene lì seduto. I rifornimenti potevano
arrivare dal mare. Ho deciso di tornare a casa a cambiare il
raggruppamento dei miei soldati, dopo aver fatto rapporto e
ottenuto il beneficio del tuo consiglio. Siamo ripartiti il giorno dopo.
Due giorni fa abbiamo sorpreso un piccolo esercito di Sassoni,
Sassoni veri. É in quell'occasione che ci sono state le altre vittime. Tre
sono rimasti uccisi e gli altri sono stati feriti. I Sassoni hanno
combattuto fino alla morte. Li abbiamo distrutti. É tutto quello che
ho da dire.»
«Ci sono stati trenta feriti in quel combattimento?»
«No. Una ventina. Ventidue, per l'esattezza. Gli altri sono rimasti
feriti durante la resistenza simbolica a cui ho accennato prima. Il
combattimento lungo la strada per il forte di Lot.»
«Aspetta, Uther. Fammi capire bene. Hai raggiunto il forte di
Lot, il suo campo principale, senza quasi nessuna difficoltà, a parte
quell'incontro con gli arcieri. Sei arrivato e l'hai trovato sbarrato, e
tutti erano all'interno. È corretto?»
Uther annuì.
«Fuori non c'era nessuno?»
«Nemmeno un'anima.»
«Quindi avreste potuto assediarli?»
«Sì, avremmo potuto. Ma a che scopo, e con che giustificazione?
Non avevo prove che si fosse mosso contro di noi, nessuna prova.
Sembrava che fossimo noi gli invasori, gli aggressori immotivati, sulla
sua terra. Ha al soldo degli abili negoziatori. Comunque, io avevo
solo quattrocento uomini. Non avevo modo di sapere quanti
avrebbe potuto metterne in campo lui. E aveva il mare alle spalle. Se
quelle galee che avevamo visto erano veramente le sue, avrebbero
reso ridicolo ogni tentativo di assedio. Il suo forte è costruito
proprio sopra la costa, sulla scogliera.»
Mio padre aveva ripreso a camminare avanti e indietro, girando
continuamente la testa per tenere gli occhi fissi su Uther. «Lot ti ha
fatto credere di essere l'aggressore. Non ha fatto mosse
dichiaratamente ostili. Ha finto di non sapere niente di quella
disgustosa faccenda delle frecce avvelenate, e ha inviato questi due
"ambasciatori" a parlare con noi.»
Puntò gli occhi su di me. «Caio, il pensatore sei tu. Che cosa sta
cercando di ottenere? Ha in mente qualcosa.»
«Chiaramente» riconobbi, «ma temo che non scopriremo niente
se non ascolteremo la sua ambasciata. Uther, hanno fatto qualche
riferimento all'attacco da nord degli Iberni?»
Scosse la testa. «Nessuno.»
Mio padre fece schioccare il pollice e l'indice. «Hai ragione, Caio!
Sta cercando di guadagnare tempo. Ma a quale scopo?»
«Lo scopo apparente non ha importanza, padre. É il tempo che
conta, ne sono convinto, e credo di sapere come e perché, ma devo
chiedere a entrambi di avere pazienza con me e con le mie domande
apparentemente sciocche. Rimandando indietro con te i suoi uomini,
Uther, era certo di guadagnare sia tempo sia informazioni. Se con gli
Iberni avessimo perso, o se ne fossimo stati massacrati, saresti stato
accolto molto diversamente. I suoi "ambasciatori" avrebbero potuto
presentargli un rapporto dal loro personale punto di osservazione. E
lo faranno, perché Lot non sa che noi sappiamo della sua alleanza
con gli Iberni.»
«Che cosa stai dicendo?» Uther si era scurito in volto. «Il doppio
attacco non era una coincidenza? Lot si è alleato con i barbari?»
«Sì» gli risposi. «Lui e la sua gente sono stati impegnati a fare
amicizia con gli Scoti dell'Ibernia. Amici che potevano aiutarlo
militarmente via terra, e rifornirlo generosamente per mare
nell'eventualità chela sua roccaforte subisse un assedio.»
«Come l'hai scoperto?»
«Per caso» intervenne mio padre. «Cai ha fatto un patto con un
principe nemico. L'ha preso in ostaggio in cambio delle vite di un
migliaio dei suoi uomini.»
Uther mi guardò dubbioso.
«Ha funzionato bene» dissi prevenendo la sua domanda. «Mi
fido di quell'uomo. La sua parola reggerà, e ciò significa che mentre
lo tratterremo il popolo di suo padre non si muoverà contro di noi.
Cinque anni. É stato lui a dirci dell'alleanza.» Uther era confuso.
«Non capisci ancora, Uther?» lo incalzai. «Lot non può sapere come
sono andate le cose. Per quanto ne sa, noi crediamo di essere
attaccati da predatori dell'Ibernia. Se riusciamo a respingerli, ci
costerà; quanto più, tanto meglio, dal suo punto di vista. Nel
frattempo, con un diversivo calcolato per coincidere con il loro
attacco, ci obbliga a dividere le nostre truppe. Ciò ottenuto, si ritira
davanti a noi senza provocarci, e facendoci passare per aggressori.
Poi ti attacca, massacra i tuoi uomini e il morale di tutti, ma si da la
pena di mantenere un'apparenza di innocenza. Dev'essere stato
parecchio deluso dalla piccola entità delle tue perdite. A ogni modo,
essendo la parte offesa e innocente, ha il diritto di mandare dei
messaggeri con addolorate rimostranze per la nostra invasione delle
sue terre. Queste spie, in virtù della loro aria di innocenza, gli
riporteranno in fretta la notizia del successo dei suoi alleati contro di
noi. Comunque si risolva la faccenda, ha guadagnato tempo e
informazioni sulle nostre condizioni e sul nostro grado di prontezza
nell'eventualità di un ulteriore attacco. Ma soprattutto le sue spie
potranno valutare la nostra effettiva forza in termini di uomini e di
cavalli dopo che abbiamo sostenuto un'aggressione su due fronti.»
Nel corso del mio riassunto, mio padre aveva dimostrato con
cenni di assenso la sua tetra approvazione. Quando Uther parlò,
nelle sue parole c'era un tono di involontaria ammirazione.
«Quel bastardo! Che tortuoso, infido, amorale...»
«Già, e molte altre cose, Uther» dissi interrompendolo. «Ma
includi geniale, e scrupoloso. Se fosse dalla nostra parte, sarebbe uno
dei nostri principali strateghi. La falla nel suo piano è stata
accidentale. Abbiamo rovesciato le posizioni e stretto un accordo
con i suoi alleati, e ne siamo usciti con più informazioni di prima
mano di quanto Lot potesse prevedere.»
«Va bene, Caio» disse mio padre. «Sei entrato nella mente del
nostro antagonista meglio di quanto avrei potuto fare io, o avrebbe
potuto fare Uther. Io non trovo nessun difetto nella tua logica e
nelle tue deduzioni. Ma confesso che la tua allusione al tentativo di
guadagnare tempo mi lascia interdetto. Perché dovrebbe aver
bisogno di tempo? Per che cosa? Che cosa ci possiamo aspettare?»
«Sto pensando adesso che potrebbe averlo già guadagnato.»
Annuirono, con lo sguardo intento, e mi presi qualche secondo per
organizzare le parole. «Credo che Lot sia qui, vicino a noi, in questo
momento. Credo che ci attaccherà appena potrà, con tutti gli uomini
a sua disposizione, prima che possiamo prepararci. Uther, hai una
vaga idea delle forze armate che aveva nascosto dentro le mura?»
Una breve scossa del capo. «Assolutamente nessuna idea. Il forte
avrebbe potuto essere vuoto, o avrebbero potuto esserci cataste di
uomini, impilati uno sull'altro come tronchi. Non posso saperlo.»
«È quello che pensavo. Allora, tenete bene in mente con che tipo
d'uomo abbiamo a che fare e fate lavorare l'immaginazione. Uther,
tornato a Camulod, avrebbe potuto trovarsi di fronte una di queste
tre situazioni: la prima, e più desiderabile dal punto di vista di Lot,
che fossimo stati sconfitti dagli invasori scoti, e di conseguenza Uther
sarebbe caduto in una trappola mortale; la seconda, che fossimo stati
in qualche misura vittoriosi, ma non credo che Lot avrebbe potuto
prevedere una vittoria così completa, perché Dio era chiaramente
dalla nostra parte e Lot non ha niente a che spartire con nessun dio,
e allora Uther ci avrebbe trovati intenti a leccarci le ferite e a
recuperare le forze; la terza, che fossimo ancora impegnati nella
campagna contro gli invasori, e in questo caso a Camulod Uther
avrebbe trovato solo una guarnigione. Una qualunque di queste tre
possibilità sarebbe andata a vantaggio di Lot. Ricorda che le sue spie
cavalcano con te, Uther, e si suppone che tu sia convinto
dell'incolpabilità di Lot, malgrado la personale avversione che
potresti avere nei suoi confronti. Siete d'accordo con me, finora?»
Annuirono, attenti.
«Ora, se io fossi subdolo come Lot, ci attribuirei sufficiente
malizia da fare aspettare quei due uomini un giorno almeno, due o
tre se siamo fortunati. Se gli Scoti sono stati vittoriosi, Lot non ha
problemi. Se abbiamo vinto noi, allora ci serve tempo per curarci le
ferite e riorganizzarci, e dovremmo sentirci sollevati sapendo - a
dispetto di eventuali cattivi presentimenti da parte di Uther - che il
problema nel sud-ovest era senza fondamento.» La mia logica era
ineccepibile, ma portava a conclusioni che sorprendevano perfino
me. Trassi un respiro profondo prima di esporre il risultato delle mie
elucubrazioni.
«Padre, Uther, sono pronto a scommettere che Lot si è attaccato
alle calcagna di Uther, e adesso è a meno di due giorni di marcia da
qui, con il suo esercito al completo, e aspetta il ritorno delle sue spie.
Se non arrivano entro due giorni, saprà che a nord non ci hanno
sconfitto. Se ascoltiamo i suoi inviati e li rimandiamo indietro
immediatamente, domani, allora lo saprà entro tre giorni e sarà
comunque più vicino di quanto sospettiamo. Se invece li facciamo
aspettare per due, tre giorni, avrà tutto il tempo di schierare il suo
esercito e di colpirci da ogni direzione, all'improvviso. Si servirà della
partenza delle spie come segnale per attaccare, oppure si muoverà
contro di noi mentre sono ancora qui.»
«Sacrificherebbe i suoi amici senza pietà?» Mio padre pensava
ancora a Lot in termini di umana decenza.
«Quell'uomo non ha amici, padre. Non ci penserebbe due volte.
Credo che Lot di Cornovaglia abbia intenzione di iniziare una guerra
totale contro di noi, fra non meno di tre e non più di cinque giorni
da oggi. Diciamo fra quattro giorni, ma teniamoci pronti per tre. E
sarà davanti ai nostri cancelli.»
Un silenzio interminabile seguì le mie affermazioni. Fu mio
padre a infrangerlo, nel tentativo di aggrapparsi a una tenue
speranza. «Cai, non discuto la tua logica, ma ha un difetto. Là fuori
c'è la nostra gente, sparsa per tutte le nostre terre. Se l'esercito di Lot
cercasse di avvicinarsi, anche se con prudenza, l'avremmo saputo.»
Scossi la testa mentre ancora parlava, negandogli anche quella
via di scampo, che avevo già preso in considerazione.
«Tu credi, padre? Non dimenticare i suoi duecento arcieri con le
frecce in grado di uccidere con un graffio. Quelli potrebbero
muoversi in circolo intorno a noi su un fronte largo un miglio, e
uccidere ogni anima vivente. Specialmente se lo facessero di
soppiatto. Non abbiamo così tanta gente là fuori, e quelli che
abitano nelle fattorie, dopo aver lavorato tutto il giorno, tendono a
riunirsi. Non ci sarebbero superstiti in grado di raggiungerci con un
avvertimento. La stessa cosa vale per sentinelle e avamposti. Frecce
avvelenate! Basta una scalfittura. Uther, quanto impiega un uomo a
morire?»
«Tutti gli uomini che ho perso sono morti in mezz'ora. La
maggior parte è morta in metà tempo.» Guardava mio padre, e mio
padre ascoltava, pallido in volto.
«Padre» dissi più dolcemente che potei, «dobbiamo supporre che
le persone dentro e intorno a Camulod, le persone che possiamo
udire e vedere, siano le uniche persone ancora vive in tutta la
regione, sempre escludendo i nostri nemici.»
«É mostruoso!»
«Mostruoso e malvagio. Ma è tipico di Lot di Cornovaglia, che è
un mostro malvagio.»
Lo avevo convinto. «Va bene! Che cosa suggerisci di fare?» Era
tornato a essere se stesso. Cambiai tono di voce.
«Ci muoviamo, immediatamente. Uther, cugino, non potrai
riposarti molto stanotte. Meglio convocare Tito e Flavio. Avremo
bisogno di loro.»
Percosse il piccolo piatto d'ottone sul tavolo e diede gli ordini
necessari al soldato che si presentò alla sua chiamata.
Uther sospirò e distese le membra. «Che cosa hai in mente, Cai?»
«I tuoi inviati. Non voglio che sospettino che ci stiamo
mobilitando. Non devono sapere niente. L'unica cosa che voglio che
pensino è che siamo stupidi e ignari come credono che siamo. Per
fortuna, se i miei sospetti sono esatti, daranno per scontato il modo
in cui li trattiamo. Li voglio sottoposti a una sorveglianza discreta,
ma voglio che siano al corrente della sua esistenza. Tienili lontani da
qualsiasi luogo o persona che possa far loro subodorare che cosa
stiamo facendo. Ho già chiesto ai sovrintendenti dei nostri
allevamenti di radunare tutti gli animali per un censimento. Abbiamo
preso tali accordi per puro caso, prima che avessimo sentore di
questa faccenda, ma significa che i nostri cavalli saranno tutti dove ci
servono. Lot sa già che Uther aveva quattrocento uomini a cavallo,
perciò si aspetterà di trovarli qui. Va bene. Saranno qui, ma sto
pensando alla differenza di più di seicento cavalli di cui mi hai
parlato, padre. Sappiamo di essere più forti di quanto chiunque altro
si immagini. Sarei sorpreso se avessimo nella nostra Colonia meno di
settemila anime, distribuite tra campi e fattorie.» Cercavo una
conferma, ma nessuno dei due rispose.
«Ne convenite? Circa settemila persone, contando donne e
bambini?»
Mio padre annuì. «Sì, come minimo. Il nostro numero è cresciuto
costantemente negli anni. Ci sono più di duemila persone qui a
Camulod, dentro e fuori le mura. Ci siamo sempre concentrati sulla
nostra forza - sulla nostra capacità di difenderci - ma negli ultimi
anni, per una questione o per l'altra, abbiamo perso di vista le cifre.»
«E i registri?»
«Il fatto è che da un po' di tempo nessuno li verifica. L'ultimo
conteggio che ricordo stabiliva il nostro numero intorno alle
quattromila unità, ma sono già trascorsi alcuni anni.»
«Quanti anni?»
«Quattro, forse cinque. La nostra priorità era produrre
abbastanza cibo per nutrire tutti. Abbiamo diboscato altra terra e
ripreso a coltivare molte fattorie abbandonate nelle zone periferiche.
Rammenti? Eri preoccupato perché sarebbe stato necessario
aumentare i pattugliamenti.»
«Lo rammento bene» dissi. «Ma credo che quando controllerai gli
archivi sarai stupito di vedere quanto siamo cresciuti di numero.»
Uther mi interruppe. «Hai perso il filo del discorso, Cai. Stavi
parlando dei miei quattrocento cavalieri. Che cosa volevi dire?»
«Che dovrebbero rimanere qui, a difendere il forte. Nel
frattempo, vorrei fare uscire in segreto dalla Colonia un altro
migliaio di uomini a cavallo.»
«Un migliaio?»
Scrollai le spalle. «Forse non saranno tutti montati su cavalli da
cavalleria, ma scommetto che i cavalli ce li abbiamo, e abbiamo gli
uomini. Gli uomini non avranno nemmeno un equipaggiamento
completo, ma potranno stare su un cavallo e impugnare una lancia,
e quando appariranno inattesi alle spalle dell'esercito di Lot, lo
spaventeranno a morte!» Mi imploravano con lo sguardo che li
convincessi. «Uther. Dove sono alloggiati adesso i tuoi
quattrocento?»
«Nella vecchia stalla di Vittore. Ma li abbiamo congedati per
quarantott'ore, ricordi?»
«Dannazione! Beh, è accettabile. Rimarranno nei dintorni e
saranno richiamati in servizio non appena conclusa la licenza. Sono i
nostri uomini migliori. Speravo di sostituirli con soldati di minor
valore, ma non importa. Quando toccherà a loro, saranno
inestimabili. Bada per favore che siano di nuovo qui in servizio
domani sera. Gli altri mille li prenderò da campi e fattorie. Voglio
una colonna di mille uomini a cavallo pronti a partire per nord-est
domani a mezzogiorno. Anche più numerosa, se ci riusciamo. Il
commissariato dovrà ricevere al più presto l'ordine di preparare
razioni per dieci giorni per almeno mille uomini. Dovremo farli
disperdere a ventaglio. Non voglio che siano visibili le tracce di mille
uomini a cavallo. Non mi interessa come, ma è essenziale. Se ho
ragione, gli uomini di Lot arriveranno da sud e da ovest. I nostri
avranno la possibilità di dirigersi a nord e a est se si muovono in
fretta, ma se lasceranno evidenza del loro passaggio Lot saprà che
sono là fuori. Inoltre, voglio richiamare tutti gli uomini dagli
avamposti di confine. So che potrebbe insospettire Lot, ma
annunceremo un giorno di festa per un qualsiasi motivo. Voglio solo
che tornino qui, pronti a mettersi al sicuro dentro le mura. Ricordate
che dobbiamo mostrare di credere che non ci sia più pericolo.
Possiamo allentare la vigilanza. Come stiamo a provviste? Siamo in
grado di sostenere un assedio, padre?»
«Sì, per almeno un mese.»
«Bene. Con un po' di fortuna, non ci vorrà così tanto tempo. Nei
prossimi giorni dovremo riempire i magazzini e i depositi della villa,
e prepararci a trasferire le provviste qui nel forte al primo accenno di
pericolo. Ho trascurato qualcosa?»
«E la gente?» disse Uther. «I coloni qui al forte? Non dovremmo
avvisarli?»
Riflettei brevemente e lo proibii con un secco cenno del capo.
«Non possiamo permettercelo, Uther. È troppo rischioso. Devono
comportarsi normalmente, a beneficio degli osservatori. Possiamo
solo fare avvicinare al forte più gente che sia possibile. Certo, se
dichiariamo un giorno festivo, per festeggiare le nostre vittorie e il
tuo ritorno sano e salvo, allora li attireremo qui. Si potrebbe fare
domani. Non abbiamo mai fatto niente del genere.»
«Non così all'improvviso, comunque» disse mio padre.
«Tanto meglio, allora.» Provavo quella sensazione positiva che
viene dal riconoscimento di una buona idea. «E senza precedenti.
Una festa spontanea. Voglio che tutti credano che i festeggiamenti
incominceranno domani sera e continueranno per tutto il giorno
seguente. Padre, dovrai fare in modo che l'invito sembri autentico, e
tuttavia perentorio. Tutti devono partecipare. Dovrai anche
informare il Consiglio di quello che sta succedendo.»
«Dovrò farlo comunque.»
«Allora fallo, al più presto, ma prima indici la festa. La nostra
gente deve essere qui al sicuro non appena possibile. Nel peggiore
dei casi, quante persone possiamo ospitare a Camulod?»
«Più di quelle che abbiamo. Molte di più. Nessun problema.»
«Bene. I nostri coloni si sono addestrati per anni. Possiamo solo
sperare che il loro addestramento sia stato adeguato.»
A quel punto, Tito annunciò il suo arrivo con un colpetto di
tosse sulla soglia della porta aperta, e Flavio apparve dietro di lui.
«Entrate, tutti e due» disse mio padre, «e chiudetevi la porta alle
spalle. Avvicina quella sedia, Tito. Flavio, ne troverai un'altra in
quella stanza. Abbiamo tra le mani una situazione di emergenza.»
Era quasi mezzanotte quando uscimmo da lì. Tutti sapevano che
cosa bisognava fare, ognuno conosceva la propria parte
nell'operazione, e ciascuno di noi era conscio della necessità di agire
rapidamente e con discrezione. Avevamo avviato una campagna di
vaste proporzioni, e l'esistenza stessa della nostra Colonia dipendeva
dalla celerità e dall'efficienza con cui l'avremmo condotta.
La mia parte iniziale era semplice e chiara. Dovevo avvertire
Ludo e il commissariato dell'urgenza di esaudire le nostre inaspettate
richieste. Rientrava sotto la mia responsabilità anche provvedere al
trasferimento di scorte e provviste nella foltezza. Avrei potuto farlo
l'indomani, senza sollevare sospetti; poiché avevo già preso accordi
per il censimento, nei nostri depositi sarei stato atteso. Nessuno si
sarebbe stupito del mio arrivo.
Ma sopra a ogni altra cosa, nella mia mente si stendeva
un'ombra, che avevo creato io quel pomeriggio con le mie parole,
affermando che solo chi potevamo udire e vedere era sicuramente
ancora vivo. La sicurezza di Cassandra mi ossessionava. Sapevo che il
suo rifugio era ben nascosto e ben discosto dalle vie battute. I
predoni di Lot non avrebbero cercato segni di vita in cima alla sua
collina. Ma l'immagine del sentiero appena percettibile che
attraversava la valle fino al suo nascondiglio mi terrorizzava, e non
avrei avuto pace finché non mi fossi accertato che non esistevano
tracce del mio ingresso o della mia uscita. Pur sapendo di essermi
sempre dato grande pena per non lasciare traccia dei miei
movimenti, decisi di essere da lei prima dell'alba, per controllare
ancora una volta la sicurezza del suo nascondiglio.
Lasciai l'alloggio di mio padre e andai diritto nelle cucine, dove
Ludo era ancora al lavoro. Incontrai uno dei miei uomini che usciva.
Essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato fu la sua disgrazia.
Lo mandai alla villa con un messaggio per Strato, il nostro
massaggiatore, di abbassare i fuochi e preparare la stanza del vapore,
e di tenersi pronto a darmi una bella strapazzata entro le successive
due ore. Gli dissi anche di far sellare il mio cavallo e di aspettarmi
con le guardie al cancello principale.
Ludo fu sorpreso di vedermi a quell'ora. Aveva sovrinteso alla
pulizia generale delle sue cucine e stava per andarsene a letto. Il
refettorio era vuoto. Lo feci sedere e gli spiegai che cosa volevo da
lui, e fece una smorfia di disappunto quando si rese conto che nei
pochi giorni successivi sarebbe stato più occupato del previsto. Lo
lasciai alle prese con il suo inventario, e andai a raccontare tutta la
storia a Questuo, il quartiermastro anziano. Almeno lui era riuscito a
dormire parecchie ore prima che sconvolgessi i suoi orari, e accettò
la situazione con filosofia, riconoscendo l'urgenza della situazione e
impegnandosi subito a risolverla.
La mia sosta successiva fu all'alloggio di Lucano, il nostro ufficiale
medico. Dalla faccenda della sparizione di Cassandra intrattenevamo
un educato rapporto di mutuo rispetto, ma pensavo che non
saremmo mai stati amici, o più che formalmente cordiali nelle nostre
relazioni. Anche lui dormiva da ore, ma la sua disciplina lo aveva
abituato alle chiamate più intempestive, e mentre lo mettevo al
corrente lo vedevo prendere mentalmente nota delle scorte di
bende, stecche, medicamenti e simili. Anche con lui sottolineai la
necessità di nascondere tutti i preparativi agli occhi degli
ambasciatori in visita.
Quando lo lasciai era la parte più buia della notte. Mi avvicinai
al cancello principale con una torcia ormai fioca, e per due volte le
sentinelle mi intimarono di fermarmi. Avevo completamente
dimenticato la promessa di parlare con il giovane Donuil. Il mio
cavallo era sellato e pronto secondo gli ordini, e le guardie mi
osservavano con espressione interrogativa.
«Il soldato che ho mandato alla villa è già tornato?»
«Sì, comandante. Circa un'ora fa.»
«Bene. Starà dormendo ormai. Uomo fortunato. E il
massaggiatore alla villa starà maledicendo la mia insonnia, che
adesso è la sua. Quanto manca all'alba?»
Si scambiarono un'occhiata, e la guardia che mi aveva risposto
prima rispose ancora: «Circa due ore e mezza, comandante».
«Per quell'ora sarò, lavato, profumato, massaggiato e sveglio,
anche se il mio nome non verrà certo pronunciato con gentilezza
dalle persone che avrò tenuto sveglie.» Consegnai la torcia
sgocciolante e mi sollevai in sella. «Il guaio di essere pronti per fare
un lavoro antipatico e sgradito è che nessun altro lo è mai. Buona
notte!» Aprirono i cancelli e mi lasciarono uscire, e li vidi che si
guardavano, indubbiamente d'accordo sul fatto che tutti gli ufficiali
erano dei pazzi e dei tiranni prepotenti.
La luna era tramontata, ma il cielo era limpido, e quando i miei
occhi si abituarono alla luce delle stelle mi accorsi che era chiaro a
sufficienza per guidarmi fino alla villa, dove i fuochi splendevano
nella casa dei bagni.
XIX.
Meno di due ore dopo ero di nuovo a cavallo, diretto verso
Avalon e Cassandra. Mi ero goduto il vapore e l'acqua e mi ero
riposato, ero stato lavato e profumato, sfregato e picchiettato e il
mio corpo era tutto un piacevole pizzicore. Mi sentivo bene, e la
mia mente era sintonizzata sul problema che ci minacciava, e sui
passi che avremmo compiuto per neutralizzarlo. Arrivai in cima alla
collina che ancora le prime luci dell'alba non erano apparse nel cielo,
legai il cavallo più in basso e mi sedetti sulla vetta a rimirare il cielo
d'Oriente che dava vita al nuovo giorno, e a contemplare i miei
pensieri sulla giovane donna che dormiva profondamente nella
valle.
Non appena ci fu abbastanza luce, andai all'ingresso del sentiero
e perlustrai il terreno. Non c'erano segni di passaggio umano.
Sembrava che da anni nessuno lo percorresse. Ero sempre stato
molto attento a non lasciare tracce e il sentiero, pur essendo
chiaramente un sentiero, era coperto di vegetazione, e indisturbato.
Dovevo accontentarmi, perché sarebbe stato impossibile occultarlo
completamente. Mi chiesi se avessi dimenticato qualcosa, qualsiasi
cosa che potesse in qualche modo rivelare il rifugio di Cassandra a
uno sguardo casuale, ma non mi venne in mente niente. In mente
avevo tuttavia una dozzina di subitanee buone ragioni per scendere
da lei. Dovevo controllare che avesse abbastanza cibo e legna, per
esempio. Dovevo accertarmi che la capanna fosse calda abbastanza,
adesso che le notti erano più fredde, e mi accorsi di non aver
portato con me gli abiti che zia Luceia mi aveva dato. Mi maledissi
per la mia sbadataggine, ma mi consolai pensando che avrei avuto
un buon pretesto per tornare a portarglieli. Pensai al vero motivo
per cui volevo vederla, e mi si indurì il ventre al pensiero di entrare
nel suo letto caldo e di sentire i suoi muscoli giovani e tesi contro di
me. Stanotte, promisi a me stesso, e ridiscesi verso il cavallo.
Proprio sul ciglio della vallata mi fermai di colpo, inorridito,
rabbrividendo per l'effluvio del fumo di legna soavemente sospinto
dal vento. Il fuoco del camino! Doveva averlo acceso o riacceso
dalle braci, alimentandolo con rami e ramoscelli, e se lo sentivo io
da lì, dalla stessa distanza l'avrebbe sentito chiunque. Tornai sui miei
passi, domandandomi già come l'avrei persuasa a vivere senza fuoco
per almeno una settimana. Dovevo convincerla del pericolo senza
risvegliare in lei la paura della violenza.
Non dubitai di essere il benvenuto quando mi vide entrare nella
sua piccola valle. Mi si strinse addosso, e la sua bocca calda mi coprì
il volto di baci che io fui ben contento di ricambiare. Ma mi frenai,
la allontanai con dolcezza, e la tenni per i polsi finché non mi
guardò in fiduciosa attesa. Quando fui sicuro di avere la sua
attenzione, indicai il fuoco e feci mostra di annusare il fumo.
Dapprima corrugò la fronte, poi si rilassò e sorrise, e si mise a tirare
la stoffa della sua tunica, cercando di sollevarla verso di me con una
mano e facendomi cenno con l'altra di avvicinarmi. Pur non
comprendendo che cosa avesse in mente, mi avvicinai, e senza
opporre resistenza lasciai che attirasse il mio volto contro la tunica.
Odorava di fumo di legna! Mi aveva capito.
Incoraggiato, sorrisi e le feci segno di sì; ritornai al fuoco e con le
mani aperte tracciai il percorso del fumo che saliva verso l'alto, tra
gli alberi e sopra gli alberi. Seguì con lo sguardo il movimento e mi
fissò con un sorriso incerto. Rimasi serio e mimai il modo in cui il
fumo si spostava e come io, o chiunque altro, potevo accorgermene.
Con le narici frementi come quelle di un coniglio, simulai sorpresa,
riconoscimento, poi una ricerca in mezzo ai cespugli, sempre
annusando, e infine la scoperta del suo fuoco.
Capì, e seguitò a fissarmi incuriosita. Persuaso che nessuno dei
miei gesti le sarebbe sfuggito, andai al mucchio di legna accanto al
fuoco e scelsi dei rametti secchi che avrebbero bruciato con
pochissimo fumo. Li portai a breve distanza dal fuoco e li accesi con
un ramo tolto dal camino. Allora le mostrai che bruciavano bene, e
che quasi non facevano fumo. Poi andai al cespuglio più vicino e
strappai un ramoscello verde, e lo gettai sul fuoco grande. Il fuoco
fece subito fumo, e allora tolsi il ramoscello e lo pestai sotto i piedi.
Tolsi l'elmo, andai al laghetto e lo riempii d'acqua, e con l'acqua
spensi il fuoco grande, lasciando che il fuoco piccolo seguitasse a
bruciare senza fumo.
Fece un vigoroso cenno di assenso con il capo per dimostrarmi
di aver capito, e poi indicò il ramoscello verde che avevo calpestato.
Agitò le braccia per indicare il fumo e scosse la testa in una ferma
negazione. Niente più fumo. Sospirai di sollievo e di gratitudine per
la sua chiara intelligenza, ma la successiva serie di movimenti mi
rimise in affanno. Prese l'elmo dalle mie mani e lo tenne diritto, e
appoggiò una mano sulla corazza di bronzo, poi estrasse la spada
dal fodero tenendolo fermo con l'elmo. Non tentai nemmeno di
impedirglielo. Guardò la spada e poi me e poi indicò le colline
intorno a noi, roteando la spada, e annusò, cercando l'origine
dell'odore, e tutto ciò significava: indossi l'armatura, sei abbigliato
per la guerra, e vuoi dirmi che ci sono altri lassù, nemici, che
potrebbero sentire l'odore del mio fuoco.
Annuii lentamente, con enfasi, e Cassandra ricambiò il mio
cenno di assenso. Poi rimise la spada nel fodero, tornò al lago a
riempire l'elmo, e spense quel che restava del fuoco. Era
perfettamente calma e compassata, e compresi che dalla valle non
sarebbe venuto fumo fino al mio ritorno. La strinsi per le braccia con
dolcezza, e guardai i grandi occhi che osservavano le mie labbra.
«Donna» le dissi, sorridendo, «bellissima, meravigliosa donna, tu
mi hai stregato!» Vide muoversi le mie labbra, e inclinò leggermente
la testa in quel suo modo incantevole, poi si avvicinò e mi abbracciò,
armatura e tutto. Il tempo passò, e restammo abbracciati non so per
quanto, e a un tratto ridivenni consapevole di chi ero e dov'ero, e di
che cosa ancora dovevo fare. Sentì che mi irrigidivo, e si appoggiò
all'indietro contro le mie braccia, alzò un sopracciglio e puntò il dito
verso il sentiero.
La baciai e la lasciai, odiando il tempo e la velocità con cui
passava. Raccolsi l'elmo, e indicai di nuovo i resti del fuoco con una
scossa del capo che lei ripeté. Non avrebbe dimenticato. Un ultimo
frettoloso bacio, e ritornai al mondo esterno. Il cavallo mi venne
incontro nitrendo, e mi issai in sella con un sospiro di rimpianto.
Subito lo spinsi al galoppo sulla strada che portava
all'allevamento più vicino, e mi affidai a lui, guardandomi intorno in
ogni direzione per sorprendere l'eventuale presenza del nemico. Ero
tutt'altro che socievole quando arrivai alla fattoria di Terrice e
convocai l'ufficiale anziano. Gli spiegai concisamente la situazione, e
la necessità di far muovere immediatamente i suoi uomini, in piccoli
gruppi, verso nord e verso est. Senza commentare mi ascoltò
sottolineare il pericolo di tracce o indizi che potessero far pensare
che un gran numero di cavalli e uomini avessero lasciato la zona.
Quando ebbi finito di parlare, gli chiesi se avesse domande.
«Solo una, comandante. Dove devono andare? So come vuoi
che i miei uomini si muovano, ma non so dove vuoi che vadano.» Il
suo tono di voce aveva una sfumatura indefinibile, ma che mi fece
capire quanto ero ingiusto nei confronti di quell'uomo, che non
aveva fatto nulla che giustificasse una simile asprezza. Mi sforzai di
moderare il mio rigore e di sorridere.
«Ti chiedo perdono. La mia mente è occupata da tanti dettagli
che tendo a perdere di vista gli obiettivi più grossi. Anni fa, prima di
rientrare nei nostri confini, avevamo stabilito un campo verso nordest, in direzione di Aquae Sulis. Te lo ricordi?»
Annuì, con un sorriso. «Sì, comandante Merlino, me lo ricordo
bene. Ero secondo in comando, appena prima che lo
abbandonassimo.»
«Allora conosci il posto. Quello sarà il nostro punto di adunata.
Raccogli lì i tuoi uomini e aspetta insieme ai contingenti delle altre
fattorie che il comandante Uther e io ci uniamo a voi. Saremo lì
prima di mezzogiorno del terzo giorno a partire da oggi. Al nostro
arrivo dovrete essere pronti a partire.»
«Per tornare qui?»
«Sì, o dovunque compaia il nemico. Ma c'è un'altra cosa. Che i
tuoi uomini carichino tutto il materiale in eccesso e lo trasportino a
Camulod non appena possibile. Non voglio che rimanga in giro
niente che gli uomini di Lot potrebbero usare.»
«E il bestiame?»
«Al forte. Le stalle saranno affollate per un po', ma ce la
caveremo. Adesso è meglio che ti sbrighi. Devo visitare altre cinque
fattorie prima di metà mattina. E fai in modo che i tuoi uomini si
rendano conto dell'importanza di questa azione. Dobbiamo
affrontare una minaccia alla nostra stessa sopravvivenza.»
«Non preoccuparti per noi, comandante Merlino. Faremo il
nostro dovere.»
«Bravo.»
A mezzogiorno ero di nuovo a Camulod, avevo completato i
miei giri, e potei per un'ora o due controllare l'andamento delle
disposizioni che avevo dato la notte precedente. Mi stavo
congratulando con me stesso per come tutto si svolgesse secondo i
piani, quando sentii sussurrare il mio nome, guardai alla mia sinistra
e vidi il giovane Donuil che mi faceva cenno dall'ingresso del suo
alloggio. Solo allora ricordai che gli avevo promesso di parlare con
lui la sera prima, ma il senso di colpa si perse subito nella mia
curiosità per l'insolita segretezza. Mi avvicinai, e lui scomparve
all'interno. Mi fermai sulla soglia, appoggiandomi allo stipite.
«Donuil? Che cosa c'è? Ti stai nascondendo? Che cos'hai
combinato?»
«Entra, Caio Merlino, e chiudi la porta. Devo parlarti!»
Entrai e chiusi la porta dietro di me. Il suo alloggio era simile al
mio, ma era più piccolo e più buio, con una finestrella che lasciava
entrare la luce indispensabile. Era seduto nell'ombra sul bordo del
letto, ed ebbi l'improvvisa, spiacevole sensazione che non fosse del
tutto in sé. Rimasi a fissarlo a lungo, in attesa che parlasse, e infine
mi spazientii.
«Che cosa sta succedendo, Donuil? Perché tanta segretezza?»
«Avresti dovuto venire da me ieri sera, comandante Merlino.
L'avevi promesso. Ho aspettato tutta la notte.»
Risi piano in preda a un lieve imbarazzo. Sembrava un amante
abbandonato. «Mi dispiace. Ne avevo l'intenzione, ma abbiamo
dovuto affrontare un'emergenza, e la tua richiesta mi è passata di
mente.»
«Che genere di emergenza può far dimenticare una promessa a
un uomo come te? Aveva forse a che fare con gli uomini di Lot?»
Scrollai le spalle. «Suppongo che si potrebbe dire così, ma non...»
Mi interruppi, rendendomi conto di che cosa mi aveva chiesto.
«Come sapevi che erano gli uomini di Lot?»
«Perché li conosco. Era di questo che volevo parlarti. Ed è per
questo che me ne sto chiuso in camera. Non voglio che sappiano che
sono qui.»
«Perché? Hai paura di loro?»
Dall'ombra i suoi occhi mandavano lampi. «Sì, e ho ragione di
averne. E dovresti averne anche tu. Sono uomini di cui avere paura,
quei due.»
«Come mai? Perché dovrei avere paura di loro? Sono qui per
una pacifica missione diplomatica.»
«Disilluditi, comandante. Quei due sono incapaci di trattare
qualsiasi cosa che riguardi la pace. Sono assassini. I migliori di re Lot,
o i peggiori, secondo il punto di vista.»
Mi diressi all'unica sedia nella stanza e appoggiai un piede sul
sedile. «Come fai a saperlo, Donuil? Li hai incontrati personalmente?»
«Sì. Una volta, nel castello di mio padre. É stato quello con gli
occhi diversi che ti ha chiamato Caio il Codardo.»
«Oh? Interessante. Dimmi di più di loro, e del perché la loro
vista ti può tenere nascosto qui dentro.»
«Sono dei maghi. Degli stregoni.»
«Oh andiamo, Donuil! La magia non esiste.»
Mi guardò, indifferente al mio dileggio. «Dillo ai tuoi soldati,
comandante. Non sprecare fiato con me e con nessuno della mia
gente. Quegli uomini sono malvagi. Sono in combutta con le
Tenebre. E non sono mai quello che sembrano. La morte procede al
loro fianco e mette le mani su chiunque abbia contatti con loro.»
Feci un grugnito di disgusto e mi sedetti. «Benissimo, voglio
crederti. Sono dei maghi. Adesso dimmi di loro qualcosa di concreto.
Sono anche uomini, suppongo?»
Ignorò il mio sarcasmo. «Sì, sono uomini, in un certo senso, ma
non hanno nessuno dei bisogni o dei desideri degli uomini normali.
Vivono solo per servire il loro padrone, Lot. È come se altrimenti
non avessero una mente propria. Mi sono nascosto perché non
volevo che sapessero della mia presenza qui, per non metterli
sull'avviso.»
«Sull'avviso in merito a cosa?»
«A qualunque cosa per cui sono qui. Se mi vedono libero,
sapranno che ti dirò quello che so di loro, se non mi ammazzano
prima.»
«Donuil, sei ridicolo.»
«Lo dici tu. Io li ho visti uccidere per divertimento un uomo che
era in una stanza chiusa a chiave e sorvegliata. Tanto per dimostrare
che potevano farlo.»
«Dimostrarlo a chi?»
«A mio padre, e al resto di noi. Ci dissero di scegliere un uomo a
caso, e di rinchiuderlo, sotto sorveglianza, ovunque ci piacesse.
Scegliemmo uno dei loro uomini, e il pover'uomo è sbiancato per il
terrore. Lo portammo in una robusta capanna, tutti insieme.
Dovevano esserci venti uomini, e quello alto, Caspar, ci ordinò di
legare l'uomo mani e piedi e di infilargli uno straccio in bocca. Poi ci
fece riunire tutti in cerchio, e restammo a guardarlo fissare a lungo il
prescelto. Quel pover'uomo divenne mortalmente immobile e perse
conoscenza, anche se Caspar non lo toccò mai. Finalmente, il tipo
alto ci disse di liberarlo. Tagliammo le corde, gli togliemmo lo
straccio di bocca, e quello ritornò in vita e si mise a urlare. Caspar e
quell'altro gli risero in faccia e se ne andarono. Chiudemmo a chiave
la capanna e mettemmo delle guardie tutt'intorno, e tornammo tutti
nel castello di mio padre, dove Memnone, quello con gli occhi
strani, ci intrattenne in un modo mai visto. Faceva sparire degli
oggetti, e li faceva riapparire in un altro luogo. Eravamo tutti
stupefatti e piuttosto spaventati, quando Caspar lo interruppe e
disse: "L'uomo è morto". Mandarono me a guardare, con due dei
miei fratelli. I nostri uomini erano ancora di guardia, e giurarono che
non si era avvicinato nessuno. L'uomo dentro la capanna aveva
smesso di urlare. Mio fratello aprì la porta ed entrammo. L'uomo era
morto. Non aveva un segno. Nemmeno un taglio o un livido o una
macchia. Era solo morto, con la faccia contorta dal terrore e la bocca
spalancata in un urlo.»
«Donuil, non è proprio possibile.»
«Lo so, comandante, e se non ci fossi stato anch'io, non ci avrei
mai creduto.»
«Quanti anni avevi?»
«Gli stessi che ho adesso! Non è stato più di tre mesi fa.»
La sua voce era imperturbabile, e ne fui impressionato mio
malgrado.
«Perché credi che Lot li abbia mandati qui?»
«Per provocare morte. Per che altro? Fanno solo quello. Ho
parlato di loro con alcuni dei loro uomini. Perfino i loro soldati li
odiano e ne hanno una paura mortale. Uno mi ha detto che hanno
imparato le loro arti pagane in una terra straniera nel lontano
Oriente, oltre le selvagge terre dei Sassoni. Conoscono i segreti - tutti
i segreti - dell'assassinio. Dicono che abbiano dei veleni in grado di
uccidere in cento modi diversi. Possono far morire un uomo
bruciandolo senza fuoco, solo tagliandogli la pelle!»
Scattai in piedi. «Ripetilo!»
«Ho detto che possono bruciare un uomo senza fuoco, solo
tagliandogli la pelle.»
«Che cosa significa?» Notò la tensione nella mia voce.
«Non lo so, comandante. È quello che mi hanno riferito.»
Le parole di Donuil stabilirono in me una ferrea determinazione,
ma tacqui e lo lasciai continuare. «Non so che ragione hanno dato
della loro presenza qui, ma è una menzogna, qualsiasi cosa abbiano
detto. Lot tiene quei due solo per diffondere il terrore. Puoi esserne
certo, comandante. Sono qui per uccidere, e per instillare paura.»
Immaginai le urla, e vidi i soldati di Uther dimenarsi nell'agonia. I
volti dei due uomini apparvero chiari agli occhi della mia mente, e
sentii riecheggiare i loro nomi: Caspar e Memnone. Quasi non udii le
successive parole di Donuil. «Non sono della Britannia. Sono di un
luogo che si chiama Egitto, oltremare.»
Memnone e Caspar! La mia decisione era presa prima ancora che
me ne rendessi conto. «Dove sono alloggiati? Lo sai?»
Scosse la testa.
«Rimani qui. Tornerò più tardi.» Andai subito in cerca di Uther.
Una guardia nella corte mi disse di avere appena visto Uther diretto
al refettorio con i suoi due "ospiti". Passai prima al corpo di guardia
adiacente ai cancelli principali. Curio, il sergente delle guardie, mi
salutò.
«Centurione, ho bisogno una squadra di dodici uomini. Radunali
immediatamente, in assetto completo. Sbrigati. Torno tra poco.»
Andai a cercare mio padre, ma non riuscii a trovarlo. Al mio ritorno
Curio aveva radunato gli uomini, e il rumore dei nostri passi in
marcia verso il refettorio fece voltare più di una testa.
Uther mi guardò con espressione interrogativa avvicinarmi al suo
tavolo. Gli occhi di tutti erano fissi su di noi.
«Cai? C'è qualcosa che non va?»
«Sì, comandante. C'è molto che non va. La tua compagnia.»
Quei due mi guardarono con insolenza, senza nemmeno
accennare ad alzarsi.
«La mia compagnia, comandante?»
«Sono entrambi in stato di arresto.»
«Con quale autorità?» Per un attimo ebbi la sensazione che
volesse mettersi a discutere.
«La mia.»
Sorrise e si rivolse ai suoi compagni. «Signori, mio cugino, il
comandante Caio Britannico, ha la responsabilità di mantenere la
disciplina e l'ordine all'interno di queste mura. Temo di dovervi
rassegnare alla sua custodia.»
Adesso ostentavano un'espressione crucciata. Caspar guardò con
sdegno i miei soldati, e poi me. «Ti assumi un bell'onere,
comandante. Da quando è diventata consuetudine trattare degli
ambasciatori con tanta ostilità?» Percepii l'accento straniero, non
forte, ma percettibile.
«Da quando ho scoperto chi siete e che cosa fate! Centurione!
Perquisiscili accuratamente. Spogliali. Bada che non abbiano niente
addosso che possa diventare un'arma. Conserva gli indumenti, e fai
loro indossare una tunica, che stiano caldi. Poi mettili in cella e tienili
sotto sorveglianza.» Li guardai negli occhi. «Potete andare con questi
uomini, con le vostre gambe o portati di peso. La scelta è vostra.
Portateli via.»
Se ne andarono, chiusi nello stretto cerchio delle dodici guardie.
Uther era rimasto seduto per tutto il tempo. Quando furono spariti,
fischiò piano.
«D'accordo. racconta. Che cos'è successo?»
Mi sedetti di fronte a lui, sentendo scemare piano la tensione.
«Sono appena stato informato, da uno straniero che non sapeva
nulla della tua storia, che quei due bastardi sono maghi egiziani,
maestri di veleni, che possono bruciare un uomo senza fuoco, e
ucciderlo semplicemente graffiandogli la pelle. Ti ricorda qualcosa?»
«Per il Cristo! Quelle frecce avvelenate!»
«Pensavo che l'avresti detto.»
«Da chi l'hai saputo?»
«Donuil, il mio giovane ostaggio. Ha visto quei due in azione nel
castello di suo padre, meno di tre mesi fa. Li ha riconosciuti ieri e si è
nascosto, per paura che lo vedessero e lo uccidessero. Ha un
sanissimo rispetto per il loro micidiale potere. Hai scoperto come si
chiamano?»
«Sì. Si chiamano...»
Lo prevenni. «Caspar e Memnone?»
«Caspar e Memnone, esatto.»
«Questa è la prova. Sono nomi egiziani, ma soprattutto sono i
nomi che mi ha dato Donuil.»
«Come fai a saperlo?»
«Te l'ho detto. Li conosce.»
«No, non quello. Come fai a sapere che sono nomi egiziani?»
«Ho letto molto, rammenti?»
Uther fece una smorfia per indicare che non mi avrebbe mai
capito. «E adesso? Zio Pico è al corrente?»
«Non ancora. Non sono riuscito a trovarlo. Quando ho saputo
chi erano quei due, ho preferito non lasciarli girare liberamente per il
forte.»
«Non posso darti torto.» Gli era tornato il sorriso. «Dov'è questo
tuo giovane ostaggio?»
«Nel suo alloggio. Vieni, te lo presento. Potrai ascoltare con le
tue orecchie quello che ha detto a me.»
«Fammi strada,
l'impazienza.»
comandante.
Sono
febbricitante
per
«C'è un'altra cosa da fare. Anche i loro servitori devono essere
arrestati. Dove sono?»
«Nelle baracche con la plebe. Manderò qualcuno a prelevarli.»
«Preleva anche i loro bagagli, e falli portare nell'alloggio di mio
padre. Sarà interessante vedere che cosa contengono.»
Uther chiamò un soldato seduto a un altro tavolo e gli diede gli
ordini necessari, e proprio in quel momento mi resi conto che non
c'era più alcun bisogno di mantenere segreti i nostri preparativi. Lo
dissi a Uther. «Questo cambia tutta la faccenda, cugino. Possiamo
incominciare a trasferire le provviste nel forte apertamente, adesso.
Meglio dare gli ordini.»
«E se Lot ha delle spie sulle colline? Non penserebbe che
abbiamo subodorato i suoi piani?»
«Non mi importa più. Domani mattina come prima cosa
inizieremo a trasportare le scorte. I nostri soldati sono partiti questa
mattina. Domani saranno lontani a nord-est. Le spie di Lot vedranno
solo che richiamiamo la fanteria e raduniamo gente e provviste.
Anche se Lot intuisce che siamo pronti a riceverlo, non indovinerà
mai che gli abbiamo già fatto sparire un esercito sotto il naso.»
Mi buttò un braccio intorno alle spalle. «Cai, mio onorato
cugino, il tuo acume e la tua intelligenza non mancano mai di
impressionarmi. Meglio informare zio Pico e gli altri che hai
cambiato tutti i loro piani. Saranno molto contenti!»
Malgrado l'amichevole sarcasmo di mio cugino, mio padre e gli
altri furono contenti, quando ebbero avuto modo di assimilare i
cambiamenti e i motivi che li imponevano. Ci volle un'ora per
riunire mio padre, Tito, Flavio, Uther, me e il giovane Donuil
nell'Armeria. Uther e io avevamo ispezionato i bagagli degli
"ambasciatori" prima dell'arrivo degli altri, senza trovare però
alcunché di sinistro o di esotico. Quando tutti furono riuniti, feci
ripetere a Donuil la sua storia, insistendo personalmente affinché
chiarisse alcuni punti. Uther tradusse in latino per gli altri. Mio padre
e Tito gli rivolsero alcune domande, e poi lo lasciammo tornare nel
suo alloggio. Ma Donuil si fermò sulla porta.
«Comandante Merlino? Potrei parlarti per un momento? Da
solo?»
Mi scusai e lo seguii all'esterno, dove si voltò a guardarmi con
viso turbato.
«Che cosa c'è?» gli chiesi, nella sua lingua.
«I loro bagagli. Avrebbero dovuto contenere più di quello che
avete trovato.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Non lo so proprio, comandante.» Scrollò le spalle, frustrato.
«Ma avreste dovuto trovare dell'altro. Quegli uomini non vanno da
nessuna parte senza gli utensili del loro lavoro, dei loro traffici
mortali.»
«Quali utensili, Donuil? A che cosa alludi?»
«I loro bagagli avrebbero dovuto contenere oggetti sconosciuti al
tuo popolo, oggetti che avrebbero suscitato dei commenti. Avete
guardato nelle casse fasciate di ferro?»
«Non lo so.» Toccava a me ammettere ignoranza. «Di quali casse
fasciate di ferro stai parlando?»
«Le due casse che non perdono mai di vista. Una è leggermente
più grande dell'altra, e sono molto pesanti entrambe.»
Tirai su con il naso. «Verificherò. Ma credo che ti preoccupi per
niente.»
«Lo spero, comandante.» Non sembrava convinto.
«Comunque controllerò personalmente e ti farò sapere. Adesso
vattene a letto.» E lo congedai con una manata sulle spalle.
Tornai nella stanza di mio padre. Le iniziative che avevo preso
dopo aver sentito la storia di Donuil non vennero messe in
discussione. Tutti convennero che avevo agito correttamente. I miei
ordini erano stati emessi e sarebbero stati eseguiti il giorno seguente,
a partire dall'alba. Nel frattempo potevamo solo aspettare. I dettagli
logistici delle scorte, delle provviste, la distribuzione dello spazio e il
razionamento del cibo erano nelle mani di Tito e dei suoi
quartiermastri. Uther e io avremmo approfittato di una notte di
sonno e prima del sorgere del sole ci saremmo diretti, soli e
inosservati, verso nord-est, all'appuntamento con la nostra
cavalleria.
Uscii dall'Armeria e andai nell'alloggio di Donuil. Era ancora lì,
disteso sul letto.
«Ehi!» dissi dalla porta. «Hai intenzione di restare a letto per i
prossimi cinque anni?» Si drizzò a sedere sbattendo le palpebre.
«Come si chiama quel soldato che parla la tua lingua pagana?»
«Rufio.»
«Grosso, corpulento, con una barba rosso fuoco?»
«Sì, comandante.»
«Lo conosco. Bene! Andiamo a cercarlo.» Incaricai un centurione
di mandarlo nel mio alloggio. Poco tempo dopo si presentò in preda
all'apprensione e indubbiamente chiedendosi quale delle sue
infrazioni potevo aver scoperto. Quando vide Donuil in piedi di
fianco a me, la sua angoscia aumentò.
«Mi hai fatto chiamare, comandante?»
«Sì, soldato Rufio. É vero che parli la lingua del nostro ospite?»
Deglutì. «Sì, comandante.»
«È una buona cosa, poiché non parla la nostra. Da questo
momento sei sottoposto a un incarico speciale. Chi è il tuo
centurione?»
«Fidia, comandante. Squadrone C.»
«Fidia. Esatto. Non molto tempo fa ti ha mandato da me sotto
accusa. Rissa e schiamazzi, vero?»
«Sì, comandante.»
«È insubordinazione, se la mia memoria funziona ancora.»
Deglutì ancora. «Sì, comandante.»
«Tu e il tuo amico - come si chiama? Strato? - in due avete
sfidato lo squadrone A al completo per via di qualche donna o chissà
che altro, e uno di voi è stato tanto imprudente da mettere fuori
combattimento un decurione che tentava di porre fine al massacro.»
«Sì, comandante. Ho visto chi era solo dopo che l'ho colpito.»
«Mmh...! Bene, da adesso in poi per qualunque insubordinazione
dovrai rendere conto a me, personalmente, perché ho bisogno di te
per i miei scopi. Darò istruzioni in proposito al centurione Fidia.
Frattanto, sei responsabile del benessere del nostro giovane amico.
Hai capito? Gli serve un interprete, e gli serve qualcuno che sappia il
fatto suo in questo forte e in un campo di cavalleria, e che gli insegni
il mestiere. Voglio fare di lui un aspirante ufficiale, uno dei miei
Optiones. Dillo chiaramente a chiunque sia interessato. Lo tratterai
bene, gli guarderai il culo, e gli insegnerai la nostra lingua. Non
dovrebbe essere difficile. É un ragazzo intelligente e ansioso di
imparare. Ma soprattutto voglio che tu faccia di lui un soldato di
cavalleria. Insegnagli tutto sui cavalli: come averne cura, come
strigliarli e nutrirli, come equipaggiarli, e come cavalcarli. É un
perfetto novellino, e tu sarai la sua balia. Ma bada di insegnargli
bene, perché diventerà il mio attendente personale. Significa che
dovrà imparare anche l'uso, la cura e la manutenzione di armi,
armatura ed equipaggiamento personale, e di tutto il mio
armamento di guerra. Pensi di riuscirci?»
Mi fissava a occhi spalancati, immobile, e assimilava tutto quello
che gli stava piovendo addosso. Quando gli posi l'ultima domanda
sbattè una volta le palpebre e si schiarì la voce.
«Sì, comandante. Ehm... quanto tempo ho, signore?»
«Quanto tempo pensi di avere bisogno?» Guardò di sbieco il suo
nuovo pupillo che ci guardava senza capire una parola.
«Per i rudimenti? Per tutto quanto? Un mese?»
«E un mese avrai. Da domani. Trenta giorni per trasformare un
principe pagano in un soldato di Camulod. Non preoccuparti delle
sue mansioni di ufficiale. Riguardano solo me. Basta che tu lo tenga
fuori dai guai con i tuoi compagni finché non sarà in grado di
cavarsela da solo. Assegno tutti e due al mio squadrone personale.
Tu farai le funzioni di centurione, con dei privilegi. Comportati con
cautela. Se svolgerai questo compito come si deve, il rango sarà
permanente. Deludimi e tornerai a essere un soldato semplice nello
squadrone di Fidia, così in fretta che ti verranno le vertigini. Chiaro?»
I lineamenti immobili si schiusero in un sorriso. «Sì, comandante!»
«Avrete bisogno tutti e due di un'uniforme nuova. I miei soldati
vestono nero e argento, con l'emblema dell'orso. Chiedi a Popilio. Vi
metterà in contatto con le persone giuste. Oh, e vi servirà questo.»
Mi sedetti e impressi il mio sigillo su una tavoletta di cera, sulla quale
scrissi: «Il centurione Rufio agisce per mio conto nei riguardi del
giovane tribuno Donuil. - C. Merlino».
«Abbine buona cura, e usala solo se devi. Io parto domani per
alcuni giorni, perciò non potrò assistere al tuo trasferimento. Con
questo, puoi provvedere da solo. Parlane con il legato Tito. Adesso
è meglio che tu vada a prendere congedo dallo squadrone C. A Fidia
si spezzerà il cuore a vederti partire, e come centurione, anche!
Spiegherò la faccenda al giovane tribuno, e potrete iniziare
l'addestramento domani.»
«Sì, comandante, e grazie.» Mi salutò e poi salutò Dormii e se ne
andò.
Donuil si girò verso di me, incuriosito dal saluto, e gli ripetei
nella sua lingua gli ultimi sviluppi. Quando conclusi la mia
esposizione si mise sull'attenti con un sorriso che gli andava da un
orecchio all'altro, e mi fece il saluto. Fui costretto a sorridere.
«Grazie, tribuno Donuil» dissi. «Ricordati per favore di dire al
centurione Rufio di insegnarti anche a fare il saluto!»
Non appena mi fui liberato di lui, mi distesi sulla cuccetta e mi
addormentai, non senza aver prima raccomandato a una guardia di
svegliarmi al cadere della notte, tre ore dopo. Protetto
dall'amichevole riparo dell'oscurità lasciai il forte per Avalon, con i
vestiti nuovi di Cassandra.
Quand'ebbe superato la meraviglia e la delizia per le copiose
ricchezze che le avevo portato, trascorsi tra le sue braccia due ore
piacevoli e gratificanti, e poco dopo mezzanotte ero di nuovo nel
mio letto.
XX.
Ero nelle stalle quando il messaggero mi trovò.
«Ti chiedo perdono, comandante Merlino, ma il comandante
Uther vuole che tu lo raggiunga nel suo alloggio per pochi istanti.»
Guardai sorpreso il soldato. «Dovrebbe essere già qui. Io sono
quasi pronto a partire.»
«Il comandante è pronto, signore. I suoi cavalli sono già al
cancello.»
Gli dissi di riferire a Uther che sarei passato da lui e continuai a
stringere il sottopancia. Il mio cavallo da soma, che in realtà era un
destriero straordinario, era già carico delle poche provviste di cui
avrei avuto bisogno. Era solo la terza ora del mattino. Immaginai
che Uther fosse andato a letto presto e fosse in piedi da ore.
Lo trovai nel suo alloggio, appoggiato alla parete imbiancata a
calce, che affilava un pugnale alla luce di due lampade a olio.
«Buongiorno, Uther. Sei pronto? Che cosa c'è?»
«Buongiorno, cugino.» Mi sorrise e con un cenno del capo indicò
la sua cuccetta. Incuriosito, mi avvicinai al letto e vidi il congegno
adagiato sopra la coperta.
«Che cos'è?»
«Prendila in mano, e dimmelo tu che cos'è.»
Prima di toccarla la osservai bene: era un'arma. Un'impugnatura
grossa e corta, rivestita di cuoio, con un robusto cappio sempre di
cuoio all'estremità. All'altro capo, bagnato nel ferro, era attaccata
una breve e pesante catena, e all'estremità della catena pendeva una
palla grande come un pugno chiuso.
«È di ferro?»
«Sollevala.»
La palla, che era di ferro, rimase sul letto mentre la catena si
stendeva con un sonoro tintinnio. Tirai verso di me e la palla cadde
dal letto, colpendo il pavimento con un tonfo sordo. La lunghezza
totale dell'aggeggio era poco minore , del mio braccio. Sollevai la
palla da terra. Era pesante.
«D'accordo, Uther. Che cos'è?»
«Oh, andiamo, Merlino! Quante volte ho dovuto ascoltare la
storia di come hai scoperto l'uso della sella e delle staffe? Non riesci
a immaginare che cosa farebbe quella cosa a un uomo appiedato se
tu te la facessi roteare intorno alla testa?»
La mossi con esitazione, e non ebbi nessuna difficoltà a capire.
«Gli farebbe impressione.»
«Sì, una bella impressione nell'elmo, nel cranio eccetera.»
«Come ti è venuta quest'idea?»
«Ricordi la pietra sibilante di Vegezio Sulla? In parte da lì. In
parte dalla vecchia storia di nonno Varro di te e della mazza. Mi gira
in testa da tempo. Ho deciso di farne fare una l'ultima volta che
sono stato a casa. Funzionava, ma la catena era troppo lunga, e
anche il manico, così abbiamo accorciato l'impugnatura e ridotto la
catena a quattordici anelli, ed ecco fatto. Ne ho fatta fare una per
uno. La tua è nera, e la mia è rossa, vedi?» Si chinò a prenderne
un'altra dal pavimento. «Infila il polso nel cappio e non puoi
perderla, neanche se lasci andare l'impugnatura.»
«Impressionante davvero! Ma perché mi hai fatto venire fin qui a
prenderla? Non potevi portarmela tu?»
«Sei matto? Quelle cose sono pesanti! Non ci proverei nemmeno
a portarne due per tutta la strada fino alle stalle. A trascinarle per la
corte mi parrebbe di essere Vulcano.»
Risi mio malgrado e alzai la palla prendendola nella mano
sinistra. Era pesante davvero. «Andiamo» dissi. «Dobbiamo muoverci.
Grazie per questa. Ti prometto di non colpirti con la mia se tu non
colpisci me con la tua.»
«Accettato! Adesso usciamo di qui. Ci sono rimaste due ore di
buio.»
Quando le prime pallide luci dell'alba apparvero nel cielo,
avevamo percorso un buon tratto verso nord-est. Ognuno di noi
aveva un cavallo di ricambio. Cavalcavamo in silenzio, tendendo le
orecchie per sentire nell'oscurità eventuali rumori insoliti. Eravamo
convinti che gli arcieri di Lot con le loro frecce avvelenate potessero
essere ovunque, ma non incontrammo nessuno e non udimmo
nessun suono allarmante, e ben presto l'oscurità sbiadì quel tanto da
permetterci di scorgere alla nostra destra la massa ondulata delle
colline Mendip. Proseguimmo in una di quelle mattine magiche la
cui bellezza rimane nella mente a lungo dopo che il giorno a cui
hanno dato vita è stato dimenticato. Il paesaggio era velato da una
bassa nebbia grigia che turbinava intorno agli zoccoli dei cavalli, e
ogni foglia, ogni filo d'erba era appesantito di rugiada. Quando il
sole disperse la nebbia ci sembrò di attraversare una terra incastonata
di gioielli scintillanti e multicolori. Solitari alberi d'oro si ergevano
bruniti nella pallida luce verdognola, e il mondo era pieno del canto
di innumerevoli uccelli.
Cavalcavamo fianco a fianco, le nostre ginocchia quasi si
toccavano; superammo una lieve altura e vedemmo delle strane
tracce sul fondo della valle davanti a noi. Io le scorsi
immediatamente, ma fui lento a riconoscerle. Uther invece trattenne
il respiro con un sibilo.
«Avevi ragione, Cai. Si stanno muovendo.»
Era la traccia lasciata nell'erba alta e bagnata da un gruppo
numeroso di uomini che di recente aveva attraversato il nostro
sentiero. Il loro passaggio aveva schiacciato un'ampia striscia d'erba,
e i raggi del sole mattutino rivelavano una strada d'erba scura, nero
verde contro il mare di goccioline di rugiada che scintillavano su
ogni lato.
«Da dove sono venuti, Uther? E in che direzione sono andati?»
«Da est, diretti a ovest. Lo vedi dall'inclinazione della luce
sull'erba appiattita. Probabilmente stavano cavalcando verso nord,
come noi, fiancheggiando le colline, e poi hanno voltato a sinistra
per raggiungerle dall'altra parte.»
Guardai l'ampio tracciato che si stendeva alla nostra sinistra.
«Credi che siano i tuoi velenosi arcieri?»
«Non ho dubbi in proposito... ci scommetterei. Siamo fortunati a
non essere arrivati dieci minuti fa.»
«Sono passati così di recente?»
«O poco più. Gli uccelli stanno cantando, perciò non possono
essere vicinissimi, ma la rugiada si è posata solo durante l'ultima ora
e sono passati dopo.»
«E adesso che cosa facciamo?»
«Esattamente quello che stiamo facendo, ma più in fretta, Non
possiamo fare niente. Siamo solo in due contro Dio sa quanti di loro.
Andiamo avanti, raduniamo i nostri uomini, torniamo a Camulod
più velocemente possibile, e speriamo di potere offrire ai nostri
visitatori una brutta sorpresa.»
Incitò il cavallo e io lo seguii oltre il sentiero degli assassini di
Lot, e attraversammo al piccolo galoppo il tratto scoperto di prato
fra noi e la compatta linea di alberi più avanti. Sul Limitare della
foresta ci voltammo a guardare l'inconfondibile traccia lasciata
nell'erba dai nostri cavalli. Era giorno fatto, e il sole era visibile.
Uther rigirò il cavallo in direzione degli alberi. «Un'ora al massimo e
le tracce saranno sparite. Speriamo che nessuno di loro torni indietro
troppo presto.»
«Perché dovrebbero? Sono diretti a ovest e hanno parecchia
strada da fare.»
«Anche noi, cugino, e questa foresta non ha certo un aspetto
ospitale. Andiamo.»
Uther aveva ragione. Quella parte di foresta era tutt'altro che
ospitale, quasi impenetrabile, e capitava che dovessimo smontare e
condurre i cavalli per strette brecce in un sottobosco fitto e ostico
che si rifiutava di lasciarci passare. Lottammo per ben più di un'ora
prima che il sottobosco si diradasse, ma avevamo superato la parte
più ardua del nostro viaggio, e potemmo risalire a cavallo e
attraversare così il resto della foresta.
Quando il sole era quasi a picco giungemmo in una radura
erbosa dominata da una vecchia e massiccia quercia che si ergeva
sull'argine di un torrente limpido dal corso impetuoso, e per tacito
consenso smontammo e togliemmo la sella ai cavalli. Provvedemmo
alle necessità delle nostre cavalcature e ci sedemmo in riva al
torrente a mangiare un po' di selvaggina fredda e pane fresco
provenienti dalle cucine di Ludo.
«Quanto credi che mancherà, ancora?» chiesi.
Uther si strinse nelle spalle e si chinò a bere dal torrente.
«Dovremmo esserci per il tramonto, se riusciamo a mantenere una
buona andatura.» Si asciugò le gocce d'acqua dal mento. «Sai, cugino,
non mi sono ricordato di congratularmi con te per il tuo nuovo
rango... Supremo Comandante di Camulod.»
Subito mi sentii a disagio, leggermente innervosito ma non certo
dal suo tono di voce. Gli rivolsi una rapida occhiata, ma nei suoi
occhi non c'era niente da vedere. Uther era impassibile, e solo
l'ombra di un sorrisetto ironico gli tendeva un angolo della bocca.
Bevvi anch'io, per nascondere la mia insicurezza, poi attesi, ma Uther
non disse altro.
«Grazie» dissi infine tirandomi indietro dalla riva per sedermi
accanto a lui, e attesi ancora. Uther sospirò e si sdraiò, mettendosi
comodo sulla sponda erbosa e lasciando a me l'onere di proseguire
la conversazione. «Quando l'hai saputo?»
«Che cosa? Della tua promozione? Quando sono tornato l'ultima
volta. Volevo dirti qualcosa, ma ormai era acqua passata, e mi sono
scordato. Ma sono contento per te. Te la sei guadagnata.»
«Non ti dispiace?»
«Dispiacermi?» Rise forte, e alzò la testa per guardarmi, sorpreso.
«Perché dovrebbe dispiacermi? Pensavi che sarei stato invidioso?»
Scrollai le spalle. «Non proprio, ma devo ammettere che tale
eventualità mi era venuta in mente.»
Si sollevò su un gomito e scosse la testa, meravigliandosi per la
mia stoltezza. «Dimmi, Caio, sarai invidioso di me quando sarò re
dei Pendragon?»
Spalancai gli occhi. «Certo che no.»
«E allora perché fai una domanda simile a me?»
«Non lo so, Uther, perdonami.» Mi sentivo sciocco e meschino,
ma lui aveva già cambiato argomento.
«C'è un'altra cosa che però non ti ho mai chiesto. La ragazza,
Cassandra... come l'hai fatta uscire da quella stanza sotto gli occhi
delle guardie?»
Anche quella domanda mi colse alla sprovvista. Mi sentii
sommergere da un'ondata di risentimento che riportò a galla tutti i
miei dubbi e la mia diffidenza. Trattenni la risposta ostile che mi salì
alle labbra e distolsi lo sguardo per mascherare i miei sentimenti, e
nascosi l'agitazione rispondendo alla sua con un'altra domanda. «Che
cosa ti fa pensare che sia stato io?»
Latrò la sua risata breve e feroce. «Andiamo, Cai, sono io! Uther!
O l'hai fatta sparire tu, o devo incominciare a credere nella magia. È
chiaro che sei stato tu! Ma come ci sei riuscito, nel nome dei tuoi
mistici druidi? E perché l'hai fatto?»
«Era in pericolo.»
«Da parte di chi?»
«Da parte di chiunque aveva cercato di ucciderla la prima volta.»
Si drizzò a sedere e mi guardò stupito, con un'espressione di
autentica confusione che mi spinse a chiedermi se non fosse in realtà
un attore eccellente. «Perché mai qualcuno avrebbe dovuto cercare
di ucciderla?» chiese. «Era stata picchiata e stuprata, da quanto ho
sentito. E brutalmente, anche, ma perché qualcuno avrebbe dovuto
cercare di ucciderla? E se così fosse stato, non avrebbe potuto farlo
direttamente, invece di lasciarla viva? Non valeva più di una schiava.
Nessuno ci avrebbe badato.»
La mia rabbia traboccò. «A un omicidio? A Camulod? Mio padre
non fa mistero del fatto che sotto il suo comando la pena per stupro
e omicidio è la morte! Mi pare che tu prenda la cosa molto alla
leggera, ma così è! Morte. Speravo che potesse identificare il suo
aggressore, o i suoi aggressori, se fossero stati più di uno, del che
dubito!»
Di fronte alla violenza del mio impeto Uther aveva inarcato un
sopracciglio, e quando parlò la sua voce era bassa. «Perché ne
dubiti?»
«Ho le mie ragioni.»
«Ne sono certo.» La sua voce era ancora più bassa. «Posso
chiederti quali sono?»
«Chiedilo a te stesso, Uther!»
«A me stesso?» Aggrottò la fronte e scosse bruscamente il capo.
«Perché è così importante - e ovviamente lo è - che la ragazza sia in
grado di identificare il suo aggressore? Questo chiedo a me stesso,
Cai. Perché? Ti sei preso un enorme disturbo per proteggerla.
Perché? Era una sconosciuta.»
«Non per tutti! Per te non era una sconosciuta!»
«Per me? Che cosa significa? Non ero nemmeno a Camulod!»
«Oh, sì che c'eri, Uther!»
I solchi sulla sua fronte si approfondirono per la collera. «Stai
insinuando...» La sua voce si perse nel silenzio; i muscoli del suo viso
riflettevano i pensieri che gli attraversavano la mente. Se fingeva,
fingeva magistralmente. «È successo quella notte, vero? La notte che
me ne sono andato?»
«Sì, la notte che te ne sei andato in preda alla collera, giurando
di darle una lezione che non avrebbe dimenticato tanto presto.
L'hanno trovata nelle stalle il mattino seguente. Era stata picchiata
quasi a morte. E tu eri scomparso. Nessuno ti aveva visto. Nessuno
sapeva dov'eri.»
«Capisco.» Non mi guardava. I suoi occhi erano fissi su una roccia
nel torrente e sull'acqua che le spumeggiava intorno. «E così, in tutta
spontaneità, hai dedotto che ero stato io.» I suoi occhi si spostarono
a sostenere il mio sguardo. «É stata un'azione molto brutale, vero?»
Non risposi. «E mi hai creduto capace di una simile bestialità?»
Continuai a fissarlo. «Lo credi ancora?»
«Non lo so, Uther.»
«Volevi che guarisse e mi identificasse?»
Quella domanda, e il modo in cui la pose, mi fece riflettere.
«No, volevo che guarisse e che identificasse il suo aggressore. Non
volevo che fossi tu.» Mi guardava intensamente. «Temevo che
potessi esserlo, ma speravo di sbagliare.»
«E allora perché l'hai fatta sparire? Avresti potuto tenerla lì finché
non fossi tornato.»
«Avrei potuto, ma tenendola lì avrei messo in pericolo la sua
vita.»
«Come, in nome di Dio? Non ero neppure nelle vicinanze!»
«Stai confessando la tua colpa?»
«No, naturalmente no, ma tu sospettavi di me.»
Mi alzai in piedi e abbassai lo sguardo su di lui. «Si trattava di
fiducia, in uno strano modo, suppongo. Sospettavo di te, ma non
avevo prove e avrei potuto sbagliare. Volevo disperatamente
credere che mi sbagliavo. E se mi sbagliavo, allora il suo aggressore
poteva essere un qualsiasi uomo di Camulod. Poteva essere uno
degli uomini di guardia, uno qualunque, o più di uno. E chiunque
avrebbe potuto ucciderla. Avrebbe dimostrato la tua innocenza, ma
per dimostrarla sarebbe morta.»
Ci pensò per un poco, poi fece un rapido cenno di consenso. «E
allora come l'hai fatta uscire?»
«Con un trucco. Era già stata portata via prima ancora che facessi
montare la guardia.»
«No! Le sue guardie l'hanno vista.»
«Hanno visto un ragazzo che aveva preso il suo posto, e che poi
è scappato dall'edificio mentre le guardie si aspettavano che
qualcuno cercasse di entrare.»
Uther scrollò il capo, e un lento sorriso di stupore gli illuminò
furtivamente il volto. «Sei un uomo notevole, cugino. Dove l'hai
portata?»
«In un luogo sicuro. Perché me lo chiedi?»
«Per curiosità.»
Mi strinsi nelle spalle. «È... al sicuro.»
«Bene. Allora spero che un giorno avrò il piacere di rivederla e
di mettere fine ai tuoi dubbi, in un senso o nell'altro.»
Dovevo chiederglielo. «Sei stato tu, Uther? L'hai fatto tu?»
Rimase zitto a lungo, sostenendo il mio sguardo con una strana
espressione che non avevo mai visto prima. «Mi hai visto
andarmene, quella notte. Ovviamente hai pensato che ero
abbastanza in collera per farlo. Poi sono scomparso, e la mia
scomparsa avrebbe potuto essere scambiata per un'ammissione di
colpa.» Fece una pausa, ricordando. «Le quattro sgualdrine che
abbiamo avuto quella sera. Devono aver detto qualcosa. Che fine
hanno fatto?»
«Non l'hanno mai saputo. Le ho mandate via il mattino dopo,
prima che avessero la possibilità di sentirne parlare. Sono partite con
una scorta - uomini fidati di Tito - con il pretesto di aprire una casa
per noi a Glevum. La notizia non si era ancora diffusa, e non
sapevano niente di quello che era successo.»
Riflette un momento. «I
Evidentemente avevi almeno
colpevolezza.»
miei ringraziamenti, cugino.
qualche dubbio sulla mia
«Almeno qualcuno.» Annuii. «Abbastanza da convincermi a
prendere le misure atte a proteggerti dai pettegolezzi. Ero arrabbiato
e confuso, ma volevo condurre le mie indagini senza essere
influenzato dalle dicerie.»
Si alzò. «Beh, cugino Cai, mi trovo in una brutta situazione.
Potrei sostenere di essere innocente, ma non metterei a tacere i tuoi
dubbi. Io so la verità, ma tu dovrai vivere con i tuoi dubbi, temo,
almeno per un poco. Puoi continuare a farlo?»
«Perché no? L'ho fatto per mesi.»
«E puoi ancora cavalcare al mio fianco?»
«Sì, Uther, e combattere al tuo fianco, e sperare di essermi
sbagliato. Ho dei grossi dubbi sia sulla tua colpa sia sulla tua
innocenza, e non ho prove a sostegno di nessuna delle due. D'altra
parte, ti conosco da tutta la vita e nessun uomo mi è più caro.»
Sulle sue labbra c'era un mezzo sorriso. «Allora mi perdoneresti
un errore?»
Rividi il corpo pesto e sanguinante di Cassandra. «No, Uther,
non ti perdonerei, non per quell'errore. Quello era inumano,
imperdonabile. Spero solo che non sia stato tu, e finché non saprò
con certezza se sì o se no, ti tratterò come Uther Pendragon, cugino
e amico senza macchia.»
Uther non sorrideva più. «Caio» disse, «sinceramente capisco le
ragioni dei tuoi dubbi. Se fossi nei tuoi panni, e avessi i tuoi stessi
dubbi, non so se saprei essere magnanimo come lo sei tu adesso.
Grazie.» E poi negli occhi gli scintillò una luce demoniaca, e aggiunse:
«Ma ricorda bene che gli uomini, essendo solo uomini, non
sopportano troppa magnanimità negli altri. Sa di santimonia». Prima
che potessi pensare a una risposta si alzò in piedi. «Su, è meglio che
ripartiamo. Il tempo non ci aspetta e i nostri soldati si.»
Tenemmo un buon passo per il resto della giornata, ma
arrivammo alla fattoria abbandonata dove ci aspettavano i nostri
uomini solo dopo il tramonto. Uther parlò a nome di entrambi:
avremmo levato il campo all'alba e ci saremmo messi
immediatamente in marcia. Ci saremmo accampati la sera seguente,
e al sorgere del sole avremmo concluso il viaggio di ritorno, in
modo che, se il nemico fosse stato al suo posto, gli saremmo arrivati
alle spalle prima di mezzogiorno.
Indicemmo un breve consiglio di guerra a beneficio dei giovani
ufficiali e poi Uther e io ci ritirammo nelle nostre tende di cuoio,
esausti per il viaggio e ostinati nella speranza di avere costruito la
nostra campagna su una supposizione esatta: che Lot non poteva
conoscere la nostra vera forza, poiché noi stessi non la conoscevamo
e non avevamo avuto il tempo di censirla. Se ci eravamo sbagliati, e
Lot aveva stimato correttamente le nostre forze, allora saremmo
tornati a Camulod senza il vantaggio della sorpresa.
Il mattino seguente ci dirigemmo senza fretta verso Camulod per
una via più lunga e tortuosa di quella che io e Uther avevamo
percorso all'andata. Era essenziale che non arrivassimo prima di Lot,
e secondo le nostre previsioni avrebbe attaccato il forte o il giorno
seguente, il terzo del nostro schema, o il giorno dopo ancora. Uther
voleva che le nostre forze fossero pronte a rispondere all'attacco alla
Colonia all'alba del quarto giorno. Io avrei preferito aspettare un
altro giorno, per concedere a Lot il tempo di mettersi in posizione e
di intraprendere una linea d'azione che avremmo poi potuto
disturbare.
Ma nessuno di noi due ebbe la possibilità di scegliere. Avevamo
sbagliato i nostri conti di un giorno intero a favore di Lot, che era
arrivato con il suo esercito sulla pianura di Camulod a metà del
pomeriggio in cui noi eravamo partiti, e mentre noi ci dirigevamo
tranquillamente verso sud i suoi uomini già si scatenavano
brutalmente contro il forte.
L'arrivo inatteso di Lot aveva colto mio padre e i suoi difensori
completamente alla sprovvista. Un gran numero di soldati di
fanteria, quasi una coorte intera, era impegnata a erigere un
parapetto e a scavare un fossato di difesa ai piedi della collina. Al
comando c'era Popilio, il nostro sergente maggiore anziano che,
dovendo decidere se abbandonare i lavori in corso o rimanere a
difenderli, aveva preferito la seconda alternativa. Circa un miglio più
a nord, alla sua sinistra, un altro numeroso grappo di soldati era
impegnato a rimuovere tutto l'utilizzabile dagli edifici della fattoria
della villa. L'ufficiale incaricato dell'operazione era giovane ma
assennato. Quando venne informato della posizione avanzata
dell'esercito di Lot era già troppo tardi perché potesse ritirarsi al
sicuro all'interno del forte con i suoi uomini, perciò aveva preso
immediati provvedimenti per fortificare le costruzioni della villa al
meglio delle sue possibilità. Rovesciando i carri che stavano
caricando e usandoli come barricate, lui e i suoi uomini erano riusciti
a formare un perimetro difendibile, e lì erano rimasti, una potenziale
spina nel fianco dell'esercito di Lot.
Quel primo pomeriggio c'era stato un combattimento furioso.
L'esercito di Lot era in gran parte indisciplinato, e ogni unità prestava
attenzione solo agli ordini dei comandanti in loco. I suoi soldati, se
soldati si potevano chiamare, erano individui insubordinati, e il loro
primo assalto contro i difensori della villa si era tramutato in una
zuffa disorganizzata, rapidamente ed efficacemente vinta dai
difensori, che combattendo come un sol uomo avevano respinto gli
aggressori con il calare delle tenebre. Invece di consentire ai suoi
uomini di rilassarsi dopo la vittoria, il giovane ufficiale al comando
aveva approfittato della debolezza dovuta ala mancanza di
disciplina dell'avversario, e nell'oscurità aveva guidato i suoi uomini
in una battaglia dura e accanita per congiungersi alla coorte di
Popilio. Il veterano Popilio aveva udito i rumori della battaglia e,
immaginando che cosa stava accadendo, aveva lanciato i suoi
uomini lungo il fianco sinistro del pendio, fino a unirsi ai
combattenti della villa e ad accoglierli nella relativa sicurezza dei
parapetti di difesa.
Con il favore delle tenebre, Popilio avrebbe potuto ritirare i suoi
uomini dal campo incompleto e rifugiarsi nel forte. Invece inviò un
corriere a informare mio padre che intendeva mantenere la
posizione e difenderla contro la feccia di Lot. Il suo maggiore
problema era il rischio che gli uomini di Lot lo aggirassero e
tentassero di salire la collina ai due lati della sua posizione, per poi
tirargli addosso una raffica di frecce da sopra e da dietro. Mio padre
mandò due squadroni di arcieri a proteggergli i fianchi, e
contemporaneamente inviò tre dei suoi cavalieri migliori a spezzare
il cordone di Lot, e a cercarci, per avvertirci di rientrare prima del
previsto.
I messaggeri dovevano dirci che Pico avrebbe trattenuto la sua
cavalleria. L'urto dell'attacco iniziale sarebbe stato sostenuto da
Popilio e dalla fanteria. Non appena fossimo apparsi, mio padre
avrebbe lasciato andare i veterani della cavalleria in un assalto
frontale, lungo la strada e nel centro delle schiere nemiche.
Uno dei tre messaggeri ci trovò poco dopo mezzogiorno del
giorno seguente. Iniziammo subito una marcia forzata, maledicendo
la prudenza che ci aveva inutilmente mandato tanto a nord. Mio
padre aveva valutato la forza dell'esercito di Lot in circa quattromila
unità, una cifra che mi sorprese e aggravò immensamente la
consapevolezza del mio errore. L'urgenza di un rapido rientro era
diventata innegabile e devastante.
Nel tardo pomeriggio, pesanti nubi grigie si accumularono a
Occidente, e tra esse tremolava il bagliore dei lampi.
L'afa divenne sempre più opprimente con l'avvicinarsi della
tempesta, e mi scoprii a desiderare la frescura della pioggia che si
stava dirigendo verso di noi. Il mio piacere fu di breve durata. Fu un
diluvio terrificante, che ci soffiava contro torrenti d'acqua,
inzuppando tutto e tutti quasi in un attimo, trasformando la terra
soffice sotto gli zoccoli dei cavalli in un acquitrino, e rendendo
praticamente impossibile procedere. Non avevo mai visto una
pioggia così impetuosa e apparentemente interminabile. Le nubi
erano così fitte da oscurare completamente il sole, e anche se
sapevamo di avere ancora molte ore di luce ci sembrava che fosse
notte. Ma non potevamo fermarci ad aspettare che la pioggia
cessasse; dovevamo continuare a muoverci più celermente possibile,
e quello che era incominciato come un viaggio da farsi in tutto
comodo, subito degenerò in una cavalcata da incubo, con i cavalli
che ovunque scivolavano e cadevano, terrorizzati dalla violenza
della tempesta, dai lampi accecanti e dal caotico fragore del tuono,
del vento, della pioggia e della grandine.
L'anomala tempesta durò quasi tre ore, e quando finalmente le
nubi si aprirono il nostro esercito era assolutamente demoralizzato.
Per tutto quel tempo era stato impossibile farsi sentire anche
gridando, e ognuno era rimasto imprigionato nel suo inferno
privato, a soffrire l'agonia di armatura e indumenti fradici e freddi,
spossato dall'incessante lotta per tenere il cavallo dritto sulle zampe,
in movimento e sano di mente. Il primo squarcio tra le nubi ci
mostrò i rosa e i porpora del sole al tramonto, che ci tolse l'unica
opportunità di trascorrere una notte calda e asciutta, perché la legna
era bagnata e non si sarebbe asciugata in tempo. Ci disponemmo alla
prospettiva di una notte lunga e miserevole.
Uther si accostò al mio fianco. «Che cosa ne pensi?»
«Di che cosa? Non credo di essere capace di pensare. È un
disastro.»
«Questo lo sappiamo tutti, Caio.» La sua voce aveva una punta
di asprezza. «Non sono venuto qui a sentire le tue lamentele! Voglio
la tua opinione di ufficiale. È meglio fermarsi qui a riposare o
proseguire? Abbiamo ancora molta strada e si sta facendo buio.»
Mi costrinsi a pensare, e fu più facile del previsto, perché un
ricordo di zio Varro si presentò spontaneo alla mia mente. Spinsi lo
sguardo intorno più lontano che potei. Eravamo sul fondo di una
valle poco profonda; il terreno saliva alla mia destra, e si appianava
leggermente prima di trasformarsi in un pendio boscoso. Nella mia
mente comparve l'immagine di una nave in fiamme.
«Chi è il nostro quartiermastro?» chiesi a Uther.
«Ne abbiamo tre. Perché?»
«Mandameli. Stanotte rimarremo qui. La pioggia è cessata. Ci
sposteremo su quel rialzo e vedremo di fare il possibile per
asciugarci. Passa parola che un uomo sì e uno no vada a raccogliere
legna. Quanto basta per quattro grandi fuochi, che siano sufficienti
ad asciugarci tutti.»
«Sei impazzito?» Uther era sconcertato. «Fuochi? É tutto bagnato
fradicio! Come li accenderai, in nome di Efesio?»
«Come mi ha insegnato Publio Varro. Ecco perché voglio i nostri
quartiermastri.»
Mi guardò in silenzio, poi scrollò le spalle e se ne andò, facendo
cenno a un centurione. In breve eravamo tutti fuori dalla valle, sullo
spiazzo rialzato. Dopo mezz'ora quattro grosse cataste di legna
avevano iniziato a prendere forma, e io avevo parlato con i
quartiermastri responsabili delle scorte di commissariato. Anch'essi
pensavano che fossi impazzito, o almeno stravagante, ma tirarono
fuori l'olio delle nostre razioni, lo versarono sulla legna fradicia e le
diedero fuoco, e in men che non si dica tutti i nostri uomini erano
riuniti intorno a quattro grandi incendi. Non avevo nessuna paura
che quei fuochi potessero essere visti da occhi ostili. Eravamo ancora
molto, molto distanti da casa. Sui nostri uomini ebbero un effetto
magico; il freddo lentamente evaporò dalle ossa e gli indumenti
iniziarono a fumare. Dopo un poco, fuochi più piccoli apparvero
distinti da quelli più grandi, e il personale di commissariato poté
distribuire il cibo. La notte era calda, e gli uomini aspettavano quasi
nudi che i loro indumenti si asciugassero. Le tende di cuoio dei
legionari spuntarono come funghi, e dal caos e dall'avvilimento
sorsero l'ordine, una nuova risolutezza, e il confortante riposo.
Determinato a trarre il massimo giovamento da quel recente
ottimismo, organizzai dei turni per raccogliere altra legna, e
impedire che i roboanti fuochi si affievolissero.
Doveva essere ormai mezzanotte quando Uther venne a
cercarmi con fare concitato. Ero stupito che fosse ancora sveglio e
glielo dissi, ma si limitò a scuotere la testa in quel suo modo breve e
caratteristico, riuscendo con un semplice gesto a farmi notare la
banalità del mio commento. «Siamo ciechi, Cai. Ciechi come delle
talpe e stupidi.»
«Perché?»
«Mi sono scervellato per trovare il modo più rapido di tornare a
Camulod alle prime luci dell'alba. Anche tu, immagino?» Feci un
segno affermativo e lui proseguì. «Beh, d'un tratto mi è venuto in
mente! Dove siamo e perché ci siamo?»
«Intendi qui e adesso?»
«Sì, intendo proprio qui e proprio adesso, e non sforzarti
nemmeno di pensare alla risposta perché te lo dico io. Siamo nel bel
mezzo del nulla, e stiamo percorrendo una strada incerta e intricata
dal campo a Camulod perché dobbiamo restare nascosti, esatto?»
«Esatto. E allora? Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire, cugino, che ci stiamo comportando come degli
idioti. La segretezza non serve più, adesso. Lot è a Camulod, e noi
dobbiamo solo arrivare là più in fretta che sia possibile... E c'è una
strada a meno di sette miglia a est da qui che ci porterà entro cinque
miglia da Camulod! Possiamo procedere a marcia forzata su una
strada vera. Non c'è bisogno di arrancare in mezzo a questa dannata
foresta.»
Mentre parlava ero balzato in piedi. «Per il Cristo! Hai ragione,
Uther! Sono uno sciocco!»
«Beh, sei in buona compagnia.»
«Sette miglia per arrivare alla strada, hai detto?»
«Al massimo. Forse la metà. Non lo so. In questa zona non mi
sono mai allontanato dalla strada. So che l'ultima villa che hanno
comprato i fratelli Attribato, l'ultima proprietà acquisita dalla
Colonia, si trova da qualche parte verso sudovest, ma a che distanza
esattamente non lo so, forse dieci miglia. Ma da là alla strada ci sono
solo otto miglia. Abbiamo percorso un semicerchio. Adesso
dovremmo essere più vicini alla strada.»
Mi diressi al mio cavallo. «Ho intenzione di scoprirlo subito.»
«Al buio?»
«Sei. accecato dai fuochi. È una notte serena, una notte di luna.»
«Aspetta allora. Vengo con te.»
Quando ci fummo allontanati dai fuochi fu semplice trovare
sentiero tra gli alberi che punteggiavano il paesaggio. La strada era
meno di due miglia da dove eravamo partiti, e si stendeva nera
diritta e sgombra da nord a sud. Cavalcammo fin sul selciato
rimanemmo lì a ridere uno dell'altro, finché Uther non parlò.
il
a
e
e
«Ebbene, che cosa ne pensi?»
«Non ho bisogno di pensare. So che se ci mettiamo in marcia
adesso, possiamo essere a poche miglia da Camulod prima dell'alba.»
«Proprio quello che supponevo. Che cosa stiamo aspettando?»
Tornammo al campo al galoppo come due ragazzini eccitati e
svegliammo tutti. I fuochi e il tepore della notte estiva avevano
riparato i danni della tempesta e gli uomini erano riusciti a riposare.
Lo strepito del nostro arrivo creò panico e allarme, ma subito tutti si
raccolsero intorno a noi e ai nostri cavalli. Uther alzò le mani per
chiedere silenzio, e quando l'ebbe ottenuto mi guardò.
«Avanti» gli dissi. «Lo spettacolo è tuo.»
Sorrise e levò alta la voce. «Udite!» Il silenzio si fece più attento.
«Avete tutti saputo la notizia. Lot è alle porte di Camulod. La
tempesta di stanotte ci ha ritardato parecchio, e proseguendo per
questa strada sarà un miracolo se arriviamo a Camulod prima di
domani sera. E se non ci arriviamo, inostri amici e le nostre famiglie
moriranno.» Nessuno si mosse e nessuno parlò. Uther mi guardò
ancora e continuò.
«Siamo stati ciechi, soldati di Camulod. La strada costruita dai
Romani è a meno di due miglia da dove ci troviamo. Se ci
muoviamo subito, saremo a Camulod per il sorgere del sole. Che
cosa ne dite?» Il ruggito di stupefatta approvazione mi fece
accapponare la pelle. «Così sia. Lasciate qui provviste e tende e
montate a cavallo. Portate solo il necessario per combattere. I carri
di commissariato resteranno qui e ci seguiranno più tardi. Abbiamo
una lezione da insegnare all'usurpatore di Cornovaglia. Partiamo tra
un quarto d'ora!»
XXI.
Arrivammo a Camulod nel buio che precede l'alba, e
immediatamente spiegammo i nostri uomini all'interno del limitare
della foresta che circondava la vasta pianura di addestramento
militare ai piedi della collina. Uther aveva mandato avanti i suoi
Celti in esplorazione per cercare di determinare che cosa era successo
durante la nostra assenza, ma vedemmo da soli l'allarmante e
spaventosa entità dell'accaduto.
Camulod bruciava. Il riverbero vivido e colossale illuminava
tutta la sommità della collina, e sentivamo i rumori della battaglia
imperversare alla base della collina, intorno alle fortificazioni
frettolosamente improvvisate che Popilio stava costruendo quando
l'esercito di Lot aveva attaccato. Alla nostra destra, verso nord, un
incendio bruciava cupo tra le macerie della villa. Anche da oltre due
miglia di distanza, la scena somigliava a una folle visione dell'Ade. Il
fumo aspro e acre sospinto dalla brezza si attaccava in gola.
«Allora?» La voce di Uther era rude e brusca nelle mie orecchie.
«Qual è la nostra mossa?»
Avevo la mente in tumulto di fronte a una simile distruzione.
Cercavo di trattenere le lacrime di rabbia e di frustrazione, e dovetti
deglutire più volte perché non mi tremasse la voce.
«Non lo so, Uther, non lo so. È troppo buio. Se attacchiamo
adesso saremo guidati solo dalla luce degli incendi. Potrebbero
esserci chissà quanti uomini nascosti là fuori nell'oscurità»
«Sì, è vero.» La sua voce era tesa e roca, per la rabbia che era
anche la mia. «Ma quei bastardi non si aspettano che mille di noi li
colpiscano dietro le orecchie. Attacchiamoli ora.»
Ero fortemente tentato di concordare con lui, ma poi ricordai
che i nostri esploratori erano là fuori al buio, e ritrovai la
consapevolezza del silenzioso esercito alle nostre spalle. I soldati
erano stati avvisati di non fare nessun rumore che potesse tradire la
nostra presenza, sotto pena di corte marziale. Gettare i nostri uomini
in un attacco notturno sarebbe stato un azzardo, per numerosi
motivi. Feci di no con la testa. «No, Uther. Se ci muoviamo contro di
loro adesso, perdiamo la nostra iniziativa. Non vedranno la nostra
forza, e invece voglio che ci vedano, che vedano mille cavalieri
freschi. Freschi per questa battaglia, almeno. Freschi per loro.
Dobbiamo aspettare l'alba e il ritorno degli esploratori.»
«Il ritorno degli esploratori? Potrebbero essere tutti morti, Cai!
Quella lassù è Camulod che brucia! C'è tuo padre, lassù, e c'è anche
mia nonna.»
«Uther, lo so.» Volevo gridare, ma riuscii a parlare in tono
sommesso e urgente. «Credi che sia cieco e stupido? Ma la decisione
è semplice: o attacchiamo adesso per rabbia, al buio, come una
moltitudine disordinata e inferocita, e rischiamo di non risolvere
niente, oppure aspettiamo un'ora e attacchiamo con la luce del
giorno, quando le nostre forze saranno visibili per gli uomini di Lot e
per i nostri. Lot pensa ovviamente di avere la battaglia in mano,
altrimenti non lascerebbe combattere i suoi uomini durante la notte.
Sta cercando di stancare i nostri uomini, ma stanca anche i propri.
All'alba non saranno pronti a tollerare la vista di un esercito di
cavalieri freschi e riposati che li attaccano alle spalle. I nostri uomini,
invece, vedendoci si rincuoreranno.»
Non era convinto. «E il forte? Sta bruciando, Cai. Forse stanno
combattendo anche là.»
«Spero di no» risposi, mostrandomi altrettanto incerto. «Ma se
stanno combattendo, non possiamo fare nulla per aiutarli. Ci sono
due eserciti tra noi e loro.»
«Dannazione» esplose. «Ci deve essere qualcosa che possiamo
fare!»
Lo afferrai con forza per una spalla, cercando di fargli
riconoscere la verità delle mie parole. «Adesso niente, Uther!
Accettalo. Niente di utile. Non prima dell'alba. Nel frattempo,
possiamo cercare di organizzare un piano d'attacco.» Sentii il suono
di un'intimazione sommessa, l'immediata risposta alla mia destra, e
poi un gruppetto di figure si avvicinò a noi nell'oscurità soffocante.
Erano tutti a piedi e tutti tranne uno erano dei nostri. L'eccezione era
costituita da un giovane caposquadra che quando eravamo partiti
era rimasto a Camulod con Tito e con mio padre. Uther e io ci
precipitammo giù da cavallo e gli andammo incontro. Uther lo
raggiunse un istante prima di me e lo accolse con la domanda che
era subito venuta in mente anche a me. «Come ci hai trovati? Come
sei arrivato qui?»
Il giovane ci salutò entrambi. «Comandante Uther, comandante
Merlino, il legato Tito mi ha mandato fuori dal campo al calare della
notte per aspettarvi qui. Ho dovuto farmi strada lungo il fianco della
collina verso la villa per aggirare il nemico e giungere qui.»
«Da solo?» lo interruppi. «Sei venuto da solo? E se nel buio non
ci avessi trovati?»
«No, comandante» mi interruppe a sua volta senza rendersene
conto, «non da solo. Eravamo in tre. Uno si è fermato a nord della
villa per aspettarvi là nel caso che non foste già passati. Un altro si è
fermato a metà strada, e io ho proseguito da solo. Il legato non
conosceva l'ora del vostro arrivo, ma speravamo tutti che arrivaste
stanotte.»
«Dov'è il legato, adesso?» chiese Uther. «Che cosa è successo su al
forte?»
Il messaggero scrollò il capo. «Non ne ho idea, comandante. Ero
tra gli uomini che ieri il legato ha destinato alla fortificazione del
campo sulla pianura ai piedi della collina, ma qualsiasi cosa stia
succedendo lassù è iniziata solo stanotte, dopo che siamo partiti alla
vostra ricerca. Prima di allora non c'era niente di anormale.»
«Il campo in pianura è in grado di difendersi?» chiesi, fin troppo
conscio di quanto poco sapessimo sull'effettivo stato delle cose.
«Possono resistere?»
La sua risposta fu immediata e positiva. «Sì, comandante.
Abbiamo più di mille uomini, forse quasi millecinquecento. Sono ben
riforniti e sotto il comando del legato Tito e di Popilio, il primus
pilus. Possono resistere ancora per un giorno almeno, anche se da
ieri sono soggetti a un costante attacco. I rinforzi del legato hanno
dovuto farsi strada combattendo.»
Schioccai le dita con impazienza. «Che cosa sai dirci del nemico?
Quanti sono? Bene armati? Hanno una cavalleria? Come sono
disposti? Stanno usando frecce avvelenate?»
Mi anticipò levando il palmo della mano, e io mi calmai,
stupito. «Per favore, comandante Merlino» disse. «Ho le risposte che
desideri.»
«Bene» ringhiò Uther, soffocando una risata. «Sputa fuori, allora.»
Il soldato si girò verso Camulod, mettendosi tra Uther alla sua
destra e me a sinistra, e con la mano sinistra indicò verso sud. «Il
campo nemico principale è laggiù alla base della collina, a circa due
miglia da dove ci troviamo adesso. Abbiamo valutato una forza
complessiva di cinque/ottomila uomini, ma è difficile essere precisi a
causa del flusso costante di nuovi arrivi, sempre da sud-ovest. Molti
sono a cavallo, ma non sono certo cavalleria. Non hanno disciplina
né addestramento. Non abbiamo riscontrato manovre organizzate.
Quasi tutte le loro cavalcature sono pony di montagna.» Fece una
pausa, poi continuò: «Mentre ci dirigevamo qui, io e i miei
compagni abbiamo provato a contare i bivacchi. Forse più della
metà degli uomini stanno dormendo nel campo principale. Gli altri
stanno attaccando il nostro accampamento sulla pianura, nel
tentativo di spossare i nostri uomini e, crediamo, di distrarre la loro
attenzione da qualsiasi cosa stia accadendo su al forte. E no,
comandante Merlino, finora, che noi sappiamo, non sono state usate
frecce avvelenate».
Fece un'altra pausa per lasciarci digerire tutte le informazioni, ma
aveva evidentemente altro da dire. Uther e io non facemmo
commenti, e aspettammo che riprendesse. Riprese, infatti, ma adesso
che aveva finito di fare congetture, il tono di voce era diverso; era il
tono uniforme e familiare del soldato che ripete un messaggio.
«Il legato Tito si prepara a fare uscire i suoi uomini da dietro il
muro all'alba, ma non prima che vi siate mostrati al nemico e
l'abbiate distratto a sufficienza da consentire loro un'uscita sicura e
disciplinata. Suggerisce che forse potreste voler lanciare il vostro
attacco lungo un fronte scaglionato, impegnandovi prima con l'ala
sinistra. Il legato ha osservato che il campo principale del nemico
effettivamente blocca l'uscita dalla pianura verso sud. L'attacco
iniziale con l'ala sinistra costringerà il nemico verso nord.
Risparmiando le forze e ingaggiando battaglia a scaglioni susseguenti,
dovreste poter trasformare il movimento verso nord in una rotta; il
legato e la sua fanteria lasceranno il nostro accampamento per gli
ingressi meridionale e orientale, e attaccheranno il nemico su un
fianco e da dietro nel momento in cui voi completerete il vostro
avanzamento, tagliandolo definitivamente fuori dal campo
principale. Quando sarà incominciata la ritirata verso nord, le nostre
forze congiunte lavoreranno assieme per aumentarne lo slancio. Il
legato suggerisce inoltre che tratteniate l'estrema destra in totale
occultamento nella foresta a nord-est finché non sarà il momento di
farle prendere parte al combattimento. Quando il nemico avrà
liberato in massa l'angolo nordorientale del nostro accampamento,
un terzo contingente di truppe, una coorte, uscirà dal cancello nord
per sferrare un altro attacco laterale, sostenuto dal vostro ultimo
squadrone non ancora impegnato, direttamente da est, dalla loro
destra. Secondo il legato non serve una grande disciplina, solo un
tempismo perfetto. Poi, al momento giusto, che vi verrà segnalato
da una carica di quattrocento soldati di cavalleria provenienti dal
forte e condotti dal legato Flavio in persona, metterete in mostra le
vostre riserve ancora intatte sulla destra, facendole uscire in piena
forza dal loro nascondiglio a nord-est.»
Si fermò, e sorrise biecamente prima di finire di esporre il piano.
«Frattanto, non appena la battaglia finale sarà in pieno svolgimento,
la vostra ala sinistra, alle spalle del nemico in fuga, si disimpegnerà,
cambierà fronte e catturerà il campo nemico, lasciando che a portare
a termine l'inseguimento sia la nostra fanteria.»
Lo avevamo ascoltato in muta e immota concentrazione,
visualizzando l'intera battaglia secondo la sua descrizione, notando
l'assoluta, primitiva semplicità del piano e la sempre più evidente
importanza del sincronismo. Dopo un silenzio di parecchi secondi,
Uther parlò.
«Di chi è questo piano?»
«Del generale Pico, comandante.»
«Lo immaginavo.» Si girò verso di me. «Funzionerà, Merlino. Che
parte vuoi, la destra o la sinistra?»
Scrollai le spalle. «Non fa differenza. A te la scelta. Ma non
abbiamo più tempo e c'è molto da fare.»
«Bene, io prenderò la sinistra e andrò per primo. Quanti uomini
avrò?»
Stavo già valutando l'entità delle nostre forze. «Trecento, ma
devi muoverli in fretta. Per ottenere un maggiore effetto, devi
lanciare la carica da dietro il loro campo, quasi direttamente da sud,
perciò devi sbrigarti.»
«Sono già partito. C'è altro che dovrei sapere?»
Nella mia mente si stava svolgendo un'attività frenetica. Mi
rivolsi al giovane messaggero. «Tu comandi uno squadrone?» Annuì.
«Allora oggi comanderai il nostro centro, con quattrocento uomini.
Scegli un subordinato che ne guidi duecento, a sud di una linea
mediana da qui al forte, per rafforzare l'attacco di Uther una volta
esaurita la sorpresa. Stabilisci tu il momento di lanciare alla carica i
tuoi duecento uomini, quando il nemico avrà sgomberato l'angolo
nordorientale del nostro accampamento. Io rimarrò nascosto con i
restanti trecento uomini e aspetterò la sortita di Flavio dal forte.
Adesso muoviamoci.»
Uther mi osservava attentamente. «Merlino» disse, «sembri
scontento. Qualcosa non ti convince?»
«Niente. Ma mi piacerebbe sapere che cosa sta succedendo su al
forte. Flavio potrebbe non essere in grado di fare uscire la sua
cavalleria.»
«Sarà morto, allora. La morte è l'unica cosa che potrebbe
impedirglielo.»
«Lo so» risposi, «ma come ho detto, non sappiamo che cosa sta
succedendo lassù. Se Flavio non viene fuori, i miei trecento non
faranno molta differenza.»
Uther fece ancora quella sua strana risata. «Allora non avrà più
importanza, cugino. Saremo nelle mani di Mitra. Comunque, terrò
gli occhi aperti. Se Flavio non esce, volterò i miei uomini e verrò ad
aiutare te invece di catturare il loro campo. In un modo o nell'altro
sarà una battaglia conclusiva, non avere paura.»
L'oscurità si andava trasformando nel grigiore dell'alba. Gli
sorrisi. «Non ho paura, Uther. Sono troppo terrorizzato per avere
paura!»
Rise ancora e mi diede un pugno sul braccio. «Ci vediamo più
tardi, cugino.»
Non ho merito per la buona conduzione della battaglia, né per
lo svolgimento riuscito del piano. Posso solo dire che, quando si
svolse, funzionò perfettamente. Avevamo quasi un'ora per
organizzare la disposizione delle truppe prima che la luce dell'alba
rivelasse al nemico la nostra presenza.
Ma i miei trecento uomini si nascosero bene, lontano a destra
del punto da cui Uther sarebbe partito all'attacco, e io ebbi anche il
tempo di preoccuparmi se Uther ce l'avrebbe fatta a raggiungere la
sua posizione e ad approfittare della sorpresa. Non avevo altro da
fare che attendere i suoni della sua carica, ma attesi e attesi e il cielo
si schiarì. Quando non potei più attendere senza vedere con i miei
occhi che cosa stava succedendo, tornai da solo sul limitare della
foresta e trovai un punto da cui poter guardare oltre lo schermo
degli alberi. Sulla pianura alla mia sinistra non c'era traccia
dell'esercito di Uther. Non aveva ancora fatto uscire i suoi uomini
allo scoperto.
Ricordo chiaramente la prima reazione di rabbia, il frenetico
domandarmi perché mai ritardasse tanto; balzai da cavallo e
proseguii a piedi. Davanti a me, proprio al margine della foresta, si
ergeva una quercia possente. Mi arrampicai in alto tra i suoi rami, e
perlustrai con lo sguardo il campus che si estendeva ininterrotto dalla
base della quercia fino alla collina di Camulod. Sulla vetta la
cittadella era oscurata dal fumo, ma proprio in quel momento si
levò un vento dall'est e soffiò via dalle mura le torbide nubi. Non
vedevo fiamme, ma ero lontano. E solo allora compresi il motivo
per cui Uther ritardava il suo attacco.
Il nemico era in movimento, in ranghi fitti e apparentemente
disciplinati, verso il nostro accampamento ai piedi della collina.
Erano forse cinquemila uomini, guidati da una forza d'assalto di
trecento carri da guerra. Ristetti incredulo, convinto com'ero che in
Britannia carri da guerra non ne esistessero più. Per quanto ne
sapevo, non si usavano in battaglia da decenni, e anche allora solo
nel lontano nord. Avanzavano pomposi e risoluti, e quando furono
vicini al nostro battagliato accampamento, i loro due o tremila
compagni che stavano combattendo si ritirarono per consentire loro
l'accesso.
I combattenti in ritirata si mischiarono al fiducioso esercito in
marcia, e ogni traccia di movimento disciplinato scomparve. Fu
allora che Uther da sud liberò alle loro spalle il suo esercito, facendo
squillare forti e chiare le trombe d'ottone. La sorpresa fu assoluta. Gli
eserciti di Lot, quale ritirandosi e quale avanzando, si erano fusi in
un disorganizzato miscuglio, e mentre i loro comandanti cercavano
di capire e reagire all'inattesa apparizione, ondeggiarono sconcertati
per un fatale intervallo di tempo. Quando i loro ranghi iniziarono a
girare nella parvenza di una formazione, i trecento cavalieri di
Uther, caricando in cinque squadroni a cuneo, serrati e invincibili,
ciascuno composto da tre formazioni sempre a cuneo di venti
uomini, avevano dimezzato la distanza che li separava. Guardai
ammutolito dall'ammirazione, e vidi chiaramente il grande
stendardo con il drago di Uther al vertice dello squadrone centrale.
Era la manovra in formazione che avevamo trascorso mesi e mesi a
preparare, ma che non avevamo ancora utilizzato in battaglia.
Poi, mezzo minuto prima del fragore dello scontro, un'altra
adunata risuonò alla mia sinistra, e la prima metà del nostro centro,
duecento cavalli, irruppe alla carica, avanzando a sempre maggiore
velocità per colpire il nemico al fianco appena scoperto. Riportai lo
sguardo sulla carica di Uther e, nei pochi istanti che mancavano allo
scatenarsi dell'azione, vidi la luce del mattino riflettersi sulle punte
delle lance: Tito comandava l'uscita dai cancelli meridionale e
orientale della sua fanteria, in manipoli di centoventi uomini
ciascuno.
Travolto dall'eccitazione della scena, quasi dimenticai il mio
ruolo negli eventi che si andavano susseguendo. Gli uomini di Lot
erano venuti per saccheggiare e depredare, e noi trionfavamo. Non
sapevano che cosa si sarebbero trovati di fronte veramente. Non si
aspettavano certo la tattica romana unita alla strategia di Alessandro!
Mi precipitai giù dall'albero, saltando di ramo in ramo,
rimproverandomi per i miei dubbi, ma anticipando già il
prorompente attacco dei miei trecento uomini. Risalii a cavallo,
raggiunsi le mie truppe e segnalai loro di pazientare ancora, poi
mandai uno dei Celti di Uther sulla quercia con l'ordine di
informarmi quando il nemico avesse oltrepassato l'angolo
nordorientale del nostro campo, e l'assalto finale del nostro centro
fosse incominciato.
Mi parve che ci volessero ore, fermi a cavallo ad aspettare, e a
vedere la battaglia attraverso gli occhi dell'uomo sull'albero; ma dai
suoi commenti tutto si stava svolgendo come previsto. Sperimentai
per l'ennesima volta l'agonia dell'attesa e del dubbio, e nella mia
agitazione mi trastullai con l'arma che Uther aveva fatto per me, la
palla di ferro attaccata alla catena. La slegai dalla sella e infilai il
polso nel cappio, impugnai il grosso manico di legno e assaporai la
.sensazione di quel peso forte e sostanzioso. Mi ero alzato sulle
staffe, tentando vanamente di vedere oltre il riparo delle foglie,
quando l'uomo sull'albero lanciò un grido: i cancelli del forte erano
aperti e la nostra cavalleria stava uscendo. Roteai la palla di ferro
intorno alla testa, incitai gli uomini schierati dietro di me, mi sedetti
sulla sella e affondai i calcagni nei fianchi del cavallo. Vidi l'uomo
sull'albero scendere quasi con la mia stessa rapidità, e poi ci
ritrovammo all'aperto, a tagliare la strada al demoralizzato esercito
di Lot, tra gli squilli delle trombe e il rombo crescente degli zoccoli
dei cavalli che a ogni falcata aumentavano la velocità delle
formazioni a punta di freccia nate per fendere lo spessore di
qualunque fanteria. E mentre la distanza tra noi e il nemico
diminuiva, a più riprese alzavo gli occhi alla vetta della collina e
udivo la mia voce levarsi esultante, al vedere la cavalleria di mio
padre che sciamava fuori dalle mura e si riversava lungo il pendio
per unirsi a noi nel massacro.
Nel fervore della battaglia, la nuova arma di Uther mi
impressionò più di ogni altra cosa. Era leggera come una piuma
eppure ogni volta che la palla roteando colpiva nel segno, un uomo
veniva scagliato a terra come un bambolotto di paglia e stracci. A un
certo punto sentii una gran botta al petto e poi un dolore al polso, e
brevemente scorsi una freccia cadere a lato del mio cavallo. La
ignorai e uccisi un altro uomo a terra, sfondandogli elmo e cranio
con un colpo della mia palla di ferro, prima di venire colto dal
sospetto che avrei potuto morire per una freccia avvelenata.
Un'ondata di panico mi travolse; dimentico dell'infuriare del
combattimento intorno a me, gli occhi fissi sul taglietto superficiale al
polso sinistro, tirai con violenza le redini. Improvvisamente il mio
fiero cavallo cadde in ginocchio con un gemito di dolore, e io mi
ritrovai a terra, con i piedi ancora nelle staffe, e sotto di me il
cavallo che sussultava nell'agonia della morte. Ritornai in me e vidi
la lama di una lancia puntata contro il mio petto; mi buttai di lato,
scalciando per liberare i piedi dalle staffe. Solo uno si liberò, e per
fortuna era quello che serviva per salvarmi la vita. La punta della
lancia mi sibilò lungo il fianco, sotto il braccio, e poi l'uomo che la
impugnava mi si schiantò addosso, gettandomi all'indietro e
lasciandomi senza fiato. Attraverso occhi d'un tratto appannati dalle
lacrime lo vidi alzarsi in ginocchio sopra di me, accorciare la presa
sulla lancia, e poi sparire, catapultato a sua volta all'indietro dal
fendente di una spada. Un secondo dopo un cavallo mi sovrastava,
impennandosi per non calpestarmi, e una voce chiamava il mio
nome.
«Comandante! Merlino! Puoi alzarti?»
Era Cazio, uno dei miei ufficiali. Gli feci cenno di sì e
faticosamente mi alzai, ammirando al contempo l'abilità con cui
controllava la sua cavalcatura, facendola girare in cerchio sulle
zampe posteriori per tenere a bada un esercito. Afferrai con
entrambe le mani l'impugnatura che reggeva catena e palla e la feci
roteare, abbattendo tre uomini e aprendomi uno spazio intorno.
Ricordo che pensai che il rumore e la confusione erano molto peggio
a terra di quanto mai mi fossero parsi dal dorso di un cavallo; e
pensai che evidentemente non ero stato avvelenato. Poi udii di
nuovo la voce di Cazio che mi urlava di montare a cavallo dietro a
lui. Mi guardai attorno e a meno di tre passi vidi la carcassa del mio
cavallo: solo due avversari mi separavano da essa.
Sollevai la mia nuova arma e mi lanciai alla carica, presi il primo
in pieno petto con la letale palla di ferro, e vidi il suo compagno
scivolare sull'erba insanguinata. Proseguii nel mio slancio, girando su
me stesso come un pazzo, e al culmine dell'impeto, a braccia distese,
fracassai il cranio del secondo uomo. La violenza dell'urto quasi mi
fece cadere, ma mi portò a fianco del mio cavallo morto, di fronte a
Cazio, che mi tendeva il braccio destro. Saltai sul cadavere
dell'animale e incrociando il braccio con il braccio di Cazio mi issai
sul posteriore del suo cavallo, che però all'istante cadde con una
lancia nel collo facendoci volare in avanti. Cazio e io atterrammo
insieme, ancora uniti per i gomiti, ma questa volta io atterrai sulle
mie gambe, barcollai e caddi all'indietro, mentre Cazio scompariva
sotto un gigantesco bruto che maneggiava una spada corta come
fosse un pugnale. Avevo perso la presa sul mio mazzafrusto, ma ne
sentivo ancora il peso penzolare dalla cinghia intorno al polso.
Riuscii a mettermi carponi, come un orso, appena in tempo per
vedere il gigante accasciarsi infilzato da una lancia. Cazio non si
muoveva. E allora sentii scatenarsi dentro di me la furia omicida, e
con il ruggito della mia voce che mi rimbombava nelle orecchie, mi
rialzai stringendo in pugno il mio terribile mazzafrusto.
Da quel momento in poi non ricordo nulla, solo che mi ritrovai
davanti a un altro gigantesco celta, con la catena del mazzafrusto,
chissà come, avvolta intorno al manico della sua ascia, e la chiara
consapevolezza di non possedere più la forza di liberare la mia
arma. Ero troppo stanco. Abbandonai la presa e sfilai il polso dal
cappio, e vidi il lampo di trionfo nei suoi occhi, il mio mazzafrusto
cadere a terra e la sua ascia levarsi pronta a colpire. Ma ero solo
stanco, non ancora morto, e nemmeno battuto. Prima che la sua
ascia avesse raggiunto l'apice del movimento rotatorio, io avevo
sfoderato la mia spada corta e l'avevo affondata fino all'elsa sotto lo
sterno di quello sciocco. Poi rimasi lì, troppo stanco per muovermi
ancora, e osservai la morte fiorirgli negli occhi e piegargli le
ginocchia. Non tentai neppure di liberare la spada. Intontito, mi
chinai e mi feci scivolare la cinghia del mazzafrusto intorno al polso,
e lentamente mi sedetti, non perché lo volessi, ma perché ero
esausto. La marea della battaglia si era ritirata da me, e io ero vivo e
solo in un oceano di uomini morti e mutilati.
Non so quanto tempo restai lì seduto, ma infine recuperai un po'
di forza e un po' di respiro, mi alzai in piedi e guardai la carneficina
che mi circondava. Un cadavere vestito di nero e argento attirò la
mia attenzione, e mi avvicinai, pensando che fosse Cazio, ma era
uno dei miei soldati. Erano miei soldati anche gli altri otto che
guardai prima di trovare il povero, coraggioso Cazio, che era morto
nel tentativo di salvarmi. La vista dei suoi occhi sbarrati e senza vita
mi fece rinsavire completamente; cercai invano di chiudergli le
palpebre, poi mi raddrizzai e scrutai con maggiore obiettività il
campo di battaglia. I cadaveri degli uomini di Lot superavano i nostri
per dieci a uno, ma i miei uomini rannicchiati nell'abbraccio della
morte erano tanti, troppi. Poco lontano vidi il mio cavallo morto, e
vicino a lui il corpo del cavallo di Cazio, e i miei occhi si colmarono
di lacrime. Non mi sembrò strano piangere per i cavalli in mezzo a
quei mucchi di uomini morti. Gli uomini morti erano troppo
numerosi per muovere a pietà; la mente non era in grado di
comprenderli tutti. Ma i cavalli erano innocenti. Mi tolsi l'elmo e
piansi, a testa china, per il dolore e la follia e l'infamia causati dalla
fellonia di un solo uomo. E poi rimisi l'elmo, lo affibbiai, pretesi la
mia spada dal cadavere dell'ultimo uomo che avevo ucciso, e andai
in cerca di Lot di Cornovaglia, percorrendo a lunghi passi quel
campo di morte, udendo solo allora, e ancora molto debolmente, le
urla e i gemiti dei feriti che giacevano ovunque.
Camminavo senza distogliere gli occhi dalla massa di uomini che
in lontananza continuavano a combattere. Tenevo l'impugnatura del
mazzafrusto nella mano destra con la catena sulla spalla e la palla
che penzolava dietro la schiena, e avanzando pregavo che Lot non
fosse ancora morto, perché anelavo a mostrargli la brutale potenza
della mia nuova arma.
Camulod bruciava, e vederla bruciare sulla cima della collina
indurì ogni cosa dentro di me. Daffyd il druido mi aveva parlato
della fortezza di Lot a Occidente: dicevano che era inespugnabile.
Giurai di farla rotolare, pietre e tronchi e uomini, fino giù nel mare.
Diventavo sempre più cosciente della vita e della sofferenza
tuttora presenti in molti uomini intorno a me. Le loro grida, i gemiti,
le implorazioni di aiuto sembravano aumentare e rafforzarsi, finché
la mia testa fu piena di quella babele di voci. Ma li ignorai, amici e
nemici in ugual maniera. E poi vidi un cavallo, vivo e in buona
salute, pareva, a testa bassa, a circa duecento passi da me. Mi
avvicinai con cautela, per non spaventarlo, ma l'animale era calmo e
lasciò che lo prendessi per le briglie. Era spossato, i fianchi e il garrese
schiumavano di sangue e di sudore. Gli montai in groppa e lo diressi
verso il nostro campo; dalla lunghezza delle staffe dedussi che il suo
precedente cavaliere era uno dei nostri con le gambe più corte delle
mie. Dopo essere stato appiedato così a lungo, mi accorsi con
sorpresa che dall'alto di un cavallo si vedeva molto di più: l'intero
campo di battaglia riassunse una prospettiva familiare. Sollevato
dalla necessità di camminare, mi guardai intorno con maggiore
attenzione.
A circa trecento passi dall'accampamento fortificato costruito da
Popilio, incontrai un altro dei miei uomini, vivo. Era Polidoro, uno
dei miei centurioni, e un laccio gli stringeva il braccio sinistro sopra il
gomito. Feci fermare il mio cavallo accanto al cadavere di un altro
animale morto e goffamente aiutai Polidoro a salire dietro di me.
Non scambiammo una parola finché non fu montato, sorreggendosi
a me con il braccio buono.
«Come va, il tuo braccio?» gli chiesi.
Mi rispose a denti stretti, con voce aspra e sibilante. «Piuttosto
male, comandante. Piuttosto male.»
«Beh, se questo cavallo ci sopporta tutti e due ancora per
qualche momento, possiamo farcela a raggiungere l'accampamento
laggiù. Dov'è andato il tuo esercito?»
«Non lo so, comandante. Probabilmente a ricacciare Lot in
Cornovaglia.»
«Spero di no! L'ultima volta che li ho visti erano diretti a nord.»
Il povero cavallo barcollava quando ci scorsero dalle mura.
L'accampamento non era ovviamente dotato di un presidio
completo, ma qualcuno della guarnigione ci corse incontro per
aiutarci. Sopra di noi, da Camulod si levava un fumo tetro. Con
tutta la delicatezza che potei, consegnai Polidoro a quelle braccia
protese, e attesi di vederlo adagiato su una barella composta da uno
scudo in mezzo a due lance. Poi rimisi il cavallo al passo, ed entrai
dal cancello settentrionale, dove mani volenterose mi aiutarono a
smontare e a togliermi l'armatura ammaccata.
XXII.
«Sapevi di averla, comandante?»
Guardai stancamente
mostrando. «No, dov'era?»
la
freccia
che
qualcuno
mi
stava
«Conficcata nella tua corazza, signore, all'altezza della spalla.»
«Nella schiena?»
«Sì, comandante, tra le giunture.»
Scossi la testa. «Non l'ho sentita. Sii prudente, potrebbe essere
avvelenata.»
Il soldato la sollevò alla luce e la fissò meravigliato. «Per gli dei,
comandante, credo che lo sia! Il metallo è rivestito di una sostanza
strana.»
Per l'orrore mi si rizzarono i capelli sulla nuca. «Fammela
vedere.» La sollevai alla luce come aveva fatto lui e vidi sulla punta
di ferro dei residui cristallini verde argento. Non somigliavano a
niente che avessi mai visto prima. Rabbrividii per il ribrezzo e gettai
la freccia lontano da me. «Potrebbe essere. Il solo pensiero mi rivolta
lo stomaco. Facci attenzione!»
Il soldato andò a riprendere con molta cautela la freccia, e
osservò ancora la punta sbiadita. «Ebbene» disse, quasi a se stesso, «lo
sapremo subito.»
«E come, soldato? Hai intenzione di provarla?» Ero così stanco
che biascicavo le parole.
«Sì, comandante. Su uno di quei bastardi.» Indicò un gruppo di
prigionieri che non avevo notato.
«Non farai una cosa simile!»
«Perché no, comandante?» Era la quintessenza dell'innocenza
offesa. «Gli farò solo un graffietto. Se non è avvelenata, non gli farò
alcun male. Se è avvelenata, invece, sapremo chi ha usato queste
frecce l'ultima volta.»
Ricordai l'innocua freccia che mi aveva scalfito il polso, e ricordai
che quella freccia, la freccia che teneva in mano con tanta
accortezza, si era trovata a meno di un dito dalla mia pelle. Annuii.
«Procedi pure, allora.»
Si diresse al gruppo di prigionieri, ne afferrò uno per il braccio,
lo tirò fuori dal gruppo e gli fece un profondo graffio con la punta
della freccia. A lungo il prigioniero fissò la ferita con occhi spenti, e
poi mi guardò, con il braccio ferito teso e rigido, in modo da
mostrarmi chiaramente la ferita sanguinante nell'incavo del gomito.
La sua faccia era del tutto inespressiva.
Mi rivolsi al centurione al mio fianco. «Acqua. Ho bisogno di
lavare via un po' di questo sudiciume.»
«L'ho già ordinata, comandante.»
Vidi due soldati avvicinarsi con delle brocche d'acqua, e poi
sentii un gemito strozzato alle mie spalle e mi girai di scatto a
guardare. La faccia del prigioniero non era più inespressiva; era una
smorfia di dolore e di terrore, fissa sul braccio ferito rigidamente teso
in avanti. Non appena mi resi conto di quello che gli avevamo fatto,
il suo gemito si tramutò in un urlo acuto e gorgogliante. Il
prigioniero si buttò a terra, contorcendosi nell'agonia, agitando e
strattonandosi il braccio come se volesse svellerlo dal corpo. Aprii la
bocca per gridare, ma nulla ne uscì, e rimasi inorridito oltre ogni dire
a guardarlo divenire preda delle convulsioni, inarcare la schiena e
toccare terra solo con la testa e i calcagni, rovesciarsi su un fianco
dimenando braccia e gambe. Era lo spettacolo più orrendo che
avessi mai visto. La mia mente gridava Avrei dovuto essere io!
Quello avrei dovuto essere io! E poi un centurione ritornò in sé e
con un misericordioso fendente della sua spada corta mise fine alla
miseria e alle sofferenze di quell'uomo. Ma il corpo decapitato del
prigioniero continuò a scalciare e a contorcersi, schizzando per la
corte grandi getti di sangue.
Con uno sforzo enorme deglutii la bile che mi era salita in gola,
e cercai con lo sguardo l'uomo che aveva ferito il prigioniero. Era
paralizzato, bianco come la morte; la freccia giaceva a terra ai suoi
piedi, dov'era caduta dalle sue dita improvvisamente private di
nerbo.
"Avevi ragione" mi sentii dire. "Raccogli la freccia e tienila in
serbo per me. Trattala con cura per proteggere il rivestimento. Ne
avrò bisogno più tardi." Mi rivolsi ai soldati impalliditi che avevano
portato l'acqua. "Portatela in quella tenda. Mi lavo subito."
Mi lavai nella nebbia di un freddo distacco, immersi tutta la testa
nell'acqua che restava, e indossai di nuovo l'armatura e gli
sbrindellati avanzi del mio grande mantello nero. Il corpo pareva
rinvigorito, ma la mente era intorpidita; sapevo solo quello che
dovevo fare. Quando uscii dalla tenda vidi Popilio che mi aspettava,
e l'accampamento pieno di soldati impolverati, insanguinati e
stanchi.
"Comandante Merlino." La voce di Popilio era greve di
apprensione. "Sei illeso? Pensavamo che fossi morto."
Meccanicamente lo rassicurai e gli chiesi che cosa era accaduto
nel forte. L'apprensione divenne angoscia, ma seppe dirmi soltanto
che qualsiasi cosa fosse accaduta era accaduta dopo il calare della
notte. Da allora non aveva avuto né il tempo né la possibilità di
conoscere le condizioni esistenti dentro il forte.
"D'accordo" dissi, "lo scoprirò da me. Ci sto andando adesso. E
Lot? Dov'è il suo esercito?"
"Disperso, comandante, quello che ne resta. Distrutto."
"E Lot?"
Popilio si strinse nelle grosse spalle. "Sembra che nessuno lo
sappia, comandante. Potrebbe essere tra le vittime."
"No." Ero disgustato. "Non quel serpente. Quelli come lui
raramente muoiono così, con onore. Dev'essere fuggito."
Popilio aveva dei dubbi. "Se è fuggito, è fuggito alla svelta,
comandante. Gli uomini di Uther erano nel suo campo dopo pochi
minuti dalla prima carica."
"Oh, Popilio, stai certo che è fuggito alla svelta. Ma non potrà
correre lontano. La Britannia non è più grande abbastanza per
nascondere quell'uomo da me." Guardai in cima ala collina. "Rimetti
insieme i tuoi uomini, Popilio, e andiamo a vedere che cosa ci
aspetta a Camulod."
Si schiarì la voce, come per farsi perdonare le sue parole. "La
situazione non può essere così brutta, comandante. La cavalleria è
uscita. Non ce l'avrebbe fatta se fossero stati sotto pressione."
"Questo è vero, ma c'era mio padre a capo della cavalleria?"
"Non lo so, comandante."
"Andiamo lassù e vediamo quanto sono gravi i danni. Mi
preoccupa il fatto che non sia ancora uscito nessuno."
Era determinato a essere ottimista. "Staranno spegnendo gli
incendi."
"Sì, e saranno contenti di ricevere il nostro aiuto."
Popilio aveva ragione. Ogni persona abile stava lottando contro
il fuoco, in gran parte domato. Solo quando entrai dal cancello nella
corte piena di fumo e vidi l'estensione del danno, pensai all'Armeria
e al tesoro che giaceva nascosto sotto il pavimento di legno, e il
cuore mi balzò in gola. La corte era invasa dalla confusione, e dalle
linee incrociate di coloro che si passavano di mano in mano secchi di
cuoio e di legno dalle grandi cisterne presso il muro occidentale. La
corte era allagata di acqua sporca e schiumosa di fuliggine. Lasciai
Popilio a disporre i suoi uomini lungo le linee per affrettare il
trasporto dell'acqua e andai in fretta al muro occidentale, contro il
quale Publio Varro aveva costruito l'Armeria e la sua casa. L'edificio
era miracolosamente intatto, ma circondato da una falange degli
arcieri celtici di Uther. In alcuni punti il tetto di paglia aveva preso
fuoco, ma le fiamme non avevano avuto il tempo di estendersi
perché subito erano state irrorate con l'acqua delle cisterne vicine.
Sentii chiamare il mio nome; Donuil venne verso di me,
accompagnato dal centurione Rufio, il suo guardiano. i due uomini
erano neri di fuliggine dalla testa ai piedi, ma erano i primi volti che
avevo riconosciuto dal momento del mio arrivo.
"Donuil" esplosi, tenendo d'occhio gli arcieri. "Che cosa è
successo qui? Che cosa sta succedendo?"
Trasse un respiro profondo e singhiozzante, cercando di
immettere nei polmoni un'inesistente aria pulita. "Sono stati i maghi,
Merlino, Caspar e Memnone. Sono scappati dalle loro celle in piena
notte e hanno aperto il cancello nel muro posteriore. Fuori c'erano
degli uomini che aspettavano. Si erano arrampicati su per la
scarpata."
Ero stupefatto. "Sono scappati? Come? Non avrebbe dovuto
essere possibile. Erano sotto custodia stretta, o no?" I due uomini
annuirono. "Allora come hanno fatto a scappare?" Vidi il loro
turbamento e insistetti. "Voi lo sapete. Ditemelo. Come hanno
potuto scappare?"
La voce sommessa di Donuil recava una traccia di aggressività.
"Te l'avevo detto, Merlino Britannico, prima che partissi,
quand'erano appena arrivati. Quegli uomini sono dei negromanti,
stregoni, maghi, servi della morte. Hanno poteri che gli uomini
comuni non hanno."
"Sciocchezze! Sarà stato un inganno. Devono avere corrotto una
guardia."
"No, Merlino!" Il tono dello scoto era categorico. "Non è andata
così. Hanno ammazzato tutte le guardie. È stata una magia di
qualche tipo. Durante la notte mi sono svegliato e sono andato a
controllare, perché ho paura di loro, come ben sai. Rufio è venuto
con me. Quando siamo arrivati, le celle erano aperte e le guardie
erano tutte morte. Senza indizi di violenza, bada. Abbiamo pensato
che dormissero."
"Dannazione, Donuil, ciò che mi dici è impossibile! Come hanno
potuto degli uomini in catene uccidere le loro guardie da dentro una
cella chiusa a chiave?"
"Non è impossibile! Le guardie erano morte e i prigionieri spariti.
Io non so come abbiano fatto, ma l'hanno fatto! Abbiamo dato
subito l'allarme, ma non abbiamo fatto in tempo a impedire loro di
aprire il cancello posteriore. Siamo riusciti a richiuderlo, ma molti
uomini sono entrati."
"Quanti?" Qualcosa non andava, ma in quel momento mi
sfuggiva.
I due uomini si guardarono e fecero una stima approssimativa.
"Cinquanta? Forse sessanta."
"E cinquanta uomini hanno fatto tutto questo?" Indicai con un
gesto del braccio la desolazione che ci circondava.
"Avevano frecce incendiarie. Hanno dato fuoco alla paglia dei
tetti."
"Quanti ne sono rimasti? Presumo che siano lì dentro." Puntai il
dito contro la casa di mio zio.
"Non lo sappiamo, comandante. Forse dieci o dodici. Hanno...
hanno degli ostaggi."
Mi si accapponò la pelle; avevo avuto la stessa sensazione per la
freccia avvelenata. "Chi?" Ma lo sapevo già.
Fu Rufio a rispondermi. "Tua zia, comandante, donna Luceia. Le
sue donne. Pochi altri."
"Mio padre" dissi, senza potermi trattenere. "Dov'è mio padre?"
Silenzio. "Dov'è?"
"Morto, comandante."
Il silenzio si protrasse per un'eternità, e finalmente Rufio parlò
ancora, con una voce che mi parve lontanissima. "L'hanno ucciso nel
suo letto prima di aprire il cancello." Era come sentire i rintocchi di
una campana d'ottone. Mi cedettero le ginocchia, e sentii Donuil che
mi afferrava e mi sosteneva. Rimasi lì, lasciando che reggesse tutto il
mio peso, finché la mente non mi si snebbiò.
"Dov'è adesso?" sussurrai.
"Ancora nel suo letto, dove l'abbiamo trovato."
"Aspettate qui." Andai nell'alloggio di mio padre, senza guardare
dove mettevo i piedi, senza badare alla devastazione intorno a me.
Era come avevano detto. Mio padre, il generale Pico Britannico,
era morto nel suo letto. Ma non dormendo. Le lenzuola
aggrovigliate alle gambe nude raccontavano una dura lotta, e nella
mia mente passò l'immagine di un'altra lotta, più antica e simile,
dalla quale era uscito vivo. Il suo corpo era rovesciato all'indietro,
con la testa tra il capo del letto e il pavimento, e non lo vidi in
volto. C'era sangue ovunque. Alzai gli occhi alla luce che entrava
dalla finestrella annerita sopra al letto, e la mia anima fu a un tratto
vuota. Girai intorno al letto e cercai di sollevare il suo corpo, di
donargli più dignità di quella che gli avevano lasciato i suoi assassini,
ma era rigido e freddo. Lo squarcio alla gola aveva completato il
lavoro iniziato tanti anni prima dalla freccia dei Pitti.
Rinunciai ai futili tentativi di muoverlo e mi sedetti sul bordo del
letto, incurante del sangue coagulato, ricordando la rudezza della
sua voce che non avrei mai più udito, contemplando la mano
massiccia che si stendeva in fondo al braccio dura come un artiglio,
quasi a voler trattenere la vita. E allora la mia risoluzione si inasprì.
Quando uscii nella corte ero di nuovo nel pieno possesso delle
mie facoltà. Poco lontano un bambino piangeva, e quel suono mi
fece pensare che forse io non avrei pianto mai più. Donuil e Rufio
erano ancora dove li avevo lasciati, girati verso di me, in attesa del
mio ritorno. Gli arcieri in semicerchio erano sempre rivolti
all'Armeria. Il profumo di cibo cucinato mi stuzzicò le narici. O le
cucine non avevano subito danni oppure Ludo stava improvvisando.
Nella corte il rumore era spaventoso. Ovunque tra gli edifici il fumo
vorticava e mulinava. Di tutte queste cose ero cosciente, ma nessuna
mi impressionava.
La mia mente era totalmente concentrata sul problema di tirare
fuori dall'Armeria i maghi e i loro ostaggi. Nel gelo della mia anima
sapevo che se là dentro non ci fosse stata mia zia Luceia, avrei preso
d'assalto quel luogo e sacrificato gli altri ostaggi. Ma Luceia c'era, e
non potevo mettere a rischio la sua incolumità, tanto più che era
l'ultima superstite dei primi coloni di Camulod. Un pensiero
chiarissimo continuava a venirmi in mente, per essere ancora e
sempre soffocato, finché non potei più negarne la giustezza, e fui
costretto ad ammettere che rappresentava per me l'unica via,
sebbene terribilmente pericolosa.
Parlai a Donuil e a Rufio. "Aspettatemi qui, devo sistemare
alcune cose. Che nessuno faccia una mossa contro quella gente là
dentro fino al mio ritorno, è chiaro?" Mi fecero il saluto e me ne
andai a fare i necessari preparativi.
Tornai dopo mezz'ora e mi rivolsi direttamente a Donuil. "Quei
maghi ti hanno visto?"
"Che cosa vuoi dire, comandante?"
"Voglio dire, ti hanno visto qui? Sanno che sei qui di tua
spontanea volontà?"
Aggrottò la fronte. "No, comandante. Sono stato attento a
evitarli."
"Ti hanno visto nel castello di tuo padre?" Fece un corrucciato
cenno di assenso. "E sanno dell'alta considerazione che tuo padre ha
per te?"
Annuì ancora. "Sì, certo. Li ho sentiti parlare di me come del
favorito di mio padre, pur non essendo il primogenito."
"Bene." Gli strinsi l'avambraccio. "Ti piacerebbe guadagnare la
tua libertà oggi?" Quanto avessi bisogno del suo aiuto era implicito
nella mia offerta, e Donuil era abbastanza perspicace da
accorgersene. Socchiuse gli occhi.
"La mia libertà?"
"Sì, oggi. L'immediato scioglimento dalla tua promessa."
Sembrò volermi guardare con aria minacciosa. "Come potrei?"
"Rendendomi un servizio."
"Un servizio." La sua espressione era illeggibile. "Che genere di
servizio?"
"Fingere di essere ciò che sei, un prigioniero, ma tuo malgrado."
"Fingere?" Adesso era cupo in volto, senza più ritegno. "Non
capisco."
"Non è difficile" gli dissi. "Quegli uomini - quegli stregoni, come
li definisci tu - tengono in ostaggio mia zia. È una delle due persone
al mondo che mi sono più care. L'unico stratagemma che sono
riuscito a escogitare per salvarle la vita è di metterla a rischio in uno
scambio di ostaggi."
Tacque per lo spazio di pochi battiti del cuore, poi disse: "Me, in
cambio di lei?".
"Sì."
Aggrottò di nuovo la fronte e scrollò il capo. "Non funzionerà,
comandante. A quegli uomini non importa nulla di me."
"No, ma a Lot sì, o comunque gli importerà quando si renderà
conto di poter esercitare su tuo padre una maggiore influenza, e
impressionare tua sorella affrancandoti dalla prigionia. Potrebbe
considerarti uno strumento politico di grande potere, un mezzo per
rinforzare l'alleanza con tuo padre e il suo popolo."
Il giovane scoto era tutt'altro che stupido. Vide immediatamente
la falla nel mio ragionamento. "Ma Lot se n'è andato, comandante.
Non appena arriverà in patria vedrà la realtà delle cose, saprà che il
nostro esercito è stato sconfitto. Le nostre forze non gli servono più
adesso."
"Non sono d'accordo, ma questo non è importante. Il punto è
che questi uomini non lo sanno. Cercheranno di fare lo scambio per
sfruttare il vantaggio e consegnarti a Lot. E lo riterranno un
vantaggio d'oro per loro stessi. Quale dei due è il più forte?"
Si strinse nelle spalle. "Nessuno dei due è..."
Lo interruppi, impaziente. "Scempiaggini. In ogni e qualsiasi
società c'è un socio dominante e un socio ossequiente. È nella natura
umana. Rifletti! Quale dei due prende le decisioni?"
Fece una pausa, per lo spazio di un battito. "Caspar. Memnone
lo segue."
"È quello che pensavo. Ti consegnerò a Memnone, che avrà con
sé mia zia. Io terrò Caspar. Ce ne andremo tutti da qui in un luogo
aperto, dove io non possa ingannarli. Quando saremo là, Memnone
lascerà che mia zia venga da me. Quando mi avrà raggiunto, io
libererò Caspar."
Donuil si incupì. "É uno scambio semplice. Funzionerebbe anche
senza di me, comandante Merlino."
"È vero, potrebbe funzionare, ma ne dubito. Adesso hanno un
vantaggio maggiore di quello che otterrebbero da un simile accordo.
Cosi come stanno le cose rischiano troppo, personalmente. Il
vantaggio di riuscire ad avere te potrebbe fare la differenza." Feci
una pausa, poi scrollai le spalle. "A ogni modo, non so pensare a
niente di meglio. E comunque non mi fiderei di nessuno di quei due
esseri. Se Memnone sospettasse di poter governare da solo il suo
magico regno, potrebbe sopprimere mia zia e lasciare Caspar a me.
Questo sarà il servizio che dovrai rendermi: ammazzare
quell'animale se anche solo si sogna di farle del male. Ti darò un
coltello, da nascondere nei tuoi abiti."
"Capisco." Le rughe sulla sua fronte si erano distese, ma
ritornarono all'istante. "E poi? E se il tuo scambio dovesse
funzionare, senza inganni? Io non desidero approfittare
dell'ospitalità di Lot."
"Perché no? Ti rimanderebbe a casa."
Mi guardò in silenzio per un momento e poi annuì. "Così sia. Ti
aiuterò."
"Bene. Ma dovrai presentarti in catene. Non saresti convincente
altrimenti." Mi girai verso il suo custode. "Centurione Rufio, porta
Donuil in cella e mettilo ai ferri, e non essere troppo gentile, deve
immedesimarsi nella parte. Restituiscigli i suoi abiti."
Quando se ne furono andati, mi avvicinai alle porte
dell'Armeria, allontanai gli arcieri con un cenno, e battei sul legno
con l'elsa della spada. Ci fu silenzio per alcuni minuti, e poi da dietro
la porta una voce mi gridò che cosa volessi. Chiesi di parlare con
Caspar o con Memnone e dissi chi ero. Passò dell'altro tempo, e poi
i battenti si aprirono leggermente e la voce profonda di Caspar, il
porco dalle gambe corte, mi chiese ancora che cosa volessi. Parlai
alla fessura tra i battenti.
"Innanzitutto, ascolta che cosa non voglio. Non voglio perdere
tempo a mercanteggiare con te. Tra i tuoi ostaggi hai la padrona di
questa casa. É molto vecchia. Se è già morta, siete morti anche tu e
tutti quelli che sono dentro queste mura, ostaggi o no. Se è ancora
viva, fammela vedere, e forse ti lascerò comprare le vostre ignobili
vite in cambio della sua."
Sentii una conversazione bisbigliata e frettolosa, e poi: "Questa
donna. Che cosa è per te?".
Digrignai i denti. "È la zia di mio padre."
Silenzio. "La zia di tuo padre? Ma tuo padre è morto, Caio
Merlino." Il cuore mi martellò in petto, e pensai, Lo so, e sei morto
anche tu, puzzolente grumo di sterco egiziano. "Ma tu sei ancora
vivo" continuò la voce, "e così tua zia."
Deglutii a fatica. "Provamelo. Fammela vedere."
Di nuovo i bisbigli di una conversazione, e poi: "Aspetta. La
vedrai. Ma il minimo trucco e moriamo tutti, la vecchia per prima".
Attesi.
Finalmente le porte si aprirono piano, e lì, in mezzo all'atrio,
tenuta stretta da un uomo che le stava alle spalle con un coltello
puntato alla gola, c'era Luceia. Il sangue sgorgato da un taglio sulla
fronte le aveva imbrattato il viso, i capelli pendevano a ciocche
scompigliate, e i suoi abiti erano a brandelli, ma aveva gli occhi bene
aperti, e stava in posizione eretta, con un atteggiamento di sfida. Le
chiesi se le avessero fatto del male, e lei mi rispose con voce
sorprendentemente forte: "Uccidili tutti, Cai! Non...". La mano del
suo aguzzino le tappò la bocca, e le porte si richiusero con uno
schianto.
Dopo alcuni momenti si schiusero appena.
"Ebbene" disse la voce, "come vedi, è viva. E adesso che cos'era
quella faccenda di vendere le nostre vite?"
"Vieni fuori, dannazione a te" latrai. "Non ho intenzione di
parlare attraverso una porta chiusa! Nessuno vi farà del male finché
quella donna è in vostro potere. La sua vita e il suo benessere
valgono più di tutti voi messi insieme." Deliberatamente mi girai e mi
allontanai, e rimasi in piena vista in mezzo alla corte con la schiena
alla porta.
Cinque minuti trascorsero prima che i battenti si riaprissero.
Caspar e Memnone uscirono e si fermarono, sbattendo le palpebre
nella luce fumosa del pomeriggio. Restai immobile, costringendo
loro ad avvicinarsi. Caspar avanzò arditamente, sogghignando.
Memnone, il più timido dei due, si guardò attorno innervosito. Si
fermarono ancora a circa due passi da me, e li affrontai con il
ribrezzo che mi ribolliva dentro. Caspar, naturalmente, fu il primo a
parlare.
"Le nostre vite. Che cosa valgono per te?"
"Nemmeno un mucchio di sterco di maiale."
"Allora permettimi di riformulare la domanda. La vita di tua zia:
che cosa vale per te?"
"Le vostre vite."
"Così va meglio. Siamo in quattordici, in tutto."
"No, siete in due. Gli altri sono già morti."
"Devi essere pazzo, Caio Merlino. Perché dovremmo consegnarti
le nostre guardie del corpo, quando abbiamo la vecchia?
Ovviamente per te vale più di tutto questo." Caspar indicò con un
gesto sdegnoso le fumanti rovine che ci circondavano.
"Bada a te, animale" sibilai. "Il sangue di mio padre è ancora
fresco sulle tue fetide mani, perciò non esagerare. Mia zia ha avuto
una vita lunga e proficua e sarebbe l'ultima a biasimarmi se
sacrificassi il poco tempo che le resta per il privilegio di crocifiggervi!"
Le mie parole penetrarono nella sua corazza da rettile. Sbattè le
palpebre come una lucertola e si schiarì la voce, riconoscendo la mia
determinazione. "Non puoi aspettarti che sacrifichi i miei uomini
senza nessun vantaggio."
"Nessun vantaggio? La vita non è un vantaggio?"
"Stai cavillando, Merlino. Le nostre vite ce le abbiamo, finché noi
abbiamo la donna e tu tieni sotto controllo la tua rabbia. Ma è
quest'ultimo punto che mi preoccupa. La tua rabbia. Sarei uno
sciocco a fidarmi di un uomo che brucia così visibilmente di odio nei
miei confronti. Perciò, terrò i miei uomini per la sicurezza che mi
offrono contro la tua sete di sangue."
"No!" gli sputai addosso, lottando duramente per frenare l'odio
che mi rodeva. "Ho detto che non tratterò con te. Dammi la donna
e voi due ve ne andate liberi e che sia finita. Hai la mia parola."
«La tua parola?» Sulla faccia ora non c'era segno di sorriso, né di
sogghigno. «Non mi fido della parola di nessuno. Dovrai fare di
meglio.»
«E allora che cosa vuoi? Io voglio mia zia viva e in buona salute,
e libera di morire naturalmente. Se l'è guadagnato. In cambio, sono
disposto a privarmi del piacere di uccidervi entrambi con le mie
mani, o di farvi ammazzare da qualcun altro. Se non vuoi accettare
la mia parola, che cosa vuoi accettare? Dì le tue condizioni. Se
saranno ragionevoli te le concederò. Non posso dire altro.»
Caspar fece una pausa prima di rispondere. «Noi dobbiamo
essere certi che non ci sia possibilità di inganno.» Non mi lasciò il
tempo di esprimere il mio sdegno. «Sai di che cosa sto parlando.
Nessuno di noi si fiderà mai dell'altro, Memnone e io vorremmo
andarcene da qui vivi, con i nostri compagni...»
«No! Quelli muoiono.»
«No, invece!» La sua voce era bassa. «Abbiamo bisogno di loro...
bisogno di riportarli sani e salvi in patria, a Lot di Cornovaglia.»
Cercai di mantenere la voce piatta. «Lot è morto, É stato ucciso
giù sulla pianura.»
Caspar mi rise in faccia. «Lot? Sei uno sciocco! Lot non ha mai
lasciato la Cornovaglia. Se ne sta seduto nella sua roccaforte, e
aspetta notizie della sua campagna. Al suo posto ha mandato un
altro, che indossasse la sua armatura per incoraggiare i soldati. No,
Merlino. Lot è troppo intelligente per farsi ammazzare da quelli
come te.»
Intuii che diceva il vero, e il mio cuore si indurì ancora di più
contro questo "re" di Cornovaglia. Quando risposi, la mia voce era
bassa quanto la sua.
«Non c'è nulla di più repellente di un comandante vile che si
nasconde al sicuro mentre altri combattono per lui. E questo è il
vostro sire? Il padrone che dovete accontentare riportandogli a casa i
suoi viscidi assassini?»
«Sì, Caio Merlino.» Gli era tornato quel sorriso odioso. «Così
avviene per i servitori di re e di principi.»
Il cuore mi balzò in petto, ma sputai a terra e feci per
allontanarmi, nauseato, prima di sostare come per un'idea
improvvisa. Mi girai lentamente, lo scrutai e vidi nei suoi occhi uno
sfarfallio che mi disse che la sua mente lavorava nella frenesia di
anticipare i miei pensieri. «Che cosa sai dell'Ibernia?»
«Ibernia?» Caspar non mutò espressione, ma non poté
controllare il cenno del capo di Memnone. «Niente. Che cosa
significa?» Voltò appena la testa e indirizzò uno sguardo ditale gelida
perfidia al suo socio che non mi sarei stupito di vederlo cadere
morto all'istante. Poi riportò su di me i freddi occhi di lucertola.
«Che cosa c'entra l'Ibernia?»
«Un principe dell'Ibernia» dissi. «Hai parlato di re e di principi. Io
ne ho uno in cella.»
«Un principe dell'Ibernia? Perché dovrebbe interessarmi?»
Gli lasciai analizzare la mia espressione, e finsi di meditare le
parole successive. «L'abbiamo preso prigioniero più di due settimane
fa. Era sbarcato con un esercito su a nord, proprio mentre venivamo
attaccati da sud-ovest... L'incidente che vi ha condotti qui. Mi sorge il
dubbio ora che il vostro nobile padrone potrebbe avere messo
mano in entrambi gli eventi, poiché il tradimento e la doppiezza
sembrano essere gli attrezzi del suo mestiere.» Avevo tutta la sua
attenzione. Gli diedi il tempo di riflettere.
«Come sai che il prigioniero è un principe?»
«É un principe. Porta il torchio d'oro. Lo teniamo in ostaggio
affinché la sua gente si comporti bene.»
«Come si chiama, questo principe?»
«Donuil, figlio di Athol.»
«Dove lo tieni?»
Sollevai un sopracciglio, come se quello scambio di battute mi
divertisse. «In catene, in una cella, nell'edificio adiacente a quello in
cui tenevo voi e avrei dovuto uccidervi.»
«É stato torturato?»
Mi permisi una piccola smorfia di sbigottimento. «Perché mai
dovrebbe interessarti, se l'Ibernia non c'entra?»
«Ho mentito.» I suoi occhi perforavano i miei. «É stato
torturato?»
Fu il mio turno di sogghignare. «No, non è stato torturato. É
prigioniero mio, non tuo. Lo tratteniamo, e tanto basta. Non
abbiamo bisogno di torturarlo o di maltrattarlo. È un libero celta e le
sue catene sono tortura sufficiente.»
Caspar si leccò le labbra; malgrado tutto il suo autocontrollo,
sfoggiava un'espressione da mercante che annusi un buon affare.
«Quanto vale per te?»
«Meno di quanto potrebbe valere per te, suppongo,» Non mi
sforzai di celare il mio disprezzo. «Adesso che l'esercito del tuo re è
stato distrutto e sta correndo a casa con la coda tra le gambe, per
me non vale niente. Abbiamo sconfitto prima l'esercito di suo padre
e poi il vostro. Qualsiasi valore potesse avere per me, ora non l'ha
più. Ma forse potrebbe avere un valore per voi, se lo consegnate a
Lot. Datemi mia zia e potete avere lui.»
«Ah!» Quell'esclamazione denotava tutto il suo spregio.
«Mi credi pazzo? No, Caio Merlino, non in cambio di tua zia,
perché allora saresti libero - e felice - di ammazzarci tutti. Ma puoi
avere tutti gli altri ostaggi se ci consegni lui,»
Lo guardai, scuotendo la testa con scherno. «Non hai ancora
capito come stanno le cose, vero?» dissi. «Non ti entra in quel
cervello da rettile che a me importa solo della donna? Gli altri, tutti
quanti, per me non significano niente. Se avessi preso solo loro
adesso saresti morto, e loro con te. Contrapposti alla vita di mio
padre, non significano niente.»
Mi credette implicitamente, perché davo voce a pensieri nei
quali si poteva identificare. Si mordicchiò l'interno della guancia,
valutando, decidendo.
«Benissimo» disse con accenti brevi e tronchi. «Puoi avere i miei
dodici uomini. In cambio dello scoto.»
«Ho detto che era uno scoto? Ho detto solo che era dell'Ibernia.
Naturalmente hai ragione: è uno scoto. Ma mi chiedo perché lo
desideri così intensamente. Vale forse tanto per il tuo purulento re?
Mi dispiacerebbe pensarlo, ma in fondo non mi importa.» Esitai per
l'ombra di un respiro. «I tuoi assassini, e gli altri ostaggi, e puoi avere
lo scoto. Rimanete voi due, lui, e mia zia. Possiamo organizzare la
sua liberazione alle condizioni che preferisci. Sono certo che la tua
mente contorta troverà qualcosa di abbastanza subdolo per gabbare
i tuoi uomini e assicurarvi la salvezza. Vattene e pensaci sopra.
Quando sarai pronto a discuterne, apri la porta e vieni fuori. Uno
dei miei uomini verrà a cercarmi.»
Mi voltai e mi allontanai da loro, tenendo alta la testa finché
non fui fuori dalla loro vista. Poi mi appoggiai al muro più vicino e
vomitai il mio odio e il mio disgusto.
XXIII.
Trascorsi l'ora successiva a girare per il forte, cercando di stabilire
l'entità dei danni e organizzando il trasferimento dei coloni per
poter ripulire quella catastrofe e rendere di nuovo vivibile il forte.
Avrei potuto mangiare, ma non sarei riuscito a tollerare il cibo. Ero
in preda a non so quale forza che mi teneva in condizioni di
funzionare e di pensare chiaramente a qualunque problema
sottoposto alla mia attenzione, ma nelle orecchie e nella testa avevo
un ronzio costante e lontano che mi impediva di accorgermi di ciò
che mi accadeva intorno; ero in grado di concentrarmi solo su
questioni singole, una alla volta, senza distrarmi.
Chiamai Popilio e mi diressi con lui all'ingresso principale del
forte, dove ci fermammo in silenzio a contemplare la pianura, sulla
quale regnavano confusione e devastazione. Proprio sotto di noi,
come il modellino incompleto di un fanciullo, giaceva
l'accampamento fortificato che Popilio e i suoi uomini stavano
costruendo al momento dell'attacco. Alla nostra destra, verso sud, le
macerie del campo di Lot erano sparse per tutta la campagna. Il
resto della pianura, in lungo e in largo, era disseminato di corpi,
uomini e cavalli come pupazzi gettati con noncuranza in ogni
posizione di morte e abbandono. Alla nostra sinistra, oltre il fianco
della collina, il fumo si levava ancora cupamente dalla villa. Il vento
era calato. La voce di Popilio irruppe nei miei pensieri.
«Bisognerà dare una ripulita. Ci vorrà tempo.»
«Già, ma tempo ne abbiamo. Quanti prigionieri abbiamo preso?»
Si strinse nelle spalle. «Trecento circa, secondo l'ultima conta, ma
quando i nostri uomini rientreranno potrebbero essercene altri. Di
Uther non si sa ancora niente, ma dubito che si porterà appresso dei
prigionieri.»
«No, Uther è abbastanza in collera da dare loro la caccia fino in
Cornovaglia, e non tornerà prima di avere esaurito la sua ira.
Combatterà, lungo tutta la strada, finché non ci sarà più nessuno da
affrontare. Ma prigionieri? Ne dubito anch'io. Potrebbe stare via per
giorni, e non avrà né il tempo né gli uomini da sprecare per la cura
dei prigionieri. Quali sono state le nostre perdite?»
«Non pesanti quanto mi aspettavo.» Smise di parlare e allentò la
cinghia del pesante elmo, se lo tolse e con l'incavo del gomito si
asciugò il sudore dalla fronte. «La tua cavalleria è arrivata al
momento giusto. La conta non è ancora completa, ma so di trecento
soldati di fanteria morti, e milleseicento feriti, di cui duecento
gravemente.»
«Sono cifre grosse, Popilio.»
«Sì, ma più piccole di quanto avrebbero potuto essere se tu non
avessi indovinato i piani di Lot.»
«Ho indovinato male.»
«Solo per un giorno, comandante. Se non avessi indovinato
affatto, saremmo stati presi completamente di sorpresa, e
massacrati.»
«Sì, Popilio, forse.» Sospirai e indicai con un cenno il suo
accampamento fortificato. «Quella è stata una buona idea.
Complimenti per la velocità delle tue reazioni.»
Scosse bruscamente la testa. «È stata un'idea di tuo padre, non
mia. Speravamo di portare tutti i coloni dentro le mura, e di
piazzare laggiù una guarnigione per ostacolare Lot, sostenuta da
qui.»
«Possiamo sempre usarla» gli dissi. «Dividi i tuoi uomini in due:
metà per raddoppiare le dimensioni del campo e portarlo a termine,
l'altra metà per iniziare a radunare i morti per la sepoltura. Metti al
lavoro i prigionieri: che scavino delle fosse, fosse larghe e profonde,
e che non smettano finche non hanno finito. Le carogne di Lot le
interreremo là, sulla destra, dove si erano accampati. I nostri morti
riposeranno a sinistra, verso la villa. Bada che siano sepolti bene,
Popilio. Il puzzo degli amici in putrefazione è nauseabondo quanto
quello dei nemici. Quando avremo provveduto e il campo sarà in
fase di ingrandimento, faremo uscire tutti dal forte. Per un periodo
vivremo tutti là in pianura. L'interno del forte dovrà essere
sventrato, pulito e ricostruito. Voglio che ogni traccia del fuoco, ogni
scheggia di legno carbonizzato, il minimo odore scompaiano,
sottoterra o altrove. Porteremo fuori le macerie attraverso il piccolo
cancello posteriore, e bruceremo tutto il possibile sulla vetta della
collina. E a proposito, dobbiamo essere certi di non venire mai più
sorpresi da dietro in quel modo. Qualche suggerimento?»
«Sì.» Popilio annuì con la testa grigia. «Uno.»
«Ebbene?»
«Allestiamo un campo permanente, dietro le mura in cima alla
collina.»
Lo guardai. «Giusto! Fallo. In futuro, estenderemo le mura del
forte a coprire tutta la sommità della collina.» Mi voltai a osservare il
forte, cercando con gli occhi nemmeno io sapevo che cosa. «Ora» mi
chiesi ad alta voce, «ho dimenticato qualcosa? Sì, la ricostruzione.»
Tornai a Popilio. «Ogni muratore, ogni falegname, ogni artigiano
dovrà lavorare a tempo pieno al forte, finché non sarà finito. Tutta
la manodopera verrà fornita dai prigionieri. Nutrili adeguatamente.
Mantienili in salute, e abbastanza in forze perché possano lavorare
sodo e a lungo, ma uccidi chiunque mostri anche solo un segno di
riluttanza. Hanno provocato loro questa carneficina; adesso
ripareranno.»
«E dopo?»
«Dopo che cosa?»
«Quando il lavoro sarà finito. Che cosa succederà?»
«Allora lavoreranno nei campi, al posto degli uomini che hanno
ucciso.»
«Tutti quanti?»
«Tutti quelli che saranno ancora vivi.»
«Ma dove li terremo, Caio?»
Scrollai le spalle. «Che si costruiscano un campo di prigionia sulla
collina dietro al forte, nello spazio normalmente riservato alle stalle.
Si mettano in gabbia da soli.» Riportai lo sguardo sulla pianura più in
basso. «Raduna i corpi di tutti gli ufficiali in un unico punto, Popilio.
Li seppelliremo in un'unica tomba, là, in mezzo al campus.»
Tossì, per schiarirsi la voce. «Anche tuo padre, comandante?»
«No, Popilio. Mio padre verrà seppellito qui al forte, accanto a
suo padre e a Publio Varro.»
«Sì, Imperatore!» Mi salutò con il titolo formale di Comandante
imperiale.
«Non chiamarmi così, Popilio. É un titolo romano, straniero
ormai, e qui a Camulod non ne abbiamo bisogno. Ti viene in mente
qualcosa che ho trascurato?»
Si raschiò la gola e rispose: «Sì, te stesso, comandante Merlino.
Gli incendi sono sotto controllo e quasi tutti spenti, e la situazione
non ci sfuggirà di mano. Penserò io a dare gli altri ordini, e quando
la nostra gente farà ritorno le cose ridiventeranno più o meno
normali, per quanto sarà possibile. Devi ancora trattare con quei
bastardi nella casa di tuo zio. Il tuo alloggio è intatto, inviolato. Ti
sentirai meglio dopo esserti lavato e cambiato d'abito».
Stavo ancora osservando la scena sottostante, le figurine dei
soldati che si muovevano per l'accampamento, contando i morti,
identificando i caduti, cercando i feriti. Feci un cenno di assenso.
«Ciò che dici è sensato, Popilio, e probabilmente è vero.» La mia
voce, spenta e lontana, mi rimbombava in testa. «Seguirò il tuo
consiglio. Se mi cercano, dì loro dove mi trovo.» Lo lasciai e mi
diressi al mio alloggio. Lungo il cammino incontrai Ludo che veniva
dalle cucine. Mi guardò con sollecitudine e mi chiese quando avessi
mangiato l'ultima volta. Scossi la testa e lo congedai senza una
risposta, concentrato nel tentativo di raggiungere il mio alloggio
prima di crollare.
C'era un soldato di guardia fuori dalla porta, e accettai con
gratitudine la sua assistenza; tolsi gli indumenti sporchi e lavai via il
sudiciume della battaglia. Quando mi fui asciugato ed ebbi indossato
abiti puliti, Ludo tornò alla carica con una ciotola enorme piena di
brodo di carne e di verdure, «pronto da bere» mi disse, e insistette
per rimanere mentre lo bevevo. Era delizioso e rinvigorente, e mi
fece sentire un uomo nuovo.
Li ringraziai entrambi per la loro premura e andai a cercare
Popilio. Lo trovai in mezzo alla corte principale, che sovrintendeva
ai lavori di pulizia. Tutti i fuochi erano ormai estinti e restava solo
qualche filo di fumo, ma tutto il forte puzzava come un ossario. Ma
prima che potessi rivolgergli la parola arrivò un messaggero, a dirmi
che Caspar e Memnone erano usciti per parlare ancora con me. Feci
solo in tempo ad apprendere da Popilio che la nostra cavalleria non
era sulla via del ritorno, e che il numero delle nostre vittime era
salito a più di settecento. Stavo già per andarmene, quando notai le
rovine della Sala del Consiglio. Non rimaneva altro che le pareti, e
quella vista mi fece venire un'idea. «Tegole, Popilio» dissi.
«Comandante?»
«Tegole, tegole d'argilla per coprire il tetto, come alla villa. In
futuro le useremo per tutti i nostri tetti. Niente più paglia all'interno
del forte. Puoi pensarci tu?»
«Sì, comandante.»
Le due grottesche creature, Caspar e Memnone, erano in piedi
davanti alla porta della casa di mio zio, e aspettavano il mio ritorno.
Mi bastò vederli per sentirmi rivoltare lo stomaco. Mentre mi
avvicinavo li vidi raddrizzarsi e osservarmi dalla testa ai piedi, e fui
contento di essermi lavato e cambiato. Il sogghigno torceva di
nuovo la bocca di Caspar.
«Comandante Britannico. Siamo onorati che tu ti sia sentito in
obbligo di metterti in ghingheri per noi.»
Tagliai subito corto. «Chiudi quella boccaccia sconcia per
qualsiasi cosa non riguardi il nostro accordo» gli dissi seccamente.
«Non ho né tempo né pazienza da perdere con voi. Alla fine di
questa conversazione vivrete o morrete. Non ci saranno altre
chiacchiere.»
Sorrise, ma la sua voce scese di tono. «Vivremo tutti. Tranne,
naturalmente, i nostri dodici sfortunati compagni che tu hai giurato
di uccidere. Memnone e io ci abbiamo pensato, come tu hai
suggerito, e crediamo di avere trovato una soluzione per la quale le
nostre vite non dipendano esclusivamente dalla tua personale
benevolenza.» Tacque, e attese una mia risposta.
«Prosegui, ti ascolto.»
«Allora, abbiamo due problemi. Il primo è costituito dai nostri
compagni, quegli stessi dodici uomini. Memnone e io non crediamo
che abbiano fiducia nella nostra capacità di disporre delle loro vite e
del loro benessere. Se avessero continuato a ignorare l'importanza di
tua zia per te, il nostro compito sarebbe stato molto più semplice.
Ma tu l'hai portata alla loro attenzione, e non puoi aspettarti che
riusciamo a persuaderli a lasciarla alle nostre particolari cure. In essa
vedono ora la salvezza.»
«Qual è il secondo problema?»
«Ah, sì, il secondo problema. Riguarda la liberazione di tua zia. e
la nostra partenza dalle tue terre senza impedimenti. Crediamo di
poterlo risolvere con soddisfazione di tutti. Il primo è molto più
impellente.»
«Quanti ostaggi avete?» La domanda mi bruciava sulla lingua da
ore.
«Undici, più tua zia. Nove donne, due uomini... tutti servitori.»
«È stato fatto loro del male?»
Fece una smorfia, a indicare mancanza sia di conoscenza sia di
interesse. «Gli uomini sono stati sottomessi; le donne, usate. In
guerra succede.»
Non dissi nulla. Non ero sorpreso e nemmeno preoccupato.
Conoscevo le servette di mia zia. Sarebbero sopravvissute
all'umiliazione dell'abuso sessuale, un'esperienza spiacevole ma in
seguito alla quale non sarebbero sicuramente morte. Pensavo
intensamente a come separare i dodici uomini dagli altri, e più ci
pensavo più il problema mi sembrava non avere soluzione. Era
inconcepibile che quegli uomini fossero tanto sciocchi da separarsi
volontariamente da zia Luceia, della quale ormai conoscevano il
valore. Mi sentii crescere dentro la rabbia e l'angoscia, e mi maledissi
per non avere capito che era inutile cercare di patteggiare una via di
uscita da quella situazione. Non esistevano soluzioni possibili. Avrei
dovuto liberarli tutti, e fare assegnamento su Caspar e Memnone per
la salvezza di zia Luceia. Quel pensiero mi dava la nausea. Ma il mio
frustrato silenzio mi recò un sollievo inaspettato. Caspar mi propose
l'unica soluzione possibile.
«Quanto ardentemente vuoi questi miei uomini? Vivi, cioè.»
«Spiegati» risposi, cercando di rimanere impassibile nonostante il
subitaneo interesse. «Che cosa intendi dire?»
«Esattamente ciò che ho detto» replicò. «Se li vuoi vivi, non li
avrai mai. Morti...» Dimenò fastidiosamente le dita. «Potrebbe
essere... conseguibile.»
«Come? I miei uomini
abbastanza da sorprenderli.»
non
potrebbero
mai
avvicinarsi
«No, ma Memnone e io sì.»
«Dodici uomini?» La mia voce era gravida di disprezzo. «Dodici
uomini che per primi non si fidano di voi?»
Sulla fronte di Caspar apparve brevemente una piccola ruga.
«Volevo solo dire che non si fiderebbero a lasciarci trattare con te
per la loro vita» si affrettò a correggermi. «Non sono così depravati
da pensare che potremmo ucciderli personalmente. Sono uomini
semplici, comandante.»
La seraficità della sua voce mi fece accapponare la pelle.
Inghiottii la saliva e cercai di non mostrare tutto il disgusto che
provavo. «Come potete farlo, fisicamente? Com'è possibile?»
Caspar sorrise. «Questi sono affari nostri, e puoi tranquillamente
lasciarli a noi. L'accordo era che ci avresti consegnato il principe in
cambio dei dodici uomini e degli altri ostaggi, esatto?» Feci un cenno
di assenso. «Bene, allora, io devo solo tornare dentro e dire che
sospetto che tu stia cercando di sventare i nostri piani, e proporre di
dividere gli ostaggi, uno per ciascun uomo, a eccezione di Memnone
e di me. La custodia di tua zia può capitare a uno qualunque, a caso.
Poi li metteremo in stanze separate, per sicurezza strategica. Mi
crederanno, e ubbidiranno, perché uno di loro avrà la vecchia.
Quando saranno... separati, Memnone e io li elimineremo, uno o
due alla volta... con efficienza.»
Rabbrividii mio malgrado e per mascherare i brividi scrollai
rabbiosamente le spalle. «No» esplosi, «non ve lo permetto. È troppo
pericoloso. Mia zia potrebbe restare uccisa.»
«Non le verrà fatto nessun male, credimi. Memnone e io
abbiamo a nostra disposizione dei mezzi per la silenziosa
somministrazione della morte... mezzi che tu non puoi nemmeno
immaginare... Ci serve solo un po' di tempo. Quando avremo finito,
apriremo le porte e butteremo fuori i corpi, e tu potrai contarli. Poi
ci consegnerai il tuo prigioniero, e noi libereremo gli ostaggi.»
«No! Prima gli ostaggi, e poi lo scoto.»
«Comandante!» Caspar sembrava sinceramente addolorato.
«Devi concederci un po' di fiducia. Lo scoto è il nostro lasciapassare
per tornare in patria da Lot. Gli altri ostaggi significano poco o nulla
per te, così hai detto. Avremo sempre la vecchia. Che differenza può
fare?»
Mi morsi un labbro, ma su quel punto ero disposto a cedere.
«Probabilmente nessuna» ammisi finalmente. «D'accordo. Faremo
così. Quanto tempo vi ci vorrà per sbarazzarvi dei dodici uomini?»
«Due ore, forse di più. Dovremo agire con prudenza.»
«Sì, ti credo. Così sia. Fate il vostro lavoro. Non desidero sapere
come, né adesso né mai.» Lo guardai allontanarsi, e intanto ripetevo
tra me le parole di Donuil: «Quegli uomini sono mercanti di morte».
Nausea e debolezza mi sommersero e rimasi lì, stringendo i denti
finché il malessere non fu passato, e poi feci cenno al centurione che
era rimasto dietro di me, fuori portata d'orecchio, a osservare lo
svolgersi delle trattative. Venne subito al mio fianco, e gli indicai gli
arcieri di Uther ancora di guardia in semicerchio intorno alla corte.
«Centurione, voglio che tu dia il cambio agli arcieri. Sono di
guardia da ore. Sostituiscili con i nostri soldati. Devono stare sul chi
vive, ma non fare nessun movimento verso la casa. Informami
immediatamente se dall'interno provengono dei rumori. Se il silenzio
perdura, le porte dovrebbero riaprirsi entro poche ore. Quando
succede, manda un messaggero a cercarmi. È chiaro?»
«Sì, comandante.» Ripeté pedissequamente i miei ordini e lo
lasciai a eseguirli. Dal cielo pomeridiano, diventato plumbeo senza
che me accorgessi, cadevano le prime gocce di pioggia. Le nubi
erano dense e ininterrotte. La pioggia sarebbe stata una parziale
benedizione. Avrebbe fatto posare la cenere volatile e spento le
braci ancora accese nel forte, ma avrebbe complicato la vita agli
addetti alle sepolture, e ai soldati al lavoro per ingrandire
l'accampamento sulla pianura.
Feci un altro giro per Camulod, e vidi molte più cose rispetto al
mio precedente vagabondare. I danni non erano estesi come avevo
temuto, ma erano comunque gravi. La Sala del Consiglio era
completamente distrutta, e così la maggior parte delle stalle. I
magazzini erano per lo più intatti, e così i bagni, le cucine e la
grande sala da pranzo. Sapevo già che gli alloggi degli ufficiali e
l'infermeria erano sfuggiti alla devastazione, e le camerate
sembravano illese, ma l'intera sezione di edifici contro il muro
settentrionale - caserme, concerie, e botteghe di bottai - era stata
sventrata. Sempre a nord, l'ampia costruzione che ospitava i
centurioni di cavalleria era stata malamente danneggiata. Il
complesso di edifici nella zona centrale del forte era bruciato in
parte e in parte era rimasto intatto, ma i danni non avevano ordine
apparente. La baracca e il deposito del vasaio non erano stati toccati,
e neppure le due fucine principali, ma la bottega , del carradore tra
le due fucine era sparita, e l'emporio del birraio dietro al deposito
del vasaio era stato raso al suolo.
Scorsi Popilio vicino al cancello principale e lo raggiunsi, e in
quel momento si aprirono i cieli. Il rumore della pioggia torrenziale
contro l'elmo era assordante, e dovemmo gridare uno nell'orecchio
dell'altro per riuscire a intenderci. Aveva il rapporto finale sulle
vittime, adesso che l'esercito di Lot era stato definitivamente messo
in fuga. In tutto, avevamo avuto quasi novecento morti.
Duecentotrentanove erano coloni e non belligeranti: vecchi, donne e
bambini. Altri centonovantadue appartenevano alla cavalleria, e il
resto, circa quattrocentosessanta uomini, alla fanteria. In aggiunta a
queste perdite, un centinaio di feriti gravi probabilmente non
sarebbero sopravvissuti, e sul campo sottostante c'erano più di
trecento cavalli morti. Allora mi venne in mente che non avevo dato
istruzioni per la sepoltura dei cavalli, ma Popilio aveva già
provveduto alla mia svista, e squadre di uomini li stavano già
portando via.
Quelle cifre erano spaventose. Novecento morti e altri cento
destinati a morire! Aggiunti alle altre perdite che avevamo sostenuto
nel corso delle precedenti settimane, costituivano un gravissimo
impoverimento delle nostre forze complessive. Feci rapidamente le
somme: più di millecinquecento uomini in tutto; quasi un terzo delle
nostre forze militari in un mese! Popilio mi stava ancora urlando
nell'orecchio le cifre delle perdite nemiche ma, a parte il numero,
non avevo colto il senso delle sue parole. Lo interruppi e gli chiesi di
ripetere la cifra totale delle perdite di Lot. Quasi quattromila. Bene,
ma non abbastanza.
Improvvisamente, così com'era iniziato, l'acquazzone finì, e fu
come se si fosse dispersa la nebbia. Ero rivolto verso il cancello
d'ingresso, e da lunghi istanti ormai non vedevo nulla attraverso la
pioggia scrosciante; a un tratto mi ritrovai, a bocca aperta, a fissare
con quasi superstizioso sgomento l'apparizione che mi stava davanti
sulla soglia del forte: due figure sparute, tetre, devastate, ritte grazie
all'aiuto dei bastoni, veri e propri araldi di morte. Poi riconobbi il
più alto, il capo dei preti zeloti che mio padre aveva bandito mesi
prima dalle nostre terre. Mentre lo guardavo, ancora incapace di
muovermi o di pronunciare parola, il prete girò lo sguardo per la
corte disseminata di macerie e levò alto il bastone nella mano
adunca, puntandolo al cielo. Il suo grido mi offese l'udito come lo
stridore di un cardine arrugginito.
«Il caos è il giudizio di Dio che si impone sugli empi!» La forza
della sua voce fermò ogni uomo abbastanza vicino da sentirla. Tutti
smisero di fare quello che stavano facendo e si guardarono intorno
per cercare l'autore del disturbo, e il prete capì che stavano
ascoltando e alzò la voce ancora di più. «Mirate il potere del Signore
degli Eserciti e vergognatevi e procedete nel terrore! Coloro che si
beffano della Sua parola verranno abbattuti...»
Non udii altro, perché mi ero messo a correre, armeggiando con
la spada sotto il mantello inzuppato d'acqua. I miei piedi erano di
piombo, e mi pareva di correre nell'erba alta e bagnata che mi
ostacolava e mi tratteneva, rallentando i miei passi nell'arrancare
affannoso dei sogni. Il compagno del prete mi vide arrivare e cercò
di mettersi in mezzo, con gli occhi spalancati per lo stupore e la
paura, ma lo sollevai come se fosse un bambino senza peso e lo
gettai da parte, e chiusi le mani intorno alla gola ossuta dello zelota
che ancora strillava. Lo spinsi all'indietro, con violenza, contro il
muro di fianco al cancello, e ancora urlava e sputava, e il suo pomo
d'Adamo mi sussultava sotto i pollici. Lo colpii duramente all'inguine
con il ginocchio destro e lo scagliai a terra e lì giacque, con le natiche
per aria, una mano stretta intorno ai testicoli, il collo teso, grigio
sporco e invitante come il collo di un'anatra sul ceppo. La spada mi
venne spontaneamente alla mano e la roteai in alto e la abbassai con
un sibilo, e una spallata nelle costole mi precipitò nell'oscurità
dell'incoscienza.
XXIV.
Mi svegliai al rumore di una porta che si apriva, e sentii Popilio
dire: «Come sta?». Un'altra voce, quella del medico Lucano, rispose:
«Dorme ancora».
«Starà bene quando si sveglierà?»
«Credo di sì. Era esausto. Non è stato facile per lui accettare la
morte di suo padre.»
«E nemmeno quel bastardo di un prete. Avrei dovuto lasciare
che Merlino lo uccidesse.»
«No, Popilio, hai fatto la cosa giusta. Quando si sveglierà ti
ringrazierà.»
«Ah! Pensi davvero? Io ne dubito. Pochi uomini si sentono dire
grazie dal loro comandante per averlo atterrato, specialmente
quando l'hanno messo fuori combattimento davanti alle truppe.»
«Sciocchezze, questo era un caso particolare. Il comandante
Merlino non era in sé.»
«Sì, forse. Vedremo. Che cos'era quella roba che gli hai fatto
bere? Dorme da più di dieci ore.»
Sentii Lucano alzarsi in piedi e rispondere: «Una pozione
sonnifera. Ne aveva bisogno».
Aprii gli occhi. Ero sul letto, nel mio alloggio, e loro erano in
piedi vicino al tavolo, e mi guardavano alla luce tremolante di una
lampada. Lucano mi parlò prima che potessi muovermi. «Non
cercare di muoverti, comandante Merlino. Potresti sentire male.»
Sbattei le palpebre e provai a parlare, ma avevo la lingua
impastata. Deglutii della saliva collosa, e pensai che non potevo
sentire male. Provai ancora. La mia voce era rugginosa, «Perché
dovrei sentire male?»
«Perché ti ho drogato. Potrebbe farti male la testa. Anche il tuo
corpo sarà indolenzito, per tutti i lividi dovuti ai colpi che hai preso
ieri, in un modo e nell'altro.»
Richiusi gli occhi. «Emorragia interna» dissi. «Hai detto che è
l'emorragia interna che produce i lividi, vero?»
«Sì, l'ho detto.» Era sorpreso che me ne ricordassi.
«Notizie di Uther? È tornato?»
«No, non ancora.» Lucano prese una brocca accanto al letto e si
allontanò. «Nessuna notizia, ma conosci Uther meglio di me. Non
tornerà finché non avrà deciso che inseguire il nemico non porterà
più a niente.» Era vero, e lo riconobbi.
«Popilio» dissi, «quando mi hai investito perché stavo per
uccidere il prete, aspettavo che mi chiamassero dalla casa di mio zio.
Che cosa hai fatto?»
«Niente, comandante. Non c'è stato bisogno di fare niente. Non
ti hanno ancora chiamato. La casa è immersa nel silenzio da quando
te ne sei andato. La guardia è cambiata due volte e sta per cambiare
di nuovo.»
Giacqui immobile, tentando di immaginare che cosa poteva
essere accaduto nella casa dov'erano prigionieri gli ostaggi. Rinunciai.
«La guardia sta per cambiare? Che ora della notte è?»
«L'ultima. Un'ora prima dell'alba.»
Deglutii ancora, e Lucano mi portò del vino mischiato con
acqua, che alleviò il dolore alla gola. «Perché mi hai impedito di
uccidere quel prete, Popilio?»
Non rispose subito. «Quel prete è pazzo, comandante. Sarebbe
stato un omicidio, e ho pensato che te ne saresti pentito, malgrado
la provocazione.»
Accettai le sue parole. Ero stato pazzo anch'io, per un poco, là
sotto la pioggia. «E hai avuto il tempo di pensare tutto questo?»
«Beh, no, comandante. Non ho avuto tempo di pensare, non in
parole almeno. Lo sapevo e basta.»
Respirai a fondo e sentii che Popilio tratteneva il fiato. «Il tuo
istinto era fondato, amico mio» dissi. «Quello che hai fatto era
giusto. Mi sarei certamente pentito di averlo ammazzato. Non ne
parleremo più, tu e io. Dimentica che sia mai successo, ma accetta i
miei ringraziamenti.»
Sollevai cautamente la testa senza risentirne troppo e mi misi
seduto; poi abbassai piano i piedi sul pavimento. I due uomini mi
guardavano con attenzione, senza muoversi. Mi riempii i polmoni
d'aria.
«Come ti senti?» chiese Lucano.
«Qualche fitta qui e là» risposi. «Popilio è un uomo robusto.»
«Non è stato solo Popilio. Quando ti hanno portato qui avevi
qualche imperiale livido viola.»
Sorrisi, distendendo con esitazione le membra. «Sì» dissi,
rammentando la battaglia sulla pianura. «Ho fatto qualche bel
ruzzolone, ieri. Voi due siete stati svegli tutta la notte?»
Lucano sorrise suo malgrado. «No, comandante. Abbiamo
dormito un poco, anche se non quanto te.»
«Bene.» Provai a muovere l'articolazione di una spalla. «Mi farei
un bagno di vapore. I bagni non sono bruciati. Funzionano ancora?»
«Sì, comandante.» Anche Popilio sorrideva, contento che non gli
portassi rancore.
«Allora farò un tentativo, se i forni sono caldi. Se mi chiamano,
mi troverai là. E il prete dov'è, adesso?»
«Lontano, comandante. L'ho legato schiena contro schiena al suo
compagno, li ho buttati su un carro e li ho fatti scortare fuori dalla
Colonia.»
«Eccellente! Hai una spiccata predisposizione per fare
esattamente la cosa giusta di tua iniziativa, Popilio. Un giorno ti
metterai in un grosso guaio. Dove sono i miei vestiti?»
Con estrema lentezza e cautela mi avvolsi in pesanti teli di lana,
cercando invano di muovermi senza sentire dolore, e nell'oscurità mi
diressi ai bagni, dove trascorsi un'ora beatifica nel vapore e
nell'acqua calda, galleggiando nel buio come un bimbo nel grembo
materno, e meditando.
Era quasi giorno pieno quando mi incamminai di nuovo verso la
casa di zio Varro, e ci arrivai in tempo per fermare il soldato che
stava venendo a cercarmi. Mi presentai al centurione responsabile
della guardia, che senza parlare indicò le porte aperte.
«Quando è successo?»
«Pochi minuti fa, comandante. Un istante prima erano chiuse, e
subito dopo erano aperte.»
«Hai visto nessuno? Sentito niente?»
«No, signore, niente di niente, ho solo visto le porte aperte.»
«Capisco. Beh, aspetteremo.» Non appena pronunciai quelle
parole vidi un movimento nell'ombra dietro la porta aperta, e il
corpo di un uomo cadde nella corte. Il centurione si irrigidì e fece
per reagire, ma lo presi per il braccio.
«Calma, centurione. Me lo aspettavo. Dovrebbero essercene
altri.»
Infatti. Altri undici corpi vennero buttati in un mucchio. Avanzai
fino alla porta. All'interno non si scorgeva più alcun movimento.
«Caspar! Mi ascolti?»
«Ti ascolto.»
«Manderò un centurione a prendere lo scoto. Nel frattempo farò
avvicinare i miei uomini a due a due per portare via i corpi. Poi
prenderemo gli accordi definitivi per la liberazione di mia zia.
Quando ti avrò consegnato lo scoto, libererai immediatamente tutti
gli altri ostaggi.»
«Come desideri.»
Chiamai il centurione della guardia e gli comunicai le necessarie
istruzioni. Mi fece il saluto e si allontanò, e io mi voltai per seguirlo.
La voce di Caspar mi fermò.
«Merlino!»
Mi girai verso di lui.
«Sei famoso per i tuoi trucchi» disse in tono di avvertimento.
«Anche per la tua onestà, ma a quella non desidero espormi più del
dovuto. Da ora in poi parleremo attraverso questa porta chiusa.»
«Perché, Caspar? Temi per la tua incolumità mentre mia zia è
ancora nelle tue mani?»
«No, ma temo le tue astuzie. Preferisco essere sicuro piuttosto
che morto.»
Parlai con voce dura come il ferro. «Caspar, ti garantisco,
personalmente, che non ti verrà fatto del male prima che le
trattative siano finite.»
«Scelgo di non crederti, Caio Merlino.»
«Allora così sia. Questa è la tua disgrazia. La tragedia del
mentitore è di non poter mai credere a nessuno. Tornerò tra poco.
Nasconditi quanto vuoi, ovunque vuoi. Per ora sei al sicuro, ma ti
giuro, Caspar, che per l'assassinio di mio padre metterò fine alla tua
vita con le mie stesse mani.» Riattraversai la corte, incrociando i
primi due soldati diretti a raccogliere un cadavere sulla soglia di casa.
Nel tempo che ci volle per togliere da lì i dodici cadaveri, il
centurione era tornato con Donuil, incatenato dal giorno prima.
Non osai salutarlo, perché sicuramente Caspar e Memnone ci
stavano osservando dall'interno buio della casa. Dissi al centurione di
togliere le catene al giovane gigante. Un soldato corse subito a
prendere mazza e scalpello, e io rimasi lì, ignorando Donuil fino al
suo ritorno. Quando gli ebbero levato le catene, estrassi la spada e
con essa sospinsi Donuil verso la porta aperta. Donuil recitava bene
la sua parte, sembrava sospettoso e confuso e i suoi occhi andavano
da me alla casa buia e poi guardavano ancora me. «Vai!» gli dissi con
rudezza, e lui andò, malvolentieri e con diffidenza, teso come se
volesse fuggire a ogni passo.
Sostò per un istante sulla soglia, poi scomparve all'interno. Ben
presto cominciarono a uscire gli ostaggi, sbattendo le palpebre alla
luce del sole, sempre più forte con il procedere della giornata.
Afferrai per il polso la prima ragazza, Eunice, e le chiesi di mia zia.
Mi disse che Luceia stava bene, aveva solo una lieve ferita ed era
illesa. Quando gli ostaggi mi furono sfilati davanti, quasi tutti in
lacrime, mi ravvicinai alla porta.
«Adesso possiamo concludere questa faccenda» gridai nel vuoto
dietro la porta. «Siete tre uomini, protetti dalle vostre minacce
contro la donna che tenete prigioniera. Ditemi che cosa volete, alla
svelta. Vi voglio lontani dalla mia vista e dal mio odorato.»
Caspar apparve sulla soglia e mi fissò con il suo solito sogghigno.
«Vogliamo andarcene da qui sani e salvi e in fretta. É tutto. In
quanto a questo, siamo quasi d'accordo. Non desideri sapere come
sono morti quei dodici uomini?»
La vanità di quella domanda mi sorprese. «Nient'affatto» risposi.
«Sono stupito, ma te lo dirò comunque. Vedi questa?» Mi mostrò
qualcosa che teneva tra il pollice e l'indice. Socchiusi gli occhi, ma la
distanza era troppa e non vidi nulla. Il suo sorriso si allargò. «Piccola,
vero? È una spina, Merlino, una comunissima spina intinta in un
veleno distillato da molti serpenti. Può uccidere un uomo forte in
pochi istanti, se ben collocata. Memnone e io siamo degli esperti.
Ognuno dei dodici uomini è stato punto da una di queste.» Non dissi
nulla e continuò: «Tua zia ha parecchie spine come questa tra gli
abiti. Non sa nemmeno di averle. Un solo graffio la ucciderebbe, in
modo molto spiacevole. Un colpo bene assestato da Memnone o da
me le conficcherebbe almeno una spina nella carne. Un abbraccio di
qualsiasi genere, per esempio da parte di un soccorritore che cercasse
di sottrarla al pericolo, provocherebbe quasi sicuramente la sua
morte. Sto dicendo, Caio Merlino, che se hai in mente di sbarazzarti
di noi in modo drastico e definitivo, devi prima essere certo che
siamo ben lontani dalla vecchia, e che non le cadiamo
accidentalmente addosso.»
Il tono calmo e spassionato della sua voce mi fece digrignare i
denti, e chiudere gli occhi per celare la rabbia. Quando li riaprii, vidi
Donuil con le mani alzate chiuse in un doppio pugno, proprio dietro
a Caspar. Le reazioni dell'egiziano furono veloci come un lampo.
Nello stesso istante in cui scorse nei miei occhi l'espressione di
stupore che non seppi nascondere, si mise in movimento. Ma era
troppo tardi, il colpo di Donuil gli si abbatté in mezzo alle spalle, e
lo fece cadere verso di me. Io gli andai incontro, vedendo che apriva
le dita per attutire la caduta, e gli sferrai un calcio sotto la gabbia
toracica, togliendogli il respiro in un'esplosione di agonia. Chiuse le
braccia intorno alle mie gambe per trascinarmi a terra, ma non c'era
forza in lui e lo evitai facilmente, e balzai verso la porta e verso
Donuil.
«Dov'è Memnone?»
«Laggiù, vicino alla parete.» Indicò la forma rannicchiata
dell'altro mago, aggiungendo la superflua frase: «É morto».
«Zia Luceia» chiamai, cercando di condensare nella mia voce
tutta l'urgenza del mondo, «non muoverti! Resta dove sei! Resta
assolutamente immobile!» Sentivo i passi dei soldati che si
avvicinavano di corsa, e nella penombra vedevo mia zia, in piedi
contro il muro alla mia destra. Aveva le braccia legate e non si
muoveva.
«Caio» disse, «non potrei muovermi nemmeno se volessi.»
«Grazie a Dio!» Mi fermai davanti a lei. «Zietta, ci sono delle
spine nei tuoi abiti, spine intinte nel veleno. Basta un graffio per
ucciderti, perciò non cercare di muoverti finché non avrò chiamato
una delle tue donne che ti aiuti a spogliarti.»
Scosse la testa in un conciso dissenso. «Non essere sciocco, Cai,
non ci sono spine. Quello più brutto me le stava infilando tra gli
abiti quando quel giovane gigante l'ha ucciso.»
Mi girai verso Donuil, in piedi accanto a me. «É vero?»
«Sì. Mi avevi detto tu di proteggerla se la vedevo minacciata.»
«Già.» Provavo un immenso sollievo. «Te l'avevo detto io. Sono
felice che te ne sia ricordato. Non te ne pentirai.» Sfoderai la spada e
liberai mia zia dai legami. Sembrava assolutamente imperturbata
dall'intera situazione.
«Grazie, nipote» disse. «Questa gente ha trasformato la mia casa
in un porcile. Ti prego di rimandarmi a casa in fretta i miei servitori.
Hanno del lavoro da fare.»
La guardai stupefatto andarsene nella stanza di famiglia sul retro
della casa. Donuil sorrideva.
«Che cos'hai da sorridere?»
«La tua faccia. Hai vissuto così a lungo senza sapere che le donne
anziane sono le creature più forti del mondo? E poi, sono un uomo
libero, no? Ho tutto il diritto di sorridere.»
Sospirai e ricambiai il suo sorriso. «Sì, lo sei, e ti comporti come
tale. Ti devo molto più della libertà, Donuil.»
«Ne sono contento.»
«Di che cosa?»
«Del fatto che mi devi molto più della libertà.»
«Come? Perché mai?»
Rideva quasi. «Perché posso esigere il pagamento del mio debito.
Voglio rimanere qui a Camulod ed essere il tuo aiutante, come
avevamo discusso. Adesso che sei in debito con me, non puoi
rifiutare.»
Ero perplesso. «Desideri rimanere qui? Di tua spontanea
volontà?»
«Sì, e puoi approfittare di me, anche. La tua Colonia ha perso
molti uomini in gamba, di recente.»
«Bene» dissi. «Splendido! D'accordo. Discuteremo in seguito i
termini del tuo servizio, quando ci sarà più tempo per queste cose.
Adesso abbiamo uno stregone a cui pensare.» Mi guardai intorno.
«Dov'era Memnone quando l'hai ucciso?»
Donuil indicò alla mia destra. «Laggiù, vicino al muro; era in
piedi proprio alle spalle di tua zia.»
«Che cosa ne è stato delle spine?»
Il grosso celta si strinse nelle spalle. «Non lo so, non ho visto
nessuna spina, ma non ne stavo cercando. Pensavo che le avrebbe
fatto del male con quelle mani lerce. Se aveva le spine,
probabilmente le ha lasciate cadere proprio lì.»
Mi piegai e ispezionai il pavimento, e trovai una striscetta di
stoffa ripiegata su se stessa. La raccolsi con prudenza e la aprii, e vidi
una fila di spine nere, lunghe circa un pollice, infilate nel tessuto a
circa un quarto di pollice una dall'altra.
Contai venticinque schegge mortali. Donuil fissava inorridito il
contenuto delle mie mani.
«Queste sono molte morti» dissi.
«Molto pericolo» fu la sua sommessa risposta. «Quelle cose non
dovrebbero essere lasciate in giro. Qualcuno potrebbe metterci un
piede sopra.»
Ripiegai la striscetta di stoffa e la riposi con cautela nella mia
sacca. «Le custodirò io» dissi. «Non preoccuparti, Donuil, nessun altro
verrà esposto al loro veleno.»
Uscimmo insieme nella corte. Caspar era in ginocchio, con le
braccia legate a una lancia infilata tra la schiena e l'interno dei
gomiti. Quattro soldati lo guardavano a vista. Mi fermai di fronte a
lui. Il sogghigno era svanito dalla sua faccia.
«Verrai processato pubblicamente, da un tribunale militare,
davanti alla Sala del Consiglio, oggi a mezzogiorno» gli dissi. «Non
aspettarti pietà. Verrai giustiziato. Ti giustizierò io personalmente.»
Mi rivolsi al comandante delle guardie. «Portatelo via e tenetelo
stretto. Che nessuno gli si avvicini. Voglio quattro uomini con le
lance puntate contro di lui continuamente. E lasciatelo qui nella
corte, legato a un palo. Se crea problemi, mettetelo fuori
conoscenza, ma non uccidetelo prima di mezzogiorno.» Cinque ore
dopo, a mezzogiorno, feci un cenno ai trombettieri, e quando
risuonarono gli squilli degli ottoni militari, il silenzio cadde sulla
corte affollata. Ad alta voce nel silenzio assoluto, sovrastando
Caspar, lessi l'elenco dei suoi crimini. Li accolse bene. La sua faccia
non tradiva espressione alcuna. Finii di leggere, mi girai verso gli
ufficiali in piedi dietro di me, e poi di nuovo verso la folla, e levai la
voce affinché tutti mi udissero.
«Per quanto concerne le esecuzioni, la nostra legge è semplice.
Quando è stata emessa la condanna non c'è indugio e la morte viene
data nel modo stabilito, appena possibile. Certi crimini meritano la
morte per impiccagione, altri per decapitazione, altri ancora per
crocifissione, anche se questo metodo non viene applicato in
Britannia da più di trecento anni.» Feci una pausa per guardare il
prigioniero, e continuai. «Ma i crimini di quest'uomo non sono
contemplati dalle nostre leggi, perché quest'uomo ha commesso
crimini più esecrabili di quelli che i nostri legislatori hanno potuto
prevedere.» Tesi la mano a un centurione, che mi porse una freccia.
Levai la freccia in alto sopra la testa.
«Questa è una freccia avvelenata. Un graffio può dare una morte
straziante in pochi minuti. Ma certi uomini possono resistere per
trenta minuti prima di morire... Uomini molto forti. Alcuni nostri
soldati hanno lottato per trenta minuti contro il veleno. Alcuni sono
stati più fortunati e sono morti più in fretta. Quest'uomo, questo...
stregone, è l'avvelenatore. Il segreto degli ingredienti del veleno è
racchiuso nella sua mente. La mia sentenza è che vi siano cauterizzati
e sigillati per sempre.» Mi voltai e mi chinai in avanti, e prima che
chiunque potesse indovinare le mie intenzioni strisciai due volte la
punta della freccia sulla fronte di Caspar, avanti e indietro,
aprendovi due linee che subito iniziarono a sanguinare. Caspar
inorridito spalancò gli occhi e urlò. Io mi spezzai la freccia sul
ginocchio e la restituii all'uomo che me l'aveva consegnata. «Bruciala.
Immediatamente.» Fece il saluto e andò a eseguire il mio ordine,
scomparendo in direzione dei forni che alimentavano i bagni.
Tutti restammo sotto il chiaro sole di mezzogiorno a guardare
Caspar morire, tutti quanti terrificati e nauseati dalla sua lancinante
agonia.
Quando le sue gambe ebbero cessato la loro frenetica danza e il
cadavere divenne immobile, alzai gli occhi verso le guardie.
«Seppellitelo nella fossa comune sulla pianura, con il resto della
feccia di Lot.» La sua morte non era stata rapida.
Mi voltai e lasciai la corte, senza guardare nessuno, e mi diressi
all'Armeria sperando che nessuno mi seguisse. Nessuno mi seguì,
infatti; entrai e chiusi a chiave le massicce porte di bronzo, e
finalmente controllai, in grave ritardo, che Excalibur fosse ancora
intatta.
Tolsi la portentosa spada dal suo nascondiglio sotto il pavimento
e rimasi seduto per ore nella penombra dell'ampia stanza, lottando
contro le mie emozioni, sentendo l'inconsistenza della mia forza,
lucidando la Spada con lo scialle di seta nel, quale era avvolta e
chiedendomi dove avrei potuto nasconderla per essere
assolutamente certo che fosse al sicuro, Nella mia vita c'erano
quattro grandi tesori, e per nessuno di essi ero stato un buon
custode. Il tesoro più grande, la mia adorata Cassandra, forse era al
sicuro in Avalon, beatamente ignara del caos che regnava al di fuori
del suo minuscolo mondo; non osavo immaginare altrimenti. Il
secondo, la spada Excalibur che era la mia sacrosanta promessa, era
intatta e in salvo, ma non per merito mio; se l'edificio fosse bruciato,
la spada avrebbe potuto andare perduta, essere danneggiata, o
addirittura venire trovata e rubata. La mia amministrazione al
riguardo era stata immensamente lacunosa. Il terzo era mio padre,
Pico Britannico, assassinato nel sonno durante la mia assenza. E il
quarto, zia Luceia, era stata quasi uccisa in mia presenza!
Con la mente in tumulto, tentando invano di non cedere al
panico delle mie paure per Cassandra, ripetendomi freneticamente
che non avrei potuto fare nulla di diverso e che sarebbe stata bene
fino al mio ritorno, ripensai all'infinito a tutto quello che era
accaduto in quei pochi giorni, e alla morte di mio padre, e quando
ebbi affrontato quella incontrovertibile verità - la sua morte - vegliai
per lui, lì nella stanza dei tesori di zio Varro, per più di due ore, in
piedi sull'attenti, reggendo Excalibur e pagando il mio personale,
intimo tributo all'uomo che mi aveva generato. Probabilmente sarei
rimasto lì tutto il giorno e la notte seguente, se non fossi stato mio
malgrado costretto ad agire dall'enorme mole di lavoro che sapevo
di dover svolgere.
Lo sforzo e la concentrazione richiesti dalla lunga immobilità mi
portarono a pensare con sempre maggiore chiarezza alle mie
responsabilità e, sebbene con estrema riluttanza, si fece strada in me
la consapevolezza di avere poco tempo per me stesso. Infine, con la
mente brulicante di questioni che esigevano la mia attenzione, riposi
Excalibur nella sua custodia e la rimisi nel nascondiglio sotto le assi
del pavimento. In ginocchio, pensai a Cassandra nella sua valle a
poche miglia di distanza, e pregai che avesse corso meno pericoli
della spada. E giurai a me stesso che, cadesse il mondo, l'avrei stretta
tra le braccia prima che il giorno fosse finito.
XXV.
Non avevo sentito nessuno avvicinarsi lungo il corridoio, ma
improvvisamente vidi abbassarsi la maniglia, e qualcuno bussò alla
porta.
«Comandante Britannico?»
Riconobbi subito la voce di Lucano e mi irrigidii, e poi mi dissi
che non poteva essere successo niente di grave, altrimenti ci sarebbe
stata più confusione.
«Sì, sono qui. Che cosa c'è?»
Una pausa, e poi: «Posso parlarti, comandante?».
A quell'intrusione provai un impeto di rabbia, e lo repressi. «É
importante?» chiesi, controllando la mia impazienza.
«Credo di sì, comandante.»
Mi alzai in piedi e andai alla porta, la sbloccai e aprii i battenti. Il
medico era nell'ombra del corridoio, con le mani allacciate dietro la
schiena, e il viso cupo e sardonico contratto in un'espressione
indecifrabile. Si era lavato e cambiato d'abito dall'ultima volta che
l'avevo visto, e indossava una lunga tunica celeste bordata di tessuto
verde scuro.
«Ebbene, Lucano? Che cosa è tanto importante da doverne
discutere adesso?»
«Una questione di procedura, comandante. Tua zia, donna.
Luceia, mi ha chiesto di accompagnarti nella sua stanza di famiglia.»
Per qualche motivo, le sue parole mi contrariarono più della sua
interruzione. «Davvero?» scattai. «E da quando tu e mia zia avete
qualche cosa da dire sulle questioni di procedura?» Ero
consapevolmente rude, ai limiti della scortesia, con un uomo che
non me ne aveva dato ragione, ma Lucano non si offese. Si strinse
nelle spalle e fece un cenno di acquiescenza. «Ciò che dici è esatto,
naturalmente. Tuttavia...»
«Sì, tuttavia. Benissimo, verrò con te.» Chiusi i battenti alle mie
spalle e lo accompagnai lungo il corridoio fino alle stanze private di
mia zia.
Entrando nel soggiorno principale mi accorsi subito, come
sempre, della sensazione di benessere che mi arrecava quel luogo,
malgrado le sofferenze e i dolori che mi affliggevano. Il fuoco
bruciava luminoso nel focolare, e le fiamme si specchiavano nelle
superfici lucide degli arredi di ottone e di bronzo sparsi per tutta la
stanza. Mia zia non c'era. Lucano si fermò accanto al fuoco, e io mi
lasciai cadere sulla mia poltrona preferita, la grande sedia imbottita
appartenuta a zio Varro.
«Bella stanza.» Lucano si guardava attorno con occhi pieni di
ammirazione.
«Sì» grugnii, «ma ha conosciuto tempi migliori. Dov'è mia zia?»
«Non ne ho idea» rispose con un'alzata di spalle, e si diresse al
tavolo dove aspettavano vino e coppe di vetro verde. Sollevò la
brocca d'argento imperlata di goccioline di condensa e parlando
iniziò a mescere. «Forse sta riposando. Mi ci è voluta più di un'ora
per trovarti. Non ho pensato che potessi essere qui in casa. Tieni.»
Mi porse una coppa di vino. «Non sto usando liberamente
dell'ospitalità della signora. Mi ha pregato lei di versarti da bere se
non fosse stata qui al tuo arrivo.»
«Grazie.» Bevvi un sorso, e poi una lunga sorsata del vino
ghiacciato. «Dio, com'è buono!» sussurrai, sentendo nella gola riarsa
la deliziosa fitta del gelo. Attesi che passasse, e bevvi un altro sorso
prima di aggiungere: «Non avevo idea che fossi in intimità con mia
zia, Lucano.»
«Non lo sono» rispose, sorridendo, «ma oggi abbiamo parlato a
lungo.»
«Di questioni di procedura.»
L'occhiata che mi rivolse fu sarcastica quanto lo era stato il mio
commento. «Sì.»
«Di quali particolari procedure avete discusso?»
Anche lui bevve prima di rispondere. Posò la coppa e mi guardò
dritto in faccia. «Il funerale di tuo padre.»
Il dolore si riaccese all'istante. Non avevo più visto mio padre da
quando avevo cercato di sollevarlo sul letto. Tossii, inghiottii il
groppo che mi si era formato in gola e ripresi il controllo della mia
voce, ma non riuscii a sostenere lo sguardo di Lucano. «Dov'è
adesso?»
«Qui in casa. Gli ho fatto un bagno e gli ho cambiato gli abiti, e
giace in tutta la sua dignità nella camera da letto di Publio Varro.»
«Come hai fatto? Era rigido. Ho provato a muoverlo, ma non ho
potuto.»
Lucano annuì. «Non lo è più. La rigidità è passata. Ho coperto e
nascosto le ferite. Sembra... addormentato, nient'altro.»
Deglutii. «Grazie.»
«Non ce n'è bisogno, comandante. Era il mio legato, e mio
amico.»
«Grazie, comunque. I miei ringraziamenti, come suo figlio.»
Lucano inclinò il capo. «È stato mio piacere, per quanto
doloroso. Dell'altro vino.» Non era una domanda, e gli porsi la
coppa affinché la riempisse. Lo osservai mescere il vino, e mi resi
conto che in quell'anziano medico c'era molto più di quanto avessi
mai visto. Confermò subito la mia intuizione, raddrizzandosi e
chiedendomi: «Come avevi pensato di disporre dei suoi resti?».
«Disporre di...?» Sbattei le palpebre e scossi la testa. «Io... io
non...» Stavo per dire che io non ci avevo pensato affatto, ma
cambiai le parole che mi salirono alle labbra. «Io non ho creduto che
fosse necessario pensarci. Sarà sepolto accanto a suo padre e a Publio
Varro. Qui nel forte.»
«Naturalmente, e molto opportunamente, comandante, ma
posso azzardare un suggerimento? Con tutto il dovuto rispetto?»
«Vorresti qualcosa di diverso?»
«In un certo senso, sì. Non totalmente diverso, ma diverso in
modo particolare.»
Trassi un profondo respiro, sentendo rinascere l'impazienza. «Tu
stai parlando per enigmi, e io sto parlando del funerale di mio
padre. Sii chiaro, Lucano.»
«Lo farò, se mi ascolterai.»
«Ti ascolto.»
«Stiamo seppellendo uomini a migliaia, giù in pianura.»
«E allora? Che cosa ha a che fare questo con il legato Pico
Britannico?»
«Niente, e tutto.» Si avvicinò al fuoco e mosse i ceppi con la
punta dello stivale. «Ogni uomo seppellito laggiù è morto,
direttamente o indirettamente, perché Pico Britannico era al
comando di questa fortezza, è esatto?»
«Per modo di dire, certo.» Mi ero drizzato a sedere, e mi
chiedevo dove ci avrebbe condotto quella conversazione.
«Allora non è forse giusto che il passaggio di Pico da questo
all'altro mondo, l'occasione della sua morte e gli eventi circostanti,
siano spiccatamente diversi da quelli di migliaia di altri uomini?»
«Sicuramente! Ma gli altri verranno seppelliti in fosse comuni.
Mio padre riposerà qui nella fortezza.»
Lucano strinse le labbra e si allontanò dal fuoco; si sedette di
fronte a me su un divano dall'alto schienale, al quale si appoggiò
bene, appoggiò la coppa sul bracciolo e rispose: «Allora lascia che
siano le sue ceneri a riposare qui nella fortezza, Caio! Accanto a suo
padre e a suo zio».
«Che cosa?» Ero stupefatto, ma le sue parole tacitarono le mie
obiezioni prima che potessi esprimerle.
«Cremalo come un legato. Brucia il suo corpo, comandante! In
una grande conflagrazione. Nello stile delle antiche Legioni, che
onoravano i loro legati defunti con le purificatrici fiamme di Mitra.»
Mi accasciai sulla sedia, ingobbito, mentre Lucano si sporgeva in
avanti e proseguiva. «So che la sepoltura è il modo cristiano,
comandante, ma il popolo - il nostro popolo! - ha bisogno di un
simbolo, di un punto in cui convergere. Che cos'è una sepoltura tra
migliaia, ovunque essa avvenga? Il nostro esercito è stato dilaniato e
tempestato di colpi, e la nostra casa è stata quasi rasa al suolo dalle
fiamme, ma noi continuiamo a vivere!» Si fermò e bevve una lunga
sorsata di vino. «La gente di questa Colonia è stordita.
Non c'è quasi anima viva che non abbia perso una persona cara
in questo massacro. Siamo distratti, e la vita ha per noi poco
significato, adesso. Lo spirito sembra averci abbandonati tutti, te
incluso. Tito e Flavio sono gli ufficiali anziani della guarnigione, al
fianco tuo e di Uther, quando c'è. Sono entrambi uomini eccellenti.
Tu lo sai e lo so anch'io. Ma si sentono perduti, Caio, perduti senza
tuo padre, che è stato anche il loro padre, concretamente, per più di
vent'anni.»
«Comprendo le tue parole, Lucano, e ciò che ti spinge a
pronunciarle, ma non può essere! Siamo cristiani, e la Chiesa ci
insegna che gli uomini devono essere seppelliti integri, per risorgere
nel Giorno del Giudizio.»
«Palle! Noi siamo soldati, Caio Britannico, e quando andiamo in
guerra rivolgiamo ancora le nostre preghiere a Mitra, che è ancora il
dio dei soldati. Il Cristo gentile aveva poco tempo per i soldati.»
«Ma...»
Mi interruppe. «Niente ma, comandante. Tu c'eri quando tuo
padre ha risposto a quei preti malefici! Hai dimenticato la logica con
cui li ha schiacciati? Hai dimenticato tutti gli insegnamenti che
l'hanno portato a quel confronto? Noi crediamo - e per la nostra
fede veniamo definiti pelagiani e non cristiani - che Dio abbia creato
l'uomo a propria immagine, con quella scintilla divina che rende
l'uomo in sé e per sé creatura di Dio! Quella scintilla è l'anima
immortale... Immortale! Non può essere distrutta. Non può essere
cancellata, né spezzata, né strappata. Quando verrà il momento del
Giudizio, è l'anima che starà davanti a Dio. Il corpo diventa polvere,
e così le ossa che lo formano.» Tacque, e mi fissò in un modo strano.
«Oppure pensi che tutto questo sia cambiato? Credi che il vescovo
Alarico giaccia sottoterra intatto, come il giorno in cui morì? E tuo
nonno? E Publio Varro? Vogliamo dissotterrarli per vedere?» Scosse
la testa, negandomi il conforto dell'illusione. «Otto anni, forse dieci.
Tanto dura un corpo umano, dal momento in cui viene seppellito.
Dopodiché restano solo ossa alla rinfusa, che gli animali vanno poi a
dissotterrare. Non c'è integrità, né salubrità, dopo la morte. É un
fatto medico - naturale - e gli ecclesiastici non possono cambiarlo
emanando editti.»
Ormai lo fissavo a occhi bene aperti. «Che razza di medico sei,
Lucano?»
Sollevò di scatto la testa per l'imprevedibilità della domanda, ma
non era impreparato a rispondere. «Medico? Che razza di medico
sono?» Fece una pausa di apparente riflessione, poi continuò con un
sorriso leggermente amaro. «Non sono un medico. Un medico si
occupa di erbe e pozioni; della diagnosi della malattia e della
distillazione dei rimedi; della cura di ulcere e lesioni e
dell'applicazione di sanguisughe.» Appoggiò con delicatezza la coppa
sul tavolo e mi guardò da quella posizione appena protesa, sempre
con lo stesso sorriso. «In realtà, Caio Britannico, io sono un chirurgo,
un guaritore di corpi rotti dentro e fuori.» Si raddrizzò e nella sua
voce colsi l'orgoglio. «E sono uno dei migliori al mondo, perché
sono uscito dal Corpo medico dell'Esercito romano. I medici, perfino
i migliori, lavorano in fiducia, sorretti dall'osservazione degli
acciacchi che assillano anche le persone più sane. I chirurghi, invece,
operano nella certezza di ciò che hanno appreso attraverso lo studio
del corpo umano e delle ossa e degli organi che lo sostengono. Il
Corpo medico dell'Esercito, composto quasi esclusivamente di
chirurghi, è l'unico corpo che sia cresciuto in statura e in abilità con il
declino delle Legioni. Esso ha portato la medicina, e la riparazione
del corpo umano, a un livello mai conosciuto prima su questa terra.
In qualità di chirurgo ho servito con tuo padre nelle sue ultime
quattro campagne, lui con la sua spada, io con caduceo, bende,
stecche e coltelli e strumenti da chirurgo. Ho tamponato sangue e
distribuito oppio per lenire il dolore. Ho amputato membra,
aggiustato ossa fratturate, ricucito tagli e cauterizzato vene e arterie,
e ho salvato vite quasi con la stessa rapidità ed efficienza con cui i
miei compagni le toglievano. Sono nemico giurato della morte in
tutte le sue forme, e non rimarrò seduto composto a tollerare che la
morte minacci tutto ciò che oggi amo.»
Camminava avanti e indietro per la stanza, gesticolando con
entrambe le mani eppure senza spargere una sola goccia di vino. Si
girò a guardarmi, volgendo le spalle al fuoco.
«Ho un ospedale pieno di feriti e di moribondi, e ci sono più
corpi che spazio. Cinque giovani tirocinanti e due chirurghi
competenti stanno ancora lavorando, mentre parliamo, immersi fino
alle natiche nel sangue, nelle viscere, e nel dolore. E non abbiamo
oppio. Non ne abbiamo da anni. Ma ciò che veramente temo,
comandante, la cosa che trasforma il mio sangue in acqua, è lo
strascico di questa guerra che si è appena conclusa. Camulod è stata
quasi distrutta! Il suo comandante è stato ucciso nel suo letto!
Quando si spegnerà il dolore di ognuno per le perdite individuali,
personali, domani, o la settimana prossima, tra un mese o tra un
anno, tutto ciò che rimarrà, a meno che non facciamo qualcosa, sarà
la disperazione. La disillusione. E quello stato biasimevole,
comandante, uccide più della guerra. La disillusione uccide le idee, e
uccide gli ideali.»
Aveva finito, per il momento, e il silenzio restò sospeso e disteso
tra noi. Guardai nel fuoco, e pensai a tutto quello che aveva detto.
«E così» riepilogai infine, ragionevolmente, «vorresti che bruciassi
mio padre invece di seppellirlo. Perché? A che cosa potrebbe
servire?»
Lucano aveva la risposta pronta. Parlò senza esitazione e io
seppi che aveva atteso esattamente quella domanda. «A scopo
sacrificale. A uno scopo onorevole. Creeremmo un martire,
accenderemmo una luce alla memoria di Caio Pico Britannico, un
fuoco che raddrizzerà la spina dorsale e irrobustirà la determinazione
di tutti coloro che vi assisteranno. E vi assisteranno tutti. Una pira
funebre è un memorabile tributo alla grandezza, comandante, e un
richiamo alla vendetta.»
«Sarebbe blasfemo.»
«Palle, comandante! Permettere, o anche solo incoraggiare per
omissione, la demoralizzazione di questi coloni e la conseguente
distruzione di tutto ciò per cui Pico e tuo nonno e altri prima di loro
hanno faticato... questo sarebbe blasfemo. Questo invocherebbe sul
capo di tutti noi la collera divina.»
Il tono della sua voce mi convinse e compresi di essermi
sbagliato, e la mia decisione fu presa. Mi alzai, sorridendo come se
avesse placato tutte le mie sofferenze, e in parte le aveva placate.
«Hai una notevole passione per le palle, Lucano.»
«Non a torto.» Il suo sorriso si accompagnò al mio. «Ne ho viste
abbastanza e ne ho asportate troppe perché mi facciano un'eccessiva
impressione. Ma trasmettono comunque l'idea di una certa urgenza.»
«Non c'è dubbio.» Gli offrii la mia mano e ce la stringemmo da
amici. «Lucano» dissi, «ti ho malgiudicato, e detestato senza ragione.
Me ne dispiace profondamente.»
Mi sorrise. «Non fa niente, comandante. Mi avevi conosciuto
come un medico severo e criticone, e perfino io mi ritenevo
antipatico sotto quelle spoglie. Brillo solo come chirurgo.»
«E allora brilla, chirurgo, da ora innanzi.» Mi interruppi,
rammentando. «Ma dov'è mia zia?»
«Oh, verrà quando la manderò a chiamare. A dire il vero ha
preferito non essere presente a questo incontro.»
«Bene, allora vai pure da lei e falle il tuo rapporto. Io andrò a
parlare con Tito, Flavio e Popilio per organizzare il funerale.
Quando credi che sarà il momento migliore?»
«Dopo domani probabilmente, appena prima del tramonto, per
la pira funebre. E il pomeriggio seguente per l'interramento delle
ceneri, che dovrebbero avere avuto il tempo di raffreddarsi. Tutti
nella Colonia dovrebbero presenziare a entrambi i servizi, e tu
dovresti decidere chi dovrà parlare e che cosa dovrà dire.»
Annuii e feci per andarmene, ma la sua successiva domanda mi
fermò a metà di un passo. «A proposito, come sta la ragazza,
Cassandra? Da quando sei tornato hai verificato che stia bene?»
Mi girai lentamente. «No, e quindi non posso rispondere alla tua
domanda.»
«La domanda non era mia; era di tua zia. É convinta, e sono
convinto anch'io, che non riuscirai a riposare tranquillo finché non te
ne sarai accertato.» Parlava con il tono quieto e sicuro della sua
professione. «Prendi i tuoi accordi con gli altri, e poi vai da lei. Non
serve che torni prima di domani a mezzogiorno. Ti giustificherò io,
come tuo medico.»
Perplesso, e in uno strano modo umiliato, gli feci un cenno di
ringraziamento e lo lasciai che sorrideva, senza nemmeno chiedermi
se sapesse dov'ero diretto.
Andai nella stanza dove mio padre era adagiato sul grande letto
di Publio Varro. Lucano aveva detto il vero: rimirai meravigliato
l'evidenza della sua perizia. Avevo visto mio padre contratto
nell'agonia della morte violenta; adesso sembrava dormire in pace,
con indosso l'armatura, l'elmo, e avvolto nel grande mantello nero
come se stesse schiacciando un pisolino prima di partire per una
campagna. Era pallido, ma su di lui non c'erano tracce di sangue, e il
soggolo dell'elmo da cerimonia copriva lo squarcio nella gola. Il
petto mi si gonfiò di cordoglio e di orgoglio, e le lacrime mi
offuscarono gli occhi e mi inondarono il viso. Caio Pico Britannico
riposava in eterno, e nobilmente, e presi congedo.
XXVI.
Se al mondo esiste un sapore più sgradevole e indimenticabile
del rame, non l'ho mai provato. Una volta, quand'ero bambino,
durante un giorno d'estate tenni a lungo in mano una moneta di
rame. La mano diventò umidiccia e appiccicosa per il sudore, e
quella monetina di rame, un umile as, sembrava attaccato per
sempre alla mia pelle. Ricordo che zio Varro mi gridò di stare
indietro e lontano dal carro che guidava quel giorno, e quando il
grande e rumoroso veicolo mi passò accanto, assordandomi ed
eclissandomi con le sue robuste ruote di legno, e un ciocco di legno
cadde dal carro e rotolò per un poco verso di me, pensai che ero
forte abbastanza da portare quel ciocco dove mio zio stava
accatastando legna fin dal mattino. Ma mi servivano tutte e due le
mani libere per sollevarlo, e così misi in bocca la moneta calda e
sudaticcia. Sono sicuro che sia stato il trauma di quel gusto acerrimo
e oltraggioso a imprimere per sempre nella mia giovane mente i
dettagli di quel banale incidente.
Ci ripenso ogni volta che ho profondamente e clamorosamente
paura, perché nella paura che sconvolge le viscere ce qualcosa che
genera l'illusione di quel sapore amaro. Lo stesso sapore mi riempiva
la bocca quella sera, mentre mi avvicinavo alla piccola valle tra le
colline. Avevo stremato il cavallo, e scordato la stanchezza, da
quando ero uscito dal forte per il mio solito percorso indiretto.
Adesso che ero prossimo alla fine del mio viaggio, le paure informi
che nei giorni trascorsi mi ero rifiutato di ammettere la ebbero vinta,
e io conobbi l'abietto terrore. Che cosa avrei fatto se Cassandra non
fosse stata lì al mio arrivo? Che cosa avrei fatto se fosse stata lì, ma
fosse stata scoperta e ferita, forse addirittura uccisa? Sfiancai il mio
cavallo, lo frustai senza misericordia per le ultime tre miglia, ma
all'inizio del sentiero ripido e stretto dovetti smontare e camminare,
conducendo per le redini lo sfortunato animale.
La prima cosa che mi colpì entrando nel fondovalle fu l'assoluta
immobilità, e il mio cuore straripò di una paura insopportabile che
svanì, lavata dal sollievo e dalla gioia, quando Cassandra si precipitò
fuori dai cespugli, con un raggiante sorriso di benvenuto. Ero stato
lontano cinque giorni, e nell'isolamento del suo mondo silenzioso
Cassandra non poteva immaginare che cosa avevo fatto e che cosa
era accaduto a poche miglia da lei; perciò ringraziai Dio. A giudicare
dal benvenuto che mi diede, tuttavia, si sarebbe detto che non mi
vedesse da mesi.
Né il fuoco nella sua capanna né il fuoco nella radura erano più
stati accesi da quando le avevo raccomandato di non fare fumo.
Mentre le ombre del tardo pomeriggio si allungavano nelle ombre
della sera, accesi il fuoco dentro casa, e andai a raccogliere altra
legna finché c'era ancora luce sufficiente per trovarla vicino. Per
fortuna non ero arrivato più tardi, perché in Avalon le ore di luce
erano molto brevi.
Quel pensiero mi ricordò il benvenuto di Cassandra, e mi spinse
a riflettere sul modo in cui Cassandra passava il suo tempo nella
solitudine tra una mia visita e la successiva. Mentre mi allontanavo
sempre più dalla radura in cerca di legna da ardere, le mie moleste
riflessioni diedero adito a domande inquietanti. Come passava il suo
tempo? Come poteva divertirsi, vivendo in un mondo di totale
silenzio? Che cosa faceva da sola tutto il giorno? E tutta la notte,
durante quelle sere lunghe e buie? Giorni di sole e tiepide serate
erano una cosa, ma le stagioni fredde, tempestose, umide e nuvolose
erano tutta un'altra faccenda. Anche andare in cerca di legna doveva
essere massacrante in un triste giorno di pioggia. In passato la legna
non era mai mancata. Nessuno aveva mai soggiornato nella valle
tanto a lungo da consumare la legna che era a portata di mano.
Adesso, invece, con due fuochi che bruciavano notte e giorno, ogni
giorno, la legna diventava difficile da trovare. Bisognava cercarla
lontano dalla radura, e poi trasportarla, o trascinarla, attraverso il
sottobosco. E in mia assenza Cassandra doveva farlo da sola.
Quella notte facemmo l'amore alla luce del fuoco, finché non
caddi in un sonno esausto dal quale mi svegliai due volte con in
mente il cadavere di mio padre.
Era mattino tardi quando partii per Camulod e per il rito
funebre, e separarmi da lei fu più difficile che mai. Mi faceva male il
cuore lasciarla da sola in riva a quel lago minuscolo, e l'angoscia per
la recente consapevolezza della sua solitudine mi afflisse lungo tutta
la strada. Sapevo che presto sarebbe giunto il giorno in cui, in un
modo o nell'altro, a dispetto delle mie paure, avrei dovuto
riportarla alla civiltà e alla compagnia di altre persone.
Trovai Tito e Flavio che parlavano nello studio di mio padre.
Tito era seduto dietro la scrivania, sullo sgabello, e Flavio era
appollaiato su una sedia, e insieme rivedevano gli accordi presi. Era
tutto sotto controllo, mi dissero. La notizia del servizio funebre era
stata fatta circolare ovunque: l'avvenimento era stabilito per la terza
ora del pomeriggio. Mi restavano due ore, durante le quali non
avevo altro da fare che indossare l'uniforme da cerimonia e tentare
di svuotare la mente dalle mie preoccupazioni per Cassandra, e
prepararmi per l'occasione, un avvenimento senza precedenti a
Camulod.
Quando avevo parlato con Tito, Flavio e Popilio, prima di
partire per Avalon, avevo espresso i miei desideri per la cerimonia.
Avevo confessato francamente che stavo improvvisando, e che non
avevo mai visto una cremazione militare. Nel frattempo però,
Lucano, che aveva seguito le Aquile più a lungo di qualunque altro
ufficiale ancora vivo nella Colonia, aveva tirato fuori numerosi
documenti sui funerali militari nei tempi antichi, e durante la mia
assenza tutti e quattro avevano deciso di aderire alle procedure
descritte nei documenti.
Flavio mi informò che Popilio, in quanto primus pilus, avrebbe
ufficiato la cerimonia, che era un'occasione militare e non religiosa.
Tutta la guarnigione della Colonia, a eccezione di una striminzita
squadra di guardie, avrebbe sfilato in alta uniforme. Tito, legato
nominale e facente funzioni di Ufficiale comandante, avrebbe
passato in rassegna le truppe, e Lucano, Chirurgo anziano e ufficiale
più anziano in servizio, avrebbe pronunciato l'encomio. Popilio
avrebbe guidato il centuriato, com'era nel suo diritto, e avrebbe
sovrinteso all'ordine delle cerimonie, diretto la guardia d'onore, e
presenziato all'accensione del fuoco che avrebbe consumato il
cadavere.
Flavio mi assicurò che la pira avrebbe bruciato bene e in fretta.
Era stata eretta su una griglia di ferro montata su un altare di sassi
per garantire una ventilazione forte e costante, e i tronchi erano
massicci, stagionati e asciutti, le travi sgrossate a mano, diverte
dall'interno della Sala del Consiglio e bagnate nella pece perché
bruciassero meglio. Soddisfatto e impressionato dall'accuratezza dei
loro propositi, eppure depresso al pensiero di ciò che ci aspettava, li
ringraziai per i loro sforzi e uscii nella corte principale. La pulizia era
quasi completa, e in molti punti avevano già iniziato a ricostruire,
ma quel pomeriggio nessuno lavorava. La macabra pira che avrebbe
consumato il corpo di mio padre si levava imponente al centro della
grande corte. Era la prima pira di quel genere che vedevo, e potevo
solo supporre che i documenti di Lucano avessero contenuto i
particolari necessari alla costruzione. Affascinato, mi avvicinai e
scrutai nel cuore dell'immane opera.
Era un letto enorme composto da cinque strati di tronchi a
sezione quadrata, spessi ognuno due spanne. I tre strati che
costituivano la parte superiore, quella centrale, e la base del letto,
erano fatti di travi, tagliate a una lunghezza di quattro passi. Gli altri
due strati, posti di traverso rispetto a quelli lunghi, erano più corti, e
misuravano solo tre passi, Le travi erano regolarmente distanziate su
tutti e cinque i livelli, e formavano una rete di aperture di
ventilazione per alimentare le fiamme. Ogni trave era stata immersa
nella pece, e l'odore irritava la gola. Sopra a questo letto, i nostri
falegnami avevano costruito una specie di forno dello stesso
materiale, aperto a un'estremità per accogliere la cassa di ferro che
avrebbe contenuto il corpo di mio padre. Il tetto del forno era alto
tre strati, e le travi erano sistemate allo stesso modo di quelle del
letto sottostante. D calore generato da quella pira sarebbe stato
insopportabile. La carne e le ossa di mio padre si sarebbero sciolte e
seccate e trasformate in polvere molto prima che le fiamme si
spegnessero e le braci ardenti si rassegnassero alla cenere.
Turbato e assorto in tristi pensieri abbandonai quel luogo e uscii
a piedi dal cancello principale, facendo un cenno di saluto a Marco,
il centurione della guardia. Davanti a me si allargava il nuovo
accampamento costruito da Popilio e dai suoi uomini. Alla mia
destra, verso sud, si apriva l'enorme fossa scavata dai prigionieri per
contenere i loro morti. La fossa alla mia sinistra, molto più piccola
ma comunque enorme, avrebbe accolto i nostri mille morti. Nella
fossa minore, quasi direttamente sotto di me, sul lato settentrionale
del nuovo accampamento, sarebbero finiti i nostri ufficiali. Sulla
pianura niente si muoveva; Popilio doveva aver fatto lavorare le
squadre durante tutta la notte, perché in giro non si vedevano più
corpi, e le fosse erano quasi colme.
Donuil si unì alle mie meditazioni, e attese pazientemente che gli
rivolgessi la parola. Era venuto a chiedere il mio permesso per
assistere al funerale di mio padre, e il suo desiderio mi sorprese e mi
commosse. Mio padre gli aveva mostrato poca tolleranza nel breve
periodo in cui si erano conosciuti. Gli dissi che sarei stato contento
della sua presenza, e restammo in silenzio.
Solo quando mi voltai per rientrare nel forte notai la sua
espressione corrucciata, il suo rimuginare su chissà cosa con lo
sguardo perso in lontananza. Gli chiesi che cosa lo turbasse e
incominciò, dapprima con esitazione e poi con crescente fiducia e
convinzione, a parlarmi della sua costante preoccupazione che nelle
nostre trattative con i due stregoni ci fosse sfuggito qualcosa di vitale
importanza. I loro bagagli, secondo Donuil, avrebbero dovuto
contenere un assortimento di ricercatezze negromantiche. Lo
rassicurai che tutti i loro averi erano stati perquisiti a fondo, e non
era stato trovato nulla di sinistro, ma non lo convinsi. Mi chiese se
avessimo trovato le casse fasciate di ferro, e quando gli dissi che non
avevamo trovato niente del genere scosse la testa in enfatico
diniego. Aveva visto quelle casse con i propri occhi, giurò, nel
castello di suo padre, ed erano gli oggetti più preziosi in possesso
degli stregoni. Caspar aveva detto a suo padre, e Donuil aveva
sentito, che senza quelle casse non andavano da nessuna parte. Se le
casse non erano state portate a Camulod, allora gli stregoni
dovevano averle nascoste prima del loro arrivo. Dovevano essersi
fermati in un punto lungo la strada.
Quando disse così lo guardai con irritazione, subito spazientito
da quelle chiacchiere superstiziose. «Si sono fermati» gli risposi. «Eri
presente quando mio padre ha detto che Uther aveva fatto una
sosta per permettere ai suoi uomini di darsi una ripulita prima di
entrare a Camulod.» Mi guardò e scosse seccamente la testa prima di
rammentarmi che mio padre aveva parlato in latino, e che lui il
latino non lo capiva.
Camminammo insieme fino al mio alloggio, e camminando
riflettei su quello che aveva detto, e mi chiesi quanto fosse vero e
quanto fossero celtiche fantasie. Quelle casse sarebbero state
davvero preziose, se fossero esistite e se fossimo riusciti a trovarle.
Decisi che avrei parlato con Uther di quella sosta lungo la strada, se
mai l'avessi rivisto. E ancora mi domandai dove fosse, nella certezza
che avrebbe pianto la morte di mio padre e rimpianto di non poter
partecipare al suo funerale.
Lucano mi aspettava nel mio alloggio. Mi esaminò con aria
critica e mi chiese come mi sentissi. Gli dissi che stavo bene, ma che
non ero ansioso di assistere all'imminente trafila. Mi parve sollevato.
«Nessuno di noi lo è» disse. «Tito mi ha chiesto di venire a
parlarti. Durante il vostro ultimo colloquio si è dimenticato di
manifestarti un suggerimento. Pensa che potrebbe essere conveniente
se tu aspettassi con donna Luceia a casa sua, e la accompagnassi al
funerale quando tutti gli altri saranno già riuniti. Manderà una
guardia d'onore per scortarvi, poiché siete i due parenti più
prossimi.»
Mi dichiarai d'accordo, lo ringraziai per la sua cortesia, e mi
accinsi a vestirmi.
Non ricordo quasi nulla del funerale di mio padre, a parte
alcune immagini sconnesse che mi colpirono al momento e che mi
sono rimaste impresse: la silenziosa presenza della folla, con il suo
dolore per i cari scomparsi e la palpabile aura di lutto; il rumore
sordo degli stivali chiodati in marcia cadenzata dal lento rollio dei
tamburi marziali; la fanfara di corni e trombe d'ottone quando i
portatori, otto centurioni anziani, fecero scivolare la bara di ferro
nel nido appositamente preparato fra le travi luccicanti di pece; il
cigolio della pesante armatura da cerimonia in cuoio lucido di
Popilio, sull'attenti al mio fianco; il crepitio della torcia impeciata che
avanzava ad accendere la pira: e poi la solida, spiraleggiante torre di
fumo che ascendeva in sbuffi gialli e grigi, mentre la base veniva
divorata dal calore furioso e devastante delle fiamme che ci
velavano gli occhi e ci percuotevano anche dietro il cerchio della
guardia d'onore, a venticinque passi di distanza. E ricordo il fragore
impazzito, il frastuono che tutto comprendeva e tutto consumava,
delle fiamme ruggenti e sibilanti che divoravano mio padre.
So che minacciava di piovere, eppure splendeva il sole, ma non
ricordo nient'altro. So anche, perché lo seppi in seguito, che Uther
tornò durante il funerale e, vedendo da lontano la cappa di fumo,
condusse i suoi uomini esausti alla carica contro i presunti aggressori.
Quando compresero il vero motivo della fluttuante colonna di
fumo, lui e i suoi uomini si avvicinarono in silenzio, lasciando le
cavalcature all'esterno del forte, e rimasero discretamente dietro la
folla, che già si andava disperdendo.
Quando fu tutto finito, accompagnai a casa zia Luceia e ritornai
nel mio alloggio, dove tolsi l'armatura e dormii per ore; mi svegliai
solo a buio fatto, ritemprato e affamato.
Fui sorpreso di trovare nel refettorio Uther che mangiava da
solo. Ci salutammo sobriamente. Mi disse quanto gli dispiaceva per
mio padre, ma io mi limitai a fare un cenno di assenso - non c'era
niente da dire - e andai a prendere del cibo. Tagliai un grosso pezzo
di montone da una carcassa ancora calda e infilata nello spiedo sulle
braci ardenti, e una sostanziosa fetta di pane su cui appoggiarlo. In
una padella accanto al fuoco si stavano raffreddando gli avanzi di
uno stufato di verdure cotte in brodo di carne. Non avevano certo
un aspetto appetitoso, ma versai un po' di brodo tiepido sul pane e
sul montone e mi sedetti a tavola con Uther. Quando mi sedetti
allontanò il suo piatto, ma rimase, e mentre mangiavo mi raccontò
com'era andato l'inseguimento di quel che restava dell'esercito
fuggiasco di Lot. Lui e i suoi uomini non avevano avuto pietà, e
avevano ucciso tutti gli uomini di Lot che erano riusciti a catturare:
in due giorni di caccia avevano ammazzato nemici a centinaia.
Quando però aveva appreso da un comico moribondo che Lot non
aveva mai lasciato il sud-ovest, aveva richiamato i suoi soldati e
abbandonato l'inseguimento.
Da quando era tornato aveva già saputo
dei loro ostaggi, e sentirli nominare mi
preoccupazione di Donuil. Allontanai gli
guardai intorno alla ricerca di una brocca
la storia degli stregoni e
riportò alla mente la
avanzi del cibo e mi
di vino. Su un tavolo
vicino ce n'era una ancora piena per metà. Presi due coppe, le
risciacquai, e versai vino per entrambi. Uther levò in alto la sua
coppa.
«A tuo padre, mio zio Pico» disse a bassa voce. «Era un uomo tra
gli uomini. Non ne sono rimasti molti come lui. Vorrei essere
arrivato a casa due ore prima.» Mi unii a lui nella libagione e
rimanemmo in silenzio finché Uther mi chiese: «A che cosa pensi?».
«Agli stregoni.» Stavo fissando il contenuto della mia coppa.
«Caspar e Memnone. E al loro padrone, il ragno, Lot. Quel bastardo
morirà per mano mia. L'ho giurato per la morte di mio padre.»
«Allora sarà meglio che cavalchiamo insieme, cugino, e sarà una
bella corsa, perché io ho fatto lo stesso giuramento.»
Lo guardai e ci sorridemmo. «Allora è un uomo morto» dissi.
«Come hai progettato di ucciderlo?»
«Lentamente, con ogni mezzo a mia disposizione. Lentamente e
dolorosamente. Voglio che sappia che sta per morire, che sappia che
è per mano mia, e che implori la liberazione della morte. E gliela
negherò, a quel bastardo,»
Risi per la prima volta da giorni, ma ero tutt'altro che divertito.
«Sei cattivo quasi quanto lui!»
«No, cugino, non lo sono. Lot è una pestilenza che non
dovrebbe esistere.» Nei suoi occhi non c'era traccia di umorismo.
«Forse ho esagerato a descrivere il modo in cui morirà, ma morirà di
sicuro. Il mondo sarà migliore, liberato da quella sozzura.» Arricciò il
naso. «Ma stavi pensando agli stregoni. Perché? Quelli sono già
morti. A che scopo continuare a pensarci?»
«Li hai sorvegliati attentamente durante il viaggio dalla
Cornovaglia?»
«Sorvegliati?» Inarcò un sopracciglio. «Beh, sì e no. Ho incaricato
un uomo di tenerli d'occhio perché non mi piacevano e non mi
ispiravano fiducia, ma non li ho proprio messi in catene. Dovevano
essere degli ambasciatori, dopotutto.»
«Sì, infatti. Ambasciatori di morte.»
«Allora non lo sapevo.»
«No, non lo sapevi e non potevi saperlo. Non ti sto
rimproverando. Ma li hai tenuti sotto sorveglianza?»
Rispose con un'alzatina di spalle. «Fino a un certo punto, sì, Ma
non ci hanno dato problemi, ed eravamo sempre in movimento.
Non c'era veramente bisogno di guardarli a vista.»
«E quando vi siete fermati?»
Mi guardò, circospetto e incuriosito. «Ci siamo fermati solo a
mangiare e a dormire. Che cosa stai insinuando, Cai?»
«I loro bagagli. Hai osservato quanti ne avevano?»
«No. Non mi importava niente di loro, e dei loro bagagli mi
importava ancora meno. Avevo altre cose a cui pensare. Avevano
due servitori, e due cavalli da soma. Quattro uomini e sei cavalli in
tutto. Mi premeva solo che si muovessero e non interferissero con la
nostra avanzata. Ed è stato così. Perché? Mi è sfuggito qualcosa?»
«Forse. Il giovane Donuil giura che quei due non andavano da
nessuna parte senza due particolari casse, fasciate di ferro, incatenate
e chiuse a chiave. Ricordi di avere visto qualcosa di simile?»
Scosse la testa, sporgendo in fuori il labbro inferiore. «No, ma te
l'ho detto, non ho prestato attenzione. Che cosa c'era in quelle
casse?»
«Non lo so. Non le hanno portate a Camulod. Donuil dice che
contenevano gli strumenti della loro negromanzia.»
«Intendi dire magia?» Il tono di Uther era palesemente scettico.
«In un certo senso. La magia delle frecce avvelenate, di sicuro, e
Dio sa cos'altro.»
«Merda e corruzione!» Lo scetticismo era svanito.
«Ti sei fermato quella mattina prima di raggiungere il forte.
Ricordi esattamente dove?»
«Certo. Al crocevia del grosso frassino spaccato, a circa cinque
miglia sulla strada orientale, dove per un tratto la foresta si dirada. I
miei uomini si sono ripuliti nel ruscello.»
«Dev'essere lì che hanno nascosto le casse. Chi era l'uomo
incaricato di sorvegliarli?»
«Gareth, uno dei miei. Ma non possono avere nascosto niente,
Cai. Non ne hanno avuto il tempo. Non ci siamo fermati abbastanza
a lungo.»
«Abbastanza a lungo da defecare?»
«Sì, naturalmente, ma...»
«Allora era abbastanza a lungo. Non ho detto che hanno
sotterrato quelle casse, Uther, solo che le hanno nascoste. Di sicuro
hanno concertato le loro mosse, forse nella loro lingua pagana,
molto prima che si presentasse loro l'opportunità di agire.»
Uther aveva improvvisamente corrugato la fronte. «Aspetta un
momento, aspetta un momento... C'è stata un po' di confusione,
adesso che ci penso... Qualcosa che aveva a che fare con i cavalli.
Non ci ho badato, perché è finita in fretta. Potrebbero averle
nascoste in quel frangente. C'è stato un tafferuglio per la
ridistribuzione del carico.» Scrollò il capo. «Mi dispiace, Cai, non
ricordo.»
«Il tuo uomo, Gareth, dovrebbe ricordare. Dove possiamo
trovarlo?»
Uther guardò dentro la coppa e bevve un sorso prima di
rispondere: «Non possiamo. É nella fossa comune, giù sulla pianura.
È stato uno dei primi a cadere».
«Dannazione! Comunque, conosco il posto. Domani andrò a
darci un'occhiata. Porterò Donuil con me.»
«Verrò anch'io.» Si alzò. «So esattamente dov'erano, e dove è
scoppiato il disordine. Se hanno nascosto qualcosa, deve essere stato
in quei paraggi. E se quelle casse esistono, le troveremo. Ma adesso
torno a letto. Ho dormito un paio d'ore prima, ma sono giorni che
non faccio un sonno decente. E tu?»
Sbadigliai. «Non lo so. Sbadiglio, ma non ho sonno, eppure sono
stanco morto, ti pare che abbia senso? Credo che farò due passi per
digerire, e poi cercherò di dormire anch'io.»
«Bene. Batti un colpo alla mia porta quando ti svegli,
Romperemo il digiuno assieme, passeremo a prendere il tuo giovane
pagano e ci metteremo in strada presto. Dovremmo riuscire a
trovare quelle casse, se ci sono, e a tornare prima di mezzogiorno.
Una buona notte a te. Dormi bene, cugino.»
Gli augurai una buona notte e mi incamminai verso la corte
principale. Un distaccamento della guardia d'onore circondava
ancora la pira di mio padre, che adesso fumigava rabbiosa, tra le
braci rosse e azzurre contro il nero della notte, Oltrepassai l'anello
delle guardie e mi fermai vicino al fuoco, sentendo la sua forza
spaventosa tirarmi la pelle sugli zigomi e sulle gambe nude; cercai
con lo sguardo la bara di ferro che conteneva i resti dell'uomo che
mi aveva generato e forgiato. Sapevo che c'era, ma in quella
luminosità incandescente non la vedevo. Levai al cielo una preghiera
per l'anima di mio padre e rimasi lì a lungo, a ricordare in silenzio.
Poi mi allontanai dal fuoco e riattraversai l'anello delle guardie,
e nel freddo della notte scura mi portai appresso il suo calore. Ma il
calore svanì, e il gelo mi ricordò che ero vestito troppo leggero per
una passeggiata notturna. Ritornai nel mio alloggio e mi infilai nel
letto, dove dormii un sonno senza sogni.
Il giorno seguente trovammo le casse degli stregoni, senza quasi
bisogno di cercarle. Uther ci condusse direttamente dove c'era stato
il disordine con i cavalli, e subito ci inoltrammo tra gli alberi. Donuil,
che era alla guida del calesse molleggiato di zio Varro, lo lasciò sulla
strada e ci seguì a piedi. Trovammo le casse a meno di venti passi
dalla strada, nascoste in un borro attraversato da un ruscelletto.
Donuil saltò immediatamente nel borro, lacerando gli abiti sui rovi
che riempivano la valletta, e maledicendo le spine che lo
graffiavano. Quella vista mi paralizzò all'istante.
«Donuil!» gridai. «Vieni fuori da lì!»
Mi guardò stupito, e così anche Uther, ma Donuil si girò e si
arrampicò fuori dal borro. Scivolai giù da cavallo e sfoderai la spada,
e la usai per fendere i rovi che ostruivano il nascondiglio, spostandoli
a calci fino a scoprire le casse. Quando ebbi liberato lo spazio
intorno, piegai un ginocchio e le esaminai da vicino, ignorando le
pesanti catene che le legavano e concentrandomi solo sulla custodia
di legno. Il mio presentimento era esatto. Alzai gli occhi verso
Donuil, fermo ad aspettare. «Vieni qui adesso, con prudenza, e
guarda.» Mi raggiunse, e puntai un dito dove volevo che guardasse.
«La riconosci?»
Trasalì per il ribrezzo vedendo e riconoscendo quello che avevo
trovato. «Una di quelle» sussurrò fissando con gli occhi sbarrati
l'aguzza spina nera infilata nel legno della cassa.
«Già, e ce ne sono altre. Chiunque avesse trovato queste casse e
avesse cercato di spostarle non sarebbe vissuto a lungo. Uther, vieni
a dare un'occhiata.»
Uther saltò giù da cavallo e si unì a noi. Indicai di nuovo la
spina. «Vedi questa? È prima cugina delle tue frecce avvelenate. Un
graffietto, e sei un uomo morto. Queste sono le spine che ha usato
Caspar per uccidere i suoi dodici uomini: una spina, un uomo.»
Fece una smorfia. «Andiamo, Cai. Parli seriamente? Non è
possibile.»
«Chiedilo agli uomini che sono morti, se sono d'accordo. Te lo
dico io, Uther, queste cosucce sono mortali.»
Si chinò a osservare quella che gli avevo mostrato, disposto suo
malgrado a lasciarsene impressionare. «Non sembrano mortali,
vero?»
«È per questo che funzionano così bene.»
I suoi occhi indugiavano sulle casse. «Quante ce ne sono?»
«Troppe. Ne vedo otto, ma ce ne devono essere almeno altre
venti sopra e intorno ai quattro lati di ciascuna cassa. Il fondo
dovrebbe essere senza.»
«Come le togliamo?»
«Con cautela» dissi. «Una alla volta.»
Con la punta del coltello smossi le spine e, maneggiandole con
grande riguardo, le conficcai a una a una nel terreno compatto
dell'argine. Quando l'operazione fu conclusa, potemmo toccare le
casse. Uther voleva aprirle subito, e lo volevo anch'io, ma ero
sospettoso. La cura con cui era stato protetto l'esterno mi
preoccupava. Dopo essere stati tanto pazienti, e sapienti, da
procedere attraverso quel labirinto di spine, catene e lucchetti,
ritenevo che saremmo stati malaccorti a spalancare il coperchio così,
senza ulteriori precauzioni.
Caricammo le casse intatte sul calesse e le portammo a Camulod.
Malgrado la curiosità e la smania di tutti di vedere che cosa
contenevano, le misi nel mio alloggio in attesa di potere affrontare
con calma il problema che rappresentavano, ed esaminarne il
contenuto a mente sgombra.
XXVII.
Aspettai due settimane prima di aprire le casse, e poi trascorsi le
settimane seguenti ad analizzare ogni singolo oggetto in uno stato di
totale fascinazione. Se qualcuno mi avesse osservato sollevare i
coperchi, avrebbe dubitato della mia sanità mentale. Avevo fatto
spostare le casse nella fucina principale, poi avevo mandato via tutti
e mi ero chiuso dentro con il mio tesoro. Non appena fui solo e
sicuro che non mi avrebbero interrotto, mi misi al lavoro per aprirle.
Erano grosse, e pesanti, una leggermente più grande dell'altra, forse
una spanna più lunga e un palmo più alta.
Una mazza, uno scalpello a freddo e un'incudine ebbero presto
ragione delle catene, ma ogni cassa era chiusa da una serratura a
molla di cui non avevo le chiavi. Publio Varro era stato un maestro
nella fabbricazione di serrature, e quand'ero ragazzo mi aveva
spiegato come funzionavano le serrature a molla. Mi diressi al suo
vecchio banco da lavoro vicino alla forgia grande, e aprii la scatola
di legno ammaccata e macchiata nella quale conservava la sua
collezione di chiavi. C'erano ancora tutte, a dozzine, coperte di
ruggine. Solo due sembravano potersi adattare alle serrature delle
casse. Qualche passata con una lima fine per levare la ruggine, poche
gocce d'olio, e la serratura della prima cassa, la più grande, si aprì
con uno scatto, in risposta alla mia gentile pressione.
Buttai fuori il fiato con un sibilo, mi rivolsi alla seconda cassa e
disserrai anche quella con ancora minore difficoltà. Estrassi la spada
e, mantenendomi quanto più indietro possibile, usai la punta per
fare leva sul coperchio, sapendo che quando si fosse aperto avrebbe
potuto succedere qualunque cosa. La spada era troppo corta per
consentirmi di esercitare forza sufficiente da una distanza di
sicurezza. Contro il muro c'era un giavellotto, e usai quello, invece,
rannicchiandomi a terra con il braccio teso; spinsi la punta contro il
lembo anteriore del coperchio, lo sollevai e lo aprii. Non accadde
nulla; sussultai solo al rumore del coperchio che cadeva all'indietro.
Aprii la seconda cassa allo stesso modo, con lo stesso risultato. Attesi,
immobile, contai lentamente fino a cento e poi, finalmente convinto
che dalle casse non si sarebbe liberato nessun vapore velenoso,
avanzai cautamente e guardai che cosa avevo scoperto.
L'interno della prima cassa era molto ben fatto, incorniciato da
un bordo di legno intagliato largo come la mia mano, con la
porzione centrale divisa in una griglia di dodici compartimenti
quadrati, quattro in lunghezza per tre di profondità. Cinghie di
cuoio erano ammucchiate, apparentemente a caso, sul contenuto dei
compartimenti. Mi chinai in avanti e tastai le cinghie con la punta di
un dito. Sembravano proprio di normalissimo cuoio, senza punte
aguzze nascoste tra una e l'altra. Provai a sollevarle, e allora mi
accorsi che erano delle maniglie, attaccate ognuna a ciascun lato di
ciascuna sezione della cornice di legno. L'ampia bordura intagliata
era in realtà una serie di ripiani annidati uno dentro l'altro, ognuno
un poco più profondo del precedente in modo da offrire protezione
e sicurezza a ciò che contenevano.
Il mio scrutinio procedeva lentamente e scrupolosamente. Misi
da parte oggetti tra i più sconcertanti per poterli meglio studiare in
seguito. Alcuni erano, e per sempre sarebbero rimasti, un mistero;
altri furono più facilmente identificabili, e altri ancora potei
classificarli immediatamente. Scoprii, senza mia grande sorpresa, che
tutti erano pericolosi, in grado in un modo o nell'altro di dare la
morte. Quattro scatolette oblunghe di argilla, smaltate dentro e
fuori, con i rispettivi coperchi ermetici ugualmente smaltati,
contenevano una pasta oleosa, acre e verdastra, che risultò essere il
veleno utilizzato per le frecce. Ne distesi un po' sul metallo, e
seccando lasciò un residuo cristallino identico a quello che rivestiva
la punta della freccia che aveva per mano mia provocato la morte di
Caspar.
Altri vasi e scatolette, fiale e tubi di vetro contenevano una
portentosa gamma di sostanze, tutte a me sconosciute: cristalli e
polveri; paste e miscugli macinati con pestello e mortaio; unguenti e
materie oleose che sembravano essere state sciolte al fuoco; mazzetti
e bossoli di bacche, erbe, foglie, semi e persino frutti essiccati. I colori
erano spesso stupefacenti: verdi brillanti e opachi; rossi accesi dalla
cannella al cremisi; azzurri e gialli intensi e sensazionali; un nero
lucido, quasi sfolgorante; e tutte le sfumature del bianco, che si
scuriva in marroni chiari e bruni.
Esaminai tutte le sostanze con cura e interesse estremi, fondendo
quelle che si potevano fondere, per vederne la reazione;
mischiandole con acqua; esponendole all'aria e al fuoco;
sottoponendole a ogni pensabile esperimento; ne diedi in pasto agli
animali, che in gran parte morirono, e scrissi fedeli e copiosi appunti
sulle mie scoperte.
Una sostanza mi strabiliò, e ancora oggi non so che cosa fosse,
ma da quando scoprii come funzionava ne feci a lungo un uso parco
e prudente finché non l'ebbi esaurita. Ne trovai una scatola, quasi
piena, nascosta al livello più profondo della cassa più grande e ben
legata con uno spago. Era una polvere nerastra, granulosa, senza
caratteristiche peculiari, che scoprii immediatamente essere innocua
dandone da mangiare una piccola quantità a tre conigli. Avendo
stabilito che non si trattava di veleno, la assaggiai. Era di gusto
irrilevante, simile alla cenere di carbone, con una punta di sale che
non seppi definire. La mischiai con l'acqua, agitandola bene per
vedere se si sciogliesse o si alterasse. Non avvenne né l'una né l'altra
cosa. Scoraggiato, e sul punto di arrendermi, ricordai da dove
proveniva e riflettei che gli stregoni egiziani non l'avrebbero
custodita con tanta cura tra i loro tesori clandestini, se non fosse
stata di valore, così invece di rovesciarla sul pavimento la filtrai con
un tessuto, strizzando poi il tessuto fino a quando non contenne solo
l'originale pizzico di polvere. Poi distesi la polvere umida su un
pezzo di stagno e tenni lo stagno sulla fiamma di una candela. La
polvere si asciugò leggermente per il calore, ma nient'altro. Deluso, e
temporaneamente privato di un acceso interesse, scossi il residuo sul
pezzetto di stoffa con cui l'avevo filtrata, lo appallottolai, e con
noncuranza lo gettai nel fuoco della forgia, dove esplose con una
grande fiammata e una roboante fumata nera che mi scese in gola e
mi costrinse in ginocchio con una tosse strozzata, gli occhi lacrimanti
e il cuore palpitante di terrore.
Quando ebbi ripreso fiato e compostezza, misi un altro pizzico
di polvere sulla panca e lo toccai con una candela accesa. Al contatto
con la fiamma la polvere, qualsiasi cosa fosse, esplose con un sibilo e
una vampata intensa e improvvisa, emettendo dense nubi rotolanti
di fumo acre e accecante. Polvere incendiaria! Entro un'ora avevo
stabilito che era la sostanza più combustibile che avessi mai
incontrato. Per accenderla non era necessaria la fiamma; reagiva con
uguale violenza al calore di una scintilla. Stupefatto e confuso, la
rimisi al suo posto, al sicuro lontano da occhi indiscreti, e mi chiesi
che uso avrei mai potuto farne.
Ero stato reticente a parlare delle casse e del loro contenuto, e
Uther in pochi giorni se ne dimenticò. Donuil non dimenticò, ma le
casse non gli piacevano e le evitava, e confidava che scoprissi io
quello che potevo. Nessun altro sapeva della loro esistenza. E
mentre mi trastullavo, ammaliato dal loro contenuto, non mi venne
mai in mente che il loro possesso avrebbe cambiato negli anni a
venire la visione che gli uomini avevano di me, da soldato a
stregone.
Verso la fine della terza settimana fui però costretto a mettere da
parte i miei studi e le mie analisi. Da nord-ovest giunse la notizia di
un altro attacco, questa volta sulle terre di Uric, da parte di forze
ostili non identificate provenienti da nord-est, con l'aggiunta da sud
di altri uomini di Lot che avevano tentato un'invasione marittima
dalla zona settentrionale della Cornovaglia. Dopo un'aspra battaglia
gli invasori erano stati respinti su entrambi i fronti, ma Uric, il padre
di Uther, era caduto, ucciso da una freccia avvelenata.
La mia reazione iniziale fu puramente politica, e quando, dopo
non molto qualcuno me lo fece notare me ne vergognai, e cercai di
consolarmi dicendo che il mio comportamento era stato corretto e
appropriato alle circostanze. Dissi a me stesso, con poca
convinzione, temo, che la mia reazione era stata la risposta riflessa,
spassionata, obiettiva e analitica di un qualunque stratega
preoccupato dall'improvvisa emergenza di una minaccia contro la
sicurezza generale delle sue forze: Uric, il re dei Pendragon, era
morto; chi dunque l'avrebbe sostituito sul campo? E la confusione
provocata dalla sua morte in battaglia aveva forse messo a rischio il
successo della campagna in Cambria, e messo Camulod in pericolo?
Non mi ci era voluto molto, dopo che lo sconvolgimento recato
dalla notizia si era attenuato, per rendermi conto che in realtà non
era accaduto niente di davvero catastrofico, a parte la sfortunata
morte del re. Il messaggio che ricevemmo non parlava né di sconfitta
né di distruzione, come sarebbe stato se la morte di Uric avesse
influenzato l'esito della battaglia. I Pendragon erano soprattutto
guerrieri, e il re era circondato da uomini e capi formidabili, ognuno
dei quali era perfettamente capace di assumersi le responsabilità di
un superiore caduto. Lot non avrebbe avuto vittoria facile in
Cambria per la morte di un comandante, nemmeno del re. La sua
guerra insidiosa, infatti, sarebbe stata molto più difficile e molto
meno semplice da condurre, adesso che - e la comprensione
improvvisa e tardiva della realtà mi fece rizzare i capelli sulla nuca -
mio cugino Uther era il re dei Pendragon.
Uther accolse la notizia tutt'altro che bene, e il fatto mi sorprese.
Crollò, colpito dal dolore più duramente di quanto mi sarei mai
aspettato, e mi commosse profondamente intuire che il suo dolore
nasceva da un amore intenso e ovviamente sincero per il padre, da
un affetto di cui non avevo mai sospettato l'esistenza. Questa
rivelazione ebbe su di me un effetto notevole, e mi obbligò a una
nuova e drastica vantazione dell'uomo che era stato mio zio Uric, e
che non mi aveva mai, sinceramente, molto impressionato. Era il
primogenito di mio zio Ullic, e quindi mio primo cugino, il nipote di
mia madre, che era stata la sorella minore di Ullic.
Tra tutti i personaggi forti ed energici che componevano la
nostra famiglia - e molti erano di proporzioni verosimilmente
sovrumane - Uric, pur essendo re, era stato il meno rimarchevole,
adombrato, almeno ai miei occhi, dagli altri parenti. Ed ecco che
Uther, il mio feroce, intrattabile cugino, piangeva spudoratamente
sulla morte di suo padre, come io, che pure avevo amato mio padre
profondamente, non ero stato capace. Spinto dal senso di colpa, e
dal desiderio di riesaminare la vita di questo zio che evidentemente
non avevo conosciuto affatto, tentai in numerose occasioni di
convincere Uther a parlarmi di suo padre. Non ebbi il benché
minimo successo fino a quando, un pomeriggio di parecchi giorni
dopo la notizia, ci trovammo insieme da soli nell'Armeria di zio
Varro.
Avevamo discusso i progetti di Uther. Era in procinto di partire
per il suo regno montano, per rivendicare la sua eredità e vedere che
tutto fosse in ordine. Aveva poi intenzione di reclutare un po' di
uomini e di condurre una campagna di rappresaglia contro Lot. Ci
eravamo appena accordati per aumentare le sue forze con un
contingente di fanteria e cavalleria fornito da Camulod. I soldati di
Camulod avrebbero marciato sotto il comando nominale di uno dei
nostri comandanti più giovani, un brillante giovane cavaliere celtico
di nome Gwynn, fino a quando non si fossero uniti a Uther.
Ero seduto al vecchio scrittoio di zio Varro vicino alla finestra
aperta, e Uther si era appena alzato dal bracciolo di un grande
divano appoggiato alla parete. Stava per uscire, aveva già aperto i
pesanti battenti, e io avevo espresso un commento, o forse gli avevo
chiesto qualcosa che riguardava suo padre. Non ricordo che cosa
dissi, ma Uther si girò di scatto a guardarmi, in preda a una collera
improvvisa, e per un attimo pensai che mi avrebbe aggredito. Si
bloccò, invece, facendo un visibile sforzo per trattenere le parole che
gli erano salite alle labbra, e infine, dopo avere riacquistato il
controllo di se stesso, mi sorrise in modo strano - un sorriso tirato,
breve, dispiaciuto - e scosse la testa, e fece per andarsene.
«No!» esplosi. «Fermati dove sei. Facciamola finita.»
Si fermò e si girò di nuovo, con occhi guardinghi, senza alcuna
traccia della repentina ostilità che mi aveva mostrato. «Allora?»
chiese.
Mi schiarii la voce, improvvisamente a corto di parole, e poi gli
posi una domanda diretta. «Che cos'era tutta quella scena? Che cosa
stavi per dire?»
Mi fissò, e il mio cuore batté parecchi battiti prima che
socchiudesse piano gli occhi con un sospiro brusco e insofferente, e si
girasse un'altra volta per andarsene; ma poi cambiò idea, e mi
affrontò. «No, dannazione» disse. «É tempo che qualcuno te lo dica.»
«Mi dica che cosa?» chiesi.
Lo vidi esitare, cercare nella mente le parole giuste. Tornò sui
suoi passi e si sedette sul bracciolo del divano, puntando gli occhi nei
miei come per inchiodarmi al mio posto.
«Cai» disse finalmente con un tono di voce basso ma che non
avrebbe tollerato interruzioni. «Sei un ragazzo simpatico. Sei un
buon amico e sai essere un compagno piacevole, ma qualche volta
mi dai anche il voltastomaco. E hai sempre ragione. Ti rendi conto,
Cai? Ti rendi conto di quanto ciò sia prevedibile, e irritante? Hai
sempre ragione! Sei sempre così... così corretto, così decoroso, così
opportuno, così cortese, e sai sempre che cosa dire per ogni
occasione, e va tutto bene, ma ci sono cose al mondo di cui non sai
assolutamente nulla!» Si fermò, trasse un molto deliberato respiro
ignorando la mia espressione esterrefatta, e continuò. «I giudizi, per
esempio. Parliamo un po' dei giudizi. Tu sei un ottimo giudice, Cai...
O forse sarebbe più esatto dire che sei un grande giudicatore! Trovi
facile esprimere giudizi praticamente su tutto e su tutti, giudizi basati
sull'importanza che hanno cose e persone secondo i tuoi personali
valori, e prestazioni e rendimenti secondo i tuoi criteri.»
Me ne stavo a occhi sbarrati, sbalordito da tanta imprevista
eloquenza, così insolita per un uomo che consideravo generalmente
appena in grado di esprimersi. Mi sentivo ferito nei sentimenti e
nell'orgoglio, ma non avevo ancora avuto il tempo di comprendere
l'aggressività di Uther. Il tiranno che era dentro di me mi diceva che
la sua era una reazione eccessiva a qualcosa, ovviamente a qualcosa
che io avevo detto, Ma che cosa avevo detto? Mentre questi pensieri
mi attraversavano la mente come lampi, Uther incalzò senza posa.
«E c'è un'altra cosa. Tu hai stabilito dei criteri per tutto - per ogni
concepibile circostanza sotto il sole o la luna - e perciò non ti manca
mai un parametro per nessuno dei tuoi giudizi...» Feci per
interrompere la sua diatriba, ma mi gridò di tacere, che era tempo
che ascoltassi qualche spiacevole verità. Tacqui. «Stavo parlando dei
tuoi giudizi e non avevo finito. Tu emetti giudizi in continuazione,
Cai, e il lato più spaventoso della faccenda è che non credo che tu
ne sia consapevole. Nel tuo mondo tutto deve essere bianco o nero.
Tutto deve rientrare in una categoria, e solo tu hai il diritto di
designare le categorie. L'hai fatto con me, per quella stupida
Cassandra, o comunque si chiamasse. Qualcuno l'ha picchiata. Tu hai
deciso che ero stato io perché ero arrabbiato con lei, arrabbiato e
desideroso di vendetta, e perciò hai emesso un verdetto di
colpevolezza! E mio padre. Hai giudicato anche lui, e l'hai giudicato
carente. Tu l'hai giudicato una nullità. Non interrompermi!» sibilò
quando accennai a parlare e, sconcertato dalla sua veemenza, tacqui
ancora una volta. «So che mio padre non era come Publio Varro, e
certamente non era come Caio Britannico... E lo sapeva anche lui.
Non era nemmeno un uomo come Ullic Pendragon. Ma per il Dio
vivente, era un Pendragon ed era un re, ed era un brav'uomo, un
padre gentile e premuroso che amava i suoi figli e non aveva paura
di mostrare il suo amore, nemmeno quando i suoi figli erano
cresciuti...» La voce gli si spezzò, e divenne più pacata.
«Non ho mai trascorso molto tempo con mio padre, Cai, ma il
tempo che ho trascorso con lui è stato forse il tempo migliore della
mia vita. Con mio padre potevo parlare come non avrei mai potuto
con te, e con nessun altro. Talvolta non avevamo nemmeno bisogno
di parlare. Eravamo felici semplicemente perché eravamo insieme...»
Le sue parole si spensero, e ormai non avevo più la minima
intenzione di interromperlo.
Infine continuò, e la sua rabbia riprese forza. «Guardati! Sei
sorpreso che io sia in grado di provare dolore o amore, non è vero?
So che sei sorpreso, perché per anni mi hai giudicato degenerato,
litigioso, un soldato e un selvaggio, con poca della tua istruzione e
meno della tua raffinatezza. I miei soli interessi, secondo te, sono il
vino, le donne, i cavalli e la guerra, non è così? Certo che è così. Lo
so!» Smise di colpo di parlare e mi osservò, con serietà.
«Ebbene ascoltami, cugino Caio. Io amavo mio padre, Uric il re,
Uric Pendragon. E voglio che i miei figli dicano la stessa cosa di me,
quando morirò. Voglio che dicano, con orgoglio: "Io amavo mio
padre, Uther il re!". Se io ho ragione, e il tuo giudizio di me è
sbagliato, ricordatene. Non sarà la prima volta che il tuo giudizio si è
rivelato scorretto agli occhi degli altri. E tuttavia sbagliare non è
peccato, cugino. Fino a quando sappiamo ammettere i nostri errori.
Lo abbiamo imparato tanto tempo fa, tu e io, dal vecchio vescovo
Alarico. La tendenza all'errore è ciò che ci rende tutti umani, ma solo
la compassione innalza un uomo oltre il suo essere solamente
umano.»
Fece alcuni istanti di pausa prima di aggiungere, in tono più
riflessivo: «Hai bisogno di maggiore compassione, Cai, e ciò significa
che devi cercare di essere più umano. Impara a manifestare la
disponibilità a commettere degli errori... se puoi. Forse allora
troverai, nell'intimo del tuo cuore, un po' di tolleranza. Provaci,
cugino. Diventerai migliore, credimi».
E così dicendo si alzò e uscì a lunghi passi dalla stanza,
lasciandomi temporaneamente incapace di pensare eppure con
molte cose da pensare. La stima di me stesso vacillava sotto l'urto di
un attacco tanto brutale e inatteso. Mi dissi che era sconvolto; che la
morte di suo padre doveva avergli tolto il senno, fatto dire cose che
non pensava e alle quali non credeva. Ma nel momento stesso in cui
la mia mente formulava questi concetti, vidi in essi la menzogna.
Uther aveva detto quello che aveva detto perché ci credeva. Mi
considerava un saccente ipocritamente virtuoso, sdegnoso di
qualsiasi cosa che non recasse la mia personale autorizzazione.
Riteneva che il mio atteggiamento verso di lui e verso suo padre
fosse di condiscendenza, condanna e disapprovazione. Uno spasmo
minuscolo e appena percettibile di riconoscimento, sepolto negli
infimi meandri della mia coscienza, mi raggelò. E mentre lo
contemplavo, il gelo crebbe, facendomi accapponare la pelle,
facendomi inorridire nella percezione, e nell'ammissione, del fatto
che mio cugino aveva ragione.
Davanti a una tale intuizione, anche se forse solo sospettata, non
potevo procedere oltre senza affrontarla totalmente, e così, in
assoluta ignoranza, mi accinsi a quella che in seguito - spesso con
mestizia e a volte con amarezza - dovetti riconoscere come una delle
maggiori follie di una vita talora apparentemente annegata nella
follia: mi accinsi a quel compito senza rivolgere un solo pensiero alla
sua enormità. Mi ripromisi di decomporre qualsiasi cosa che
costituiva me stesso, di dividerlo in segmenti a me stesso
comprensibili, di giungere a una completa conoscenza di me stesso e
di scoprire ciò che veramente credevo e come veramente mi
comportavo nei confronti delle persone che mi circondavano e della
vita che con esse spartivo. Rammento l'ignoranza acerba e arrogante
con cui mi disposi quel giorno a quel compito, la sciocca millanteria
con cui presumevo di poter sondare le profondità del mio carattere
nello spazio di un giorno o due, e di saper cambiare me stesso per il
meglio e per sempre! Ero abissalmente inconsapevole di essere sul
punto di affrontare il compito di tutta una vita, un processo
straziante e doloroso che, una volta incominciato, sarebbe stato
impossibile abbandonare o anche solo trascurare.
Ho udito uomini altrimenti ritenuti saggi dire che è impossibile
per un uomo mentire a se stesso. Di tutte le umane affermazioni,
credo che questa rientri tra le più insulse. Mentiamo a noi stessi
costantemente, cercando di essere all'altezza delle nostre aspettative.
L'illusione è probabilmente la più comune di tutte le caratteristiche
umane.
Se nella mia vita ho ottenuto una briciola di saggezza, è la
saggezza di ringraziare Dio di avermi tenuto troppo impegnato in
quei giorni per meditare a fondo sulla ricerca della conoscenza di sé.
Dovevo essere insopportabile, perché non appena iniziai a
discernere la mole di lavoro e di dedizione necessari per affrontare
adeguatamente tale ricerca, sentii un impellente bisogno di
discuterne con chiunque fosse disposto ad ascoltare. Capii quasi
immediatamente che la tentazione verso l'illusione è enorme. Capii
anche quanto sarebbe stato facile decidere che la mia interpretazione
di me stesso era corretta, perché io mi conoscevo meglio e più
intimamente di chiunque altro.
Per fortuna Meric il druido, mio antico insegnante e mentore,
venne a trovarci a Camulod proprio in quel periodo. Meric amava la
discussione, la polemica e il dibattito filosofico, e insieme
trascorremmo giorni interi immersi in conversazione. Tutti furono
tristi quando partì dopo solo poche settimane, lasciandoli di nuovo
vulnerabili a me e alla mia agonia. Quando vedevo quello sguardo
velato dall'odio che avevo imparato a riconoscere, abbandonavo
furtivamente un ennesimo riluttante ascoltatore e fuggivo dal mio
amore nella sua valle segreta, sapendo che a lei potevo parlare per
ore e ore, se così desideravo, e che qualsiasi fosse l'argomento lei
sarebbe rimasta lì seduta nel suo mondo senza parole e senza suoni,
soddisfatta di avermi accanto.
Decisi infine che la valutazione che Uther aveva fatto di me era
esatta, e mi disposi a cambiare me stesso in innumerevoli modi, uno
dei quali consisteva nell'eliminazione della mia tendenza al giudizio.
Riflettei intensamente e a lungo, su ciò che mio padre mi aveva
detto solo pochi mesi prima sui giudizi avventati, e sulle prove, le
circostanze, e il valore del ragionevole dubbio. E decisi inoltre che
era mio dovere conoscere tutti coloro che mi circondavano nel
modo più completo e sincero possibile, così che se mai fossi stato
tentato di esprimere un giudizio, questo si sarebbe almeno basato
sulla conoscenza e sulla comprensione. Era un altro compito che
incuteva sgomento e soggezione, ma più mi ci dedicavo e più mi
piaceva. Poiché scoprii presto che grazie alla mia nuova linea di
condotta le ricompense superavano di molto le tribolazioni.
Scoprii che le persone con le quali trascorrevo più tempo erano
più amichevoli, più piacevoli e più disposte a fidarsi di me, quando
capivano che ero davvero interessato a conoscerle per ciò che erano.
E scoprii che molta gente era più degna di ammirazione di quanto
sospettassi, e che perciò il rispetto era qualcosa a cui tutti avevano
diritto, a meno che non vi rinunciassero autonomamente e
volontariamente.
Appresi molto sul popolo di Camulod, e sempre più pensavo a
esso come al "mio" popolo, ma dovettero passare parecchi mesi
prima che avessi l'opportunità e il coraggio di affrontare Uther e di
ammettere che aveva ragione, e di chiedere il suo perdono. Quando
finalmente ci riuscii, Uther corrugò la fronte in assoluta perplessità,
poi comprese di che cosa stavo parlando e sorrise e mi strinse la nuca
nella sua grande mano, e disse che da quanto aveva saputo stavo
cambiando in fretta - e in meglio - e che per me aveva elevate
speranze.
Uther se ne andò nel suo regno montano, e io mi sentii libero di
trascorrere con la mia adorata Cassandra più tempo, in periodi
sempre più lunghi. A Camulod la catena del comando era ormai tale
che, se avessi voluto, avrei potuto stare lontano per mesi, certo che
durante la mia assenza tutto sarebbe proceduto in pace e giustizia, e
che le situazioni di emergenza sarebbero state affrontate con rapidità
e competenza, senza alcun bisogno della mia guida. Se non lo feci fu
per una serie di circostanze, una delle quali era la recente risoluzione
appena descritta. Un'altra era l'autentico piacere che traevo
dall'addestramento del giovane Donuil ai doveri che era determinato
ad assumere in futuro, un piacere accresciuto dalla perspicacia acuta
e intuitiva dimostrata dal giovane, e rafforzato dall'effettiva necessità
di accelerare la sua istruzione e di prepararlo un domani a sostituire
Tito, Tito era stato molto scosso dalla morte di mio padre, e quasi
da un giorno all'altro lo vidi diventare un uomo anziano, lui che
come mio padre era sempre parso refrattario al tempo e alle sue
leggi.
Nella mia passione di effettuare dei cambiamenti dentro di me,
trascorsi con lui tanto tempo, specialmente la sera, quando le
incombenze quotidiane erano concluse. Durante lunghe e
meravigliose serate parlai con lui, ma soprattutto lo ascoltai parlare
di mio padre e degli anni che avevano passato insieme. In più di
un'occasione fummo raggiunti da Flavio, il terzo membro del
triumvirato di mio padre, e ascoltandoli ricordare imparai sull'uomo
che era stato mio padre molto più di quanto avessi mai saputo.
Una di quelle sere, subito dopo la partenza di Uther,
ammorbiditi tutti e tre dal vino, esposi loro nei particolari l'idea del
giovane Donuil, e la mia convinzione dell'assennatezza e della
validità della sua idea. Quando ebbi finito di parlare tacquero
entrambi per un poco. Nessuno dei due azzardò un commento
affrettato. Tito parlò per primo; raschiò un po' di catarro dalla gola
e disse a Flavio: «Che cosa ne pensi, Flavio?».
Flavio si grattò la testa coperta di cortissimi ricci grigi come il
ferro e rimase zitto, riflettendo con calma sui pro e i contro
dell'inattesa proposta. «Sono sorpreso» confessò infine, «ma non
sono contrario.» Continuò a grattarsi, con lo sguardo su di me e i
pensieri e l'attenzione rivolti all'interno. «È un giovanotto
imponente, e credo che tu debba seguire il tuo istinto, Cai. Allenta le
redini e vedi come si comporta. Potrebbe deluderti, e non lo saprai
finché non sarà il momento. Ma chiunque altro tu scelga - e
qualcuno dovrai scegliere - potrebbe deluderti, e maggiormente
anche. Tu vuoi mettere alla prova il ragazzo. E allora fallo, dico io, e
buona fortuna a tutti e due. Avrai bisogno di qualcuno. Adesso non
c'è nessuno qualificato per quel compito, e prima o poi dovrai
mettere al pascolo noi due vecchi cavalli da guerra.»
Tito si alzò in piedi, come se volesse discutere l'ultima
affermazione, poi sospirò e si accasciò di nuovo sulla sedia. «Flavio
ha ragione, Cai» disse. «Il momento è quello giusto. E credo che tu
voglia fare la cosa giusta, anche se il ragazzo ha molto da imparare.
Fortunatamente impara bene e in fretta. Lo si vede subito da come
ha appreso la nostra lingua, Dovresti preparare per lui un
programma ordinato e ufficiale: tanto tempo con Rufio, a imparare
le tecniche militari fondamentali, tanto tempo con te, a conoscere le
tue necessità, e il resto con me, per comprendere e controllare le
cose che fanno funzionare questa Colonia.» Si mise più comodo e mi
sorrise. «Sarò felice di insegnargli quel poco che so. Gli mostrerò
anche come infrangere e manipolare le regole secondo le quali
dovrà vivere. Mandalo da me domani, prima di mezzogiorno.
Cercherò di conoscerlo meglio nel corso delle prossime settimane.
Così potrò valutare la durata e l'estensione della sua imminente
istruzione.»
Profondamente commosso dal loro sostegno e dalla loro
empatia, li ringraziai entrambi, e la conversazione passò ad altri
argomenti. Ma il dado era tratto, per il mio futuro aiutante.
XXVIII.
Nei giorni che seguirono la morte di mio padre, Avalon divenne
il mio santuario. La rustica capanna della quale all'inizio eravamo
così felici non era più così rustica. Ogni volta che avevo fatto visita a
Cassandra, dai primissimi giorni della sua permanenza, avevo
apportato alla piccola costruzione qualche miglioramento, e spesso
avevo con me qualcosa per renderla più confortevole, e
impenetrabile dalle intemperie. Adesso era calda e accogliente, quasi
lussuosa sotto certi aspetti, anche se pur sempre piccola. Tutte le
volte che arrivavo lì mi lasciavo il mondo alle spalle, e scendendo il
sentiero ripido e tortuoso che mi conduceva tra le sue braccia
perdevo ogni cognizione dei problemi temporali.
Da tempo avevo rinunciato a tentare di convincerla a uscire
dalla valle e a tornare con me a Camulod. Ci avevo provato infinite
volte: ormai riconosceva i miei tentativi all'istante, e non si spingeva
nemmeno più su per il sentiero verso la collina. Non mi sforzai
seriamente di farle capire che il suo ritorno per me era importante.
In realtà ero contento di tenerla lì, tutta per me, senza condividerla
con nessuno, di sapere che era pronta a darmi conforto
ogniqualvolta a Camulod la vita diventava troppo opprimente.
A lungo però dopo gli eventi connessi alla morte di mio padre, a
Camulod la vita era rimasta tranquilla, piacevole e pacifica. Gli
sconvolgimenti causati dall'invasione di Lot, o dall'invasione di
Caspar e Memnone, presto si spensero e vennero archiviati nella
memoria, e la vita riprese il suo normale andamento. L'educazione
di Donuil ai nostri usi «cedeva con una celerità che ci sorprendeva e
gratificava Venne rapidamente accettato dall'intera guarnigione grazie al centurione Rufio, che sotto le nuove responsabilità era
rifiorito - e dagli stessi coloni, e tra di noi cresceva una costante
amicizia, favorita dal carattere e dalla disposizione di entrambi.
L'estate si dissolse nell'autunno con uno splendido raccolto, e avanzò
lentamente in un altro mite inverno e in una luminosa primavera. Le
minacce dall'esterno sembravano svanite, ma le pattuglie andavano
e venivano regolarmente, e i custodi militari della pace non
allentavano certo la vigilanza.
In primavera, gli onnipresenti vescovi di zia Luceia portarono
una notizia di ben altro genere, da Roma.
Seppi la notizia nella primavera del nuovo anno, di ritorno da
una delle mie frequenti visite di tre giorni a Cassandra, quando zia
Luceia mi convocò alla sua presenza. La trovai di un buonumore
insolitamente eccessivo anche per lei. Mi informò che, adesso che la
primavera era arrivata, aveva intenzione di tornare con me ad
Avalon - fu lei a usare quel nome - per conoscere la mia Cassandra e
convincerla a tornare con noi e a condurre una vita civile a
Camulod, dove io e lei saremmo stati uniti in matrimonio.
Mi ritrovai senza parole, e immediatamente in guerra con me
stesso. Una parte di me intuiva il buon senso della sua proposta, ma
un'altra parte, forse più forte, non era affatto disposta a rinunciare
alla felicità privata che avevo conosciuto con Cassandra nella nostra
piccola valle. Zia Luceia però non tollerava obiezioni, e quando
finalmente riuscii a inserire poche parole nel suo animato monologo,
riconobbi che sarebbe stato meraviglioso, almeno, che lei incontrasse
la mia amata. Le chiesi poi, pur senza un reale interesse, di essere più
specifica sulla sua "notizia" da Roma, notizia della quale non sapevo
assolutamente nulla.
Scandalizzata, inarcò lievemente un sopracciglio. «Che cosa
significa, che non ne sai assolutamente nulla? Lo sanno tutti!»
Scrollai il capo. «Perdonami, zietta, ma che cosa sanno tutti?»
Era decisamente stupefatta. «Ma come, tutti sanno di Germano.»
«Chiedo venia.»
«Germano. La notizia è Germano.»
«Capisco. Di quale Germano parli?»
Corrugò la fronte in una fugace espressione di impazienza. «Del
generale Germano, l'amico di tuo padre, il legato che servì con lui in
Asia Minore sotto Stilicone. Adesso è vescovo di Auxerre.»
Alzai una mano a invocare pazienza per la mia perfetta
confusione. «Ti prego, zietta, perdonami. Sono stato via per un
poco, e tutto ciò è avvenuto in mia assenza. Il generale Germano è il
vescovo di Auxerre, in Gallia?»
«Esatto.»
Scrollai ancora il capo, sempre più confuso. «Ma come può
essere? Come può un legato essere un vescovo?»
Mia zia arricciò eloquentemente il naso. «È facile. Germano si è
ritirato dalle Legioni, come è giusto che facciano tutti a un certo
momento della loro vita, e si è fatto prete, cosa che invece fanno
pochi legati, o soldati che siano. Sembra che sia sempre stato un
uomo dai pensieri profondi, e adesso è vescovo di Auxerre, e
teologo molto rispettato, secondo i resoconti che ho ricevuto.»
«Dai tuoi vescovi, naturalmente.»
«Sì.» Zia Luceia era inconsapevole della mia ironia.
«Capisco. E cos'altro ti hanno detto i tuoi vescovi?»
Si inalberò come un pony orgoglioso e mi rispose indignata, con
condiscendenza, come se stesse spiegando un'ovvietà a una persona
già bene informata. «Che, malgrado gli insegnamenti di Pelagio siano
condannati come pervicacemente equivoci, noi popolo di Britannia
aderiamo ancora a essi.»
«Ma l'abbiamo sempre fatto, zietta, e l'abbiamo sempre saputo.
Che cosa c'è di tanto nuovo?»
Luceia raddrizzò ancora di più le spalle. «La novità, nipote, sta
nel fatto che tra i nostri vescovi in Britannia c'è una guerra religiosa
dichiarata. Non tutti sono seguaci di Pelagio. Ce ne sono molti che
aderiscono agli insegnamenti di Agostino di Ippona e ai poteri
gerarchici degli ecclesiastici di Roma. Questi vescovi, che si
definiscono Vescovi ortodossi di Britannia, hanno scritto a Papa
Celestino, pregandolo di intercedere per loro in questo paese.»
Fece una pausa, e continuò. «Pelagio è morto. È morto l'anno
scorso in Palestina. È morto scomunicato.»
«Come mai? Papa Innocenzo l'aveva assolto!»
«No» mi corresse, «Innocenzo l'aveva scomunicato. É stato
Zosimo, il successore di Innocenzo, ad assolvere Pelagio, undici anni
fa. Ma l'assoluzione ebbe vita breve. Zosimo cambiò idea e decreto
l'anno seguente, sotto pressione dei vescovi uniti al Concilio di
Cartagine. Pelagio ha vissuto da apostata i suoi ultimi dieci anni.»
«Dimostrando così la validità delle sue convinzioni. Come può
essere cristiana una condanna così totale? Mi sembrava di aver
capito che nessun peccato è troppo grande per essere perdonato. E i
suoi seguaci?»
«Siamo stati dichiarati tutti eretici, anche se non siamo stati
effettivamente scomunicati. I Padri della Chiesa di Roma ritengono
che siamo stati fuorviati per molti anni, sedotti non per nostra colpa
dalla retta via degli insegnamenti della Chiesa. Adesso desiderano
che ci sottomettiamo spontaneamente alla volontà e agli
insegnamenti di Roma. Il Santo Padre, Papa Celestino, manderà qui
in Britannia Germano di Auxerre, il vescovo guerriero, per discutere
la questione del pelagianismo - così chiamano le nostre convinzioni
contrapposte alla loro "ortodossia" - con i nostri vescovi, nel grande
teatro di Verulamium.»
Aveva tutta la mia attenzione. Era quello che mio padre aveva
auspicato nel corso del suo confronto con i preti zeloti. «Un
dibattito, vuoi dire? Un dibattito pubblico? Quando, zietta? Quando
avrà luogo?»
Mi guardò con occhi penetranti, cogliendo nella mia voce un
interesse improvviso. «A settembre, sei mesi da oggi, ma perché vuoi
saperlo? Non penserai di andare ad assistere, vero?»
Il suo tono mi fece sorridere. «Perché no? Ti sorprenderebbe
molto se mostrassi un minimo di interesse?»
«Nelle questioni della Chiesa? Tu?» mi schernì. «Mio caro
ragazzo, se mai ho nutrito delle speranze nella tua salvezza, sono
morte da tempo. Sei mio nipote, e ti voglio bene, ma sei uno
scandaloso libertino.» Rise forte. «E non posso immaginare che tu
vada da qui a Verulamium per un dibattito tra vescovi, come non
potrei immaginare il mio Publio, che Dio lo abbia in gloria,
impegnato a guadagnarsi da vivere pescando.»
Risi con lei. «Perché no, zietta? Se Publio Varro avesse deciso di
fare il pescatore, le barche gli sarebbero affondate sotto i piedi per il
troppo peso del pesce pescato. Seriamente, zietta, penso che sarebbe
irresponsabile da parte mia non assistere al dibattito, se potessi
organizzare di andarci.»
«Irresponsabile, Cai?» Aveva notato il mio cambiamento di
umore, e si era adagiata nella poltrona per studiarmi più
attentamente, strizzando appena gli occhi nel tentativo di decifrare
la mia espressione. «Perché irresponsabile? È una parola di gran
peso.»
«È una faccenda di gran peso, zietta.»
«Davvero? Ebbene, lo confesso. Di gran peso e profondità. Io lo
so, ma mi stupisce che lo riconosca anche tu.»
Feci una smorfia. «Sono così prevedibile? É così semplice
accusarmi di superficialità?»
«No, che Dio mi perdoni se ti ho dato questa impressione, Caio.
Sono solo... stupita, ecco tutto. Lo ammetterai, di non avere mai
mostrato prima il minimo interesse in questo genere di cose?»
«Di buon grado. Ma la gente cambia, zietta, e suppongo di stare
cambiando...» Feci silenzio, e zia Luceia mi diede il tempo di
raccogliere i miei pensieri. «Ho riflettuto molto su mio padre, e su
ciò che rappresentava, e non credo di avere mai visto in vita mia
niente di più elegante, niente di più opportuno, dignitoso e
decoroso, del modo in cui quel giorno nel Consiglio sfidò e respinse
quei preti odiosi, prima di espellerli dalla Colonia. E tuttavia,
malgrado l'ammirazione per l'atteggiamento di mio padre e per la
sua argomentazione assennata, per non parlare del suo
autocontrollo - non credo che avrei potuto mandare giù l'offesa che
sopportò lui - penso anche agli effetti a lungo termine che ebbero le
sue azioni di quel giorno. Non è ancora stata detta l'ultima parola
sulla faccenda, e mio padre non è più qui per gestire le ripercussioni.
Ma qualcuno dovrà farlo, e credo che dovrò farlo io. Onestamente,
zietta, non so se potrò affrontare un simile compito. Non ho la
certezza morale, la lungimiranza dell'esperienza, l'autorità e il
giudizio moderato che aveva mio padre.» Feci un'altra pausa come
di fronte a terra vergine da dissodare, e per esprimere nuovi pensieri
cercai parole nuove, e in quel breve spazio di tempo notai
l'espressione di mia zia.
«A che cosa stai pensando? Ti sembro arrogante?»
Sorrise, scuotendo leggermente il capo. «No, tutt'altro. Sono
estasiata, ma non voglio interrompere il corso dei tuoi pensieri. Vai
avanti, Caio, per favore. Esponimi i tuoi pensieri, e non preoccuparti
dei miei.»
Impacciato, confessai il mio sconcerto. «Ti prego di capire, zietta,
che sono sorpreso quanto te delle cose che dico. Non ho mai dato
voce a questi pensieri, prima di oggi. Erano nella mia mente, è vero,
ma non ne sono mai stato realmente consapevole, altro che di
sfuggita. Non avevano urgenza di uscire, se capisci che cosa
intendo...» Il mio cervello vorticava, i pensieri si accavallavano più
rapidamente di quanto potessi ordinarli, e Luceia taceva, sapendo
che avevo bisogno di orecchie comprensive che ascoltassero i miei
pensieri, piuttosto che di parole che li interrompessero. Procedetti
incerto.
«Il vescovo Alarico era tuo amico, zietta. Tu gli volevi bene e lo
ammiravi. E così anche nonno Cai e zio Varro, e tutti quelli che lo
conoscevano. Io sono stato cresciuto secondo i suoi insegnamenti e,
pur non avendolo conosciuto personalmente, so che era un uomo
semplice e pio, che viveva nell'amore del Cristo, e che la sua
condotta era irreprensibile. Tutto questo so, come so che la sua
intera esistenza era dedicata alla diffusione della Chiesa, la Chiesa di
Cristo. Eppure eccoci qui, oggi, tutti noi in Britannia, condannati e
scomunicati a causa di ciò che insegnava e di ciò in cui credeva,
nonostante tutta la sua devozione. Sono disorientato. Qual era il suo
peccato? Di quale grave offesa contro Dio era colpevole Alarico? Ha
sposato la causa di Pelagio, secondo cui l'uomo possiede
un'elevatezza d'animo che si ispira e procede da Dio, proprio perché
l'uomo è stato fatto a immagine di Dio!» La frustrazione minacciava
di travolgermi, e così respirai a fondo più volte prima di continuare.
«La mia salvezza eterna può dipendere da questo, ma non posso
accettare che la premessa sia essenzialmente falsa. Dio ha creato
l'uomo a Sua immagine e somiglianza. Questi sono i dogmi
fondamentali della Chiesa! E se ciò è vero, allora nell'uomo, nella
sua natura, c'è un elemento divino. Ma adesso degli uomini, gli
uomini che governano la Chiesa di Dio a Roma, hanno deciso che il
loro sistema, la loro definizione, la loro interpretazione della
volontà di Dio, è più corretta delle opinioni di Pelagio, o di Alarico,
o di qualunque altro vescovo britanno che ammiri le idee di Pelagio.
E per far sì che ognuno si adegui al loro sistema, ci minacciano minacciano tutto questo paese - di dannazione eterna! Puah! È
disgustoso!»
Il volto di zia Luceia era completamente privo di espressione, e
non rivelava né censura né plauso, perciò continuai con maggiore
foga. «È così, io penso... No, io credo, io sono convinto che questo
dibattito di cui parli sarà nel suo genere l'avvenimento più
importante nella storia di questo paese. Germano è un soldato, e per
essere stato un legato e un amico di mio padre deve essere stato un
buon soldato. Ne consegue logicamente che sia un pragmatista. Non
posso immaginare che sia uno zelota del tipo dei nuovi chierici
romani. E per lo stesso motivo deve possedere una mente
formidabile, allenata nella logica e nella teologia così come nella
strategia e nella tattica militare. Deve essere un contestatore feroce,
un accusatore. Non verrebbe qui, altrimenti. Questo dibattito, zietta,
sarà l'arena nella quale le idee e i valori, e il merito del vescovo
Alarico, di Caio Britannico, di Publio Varro, di Pico Britannico e di
tutti i loro pari, verranno difese e assolte, oppure attaccate, vilipese,
condannate e proscritte. I Britanni pelagiani contro i Romani
ortodossi. Eresia contro dogma...» Mi interruppi, sopraffatto dalla
rilevanza del mio discorso. «Devo andare, zietta. A Verulamium.
Devo esserci, devo assistere all'incontro, perché dopo questo evento,
in questo quattrocentoventinovesimo anno di Nostro Signore,
qualsiasi sia il risultato, la vita in Britannia non sarà più la stessa. In
questo dibattito verrà processata tutta la nostra terra, e la gente che
ci vive, non solo per la loro vita, ma per la loro anima eterna.»
Il silenzio tra noi fu lungo e profondo. Mi afflosciai sulla sedia,
come se fossi stato coinvolto in uno sforzo fisico accanito ed
estenuante. Poi mia zia prese un mazzuolo e percosse il piatto
metallico sul tavolo accanto alla sua sedia. La governante apparve
immediatamente.
«Marta, porta del vino per mio nipote. Quello fresco e frizzante
della Gallia. Prendine un orcio nuovo in ghiacciaia.»
Quando Marta se ne fu andata, chiesi: «Perché non hai servitori
uomini, zietta? Non sei affetta da misantropia».
Sorrise. «No, preferisco semplicemente avere intorno delle
donne. Ho vissuto abbastanza a lungo in un mondo dominato dagli
uomini. Le donne hanno valori differenti, Caio, con i quali mi
identifico più facilmente, adesso che sono vecchia.» Meditò per un
momento. «Vorrei che tuo padre fosse stato qui ad ascoltarti oggi.
Sarebbe stato molto fiero.»
«Lo credi davvero? Grazie, zietta.»
«Ora stai zitto e lasciami pensare.»
Rimanemmo seduti in amichevole silenzio finché Marta non
ritornò con il vino, delizioso e ghiacciato, mi servì e se ne andò di
nuovo. Allora mia zia disse: «Naturalmente devi andare. Avevo
intenzione di andare io stessa, ma sono troppo vecchia e
Verulamium è troppo lontana. Tu farai le mie veci. Ma che cosa ne
sarà della tua Cassandra? Starai via per mesi».
«La porterò con me. Sarà un'esperienza meravigliosa, per lei.»
«Tutta quella strada? E viaggerete da soli? Solo voi due?
Attraverso tutta la Britannia?»
«Beh, no, non da soli, sarebbe come andare in cerca di guai. Ma
con una piccola comitiva, quanto basta per essere sicuri.»
«Da che cosa? Un incontro con un equipaggio di predatori
sassoni?»
«Che cosa suggerisci, zietta?»
Abbassò lo sguardo e giocherellò con una piega della gonna, e
tenendo gli occhi bassi disse: «Forse interferisco ancora una volta in
faccende da uomini, ma tu stesso hai detto che questo dibattito sarà
- potrà essere - l'avvenimento più importante nella storia di
Britannia. Non pensi che lo stile e la sostanza della tua
partecipazione, come emissario di questa regione occidentale,
dovrebbe essere sufficiente a comprovare il fatto che qui esiste una
significativa presenza cristiana?».
«Che cosa? Vuoi dire...?» Lasciai che il suo tacito suggerimento
filtrasse attraverso le nubi che mi ottenebravano la mente, e infine
dovetti sorridere, e scuotere ammirato la testa. «Sai, se tendo a
dimenticare che sei la sorella di Caio Britannico, e che per decenni
sei stata sposata a Publio Varro, tu trovi sempre il modo di
ricordarmelo. Sei geniale, zietta. E hai ragione, inutile dirlo. Camulod
dovrebbe presenziare al dibattito in pompa magna. Ne discuterò con
Tito e con Flavio, e sottoporremo immediatamente la questione al
Consiglio.»
«Bene. Pensavo che l'avresti fatto.» Sorrise. «Non appena ci fossi
arrivato, naturalmente. Domani cavalcheremo assieme fino alla tua
Avalon, solo noi due. Il tempo è splendido, e ho bisogno di respirare
l'aria fresca della primavera. É tempo ormai che io conosca e
apprezzi la tua piccola sacerdotessa.»
Libro Quarto
RE
XXIX.
«Il chirurgo anziano, comandante.»
Seguii con lo sguardo il dito puntato di Donuil, fino al punto in
cui Lucano si stava inerpicando su per la collina. Cavalcava
scomodamente chino in avanti, osservando gli zoccoli del suo
cavallo che avanzava cauto tra le pietre e i massi sparsi lungo il
pendio. Era solo a metà strada e arrancava pietosamente; sorrisi a
quella vista, rammentando un commento scritto molti anni prima da
Publio Varro, che si lamentava del grande disagio di stare a cavallo.
«Il buon Lucano è un brillante chirurgo e un medico in gamba,
Donuil, ma non è un cavaliere. Tu e lui insieme dovete essere il
peggiore esempio della nostra forza militare che un nemico possa
vedere.»
Donuil mi sorrise, imperterrito. «Ah, ma noi non siamo la vostra
forza militare, comandante. Un chirurgo non dovrà mai praticare la
sua chirurgia dal dorso di un cavallo, e il suo talento non soffrirà
perché sulla groppa di un animale non gode di sufficiente benessere.
Io, invece, essendo una creatura naturalmente vivace, miglioro
quotidianamente malgrado - lo ammetterai tu stesso - le circostanze
più infauste. La mia stessa razza mi impone di superare una legge
naturale. Se gli dei avessero voluto che noi Gaeli andassimo a
cavallo, avrebbero riempito di cavalli tutta l'Eire.»
Non gli risposi. Ero troppo occupato a scrutare il prato
sottostante. Eravamo in procinto di montare il nostro primo campo
lungo il percorso, e mi ero arrampicato su quella collina per
esaminare il luogo che avevo scelto, sperando che fosse ideale come
sembrava dal basso. Ero più che soddisfatto. «È perfetto» dissi. «Ora,
voglio che il campo sia disposto laggiù come se fossimo sulla pianura
di fronte a Camulod. Quattro aree identiche orientate a nord e a
sud, una per ogni squadrone, i carri di commissariato e delle
provviste nel mezzo, e le cavalcature di riserva qui davanti, più
vicino alla strada. Mi segui?» Annuì, e io, per sola risposta, alzai un
sopracciglio. Arrossì, allora, e annuì ancora, salutandomi con il
pugno chiuso.
«Perdonami. Sì, comandante. Quattro aree separate, come a
Camulod, una per ogni squadrone, il commissariato in mezzo e i
cavalli in più davanti, a sud, tra il campo e la strada per sicurezza.»
«Così va meglio. Informa per favore i comandanti degli
squadroni.»
Salutò ancora e scese la collina con prudenza, anche se non con
la stessa goffaggine di Lucano, che oltrepassò con un cenno del capo
rapido e distratto. Sorrisi vedendolo allontanarsi a cavallo,
compiaciuto per la sua capacità di apprendimento. Sottomettersi al
genere di disciplina che gli stavo imponendo era contrario a tutto il
suo addestramento e all'ambiente in cui era cresciuto in Ibernia, ma
se la cavava e scendeva volentieri ai necessari compromessi.
Lucano si affiancò a me e tirò le redini del suo cavallo, un
animale placido, appositamente scelto per lui. Allentò la cinghia
dell'elmo, se lo tolse, e con l'incavo del gomito si asciugò il sudore
dalla fronte.
«Parola mia, Britannico, non capirò mai perché i tuoi uomini
insistono a portare l'armatura con questo tempo. Fa abbastanza
caldo da fondere la carne!»
Sorrisi, ma non mi preoccupai di rispondergli. Essendo chirurgo
anziano, lui più di ogni altro comprendeva la necessità militare di
essere sempre pronti a ogni evenienza. Mi osservava, aspettando
invano che reagissi alla sua provocazione; poi girò il cavallo e
guardò giù nella valle.
«Sembrano in gamba, eh?»
«Sì, Lucano, lo sembrano e devono sembrarlo. E sono in gamba.
Sono i migliori. I migliori di Camulod, e potrei scommettere che
sono i migliori del mondo.»
Tutto il nostro contingente era ormai visibile sulla strada
sottostante, e rappresentava una piacevole immagine di correttezza
militare. Il primo squadrone, formato dai veterani più esperti, era
preceduto dal mio grande stendardo nero e argento - al posto del
quale in tempi antichi avrebbe sventolato l'Aquila romana - e dal
loro simbolo: uno stendardo cremisi con un cervo bianco dalle
grandi corna ramificate. Cavalcavano in colonna, con in testa i
comandanti dello squadrone e delle truppe, immediatamente seguiti
dai due vessilliferi, e poi dal resto dello squadrone, quattro ranghi
affiancati in file di dieci. A cinquanta passi dietro l'ultimo rango
avanzava il secondo squadrone, in identica formazione, seguito a sua
volta dal carro dell'acqua, un'enorme cisterna cilindrica di quercia
impeciata, coricata sul fianco su una piattaforma a ruote trainata da
due cavalli. Poi venivano i sei carri di commissariato - enormi, a
doppio assale, sostenuti da ampie ruote raggiate di quercia lavorata
a mano, cerchiate da fascioni di ferro - ognuno trainato da un tiro di
sei cavalli massicci. Dietro ai carri venivano le cavalcature di scorta,
abbrancate dai giovani che avrebbero badato solo ai cavalli fino al
giorno in cui non si fossero guadagnati la promozione e avessero
iniziato l'addestramento come soldati. Dietro alle cavalcature in
branco, ben lontani dalla loro polvere e in grado di proteggerle da
un attacco alle spalle, venivano il terzo e il quarto squadrone, uguali
per dimensioni al primo e al secondo, ma costituiti da soldati meno
esperti
equilibrati da uomini più anziani e incalliti.
Centosettantacinque combattenti in tutto, inclusi gli ufficiali, ed
esclusi il personale di commissariato e i mandriani, che portavano il
numero totale a poco più di duecento unità.
In silenzio li guardammo fermarsi e attendere l'arrivo di Donuil; i
comandanti degli squadroni di retroguardia si spostarono in testa
alla colonna per incontrarlo. Una serie di sonori comandi si levò
nell'aria del tardo pomeriggio, e il primo squadrone ruotò a sinistra
e lasciò la strada per il prato boscoso che avevo scelto come luogo
per il campo, e si diresse subito verso la zona a esso destinata. Ci
volle del tempo perché tutta la carovana si raggruppasse nel posto
indicato, ma poi, al comando, smontarono tutti come un sol uomo,
e il prato aperto si trasformò in un accampamento per ospitarli
durante la prima notte del viaggio verso Verulamium.
«Una bella differenza dal vecchio campo fortificato della
fanteria» mormorò Lucano.
«No, non proprio, se ci pensi, Luca» gli risposi, chiamandolo
come mi aveva chiesto personalmente dopo che eravamo diventati
amici. «È ancora la stessa disposizione che usavano nei tempi antichi,
quattro sezioni e due strade incrociate. L'unica vera differenza è che i
muri non sono necessari, sarebbero superflui. I cavalli fanno da
muro. Noi ci limitiamo a dividerli in quattro o più gruppi e a fare in
modo che i loro cavalieri restino nelle vicinanze. E aumentiamo lo
spazio tra gli squadroni perché abbiano la possibilità di fare manovra
in caso di attacco. Solo l'aspetto è diverso. La nuova formula
funziona esattamente come la vecchia, ed esattamente per la stessa
vecchia ragione, una ragione di rado riconosciuta ma sempre
rispettata.»
Lucano mi guardò di traverso, percependo un tranello. «Oh,
davvero? E di che ragione si tratta?»
«L'adunata per il rancio, Luca.» Sorridevo, ma ero comunque
serio. «Pensaci. Non è solo la disciplina romana.
Scavare il fossato e costruire le mura alla fine di ogni giorno di
marcia era in origine una effettiva precauzione contro gli attacchi,
ma l'abitudine continuò a esistere per secoli dopo che la pace era
stata stabilita in tutto l'Impero. Ci fu un periodo - e durò per secoli in cui le probabilità di un attacco contro un accampamento romano
dovevano essere di una contro diecimila, eppure la disciplina
persistette.»
«Va bene» grugnì infine, quando si rese conto che stavo
aspettando la sua domanda. «Correrò il rischio. Perché persistette?»
«Perché aveva un altro scopo, radicato nella certezza.» Vedevo
che pensava di fare da bersaglio per chissà quale mia battuta
scherzosa, mi sogguardava cauto e preparava una replica arguta e
maliziosa. «No, parlo seriamente. L'unico momento che un
legionario aveva per se stesso era alla fine della giornata. Gran parte
della puntigliosa tradizione campale romana deriva dal semplice
fatto che, dopo una giornata di dura marcia, gli addetti al
commissariato avevano bisogno di tempo per preparare la cena
senza essere disturbati da uomini affamati senza niente di meglio da
fare. E così, per evitare l'inconveniente, l'esercito ha trasformato in
una regola la consuetudine di scavare un fossato e costruire una
fortificazione al termine di ogni giornata, e di erigere le tende prima
di avere il permesso di nutrirsi e di rilassarsi. Ciò dava ai cuochi il
tempo di allestire la cena. Adesso i nostri soldati devono togliere la
sella, strigliare, dare da bere e da mangiare ai cavalli, pulire e
mantenere i finimenti, drizzare le tende e accendere i fuochi, prima
di poter mangiare. E ancora una volta i cuochi hanno il tempo di
preparare la cena. E durante la marcia la cena è il momento più
importante nella vita di un soldato, sia di fanteria sia di cavalleria.»
«Immagino di sì.» Lucano era visibilmente impressionato. «Di
certo il più vetusto. Un genere di sicurezza che non puoi comprare. E
a proposito di comprare» continuò, «hai portato denaro?»
Gli sorrisi. «Sì, ne ho portato. Oro. È nel carro del
quartiermastro. Perché?»
«Perché no? Il resto del mondo lo usa ancora, presumibilmente,
e passeremo da Londinium.»
L'idea mi fece rinsavire. «É vero, Lucano. Ci passeremo. Mi
domando come sarà.»
Mi guardò stupefatto. «Che cosa? Londinium? Perché dovresti
domandartelo? Ci sei già stato, no?»
Feci di no con la testa. «No, mai. Tu sì, suppongo.»
«Certamente. Sono stato a Londinium con tuo padre, quando
tuo nonno ci ha portato Publio Varro in catene.»
«Quando hanno incontrato Stilicone, vuoi dire?»
«Sì.»
«Ma Luca, è stato anni prima che io nascessi! Sono passati
trent'anni da quando Stilicone è tornato a Roma.»
«E allora? Che importanza può avere, al di là del fatto che tu sei
poco più che un infante e io non sono più giovane come una volta?»
Scrollai le spalle. «Credo che in trent'anni potrebbero accadere
molte cose in una città, senza l'esercito a mantenere l'ordine.»
Liquidò la mia obiezione con leggerezza. «Sciocchezze, Caio. E
comunque, l'esercito ci è rimasto per almeno un decennio dopo la
partenza di Stilicone. Ehi, stai parlando del centro amministrativo
della provincia, non di un casale popolato da contadini insipienti. Le
autorità civili si saranno assunte subito le loro responsabilità, quando
l'esercito se n'è andato. I curiales e le magistrature locali e i Consigli
Regionali erano perfettamente in grado di mantenere l'ordine.»
Chinai il capo, ammettendo la mia ignoranza. «Forse hai
ragione, e spero che tu abbia ragione. Ma ricordo ciò che disse mio
padre sul tentativo di applicare la legge senza il sostegno della forza
dell'esercito. Ma lo scopriremo tra pochi giorni. Tre giorni, quattro
al massimo, se continuiamo a questo passo.»
Avevamo percorso quaranta miglia quel giorno, dirigendoci a
nord dalla Colonia verso Aquae Sulis, ma voltando a est all'incrocio
tra le due strade principali circa trenta miglia a sud della città.
Avremmo trascorso lì la notte, nella prateria accanto alla bassa
fortificazione che da secoli era un campo di confine, e nel primo
pomeriggio avremmo raggiunto Sorviodunum, la prima città lungo il
percorso. Il nostro viaggio ci avrebbe portato verso nord-est via
Sorviodunum, la città che i Celti chiamavano Sarum, a Silchester, poi
a Pontes, e fino a Londinium. Da là avremmo puntato direttamente
a nord verso Verulamium lungo la strada più antica della Britannia.
Saremmo ritornati da Alchester, Corinium e Aquae Sulis,
completando un rozzo circolo verso Occidente e mostrando la
nostra presenza in tutta la regione interna della Britannia
meridionale, e mantenendoci ben lontani dalle zone costiere dove
girava voce che ci fossero forti concentrazioni di Sassoni barricati.
Lucano si rimise l'elmo. «I ragazzi sono attivi» disse indicando la
prateria. «Sono su di morale.»
Aveva ragione. Il campo stava già prendendo forma. I soldati
avevano finito di tirare le corde e stavano legando i cavalli in fila,
lasciando tra un animale e l'altro abbastanza spazio perché ogni
cavaliere potesse provvedere indisturbato ai bisogni del proprio
cavallo.
Alcuni ragazzi addetti alla custodia della mandria trasportavano
sacchi di avena dai carri di commissariato, mentre altri riempivano la
cisterna dal ruscello e distribuivano l'acqua per gli animali. Altri
ancora pensavano a legare le cavalcature di riserva nella zona
protetta a sud del crocevia interno al campo, nel punto più vicino
alla strada. Ogni cavallo portava nelle bisacce il proprio sacco di tela
da adattare al muso per il fieno e un secchio di cuoio per l'acqua. Il
commissariato era stato sistemato nello spazio centrale, equidistante
da ognuno dei quattro squadroni accampati, ed era circondato da
spazio sufficiente perché gli uomini potessero sparpagliarsi e
mangiare comodamente sull'erba con il bel tempo, oppure spiegarsi
rapidamente e ordinatamente in formazione in caso di emergenza.
Ricordavo la notte in cui mio padre aveva ideato quella
disposizione, badando alla necessità sia di disciplinata procedura sia
di adattabile elasticità. Il suo progetto originale riguardava quattro
squadroni di quaranta uomini e cavalli. Un numero minore poteva
essere organizzato secondo la discrezione di ogni singolo
comandante, ma qualsiasi forza maggiore di tre squadroni al
completo rischiava di presentare problemi per disposizione,
dispersione e disciplina.
La nuova formazione campale di mio padre consentiva
l'espansione per accogliere qualunque numero di squadroni, e si
basava su uno schema a scacchiera, con i comandanti acquartierati
tra il primo e il secondo squadrone, e il commissariato tra il terzo e il
quarto. Lo vedevo chiaramente prendere forma sotto la nostra
postazione in cima alla collina, e nella mia mente lo rivedo ancora
oggi. Era una forma che in questa terra era famosa, ma che non si
vede ormai da decenni, e che forse non si vedrà mai più.
Quella notte giacqui sveglio sulla mia branda, ad ascoltare le
voci dei miei uomini raggruppati intorno ai fuochi, e i rumori vari e
infiniti del campo. Ero piacevolmente stanco, ma tutt'altro che
assonnato, e l'agio e la quiete condussero i miei pensieri a divagare
su tutto quello che era accaduto nei pochi mesi trascorsi dalla sera in
cui mia zia mi aveva convinto che Camulod doveva presenziare in
grande stile al dibattito di Verulamium.
Persuaso quindi che il suo consiglio era valido, non procrastinai.
Riflettei su ciò che dovevo dire e portai i risultati delle mie delibere
alla prima riunione plenaria del Consiglio. Mi parve allora di
perorare il mio caso con eloquenza, e infatti convinsi tutti del merito
dell'opinione di Luceia. I voti a favore furono unanimi, e iniziammo
immediatamente i preparativi.
Chiunque ne avesse notizia, dai consiglieri alle reclute, desiderò
unirsi all'escursione, ma i criteri che avrebbero governato la
spedizione e i suoi partecipanti furono rigorosamente decretati fin
dal principio: sarebbe stata una delegazione militare, sotto tutti gli
aspetti. L'obiettivo principale, a parte l'evidente scopo di
rappresentare l'ansiosa ma unita e autonoma comunità cristiana del
lontano ovest, era dimostrare la nostra potenza militare a chiunque
avesse occhi per vederla. Per questa ragione, nessun civile in
soprannumero avrebbe accompagnato la spedizione. Io solo avrei
rappresentato Camulod in qualità di comandante e portavoce.
Esattamente per la stessa ragione, sostenuta dal pensiero coerente e
illuminato del legato Tito, ogni soldato e ogni ufficiale al seguito
avrebbe dovuto guadagnarsi il posto.
Dal totale delle forze di Camulod sarebbero stati formati quattro
squadroni scelti di cavalleria, e solo i migliori di ciascuna categoria si
sarebbero qualificati. Era una giusta regola, che dava l'opportunità a
ogni uomo, dalla recluta più inesperta al veterano più incallito, di
ambire all'appropriato posto d'onore in uno dei quattro squadroni.
Poiché tra gli ufficiali la competizione per l'analogo onore sarebbe
stata infra dignitatem, i comandanti di squadrone e di truppa furono
scelti in Consiglio, e annunciati con grande pompa. Tito, Flavio e io
ci preoccupammo di sottoporre al Consiglio solo i nomi dei nostri
comandanti migliori, per essere certi che i prescelti sarebbero stati
bene accolti.
L'immediata competizione per venire inclusi nei ranghi dei
quattro squadroni fece miracoli per il morale delle truppe,
minacciato dalla paventata vittoria di Lot. Vecchie rivalità tornarono
in auge, e rivalità nuove nacquero nel giro di una notte. Le nubi di
polvere sulla vasta pianura ai piedi della collina non si posavano
mai: squadroni e soldati a cavallo a due o a tre si esercitavano a
tutte le ore, in manovre e formazioni, finché i nuovi squadroni non
furono al completo e i colori decisi e attribuiti.
Fu molto meno complicato decidere la composizione dei nostri
squadroni che decidere se Cassandra dovesse oppure no
accompagnarmi a Verulamium. Volevo appassionatamente portarla
con me, ma l'attuale struttura della comitiva -tutti uomini e tutti
soldati - presentava ostacoli imprevisti, tanto che non mi ero ancora
risolto quando dovetti accompagnare mia zia, dietro sua insistenza,
lungo il sentiero fino alla nostra valle segreta, tenendole per tutto il
cammino la mano annosa eppure piena di forza, per timore che
potesse scivolare e cadere.
Come faceva sovente, Cassandra mi sorprese correndomi
incontro con il volto raggiante di delizia. Ma vedendo la mia
compagna si fermò di colpo, arrossendo confusa e imbarazzata. Zia
Luceia, invece, era ben preparata a quell'incontro. Evidentemente
aveva meditato a lungo sull'atteggiamento che avrebbe tenuto per
mettere Cassandra a suo agio: le si avvicinò senza esitare e
l'abbracciò, facendomi cenno di unirmi a loro e di condividere
l'abbraccio.
Più tardi, mentre Cassandra stava cucinando, zia Luceia mi disse:
«E così, nipote, mi hai impressionato mio malgrado. Sospettavo che
questa giovane donna fosse più che semplicemente speciale, nel
senso che i giovani innamorati danno alla parola, ma scopro adesso
che è assolutamente incantevole, molto più di quanto mi aspettassi.
E in quanto al tuo pregiudizio sulle sue origini, hai torto. Non è una
contadina, e non lo era nemmeno la sua famiglia. Forse non
conosceremo mai le sue vere origini, ma c'è della nobiltà in lei,
Questa ragazza è fin troppo per te, libertino che sei. Hai sempre
intenzione di portartela appresso a Verulamium?».
Già mi gongolavo nella sua approvazione del mio amore, e la
domanda mi sorprese. «Certo, zietta. Non mi sognerei di andare
senza di lei» decisi lì per lì, in tutta semplicità.
«Mmh.... E quando partirete?»
«Alla fine di luglio, all'inizio di agosto al più tardi. Ma già lo sai.»
«Sì, nipote, lo so.»
«Allora perché me l'hai chiesto?»
Mi guardò negli occhi e scrollò il capo, meravigliata. «Te l'ho
chiesto perché non riesco a credere all'ottusità degli uomini.»
«Ottusità?» La mia espressione doveva essere la quintessenza
dello stupore. «Che cosa ho detto? Perché sono ottuso?»
Scrollò ancora il capo, ma parlò con dolcezza: «La tua ottusità,
nipote, sta nell'incapacità di vedere che ad agosto alla tua Cassandra
mancheranno due mesi per partorire tuo figlio».
Fu come se un fulmine mi avesse colpito! Soffocai quasi,
balbettai e mi dimenai, maledicendo la mia stupidità. Era incinta!
Come avevo fatto a non accorgermene prima? E nel corso della
rivelazione, Cassandra si indaffarava al nostro pasto, ignara della mia
costernazione, finché mi calmai e . la feci voltare verso di me, e la
baciai piano posandole una mano sul ventre. Allora seppe che
sapevo, e i suoi occhi si colmarono di lacrime di felicità.
Ovviamente era fuori discussione che mi accompagnasse a
Verulamium. Sarebbe stato fuori discussione anche che ci andassi io,
se zia Luceia non si fosse impuntata subito a convincermi che andare
era mio dovere. Mi promise che Cassandra sarebbe stata al sicuro, in
mia assenza. L'avrebbe persuasa lei a tornare con noi a Camulod, a
sposarmi legalmente e ad attendere la nascita di nostro figlio.
Quando fossi ritornato dal mio pellegrinaggio a Verulamium, mio
figlio e mia moglie sarebbero stati lì ad aspettarmi, felici e in buona
salute. Le credetti, e mi avviai verso Camulod da solo.
XXX.
Zia Luceia rimase nella nostra valle sola con Cassandra per
un'intera settimana. Alla fine di quel periodo, le raggiunsi a bordo di
un calessino leggero a due ruote, che ci avrebbe comodamente
ospitati tutti e tre, più il nostro bagaglio e gli averi di Cassandra.
Non avevo nemmeno pensato che la campagna di mia zia per
convincere Cassandra a tornare a Camulod potesse fallire, poiché
l'amore e il rispetto che si erano reciprocamente dimostrate fin dal
principio erano totali e assoluti, e la capacità che avevano di
comunicare senza parole era poco meno che magica.
Il nostro ingresso a Camulod, più tardi quello stesso giorno,
suscitò una poderosa agitazione. La giovane donna che sedeva eretta
e pacata al mio fianco, tra me e mia zia, non recava la benché
minima somiglianza con la derelitta trovatella mezzo morta di fame
che era arrivata cavalcando dietro a Uther da quel remoto
pattugliamento, e nessuno la riconobbe. Tuttavia la sua vista, la sua
bellezza e la sua singolarità diedero origine a un istantaneo
sobbollire di ipotesi e pettegolezzi, che né io né mia zia tentammo in
alcun modo di placare. Io avevo per la mente ben altro che oziose
dicerie e congetture.
Da due settimane, da quando cioè avevo accettato il ritorno di
Cassandra a Camulod, mi preparavo ad affrontare grandi
rivolgimenti. D'un tratto imbarazzato dalla prolungata assenza di
mio cugino - una condizione che, fino a quel momento, ben si
adattava al mio stato d'animo - avevo incominciato a volere che
Uther ritornasse immediatamente, e mi ero disposto all'inevitabile
confronto tra lui e Cassandra. Ero determinato a metterli faccia a
faccia senza preavviso, sapendo che solo così, nella sua completa
sorpresa, avrei potuto leggere con chiarezza la colpa o l'innocenza di
Uther. Ma si rivelò essere una soluzione irrealizzabile. Uther non era
nei pressi di Camulod quando riportai indietro Cassandra. Per
quanto ne sapevamo, dopo la morte di suo padre non aveva più
lasciato le terre dei Pendragon. Dalla sua partenza non avevamo più
avuto notizie, e nessuno aveva idea di quando sarebbe tornato a
Camulod. Per quanto ne sapevamo, poteva essersi già impegnato in
una campagna contro Lot, nel lontano sud-ovest, in Cornovaglia.
Ma sebbene fossi pronto a verificare la reazione di Uther ala
vista di Cassandra, ero totalmente impreparato ad assistere alla
reazione di Donuil.
Da diverse ore eravamo ormai nella dimora di mia zia, e avevo
condiviso con Cassandra la visita guidata dell'edificio, godendo del
suo piacere e del suo stupore di fronte alla ricchezza della casa e dei
suoi arredi, e vedendoli anch'io attraverso i suoi occhi come per la
prima volta. Infine si era ritirata, in compagnia di un drappello di
cameriere di mia zia, per fare un bagno e cambiarsi d'abito, e io ero
stato escluso dalla sua compagnia. Mandai un soldato a cercare
Donuil e a dirgli che ero tornato e che poteva portarmi il lavoro da
sbrigare.
Un'ora dopo ero impegnatissimo a logorarmi il cervello
sull'orripilante sintassi di un rapporto scritto da uno dei nostri
consiglieri sulla varietà e sulla distribuzione delle coltivazioni in atto
in tutti i possedimenti della Colonia. Era un compito immane e
deprimente, per il quale mi ero imposto di essere paziente, e stavo
opponendo una strenua resistenza al crescente impulso di convocare
l'autore di quel pasticcio per redarguirlo aspramente, quando un
tremendo fracasso mi fece sobbalzare come un fauno. Donuil era
prima appollaiato di fronte a me su un alto sgabello, e stava
lucidando la mia corazza da parata. Adesso era in piedi, rigido come
un pezzo di legno, cereo in volto, con gli occhi spalancati e fissi su
un punto dietro la mia testa, e la mia armatura migliore stava
ruzzolando rumorosamente sul pavimento. Mi voltai per seguire il
suo sguardo stupito, e vidi Cassandra sulla soglia, che osservava
qualcosa nel corridoio alle sue spalle. Ero ancora troppo sorpreso
per dire alcunché, quando Cassandra si girò verso di me, e i suoi
occhi si posarono su Donuil. Sul suo viso apparve repentinamente
un'espressione di stordita incredulità, che si schiuse in un sorriso
gioioso e subitaneo di riconoscimento.
Ancora per molti lunghi secondi Donuil rimase come pietrificato,
poi barcollò in avanti, con le gambe tese, la bocca aperta, la faccia
piena di sgomento e di paura. Quando le arrivò vicino, senza
nemmeno sfiorarla cadde sulle ginocchia e protese le braccia.
Raggiante, lei gli diede entrambe le mani, e Donuil chinò il capo a
baciarle, ma lei già lo stava tirando in piedi, gli allacciava le braccia
intorno al collo e lo baciava senza ritegno sul viso, la fronte e gli
occhi.
Questa sconcertante sequenza di avvenimenti provocò dentro di
me un ugualmente sconcertante subbuglio di emozioni contrastanti.
In pochi brevi attimi provai timore, sospetto, gelosia, e una rabbia
improvvisa che offuscò ogni altro sentimento e minacciò
rapidamente di sopraffarmi. Poi ogni passione mi abbandonò di
colpo come mi aveva assalito, quando il colossale, formidabile
Donuil si voltò a guardarmi, in lacrime, e sussurrò con voce
strozzata: «Dea rdree, comandante, è dea rdree». Poi si girò di
nuovo e cadde in ginocchio una seconda volta, gettò le braccia
intorno ai fianchi della mia amata e nascose il viso nel suo petto,
dando libero sfogo ai singhiozzi che gli scuotevano le spalle.
Le sue parole non avevano senso, ma i suoi gesti, la sua
possessività parevano suggellare il mio destino. Mi alzai lentamente
dalla sedia e avanzai verso di loro, spostando lo sguardo da Donuil a
Cassandra, come lui in lacrime. Vide che mi avvicinavo, ma non
allontanò dal capo di Donuil le braccia protettive che lo stringevano
alla soffice pienezza del suo seno. La rabbia mi rimontò dentro, più
forte di prima, ma Cassandra mi sorrise amorevolmente tra le
lacrime, e la rabbia che era sul punto di traboccare defluì, sostituita
dalla più completa confusione.
«Donuil?» chiesi con voce sommessa ed esitante, eppur greve di
minaccia. «Che cos'è, Donuil? Questa rdree? Conosci questa donna?»
Ricordo di aver pensato che non mi ero mai sembrato tanto sciocco.
Se esisteva una certezza sulla taccia della terra, era che quell'uomo e
quella donna si conoscevano.
Girò la testa verso di me, e mi guardò da dietro il riparo delle
sue braccia. La voce era soffocata dalle maniche dell'abito, ma questa
volta compresi ogni parola. «É Deirdre, comandante. Credevamo
che fosse morta. Mia sorella, Deirdre.»
Mia sorella, Deirdre! Sconvolto oltre ogni dire, li staccai
letteralmente uno dall'altra, e li tenni a distanza, e scrutai il volto
dell'uno e dell'altra, confrontando la faccia grande diluì e la faccia
minuta di lei, e notai subito la somiglianza. Fratello e sorella! Li
lasciai e mi diressi al divano più vicino, dove crollai, con il cuore che
mi pulsava nelle orecchie.
Cassandra si separò dal fratello in ginocchio sulla soglia e si
precipitò immediatamente accanto a me, con occhi pieni di ansia.
Con una carezza le asciugai le lacrime, e la presi dolcemente tra le
braccia, cullandola e riscaldandola alla fiamma di un amore misto a
colpa per le mie reazioni discordi. Donuil era fermo in ginocchio e ci
fissava con occhi pieni di incomprensione.
Ci volle quasi un giorno intero per ridare alla storia la sua forma,
soprattutto perché sia io sia Donuil, che eravamo gli unici due in
grado di parlare, faticavamo ad accettare e a credere uno il
coinvolgimento dell'altro nella storia. Donuil non poteva accettare
che avessi conosciuto sua sorella mesi prima di conoscere lui, e non
poteva credere di esserle stato così vicino per tanto tempo senza
avere alcun sentore della sua esistenza. Io ero semplicemente
stupefatto di fronte alla verità su Cassandra, che non era più
Cassandra. Ero sorpreso di vederla conversare fluentemente e
rapidamente con Donuil grazie a un linguaggio silenzioso fatto di
gesti che per me significavano niente e meno di niente, a parte la
strabiliante realtà che Cassandra era una conversatrice eloquente e
disinvolta!
Solo più tardi mi resi conto che conversavano in gaelico, e che
per quel motivo Cassandra non era mai riuscita a comunicare.
Essendo sorda e muta, non aveva mai udito il latino, e perciò il
movimento delle mie labbra, che componevano i suoni della lingua,
le era completamente estraneo. Io avevo dato per scontato che fosse
originaria della Britannia. Non avevo mai pensato che potesse venire
dall'Ibernia. Come avrei potuto? E che differenza avrebbe fatto?
Infine, però, accettai le verità che mi venivano imposte, e con esse
acquistai una nuova comprensione della mia amata Cassandra, che
per tutta la vita era stata Deirdre. E accettai, con intensa eccitazione,
la consapevolezza che avrei potuto imparare il linguaggio fatto di
segni che Donuil usava con tanta perizia. Divoravo ogni cosa che
Donuil sapeva dirmi di lei, e della sua vita prima di conoscermi.
Da bambina, mi disse, era da tutti chiamata Deirdre dagli occhi
lilla, la prediletta e favorita di suo padre Athol, alto re degli Scoti
d'Ibernia. La sua acerba bellezza era diventata leggendaria già allora
a causa del suo sembiante, e i suoi spasimanti erano molti e ricchi. La
criniera di fluenti capelli rosso oro, la pelle bianca come il latte e i
meravigliosi occhi lillà declamavano che era benedetta dagli dei, e
tale benedizione sarebbe stata trasmessa all'uomo che fosse diventato
suo marito. Donuil parlava della sorella con voce tanto sommessa e
sgomenta che, malgrado il mio amore per lei e la mia bramosia di
sapere tutto di lei, mi metteva in imbarazzo.
Cassandra era stata la mia amata per lunghi mesi fatati. La
Deirdre di Donuil, invece, non aveva potere sul mio cuore. E in ciò
risiedeva la causa del mio imbarazzo: non vedevo - comunanza tra
la mia Cassandra e la Deirdre di Donuil. La donna che amavo non
era una rutilante bellezza dai capelli rosso oro e gli occhi lillà. I suoi
capelli erano lunghi e lucenti, ma erano biondi, non erano dorati e
non avevano traccia di rosso. E i suoi occhi non erano né viola, né
violacei, e nemmeno lillà; erano enormi e argentei, grigi come il
granito, quasi completamente incolori tranne con una certa luce,
quando cangiavano nell'azzurro più chiaro. Fu con il più grande
sconforto che dissi a Donuil tutto questo.
Mi fissò allora, con gli occhi sgranati, e attese che dicessi altro,
ma non avevo altro da dire.
«Insomma» chiese infine, «che cosa stai dicendo, comandante?»
«Che cosa sto dicendo?» Posai la coppa del vino, stupito che mi
facesse una domanda così ovvia. Indicai sua sorella, seduta di fronte
a me, che ci fissava entrambi. «Donuil, la ragazza che descrivi
secondo i tuoi ricordi non somiglia affatto alla donna qui seduta.
Nemmeno un poco, non vedi?» Sbattè le palpebre, confuso, e
Deirdre si sporse intenta in avanti, e le sue dita si misero a volare.
Donuil le guardò, decifrò il significato dei gesti, e il suo viso si
illuminò.
«Deirdre vuole che ti racconti della malattia. Ma, comandante,
lo sai! Ho parlato di come era prima della malattia. Solamente dopo
è cambiata.»
«Malattia? Quale malattia? E che cosa dovrei sapere? Non
abbiamo mai parlato di una malattia, Donuil. Dici che una malattia
l'ha cambiata?» Guardai Cassandra, che mi fissò solennemente con
quei suoi grandi occhi grigio pallido. «Una malattia le ha cambiato il
colore degli occhi e dei capelli? Donuil, stai parlando ancora di
magia?»
«Sì, comandante Merlino.» Annuì e il suo sguardo era fermo
come quello della sorella. «E mia sorella ne è la prova vivente.»
Mi spostai a condividere il divano di Cassandra, l'attirai
nell'incavo del mio braccio e la baciai su una tempia, e parlando tra i
suoi capelli dissi a Donuil: «Racconta». La storia che mi raccontò era
una storia strana e portentosa, e credetti a ogni parola. Ancora oggi,
però, non saprei dire se narrasse di magia oppure no.
Il giorno di mezza estate, nel nono anno della vita di Deirdre,
per la capricciosa collera di chissà quale divinità gaelica la luce venne
completamente eclissata dall'oscurità di una mostruosa tempesta che
divelse gli alberi e spazzò via le case, e sospinse i fiumi oltre gli argini
inondando campi e abitazioni. Decine e decine di persone rimasero
uccise, e ferite a centinaia, e mandrie intere annegarono. E in tutta
quella confusione, la piccola Deirdre dagli occhi lillà scomparve.
Gli uomini di suo padre la cercarono per ogni dove nel caos che
seguì alla grande tempesta, e dopo tre giorni la dichiararono morta.
E mentre stavano preparando il rito funebre, Deirdre avanzò in
mezzo a loro, stordita, con gli occhi fissi nel vuoto.
L'asciugarono e la pulirono e la misero a letto, e i guaritori
migliori di suo padre si presero cura di lei, e le somministrarono
pozioni per spezzare la febbre che la devastava. Custodita e protetta
dai sacerdoti tribali, la bambina si agitò e si rivoltò nel letto per
quattro giorni e la febbre persistette, bruciando il corpicino e
depredando le sue riserve di energia. Poi, il quinto giorno dopo il
suo ritorno, la febbre scemò, e Deirdre si destò e descrisse, con
cristallina chiarezza, il luogo in cui era stata durante la tempesta.
Parlò di una caverna nella roccia, a cui si arrivava attraverso un
passaggio incrinato che scendeva da una grotta nel fianco di una
collina, e disse che quella caverna era piena di scheletri e di tesori.
Quando le fu chiesto come avesse raggiunto quella collina, chi le
avesse mostrato quel luogo e perché ci fosse andata, non rispose, ma
descrisse la strada che aveva preso, e i punti di riferimento che
segnavano il cammino.
Suo padre Athol mandò immediatamente un gruppo di guerrieri
a cercare quel luogo, e i guerrieri lo trovarono senza difficoltà, ma
molte miglia più lontano di quanto credevano. E trovarono gli
scheletri, e il tesoro, un cumulo di armi antiche fatte di bronzo, e
barre d'oro, d'argento e di ferro, e anche gioielli.
Ma nel frattempo, ancora prima che i guerrieri partissero, la
febbre ritornò, più violenta che mai, e Deirdre rovinò verso la
morte. La febbre salì e salì, oltre il punto in cui nessuna febbre era
mai salita senza causare la morte, e poi si fermò e rimase così,
altissima per giorni. La carne si staccò dal corpo della bambina quasi
a vista d'occhio, finché nulla rimase se non pelle e ossa. Sacerdoti e
guaritori fecero di tutto per mantenerla idratata. La bagnavano
costantemente. La nutrivano con acqua e miele attraverso tubi di
intestini animali infilati in gola. E aspettavano che morisse.
Ma non morì. Indugiò sulla soglia della morte per sei intere
settimane, e poi iniziò a riprendersi. Riacquistò peso e forza e il suo
sorriso. Ma i capelli avevano perso il loro colore, e così gli occhi,
con grande orrore di tutti quelli che la vedevano. La gente
incominciò a bisbigliare, e poi a dire che Deirdre dagli occhi lillà era
morta, ed era stata sostituita da un'altra bambina. E l'unica persona
che avrebbe potuto dimostrare che la verità era diversa - la bambina
stessa - non ci provava neppure. Guarì dalla malattia per vivere tra
gli altri da estranea. Non rispose mai a nessuna domanda e non
parlò mai più.
Malgrado avessero tutti beneficiato dell'esperienza della piccola,
e si fossero arricchiti grazie al tesoro trovato nella caverna, il popolo
ebbe paura di quell'esperienza che riteneva magica. Il tempo passava
e la stranezza dei cambiamenti avvenuti in lei fu presto nota a molti;
si diceva che fosse stata maledetta, e che nessun bene sarebbe
derivato dall'avere contatti con lei. Il tesoro, mormorava la gente,
era solo la ricompensa lasciata dagli dei che si erano portati via la
bambina. Evidentemente, dicevano, la bambina era caduta - o era
stata fatta cadere - dall'alto della sua posizione benedetta dagli dei.
Da bambina amata da tutti, divenne una creatura temuta senza
motivo ed evitata da tutti tranne che da coloro che l'amavano di
più: suo padre Athol e il suo diletto fratello, Donuil.
Dopo la malattia, incapace di comprendere quello che le era
accaduto ma convinto che fosse pur sempre la sua amata sorella,
Donuil aveva trascorso con la bambina lunghe ore e lunghi giorni,
imparando ancora, dal principio, come comunicare con lei. Aveva
appreso che la sua mente era emersa intatta dalla malattia, e che la
sua anima, l'essenza che faceva di lei ciò che era, era rimasta illesa. E,
nel corso dei successivi cinque anni, avevano sviluppato un
linguaggio gestuale che permetteva loro di comunicare. Alla fine di
quel periodo, Deirdre si era ammalata ancora, seppure non
altrettanto gravemente. Le era venuta la febbre ed era stata costretta
a letto. Il pomeriggio seguente, mentre suo padre e Donuil erano a
caccia, era scomparsa di nuovo, e non era più ritornata. L'avevano
data per morta, fino a quel giorno, altri cinque anni dopo. E allora
dovetti rimanere seduto in silenzio, fremente di impazienza, mentre
Donuil veniva a conoscenza della storia della scomparsa della
sorella, osservando e traducendo il messaggio delle sue dita
svolazzanti.
Era una storia breve da raccontare, malgrado fosse per alcuni
aspetti confusa e conturbante. Ascoltai la traduzione di quello che
dicevano le mani di Deirdre, frustrato dall'incapacità di porle io
stesso delle domande. Intuivo dell'altro, dietro alle sue parole, ma
non avevo modo di chiedere ulteriori dettagli, non sapendo quali
dettagli mancassero.
Non ricordava niente della sua seconda malattia, niente di
niente. Non ricordava di avere lasciato il suo letto, e il palazzo di
suo padre. Ricordava solo di essersi svegliata una bella mattina
d'estate in mezzo a completi sconosciuti che, a giudicare dalla
familiarità con cui la trattavano, non dovevano essere poi tanto
sconosciuti. La conoscevano molto bene, ma lei non ricordava di
averli mai visti prima. Sapevano, per esempio, che non parlava e
non sentiva, e comunicavano con lei toccandola e facendole ampi
segnali con le mani. La trattavano rudemente, ma senza intolleranza
né durezza, come un'umile serva. Avendo cognizione di chi era, ma
non di come era giunta dov'era, Deirdre aveva tentato di fuggire
dall'accampamento quella stessa notte, ma era stata presa senza
difficoltà, e messa subito al lavoro, a svolgere incombenze a lei
sconosciute, ma alle quali il suo corpo rispondeva con l'agio di una
lunga pratica.
Aveva notato anche gli abiti che indossava. Erano strani e ruvidi,
ma si adattavano al suo corpo come se li portasse da tempo, ed
erano ovviamente suoi. Spaventata e confusa, sospettava di non
essere più sulle terre di suo padre, ma non aveva idea di dove si
trovava. Non era mai uscita dalle terre di suo padre.
Giorni dopo, si era imbattuta nella propria immagine riflessa in
uno specchio di bronzo, ed era quasi svenuta per l'orrore. Non
riconosceva il volto riflesso nello specchio. Era il volto di una donna.
Il suo era stato il volto di una bambina. Un secondo, timoroso
sguardo l'aveva convinta che non aveva perso la ragione e non era
impazzita. In qualche modo, per una nefanda magia, aveva perduto
gran parte di se stessa, anni della sua vita durante i quali era cresciuta
da bambina a donna, senza rendersi conto di cambiare e del passare
degli anni. E ora conduceva una vita di silenzio in mezzo a persone
sconosciute.
Condivideva in particolare la vita di due persone, un uomo e
una donna che le offrivano cibo e riparo. L'uomo era un venditore
ambulante, la donna un'erborista, ed erano sempre in viaggio, per
vendere la mercé di lui e il talento di lei in tutta la regione. Il lavoro
principale di Deirdre era aiutare la donna a raccogliere erbe
medicinali, e a volte di aiutare l'uomo con le sue merci, trasportando
carichi come un animale da soma. E capitava che, quando ne aveva
voglia, l'uomo entrasse nel suo letto e approfittasse di lei
sessualmente, e lei glielo permetteva senza pensarci, perché sapeva
che era sempre stato così.
E poi un giorno, senza preavviso, l'uomo si era ammalato. La
donna si era ammalata nello stesso modo il giorno seguente, e
Deirdre li aveva assistiti entrambi fino alla morte, avvenuta a poche
ore uno dall'altra. Era rimasta per ore in ginocchio accanto a loro,
quando Uther e io eravamo passati di lì e l'avevamo presa con noi.
Non so quanto tempo giacqui sveglio quella notte, a ricordare.
So che senza che me ne accorgessi il campo si era acquietato, e che
solo l'occasionale nitrito di un cavallo spezzava il silenzio, quando
mi addormentai.
XXXI.
Il secondo giorno di viaggio ripartimmo pieni di brio e di
benessere, con il proposito di raggiungere Sorviodunum per metà
pomeriggio. Anche il sole iniziò arditamente il suo percorso
attraverso il cielo del nuovo giorno, accecando noi che
procedevamo direttamente incontro al suo fulgore, ma il cielo a
occidente si riempì ben presto di banchi di nubi che superarono sia
noi sia il sole. A metà mattina la luminosità di quella giornata era
svanita, e a mezzogiorno avanzavamo in mezzo a raffiche di pioggia
che si susseguivano come buoi aggiogati, sempre più vicine finché la
pioggia cadde incessante e restò con noi per tutta la strada fino a
Sorviodunum.
Non so che cosa ci aspettassimo di trovare a Sorviodunum, ma
ricordo che la terrificante devastazione della città ci sconvolse tutti.
Era una città solo di nome, una vasta concentrazione di edifici, molti
dei quali un tempo edifici pubblici e per il resto dimore di cittadini.
Adesso gli edifici erano quasi tutti in rovina e i cittadini - usavamo la
parola con riluttanza - scappavano terrorizzati al nostro avvicinarsi.
Inutile dirlo, non trovammo cibo da comprare. Ci accampammo per
la notte in un campo abbandonato fuori città, e ripartimmo all'alba.
Fortunatamente per il nostro morale, durante la notte il tempo
era migliorato, e il sole sorse a salutarci in un cielo limpido e terso.
Procedemmo a un buon passo, senza incontrare nessuno lungo la
strada, e la sensazione di disagio per il degrado della bella cittadina
di Sorviodunum si alleviò. Il tempo si mantenne sereno, senza più
traccia della pioggia caduta il secondo giorno del nostro viaggio.
Evitammo completamente la piccola città di Silchester, e giungemmo
infine a Pontes, l'ultima città rimasta tra noi e Londinium. Qui
trovammo segni di vita in quantità, ma non erano segni ai quali
potessi reagire con calore.
Non appena i cittadini ci videro, si ritirarono dietro le mura e
sbarrarono i cancelli, rifiutandoci l'ingresso. Comprendendo che
avevano paura della nostra forza, e, rispettando la loro paura, tenni
i miei uomini a distanza e mi avvicinai alle mura da solo, chiedendo
di parlare con chiunque fosse al comando. Fu inutile. A dispetto
delle mie proteste, nessuno era disposto a parlare con me, nemmeno
da dietro le mura. Finalmente, ribollendo di rabbia e di frustrazione,
e dominando il fortissimo impulso di dare loro motivo di temerci
davvero, riconobbi la futilità della situazione e feci allontanare i miei
uomini più in fretta possibile. La collera che mi infuriava dentro
consigliava ai miei subordinati di non attrarre la mia attenzione, e di
conseguenza il mio scontento. Solo Donuil e Lucano avevano la
baldanza di imporre la loro presenza al mio cattivo umore. Donuil
cavalcava in silenzio, poco più indietro rispetto a me, con il muso
del suo cavallo all'altezza del mio ginocchio destro, abbastanza
vicino perché potessi rivolgergli la parola se lo desideravo, ma
abbastanza lontano perché potessi ignorarlo, come facevo. Lucano,
invece, rimase lontano e mi lasciò nel mio brodo per un'ora, poi mi
si accostò al piccolo galoppo e pretese la mia attenzione.
«Perché sei così arrabbiato?»
Girai di scatto la testa, con l'intenzione di fulminarlo con lo
sguardo, ma non si lasciò intimidire. Senza dire una parola ritornai a
guardare la strada.
«Avevano paura» disse ancora.
Era talmente ovvio che non mi degnai di rispondergli. Ci
riprovò.
«Ti stai comportando come se quella gente ti avesse insultato
personalmente. É così fragile, il tuo orgoglio?» Gli diedi un'occhiata
di traverso, consegnando silenziosamente all'Ade la sua presenza
persistentemente importuna. «Caio!» Stava quasi ridendo. «In nome
di Dio, nei loro panni avresti probabilmente fatto la stessa cosa.
Sono vulnerabili, e terrorizzati.»
La rabbia traboccò. «Da che cosa?» Indicai con un brusco cenno
del capo i ranghi e le file dietro di noi. «Abbiamo l'aspetto di
Sassoni? E forse questa una marmaglia indisciplinata, in cerca di stupri
e saccheggi? Mi hanno preso per un predatore, un ladro razziatore?»
Vidi subito dalla sua espressione sconvolta che la mia reazione era
del tutto inattesa. Aprì la bocca per rispondere, ma non gliene diedi
l'opportunità. «Dannazione, Luca, è la terza città in quattro giorni
che ho dovuto aggirare! Avremmo dovuto mangiare lì, stasera, o
almeno avremmo dovuto fare provviste! Il nostro commissariato
non è attrezzato per dare da mangiare a duecento uomini e ai loro
cavalli per tutta la strada da Camulod a Verulamium. Ecco perché
abbiamo portato del denaro! Faceva parte del nostro piano
operativo acquistare cibo lungo la strada. Non si è mai parlato di
dover essere completamente autosufficienti! Se avessi saputo - o
anche solo sospettato - che le città lungo il percorso erano nelle
condizioni in cui sono, o che ci avrebbero chiuso i cancelli in faccia,
avrei organizzato le cose in modo molto diverso.»
«Ah, capisco. Ti senti in colpa.»
«No! Maledizione, perché dovrei sentirmi in colpa? Non avevo
modo di sapere che sarebbe andata così.»
«Esatto, ma nella tua posizione di comandante, spetta a te
prevedere situazioni come questa. Oppure no?»
Una cosa era rimproverarmi per la mia miopia. Un'altra era
sentirmi rimproverare da un mio sottoposto. Dovetti reprimere un
moto di stizza prima che si riaffermasse il buon senso e fossi in grado
di cogliere nella sua voce una nota di comprensione. Lo guardai.
«Sì» risposi. «Spetta a me.»
«Sterco di cavallo, comandante.» Lo fissai sorpreso, e lui spinse il
suo cavallo più vicino al mio. «Non puoi ritenerti responsabile per
quelle città, come non puoi ritenerti responsabile per non essere
riuscito a prevedere la situazione a Londinium.»
«Quale situazione a Londinium?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so, come non puoi saperlo tu. Io ci
sono stato trent'anni fa.»
La rabbia mi rimontò dentro, questa volta per la sua apparente
superficialità. «Dannazione a te, Luca, queste non sono corbellerie.
Siamo veramente a corto di provviste.»
«Sono assolutamente serio, Caio. A Londinium potrebbe non
essere meglio che altrove.»
«Ne dubito» sbottai. «Ma prima dobbiamo arrivarci, se non
crepiamo tutti di fame prima. Faremo provviste e ne compreremo
abbastanza da arrivare fino a Verulamium. Come hai sottolineato tu,
è il centro amministrativo della Britannia!»
Ma Lucano scosse la testa. «No. Questo te l'ho detto l'altro ieri.
Da allora ho riflettuto su ciò che ti ho detto quel giorno, e confesso
ora che probabilmente erano tutte sciocchezze. Il cuore, non la testa,
governava i miei pensieri. Credo che scopriremo che le tue previsioni
erano le più accurate, Londinium potrebbe essere ormai una città
come quelle che abbiamo visto finora, forse più grande ma non
migliore.
Nonostante i miei desideri, avevi ragione tu, e questi giorni di
viaggio l'hanno dimostrato. La Britannia non è più una provincia
imperiale, Caio, e Londinium non è più romana.»
«Che cosa stai insinuando, Luca?»
«Non sto insinuando, sto semplicemente confermando il fatto
che tu hai illustrato l'altro giorno. Sono passati vent'anni da quando
gli ultimi Romani sono partiti. Londinium non sarà più la Londinium
che conoscevo. Tu non ci sei mai stato, e io non la vedo dalla
partenza dell'esercito, ma in vent'anni cambiano molte cose. Gli
ingegneri se ne sono andati tutti da tempo, come i magistrati e i
governatori. Ora, in quanto medico, mi domando: chi ha fatto
funzionare acquedotti e fognature negli ultimi due decenni? Chi ha
riscosso le tasse per mantenere le opere pubbliche? Se lasciassi briglia
sciolta alla mia fantasia, potrei terrorizzare entrambi con immagini di
peste e pestilenze.» Fece una pausa, e riprese con voce più bassa e
introspettiva. «Credo che ci aspettassimo tutti e due grandi cose da
Londinium, Caio, in modi diversi, e credo che ci troveremo tutti e
due di fronte a una grave delusione.»
Sentii rumore di zoccoli che si avvicinavano rapidi alle nostre
spalle. Era un messaggero dal primo squadrone per farmi presente
che gli uomini non smontavano da cavallo da quasi quattro ore. Lo
accolsi con un grugnito e lo rimandai al suo comandante con il
permesso per le truppe di riposare e mangiare e abbeverare i cavalli.
Mentre la colonna si fermava e i soldati iniziavano a smontare
da cavallo, feci cenno a Lucano di accompagnarmi e mi allontanai
dalla strada. I campi intorno a Pontes erano stati pochi, piccoli, e
mal tenuti, e si erano esauriti entro un miglio dalla città. Da allora
eravamo avanzati in mezzo a una fitta foresta che ci stringeva su
entrambi i lati. Gli ampi fossati che in origine proteggevano il ciglio
della strada erano scomparsi da tempo senza lasciare traccia. Lo
spazio che avevano occupato era invaso da sterpaglie, cespugli e
alberi. Da mezzo miglio circa però gli alberi si erano diradati, e
adesso sui due lati si apriva una vasta pianura erbosa, disseminata dei
resti di un antico incendio che aveva distrutto la foresta. Diressi il
cavallo verso un mucchio di macigni a cinquanta passi dalla strada;
smontammo e ci arrampicammo sulle rocce, e lì ci sedemmo.
Quando Lucano si fu messo comodo di fianco a me spartimmo
l'acqua della mia borraccia. Lo guardai bere. «Dicevi seriamente,
della peste?»
Scosse la testa e abbassò la fiaschetta. «No, certo che no. Facevo
solo l'allarmista. È una sorta di pessimismo che viene dalla mia
professione. Non abbiamo nessuna ragione di sospettare una cosa
simile.»
Ero sconcertato, tuttavia, e la sua smentita non mi rassicurava.
Mi schiarii la voce, sperando nel contempo di schiarirmi le idee, e
continuai: «Bene, supponiamo che tu abbia ragione e che Londinium
sia un macello. Che cosa possiamo fare?».
Rimise il tappo alla fiaschetta e me la porse. «A che riguardo? Le
provviste? Non possiamo fare niente, tranne forse cercarle altrove.
C'è selvaggina nelle foreste e pesce nei fiumi, e i cavalli possono
sempre pascolare.»
«E il resto del viaggio? Se a Londinium non c'è cibo, allora
potrebbe essere lo stesso a Verulamium. Questa avventura potrebbe
essere un insuccesso. Il nostro obiettivo è dimostrare la nostra forza e
la nostra presenza. Se tutte le città sono abbandonate, o chiuse,
perderemo tempo ed energia. Dobbiamo rinunciare adesso? Voltare
i cavalli e tornare a casa?»
Ci pensò per un poco, meditando come me su vantaggi e
svantaggi. Poi fece di no con la testa. «Direi di no. É stata sparsa la
voce che il dibattito si terrà a Verulamium. Mi sembra ragionevole
che siano stati presi provvedimenti per ospitare i partecipanti che
arriveranno da ogni dove. In ultima analisi, non sapremo niente di
Londinium finché non ci saremo.»
Tirò fuori un sacchetto dalla borsa che portava al fianco e si
versò alcune nocciole sgusciate sul palmo della mano; poi mi passò il
sacchetto. Io ne presi alcune e iniziai a ficcarmele in bocca una alla
volta. Il silenzio si protrasse, avvolgendo ognuno nei propri pensieri.
Osservai i soldati che erano smontati da cavarlo. Avevano riempito
tutto lo spiazzo diboscato dal fuoco: chi seduto, chi sdraiato, chi in
piedi a camminare, secondo la preferenza, ma tutti intenti a liberarsi
dall'indolenzimento provocato dalla sella. Erano quasi tutti molto
giovani. Se li avessi guidati in una terra devastata... se Londinium
fosse stata deserta o, Dio non volesse, afflitta dalla peste, chissà
quanti non sarebbero tornati a casa, e la responsabilità sarebbe stata
mia. Luca aveva insinuato nella mia mente il pensiero della peste, e
non potevo ignorarlo. Avevo riconosciuto la verità della sua
affermazione sulle opere pubbliche, e sulla difficoltà di mantenerle in
buono stato; l'acqua stagnante, specialmente nelle zone urbane
congestionate, alimentava peste e pestilenze. Nella mia mente
apparve l'immagine di squallide vie senza illuminazione, cosparse di
corpi tumefatti. Chiedere ai miei uomini di morire in battaglia, se
fosse stato necessario, non mi sarebbe costato un attimo di
imbarazzo. Ma il pensiero di guidarli come pecore dentro una città
sudicia e devastata dalla peste, per farli morire indegnamente in
agonia e lordura e desolazione, come topi idrofobi, mi faceva
inorridire. E improvvisamente decisi.
«Così sia. Aggireremo Londinium e andremo direttamente a
Verulamium.»
Lucano scosse brevemente la testa, con una smorfia dubbiosa.
«Non lo so, Caio. Potrebbe non essere fattibile, o possibile.»
«Perché no, in nome di Dio?» Non mi ero aspettato la sua
opposizione. «Certo che è possibile. Lo faremo, e sarà fatto.»
Si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu, ma credo che tu abbia perso
di vista alcuni ostacoli... I nostri cavalli, e il fiume, il Tamigi.»
Non capivo. «Che cosa c'entra il fiume? Lo guaderemo, quel
dannato fiume.»
«Forse...» In quella singola parola era riuscito a inserire tutto lo
scetticismo del mondo, ma mi morsi la lingua, e mi trattenni, perché
vedevo che aveva altro da aggiungere. «L'abbiamo attraversato due
giorni fa, quando era stretto. Adesso siamo sulla sponda sbagliata ed
è quattro volte più largo; temo che sia già troppo largo per
attraversarlo a nuoto, e troppo profondo per guadarlo. Dovremo
passare su un ponte, e l'unico ponte che conosco da queste parti è a
Londinium.»
«Mmh....» Non avevo risposte, e dovetti pensare per un poco.
«Un traghetto?»
Scosse di nuovo la testa. «Abbiamo duecento uomini e duecento
cavalli, e i carri. Un traghetto potrebbe trasportare due carri alla
volta, con il loro equipaggio, ma ne sarei sorpreso... Comunque,
anche i traghetti sono vicini, o dentro Londinium. A Londinium il
Tamigi è un fiume grosso, Caio, probabilmente il più grosso che tu
abbia mai visto.»
«Dannazione!» Mi alzai in piedi. «Allora torniamo a Camulod,
oggi.» Guardai il cielo. «E dannazione un'altra volta, è già troppo
tardi. Rimarremo qui per il resto del giorno e per la notte e
torneremo a casa domattina.»
Lucano mi fissava costernato. «Che cosa ti ha fatto cambiare
idea, in nome di Dio? Devo credere che stai facendo sul serio?
Torniamo a casa, a meno di metà strada dalla nostra destinazione?
Perché, Caio?»
Ero furioso, e nel momento stesso in cui reagivo alla sua
spontanea domanda, mi resi conto dell'irrazionalità della mia rabbia.
«Perché?» sputai quasi la parola. «Tu mi chiedi perché? Sei stato tu a
farmi notare il pericolo della peste, Lucano. Non esporrò i miei
uomini a nessuna pestilenza.»
«Bene, splendido! Sono felice di saperlo, anche se lo sapevo già,
e non avrei mai immaginato che facessi altrimenti.» Il tono delle
parole, pronunciate con calma a dispetto della mia illogica ostilità,
mi fermarono di colpo come un cavallo a cui avessero tirato le
redini. Sentii che la mia rabbia si dissolveva, e veniva sostituita da
una vaga confusione.
«Allora che cosa stai dicendo? Se sei d'accordo con me, perché
eri così sbigottito all'idea di tornare a casa?»
Lucano sospirò e mi mostrò con un cenno il punto sulle rocce
dov'ero stato seduto fino a pochi istanti prima. «Siediti, e proverò a
spiegarti.» Quando fui di nuovo seduto al suo fianco, mi tese il
sacchetto di nocciole sgusciate. «Tieni, buttatene un po' direttamente
in bocca, ma stai attento. Potrebbe esserci un sasso, che rischierebbe
di romperti un dente.»
Mi scrollai qualche nocciola sul palmo della mano, e lo fissai
stupito; vedendo la mia totale incomprensione, sorrise e scosse la
testa, mi tolse di mano il sacchetto di nocciole, lo richiuse con cura, e
se lo fece cadere nella borsa. «Caio» disse. «Non ho detto che a
Londinium c'è la peste. Ho solo ventilato tale possibilità, affinché tu
fossi conscio di un potenziale pericolo che altrimenti forse non
avresti considerato. Esattamente nello stesso modo, ti ho avvertito
della possibilità di trovare un sasso in mezzo alle nocciole, e tu che
cosa hai fatto?» Ancora non capivo il significato delle sue parole. «Ti
sei versato qualche nocciola sul palmo della mano, non è vero? Così
hai potuto esaminarle a una a una prima di mangiarle. Ma il fatto
importante è che non ti sei rifiutato di mangiare le nocciole. Hai
riconosciuto la possibilità di romperti un dente, e hai preso le misure
necessarie a prevenirla. La faccenda della peste è la stessa cosa. Noi
non sappiamo se a Londinium c'è la peste. É una semplice congettura
da parte mia, basata sulla legge delle probabilità. Riconosciamo la
possibilità; ma è illogico annullare la spedizione perché esiste la
possibilità che qualcosa vada male. Se portassimo questa premessa
alle sue conclusioni, non ci avventureremmo mai più fuori da
Camulod.»
Adesso capivo, ma Lucano non aveva ancora finito. «Non c'è
niente di male nel temere il contagio, Caio. É una reazione naturale
e umana e il solo pensiero della peste ripugna a chiunque. Ma
quando ti ho sentito decidere così in fretta di abbandonare la
missione per paura della possibilità di imbattersi nella peste, mi sono
preoccupato. Perciò mi hai visto sbigottito. Domani ci avresti
ripensato. Ne sono certo. Ma nel frattempo, mostrando la tua
esitazione, avresti potuto rendere a te stesso e a tutti noi un pessimo
servizio. Non ne abbiamo bisogno. Sei stato in subbuglio in questi
ultimi giorni, frustrato dal modo in cui sono andate le cose da
quando siamo partiti da Camulod, e hai rimuginato - troppo, credo sulla tua responsabilità, il fardello del comando. Ti ho visto
contemplare una decisione di cui avresti potuto pentirti, e ho
parlato. Se ho sbagliato, chiedo la tua indulgenza per avere agito
come un amico.»
Risucchiai un grande respiro e lo soffiai
molli, come un cavallo. «Luca» dissi, «se
indulgenza per cattivo comportamento,
perdonarmi, amico mio.» Rimasi seduto a
uomini intorno a me.
fuori attraverso le labbra
qualcuno deve chiedere
quello sono io. Devi
lungo, guardando i miei
«Bene, ecco la mia... decisione riveduta.» Girai lo sguardo sugli
alberi che ci circondavano. «Non appena usciamo da questa foresta,
se mai ne usciamo, voglio lasciare la strada, Viaggeremo via terra,
così potremo cacciare viaggiando, e dare da mangiare agli uomini. Se
incontreremo una fattoria anche solo vagamente prosperosa,
compreremo granaglie per i cavalli, altrimenti i cavalli potranno
pascolare durante il tragitto.
Quando saremo vicini a Londinium, ci fermeremo e ci
accamperemo. Poi io andrò in città...»
«Con una consona scorta armata.»
«Giusto, con un piccolo gruppo, per controllare la situazione
prima di fare entrare gli uomini. Cercherò di scoprire che cosa sta
succedendo a Verulamium... qualcuno dovrebbe saperlo... e quando
penserò che la via è libera, ti manderò a dire di condurre in città il
resto degli uomini. Traghetteremo sull'altra sponda del fiume più in
fretta possibile, e ci dirigeremo immediatamente a nord verso
Verulamium.»
Mentre parlavo si era messo a scuotere la testa.
«Che cosa c'è che non va, adesso?»
«Non funzionerà.»
Lo fissai. «Che cosa significa, che non funzionerà?»
«Beh, funzionerà quasi tutto, ma io verrò con te a Londinium,
perché sono l'unico medico che hai e suppongo che lo scopo di
entrare in città in anticipo sul resto degli uomini sia di scoprire se c'è
la peste.»
«Credi che non sarò capace di sentirne l'odore?»
Fece una smorfia. «Non è questo, che mi preoccupa. Potresti non
riconoscerla, se non è virulenta.»
«Tu sì?»
Annuì. «Sì, assolutamente, adesso che sono preparato a cogliere
gli eventuali indizi.»
«D'accordo. Allora verrai con me.» Tacqui un istante, e poi
continuai con pesante sarcasmo. «Ci sono altre parti del mio piano
che non funzioneranno?»
Sorrise e scosse di nuovo la testa. «No, mi sembra ragionevole e
lineare.»
«Ah! Grazie mille.»
Sogghignò.
Una decina di miglia più avanti, uscimmo dalla foresta. Da circa
cinque miglia procedevamo su un lieve ma costante declivio; gli
alberi cessarono piuttosto bruscamente, e cedettero il posto a un'alta
brughiera ondulata. Da quando avevamo lasciato Pontes non
avevamo visto anima viva. Diedi il segnale di abbandonare la strada,
e voltammo a nordest, proseguendo per il resto del giorno a un
buon passo sul terreno erboso e compatto.
Ci accampammo nel tardo pomeriggio su un prato ricco di erba
lussureggiante nei pressi di un ruscello limpido e veloce. Avevo
mandato avanti una squadra di cacciatori, che erano tornati con tre
bei cervi e un grosso maiale selvatico. Gli addetti al commissariato si
misero subito al lavoro, e ben presto l'aria fu piena del profumo di
carne arrosto, che fece venire a tutti l'acquolina in previsione del
banchetto.
Il mattino seguente il tempo si mantenne al bello, soleggiato con
qualche raro acquazzone, e di nuovo procedemmo a un ritmo
discreto. Come ogni mattina, Donuil era un mucchietto rattrappito e
infelice di carne indolenzita: il suo lungo corpo non era ancora
abituato a percorrere ogni giorno lunghe distanze a cavallo.
Vacillava taciturno sul dorso del suo cavallo e mi seguiva da vicino,
ma cercavo di non pretendere nulla da lui prima di mezzogiorno,
sapendo che con il progredire della giornata avrebbe riacquistato la
padronanza dei suoi muscoli e le sue condizioni sarebbero
visibilmente migliorate. Succedeva ogni giorno, e ogni giorno il
processo di recupero richiedeva un po' meno tempo.
Nel primo pomeriggio aveva ripreso a parlare, con il suo solito
fare allegro e canzonatorio, e io incominciavo a credere che forse
davvero avremmo potuto fare di lui un cavaliere. Cavalcavamo
insieme in testa al gruppo, godendoci uno sprazzo insolitamente
lungo di sole tra due acquazzoni, quando Donuil, la cui vista era di
gran lunga più acuta di quella di chiunque altro nel gruppo, scorse
un movimento sulla cresta lontana davanti a noi.
«Qualcuno in avvicinamento, comandante.» Fece un cenno con il
capo in direzione del movimento. «Diritto davanti a noi. Devono
essere i nostri esploratori.»
«Quanti?» Non vedevo niente ma non dubitavo che avesse
ragione.
Strizzò gli occhi, concentrandosi, e dopo alcuni lunghi istanti
rispose: «Uno. È Orvic».
Gli scoccai un'occhiata, irragionevolmente stizzito per la sua
evidente superiorità visiva.
«Dannazione, Donuil, come fai a saperlo? Io non riesco
nemmeno a vederlo muoversi!»
Sorrise, con lo sguardo ancora fisso sulla figura che si avvicinava.
«É Orvic, comandante, con i suoi cani. Ecco perché all'inizio ho
pensato che fossero più di uno.»
Allora li vidi, l'alto celta cambriano dai capelli lunghi e dalle
lunghe gambe, con il torchio d'oro intorno al collo, e i tre enormi
cani lupo che gli stavano intorno. Era un mio lontano parente, un
nipote di mio nonno, Ullic Pendragon. Orvic era un uomo unico
anche nella sua unica tribù, rinomato come guerriero e come
cacciatore, ma ancora più famoso per le sue doti di menestrello e di
allevatore di cani lupo. Aveva deciso che sarebbe venuto con noi a
Verulamium per assistere al dibattito. Non era un cristiano e non era
interessato alla teologia, ma non aveva mai visitato quella zona della
regione, e aveva pensato che avremmo dovuto consentirgli di farci
da scorta.
Quando si accostò ci scambiammo i saluti, e poi aspettammo che
ci dicesse perché era tornato indietro. Avevo da tempo accettato
l'inutilità di fargli fretta per qualsiasi cosa, ma venne al punto con
sorprendente celerità. «Dove stai andando?» chiese direttamente a
me.
Sollevai le sopracciglia per quel tono spiccio, ma gli risposi
direttamente. «A Londinium, a vedere che cosa succede. Perché?»
«Scordatelo. Non hai bisogno di vedere che cosa sta succedendo
a Londinium.»
Aggrottai la fronte. «Come lo sai?»
Il suo cipiglio imitava il mio. «Ci sono stato. Credimi.»
Guardai i miei cinque compagni. Osservavano tutti Orvic, ma
nessuno accennava a dubitare di lui. Mi rigirai verso il grosso celta.
«Qual è il problema? É abitata?»
«Abitata? Sì, è abitata, certo, ma non è posto per te e per i tuoi
uomini.»
«Perché no?»
«Una pestilenza. Non la definirei ancora dilagante, ma c'è. Non
stanno morendo in massa, ma, qualsiasi cosa sia, ha messo la città
sottosopra. Combattono ovunque, e nessuno sa chi comanda, o chi
combatte contro chi. Ci sono quattro, forse cinque fazioni separate,
e i cadaveri per le strade sono più vittime della violenza che della
malattia. Il foro è un macello e la basilica è in fiamme, così come
buona parte della città.»
«Come hai avuto tutte queste informazioni? Sei stato in città?»
«Sì, e fuori, e ci ho guardato dentro.»
«Allora potresti essere portatore della malattia» intervenne
Lucano.
Onde guardò lui, poi ancora me. Avrei giurato che stava per
sorridere. «Sì, potrei. Ma ne dubito. Non mi sono avvicinato
abbastanza per prendere altro che parole, tranne con un tizio, ed era
fuori città.»
«E poi?»
«Ed è tutto. Era sano come un cavallo e sanguinava come una
scrofa sgozzata. Era un mercenario, della mia terra, roba da non
crederci. Ma non lo conoscevo. Era caduto giù dalle mura, anzi a
dire il vero ce l'avevano buttato. Gli ho aperto uno squarcio nella
gamba e gli ho rimesso insieme l'osso, ed è stato felice di parlare con
me. Mi ha detto che ha incominciato anni fa con la Guida dei
Mercanti di Granaglie, ma è passato del tempo, dieci anni e forse
più, e ha finito per lavorare con una banda di ex soldati che badano
ai propri interessi e a nient'altro. In città non esiste autorità
organizzata. La basilica è abbandonata da anni, se si eccettuano gli
occupanti abusivi. Il Consiglio cittadino ha smesso di funzionare più
di cinque anni fa e i cosiddetti cittadini altolocati sono tutti morti o
scappati. Te l'ho detto, è il caos, un nido di ratti. Un buon posto per
starci lontano.»
Il mio cavallo si impennò per il morso di una mosca,
cogliendomi di sorpresa e sbalzandomi quasi di sella; lo riportai ala
calma lavorando sul freno e sfogando sulla povera bestia un po'
della mia impotenza. Quando ripresi a parlare, le mie emozioni
erano sotto stretto controllo, come il mio cavallo.
«Non abbiamo scelta.» La mia voce era dura come pietra.
«Dobbiamo entrarci, per attraversare il ponte.»
«Trova un'altra strada, Merlino.» Mi guardò negli occhi.
«Là dentro per te non ci sono altro che ambasce.»
«Sciocchezze! Abbiamo duecento uomini. Ci faremo strada con la
forza, se sarà necessario.»
Orvic si raschiò la gola e sputò un grumo di catarro in
un'eloquente affermazione di sdegno. «Puoi portarli dentro se vuoi,
ma non li riporterai fuori tutti. Hai carri, provviste e cavalli, che
fanno di te un bersaglio appetibile. Le vie sono strette e i muri delle
case sono alti. C'è meno di un miglio dal muro settentrionale al
fiume e al ponte, ma non riuscirai mai a passare. Non appena ti
avvicinerai ai cancelli, ancora prima di entrare, tutti quei bastardi in
lotta tra loro si uniranno contro di te. Bloccheranno ogni incrocio,
poi si metteranno in fila sui tetti e ti faranno a pezzi dall'alto. I tuoi
uomini non avranno spazio per fare manovra, e nemmeno per
schivare i missili. E poi barricheranno l'ingresso al ponte. Credimi,
Caio Merlino, quel ponte non ti permetterà di attraversare il fiume.»
«Dannazione! E allora che cosa proponi? Che ci facciamo
spuntare le ali?»
«Sì, se potete.» Sorrise, ma nei suoi occhi non c'era traccia di
buonumore. «Tuttavia sarebbe più realistico aggirare la città verso
est, a monte del fiume, e trovare un traghetto o un guado.»
«E se non troviamo né uno né l'altro? Sai dove possono essere?»
Fece di no con la testa. «No, ma prima o poi troverai uno o
l'altro. La gente attraversa il fiume senza dover passare da
Londinium. Che cosa potrebbe costarti? Un giorno? Due giorni al
massimo, e manterrai i tuoi soldati vivi e sani. Aumenta la velocità e
il percorso giornaliero per i successivi due giorni e recupererai il
tempo perduto.»
Quello che diceva aveva senso. Doveva esserci un guado,
oppure un traghetto, un poco più a monte. Decisi di accettare il suo
giudizio sulla situazione a Londinium, e diedi il segnale di smontare
da cavallo, affinché i miei uomini avessero la possibilità di rilassarsi e
sgranchirsi le gambe. Poi, con l'aiuto di Orvic, trascorremmo un'ora a
discutere il modo di aggirare la città e il suo pericolosissimo ponte.
Quella sera, quando i nostri piani furono stabiliti, mi meravigliai
di me stesso. Non sono mai stato bravo ad accettare consigli. Ad
analizzarli sì, perché ho sempre riflettuto molto sulle opinioni e sui
punti di vista di chi mi era vicino, e spesso mi sono affidato a essi.
Ma preferivo comunque rimettermi al mio giudizio, fidandomi delle
mie reazioni istintive alle responsabilità che competevano solo a me.
L'avevo imparato da mio padre. Il suo credo sul comando era
semplice: un capo - qualsiasi capo - detiene la piena e definitiva
responsabilità per il benessere della gente al suo comando. Nel
successo può essere magnanimo e condividere il credito, ma nel
fallimento è solo a sopportare la colpa, la responsabilità e le
conseguenze delle sue azioni. In quella fase della nostra spedizione,
invece, avevo accettato consigli due volte, da due subordinati, senza
riserve, per due giorni consecutivi. In ciascuna occasione il consiglio
era stato contrario a quello che normalmente avrei deciso, e su quel
consiglio avevo basato decisioni che normalmente non avrei preso.
Alla luce di quanto accadde in seguito, e con il contributo di anni di
senno di poi, ritengo impossibile non credere che mi trovassi sotto
l'influenza - mistica o soprannaturale - di poteri sui quali non avevo
controllo.
Publio Varro fu uno scrittore prolifico verso la fine della sua vita,
e trascrisse i ricordi di tutto quello che gli era capitato da quando
aveva incontrato mio nonno, Caio Britannico. Ogni volta che gli
toccava descrivere un evento o un fenomeno che non comprendeva
appieno, zio Varro faceva ricorso all'affermazione che lui non era
superstizioso, ma...
A questo punto della mia storia capisco interamente, per la
prima volta, come doveva sentirsi Publio Varro in quelle circostanze.
Nemmeno io sono superstizioso, ma credo che il viaggio a
Verulamium dovesse fatalmente avere luogo. E credo anche che
avvenne per l'unico motivo che doveva dare origine a una serie di
incontri che non sarebbero accaduti, e non avrebbero potuto
accadere altrimenti.
Orvic aveva ragione sulla possibilità di attraversare il fiume a
monte di Londinium. A meno di un giorno di marcia dalla città - un
tragitto gravemente ostacolato dai carri e dalla mancanza di una
strada - giungemmo, non visti e non interpellati, a un regolare
attraversamento. Un viottolo profondamente segnato dai solchi ci
portò lungo il grande fiume fino a un punto in cui l'argine era stato
pulito dai fitti salici e dalle sterpaglie per facilitare l'attracco di un
primitivo traghetto. Il congegno, nient'altro che una vasta
piattaforma galleggiante, era ancorato e mosso da un sistema di
corde e pulegge, saldamente assicurate a due querce massicce, una su
ciascuna sponda del fiume. Quando arrivammo, il traghetto era sulla
sponda opposta, incustodito, ovviamente da parecchio tempo,
perché durante la stagione calda il fiume si era ritirato, e la zattera si
era incagliata all'asciutto nel fango dell'argine. Da dove ci
trovavamo, per quanti uomini mettessimo a tirare le corde, non
riuscivamo a spostarla. Il fiume in quel punto era ampio e fangoso, e
scorreva lento e placido senza gorghi visibili e senza traccia di forti
correnti. Uno dei più giovani comandanti dei nostri squadroni,
sostenendo di saper nuotare come un pesce, si offrì volontario per
attraversare il fiume a nuoto e verificare la corrente e la profondità
del corso d'acqua. Si alzò in piedi in mezzo al fiume, con la testa
fuori dall'acqua, e ci informò dell'assoluta assenza di corrente.
Una dozzina di uomini a cavallo lo seguì per disincagliare il
traghetto dal suo ormeggio, e in meno di due ore tutte le nostre
truppe avevano raggiunto l'altra sponda in facilità e sicurezza, i carri
sul traghetto e i soldati a cavallo. Ci accampammo quella notte nei
pressi dell'argine, protetti sul lato del fiume da un bosco di folti salici.
Il giorno seguente ci dirigemmo verso ovest, lungo il viottolo
che partiva dal traghetto. Ma il viottolo scomparve presto sotto il
rigoglio della vegetazione, e da lì in poi la nostra avanzata rallentò
attraverso una zona boscosa e senza nemmeno l'ombra di un
sentiero. Gli alberi erano grandi querce, frassini e faggi, e non c'era
sottobosco a ostacolare il nostro progresso, e se non fosse stato per i
pesanti carri avremmo mantenuto una buona andatura. Le enormi
ruote affondavano quasi fino agli assali nel terriccio soffice della
foresta, e l'eccessiva ampiezza dei carri rendeva difficile fare manovra
in mezzo agli alberi; tronchi di alberi caduti e rami secchi
ingombravano il passaggio e spesso bloccavano completamente la
loro avanzata, tanto che i soldati trascorrevano a cavallo lo stesso
tempo che trascorrevano a terra, a faticare come schiavi per
rimuovere gli ostacoli più grossi e liberare le ruote.
Nel tardo pomeriggio, verso il tramonto, sbucammo senza
preavviso sul margine di una grande strada romana che si dirigeva a
nord-ovest da Londinium a Verulamium. Quella sera non avevamo
carne fresca per i nostri fuochi. Il rumore di duecento uomini a
cavallo e dei carri pesanti che procedevano nella foresta tra schianti
e cozzi aveva fatto fuggire la selvaggina per miglia tutt'intorno. Gli
alberi che fiancheggiavano la strada su entrambi i lati erano molto
più giovani dei giganti della foresta all'ombra dei quali avevamo
viaggiato tutto il giorno. Erano alti e sottili, e crescevano più
rapidamente delle querce massicce, degli olmi e dei faggi, ma i loro
rami protesi si erano già incontrati, e avevano trasformato la strada
in una verde galleria dal soffitto di foglie.
La prima pietra miliare ci disse che eravamo tredici miglia a
nord-ovest di Londinium. Dopo due miglia, proprio quando iniziavo
a dubitare di trovare un luogo adatto in cui accamparci, uscimmo in
uno spiazzo, con un corso d'acqua gorgogliale e un riparo di
arboscelli che crescevano tra i resti carbonizzati di un altro vecchio
incendio della foresta. Il sole tramontò pochi minuti dopo il nostro
arrivo, e quando l'accampamento fu allestito era quasi
completamente buio, grazie agli alberi che si ergevano alti da ogni
parte.
Mangiammo alla luce dei bivacchi, e decisi di concedere agli
uomini il giorno seguente di riposo, è di andare personalmente a
caccia con i nostri arcieri celtici.
XXXII.
Era un tiro lungo - forse troppo lungo - ma quel cervo maschio
era un bersaglio perfetto, stagliato contro un cielo senza nubi;
poiché il mio era l'arco più potente, Orvic indicò con un cenno che il
tiro era mio. Sollevai l'enorme arco di Publio Varro e mirai con cura,
tendendo la corda vibrante fino all'orecchio, percependo la forza di
quell'arma poderosa e visualizzando il percorso che la freccia
avrebbe compiuto sul filo del vento leggero. Il cervo era
all'orizzonte sulla cresta di una collina, a circa duecento passi in linea
d'aria, ma separato da noi da una gola stretta e profonda soffocata
dalle sterpaglie. Da due ore seguivamo il cervo e le sue due consorti,
e grazie al burrone gli eravamo arrivati vicini come di più non
potevamo sperare. Nello spazio dei pochi battiti necessari a tendere
e a rilasciare la corda dell'arco, ebbi il tempo di ammirarlo, immobile
tra due alberi, il capo eretto e le corna massicce posate sul dorso, lo
sguardo concentrato su qualcosa che lo aveva allarmato sull'altro
versante della cresta, completamente ignaro di noi, che eravamo
nascosti alla sua vista da un leggero schermo di foglie e al suo
odorato dal vento che soffiava direttamente da lui verso di noi.
Espirai lentamente dal naso e scoccai la freccia, la sentii volare
dritta e sicura, e in quell'istante il cervo scomparve. Fu così
improvviso il passaggio da un bersaglio fisso all'orizzonte deserto che
a quell'apparente atto di magia provai un superstizioso
mancamento.
«Merda!» Contemporaneamente all'esclamazione di Orvic rividi
il cervo, che balzava giù per il burrone verso di noi, seguito da
vicino dalle due cerve; un balzo a destra e scomparve tra i cespugli
che riempivano la gola. Solo allora abbassai l'arco e mi girai verso gli
altri.
«Che cosa è successo?»
L'espressione di Orvic era piena di disgusto. «Qualcosa l'ha
spaventato. Qualcosa dall'altra parte, qualcosa che ha visto o
sentito.»
Guardai Donuil e Curwin, entrambi zitti. «Nessuno di voi due ha
visto o sentito niente?» Scossero la testa. «Bene» continuai,
«potremmo anche muoverci. Non ci capiterà un'altra...»
«Zitto» sibilò Orvic. «Ascoltate!»
Ascoltammo, ma non c'era niente da ascoltare oltre al fruscio
delle foglie nel vento. Orvic era come paralizzato, la
personificazione della vigilanza.
«Che cosa...?»
Interruppe la mia domanda con un gesto violento, e io trattenni
il fiato, sforzandomi di udire qualsiasi cosa avesse udito lui. Di
nuovo, però, udii solo il vento. Dopo pochi istanti si rilassò, e il suo
corpo perse quella tensione spigolosa che ci aveva brevemente
intimiditi tutti e tre.
Si girò a guardarmi. «Che cosa stavi dicendo, Caio Merlino?»
Alzai una spalla, gettandomi l'arco a tracolla. «Nient'altro che
una cosa ovvia. Potremmo anche proseguire. Quei tre cervi ormai
sono lontani e non li ritroveremo. Che cosa hai sentito?»
«Non lo so. Forse niente, ma mi è parso di sentire gridare.» Non
pensai nemmeno di dubitarne. La vista e l'udito di Orvic erano
leggendari. Continuò a parlare, quasi fra sé, corrucciato per i propri
pensieri, stringendo gli occhi. «Qualcosa li ha fatti fuggire.» Spalancò
gli occhi, di nuovo consapevole della nostra presenza. «Voi andate a
prendere i cavalli. Io vado là su quella cresta.» Si avvicinò al ciglio
della gola e guardò giù. «Non è così brutto qui, posso scendere e
risalire facilmente, ma voi no, non con i cavalli.» Guardò verso
destra, dove la gola si chiudeva a circa mezzo miglio di distanza.
«Meglio che con i cavalli facciate il giro da quella parte, e poi
seguitemi giù nell'altra valle. Sbrigatevi.» Andò sul ciglio del burrone,
sempre stringendo il grande arco nella mano sinistra, e si lasciò
cadere giù, svanendo d'un tratto com'era già svanito il cervo.
Non me l'ero presa a male perché aveva assunto il comando. In
una situazione come quella, Orvic era molto più capace di me. Mi
rivolsi ai miei due compagni. «Andiamo.»
Mezz'ora dopo, senza fiato per essere corso a rispondere ai
richiami di Orvic, mi chinai ad appoggiare la mano sulla corteccia di
un albero, che sporgeva come un ubriaco su un precipizio quasi
verticale per almeno cinquanta passi, fino a un grande mucchio di
macerie che evidentemente erano cadute dal dirupo sul quale ci
trovavamo. Non ci voleva molta immaginazione per vedere che la
parete del dirupo si stava sfaldando fin dall'inizio dei tempi. Oltre le
macerie alla base del precipizio, il terreno erboso scendeva più
gradatamente, ma comunque con una notevole inclinazione, per
quasi mezzo miglio, prima di appianarsi verso il fondo della valle.
Ero sul ciglio di una lunga scarpata incoronata dalla foresta, che si
innalzava ripida alla mia destra; da qualche parte lassù un ruscello
cascava oltre il ciglio del precipizio, splendido e scintillante nella luce
del sole, si schiantava spumeggiante sulle rocce sottostanti e
proseguiva vorticoso fino a unirsi al fiume che scorreva in fondo alla
valle.
Non avevamo occhi per la bellezza che ci circondava. Ci
rendevamo conto solo della battaglia che si stava svolgendo proprio
sotto di noi, a meno di un miglio.
«Stranieri. Sono tutti barbari.» Dalla gola di Orvic usciva poco
più di un grugnito. Notai la fierezza del suo cipiglio, e il profondo
disprezzo nei suoi occhi.
«Gli assalitori lo sono di sicuro» concordai. «Sembrano Sassoni.»
«Sì, lo sono, Sassoni di una qualche specie. Ma anche gli altri
sono barbari. Non sono della Britannia, né di un'altra regione che
conosco.»
«Puoi esserne così sicuro da quassù?» Socchiusi gli occhi contro la
luce del sole che ci batteva in faccia, tentando invano di scorgere i
dettagli che ovviamente Orvic aveva visto. «Non li vedo abbastanza
da distinguere un dannato particolare. Che cosa ne pensi, Curwin?»
«É inutile che tu lo chieda a. me. Io sono accecato come lo sei tu,
ma se Orvic dice che sono barbari, allora lo sono. É lui quello con gli
occhi di falco.»
Mi girai verso Donuil, il quarto membro del nostro gruppo, che
guardava da sopra la mia spalla.
«E tu? Capisci chi sono?»
Donuil si strinse nelle spalle e fece di no con la testa.
«No» disse, «ma sono ben vestiti e bene organizzati. Sanno
quello che fanno, ma sono troppo inferiori di numero per resistere a
lungo.»
Le sue parole riflettevano i miei pensieri. Guardai in basso,
maledicendo la distanza e l'impossibilità di avvicinarsi. Gli aggressori
erano in un numero compreso tra ottanta e cento, e i grossi scudi
rotondi li identificavano chiaramente come Sassoni. Il gruppo
avversario era composto da forse venti o trenta uomini, che
avevano occupato una cascina in rovina sul fondo della valle,
utilizzando le mura diroccate e gli edifici annessi per difendersi.
«Devono essere arcieri» disse ancora Orvic. «Guardate come
quegli altri bastardi si tengono indietro. E ce ne sono sdraiati
nell'erba, vedete? Qualcuno è morto, qualcuno è vivo. Ci devono
essere degli arcieri, che li inchiodano dove sono. Altrimenti niente
impedirebbe loro di correre ad ammazzarli tutti, tre contro uno...»
Emise tra sé e sé un grugnito di sorpresa. «Sapete, credo che gli altri
siano Romani.»
«Che cosa?» Le sue parole mi avevano lasciato di gesso.
«Che cosa vuoi dire?»
Mi guardò come se fossi stupido. «Romani, sai? Di Roma. Sono
vestiti di bianco, quasi tutti. Del bianco più bianco che abbia mai
visto.»
«Per Dio, hai ragione.» La mia mente correva. «Come conosci
questa parte della regione, Orvic?»
«Non molto bene, ma abbastanza» disse con fare burbero.
«Perché?»
«Quanto è lontano l'accampamento?»
Si guardò intorno, e parve annusare l'aria senza vento. «Meno di
un miglio, se potessimo volare. Quasi tre via terra. Ci siamo mossi in
un grande cerchio. Che cosa hai in mente?»
La mia idea non ancora formata era evaporata prima che finisse
di parlare. Scrollai le spalle e feci un cenno verso il basso,
sentendomi oppresso e impotente. «Oh, niente di utile. Se quelli
sono Romani, e credo che tu abbia ragione, allora sono qui per lo
stesso nostro motivo. Sono diretti a Verulamium. Stavo cercando di
pensare a un modo per aiutarli. Il mio primo pensiero è stato di fare
arrivare la cavalleria, ma non c'è tempo, e comunque mi stavo
aggrappando all'ultimo filo di speranza. Per un attimo avevo
dimenticato questo dirupo.»
Sorrise e indicò alla nostra sinistra. «No, i cavalli non
riuscirebbero a saltare giù di lì, e nemmeno da questa parte. Ma
potrebbero, se facessero il giro da nord, circa un miglio più giù.»
«Che cosa? Come?»
«Lungo la strada. Scende fino al lato opposto di quella vecchia
fattoria.» Voltò la testa e guardò verso sud lungo il precipizio. «Vedi
quella cascata? È lo stesso ruscello sul quale siamo accampati. Scorre
sotto la strada, attraverso una galleria di drenaggio. Ti ricordi?»
Annuii, e attesi. «Se Donuil, che è un grande corridore, seguisse il
letto del fiume, potrebbe essere al campo in un attimo. Allora
potrebbe guidare i soldati a cavallo lungo la strada, ed essere in
posizione quasi nello stesso momento in cui noi arriveremo là.»
«Arriveremo dove?»
Orvic si girò verso la valle e puntò un dito. «Laggiù, ragazzo. C'è
un posticino che ho scelto per fare un po' di tiro al bersaglio.»
Mentre guardavo, Curwin tese a Orvic il suo arco, poi si sfilò la
faretra e gli diede anche quella, e senza dire una parola si allontanò
nella foresta alle nostre spalle.
«Dove stai andando, Curwin?»
«Frecce. Vi raggiungo.»
Orvic si stava mettendo la seconda faretra a tracolla, accanto
alla propria, ma prima che potessi parlare si rivolse a Donuil.
«Puoi farcela, ragazzo? Correre lungo il ruscello fino al campo e
portare qui gli altri?» Donuil mi lanciò un'occhiata, poi annuì. «E
allora vai, più veloce che puoi! Saremo laggiù quando arriverete, e
potremmo essere nei guai, perciò non perdere tempo. Sparisci.»
Non appena rimanemmo soli, Orvic tirò fuori due corti lacci di
cuoio dalla sacca che portava al fianco e legò assieme il suo arco e
l'arco di Curwin; si gettò il doppio arco di traverso sulla spalla, le
aste davanti e le corde dietro, e poi si sporse a scrutare la parete del
precipizio.
«Dov'è andato Curwin?»
Orvic mi guardò con un principio di impazienza.
«Te l'ha detto. A prendere le frecce.»
«Ma le aveva. Le ha date a te. Dove ne troverà delle altre?»
«Nelle bisacce. Non le hai viste?»
Scossi la testa. Mise a terra un ginocchio, appoggiò le mani al
bordo del precipizio, e si sporse ancora più in fuori. Poi mi fissò. Io
tirai un respiro e sbirciai il punto che aveva indicato in precedenza,
poi mi feci avanti e guardai oltre il ciglio del dirupo. «Credi che
possiamo scendere da qui?»
Si raschiò la gola e sputò in aria. «Oh, sì, non è difficile. Difficile
è farlo vivi, e con le nostre gambe.»
Mi riempii i polmoni, trattenni l'aria, e poi la lasciai uscire dalle
labbra socchiuse. «Bene, allora. Vai tu per primo, e io ti seguo. E
Curwin?»
Orvic era già sdraiato sulla pancia, e aveva le gambe penzoloni
nel vuoto. «Curwin che cosa? Ci verrà dietro. Lo aspetteremo in
fondo, così potrà calarci le frecce.» Lentamente la sua testa
scomparve, seguita dalle dita, e poi la sua voce mi raggiunse. «Non è
brutto come sembra, quando stai con la faccia contro la parete. Ma
devi fare piano. Guiderò io i tuoi primi passi, finché non capisci
come funziona.»
Aveva ragione. Non era brutto come sembrava, non tanto. Ma
impiegammo quasi mezz'ora a scendere per una cinquantina di passi
fino alla distesa di rocce sotto la parete del dirupo. Orvic avrebbe
potuto farcela molto più in fretta se non ci fossi stato io a rallentarlo,
e quando arrivammo Curwin aveva fatto in tempo a raggiungerci,
sebbene avesse percorso un miglio per andare fino alla radura dove
avevamo lasciato i cavalli e un miglio per tornare, da quando io mi
ero calato oltre il bordo del precipizio. Ma tutti e due erano nati e
cresciuti in montagna, abituati a divertirsi sulle superfici verticali. Io
ero abituato a muovermi su superfici orizzontali.
Arrivai sano e salvo ai piedi della parete e ripresi il respiro,
aspettando che Curwin scivolasse per le ultime iarde fino a
raggiungerci. Non aveva nemmeno il fiatone. Mi guardò con
un'espressione eloquente, tirò su sonoramente con il naso, e si girò
verso Orvic.
«Ho mandato il ragazzo al campo con i cavalli. Gli ho detto di
riportarli qui assieme agli altri.» Si scrollò di dosso le due enormi
faretre stracolme di frecce che aveva portato giù dal dirupo, di
traverso su ciascuna spalla, con le cinghie incrociate sul petto.
«Bene.» Orvic aveva già separato i due archi e aveva posato la
faretra di Curwin accanto al suo arco. Incominciarono subito a
dividersi le frecce, stipandole ognuno nella propria faretra, e me ne
porsero due grosse manciate con le quali riempire la mia.
«Le avevi sul tuo cavallo, Curwin?» La mia curiosità era
incontenibile.
«Sì.»
Non potei nascondere lo stupore. «Porti sempre così tante
frecce?»
«Sì. Meglio che ci muoviamo, Orvic.»
«Ma perché, Curwin?»
Non mi guardò nemmeno. Iniziammo a scendere e io mi misi in
fila dietro a lui.
«Chiedilo a mio fratello» mi disse da sopra la spalla.
«Quale fratello? Non sapevo che ne avessi uno.» Tenevo gli
occhi fissi a terra, e mi muovevo con cautela.
«Non ce l'ho, non più. Ha finito le frecce, un giorno che era a
caccia, e si è messo a discutere con altri uomini su chi aveva ucciso
un cervo. Avevano più frecce di lui. E le hanno usate per
ammazzarlo.» Si fermò e si voltò a guardarmi, come se si aspettasse
di vedermi sorridere. «Preferisco essere deriso e bene armato
piuttosto che preso di mira senza essere in grado di rispondere.»
E quella fu l'ultima parola sull'argomento.
Orvic ci guidò giù per il pendio percorrendo una diagonale
verso il promontorio che ci aveva mostrato dalla sommità del
precipizio. Camminando, Curwin arrotolò la faretra vuota e se la
ficcò al sicuro sotto la cintola. La seconda faretra, ancora piena per
due terzi, se la rimise in spalla. Orvic indicò davanti a noi la gola
tagliata dal ruscello.
«Una volta arrivati laggiù, dovremmo poterci muovere senza
essere visti.» Si mise a correre e Curwin e io lo seguimmo, piegandoci
verso la collina per mantenere l'equilibrio, e infine saltammo giù tra i
due argini del ruscello.
«Bene» grugnì Orvic. «Nessuno ci ha scorti. Adesso, io la vedo
così. Ci sono dei cespugli più avanti lungo l'argine, e più in basso
saranno più grossi. Quando arriveremo dove vogliamo arrivare,
saranno alberi. Il letto del fiume procede verso est fino quasi al
fondo della valle, poi devia verso nord, ed è lì che noi lo
abbandoniamo e risaliamo la collina, verso sud. Altri due o trecento
passi, ma saremo ben nascosti; c'è un punto, che finisce sul ciglio di
un altro dirupo, ma non alto come quello da cui siamo appena scesi.
Il terreno cade a picco su entrambi i lati. Saremo ancora circa a
mezzo miglio, forse meno, dalla fattoria dove si sono barricati i
Romani, ma saremo a un buon tiro d'arco dai Sassoni. Dovremmo
poterli prendere come conigli. Non riusciranno a raggiungerci, non
senza correre su per la collina verso di noi per cercare di aggirarci.
Abbiamo frecce a sufficienza. E quando le avremo finite, quei
bastardi dovrebbero essere quasi tutti morti.» Fece una pausa.
«Naturalmente, se ci vengono addosso in troppi e li lasciamo liberi di
girarci intorno e di sorprenderci da dietro, quelli morti saremo noi.
Siete pronti?»
Poco tempo dopo, eravamo tutti e tre affiancati in cima al
secondo dirupo, a circa dieci passi sopra al pendio che continuava a
scendere. Lo spazio in cui ci eravamo trovati uscendo da un bosco di
biancospini era abbastanza ampio per consentirci di muoverci
comodamente. I Sassoni erano sparsi sotto di noi, il più vicino a
meno di cento passi e il grosso del gruppo a quasi duecento passi. A
duecento passi oltre il sassone più lontano c'erano i muri in rovina
della cascina che offriva riparo ai Romani. Nessuno ci aveva visti.
Curwin estrasse una freccia dalla faretra e lisciò le alette tra il
pollice e l'indice bagnati di saliva, guardando Orvic con la coda
dell'occhio. «Ebbene?» disse. «Tu hai la vista migliore. Vuoi colpire il
primo?»
Orvic annuì. Come me, aveva già incoccato una freccia.
«Calcolò la distanza del bersaglio. Perfetto.» Alzò lentamente
l'arco e prese con cura la mira, ma Curwin lo interruppe prima che
lasciasse partire il colpo.
«Dove stai puntando?»
«Là!»
Vedemmo la sua freccia volare diritta verso un gruppo di una
decina di uomini a circa centocinquanta passi da noi, ma l'angolo era
illusorio rispetto all'altezza, e il missile si conficcò nel terreno a breve
distanza dal gruppo, e scomparve senza essere vista.
«Merda! Che stupido!»
La seconda volta mirò con maggiore giudizio, e la freccia ne
prese uno del gruppo su un lato della testa, tra l'orecchio e la
mascella, scaraventandolo lontano dai suoi compagni che si
dispersero confusi, cercando invano l'origine di quella morte
improvvisa. Nessuno pensò di alzare lo sguardo verso il nostro
promontorio così distante. Evidentemente non avevano mai
incontrato prima gli archi lunghi dei Pendragon.
«Bel colpo» disse Curwin. «Non sanno dove guardare. Adesso
guardate questo... Il grosso bastardo laggiù a sinistra, con la barba
rossa e la tunica verde.»
Sollevò l'arco, piegando il braccio davanti a me in modo che il
volo della sua freccia non avesse alcun riferimento con la linea di tiro
di Orvic, e mentre con lo sguardo cercavo e trovavo l'uomo che
aveva descritto, così fece anche la freccia di Curwin. Il sassone era in
piedi dietro a un albero, con la schiena rivolta al tronco, e agitava le
braccia per incitare i suoi compagni all'attacco. La freccia di Curwin
lo bloccò in piedi com'era, trapassandolo di netto e infilandosi
nell'albero alle sue spalle. Orvic tirò ancora prima che potessi
scoccare la mia prima freccia, e iniziò così una procedura letale, che
si espletava nella selezione dei singoli bersagli in modo che ognuno
fosse abbastanza distante da quello che l'aveva appena preceduto, e
nel loro conseguente abbattimento, finché i nostri sforzi combinati
non ebbero eliminato quattordici avversari. Mentre colpivo il
quindicesimo qualcuno individuò la nostra piattaforma di tiro sulla
collina che li sovrastava, e allora i Sassoni si scagliarono contro di noi
in una ondata ribollente e urlante di rabbia.
Da quel momento, tutti e tre incoccammo e scoccammo frecce
alla massima velocità possibile, e quando gli uomini alla carica
ebbero dimezzato la distanza che ci separava, il braccio e le dita
incominciavano a farmi male. All'estremità del mio campo visivo un
gigante a capo scoperto correva a lunghe falcate davanti ai suoi
commilitoni; brandeggiai l'arco e mirai all'ampio petto, ma quando
scoccai la freccia l'uomo cadde in ginocchio e scomparve. Pensai
subito che uno dei miei compagni l'avesse ucciso, ma avevano gli
archi a terra, le frecce ancora incoccate, e gli occhi spalancati. E
lungo tutta la linea di attacco, i Sassoni erano svaniti, lasciando in
vista solo un gran numero di morti e di feriti.
Orvic imprecò. «Si sono rintanati. Ci dev'essere una ripa che da
qui non riusciamo a vedere. Adesso la situazione diventa spiacevole.
Cercheranno il modo di aggirarci, perciò teniamo gli occhi bene
aperti.»
Aspettammo. Da qualche parte davanti a noi un uomo urlava.
Sopra di noi il canto degli uccelli riempiva il cielo. L'urlo dell'uomo si
levò in uno strido e poi si spense in un gemito gorgogliante e
agonizzante, e divenne silenzio, Niente si muoveva. Avevo i crampi
ai muscoli del braccio per lo sforzo di tendere l'arco. Lo rilasciai
lentamente, ma tenni la freccia incoccata.
«Orvic, non dovremmo pensare a tirarci fuori da qui?»
«Sì, ma non possiamo andare da nessuna parte, ragazzo.
Possiamo solo tornare da dove siamo venuti. E se ci proviamo, ci
tirano giù. Quanti ne abbiamo presi?»
Scrutai il terreno di fronte a noi. «Ne ho contati trentaquattro.»
«Sì, anch'io. Niente male per essere in tre.»
Era una cifra fenomenale, ma non risposi. Ottanta meno
trentaquattro faceva quarantasei: più che abbastanza per farci fuori
alla svelta, adesso che i nostri archi erano quasi inutilizzabili, e meno
di quaranta passi ci separavano dalla ripa dietro la quale si erano
rintanati.
«Guardate laggiù.» La voce di Curwin era vicina alla mia spalla.
«Gli abbiamo dato un po' di respiro, almeno.»
Guardai verso la cascina che aveva protetto gli assediati.
C'erano uomini che si spostavano con rapidità, davanti ai muri
che li avevano difesi, si muovevano piegati in due, senza perdere di
vista il campo di battaglia.
«Non badare a loro, Caio Merlino, tieni d'occhio quei bastardi
che ci stanno addosso!» La voce brusca di Orvic mi fece riportare di
scatto gli occhi sul terreno sottostante, ma niente si muoveva. Orvic
continuò a parlare, esplorando con lo sguardo il fondovalle e poi
brevemente la fattoria. «Chiunque abbia il comando laggiù, non è
uno sciocco. Ma i Romani non sono mai stati degli sciocchi, non è
vero? Stanno raccogliendo le frecce cadute, mentre i Sassoni sono
impegnati con noi. Adesso mi domando se verranno fuori ad
aiutarci, o se ci lasceranno qui a crepare e correranno il rischio solo
quando saremo spacciati.» Indicò alla nostra sinistra, dove il letto del
fiume che avevamo seguito dal ciglio del dirupo precipitava lontano
verso nord. «Tu guarda da quella parte, io bado all'altra, e tu,
Curwin, stai attento al fronte. Quella ripa dietro a cui si nascondono
non può essere a più di trenta passi dal letto del fiume, perciò state
attenti, Al primo segno di movimento, scoccate, e cercate di non
sbagliare! Se arrivano al letto del fiume, sotto l'argine dove non
possiamo vederli, o ci girano intorno dall'altra parte, siamo uomini
morti.»
Si allontanò verso destra, scostando i rami degli alberi con un
braccio per passare proprio sul ciglio del nostro piccolo
promontorio. Curwin si esibì in una sonora scatarrata, e in quel
momento il sassone al quale avevo mirato in precedenza riapparve,
e si mise a correre verso il letto del fiume, seguito da un'orda di suoi
compagni. Tirai rapido una freccia e lo mancai, ma la seconda freccia
lo fece cadere in ginocchio; uno di quelli che lo seguivano lo buttò a
terra, barcollò, quasi perse l'equilibrio e poi si tuffò in avanti oltre
l'argine del fiume e scomparve. Ne vidi cadere un altro, colpito da
Curwin, e poi un altro abbattuto da me. E in vista non c'era più un
sassone.
«Orvic» gridai. «Sono passati, nel letto del fiume. Sono in sei o
sette.»
Curwin era di fianco a me. «Non possono salire quassù senza
uscire da quella spaccatura. Li tengo in pugno.» E sparì tra gli alberi
alle mie spalle.
Alla mia destra sentivo vibrare l'arco di Orvic che lanciava una
freccia dopo l'altra, e sentivo salire dal basso urla e strilli. Sotto di me
niente si muoveva.
«Orvic, ti serve aiuto? Vuoi che venga lì?»
«No, dannazione, resta dove sei. Questi bastardi non vanno da
nessuna parte.» Una pausa, e poi: «Dov'è Curwin?».
«Li sta tenendo inchiodati nel letto del fiume.»
Qualcosa mi passò davanti alla faccia con un sibilo, facendomi
indietreggiare terrorizzato: una freccia si conficcò nella corteccia del
tronco al mio fianco. Guardai giù, ma non vidi traccia dell'arciere.
Alla mia destra, Orvic aveva smesso di lanciare frecce.
«Hanno degli archi» gridai.
«Lo so.» La sua voce, appena dietro di me, mi sorprese. Mi girai
di scatto e lo vidi appoggiato a un albero di biancospino, con la
faccia grigia come la cenere, la tunica tessuta in casa cremisi di sangue
dove una freccia l'aveva trapassato di netto, puntando verso l'alto
sotto la scapola. Sotto ai miei occhi esterrefatti piegò le ginocchia e
cadde in avanti, spingendo la freccia attraverso la spalla.
Dal basso ricominciarono le grida, e allora tornai al mio posto di
guardia, tendendo nuovamente l'arco. I Sassoni correvano verso il
fiume, ma adesso esitavano, e correndo si voltavano, e alcuni erano
fermi a guardare indietro. Ne abbattei uno, con una freccia alla base
del cranio, e lo scaraventai giù per la china. Ma prima che potessi
abbatterne un altro li vidi correre tutti in direzione opposta alla mia,
verso la valle, e dietro di loro vidi i Romani che avevano
abbandonato la fattoria caricarli con un drappello compatto di
soldati a cavallo, avventarsi dalla mia destra addosso alla
retroguardia dei Sassoni e spingerli verso nord, giù per la collina e
verso un altro gruppo lontano, un gruppo molto più numeroso, di
cavalleria in avanzamento. La mia cavalleria! Lasciai cadere l'arco,
estrassi il coltello e corsi da Orvic. Era privo di sensi. Tagliai la freccia
sotto le alette, in fretta e senza badare alle buone maniere, e sfilai
l'asta dalla ferita nella stessa direzione da cui era entrata. Orvic non
sentì niente. Strappai un brandello della mia tunica e chiusi i due fori
della ferita, quello d'ingresso e quello d'uscita, e poi fermai i due
tamponi legandoli con le corde dei nostri due archi. Non avevo
ancora finito quando Curwin tornò indietro, canticchiando di
piacere e di sollievo, ma quando vide che cosa stavo facendo si
fermò di colpo.
«Non è grave come sembra» gli dissi. «Una ferita pulita, e poco
profonda, diretta verso l'alto. La freccia deve avere preso di striscio
le costole, e si è infilata sotto la scapola. Non ha toccato niente di
vitale. Orvic guarirà e tenderà ancora l'arco con i migliori di noi.»
Lasciai Curwin a prendersi cura di Orvic, ancora privo di sensi, e
iniziai a scendere verso il luogo in cui si stavano compiendo le ultime
gesta del dramma. Dall'alto vedevo che i Sassoni vendevano cara la
pelle, non si aspettavano tregua e non ne concedevano, ognuno
evidentemente pronto a morire in combattimento. Mio malgrado
provai un moto di ammirazione per il loro coraggio cocciuto e
pagano. Il combattimento si andava allontanando da me, e
attraversai da solo il campo di battaglia, in mezzo a morti e
moribondi. Mi fermai e mi voltai a guardare il punto dal quale poco
prima avevo teso tante volte il mio arco. Il dirupo era inarrivabile,
inespugnabile, torreggiava su di me come il muro di una fortezza ed
era sorretto dal grandioso pendio della collina che saliva in scarpata,
decorato dai pizzi dell'argentea cascata del ruscello. Il promontorio
sembrava più distante e inaccessibile dal basso di quanto mi fosse
parso dall'alto. Non vedevo traccia di Curwin e Orvic. La mia ombra
si stendeva davanti a me verso ovest, e mi accorsi con sconcerto che
il sole non aveva ancora raggiunto il suo zenit meridiano.
Sentii gridare il mio nome, mi girai verso la valle e vidi Donuil
che mi veniva incontro a un piccolo e goffo galoppo, tenendo in
una mano le redini del suo e del mio cavallo, e stringendo sotto
l'altro braccio il mio elmo come se fosse un'ancora che potesse
tenerlo in sella. Pochi momenti dopo, a cavallo e con l'elmo in testa
e sentendomi molto più grande e più padrone del mio destino di
quanto mi fossi sentito a piedi, consegnai a Donuil arco e faretra e lo
precedetti al trotto fino all'accolta di persone che segnava la
conclusione della battaglia. A parte un breve ringraziamento, non gli
avevo detto nulla, e mi lasciò ai miei pensieri. Vidi Lucano chino su
un giovane soldato e mi diressi verso di lui. Gli dissi di Orvic sul
promontorio, e mandò due barellieri affinché portassero il celta in
salvo, ammonendoli di non lasciar cadere il loro carico sul ripido
pendio. Poi riportò l'attenzione sul soldato ai suoi piedi,
ignorandomi completamente.
«Quante vittime, Lucano?»
«Troppe. Cinque morti, sette feriti incluso il tuo amico sulla
collina. Questo è il ferito che sta peggio.»
«È grave?» Il giovane soldato era incosciente.
«Ferita di ascia alla gamba, come puoi vedere, ferita di coltello a
un rene, e probabilmente il cranio spaccato. Non si riprenderà.» Non
aveva ancora alzato lo sguardo. Con un sospiro lo lasciai al suo
lavoro, e mi guardai intorno.
Il centro dell'attività, adesso che il combattimento era finito, era
un gruppo di soldati a cavallo che si accalcavano e si giravano
intorno nell'euforia che sempre accompagna chi sopravvive a una
battaglia. Al centro del vortice c'era un capannello di quattro o
cinque ufficiali in uniforme che parlavano ad alcuni miei ufficiali,
riconoscibili per la dignità e per la calma del portamento. Spinsi il
cavallo verso di loro mentre loro avanzavano verso di me, facendosi
strada con autorità tra la folla che li circondava; i miei soldati mi
riconobbero e levarono un grido di benvenuto, e si riunirono
intorno a me formando un grande cerchio. In mezzo al cerchio mi
ritrovai faccia a faccia con gli stranieri, e fummo avvolti dal silenzio.
«Caio Britannico?»
Chi parlava era evidentemente il loro capo, e io annuii,
appropriandomi di ogni dettaglio di quell'uomo. Era maggiore di
me, più vecchio, forse tra i cinquanta e i sessant'anni, ma aveva
l'inconfondibile atteggiamento e l'autorità del soldato di professione
e del comandante nato. La sua uniforme era magnifica: elmo,
corazza, gonnellino e gambali di bronzo intarsiato d'oro, tutto su
una tunica così bianca da abbagliare gli occhi. Un mantello
arrotolato di un intenso color turchino era legato al dorso del suo
cavallo.
«É il mio nome.»
«Piacere di conoscerti, allora! Siamo tutti grandemente in debito
con te. Non so da dove siete venuti tu e i tuoi uomini, ma ringrazio
Dio che siate arrivati quando siete arrivati.» Indicò in alto la punta
del promontorio dietro di me. «Se non fosse stato per il vostro
arrivo e per l'assistenza che abbiamo ricevuto da lassù, dubito che
qualcuno di noi sarebbe vissuto per vedere tramontare il sole. I
pagani ci avevano messo intrappola, e ci avrebbero fatti fuori a uno
a uno.» Mi guardò e sorrise, e il suo viso si illuminò di calore; parve
riscuotersi, e disse, mostrando in lontananza le rovine della fattoria:
«Ma ti prego, permettimi di essere ospitale. Abbiamo trascorso la
notte tra quelle rovine, non pensando certo che al mattino
avremmo avuto una visita indesiderata, e per un poco ci siamo
trovati comodi. Volete tu e i tuoi uomini essere miei ospiti per
oggi?».
«Con gioia» dissi, provando già una profonda simpatia per
quell'uomo. Mi girai verso Ciro Appio, il capo delle mie truppe a
cavallo fermo alla mia destra ad ascoltare, e gli dissi di radunare gli
uomini e di condurli alla fattoria. I pochi feriti sarebbero stati
accuditi da Lucano e dalla squadra affidatagli a tale scopo.
«Perdona la mia domanda, ma perché hai lasciato che vi
tenessero in trappola in quel modo?» Cavalcavo accanto al loro
capo, conscio del fatto che non mi aveva ancora detto il suo nome.
«Siete soldati a cavallo. Avreste potuto rompere agevolmente
l'accerchiamento.»
«Sì, ma non siamo abbastanza. Meno di venti in grado di
combattere. Avremmo potuto rompere l'accerchiamento, ma
abbiamo dei preti con noi, un gruppo numeroso. Sarebbero stati
facili prede dei Sassoni. Non potevo abbandonarli. Nel tempo che
avrei impiegato a uscire, farmi strada attraverso il nemico, radunare i
miei uomini e girarmi per attaccare, i Sassoni sarebbero entrati,
dietro le mura, e ci avrebbero tenuti fuori. Non pensavo che
avrebbe funzionato, e così ho deciso di restare dov'ero e di
combattere. Erano in sovrannumero, almeno tre contro uno. Ma da
dove diamine siete saltati fuori? È ovvio che non siete un esercito
regolare, perché in Britannia non c'è più nessun esercito regolare. Ma
allora chi siete? E che cosa fate qui, in capo al mondo, con duecento
soldati a cavallo? E come ci avete trovati?»
Mentre lo sconosciuto parlava, il mio cavallo era rimasto
leggermente indietro; lo incitai ad aumentare l'andatura, e mi rimisi
al fianco di quell'uomo. «Siamo diretti a nord, come dicevo, e
stavamo cacciando. Alcune città che abbiamo passato sembrano
colpite dalla peste, perciò le abbiamo evitate. Non abbiamo potuto
acquistare cibo, e questa mattina ho organizzato delle battute di
caccia. Il mio gruppo era lassù sulla scarpata quando abbiamo sentito
il rumore del combattimento. Il resto lo sai.»
Girò di scatto la testa, e spalancò gli occhi. «Eravate voi, là in
alto? Gli arcieri, sul promontorio?»
Mi strinsi nelle spalle e sorrisi. «Sì, io e altri due. Vi abbiamo visti
dalla cima del precipizio, dove parte la cascata, e siamo scesi ad
aiutarvi. Donuil è corso indietro a chiamare gli altri e li ha guidati
lungo la strada verso nord.»
I suoi occhi si colmarono di un'emozione simile a sgomento.
«Beh, comandante» disse infine. «Mi lasci senza parole, ma mi
perdonerai se per un poco ti riterrò una specie di deus ex machina,
poiché il tuo arrivo e la tua intercessione sembrano davvero
soprannaturali.» Mi sentivo improvvisamente a disagio, e non
sapevo come rispondere. Cambiò bruscamente argomento. «Siete
diretti a nord, hai detto. Anche noi. A Verulamium.»
Gli sorrisi. «L'avevo immaginato. È l'unica ragione per cui potevo
giustificare la vostra presenza qui. Ho pensato che dovevate scortare
dei preti in viaggio per ascoltare il dibattito del vescovo Germano
con i nostri vescovi.» Fermò il cavallo e si girò a guardarmi con
maggiore attenzione, spostandosi di lato con un'espressione che mi
parve di patetica sorpresa. Sorrisi ancora. «Ho ragione?»
Anch'egli torse la bocca in un piccolo sorriso, e inclinò il capo in
un gesto che poco ci mancava fosse un'ammissione.
«Quasi» disse. «Io sono il vescovo Germano.»
XXXIII.
La mia prima impressione del vescovo Germano e dei suoi
accoliti fu caotica: una serie di immagini sconnesse ancora più
ingarbugliate dallo stordimento e dall'eccitazione della vittoria, e
dalla turbinosa, indisciplinata euforia da essa generata, e sovvertite
dal mio profondo sconvolgimento legato alla rivelazione
dell'identità di Germano. Un vescovo guerriero era estraneo alla mia
esperienza, una assoluta contraddizione in termini per uno che era
giunto alla maturità pensando che i vescovi fossero uomini gentili,
spesso solitari, pacifisti e pacificatori. Certo, sapevo che Germano era
stato un soldato, con una lunga e riuscita carriera come ufficiale di
Stato maggiore, e che si era ritirato con il titolo di legato, generale al
comando di un intero corpo d'armata. Ma non avevo riflettuto sul
modo in cui poteva essersi compiuta la transizione da generale a
vescovo, da uomo d'armi a uomo di Dio. Con la massima
indifferenza, senza valutare né eccepire, avevo accettato la nozione
di una metamorfosi nebulosa, mistica della natura dell'uomo in
oggetto, da militante a penitente; da gesso a formaggio; da un
archetipo a un altro. Dopo il trauma dell'inevitabile confronto con le
mie malformate previsioni, ne riconobbi immediatamente
l'impossibilità. Era inconcepibile che Germano il vescovo reagisse
all'aggressione e alla minaccia fisica in modo essenzialmente diverso
da Germano il legato. L'uomo che mi stava di fronte era un'anomalia
dissimile da qualunque mia esperienza: un devoto uomo di Dio,
perfettamente addestrato ed esperto nella guerra. Era una
combinazione radicale e inattesa.
Germano doveva aver letto la costernazione nei miei occhi,
perché scoppiò a ridere e voltò il suo cavallo in un'alta impennata
che lo portò vicino a me, sul fianco sinistro, e si chinò in avanti per
parlare a me solo.
«Il nostro gentile Maestro ci ha detto di porgere l'altra guancia a
chi ci avesse calunniato, Caio Merlino, ma ha preso in mano egli
stesso una frusta quando nel Tempio si è sentito oltraggiato.» Indicò i
corpi dei Sassoni sparsi sul pendio. «Porgi l'altra guancia a gente
come quella, amico mio, e ti strapperanno le cristiane orecchie,
prima di staccarti la testa.» Mi rivolse allora un sorriso pieno di
affetto e di amicizia. «Bada alle tue truppe. Parleremo al nostro
accampamento, laggiù.»
Ci scambiammo un cenno di saluto e rimasi a guardarlo
allontanarsi con i suoi seguaci, prima di ritornare dai miei uomini che
proprio in quel momento si stavano rimettendo in formazione.
Lucano aveva già mandato i feriti, su una serie di lettighe, fino al
campo sottostante, e si stava avvicinando lentamente a cavallo.
Attesi che mi raggiungesse e diedi il segnale ai miei uomini, e poi mi
feci da parte con lui e li osservai sfilare davanti a noi. In lontananza,
i nostri carri scorrevano rumorosamente sulle grosse ruote lungo la
strada che scendeva dalla cresta.
«Allora, Lucano? È andata molto male?»
«Sei feriti, nessuno gravemente, adesso. Il settimo è morto,
quello ferito dall'ascia. Siamo stati fortunati a cavarcela con così
poco. Chi era quello con cui stavi parlando? Il loro capo?»
«Sì, in più di un senso. Quello è l'uomo che stiamo andando ad
ascoltare. Il vescovo Germano.»
Vidi i suoi occhi spalancarsi stupiti, come dovevano avere fatto i
miei.
«Un vescovo? Comandante di cavalleria?»
«No» gli dissi sorridendo. «Un soldato, che esegue il lavoro di
Dio meglio che può.»
«É scandaloso.»
«No, non lo è, Luca. È differente, te lo assicuro, ma non c'è
niente di innaturale se consideri l'uomo e la vita che ha vissuto.» Mi
fermai e annusai l'aria, e sentii l'odore della mia ipocrisia. «Bada»
continuai, «all'inizio ho reagito come te, finché non ho avuto il
tempo di adeguarmi alla realtà della situazione.» Gli riferii le parole
di Germano. Lucano guardò i cadaveri dei Sassoni disseminati
tutt'intorno e sospirò.
«I vescovi guerrieri bevono del buon vino?»
Risi. «Non ne ho idea, ma lo spero. Andiamo a scoprirlo.»
E seguimmo i nostri uomini fino alla cascina diroccata.
La prima valutazione dalla sommità del dirupo era stata
piuttosto accurata. Al seguito di Germano c'erano ventotto uomini,
dei quali quattordici erano chierici di vario genere; quattro erano
vescovi come Germano, e venivano dalla Galla e dall'Italia. I chierici
erano un gruppo stranamente anonimo; per età andavano dalla fine
dell'adolescenza ai quarant'anni passati, e tutti si distinguevano per
mancanza di individualità. Erano vestiti in modo simile, con vesti
lunghe e semplici di tessuto grezzo marrone, nero o grigio; molti
portavano in vita robuste cinture di cuoio, altri invece si stringevano
la veste con un pezzo di corda, come gli sgradevoli zeloti che
avevano invaso Camulod. Avrei saputo poi da Germano che quei
simboli di povertà erano manifestazioni di un'inclinazione crescente
tra gli ecclesiastici per l'austerità, una proclività favorita dagli
aderenti al monachesimo, che esercitava una vasta influenza sulla
comunità religiosa di Roma, dove si era diffusa dalla Grecia e
dall'Impero d'Oriente.
Il resto del gruppo, che aveva formato il cuneo di cavalleria
venuto in nostro soccorso, era diverso sia per carattere sia per
aspetto. Erano soldati, con l'uniforme, il portamento, e i modi dei
soldati, anche se i modi erano contenuti per rispetto al gruppo
devoto cui facevano da scorta.
Il loro comandante, un tribuno di nome Mario Tribo, era un
giovane socievole che trattava i suoi due, ugualmente giovani,
subalterni, i decurioni Piatone e Rufo, con severa ma tollerante
autorità e benvolere. Piatone e Rufo utilizzavano un analogo
approccio con i loro soldati, una squadra di nove uomini che
evidentemente servivano insieme da tempo ed erano buoni amici
come possono esserlo solo i soldati in servizio. Davanti a una coppa
di vino eccellente, Tribo mi disse che erano stati in Gallia per quattro
anni, a combattere contro i Burgundi che minacciavano di
impossessarsi dell'intera regione. A dire il vero, ammise, di fatto se
ne erano già impossessati. Era rimasto solo un corridoio lungo la
costa nordoccidentale, dove le forze romane si sentivano vagamente
al sicuro. Lui, i suoi due subalterni e nove uomini erano tutto quello
che restava di ottanta uomini, due squadroni di cavalleria al
completo. Non vedevano più rimpiazzi da un anno, quando
avevano ricevuto il piacevole ordine di scortare il vescovo Germano
e i suoi quattro episcopali compagni in Britannia per partecipare al
dibattito di Verulamium. Il resto del gruppo di Germano si sarebbe
radunato là. Gli ecclesiastici minori si erano uniti a loro in Britannia,
lungo la strada dalla costa meridionale.
Mentre Lucano e io parlavamo con Tribo e i suoi due decurioni
intorno al fuoco, Germano si avvicinò e, prendendomi per il
gomito, fece un cortese cenno di scuse e li privò della mia
compagnia. Lo seguii a un altro fuoco poco discosto, dove nessuno
cucinava e nessuno poteva sentirci. Si era tolto l'armatura, e
indossava solo una semplice tunica bianca e i gambali.
Si sedette su uno sgabello e me ne indicò un altro accanto a sé.
Mi sedetti anch'io, sentendo i suoi occhi su di me ma preferendo non
offenderlo con uno sguardo altrettanto franco. Era una giornata
bella e calda, e il fuoco mi sorprese. Tutti gli altri fuochi
dell'accampamento erano sormontati da pietre ollari per cucinare,
ma quel fuoco sembrava essere acceso solo per diffondere calore.
«Una terra fredda, la vostra, Caio Merlino, anche in una giornata
calda come questa.» Germano tese le mani verso le fiamme. Lo
guardai sorpreso, e sorrise. «Non mi sono ancora abituato a stare
lontano dal sole dell'Africa. Ho il sangue annacquato. Perfino in
Italia, dove fa molto più caldo di qui, sono costantemente afflitto
dai brividi.» Parlando fissava il fuoco, e mi sentii libero di osservarlo
apertamente.
Doveva avere tra i quarantacinque e i cinquantanni, forse più
vicino ai cinquanta. Aveva i capelli scuri e ricciuti, tagliati cortissimi
secondo la moda militare romana. Anche la pelle era scura,
abbronzata da anni di esposizione alla bruciante luce del sole, e gli
occhi marroni erano infossati tra piccole rughe. Era una faccia forte e
buona, e il resto del corpo le assomigliava. Le spalle e il petto erano
ampi, le braccia robuste e muscolose senza traccia di incipiente
vecchiaia. Le gambe, la destra tesa verso il fuoco, erano massicce e
ben proporzionate. Un fisico decisamente formidabile, pensai, per
un soldato, e tanto più per un ecclesiastico.
Si schiarì la voce e parlò senza guardarmi. «Caio Merlino
Britannico... Un tempo servivo con un uomo di nome Britannico...
Pico Britannico. Parenti?»
«Era mio padre, signore.»
«Davvero?» Mi guardò. «Il colore dei capelli avrebbe dovuto
bastarmi. Lo conoscevo bene, un tempo. É stato mio amico per
molti anni, sotto Stilicone.» Fece una pausa.
«Quando è morto?»
«Pochi mesi fa.»
«Così di recente? Le mie condoglianze. Era un uomo in gamba, e
un soldato di cavalleria per passione.»
«Grazie, signore. Anche lui pensava bene di te. Quando la mia
prozia Luceia ha sentito fare il tuo nome, ti ha riconosciuto subito
grazie alle lettere di mio padre. É stata lei a dirmi chi eri... chi sei. Le
è dispiaciuto non poter venire con noi, ma ormai è una vecchia
signora.»
Germano mi guardava pensieroso, stringendo tra i denti il
labbro superiore. Tacqui, aspettando che desse voce ai suoi pensieri.
Non mi fece aspettare a lungo.
«Caio? Merlino? Come ti chiamano i tuoi amici?»
«Con entrambi i nomi» gli dissi, sorridendo. «Ma per lo più
Merlino.»
«Bene, Merlino, allora... un nome insolito... É britanno?»
«Celtico, della Cambria. Merlino è un dio dei Celti.»
«Capisco. Sono venuto qui in Britannia, Merlino, per discutere le
teorie della Chiesa di Roma e dovunque con i... sostenitori - stavo
per dire discepoli - di un uomo condannato per apostasia, se non più
recisamente per eresia.»
Annuii. «Lo so. Pelagio.»
«Sì, Pelagio. Sono sorpreso che tu lo conosca. Ne hai sentito
parlare?»
«Mio padre lo conosceva.»
«Ah!» Germano fece un cenno di assenso, sorridendo tra sé. «Era
necessario chiedere? Tuo padre doveva conoscerlo certamente.
Pelagio veniva dalla Britannia e si è fatto un nome. Tuo padre
sarebbe andato a cercarlo solo per quello. Pico era molto fiero di
essere della Britannia.» Corrugò la fronte. «Ma ciò non cambia nulla.
Come dicevo, sono venuto a discutere gli insegnamenti di Pelagio, le
sue convinzioni che si sono rivelate eretiche. Ma questo dibattito è
teologico, da vescovi a vescovi. Può avere poca importanza - la
forma e il contenuto del dibattito in sé, non il risultato - per gli
uomini comuni. E non dovrebbe averne nessuna per le donne.
Perciò dimmi, se ti garba, di questa tua prozia... Luceia, si chiama?
Come ne è venuta al corrente? E perché mai desiderava assistervi? E
perché» continuò, «volendo assistervi, non l'ha fatto, malgrado l'età
avanzata? Se la sua mente è tanto lucida da comprendere i problemi
in questione, e il suo interesse così acuto da riuscire a scoprire la data
e il luogo, l'età da sola non dovrebbe essere un ostacolo sufficiente.»
Feci un cenno di acconsentimento prima ancora che finisse di
parlare. «Non è stata solo l'età, ma la distanza.»
«La distanza?» Era sorpreso. «Quanta strada avete fatto?»
«Più di cento miglia.»
«Gran Dio! Per sentire discutere dei vescovi?» Il suo stupore era
chiaramente sincero. «Perché? Che cosa ti ha spinto a fare un viaggio
simile a un simile scopo?»
Esitai, meditando la risposta che mi tremava sulle labbra, conscio
che si aspettava di trovarmi impreparato tra gli aspetti tecnici e
dottrinali del dibattito. Forse aveva ragione, ma l'avrei scoperto
personalmente. Vuotai la coppa e buttai la feccia nel fuoco.
«Credo di essere venuto fino qui per un buon motivo,
vescovo...» Esitai ancora, poi perseverai, improvvisamente convinto
della verità dei miei pensieri. «E credo che tu abbia torto a sostenere
che questo dibattito non è di alcun interesse per la gente comune.
Giudichi male noi della Britannia, e la qualità delle nostre idee.»
Mi fissava con un'espressione difficile da interpretare, ma vidi
solo interesse e nessun indizio di censura, né di offesa, per l'ardire
delle mie parole. Il silenzio crebbe, finché Germano non lo
interruppe. «Prosegui. Non hai finito, immagino.» Il tono della sua
voce era gentile.
«No, non ho finito.» Tacqui, e diedi un colpo di tosse per
schiarirmi la gola, prima di continuare. «Ma sono venuto per
ascoltarti discutere l'errore degli insegnamenti di Pelagio secondo la
posizione della Chiesa di Roma, non per discutere con te, o per
parlare dei miei problemi.»
«Hai paura di parlarne?»
«No, per niente.»
«Allora parla. Ti ascolto.»
Esitai ancora, passando rapidamente in rassegna le
argomentazioni e i punti di vista che avevo sentito mio padre
formulare e difendere. Germano non tradì alcuna impazienza per il
mio silenzio. Una voce vicina si levò in uno scoppio di risa e si
spense. Gli uccelli cantavano. Il rumore delle fiamme che
consumavano il legno sembrava molto forte. Finalmente parlai, e,
quand'ebbi incominciato, le parole si susseguirono fluenti.
«Il padre di mio padre aveva un amico di lunga data, un vescovo
di nome Alarico, di Verulamium, che è anche il luogo in cui avverrà
il vostro dibattito. Lo conobbi quand'ero bambino; ora rammento
poco di lui, eppure so tante cose della sua vita, perché mio nonno, e
poi il suo amico, il mio prozio, scrissero tanto di lui, e io ho letto
tutti i loro scritti. Era un uomo semplice e devoto di grande fede e
profonda umanità. Visse la sua vita come un esempio di carità
cristiana rivolto a tutti coloro che lo conoscevano, o che sapevano di
lui. Non fece mai del male a nessuno, non mostrò mai meno che
perfetto decoro e perfetta misericordia, in tutta la vita mai una volta
giurò il falso, non abiurò mai il suo Dio e la sua fede, e mai ebbe a
che fare con tradimenti di alcun genere. Morì, diciotto anni fa, poco
prima del mio undicesimo compleanno, e lasciò questa vita come
l'aveva vissuta, sostenuto dalla sua fede e dalla sua fiducia in Dio e
nella sua perfezione.»
Smisi di parlare finché Germano non mi guardò. E quando
incontrai il suo sguardo, dissi: «Hai detto che Pelagio è stato
condannato per apostasia, se non per eresia...».
Annuì, e io continuai. «Comprendo l'apostasia, nel senso
dell'abbandono di una politica o di una dottrina stabilita-e non vedo
come qualcuno possa accusare Pelagio di avere abbandonato il
cristianesimo o i suoi insegnamenti - ma non comprendo il significato
di eresia. Ho sentito quel termine - mia zia Luceia l'ha usato - ma
non so che cosa implica. La parola apostasia ha un suono nefasto,
ma eresia dev'essere peggiore.»
Germano si mosse e distolse lo sguardo da me, rivolgendolo
verso il fuoco, che crollò su se stesso sollevando pallide scintille a
malapena visibili nell'aria chiara del pomeriggio. «Lo è» disse con un
sospiro accorato. «Molto peggio. Apostasia, come l'hai correttamente
definita, è l'abbandono della fede e dei principi religiosi. Eresia è
l'adozione, e l'insegnamento, di un'opinione che va direttamente
contro gli insegnamenti ortodossi della Chiesa. È un peccato
mortale.»
«Mmh...!» Infilai le mani sotto di me, tra le cosce e lo sgabello, e
mi sporsi in avanti. «Secondo chi? Questo pensiero mi angustia. Mi
angustia profondamente. Mi è già difficile immaginare che qualcuno
possa accusare Pelagio di essere non-cristiano, ma questa eresia è
spaventosa.» Mi stava guardando di nuovo, e continuai. «É peccato
mortale avere un'opinione che contrasta gli insegnamenti ortodossi
della Chiesa. É questo che stai dicendo?» Annuì, e io scrollai il capo.
«É una cosa nuova per me. Dimmi, se puoi, chi definisce
l'ortodossia?»
Sembrava preoccupato. Un solco profondo gli era apparso tra le
sopracciglia.
«I Padri della Chiesa.»
«E chi sono questi padri?»
«I vescovi anziani.»
«Perdonami, ma quali vescovi anziani?»
«I vescovi delle Sedi primarie: Roma, Antiochia, Ippona e diverse
altre.»
«Ippona. Il vescovo Agostino.»
«Sì.» Le sopracciglia si erano inarcate di scatto. «Conosci il santo
Agostino?»
«Solo per sentito dire, e non ho sentito parlare della sua santità
ma solo delle sue opinioni, che sembrano avere grande peso.»
Un altro solco. «La tua voce è piena di amarezza.»
«Sono pieno di amarezza!» Mi alzai dallo sgabello e girai intorno
al fuoco, guardandolo e parlandogli attraverso le fiamme. «Il
vescovo Alarico, che ho nominato poco fa, era uno degli uomini
migliori che mio nonno, il mio prozio e mio padre avessero mai
conosciuto. Era davvero un sant'uomo. E giunto ormai alla fine della
sua vita, riconobbe che gli insegnamenti di Pelagio erano ispirati da
Dio. Non vedeva in essi alcun motivo per mettere in dubbio le
convinzioni di un cristiano fedele: né conflitti, né trasgressione, non
vedeva in essi vergogna né peccato. Ma il vescovo di Ippona sì,
sicuramente, e adesso Pelagio viene condannato dal potere di
Agostino. E vuoi dirmi che il vescovo Alarico è morto in una
condizione di peccato mortale, a causa di quella diatriba? Perché la
sua opinione differiva da quella del vescovo Agostino? E Agostino è
un santo? A tutti noi rimane ben poco da sperare nella salvezza, se
uomini come Alarico possono venire condannati alla perdizione
eterna da un santo!»
Il mio sfogo turbava intensamente Germano. Il suo viso era
segnato dalla preoccupazione, ma non esprimeva rabbia né giudizio.
«Merlino» disse con parole lente e misurate, «tu non conosci
Agostino. Io sì. É un uomo brillante e meritevole, benedetto da Dio,
e da quando è entrato nella Chiesa ha condotto una vita in
contemplazione e in penitenza, alla ricerca della verità di Dio.»
«No, perdonami se ti offendo, ma non posso accettarlo, Sarà
brillante, come dici, ma è un uomo, vescovo, come lo sono io, e
come lo sei tu. Nessun uomo può essere Dio. Da dove viene questa
ortodossia?» Il mio disgusto era tanto che quasi sputai quella parola,
ma proseguii in fretta, senza dargli la possibilità di rispondere.
«Alarico ci ha parlato di un Cristo amorevole, venuto a portare agli
uomini pace e amicizia, perdono e mansuetudine, carità e
tolleranza... di un semplice falegname che si esprimeva con parabole
e definiva beatitudini, e che morì in ignominia affinché gli uomini
potessero essere redenti grazie alla misericordia infinita. Dov'è
andato quell'insegnamento, quell'esempio? Mi sembra di non
vederlo nella Chiesa del Cristo di oggi, dove uomini - uomini,
vescovo - si aggrappano al potere e abrogano è negano e annullano
il ruolo del Salvatore, elaborando e ridefinendo la Parola e la
Volontà di Dio secondo i loro fini in nome dell'ortodossia, e
consegnando altri uomini alla dannazione eterna perché le loro
opinioni sono diverse!»
Mi mancarono il fiato e le parole e mi accorsi che lo stavo
fissando attraverso il fuoco, con occhi che bruciavano per il fumo
acre, eppure lo ignoravano. Germano mi fissava di rimando,
immobile, attento. Il cuore mi martellava in petto, e nella pancia
sentii formicolare una vergogna informe, o forse era terrore. Sapevo
al di là di ogni dubbio che le sue prossime parole, la sua immediata
risposta al mio sfogo, avrebbero segnato per sempre il mio
atteggiamento e il mio comportamento.
Germano evidentemente intuiva come me l'importanza della sua
risposta, perché si trattenne. Alzò la mano destra, con il palmo
rivolto verso di me, in un gesto inequivocabile che richiedeva di
rimanere dov'ero, lasciò il fuoco ed entrò nella tenda più vicina. Io
rimasi lì, a guardare l'ingresso della tenda in cui era sparito, a serrare
e disserrare i pugni in preda all'agitazione, cercando di rallentare i
battiti del mio cuore di ritrovare la calma.
Pochi momenti dopo Germano riapparve con due calici puliti e
un fiasco di vino.
«Siediti, Caio Merlino.»
Ripresi posto sul mio sgabello. Senza parlare versò il vino, e me
ne porse una coppa. La coppa era fredda, il vino era giallo chiaro.
Presi la coppa e bevvi, assaporando il buon gusto del vino
nonostante l'agitazione. Germano richiuse il fiasco e si sedette sul suo
sgabello, sorseggiando il vino con fare riflessivo. Il fuoco crepitò, e
crollò ancora su se stesso. Avrebbe presto avuto bisogno di altra
legna.
«Non c'è niente da guadagnare nell'amarezza, Merlino, e tu sei
amareggiato. Anche tu sei nell'errore.» Lo guardai, pronto a
ribattere, ma continuò: «Il tuo amico Alarico è nelle mani di Dio e
non ha niente da temere. Il suo errore, quando lo commise, non era
un errore, poiché non era ancora stato definito tale. Perciò mettiti
l'animo in pace».
«Ma...»
«Ma cosa?»
Scossi la testa, perplesso. «Come puoi saperlo, vescovo? Se avere
una determinata opinione oggi è peccato mortale, come poteva la
medesima opinione essere ineccepibile meno di due decenni fa? Non
capisco.»
Si strinse nelle ampie spalle. «Mi rendo conto del tuo dilemma.
Tuttavia, così vanno queste cose. La Chiesa, nella sua saggezza, ha
deciso che Pelagio era gravemente in errore.»
«Ma la Chiesa è composta da uomini, vescovo, da comuni
mortali. Come possono quegli uomini decidere per tutti gli altri in
questioni così gravide di conseguenze?»
«Perché hanno il potere di farlo - di interpretare la legge - e ci
vogliono leggi chiare per guidare i passi della massa degli uomini.»
Scossi ancora la testa in segno di diniego, e sentii che la
frustrazione mi riassaliva. «No. Qui c'è in gioco più del potere della
legge. Sei caduto in un paradosso, vescovo. Pelagio difendeva la
legge. Era un avvocato. La teoria della Grazia Divina - la necessità
dell'intervento diretto e soprannaturale perché il genere umano
possa conquistare la salvezza - nega il bisogno della legge umana,
perché nessuno può condannare un criminale che affermi che Dio
non gli ha dato la Grazia per resistere alla tentazione. E adesso dici
che gli uomini hanno bisogno di leggi - stabilite da pochi per
condannare i difensori della legge.»
Liquidò la mia polemica con una solenne scrollata di capo. «Tu
male interpreti le mie parole. Secondo il giudizio di chiunque, questi
Padri della Chiesa sono ben lontani dall'essere ordinari. Sono tutti
uomini straordinari, di grande erudizione, devozione e merito.»
«Per definizione di chi?»
Si stava palesemente spazientendo. Strinse le labbra, e parlò con
freddezza.
«Per definizione dei vescovi della Chiesa in conclave.»
«Altri uomini, che si appropriano delle parole di Dio.»
«Bada a te, Caio Merlino! Ti stai spingendo troppo oltre.»
«No, vescovo Germano, mi sono spinto fino a qui, e sono qui a
causa degli uomini che hanno portato la parola della Roma di oggi della Chiesa di oggi a Roma - nella casa di mio padre e l'hanno
costretto a bandirli per la loro presunzione. Uomini che si sono
arrogati il titolo di uomini di Dio, e hanno preteso che Pico
Britannico accettasse loro, la loro intolleranza, e la loro intollerabile
arroganza, in virtù solo della loro parola.»
Aveva spalancato gli occhi per lo stupore. «Che cosa? Di che
arroganza stai parlando? E tuo padre li ha banditi? Vescovi di Roma?
Non ne so niente.»
«Non erano vescovi. Si definivano preti. Ma mio padre li ha
buttati fuori dalle nostre terre, al confino.»
«Gran Dio! Racconta.»
Bevvi un altro sorso di quel vino delizioso, e poi gli raccontai
tutta la storia dei fanatici zeloti che avevano mandato in collera
prima mio padre, e poi me. Ascoltò in silenzio, senza interrompermi.
Quando ebbi finito di parlare, gli sfuggì un possente sospiro.
«Zeloti» disse, usando la parola che io non avevo pronunciato.
«Temo che stiano diventando numerosi. E il danno che provocano
può essere irreparabile. Adesso comprendo la tua ostilità, non verso
di me, perché non ne sento, ma verso la Chiesa e la sua autorità.»
Non dissi nulla, incoraggiato comunque dalla sua approvazione.
Sospirò ancora. «Ed è stato questo... evento... che ti ha indotto a
intraprendere questo viaggio?»
Annuii.
«Te lo chiedo di nuovo, a quale scopo?»
Finii il mio vino e ne rifiutai dell'altro con un cenno del capo.
«Mio padre disse loro che avrebbe potuto ritornare sulla sua
decisione, se e quando avesse ricevuto istruzioni, o almeno
comunicazioni, dalle autorità ecclesiastiche a Roma. Non abbiamo
più saputo niente, e adesso mio padre è morto. La tua è la prima
missione di rilievo di cui abbiamo sentito parlare da allora, e mia zia
e io crediamo che sia importante ascoltare il tuo messaggio
direttamente.»
«Capisco. Beh, ascoltarlo lo ascolterai certamente. Te lo posso
assicurare. Ma tu sei un soldato, e quindi un pragmatista, e queste
sono chiacchiere da ecclesiastici: teologia, semantica e teoretica
metafisica. Che cosa farai se non riuscirai a coglierne il senso?»
Gli sorrisi, di nuovo di buon umore. «Ti chiederò di spiegarmelo,
vescovo, con parole che un soldato possa capire.»
Fece una smorfia. «É semplicistico. In un certo senso sono sia
carne sia pesce, mai però simultaneamente. Quando assumo una
personalità, abbandono completamente l'altra. Devo farlo, per non
correre il rischio di non sussistere in alcuno dei due ruoli.» Rifletté un
momento. «Dimmi, Caio Merlino, se puoi, se ci fosse un... elemento,
un attributo di questo dibattito che ti aspetteresti di trovare, e che
cercheresti forse... quale sarebbe?»
Quasi non dovetti pensare prima di rispondere. «Il potere.» Vidi
che era perplesso, e parlai più chiaramente. «Come ho detto, tu sei il
primo vescovo anziano che viene in Britannia dalla partenza delle
legioni - il primo, almeno, con una missione considerevole della
quale io sia al corrente - e il messaggio che porti con te possiede
potere, un grande potere, e una grande autorità. Con una quantità
sufficiente dell'uno e dell'altra, potresti convincere i tuoi pari in
questa terra a mutare il modo di pensare e di agire della nostra
gente. Questo potere sarà scoperto e attivo a Verulamium. Voglio
vederlo e valutarne la tempra.» Feci una pausa per dargli il tempo di
rispondere, ma non disse nulla.
«Per estensione» ripresi, «se il vostro dibattito dovesse rivelarsi
inconcludente, o insufficiente a convincere i nostri vescovi della
giustezza della tua causa e della posizione di quei Padri della Chiesa
di cui parli, allora io, e il mio popolo, continueremo a vivere
secondo le regole insegnateci dal vescovo Alarico e da uomini come
lui. Queste regole affermano che tutti gli uomini e tutte le donne
sono nati uguali agli occhi di Dio, ognuno dotato di forza propria,
ognuno con un compito da adempiere, e ognuno con la capacità
donata da Dio di riconoscere e discernere sia il Bene sia il Male e di
assumersi l'onere di scegliere tra i due. E tutti i cristiani accettano la
personale responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte,
davanti a Dio e attraverso l'esercizio del libero arbitrio.»
Germano rimase seduto eretto durante tutta la mia arringa,
fissandomi a occhi socchiusi, il mento annidato in una mano, il
gomito appoggiato al dorso dell'altro braccio piegato sulla cintola.
Quando ebbi finito distolse lo sguardo e lo fissò nel cuore del fuoco
morente.
«Avresti dovuto fare l'avvocato.»
«No, signore» replicai. «Io sono un soldato. Pelagio è avvocato a
sufficienza per me, e per il mio popolo.»
«Mmh.... Sai che è morto?»
Annuii, senza dire nulla.
Germano si alzò in piedi. «Merlino, potrei rispondere a quello
che hai detto, ma non lo farò, non ora. Le tue parole, e la semplicità
con cui le affermi, sembrano irrefutabili, lo so, e non intendo
condannare la tua chiara fiducia nella loro verità.» L'ennesimo
sospiro mi parve più una sonora raffica di fiato che proveniva fino
dalla pianta dei piedi. «Ma c'è molto più di quanto puoi immaginare.
Ed è per questo, naturalmente, che sono stato mandato qui.»
Mi sorrise e mi tese la mano. «Ancora una volta, Caio Merlino,
lascia che ti ringrazi per il tuo aiuto di oggi. Senza di esso, non
avremmo forse mai visto Verulamium, e per molti altri anni non ci
sarebbe stato nessun dibattito. Devo andare adesso, e ridiventare
vescovo, abbandonare armi e armatura e pregare che l'umiltà mi
fortifichi nella grazia per affrontare il compito che mi aspetta.» Esitò
per un istante. «Parleremo ancora di tutto questo, te lo prometto.»
Rimasi accanto al fuoco e lo guardai entrare nella tenda che era
ovviamente la sua, e da quel momento in poi non vidi più Germano
il legato. Da quel momento in poi fummo la scorta di Germano
l'Ecclesiastico.
XXXIV.
Trovarmi a Verulamium mi disturbava profondamente.
Avevo la stessa sensazione aliena di meraviglia e di terrore che
avrei provato molto più tardi nella mia vita, al mio primo funerale
celtico in Ibernia, circondato da una ressa di gente che faceva
baldoria, mangiava e beveva e celebrava l'umanità del defunto,
mentre il cadavere giaceva rigido e serio in mezzo a loro. In una
macabra parodia della vita nella morte, Verulamium era una città la
cui dipartita veniva festeggiata, sicuramente in modo inconscio, dalla
maggior parte dei celebranti. Era un luogo spettrale, moribondo,
devastato e fatiscente, che sperimentava un ultimo guizzo di vita
frenetica e urbana grazie alle folle che erano discese su di esso e
intorno a esso, attirate da Germano e dai suoi vescovi e
dall'importanza dell'occasione.
La prima incongruenza che notai furono gli edifici. Alcuni erano
abitati, ma quasi tutti erano gusci, abbastanza belli all'esterno, ma
vuoti e sconquassati all'interno, che non offrivano nemmeno una
scintilla di calore o di comodità. Pensavo di conoscere bene quella
città dalle mie letture, e per tutta la vita me l'ero immaginata come
la città del vescovo Alarico. Nella mia mente avevo sempre visto
Verulamium come un luogo incantevole e maestoso, ricco eppure
bucolico e ben tenuto, con una popolazione sana e prosperosa.
Nella realtà era una landa desolata e in rovina, e ci vivevano in
pochi. Solo dietro le originali mura romane, un'enclave grande
quanto un accampamento fortificato - quella era stata la sua prima
destinazione - c'erano tracce di dimore permanenti e durature.
La moltitudine di gente che si accalcava per le vie di giorno, di
notte si accampava, per la maggior parte, nei campi intorno alla
città. La basilica e i bagni pubblici erano stati frettolosamente
restaurati per accogliere l'afflusso di delegati al dibattito, ma erano
dolorosamente inadatti a servire le orde che si erano materializzate
all'improvviso, allettate dalla promessa di grandiosi sviluppi, e gli
edifici vuoti diventarono presto latrine pubbliche, il cui fetore non
impiegò molto a permeare l'aria in ogni direzione.
Il grande dibattito si sarebbe tenuto nel vasto anfiteatro fuori
città che, come sapevo dai racconti di zio Varro, poteva ospitare più
di settemila persone sedute; ma quando arrivammo, con tre giorni di
anticipo sull'inaugurazione, dentro e intorno alla città c'era già più di
due volte quel numero di persone. C'erano chierici in abbondanza,
naturalmente. Ogni vescovo di Britannia in grado di partecipare era
presente di persona, con tanto di assistenti e accompagnatori.
Dapprima mi divertì - poi mi sconvolse - vedere quanto ampiamente
variavano nell'aspetto i diversi gruppi e sottogruppi di ecclesiastici.
Alcuni erano vestiti in modo semplice e dignitoso, come si confaceva
alla loro vocazione, ma molti, molti di più si comportavano come
uomini ricchi e facoltosi, indossavano abiti sontuosi e ostentavano
croci ingioiellate e calici d'oro.
E poi c'erano le folle. Molte erano persone sobrie e decenti,
abitanti della Britannia venuti come noi ad ascoltare e a vedere
discutere e decidere il loro destino. Altri, invece, ed erano in assoluto
i più numerosi, appartenevano a quel genere di persone sempre
attratte dalle grandi adunanze, bramose di ingrassarsi grazie alla
dabbenaggine degli sciocchi. C'erano venditori ambulanti e ciarlatani
e ladri e tagliaborse, meretrici e arpie e puttane, musicanti e
cantastorie, attori e cantanti e indovini. C'erano mercanti di vini e
birra e idromele e cibo di ogni tipo.
In nessun luogo c'erano custodi dell'ordine. E il risultato era il
caos.
Dal giorno del nostro primo incontro avevo scambiato sì e no
una decina di parole con il vescovo Germano. Per tutta la durata del
nostro viaggio insieme verso nord, si era tenuto in disparte ed era
tornato a essere vescovo, trascorrendo il suo tempo in preghiera e in
contemplazione, e preparandosi all'imminente dibattito. Ci eravamo
divisi alla periferia della città il mattino del nostro arrivo: lui e i suoi
compagni si erano diretti all'interno per incontrare il resto del
seguito, e noi avevamo voltato verso est alla ricerca di uno spazio
vasto abbastanza per accamparci e poter comunque raggiungere
facilmente la città e l'anfiteatro.
Quella sera, però, poco dopo il tramonto, mentre il nostro
accampamento stava ritrovando la calma dopo il pasto serale, e io
mi stavo godendo con Lucano un fiasco di idromele alla luce del
nostro bivacco, Germano venne a farci visita, in veste di vescovo,
con tanto di tunica lunga e pastorale, accompagnato da un altro.
Parecchio sorpreso, perché non mi aspettavo davvero di
incontrarlo di nuovo, e men che meno di parlare con lui, diedi il
benvenuto a lui e al suo compagno, e chiamai Donuil affinché
servisse loro dell'idromele. Lucano fece subito per allontanarsi con
un pretesto, ma Germano lo invitò a rimanere, scusandosi invece per
l'interruzione. Si girò poi verso di me, indicando l'uomo che lo
accompagnava.
«Caio Merlino, non hai ancora incontrato il vescovo Patrizio di
Verulamium, anche se lui conosce tua zia, donna Luceia.»
Mi ricordai immediatamente. Quello era il vescovo che per
primo aveva portato a Camulod il prete pazzo di nome Remo,
anche se non potevo certo incolpare lui per la follia di Remo. Gli
strinsi la mano e gli dissi che avevo sentito mia zia parlare di lui, ma
mi trattenni dal dirgli che pensava che non valesse la metà del suo
predecessore. Era un vecchio grande e grosso, dall'aspetto
compiaciuto e ben nutrito, ma dai modi educati e inoffensivi. Li
presentai a Lucano, che aveva già visto Germano ma non gli aveva
mai parlato, e chiesi loro di accomodarsi sui due sgabelli pieghevoli
che Donuil aveva sistemato accanto ai nostri. Quando si furono
messi a loro agio accanto al fuoco e avemmo levato un amichevole
brindisi al tanto atteso evento, chiesi lo scopo della loro visita.
Fin dal loro arrivo mi ero accorto che Germano sembrava il
imbarazzo, ma non avrei potuto indovinarne la ragione. Aggrottò la
fronte e risucchiò le labbra come per togliersi di bocca un sapore
sgradevole e, quando parlò, le sue parole furono inequivocabili.
«Lo scopo della nostra visita, Caio Merlino» disse, «è sia sfacciato
sia imperdonabile.»
Scoccai un'occhiata a Lucano, che già mi stava guardando
sorpreso con un'espressione interrogativa. Mi rivolsi a Germano.
«Bene, vescovo, ti sei assicurato la mia completa attenzione.»
«Mmh...! Sei stato in città?»
Feci un cenno di diniego. «No, non ancora. Abbiamo montato il
campo.»
«C'è stato qualcuno dei tuoi uomini?»
«No, e non ci andranno fino a domani. Perché?»
Mosse la testa in un moto di disgusto. «Quel posto è in uno stato
di anarchia... di assoluta confusione... Migliaia di persone, di ogni
genere, senza rispetto per la legge e l'autorità, e nessun mezzo per
mantenere l'ordine, nessuno.»
Lo fissai, stupito. «Ce n'è così tanto bisogno?»
«Bisogno? Di ordine?» Era incredulo. «Come puoi fare una
domanda simile? Ci sono migliaia di persone più del previsto, e non
hanno né una sistemazione né latrine. Latrine, Merlino, il flagello di
tutti i comandanti sul campo. Il sudiciume ha già incominciato ad
ammucchiarsi ovunque, e lo sporco genera pestilenze, come ben sai.
Ma la cosa peggiore, per il momento, è la mancanza di cibo.
Nessuno ha preso alcun provvedimento per nutrire queste migliaia
di persone, che da giorni e giorni arrivano a sciami. Qualcuno è qui
da settimane. La maggior patte si è portata delle provviste, che però
sono già state consumate, perché molti pensavano di comprarlo qui
il cibo, e qui di cibo non ce n'è, o ce n'è poco. E il poco che c'è è
stato requisito da un gruppo di briganti...»
«Requisito? Come hanno fatto? Nessuno ha cercato di
impedirglielo?» Nel momento stesso in cui formulavo la domanda,
seppi che era una domanda sciocca. L'espressione di Germano e le
sue parole me lo dimostrarono.
«Merlino, sono bene organizzati, e perciò pericolosi e potenti. A
Verulamium abitano quattrocento anime. Un onest'uomo di nome
Michele funge da aedile, o sindaco. Quattro cittadini lo aiutano a
mantenere la pace in tempi normali. Adesso che i tempi a
Verulamium sono anormali, lui e i suoi quattro, seppure con il
contributo della mia scorta, non servono a niente. Questi ladri sono
organizzati, e apparentemente disciplinati, almeno in parte. Da
quello che ho saputo, si tratta di una sconclusionata banda di più di
cinquanta canaglie, probabilmente mercenari o peggio, attirati qui
dalla notizia del nostro raduno. Sono arrivati qualche giorno fa,
hanno fatto una stima della situazione, hanno visto l'opportunità e
preso il controllo del cibo disponibile servendosi della forza e delle
minacce. Mentre parliamo si preparano guai. Non tutti quelli che
sono qui riuniti sono pecore. Si è formato un nucleo di resistenza,
anche se in ritardo, e un confronto violento sembra inevitabile.
Prima dell'alba l'intera città potrebbe essere in fiamme. Morirà della
gente stanotte, Merlino, e con il passare del tempo e l'aumentare
delle cifre, lo stato delle cose si deteriorerà di più e più
rapidamente.» Fece una pausa e si schiarì la voce, con evidente
disagio. «Sono venuto a chiederti se useresti i tuoi uomini per
imporre l'ordine nella città. Ci sono gli uomini della mia scorta, ma
non bastano. Li metto a tua disposizione.»
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, ma non dubitavo di
una sola parola. Né dubitavo che i miei uomini fossero di cruciale
importanza per il benessere di chiunque, a Verulamium. Il dubbio
che subito mi aveva assalito concerneva il mio diritto di scaraventare
i miei uomini in un confronto che non li riguardava, un confronto
che quasi sicuramente sarebbe stato violento e sanguinosamente
brutale se si fosse svolto per le vie della città, cosa di cui invece non
dubitavo, in particolare se quelle stesse vie fossero state piene di
civili facinorosi. Guardai Lucano in cerca di sostegno, ma aveva la
testa china e fissava il fuoco. Guardai il vescovo Patrizio. Era
impassibile, il suo volto non tradiva nient'altro che preoccupazione,
non potevo sapere se per il mio dilemma o per la sorte della città.
Germano mi restituì serenamente lo sguardo.
«Dannazione, vescovo» dissi, lottando contro il panico crescente.
«Non posso ordinare ai miei uomini di irrompere nella città. Non ne
ho il diritto e nemmeno l'autorità. Sono qui con me in missione
diplomatica, nient'altro; per manifestare una presenza da parte della
nostra Colonia. Non ho il diritto di mettere in pericolo la loro vita
in una situazione come questa.»
«L'hai messa in pericolo per aiutare noi.»
«Era diverso. Eravate attaccati da predatori sassoni, barbari. In
quella città ci sono dei Britanni.» Scossi la testa, odiandomi. «No, non
posso ordinare una cosa del genere ai miei soldati.»
Annuì. «Comprendo la tua riluttanza.» Una lunga pausa, e poi:
«Potresti chiederglielo, però».
Lo fissai. «Come, chiederglielo? Di offrirsi volontari?»
«Sì.»
«E se rifiutano, come dovrebbero?»
«Allora rifiutano.»
Rimasi seduto in silenzio per molti lunghi momenti, fissando
senza vederle le fiamme del bivacco, con in mente un vortice di
possibilità. Quando rialzai gli occhi abbagliati dalla luce del fuoco,
avevo deciso. Chiamai Donuil e gli dissi di convocare gli ufficiali
davanti alla mia tenda. Aspettammo insieme in silenzio per il tempo
necessario. Quando tutti e tredici si furono riuniti appena oltre il
circolo illuminato dalla luce del fuoco, dissi loro di venire avanti, li
presentai a Germano, che già conoscevano, e a Patrizio, che non
avevano mai visto, e spiegai loro l'accaduto. Ascoltarono in silenzio,
e sempre in silenzio meditarono le mie parole. Non avevo fatto
niente per nascondere le mie apprensioni per la richiesta di
Germano, e mi ero spinto fino a sottolineare che non avevano
nessun obbligo. Quando pensai che avessero avuto il tempo di
riflettere, chiesi la loro opinione sul da farsi. Fello, il capo degli
esploratori, fu il primo a parlare.
«Non serve discutere, comandante. Dovremmo andare, Non
stanotte, se possiamo evitarlo... non senza aver dato una bella
occhiata in giro... ma c'è un lavoro da fare, e non possiamo starcene
qui seduti e lasciare che succedano queste cose. Se questi bastardi la
passano liscia qui, poi saranno da un'altra parte tra una settimana, o
tra un mese.» Si voltò verso Ciro Appio, il capo del primo
squadrone. «Che cosa ne dici, Ciro?»
Appio annuì. «Assolutamente corretto, signore» concordò
guardandomi negli occhi. «Non ce lo aspettavamo, ma non
possiamo ignorarlo. Non abbiamo altra scelta che andare là dentro e
mettere a posto le cose. Dovremmo anche organizzare delle battute
per procurare del cibo.»
Guardai gli altri. «Nessuno dissente? Qualcuno ha argomenti da
discutere?» Nessuno si mosse, e nessuno parlò.
«Benissimo, allora» continuai. «Ma il criterio che è stato applicato
a voi deve essere applicato anche ai vostri uomini. Non può esserci
coercizione. Questa è una faccenda solo per volontari. Radunate i
vostri uomini. Parlerò con loro non appena saranno tutti nell'area
del commissariato.»
Gli ufficiali si dispersero, e io mi rivolsi a Germano. «Ce l'hai
fatta, a quanto pare. Con gli ufficiali a favore, metà degli uomini
accetterà.»
Scosse la testa e sorrise. «No, Merlino, accetteranno tutti, e io te
ne sono grato... Te ne siamo grati.» Il vescovo Patrizio confermò le
parole di Germano.
Io ero già alle prese con la logistica, «Posso avere i tuoi dodici
Romani?»
«Naturalmente.»
«Bene, allora ecco che cosa faremo. Pello, il capo degli
esploratori, vorrà dare un'occhiata in città per valutare lo stato delle
cose. Io andrò con lui, ma non in uniforme. Credo che sarebbe un
gesto sovversivo. Inoltre, come è stato detto, se possiamo evitarlo
non manderemo là dentro i nostri uomini stanotte. Li metteremo
subito in allarme, in ogni caso, ma li terremo pronti a muoversi
all'alba, quando staranno quasi tutti dormendo. Così, saremo in situ
prima che qualcuno possa obiettare, e sarà tutto più facile. Nel
frattempo, fai in modo che la tua scorta di Romani, che sono già
stati visti da tutti, sia pronta a entrare a tirarci fuori stanotte in caso
di difficoltà. Puoi farlo?» Annuì. «Avrò anche bisogno di incontrare
l’aedile, Michele, e i suoi uomini. Dì loro che si facciano trovare
all'ora decima davanti all'ingresso principale della basilica. E gli altri
di cui hai parlato, quelli che stanno organizzando la resistenza, puoi
portarmi da loro?» Annuì ancora, senza tradire alcun segno di
acrimonia per il mio istintivo esercizio del comando. Cercavo di
pensare in fretta a tutto quello che poteva essere importante. Infine
scrollai il capo. «É tutto, per il momento. I soldati dovrebbero essersi
riuniti, ormai. Non appena saranno pronti, esporrò loro la mia
richiesta di volontari. Poi dovranno prepararsi a qualsiasi
eventualità. A quel punto, non ci sarà più niente a trattenerti qui,
vescovo Germano. Potrai andare a provvedere alle cose che ti ho
detto, e incontreremo i tuoi uomini davanti alla basilica, all'ora
convenuta. Frattanto avrò avuto il tempo di fare il giro della città e
di rendermi conto personalmente della situazione.»
Quando i soldati si offrirono volontari come un sol uomo,
Germano mi strinse il braccio, mi ringraziò ancora, e lasciò il nostro
accampamento.
Fu una notte lunga. Dopo avere perlustrato la città,
accompagnato da una scorta bene armata ma discreta, incontrai
Germano e il suo contingente di caporioni nel cortile della basilica
immerso nell'oscurità. Il vescovo aveva ragione. La morte violenta si
era già affermata per le vie di Verulamium: avevamo trovato diversi
cadaveri gettati alla rinfusa per le vie e i vicoli che avevamo
percorso. C'era una tensione quasi palpabile intorno al gruppo
furtivo che mi aspettava alla luce delle fiamme gocciolanti di sei
coppie di torce, e guardando le loro facce in ombra non ebbi il
minimo dubbio che quello che era già accaduto sarebbe stato
un'inezia se fosse scoppiata una scintilla in mezzo a quel materiale
infiammabile.
Le presentazioni furono brevi, e l'incontro incominciò con le
brutte notizie. I ladri, consapevoli del pericolo costituito dagli
organizzatori della resistenza, si erano chiusi dentro una casa robusta
addossata alle mura. Uno di loro era stato catturato, e prima di
morire, cadendo sbadatamente dall'alto di un tetto, si era premurato
di informare i suoi catturatori che un messaggero era già stato
inviato il giorno precedente a procurare rinforzi dal campo base dei
rinnegati a circa trenta miglia di distanza. Almeno altri cento di quei
buoni a nulla si stavano dirigendo a Verulamium, sbavando in
previsione delle ricchezze che avrebbero trovato, e ci sarebbero
arrivati prima dell'alba.
La notizia, per quanto sgradita, associata al sorprendente
numero di uomini comandati da quel gruppetto di caporioni, mi
liberò dal dilemma che mi tormentava. La mia cavalleria sarebbe
stata inutile in una battaglia per le vie della città, ma avremmo
potuto schiacciare i rinforzi in arrivo quando fossero stati a portata
di voce dalle mura cittadine. Avremmo così fiaccato lo spirito
combattivo della banda in attesa di essere rimpinguata a
Verulamium, specialmente se fossimo riusciti a impedire qualunque
sortita.
Lino, il più formidabile degli uomini che Germano aveva
condotto all'incontro, mi assicurò di avere quasi trecento uomini,
gente del luogo e visitatori, disposti a combattere con lui per
riconquistare le provviste requisite dai fuorilegge. Mi assicurò inoltre
che i suoi uomini potevano trattenere i briganti semplicemente
trasformando la loro casa fortificata in una prigione, sigillando ogni
via di uscita. Andai con lui per verificare che avesse il necessario
numero di uomini e che questi fossero effettivamente in grado di
mantenere la sua promessa. Poi tornai al campo e iniziai subito a
organizzare e a istruire i miei comandanti.
Sei brevi ore dopo l'incontro alla basilica, l'alba faceva capolino
all'orizzonte, ma i rinforzi ancora non si vedevano. Avevo lo
stomaco contratto dall'inquietudine, perché all'alba avrei dovuto
riportare gli uomini in città, lasciandomi il nemico alle spalle. Ben
conoscendo i pericoli dell'indugio e la necessità dell'immediata
efficacia, i miei ufficiali si erano radunati intorno a me, in silenzio sui
loro cavalli, in attesa della mia decisione.
Eravamo a meno di un miglio da Verulamium, sull'accesso da
nord-est, dove la strada si tuffava in una valle alla fine del tratto
diritto che partiva dai cancelli orientali. I miei uomini erano disposti
su entrambi i lati della strada, rivolti a nord-est. Al buio, su un
terreno sconosciuto, la nostra scelta del posizionamento era stata
piuttosto limitata, ma quella avrebbe dovuto essere un'azione
notturna, con il nemico ammassato sulla strada. Adesso, i miei
soldati sarebbero rimasti accecati, quando il sole fosse sorto in quel
cielo senza una nuvola. Sentii degli zoccoli avvicinarsi rapidi
sull'erba, e vidi il giovane Yerka, uno dei miei decurioni, arrivare al
galoppo e impennare il cavallo proprio davanti a me.
«Stanno arrivando, comandante, ma sono ancora molto lontani,
a più di due miglia sulla strada, e tutti a piedi. Fello ha dato la
notizia non appena i suoi uomini li hanno visti.»
La decisione era stata presa mio malgrado. Non aveva senso
rimanere lì in cima alla collina di fronte a una valle.
I nuovi arrivati si sarebbero dati alla fuga non appena ci avessero
visti alla luce dell'alba. Mi girai verso i miei comandanti.
«Non abbiamo niente da guadagnare a restare qui. Quella valle è
larga quasi un miglio. Scenderemo e la attraverseremo, al passo.
Quando raggiungeremo l'estremità opposta dovrebbe essere chiaro,
e il nemico dovrebbe essere a un quarto di miglio da noi.
Caricheremo su per la collina e oltre, metà delle nostre forze su
ciascun lato della strada, e la sorpresa dovrebbe essere completa.
Non ci scapperanno, e li avremo in pugno. Ci allargheremo e li
aggireremo sui fianchi, poi ci volteremo e li prenderemo da dietro,
con il sole alle nostre spalle. Poi li cacceremo quaggiù nella valle e ci
assicureremo che nessuno ne esca vivo. Non appena sarà finita, ci
raggrupperemo e torneremo a Verulamium. Adesso andate.»
Scesi nella piccola valle - che sembrava il letto asciutto di un
fiume poco più grande del ruscelletto che ci scorreva in quel
momento - percorrendo la strada tra i nostri due gruppi, e diedi il
segnale di fermarsi a meno di duecento passi dal margine
settentrionale della valle. Controllai a destra e a sinistra che le linee
fossero pronte, poi ordinai l'avanzata. Il rumore degli zoccoli dei
nostri cavalli si gonfiò come un tuono con l'aumentare della velocità,
e ben presto fummo in cima al pendio e superammo la collinetta in
fondo alla valle.
La mia valutazione era stata esatta. Le forze avversarie erano a
meno di un quarto di miglio dal bordo della valle quando ci
presentammo alla loro vista stupefatta, e le due estremità delle mie
formazioni si erano già distese in un abbraccio avvolgente prima che
mi rendessi ben conto di quello che ci stava di fronte.
Mi ero aspettato di vedere un centinaio di manigoldi che non
dubitavo si sarebbero fermati e sparpagliati in preda al panico. Ciò
che vidi, in realtà, fu una forza quasi uguale alla mia, ma di soldati a
piedi. E invece di farsi prendere dal panico si stavano già spiegando
in due compatte formazioni difensive a forma di diamante, irte di
lunghe lance dall'aspetto poco raccomandabile. Tutto si svolse in
fretta, molto in fretta, e io ebbi appena il tempo di lanciare un urlo
al mio trombettiere prima che fosse troppo tardi. Vidi la sua
espressione stupita mentre portava la tromba alle labbra e fermava il
cavallo. Anch'io tirai le redini della mia cavalcatura, e diedi a tutti il
segnale di fare altrettanto; lo squillante richiamo risuonò forte e
chiaro, e vidi la splendida e impetuosa carica dei miei uomini
vacillare e morire.
Meno di cinquanta passi restavano tra me e le forze adesso
schierate contro di noi. Fermo a cavallo, osservai e attesi che le mie
truppe si riorganizzassero, guidando i cavalli verso l'interno e poi
convergendo silenziosamente verso le forze nemiche finché la mia
posizione divenne un punto in un cerchio. Nella formazione nemica
c'erano quattro uomini a cavallo. Per molto tempo nessuno si mosse,
e un silenzio innaturale dilagò dentro e intorno al cerchio. Infine
spinsi avanti il mio cavallo, e Donuil, e forse il centurione Rufio, si
mossero dietro a me. Avanzai fino a coprire metà della distanza che
mi separava dai ranghi avversari, e lì mi fermai e aspettai. Le lance
nemiche ruotarono e si divisero, e i quattro uomini a cavallo
uscirono e mi vennero incontro. Ebbi il tempo di studiarli, e
individuai subito il loro capo. Era un uomo attraente, di bell'aspetto,
con enormi baffi spioventi alla moda celtica. Doveva avere circa
dieci anni più di me, ed essere quindi verso la fine dei trent'anni.
Portava un elmo conico di metallo, senza protezione per il volto, e
una corazza di cuoio trapunta di placche di bronzo, e cavalcava con
la schiena diritta, la testa eretta a mostrare il torchio d'oro massiccio
che gli ornava il collo. Gli altri tre stavano leggermente indietro
rispetto a lui. Uno era enorme, grande non meno di me; portava un
elmo di tipo romano, con un'alta cresta di crine e un guanciale di
bronzo che gli nascondeva quasi tutta la faccia, ma era più giovane
dei suoi compagni, aveva occhi azzurri e barba rasata. Gli altri due
portavano la barba intera.
Il capo si fermò alla distanza di un cavallo davanti a me, e con lo
sguardo percorse gli uomini schierati alla mia destra e alla mia
sinistra. Aveva evidentemente apprezzato la mia apparizione quanto
io avevo apprezzato la sua. Parlò in latino, con voce profonda e
gradevole.
«Chi siete? Romani?»
Feci di no con la testa. «Siamo Britanni, dall'Occidente.»
Alzò un sopracciglio. «Dove, in Occidente?»
«Un luogo di nome Camulod.»
Scosse lentamente il capo. «Non l'ho mai sentito.»
Annuii, accettando la verità della sua affermazione. «Lo sentirai.»
«Chi sei?»
«Il mio nome è Britannico. Caio Merlino Britannico. Chi sei tu, e
da dove vieni?»
Sorrise. «Io sono Vortigern, re di Northumbria. Nel nord-est.»
Uno dei suoi tre compagni avanzò al suo fianco. Lo ignorai, e tenni
gli occhi fissi su Vortigern. Quello era l'uomo che mio padre aveva
criticato. Il re del nord-est che aveva stretto un patto suicida con i
barbari.
Mantenni un tono di voce piacevole. «E perché il re I
Northumbria attraversa la Britannia meridionale con un esercito?»
Scoppiò in una breve risata, e provai simpatia per lui,
nonostante i dubbi che ancora nutrivo sul nostro incontro.
«Esercito?» schernì. «Questo non è un esercito. É una scorta, e non è
nemmeno la mia. Mi è stata offerta per buona grazia dal mio amico,
Giacobbe di Lindum.» Indicò l'uomo dai capelli brizzolati fermo al
suo fianco. Guardai Giacobbe di Lindum e gli rivolsi un cenno, che
mi restituì con uguale sobrietà.
«Ciò risponde solo a metà della mia domanda, sire» continuai.
«Non hai detto che cosa ti porta nel sud della Britannia.»
«No, infatti. E tu non mi hai detto perché mi hai attaccato, o
quasi.»
Scrollai le spalle. «L'attacco era predisposto, ma non contro di
voi. Stavamo aspettando... un nemico diverso.»
«Che genere di nemico?»
«Marmaglia, venuta a rimpinguare le file di una banda di ladri
che si sono barricati nella città alle nostre spalle.»
Si girò sul cavallo e guardò l'uomo dietro di lui, e tra loro passò
una sorta di segnale. Sentii un brivido di tensione, ma Vortigern mi
tolse subito dall'imbarazzo. «Credo allora che vi abbiamo risparmiato
il disturbo. Li abbiamo incontrati ieri, nel tardo pomeriggio. Hanno
cercato di approfittare della nostra avanguardia, senza rendersi
conto che dietro c'eravamo noi. Li abbiamo castigati, e i superstiti si
stanno leccando le ferite.»
Provai un grande sollievo, e lo dimostrai dicendo: «Allora esserci
incontrati qui è stato un piacere. Dove siete diretti?».
«A Verulamium, per il dibattito dei vescovi.»
Risi forte. «Benvenuto a Verulamium, re Vortigern, e benvenuti
tutti i tuoi amici. Ora, se vuoi fare abbassare la guardia ai tuoi
uomini, dirò ai miei di unirsi a loro, ed entreremo insieme a
Verulamium, dove ti presenterò al vescovo Germano, che è venuto
da Roma e di sicuro sta aspettando il nostro ritorno con una certa
ansietà.»
Mentre ci dirigevamo verso la città, spiegai ciò che era accaduto
a Vortigern e a Giacobbe di Lindum, e dal momento in cui le nostre
forze unite arrivarono in vista della città, i fermenti si placarono. Di
fronte alla minaccia dei nostri due eserciti, e in condizioni di
inferiorità numerica per più di sei contro uno, i briganti si arresero
immediatamente al vescovo Germano - non erano disposti a trattare
con nessun altro - chiedendo asilo e riuscendo a ottenere salva la vita
in cambio della restituzione delle provviste intatte. L'alternativa, alla
quale credetti senza difficoltà riconoscendo la loro disperazione, era
che avrebbero dato fuoco a tutto e sarebbero morti combattendo.
Malgrado lo scontento espresso dagli ausiliari di Lino, frustrati per
avere perso l'occasione di versare un po' di sangue, la loro proposta
fu accettata, e loro stessi furono banditi sotto pena di morte. Le
provviste rubate vennero restituite ai legittimi proprietari, e
organizzammo regolari battute di caccia e di foraggiamento per
procurare cibo sufficiente per tutti.
Solo molto più tardi quello stesso giorno ci ritrovammo insieme,
a crisi risolta, e ci furono varie occasioni di piacevoli ragionamenti e
conversazioni. Gli uomini di Vortigern, o piuttosto di Giacobbe di
Lindum, si erano accampati vicino ai miei, e dietro invito di
Vortigern mi ero recato, con i miei ufficiali, a spartire con lui buon
cibo e buon vino.
Durante la serata mi ritrovai da solo con il vescovo Patrizio, e ne
approfittai per chiedergli notizie del prete di nome Remo. Patrizio lo
ricordava abbastanza chiaramente, ma non lo conosceva bene.
Avevano viaggiato insieme fino a Camulod, la zona occidentale più
lontana che Patrizio avesse mai visitato. L'aveva incontrato dopo
essersi fermato da un vescovo confratello nell'ormai derelitta città di
Isca Dumnoniorum nel sud-ovest, mentre si stava dirigendo a nord,
verso Camulod, solo per rendere i suoi omaggi a mia zia, della quale
aveva tanto sentito parlare da amici vescovi che la conoscevano fin
dai tempi del vescovo Alarico. Remo l'aveva accompagnato a
seguito di quell'incontro casuale. Proseguì dicendomi di avere
appreso, solo poche settimane prima in una lettera del suo amico di
Isca, che un prete di nome Remo era stato ucciso in quella città dopo
essere stato sorpreso a picchiare a morte una giovane donna. Ancora
visibilmente sconvolto da un simile comportamento e da una simile
morte, si domandava se potesse essere lo stesso prete. Io, sbalordito
dalle implicazioni della sua storia, gli raccontai per intero la
disavventura di Cassandra, ed egli mi promise di pregare per
entrambi.
Poi lo lasciai e mi allontanai per rimanere solo con il cuore che
mi batteva forte in petto. Remo aveva ripetuto il suo crimine, ed era
morto per esso, e ciò significava che Uther era innocente, assolto, e
io ero libero da dubbi e agonie. Sempre che, naturalmente, quel
prete morto fosse lo stesso Remo!
Non appena fossi tornato a casa avrei svolto indagini presso il
vescovo di Isca. Di certo non potevano esistere due preti di nome
Remo che camminavano con l'aiuto di un bastone!
XXXV.
Quella sera tardi andai a cercare Lucano per metterlo a parte
delle rivelazioni di Patrizio, ma prima che potessi trovarlo mi sentii
osservato. È una strana sensazione, quasi impossibile da descrivere,
ma quando la si prova, quando ci si sente addosso gli occhi di
qualcuno, non ci si può sbagliare. Mi fermai a metà di un passo,
tentando di decifrare l'origine delle mie percezioni, poi mi voltai
lentamente e vidi una figura in piedi nell'ombra, che mi osservava.
Strizzai gli occhi, cercando invano di penetrare l'oscurità e di
scorgere qualcosa di più di quella sagoma nera. «Chi va là?» dissi.
«Chi sei? Vieni fuori, dove posso vederti!»
La figura avanzò alla luce; il cuore mi balzò violentemente in
gola, mi mancò il respiro e rischiai di soffocare. Stavo guardando,
sbalordito e incredulo, me stesso! E "me stesso" mi fissava con occhi
di fuoco. Ammutoliti, persi entrambi nello sbalordimento e
nell'incredulità, ci avvicinammo lentamente uno all'altro.
L'apparizione che mi stava di fronte era diversamente abbigliata, ma
per altezza, costituzione e aspetto mi somigliava perfettamente.
Parlai per primo. «Chi sei, in nome di Dio?»
Sembrava riflettere se rispondermi oppure no. «Ambrogio.
Ambrogio di Lindum. E tu chi sei?»
«Merlino Britannico.»
«Allora eri tu! Ci siamo incontrati questa mattina. Cavalco con
Vortigern.»
Iniziò a muoversi lateralmente, intorno a me, esaminandomi
dalla testa ai piedi, e io feci lo stesso, così che per un poco ci
girammo attorno come lottatori. Lo riconobbi: era il guerriero alto
con l'elmo che cavalcava dietro a Giacobbe.
«Ambrogio di Lindum?» Frugavo nella mente alla ricerca di una
spiegazione per quella strabiliante somiglianza, e mi dicevo che
coincidenze come quella - una sorprendente somiglianza tra
completi sconosciuti - potevano capitare, e in effetti capitavano. Ma
continuavo a vedere la tozza corpulenza, le gambe corte e storte, la
faccia quadrata e rubizza e la barba brizzolata dell'unico altro uomo
di Lindum che conoscevo. «Sei il figlio di Giacobbe di Lindum?»
Scosse la testa. «No. È mio zio.»
«Il fratello di tuo padre?»
«No.» Un'altra scrollata di capo. Continuò, sottoponendomi
quasi a uno scrutinio: «Giacobbe è il marito della sorella di mia
madre. Mio padre era un Romano. Morì prima che nascessi. Il suo
nome era Ambrosiano... Marc...».
«Marco Aurelio Ambrosiano!» Il nome mi esplose nella mente e
sulle labbra come un fulmine, e d'un tratto seppi con assoluta
certezza con chi stavo parlando.
Spalancò gli occhi per lo stupore. «Come potevi saperlo?»
Gli voltai le spalle, e mi presi la testa tra le mani, colto alla
sprovvista da una tempesta di emozioni contrastanti; disperazione
mista a esaltazione, e altri sentimenti troppo nuovi e repentini
perché potessi analizzarli o definirli, minacciavano di travolgermi.
Era mio fratello! Il mio fratellastro! Mio padre aveva avuto un altro
figlio! Ed era morto senza saperlo! L'improvvisa rivelazione mi diede
le vertigini, i sensi quasi mi abbandonarono e caddi su un ginocchio,
incapace di mantenere l'equilibrio. In un attimo si inginocchiò
davanti a me, mi afferrò per una spalla, mi rivolse parole piene di
preoccupazione.
«Ti senti male? Che cosa c'è? Lascia che ti aiuti.»
Mi aggrappai al suo braccio e, malgrado la confusione, intuii la
forza di quei muscoli; mi rialzai lottando per non barcollare e cadere
ancora. Mio fratello! Sbucato dal nulla, senza preavviso, senza che
l'avessi pensato e cercato... ma non senza che l'avessi desiderato, e
questo lo sapevo con assoluta e stupefacente chiarezza. Ma adesso
che cosa dovevo fare? Che cosa potevo dirgli? Come potevo dirgli
che cosa aveva trovato, davanti a chi si trovava? Come faceva un
uomo a dire a un altro uomo una verità come quella? Di certo non
alla sprovveduta, non potevo pensare di spiattellare tutto quanto
senza prepararlo in qualche modo. Di fronte all'inattesa, sicura
conoscenza dell'infedeltà della madre, un uomo poteva uccidere - e
giustificatamente - il latore di tale notizia. Sapevo anche, al di là di
ogni dubbio, che dovevo allontanarmi immediatamente da
Ambrogio di Lindum, armeno per il tempo sufficiente a vagliare i
miei pensieri e a scendere a una sorta di compromesso, a stabilire un
modo per informarlo, per accoglierlo senza essere troppo
precipitoso e senza causare più dolore del necessario. Né mi sfuggiva
l'ironia di una simile "accoglienza": non mi avrebbe ringraziato, non
subito. La mia accoglienza poteva essere l'accoglienza più sgradita di
tuttala sua vita. Non mi passò nemmeno per la mente, però, di non
dirglielo; nel mio cuore e nella mia mente non c'era animosità né
astio verso di lui. Ma dovevo andarmene subito, e quanto più
lontano da lui tanto meglio.
Lo ringraziai per l'aiuto e mi scusai, adducendo come pretesto
una nausea improvvisa per qualcosa che sicuramente avevo
mangiato; lo lasciai lì, perplesso, e me ne andai a cercare
l'avvolgente anonimità del buio oltre i fuochi del campo.
La notte era fredda ma piacevole, e quando i miei occhi si
furono abituati all'oscurità camminai in fretta, a lunghi passi che mi
distendevano le gambe e mi obbligavano a fare attenzione a dove
mettevo i piedi, e che permettevano ai tumultuosi pensieri dentro la
mia testa di scatenarsi, vorticare e capriolare, di cercare il loro giusto
livello nelle acque alluvionali della mia mente, roboanti e
turbolente, violente e fragorose e che solo lentamente,
gradatamente e inevitabilmente si placarono e addolcirono al punto
in cui dal loro caos potei ricostruire l'ordine. Rammentai la storia che
mio padre mi aveva raccontato, e la tragica incompletezza della sua
conoscenza: per tutta la vita aveva ignorato che quella illecita
comunione notturna con la "donna del sogno" che l'aveva usato e
ripagato quasi con la morte, era sfociata in un figlio che era
l'immagine del suo ignoto genitore, un soldato il cui solo
portamento - come l'avevo visto al fianco di Vortigern.- avrebbe
gonfiato d'orgoglio il petto di mio padre e del suo.
Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente, ebbi il tempo
di stupirmi delle reazioni che questo Ambrogio aveva suscitato in
me, di dirmi con mestizia che non avevo motivo di attribuirgli tante
doti. Non sapevo niente di lui, se non quello che avevo visto dal
nostro unico brevissimo incontro, e conoscevo bene la follia di
riporre troppa fiducia, troppo presto, in qualunque uomo. Eppure
sapevo di potermi fidare del mio istintivo giudizio degli uomini,
fossero anche completi sconosciuti. Troppe volte la mia vita era
dipesa da quella capacità per dubitarne adesso. Ambrogio doveva
essere in tutto come sembrava, ed ero certo, intimamente e
profondamente, che sarebbe venuto il giorno in cui io e lui saremmo
stati fratelli in ogni senso della parola.
Quando smisi di camminare avevo superato di molto i confini
dell'accampamento. Rimasi a lungo in mezzo a un prato, a fissare la
miriade di stelle vorticanti e spiraleggianti nel cielo senza nuvole, a
lasciare che la mia mente si vuotasse, e poi a ricordare che una notte
ai tempi del padre di mio nonno, una di quelle stesse stelle era
precipitata sulla terra, portando nel mondo degli uomini la pietra
del cielo ed Excalibur.
Si chiamava Ambrogio, Ambrogio Ambrosiano, era fiero del suo
sangue romano, ma si trovava nell'errore e nell'ignoranza. Il suo
vero nome era Britannico, Ambrogio Britannico, figlio di Pico
Britannico, figlio di Caio Britannico, ultimo di una lunga stirpe di
Aquile. Era, o avrebbe dovuto essere, come me principe di Camulod,
alla pari con me e con Uther. Mi si accapponò la pelle. Forse questo
era l'uomo che avrebbe impugnato Excalibur! Forse era lui che,
secondo zio Varro, io avrei riconosciuto tra e sopra a tutti gli altri, il
Campione la cui venuta era stata tanto sognata. Possedeva sangue di
Caio Britannico; forse ne possedeva anche la lungimiranza.
Faticando a contenere l'eccitazione, mi voltai a guardare le luci
dell'accampamento; ero troppo lontano per vedere chi si muoveva
al loro chiarore, ma mi emozionava fino alle ossa sapere che una di
quelle forme in movimento era mio fratello, Ambrogio Britannico.
Mi resi lentamente conto che il Grande dibattito era ormai diventato
quasi insignificante per me, perché era stato usurpato dal
comandamento più imperioso di tutta la mia vita: il bisogno di trarre
in disparte, informare, abbracciare e conoscere mio fratello.
Riconquistai la calma, imbrigliai saldamente il cuore, e tornai
all'accampamento, per trovarlo e condurlo in un luogo appartato
dove avrei potuto dirgli tutto ciò che doveva sapere.
Al mio ritorno, però, Ambrogio non era rintracciabile. Il campo
di Vortigern era pieno dei rumori del cameratismo e del
festeggiamento, ma mio fratello non era seduto in nessuno dei
gruppi che si erano riuniti intorno ai fuochi. Infine, dopo il mio
secondo infruttuoso giro, mi avvicinai di nuovo al convegno
principale, fracassone e rilassato, di ufficiali e chierici che
informalmente si attardavano in mezzo al grappolo di grandi fuochi
fuori dalla spaziosa tenda di Vortigern. Pochi si accorsero del mio
arrivo, e mi diressi subito al gruppo che comprendeva lo stesso
Vortigern, Lucano, Fello, Ciro Appio, Giacobbe di Lindum e parecchi
altri a me sconosciuti. La vista di Giacobbe mi fece riflettere, e per
non farmi vedere da lui cambiai direzione e girai intorno al gruppo
fino a trovarmi dietro di lui, fuori dal cerchio di luce del fuoco.
Anche lui, come Ambrogio, mi aveva visto solo in armatura,
anonimo sotto l'elmo pesante. I miei capelli biondi e la mia arcana
somiglianza con suo "nipote" potevano turbarlo e suscitare
prematuramente quel genere di speculazioni che sapevo di dover
evitare finché non avessi parlato con Ambrogio.
Quando mi ero avvicinato, Fello stava dicendo qualcosa, e
adesso proprio Giacobbe gli rispondeva con voce incalzante,
cercando di riconoscere e tuttavia di confutare qualsiasi cosa avesse
detto Fello. Gli occhi di tutti, Vortigern incluso, erano puntati su
Giacobbe, e mentre scrutavo i volti dei presenti, senza trovarvi
Ambrogio, con un orecchio ascoltavo la conversazione.
«...la stessa, quando ne ho sentito parlare la prima volta. La mia
reazione è stata esattamente la stessa. Sciocco, ho pensato. Stupido e
pericoloso e irresponsabile. Questi sono stati i miei primi giudizi. Ma
è stato più di dieci anni fa, prima che conoscessi Vortigern, e prima
che conoscessi la gente che aveva introdotto nelle sue terre. Da
allora ho cambiato idea. Adesso li conosco, li conosco tutti, e posso
accettare quello che sta accadendo... Non sono completamente
tranquillo, devo ammetterlo, ma in confronto all'alternativa, non c'è
molto che io possa dire con sicurezza per dimostrare che ha torto.
Insomma...»
«Ma deve avere torto!» disse ancora Fello, rivolgendosi a
Vortigern. «Non sei disposto a riconoscere, re Vortigern, che nel tuo
modo di pensare esiste la possibilità di un grave errore? Sono dei
barbari, in fin dei conti... Barbari proprio come quelli dai quali,
grazie al loro aiuto, stai cercando di proteggerti. Le loro origini, i
loro usi, la loro mentalità sono estranei al nostro sistema di vita.»
Vortigern, con il bel volto guastato dall'ombra di un cipiglio,
fissava Fello negli occhi. Avendo compreso di che cosa stavano
discutendo, mi sedetti non visto all'estremità di un tronco, ben
nascosto da tutti dalle ampie spalle dell'uomo che mi stava davanti.
Ricordavo chiaramente che mio padre aveva parlato di re Vortigern:
di come stesse tentando la sorte permettendo a mercenari stranieri di
insediarsi sulle sue terre, pagando la loro protezione con delle
piccole proprietà e quindi garantendo loro un punto d'appoggio e
un futuro in Britannia. Una politica accettabile, aveva sottolineato
mio padre, se solo avesse potuto assicurarsi che quegli stessi barbari
non avrebbero desiderato, in futuro, condividere la recente libertà,
la ricchezza e le ricompense con amici e famiglie, vicini e parenti
ancora in lotta per la sopravvivenza oltremare. Un giorno, aveva
predetto mio padre, i nuovi arrivati si sarebbero sollevati in forze, e
per allargarsi avrebbero preteso altra terra, e per ottenerla
l'avrebbero tolta ai loro ospiti.
In silenzio attesi come gli altri che Vortigern parlasse, ammirando
lo sforzo con cui controllava il comprensibile desiderio di tirare il
collo a Fello. Infine si schiarì la gola e parlò, con voce chiara, quasi
monotona per l'assenza di enfasi, e con le labbra arcuate da un
sorriso benevolo.
«Potrebbe effettivamente esserci la possibilità di un errore nel
mio pensiero, mastro Fello, ma Giacobbe ha parlato di alternative, e
io vorrei chiederti di considerare che in alternativa io avrei potuto
non dedicare affatto il mio pensiero a questa faccenda...» Le sue
parole rimasero come sospese, vibranti per un attimo nel silenzio.
«Sarebbe meglio non pensarci, e di conseguenza non fare niente?
Aspettare, e stare a guardare mentre le mie terre e il mio popolo
vengono aggrediti e devastati da un'interminabile epidemia di
razziatori da ogni dove?» Scosse la testa, con calma. «No. Posso
assicurarti che questo sarebbe successo, per anni ormai, se non avessi
fatto niente. Perché noi, il mio popolo e io da soli, eravamo
impotenti di fronte agli assalti che ci minacciavano ancora prima
della partenza delle legioni.»
Malgrado avessi i miei dubbi, mi ritrovai a encomiare la dignità
di Vortigern, il suo decoro e la sua totale assenza di irritazione.
Continuò a parlare, osservando le facce di tutti quelli che gli stavano
intorno.
«Dovete capire, tutti quanti, che questa gente che ho... reso
partecipe... è venuta perché l'ho invitata. Non erano invasori; non
erano pirati e nemmeno selvaggi. Sono andato io a cercarli, nella
loro terra, e ho chiesto loro di venire. Le loro flotte hanno reso
nuovamente sicuri i nostri mari, e i loro soldati precludono i nostri
territori agli invasori da nord. Il loro capo Hengist era mio amico
d'infanzia. È mio amico ancora adesso. Lo conosco bene, conosco lui
e la sua gente, e li rispetto. E mi servo di loro in un modo che riesce
vantaggioso per entrambe le parti. Abbiamo dato della terra in
cambio della loro abilità nel combattimento e della loro assistenza
nel proteggere ciò che è nostro. So che sono forestieri e barbari, ma
l'interesse comune nel proteggere ciò che possediamo insieme
condurrà alla prosperità di entrambi i popoli. C'è una parola greca simbiosi - che descrive questa situazione. Due specie diverse, con
esigenze completamente diverse, coesistono in armonia e con
reciproco beneficio. Questo abbiamo ottenuto in Northumbria, e sta
funzionando bene.»
Dopo il sorprendente discorso di Vortigern, i suoi ascoltatori
assimilarono in silenzio il significato delle sue parole.
Fello scosse la testa. «Ebbene, re Vortigern» disse, «non ho mai
sentito parlare della tua simbiosi, ma so che cosa secondo me ha
senso e che cosa non ce l'ha. Questa storia con i barbari mi sembra
come dormire con una vipera nel letto. Meglio il tuo letto del mio.»
Si schiarì la voce, e scosse di nuovo la testa. «Non voglio offenderti.
Ho condiviso il tuo fuoco e il tuo cibo e le tue bevande e non ti
combatterò con parole che non desideri ascoltare. I tuoi barbari
sono affar tuo, e le tue terre si trovano lontano a nord-est, mentre le
nostre terre sono a sud-ovest. Prego che la tua avventurosa impresa
abbia buon esito, ma spero di non vedere mai i tuoi "alleati" vicino a
Camulod.»
Vortigern sorrise e si alzò, facendo così alzare tutta la sua gente.
«Non li vedrai, amico Fello, ma forse verrà un giorno in cui tu e i
tuoi potreste essere felici di seguire il nostro esempio. Per ora ti
lascio con la tua afflizione, e libero di esprimere la tua opinione
senza timore di offendermi. Buona notte.»
Si girò ed entrò nella sua tenda, e al suo saluto i gruppi dei suoi
uomini intorno ai fuochi si sciolsero. Mi alzai in fretta e me ne andai
prima che qualcuno notasse che ero rimasto seduto nell'ombra, e
mentre attraversavo l'accampamento diretto a un altro fuoco vidi
Ambrogio davanti a me. Chiamai il suo nome e gli feci un cenno, in
modo che .mi aspettasse. Aveva ancora quell'espressione
leggermente stupita, quasi ostile. Mi fermai vicino a lui, tanto vicino
che allungando un braccio avrebbe potuto toccarmi.
«Tu e io dobbiamo parlare. Vuoi camminare con me?» Annuì, e
camminò al mio fianco attraverso le file di tende, fino al prato dove
mi ero fermato a riflettere. Quando ci fummo allontanati dal
bagliore dei fuochi dell'accampamento, i nostri occhi si abituarono
all'oscurità, e la luce della luna gibbosa nel cielo sereno bastò a
illuminare i nostri passi fino a un gruppo fitto di grossi massi al sicuro
da orecchie indiscrete.
«Qui siamo lontani a sufficienza.»
«Lontani a sufficienza per che cosa?» Nel tono della sua voce
c'erano cautela, curiosità, e un pizzico di ostilità latente.
«Perché possiamo parlare senza che qualcuno ci senta.»
Mosse la testa in un gesto teso e controllato, come per scacciare
una mosca, o un insetto fastidioso. «Perché dovremmo avere paura,
o dovresti tu avere paura che qualcuno ci senta?»
«Perché ho cose da dire solo per le tue orecchie.»
Si guardò intorno, si appoggiò contro un masso, e incrociò le
braccia davanti a sé. «Ebbene?»
Mi allontanai leggermente da lui, e guardai verso i fuochi
lontani. I prossimi momenti sarebbero stati molto importanti.
«Dimmi di tua madre. Come si chiama?»
«Budicca» disse, e nient'altro. Il nome mi sorprese.
«Budicca? Come la regina guerriera?»
«Sì.» Non c'era traccia di leggerezza in lui. «Mia madre discende
direttamente da Budicca, la regina degli Iceni.»
«Attraverso trecento anni di storia?»
Mi guardò inarcando un sopracciglio come faceva mio padre, e
come faceva suo padre prima di lui, e per un attimo pensai che non
mi avrebbe risposto. Poi disse: «Sì, attraverso trecento anni di storia.
Lo trovi strano? Il nostro sangue è puro, immisto e integro.»
«Ma hai detto che tuo padre era un romano.»
«Un'eccezione alla regola. Ce ne sono stati altri, ma in complesso
non molti. Gli Iceni di oggi sono ancora gli Iceni che combatterono
le legioni di Cesare. Gli stessi che misero a fuoco la città di
Camulodunum e quasi ripresero questa terra dalle mani di Roma.»
«Ma oggi non vi chiamate Iceni.»
Scosse la testa, sul suo volto apparve l'accenno di un piccolo
sorriso. «Nemmeno allora. Erano i Romani che ci chiamavano con
quel nome.»
«Naturalmente» dissi imitando il suo sorriso. «Dov'è tua madre
oggi?»
La sua faccia si indurì in una maschera. «Perché vorresti saperlo?»
Mi strinsi nelle spalle. «Semplice curiosità. È a Lindum?»
«No.» Il brusco diniego fu accompagnato da uno scatto della
testa. «Non so dove sia. Non ho mai conosciuto mia madre. Sono
stato cresciuto da sua sorella, Gwilla, e da Giacobbe, suo marito.»
Era chiaro che non aveva altro da dire, ma non potevo accettare che
la sua conoscenza fosse così incompleta.
«Hai detto che non sai dove si trova, non che è morta. É quindi
viva?»
«Te l'ho detto, non lo so. Non lo sa nessuno. Mi ha lasciato con
sua sorella quand'ero bambino ed è scomparsa. Nessuno l'ha più
vista.»
«Capisco. E tuo padre è morto prima che tu nascessi?»
«Sì.»
«E adesso quanti anni hai, ventotto?»
«Come fai a saperlo con tanta sicurezza?» chiese, scuro in volto.
Sorrisi. «Perché hai sei mesi meno di me, e io ho ventinove anni.»
Fece per parlare, ma lo zittii con un cenno. «Ambrogio» continuai,
«devo raccontarti una storia, e probabilmente non ti piacerà, ma
ascoltandola potrai giudicare da te stesso che è vera. Tutto ciò che ti
chiedo è di lasciarmi parlare senza interrompermi con domande o
dinieghi, perché se mi interromperai ci allontaneremo troppo dal
seminato, e la storia potrebbe non venire più raccontata. Ascolterai?
E non mi interromperai, anche se ti garantisco che non sarà facile?»
Si raddrizzò e premette forte le mani insieme, respirando a
fondo ed emettendo un fragoroso sospiro. «Sembra un esordio di
cattivo auspicio, ma sì, ti ascolterò senza interromperti, anche se ciò
che dirai mi farà venire voglia di ucciderti.»
«Spero che non ti venga una simile voglia» dissi, e iniziai. Gli
raccontai tutta la storia di Pico Britannico e della sua ferita, e del
modo in cui aveva ucciso il suo ospite, Marco Aurelio Ambrosiano.
Ci volle molto tempo, e prima che fossi a metà della storia,
Ambrogio mi girò le spalle e si appoggiò con tutto il suo peso al
masso dietro di lui, fissando l'oscurità e impedendomi di vederlo in
volto. Quando ebbi finito di parlare, tra noi si fece silenzio. Non feci
alcun tentativo per infrangerlo, sapendo per istinto che ne aveva
abbastanza della mia voce e delle mie parole e che, qualsiasi cosa gli
stesse passando per la mente, il significato della mia storia e lo
scompiglio in cui essa aveva gettato la sua vita l'avrebbero spinto a
reagire. Finalmente, dopo un lungo e assoluto silenzio, parlò senza
girarsi verso di me, e la sua voce mi arrivò da dietro le sue spalle.
«Così sia» disse. «Accetto e credo la tua storia. Mia madre era una
puttana e mio padre uno sciocco incapace e un assassino, e tuo
padre - che è improvvisamente mio padre l'ha ucciso. Li ha uccisi
entrambi, in realtà.»
Attesi, ma non disse altro, e mi resi conto con crescente
incredulità che aveva trascurato la maggior parte di quello che gli
avevo detto; non aveva preso in considerazione nient'altro che
l'unico aspetto che l'aveva colpito. Irritato malgrado la mia
intenzione di accettare qualsiasi sua reazione, sbottai: «Non giudico
tua madre! Non l'ho conosciuta, e non l'hai conosciuta nemmeno tu,
perciò nessuno di noi due può presumere di conoscere i suoi pensieri
o di contestare le sue ragioni. E suo marito, tuo padre come lo
chiami tu, era un vecchio, spinto dalla disperazione di un vecchio a
salvare il suo onore».
Si girò di scatto a guardarmi, con occhi fiammeggianti alla luce
della luna. «Quale onore? Mia madre e tuo padre si sono messi in
combutta per privarlo di ogni onore!»
Trattenni una replica indignata, e trattenni anche il fiato, prima
di parlare di nuovo. Allora scelsi le mie parole con cura, con il
desiderio di non dargli motivo di combattermi, e parlai con voce
calma e ragionevole.
«Ambrogio, non abbiamo ragione di crederlo... e l'evidenza
dimostra in ogni caso che non è vero.»
«L'evidenza!» La voce gli tremava per il disgusto e l'orgoglio
ferito. «Quale evidenza? A che cosa serve l'evidenza? É evidente sommamente evidente - che mia madre era una depravata. Le sue
azioni la condannano, di fronte a chiunque abbia orecchie per
ascoltare la storia della sua infamia...»
Tacque infine e io trattenni ancora il fiato, e quando ripresi non
tentò di interrompermi.
«Ascolta» continuai con maggiore dolcezza. «Ci ho pensato
intensamente da quando ti ho visto e ho capito che cosa doveva
essere successo...» Feci una pausa, soffrendo per la smania di aiutarlo.
«Hai detto che credi alla mia storia. Ebbene, se ci credi, allora devi
credere tutto. Non devi semplicemente ascoltare quello che ti fa
comodo. Devi esaminare l'intera storia, non soltanto le sue parti.»
«È ridicolo.» Le sue parole erano un distillato di amarezza. «Che
cosa c'è da esaminare? Ascoltarla significa crederci senza esitazione.
Quella donna - mia... mia madre - era una sgualdrina infedele. Senza
la sua infedeltà, non ci sarebbe stata nessuna storia da raccontare.»
«No, Ambrogio, ti sbagli. Non è così.» Il mio cuore aveva
accelerato i battiti, perché avevo visto il suo errore, e l'incongruenza
delle sue parole, e mi affrettai a dar voce al pensiero che mi era
balzato alla mente. «Se mio padre non l'avesse riconosciuta - per
purissimo caso - in quel mercato quando stava per imbarcarsi per
l'Italia, non ci sarebbe stata nessuna storia! Mio padre credeva fino a
quel momento di avere sognato, e nei sogni non c'è colpa né
peccato. Non avrebbe più pensato a quei sogni, e perché tuo padre
l'avesse aggredito nel sonno sarebbe rimasto un mistero, sfortunato e
inesplicabile. Solo avere visto quella donna di sfuggita, per fatalità,
cambiò tutto per sempre. E se ciò non fosse accaduto, la tua vita non
sarebbe cambiata.»
«Che cosa... che cosa vuoi dire?» Era adesso in preda
all'incertezza, spintovi forse dall'ordine delle mie parole. Levai la
mano a chiedere il tempo per poter pensare, perché stavo
esprimendo idee che non avevo mai pensato prima.
«Non sapremo mai con esattezza che cosa passasse per la mente
di tua madre, o che cosa motivasse il suo comportamento» dissi. «Ma
prova a riflettere...» Le mie idee correvano talmente veloci che non
riuscivo a dar loro voce. «Supponi... supponiamo, per quanto possa
sembrarti ridicolo, che tua madre avesse un amore sincero e
profondo per il suo vecchio marito. Non aveva figli. Non è così?
Solo una figlia adolescente. Eri tu il suo unico figlio?» Annuì,
perplesso. «Allora supponiamo che l'età lo rendesse incapace di avere
figli.
Non di portare a compimento l'atto, comprendimi, ma di
renderlo fruttuoso. Per quanto ne sappiamo, lui e sua moglie
potrebbero avere tentato per anni. Sei d'accordo?»
Annuì ancora, ma vedevo che era sconcertato e arrabbiato.
Perseverai nella mia idea, prima che potesse parlare. «Rifletti. Un
soldato sano e virile di nobile nascita, orribilmente ferito al collo e al
volto ma altrimenti integro e completo, va a vivere in casa loro.
Quest'uomo è costantemente afflitto dai dolori, e la sua faccia è
sempre coperta da pesanti bendaggi. Per la maggior parte del tempo
è cieco, sordo e muto, e sempre sotto l'effetto di forti narcotici
contro il male. Non vede, e sembra non rendersi conto della
presenza di nessuno, ma è sottoposto a un'attenta sorveglianza da
parte dei medici, dei domestici, della figlia dei padroni - lo sappiamo
perché mio padre ha parlato di lei - e probabilmente anche della
signora della casa. Adesso supponiamo ancora che in qualche modo,
forse ascoltando involontariamente i medici discutere tra loro del
paziente, venga a sapere che il soldato è sessualmente attivo, e che
sognando ha delle polluzioni notturne, come capita a uomini forti in
caso di astinenza. Non avrebbe potuto considerarlo con rimpianto,
quasi fosse uno spreco? Parlo seriamente, Ambrogio, e chi può mai
sapere quali pensieri passano per la mente di un altro? Forse l'ha
pensato per lunghe settimane, durante le quali la forza del soldato è
aumentata, anche se le sue ferite non sono migliorate... e forse, per
amore, o per disperazione, ha escogitato un mezzo per usare mutuare, si potrebbe dire - la forza naturale e traboccante di un
uomo, a lei completamente sconosciuto perché perennemente sotto
l'effetto delle droghe, a beneficio della forza languente di un altro
uomo, invece da lei profondamente amato?»
Allora mi interruppe. «Aspetta! Stai insinuando che mia madre
potrebbe aver fatto quello che ha fatto per amore di mio padre?»
«Sì.»
«Ma è osceno! Non ho mai sentito niente del genere...»
«Nemmeno io, ma ha senso quanto l'alternativa! Rifletti! Non
era ordinaria concupiscenza. Non c'era nulla di personale in quello
che ha sognato mio padre. Ricordava una visione, nient'altro !
Ricordava vagamente un'immagine notturna. Credere tua madre
capace di una simile meccanica impersonalità, di una libidine
scriteriata, autodistruttiva e aggressiva, significherebbe ritenerla
davvero un mostro, e dubito che lo fosse.»
«É una follia! Ho sentito abbastanza. Grazie per aver tentato di
rimediare alla spregevolezza di mia madre, anche se non so che cosa
tu sperassi di ottenere.»
«No, dannazione, ascoltami, perché questo è nuovo per me
quanto lo è per te, e nemmeno io so che cosa significhi, ma mi
sembra che abbia un senso. Non ho niente da guadagnarci. Tua
madre non è niente, anzi è meno di niente per me. Perché dovrei
cercare di migliorare i ricordi che hai di lei?»
«Già, questa è la verità!» La sua voce era stridente. «La donna che
stai provando a descrivere sarebbe stata capace di grande amore,
non è così? Grande tanto da abbandonare un bambino? Il frutto
della sua perfidia e della sua infedeltà!»
«O il ricordo del suo fallimento!» Mi fissò, come paralizzato.
«Non capisci? Non capisci che cosa avrebbe significato per lei? Cerca
di rimanere incinta, utilizzando una fonte disponibile che non
costituisce minaccia. E lo fa per un amore profondo e altruista...
altrimenti non avrebbe potuto farlo senza perdere ogni briciola di
umanità. Sa che la sua gravidanza esalterà il marito, che sa quanto
ella lo ami, e implicitamente si fida di lei. E poi qualcosa va storto.
Suo marito scopre quello che sta facendo, ma non il motivo... non la
verità. Sospetta il peggio... cospirazione e seduzione all'interno della
sua casa. Nel suo dolore, nel suo sentirsi tradito, cerca di annientare
l'autore del misfatto... ma ai suoi occhi, Ambrogio, l'autore del
misfatto non è sua moglie! Avrebbe potuto ucciderla impunemente
per adulterio, secondo la legge romana. Ha scelto diversamente. Per
quanto tentare un omicidio in casa propria fosse una pazzia, non ha
cercato di uccidere sua moglie. Ha scelto invece la parte innocente,
senza rendersi conto che non c'era colpa se non quella nata
dall'amore di sua moglie per lui. E nel tentativo è morto, lasciando la
moglie addolorata e incinta a portare la propria colpa e il figlio che
aveva provocato la sua morte. Te. Rammenta, è fuggita da quella
casa subito dopo la morte del marito, Mio padre non l'ha mai vista,
non l'ha mai conosciuta...» Quella frase rimase un momento in
sospeso, in mezzo a noi.
«E così ti ha abbandonato, ma non del tutto... non del tutto,
Ambrogio. Non ti ha lasciato morire sul ciglio di una strada
qualunque, come avrebbe potuto. Ti ha lasciato a sua sorella. Con la
sua famiglia, sapendo che come parte di quella stessa famiglia ti
avrebbero accettato. E ha lasciato credere che suo marito fosse tuo
padre. Solo allora è scomparsa, probabilmente in preda alla
disperazione e senza alcun desiderio di continuare a vivere. E
nessuno l'ha mai più vista, da allora... Adesso puoi dirmi perché mai
ti avrebbe abbandonato in quel modo, invece di lasciarti
semplicemente a morire da qualche parte?»
Scosse la testa, in silenzio, quasi rilassato, e io finii di dire quello
che dovevo dire, sapendo in cuor mio che la spiegazione che era
sorta dagli intimi recessi della mia mente era giusta.
«Semplicemente perché non poteva sopportare di vivere con te,
anche se tu eri innocente. Era una donna meravigliosa, Ambrogio, se
il mio ragionamento è corretto, e io credo che lo sia. Pensa a lei con
compassione, se puoi, e con affetto. Per amore di un uomo anziano,
e spinta da benintenzionata disperazione, ha intrapreso un cammino
disseminato di gravi rischi, e che avrebbe potuto darle ben poco
piacere. E da tutti questi generosi sacrifici è nata la tragedia. Suo
marito, per amore del quale aveva fatto tutto questo, è stato
ignominiosamente ucciso, credendola infedele e infrangendo la
sacrosanta legge romana dell'ospitalità. Ed è rimasta con te, come
monito quotidiano della sua colpevolezza. Marco Aurelio
Ambrosiano era il marito di tua madre, Ambrogio, ma non era tuo
padre. E ogni volta che tua madre ti avesse guardato l'avrebbe visto,
e avrebbe visto che il tuo vero padre - per lei nient'altro che un
mezzo - non era nulla ai suoi occhi e non sapeva nemmeno della sua
- e della tua esistenza. Tu e tuo padre eravate solo i procreatori della
sua colpa, gli strumenti da lei follemente usati per conseguire
l'indesiderata morte di suo marito. Grazie a Dio ti ha lasciato vivere.
Più di una donna ti avrebbe ucciso ancora in grembo.»
Senza più parole si rigirò a scrutare l'oscurità oltre le rocce, ma
non prima che vedessi lo scintillio della luna sulle lacrime che gli
rigavano le guance. Attesi, ma sapevo che non avrebbe detto altro, e
dopo un poco feci un passo avanti e gli posai una mano sulla spalla,
e la sentii contratta dalla tensione.
«Ascolta» gli dissi. «É tardi, e tu non hai bisogno di compagnia,
perciò me ne vado. Pensa a quello che ti ho detto. Tu sei mio
fratello, il figlio di mio padre, e hai una casa nella mia casa a
Camulod, se mai dovessi decidere di volerla. Parleremo ancora
domani, ma non cercherò di importi la mia presenza. Vieni a
cercarmi, quando sei pronto. Buona notte.»
Lo lasciai solo, in piedi tra i massi, e ritornai alla mia tenda, dove
giacqui sveglio a lungo.
XXXVI.
Era già metà mattina e di Ambrogio non avevo saputo niente,
anche se ero rimasto nei pressi della mia tenda, delegando a Ciro
Appio le mie consuete incombenze. Non avevo parlato né a Donuil
né a nessun altro dell'incontro con mio fratello la sera prima, e
Donuil mi osservava con sollecitudine ogni volta che mi credeva
ignaro della sua attenzione. Ma ero disposto ad aspettare. Ambrogio
poteva venire a cercarmi in qualunque momento. Ero certo che
avrebbe passato una notte insonne con tante cose da pensare, e
forse era rimasto a letto più a lungo del solito.
Era un bel mattino di primo autunno, l'aria annunciava frizzando
il prossimo arrivo dell'inverno, e il campo era quasi deserto; un terzo
delle nostre forze era in città, di pattuglia, e il resto era andato ad
assistere al dibattito. Ero seduto pigramente accanto al fuoco, e
ascoltavo il rumore aspro e stridente della cote che Donuil, dentro la
tenda, usava sul filo della mia spada, quando un'ombra mi cadde
addosso. Mi girai e vidi Lucano, con le spalle al sole, che mi
guardava.
«Buon giorno a te» mi salutò. «Che cosa c'è che non va?»
«Che non va? Niente al mondo, che io sappia.» Gli feci cenno di
unirsi a me. Si avvicinò, ma rimase in piedi. «Dove sei stato tutta la
mattina?»
Alzò le spalle. «Ho camminato, e lavorato. Uno dei nostri soldati
stanotte è caduto e si è rotto malamente una gamba. L'ho sistemata
e steccata, ma questa mattina ho dovuto rimettergliela a posto.»
«Era ubriaco?»
«No, è caduto da non so che scala, ma era sobrio.» Accantonò
l'argomento con un gesto e continuò: «Sono più preoccupato per te.
Che cos'hai? Oggi non hai fatto altro che ciondolare qui intorno.
Non è da te».
«Vero?» Sorrisi. «Penso, ecco tutto, e aspetto.»
«Aspetti che cosa? Caio Merlino Britannico non aspetta niente e
nessuno... almeno che io sappia. Perciò, che cosa sta succedendo?»
Risi. «Non sta succedendo niente, niente che debba preoccuparti.
Ti ho cercato ieri sera. Avevo parlato con il vescovo Patrizio, e
volevo dirti di Uther.»
«Di quel prete, Remo?» Annuii. «L'ho saputo. Ho parlato con
Patrizio dopo di te. Mi ha informato sull'argomento della vostra
conversazione.» Fece una pausa, e mi guardò con occhi indagatori.
«Dev'essere stato un grande sollievo sapere che i tuoi sospetti erano
infondati.» Il suo tono fece di un'affermazione una domanda.
«Infatti. Ho dormito bene, stanotte. Ho delle altre notizie per te,
su un'altra faccenda, ma dovranno attendere. Dove stai andando,
adesso?»
«Al dibattito. Speravo che venissi con me. L'inaugurazione
ufficiale c'è stata stamattina, e ce la siamo persa entrambi. Abbiamo
fatto un lungo viaggio per assistere a questo dibattito.»
«Sì, noi...» La mia voce si affievolì; vidi Lucano guardare oltre la
mia testa e seppi, dal modo in cui spalancò gli occhi e la bocca, che
cosa aveva visto. Mi girai e vidi Ambrogio accanto alla mia tenda, e
compresi che Lucano aveva subito un trauma. Nell'oscurità,
Ambrogio mi somigliava in modo sorprendente. Alla luce del giorno
l'effetto era accentuato. Avremmo potuto essere gemelli.
«Ah, Ambrogio!» Mi alzai subito in piedi. «Benvenuto. Lascia che
ti presenti a un mio amico, Lucano, il nostro superbo medico, che
però si definisce chirurgo.» Lucano aveva ancora gli occhi vitrei.
«Luca, questo è Ambrogio... di Lindum.» Non potevo dire altro,
finché non avessi conosciuto le sue intenzioni.
Ambrogio avanzò di un passo e si inchinò leggermente, un gesto
formale eppure cortese e amichevole. «Mastro Lucano, Caio Merlino
ti induce in errore, ma per eccessiva compitezza, e vedo che te ne
rendi conto da te stesso. Il mio nome è Britannico... Ambrogio
Britannico.»
Mi sfuggì un gran sospiro di sollievo. «Donuil» chiamai, «vieni
fuori a conoscere mio fratello.»
Seguì un momento di confusione e di stupore, mentre Donuil e
Lucano cercavano di comprendere la realtà di quel confronto, ma
promisi che avrei dato loro in seguito spiegazioni più approfondite.
Avevo intuito dall'espressione di Ambrogio che non era ancora
perfettamente a suo agio in quel nuovo ruolo. Chiesi agli altri di
concederci un po' di intimità, e immediatamente se ne andarono.
Condussi Ambrogio nella mia tenda e lo invitai a sedersi. Restammo
per un poco in silenzio, guardandoci l'un l'altro, apprezzando la
somiglianza.
«Vorresti qualcosa da bere?» Sentivo un improvviso bisogno di
metterlo a suo agio, ma scosse la testa e poi parve rilassarsi.
«Ieri sera... Ieri sera hai detto che avrei dovuto ringraziare Dio
perché mia madre mi aveva permesso di vivere...» Tentò di sorridere
e, malgrado il risultato fosse piuttosto malfermo, mi sentii meglio di
quanto mi sentissi da molte ore. «Sono venuto questa mattina a dirti
che sono d'accordo con te... e che invero ringrazio Dio.» Aveva le
lacrime agli occhi; parlò ancora, con voce appena un poco tremante.
«Merlino, ho pensato per tutta la notte a quello che hai detto, e ora,
conoscendo e riflettendo sulla tua stessa incertezza, credo che sia
vero. Da un lato sembra contrario alla ragione, ma dall'altro sa di
verità. Non lo sapremo mai con certezza, come hai detto tu. Lo so, e
mi dispiace, ma qui dentro sento che è vero!» E si batté un pugno sul
petto. «Ti ringrazio» proseguì, lottando per controllare le sue
emozioni. «Mi hai restituito mia madre.»
Deglutii. «Ti ho restituito molto di più, amico mio, e con
vantaggio di entrambi, perché adesso io ho un fratello quasi
gemello, e tu erediti un'altra vita: un nobile padre che non sapevi di
avere, un'intera tribù di parenti e una Colonia come non esiste
uguale su questa terra... Per non parlare di Uther Pendragon, che
attualmente non conosci, ma che ululerà di giubilo e indignazione
quando ti metterà gli occhi addosso. Ma avremo tante opportunità
per parlare, ora che ti stai adeguando all'idea. Intanto, stavo per
andare al dibattito con Lucano. Vuoi unirti a noi?»
Scosse il capo dispiaciuto, e si alzò in piedi. «Non posso, anche se
vorrei. Ho troppe cose da fare, e questa mattina ho oziato, ma ho
detto a mio zio tutto quello che tu hai detto a me, e lui conferma la
tua ricostruzione dei fatti. Ceni con me stasera?»
Mi si inarcò un sopracciglio sentendo che Giacobbe di Lindum
approvava la mia teoria, ma preferii non fare commenti. Sorrisi,
invece. «Con chi altro potrei anche solo pensare di cenare?
Volentieri. Verrai qui?»
Annuì. «Quando il dibattito per oggi sarà finito.»
Ci abbracciammo per la prima volta come fratelli, e andammo
ognuno per la sua strada, lui ai suoi affari, e io verso l'anfiteatro e il
Grande dibattito.
Dopo avere a lungo perlustrato la folla stranamente festosa che
riempiva l'anfiteatro, trovai Lucano in mezzo a un gruppo di uomini
seduti ognuno in disparte dagli altri. Ne riconobbi alcuni; sembrava
che solo loro, in quel vasto luogo, ascoltassero veramente il dibattito
che si svolgeva nell'arena. Lucano mi vide, e mi fece posto tra sé e il
suo vicino che era, notai sorpreso, nientemeno che re Vortigern,
sebbene quel giorno avesse un'aria tutt'altro che regale, intento
com'era al dibattito avvolto in un ampio mantello grigio.
Vortigern mi guardò e mi salutò con un cenno. «Merlino.»
Parlava a bassa voce. «Freddo, via dal sole.»
Ritornò con occhi e orecchie al dibattito, e io diedi di gomito a
Lucano. «Che cosa succede?»
«Tra non molto ne saprai quanto me.» Non mi guardò, e
torcendo la bocca disse: «Quel tizio ha appena iniziato a parlare, e io
mi sono già perso. Non ho idea di chi sia... uno dei nuovi discepoli
di Germano, che erano già qui quando siamo arrivati. Il vecchio che
ha parlato prima di lui dissertava sulle scoperte del Concilio di Nicea
riunito cent'anni fa da Costantino... Qualcosa sull'arianesimo e la
divinità del Cristo... Credo che si stesse difendendo da una
precedente accusa di arianesimo, ma non ne sono sicuro. È difficile
sentire con chiarezza. Quegli uomini sono chierici, non attori di
professione».
Aveva ragione. L'oratore attuale aveva una voce esile e querula
che non si sarebbe sentita dall'altra parte di un tavolo da pranzo. Da
dov'eravamo, seduti a venti passi di distanza in mezzo alla gente, era
quasi impossibile sentirlo, nemmeno con la massima concentrazione.
Per un poco tesi le orecchie alla sua voce gemebonda, tentando
invano di decifrare le parole, ma poi la mia mente divagò verso
Ambrogio e i cambiamenti che la sua vita avrebbe apportato alla
mia vita.
Quando con un sussulto disertai le mie fantasticherie e riportai la
mia attenzione allo svolgimento del dibattito, un altro uomo stava
parlando. Non mi ero nemmeno accorto del cambiamento, e
comunque non notai una grande differenza.
Avevo le natiche indolenzite. Cambiai posizione alla ricerca di
un po' di comodità, e il movimento attrasse l'attenzione di re
Vortigern, che mi guardò in tralice con l'ombra di un sorriso.
«Ti senti illuminato, mastro Merlino?»
«No, sire.» Gli sorrisi mestamente. «Sono annoiato, e perduto, e
incomincio a rimpiangere il lungo viaggio che ho affrontato con
tante elevate speranze. Non riesco a sentire la metà di quello che
dicono, e più della metà di quello che sento mi vola via sopra la
testa.»
«Sentirai meglio domani» disse Lucano, e Vortigern e io ci
girammo verso di lui.
«Come mai?» chiese Vortigern, strappando a Lucano un «Perché
domani non ci sarà nessuno tranne i vescovi. Guardate, questo è il
primo giorno e già più di metà della gente se n'è andata a fare altre
cose. Il rumore sta diminuendo anche adesso mentre parliamo. Non
so che cosa si aspettassero tutti, ma qui non c'è, qualsiasi cosa fosse.
Niente spettacoli, niente fasto, niente divertimento... solo una
riunione di ecclesiastici, che discutono astrazioni.» Mi guardò. «É per
questo che siamo venuti, no? Ecclesiastici che discutono astrazioni?»
Dovetti sorridere, malgrado la serietà della faccenda che stava
dietro la sua domanda. «Sì, Luca» risposi, «ma non avevamo previsto
per delle astrazioni un ambiente così astratto.»
«Mmh...! Mi pare di capire che avresti preferito delle
distrazioni.»
«No» obiettai con una risata, «non proprio. Ma avrei preferito un
po' più di cemento nell'impasto.»
«Oh!» Arricciò il naso disgustato dall'infelice metafora, ma
Vortigern rise forte.
Altra gente si girava a guardarci, chiedendosi quale potesse
essere il motivo di tanta ilarità, e Vortigern si alzò, facendo alzare
tutto il suo seguito. «Basta così» disse. «Sono annoiato anch'io. Stasera
chiederò a Germano di raccontarci l'accaduto. Adesso ho voglia di
farmi una bella cavalcata in campagna.» Si congedò con un cenno
cortese e se ne andò con i suoi cortigiani. Dopo pochi minuti,
Lucano e io lo imitammo, lasciando i vescovi alle loro polemiche.
L'accuratezza della previsione di Lucano non sorprese nessuno.
Dopo il deprimente e arcano argomento della prima giornata, poca
gente comune si ripresentò sulla scena del dibattito. Io assistetti ogni
giorno, per almeno un'ora o due, nel corso della prima settimana,
ma poi, con il crescere del mio disappunto per l'incapacità di
comprendere il senso delle questioni dibattute, la mia frequenza
diminuì in proporzione. E dovettero trascorrere due settimane, fino
alla vigilia dell'ultimo giorno, prima che avessi l'opportunità di
parlare ancora con Germano.
Il tempo si era fatto gradatamente più freddo, un giorno dopo
l'altro, e già si parlava di neve, sebbene sugli alberi le foglie fossero
ancora verdi, e mostrassero solo vaghe tracce di marrone rossiccio.
Spinta alla ricerca di un po' di calore dal freddo precoce della sera,
già all'inizio della seconda settimana la gente aveva iniziato a
radunarsi nelle provvisorie taverne che erano state allestite nelle più
vaste case abbandonate. Vie e vicoli erano tutti pattugliati dagli
uomini miei e di Vortigern, e in nessun luogo c'era aria di agitazioni
o di disordini. Al contrario, malgrado la recente costituzione e il
carattere temporaneo, erano ritrovi accoglienti, luminosi e allegri,
dove si vendevano cibo semplice - e talvolta non così semplice - e
nutriente, birra e idromele, e dove più di un visitatore scuoteva
ammirato la testa per l'abilità dell'uomo nel volgere ogni circostanza
a proprio profitto.
Vortigern, Giacobbe, Lucano, Ambrogio e io, insieme a molti
altri tra cui Fello, Ciro Appio e alcuni rappresentanti della cerchia di
Vortigern, avevamo formato una cricca indipendente i cui membri
liberi da impegni e doveri si riunivano in una di quelle taverne, che
avevamo battezzato Carpe Diem in riconoscimento della brevità
della sua esistenza - passata e futura - e dell'opportunismo del suo
proprietario. Come spesso accade in analoghe circostanze, la nostra
presenza attraeva altri soldati ma allontanava la maggior parte dei
civili, così che in pochi giorni il Carpe Diem era diventato famoso
come luogo di ritrovo abituale per i soldati.
Quella particolare sera, però, ero caduto vittima della mia
coscienza, ed ero rimasto al campo per mostrare la mia faccia ai
soldati e aggiornare il mio diario, un compito che odiavo ma che
godeva a Camulod di un'atavica tradizione. L'abitudine era
incominciata con mio nonno, la cui insistenza nel tenere un simile
registro aveva salvato la vita di tutti i suoi uomini, la sua e quella di
Publio Varro, dall'accusa di diserzione e sedizione. Da quel giorno in
poi, per ogni spedizione condotta da mio nonno o da un membro
della sua famiglia o da uno dei suoi discendenti era stata scritta una
minuziosa cronaca quotidiana. Nel mio caso, ero abbastanza istruito,
e disinvolto nella scrittura, da avere perfezionato l'arte di prendere
appunti concisi sugli eventi di ogni giorno, Di tanto in tanto, però, e
normalmente di tre giorni in tre giorni, rivedevo gli appunti e li
ampliavo nella forma di un giornale.
Tale era il mio impegno quella sera. Ma sentivo freddo alla
punta delle dita, e così avevo chiesto a Donuil di accendere un
braciere nella mia tenda, e avevo spostato il vecchio scrittoio da
campo di mio padre in modo da poter godere il calore del fuoco.
Era tardi, l'oscurità era calata da tempo, ma la presenza di tanti
chierici aveva fornito una utilissima pletora di eccellenti candele di
cera, quindici delle quali splendevano ferme e lussuose su tre tripodi
dietro e ai lati dello scrittoio, consentendomi di scrivere con una luce
e un agio inusitati.
Per una volta il compito mi piaceva. Stavo scrivendo
compiutamente e doviziosamente i miei ricordi e le mie impressioni
sui recenti avvenimenti e sul profluvio di nuovi amici. Mi ero già
intrattenuto su Ambrogio e sull'inattesa soluzione del mistero della
convalescenza di mio padre e dell'attentato alla sua vita. Stavo
definendo i miei pensieri pro e contro l'impiego di mercenari sassoni
da parte di Vortigern in Northumbria, e sull'autodifesa in caso di
invasione, quando udii delle voci fuori dalla tenda, dove Donuil
stava ancora badando alle sue faccende. Pochi istanti dopo vidi
aprirsi i lembi della tenda, e il vescovo Germano fece capolino.
«Merlino? Posso disturbarti?»
«Naturalmente!» Mi alzai subito in piedi per accoglierlo, senza
nascondere la sorpresa e il piacere che provavo alla sua visita. «Entra,
vescovo, te ne prego. Non mi disturbi affatto. Avevo quasi finito, e
stavo pensando a una coppa di vino o di idromele.»
«Non pensarci più.» Con uno svolazzo tirò fuori un fiasco da
dietro la schiena. «Porto un'offerta per compensare l'impertinenza di
importi la mia presenza. Al Carpe Diem mi hanno detto che eri qui,
a sgobbare tutto solo, e così sono venuto a trovarti.»
«Al Carpe Diem? Sei andato là?»
Capì che ero stupito, ed entrando nella tenda mi sorrise.
«Sì. Un piccolo peccato di intolleranza sfociato in un altro
peccato di indulgenza alle passioni. Stasera non potevo sopportare
l'idea di un altro erudito dibattito, così ho preferito cercare la
compagnia dei soldati.» Si guardava intorno, e gradiva visibilmente
la luce e il calore. «Ti sei organizzato bene, almeno per lavorare fino
a tardi.» Strinse gli occhi in un'espressione canzonatoria. «Sei sicuro di
avere abbastanza luce?»
Risi. «Sì, grazie all'ottima qualità dei rifornimenti dei tuoi chierici.
Da ora in poi, quando sentirò parlare della luce della dottrina
portata dalla Chiesa, saprò che cosa significa. Siediti, ti prego.»
Spiegai uno sgabello accanto al fuoco e presi due coppe; Germano
tolse il tappo al suo fiasco e versò idromele per entrambi.
Per un poco chiacchierammo di cose irrilevanti, godendoci il
conforto del braciere acceso e la voluttà dell'eccellente idromele,
contenti di trascorrere qualche momento in piacevole ozio senza
nessuna impellente incombenza. Esaurite le banalità, parlammo delle
condizioni della città di Verulamium e dell'identico fato che
sembrava gravare su tutte le città della Britannia, adesso che Roma,
con l'influenza della sua civiltà, non faceva più parte della vita del
paese. Germano era convinto che tutte le città sarebbero infine
cadute nel completo abbandono, ma quel pensiero mi molestava.
Osservò che senza una forza unificante e centralizzatrice come
l'esercito, e mancando il necessario volume di traffico commerciale
da una regione all'altra, non ci sarebbe più stato un effettivo bisogno
di città nel senso in cui si erano sviluppate. Ma non tutte le città si
sarebbero estinte. Ci sarebbero sempre stati punti di naturale
confluenza intorno ai quali si sarebbero costituite le colonie, proprio
come Camulod era sorta dalla necessità di difendere le nostre
fattorie, ma mi convinse che le città civilmente amministrate di
Britannia, che conoscevamo, avrebbero continuato nel loro rapido
declino fino a quando il commercio e il traffico regolari non fossero
riemersi in grande scala. Gli chiesi quando pensava che sarebbe
successo, e allora scrollò cupamente il capo. Non aveva speranze che
potesse accadere presto, né durante la vita di chi fosse già nato.
Aveva visto la patria dei Sassoni che razziavano con tanta costanza la
Britannia, e nulla che avesse visto lo incoraggiava a pensare che le
incursioni sarebbero diminuite. I Sassoni, secondo lui, consideravano
la Britannia un po' come gli Israeliti consideravano Canaan: una terra
in cui scorrono latte e miele, ricca di tutte le benedizioni che
mancano altrove. Per questa nostra terra non vedeva speranza di
liberazione dalle invasioni. Le razzie sarebbero continuate, e
sarebbero aumentate finché Dio non avesse pensato bene di porvi
fine.
Simili sconfortanti osservazioni ci portarono a parlare
dell'organizzazione delle difese contro il pericolo, e fu Germano il
legato a discutere le scelte di Vortigern. Alla ricerca di cieli più
luminosi parlammo del fratello che avevo appena trovato, e poi di
sogni e di simboli. Credevo, forse stolidamente, che essendo un
soldato di carriera e un vescovo avesse poca pazienza con quei
concetti immateriali e quasi superstiziosi. Germano mi disilluse e mi
sorprese prontamente, sottolineando che, almeno in qualità di
vescovo, aveva a che fare e utilizzava i simboli continuamente.
La croce cristiana era il simbolo della nostra fede. Non potevo
negarlo, ma discutemmo a lungo della croce e del nuovo utilizzo del
crocifisso. La croce e il crocifisso non erano la stessa cosa, mi disse
Germano. Il crocifisso, con la sua vittima martoriata, simboleggiava
la crocifissione nel suo senso proprio, e glorificava l'orrendo fato del
Divino Salvatore per mano dell'uomo. La croce era sostanzialmente
diversa. Germano mi assicurò che era un simbolo molto più remoto
di luce e di rivelazione, venerato già nell'antico Egitto e ancora
prima a Babilonia. La croce era anche uno dei simboli distintivi di
Mitra, il dio della luce, adorato in segreto. Mitra era stato inoltre per
secoli il dio dei soldati romani che rappresentava la bellicosità, la
mascolinità e le virtù virili. Erano cose che sapevo, ma ascoltai in
silenzio, incerto su che cosa pensare, poiché tutte quelle affermazioni
uscivano dalla bocca di un vescovo cristiano.
Un fatto era certo, concluse, facendomi sentire molto meglio: un
emblema, la forma di un simbolo semplice e immediatamente
riconoscibile, un sigillo di appartenenza, di conformità, di identità,
era essenziale al successo di qualunque grande movimento popolare.
Ascoltavo e facevo saggiamente di sì con la testa, che mi girava per
effetto dell'idromele, ed ero completamente inconsapevole del fatto
che Germano, vescovo militante della Chiesa di Dio a Roma, stava
piantando nella mia coscienza un seme che sarebbe cresciuto e
avrebbe influenzato un intero popolo.
Trascorsero più di due ore prima che permettessimo alla
conversazione di scivolare verso il dibattito che aveva informato di
sé le due settimane passate, e anche allora ci accostammo
all'argomento con cautela, e Germano resistette alla tentazione di
parlarne in termini di polemica e di teologia.
«Ebbene» mi chiese, «come soldato, che cosa ne pensi?»
Feci una smorfia. «Come soldato? La stessa cosa che ne penso
come uomo. Mi sono smarrito fin dal primo giorno. Quasi non ho
capito una parola, e ancora meno ho capito le idee che venivano
diffuse tanto strenuamente.»
Sorrise amabilmente. «Sì, ho notato che diventava sempre più
difficile individuare la tua presenza. Ma ti avevo avvertito, già
durante il nostro primo incontro.»
«É vero, vescovo, mi avevi avvertito.» Ricordavo la mia reazione
alla sua sorpresa per il mio desiderio anche solo di assistere al
dibattito. «Ma volevo essere qui, come ti dissi allora, per essere
testimone di questo evento, a causa della sua importanza per noi
tutti. Ti dico francamente, però, che a volte volevo saltare in piedi e
chiedere a gran voce che qualcuno dicesse qualcosa in un linguaggio
semplice, qualcosa che un uomo potesse sperare di capire. E infine
ho perso la speranza, e ho confidato invece di poter parlare con te,
di poterti chiedere che cosa era successo, che cosa era stato deciso.»
«Sono qui. Chiedi.»
Lo guardai, e vidi l'uomo e non l'ecclesiastico. Dal suo arrivo
avevamo inferto notevoli danni al contenuto del suo fiasco, e
Germano era rilassato e in perfetto agio. Donuil aveva riempito il
braciere da poco, prima di andare a letto, cortesemente rifiutando il
nostro invito a unirsi a noi. Le braci ardevano quanto più non
avrebbero potuto, emanando un calore ospitale e senza fumo che ci
aveva cullati entrambi in uno stato di perfetta equanimità. Gli sorrisi,
felice di quell'atmosfera.
«Vescovo, non so da dove incominciare... Non so che cosa
chiedere.»
Tirò su con il naso e sollevò di nuovo il fiasco, e dopo il mio
rifiuto versò nella sua coppa le poche gocce rimaste. «Allora»
mormorò, «lascia che ti aiuti, poiché so che cosa hai bisogno di
chiedere nonostante la tua riluttanza.» Sorseggiò l'idromele, sospirò e
appoggiò la coppa a terra, accanto ai suoi piedi. «Per quanto
riguarda la scomunica per vecchi peccati, non ho emesso decreti.
Vedi, avevo preso a cuore la tua eloquente osservazione secondo la
quale in assenza di una guida ufficiale dall'esterno, da Roma, tu e la
tua gente avreste continuato a vivere onorevolmente in virtù degli
insegnamenti dei vostri vescovi e della vostra antica fede. Nessuno
potrebbe trovare colpa in questo, Merlino; la sua verità è
incontestabile.» Meditò sulle successive parole, e proseguì. «Il
beneficio del dubbio, perciò - quella sofisticata perla di saggezza
propugnata da tuo padre e così abilmente trasmessa da te a me deve venire applicato a chiunque in simili casi. Non sono state
stabilite gravi» cercò la parola giusta «proibizioni. E tuttavia l'eresia è
eresia e non può essere tollerata.» Tacque ancora, osservandomi
scaltramente.
«Credo di sapere come funziona la tua mente di soldato. So che
non hai pazienza con i sofismi, perciò parlerò chiaramente.»
Raddrizzò la schiena, e i tratti del suo volto persero la piacevole
morbidezza di un attimo prima. «Come soldato e come ufficiale, hai
un alto rispetto per la legge. Devi averlo; è imprescindibile dalla
responsabilità... È proprio della legge che ti sto parlando; la legge
della Chiesa, con tutta l'immane responsabilità che essa comporta. A
parte tutte le discussioni polemiche e teologiche che si sono
sviluppate in queste due settimane qui a Verulamium, credo che una
verità si sia manifestata ai vescovi riunitisi qui da tutta la Britannia:
senza legge c'è il caos. Noi abbiamo visto tale verità quando siamo
arrivati. Quella verità rimane tale anche nel governo degli affari di
Dio sulla terra. In qualche modo, da qualche parte, deve esistere un
nucleo centrale di verità ratificata e accettata - un nucleo dogmatico,
se preferisci - affinché la vita possa prosperare in modo equilibrato. Il
confronto tra le filosofie di Pelagio e di Agostino di Ippona ha
condotto a una situazione intricata che doveva essere risolta. Un
uomo ragionevole e istruito può scorgere molte verità apparenti,
molte plausibilità, da entrambe le parti. Ma le differenze sono
puramente filosofiche, Merlino, e perciò umane. In fondo, non sono
teologiche. All'interno di tali differenze risiede l'incapacità umana di
comprendere la natura, e la gravità, della disputa.» Mi osservò, per
vedere come reagivo alle sue parole. Ma mi costrinsi all'impassibilità,
e infine riprese.
«La legge richiede la presenza di giudici, arbitri, uomini dotti che,
in virtù della loro saggezza, sono ritenuti idonei ad accertare e
assimilare tutti gli aspetti pertinenti alla situazione in discussione, e a
raggiungere perciò una soluzione giusta, compassionevole e umana. I
vescovi del conclave romano, e quelli di Antiochia e delle altre sedi
principali, svolgono la medesima funzione e, nella loro sapienza,
hanno scelto di dirimere questa controversia come hanno fatto.
Pelagio è un apostata, e la sua filosofia e i suoi insegnamenti sono
soggetti a condanna. Tu, uomo singolo, puoi protestare contro
questo giudizio, ma devi forzatamente accettarlo.
Non esiste possibilità di ricorso. Il caso è stato estesamente
considerato, nel corso di molti anni e da molte persone, e il giudizio
è stato emesso.» Sospirò. «I vescovi di Britannia sono ora stati
ufficialmente informati, da me, su come stanno le cose. Possono
quindi scegliere di ignorare il mio messaggio, ma se lo faranno, sarà
nella piena e cosciente consapevolezza di procedere sfidando il
verdetto della Chiesa nel suo complesso. Procederanno perciò nel
peccato, e ipso facto sotto pena di scomunica e di dannazione...
Nessun uomo, però, vescovo o altro, verrà scomunicato per come
ha creduto o ha agito prima di questo momento.» Fece una pausa, e
corrugò la fronte.
«Merlino» disse infine, «non posso pronunciare parole di
condanna rivolte a te personalmente. Tu vivrai, come devi, secondo
la tua coscienza. Sei un uomo buono, e in te non vedo empietà. Nel
giorno del Giudizio, Dio saprà come trattarti, e Dio è misericordioso
quando la misericordia è giustificata. I vescovi, invece, sono tutta
un'altra faccenda. Essi sono i docenti, gli esempi, e la loro vita è
soggetta a un attento scrutinio da parte di Dio e dei suoi angeli. Ho
decretato l'apertura di scuole, scuole teologiche dedicate
all'insegnamento della dottrina ortodossa ai vescovi di Britannia ora
e in futuro. Nell'istruzione cristiana in Britannia non si sentirà più
parlare degli insegnamenti di Pelagio... Ecco che cosa abbiamo
concluso, e io credo, con tutto il cuore e con tutta l'anima, che
questa conclusione sia importante e positiva.»
Non c'era molto che potessi dire. Mi aveva tranquillizzato, e mi
aveva tolto ogni preoccupazione riguardante il vescovo Alarico e il
suo destino eterno, e mi aveva promesso che, se avessi continuato a
vivere come avevo vissuto finora, senza indurre in comportamenti
malvagi, avrei potuto accostarmi a Dio con rettitudine e fiducia. Un
atteggiamento
particolarmente
pelagiano
nel
campione
dell'ortodossia.
L'idromele era finito, e sembrava che fossimo le uniche due
persone rimaste vive in tutto l'accampamento. Era molto tardi
quando accompagnai Germano al margine del nostro campo e lo
vidi dirigersi sano e salvo al suo alloggio.
XXXVII.
Il Grande dibattito terminò in un'atmosfera molto diversa da
quella che ne aveva accolto l'inizio solo due settimane prima. La
grande folla di festaioli si era dispersa nei giorni precedenti, ed erano
rimasti solo i chierici e i militari, cioè noi e gli uomini di Giacobbe di
Lindum. La città di Verulamium, brevemente risorta, era ricaduta
nella vacuità e nella decadenza, e Michele e i suoi tutori dell'ordine
avevano di nuovo il compito di mantenere la pace nel loro piccolo
villaggio dentro le mura. Fuori dalla cittadella, il vasto anfiteatro era
deserto; il palco, e le file e gli ordini di posti a sedere attendevano
una futura rappresentazione che forse non sarebbe mai avvenuta.
Il giorno della nostra partenza, dopo una colazione tarda e un
ultimo giro di saluti, ci dirigemmo separatamente verso casa. La
compagnia di Vortigern e Giacobbe, incluso Ambrogio, partì per
prima, verso est, per raggiungere la grande strada più a nord che
percorreva la Britannia per tutta la lunghezza. Malgrado la tristezza
di dividermi da mio fratello, pensavo con piacere che l'avrei rivisto
presto, quando fosse venuto a Camulod come aveva promesso.
Germano e il suo seguito, con la loro scorta di cavalleria,
andarono a sud, a Londinium, da dove avrebbero preso per sudovest fino alla costa, evitando il nuovo insediamento sassone nel
sud-est, e da lì una nave li avrebbe portati in Gallia. Noi di
Camulod, come avevamo programmato, ci mettemmo in viaggio
verso ovest, per Alchester e Corinium, dove avremmo deviato a sud
per Aquae Sulis e per arrivare a casa.
Faceva freddo quando partimmo, e proseguendo il freddo
aumentò. Eravamo a meno di una giornata di cavallo da
Verulamium, su una strada irregolare che saliva attraverso una
nebbia di nubi sarmentose e gravide d'acqua, quando la neve
incominciò a cadere in fiocchi grossi e pesanti che vorticavano in un
vento infido e gelido e limitavano la visibilità a poche dozzine di
passi. Gli uomini reagirono a quella neve precoce con rabbia e
sconcerto, malgrado il freddo premonitore delle precedenti
settimane. Non eravamo ancora nel pieno dell'autunno, e gli alberi
avevano ancora tutte le foglie, seppure ormai rossicce. Riunii i
comandanti di squadrone e diedi ordine di accamparci
immediatamente e di aspettare che quell'anacronistica bufera
cessasse. Con quel freddo fu un miserevole bivacco, che durò per tre
lunghi giorni invernali, durante i quali la bufera si alternò a periodi
calmi e silenziosi in cui la neve scendeva fitta, e a interminabili
periodi di efferatezza infernale in cui il vento glaciale e ululante
soffiava innanzi a sé letali pallottole di neve ghiacciata. Tanta furia
finalmente si placò, e potemmo proseguire circondati da un
paesaggio alieno, arrancando tra profondi cumuli di neve sotto un
cielo ancora ammantato di nubi cupe e imbronciate, e travagliato da
un vento che aveva perso poco della sua perfidia. Eravamo in alta
quota, e i pochi alberi erano bassi e stentati: le foglie erano state
ghiacciate dalla neve e dal vento, e penzolavano accartocciate e
vizze; molte erano cadute ancora verdi, con i frutti ancora acerbi, i
semi abortiti e distrutti. Eravamo troppo in alto e troppo lontani da
zone abitate perché ci fossero campi coltivati, ma mi domandavo
inquieto come sarebbero andati i raccolti se quell'insolito maltempo
fosse stato esteso a tutta la regione.
A mezzogiorno del giorno seguente eravamo di nuovo in
viaggio, l'aria si intiepidiva rapidamente e la coltre di nubi si apriva e
si diradava lasciando filtrare un debole raggio di sole, che illuminò e
innalzò visibilmente il morale degli uomini. Cavalcavo pensieroso,
rimuginando per l'ennesima volta la conversazione con il vescovo
Patrizio sul destino del prete di nome Remo. A un tratto voltai la
mia cavalcatura e risalii verso la coda della colonna alla ricerca di
Lucano; sentivo l'impellente necessità di parlare un poco con lui, ma
lo trovai seriamente impegnato con Ciro Appio, interamente
concentrato nella conversazione e nello sforzo di competere con la
superba arte equestre di Appio stesso. Tornai indietro prima di
raggiungerli: non volevo interrompere il loro colloquio solo per
alleviare la mia noia. Quando fui di nuovo in testa alla colonna,
liberai la mente dai pensieri, raddrizzai le spalle e aumentai
leggermente il passo, sorridendo tra me per il piccolo, malizioso
piacere di sapere che il povero Luca avrebbe dovuto faticare come
non mai per continuare nelle due attività che richiedevano la sua
attenzione. Il sole splendeva su di me, caldo e gradevole, e mi sentii
bene come non mi sentivo da giorni.
Più tardi, quel pomeriggio, superando la cresta di una collina,
vidi una prateria verde e uniforme scendere dolcemente davanti a
me senza traccia di neve e, agendo d'impulso, fermai il cavallo e
attesi che la colonna mi raggiungesse. Ciro Appio si avvicinò e mi
guardò con un'espressione interrogativa, e io gli sorrisi.
«I nostri cavalli hanno bisogno di correre, Ciro, e noi dobbiamo
toglierci di dosso qualche ragnatela. Sotto di noi c'è una valle
deserta, che si apre con un pendio lungo e lieve. Schiera i tuoi
uomini in squadroni. Ci lanciamo all'attacco.» Mi rivolsi a Donuil.
«Porta il mio stendardo a Rufio e digli di portarlo fino a metà del
versante opposto. Quando gli uomini saranno nel fondovalle, potrà
andare dove vorrà. Il primo che lo raggiungerà e reclamerà lo
stendardo vince un fiasco del mio vino migliore per ognuno dei suoi
compagni di squadra, stasera quando piazzeremo il campo. Ma dì a
Rufio che non deve farsi prendere troppo facilmente.» Tornai a
parlare con Ciro Appio. «Sono circa due miglia, più quello che Rufio
riesce a guadagnare. Che cosa ne pensi?» Mi sorrise, salutò, e si
precipitò a comunicare i miei ordini.
Cavalcai con loro, esultando nell'euforia della carica e cercando
di essere presente quando Rufio fu finalmente raggiunto, ma ero
cento passi lontano, e il mio grande cavallo recalcitrava, quando un
soldato dello squadrone di Ciro pretese il premio tra gli applausi e le
acclamazioni e i gemiti di disappunto. Quando la confusione e
l'allegria si furono calmate e una parvenza d'ordine fu ristabilita, il
sole era già basso, e ordinai ai miei ufficiali di accamparsi. Facemmo
una sosta felice, quella notte, e io me ne andai a dormire
compiaciuto di me stesso e dei miei uomini.
Due giorni dopo ci ritrovammo, storditi, in cima a un'altra
collina, a fissare le fumanti rovine di quella che un tempo era stata la
cittadina di Alchester. Fello aveva riferito personalmente la notizia, e
per tre ore non avevamo dato tregua ai cavalli, ma era ormai
troppo tardi per essere d'aiuto. Gli esploratori avevano trovato solo
rovine fumanti già al mattino presto, e ciò significava che l'incendio
doveva risalire almeno al giorno prima, perché se fosse scoppiato di
notte avremmo visto le fiamme. Nel minuscolo foro davanti al
municipio era ammucchiata una catasta di corpi, più di settanta, e
altri trenta orrendi pupazzi oscenamente carbonizzati erano stati
trovati dentro la basilica. I cadaveri in piazza erano uomini, ragazzi e
bambini di entrambi i sessi. Identificammo solo i corpi di quattro
donne vecchie e avvizzite. I resti nella basilica potevano essere
qualsiasi cosa.
Non appena avevamo oltrepassato la cresta della collina, Fello
era andato a consultarsi con uno dei suoi esploratori; tornò verso di
noi al galoppo.
«Sono venuti da ovest, lungo la strada principale.» Fello era un
uomo dai modi bruschi che non aveva tempo per i titoli e le cortesie
militari, e mi ero abituato da tempo alle sue maniere. «Una grossa
banda, più di cento unità, ma questo già lo sapevamo. I miei uomini
mi hanno detto che se ne sono andati per dove sono venuti. Hanno
lasciato una quantità enorme di tracce, e si sono allargati sul terreno
soffice su entrambi i lati della strada. Sono in tanti. Non sappiamo
chi sono, ma non sono Sassoni; siamo troppo lontani dal mare, e
hanno cavalli.»
Lo fulminai con un'occhiata. «Cavalleria?»
Scosse la testa. «Non ho detto questo. Ho detto che hanno
cavalli. Forse anche carri. Ma ce ne sono parecchi a piedi. Hanno
preso il bottino che hanno trovato, che non doveva essere né molto
né di valore, e tutte le donne. Paolo, un mio uomo, pensa che
abbiano un giorno, un giorno e mezzo di vantaggio, e che se la
prendano comoda. Non si aspettano nessuna opposizione.
Sicuramente non si aspettano che gli arriviamo di corsa alle spalle.»
«Per loro disgrazia» dissi, e mi girai verso Ciro Appio. «Marcia
forzata da qui in avanti. Razioni asciutte a tutti i ranghi in
movimento; mangeremo a cavallo. Riposo di un quarto d'ora ogni
dieci miglia. Voglio prendere questa gentaglia per domani a
quest'ora. Dillo ai tuoi uomini.» Tornai a Fello. «Voglio tutti i tuoi
uomini in avanscoperta in uno stretto arco. Non preoccuparti dei
fianchi. Quella gente non sa che stiamo arrivando. Trovateli più in
fretta che sia possibile, teneteli d'occhio ma non fatevi vedere.
Sapete che cosa fare. Andate.»
Cavalcammo fino a notte fonda, dormimmo solo quattro ore e
rimontammo in sella prima dell'alba, e quando il cielo iniziò a
schiarirsi a est, dietro a noi avevamo già percorso dieci miglia sulla
solida strada romana. Fu lì che un esploratore tornò a dirci che il
nemico era a meno di tre miglia, ancora accampato. Fello stimava
che fossero poco meno di trecento, di cui meno di cento a cavallo.
La notizia più sorprendente era che tra le forze nemiche sembrava nessuno si era avvicinato abbastanza per poter fornire una conferma
- che non ci fossero civili. Niente donne e nessun prigioniero.
Sorpreso quindi, ma non eccessivamente preoccupato, ne dedussi
che le donne erano state uccise oppure - ed era un'alternativa più
probabile, poiché non avevamo trovato cadaveri, e le donne erano
considerate una merce di lusso nel traffico degli schiavi - erano state
mandate per un'altra strada verso il luogo di eventuale raccolta e
vendita. Decisi di attaccare immediatamente il campo
addormentato.
Caricammo sospinti dal sole nascente e sorprendemmo gli
stranieri in una breve, dura, aspra battaglia. Fu per loro una
completa disfatta, e i nostri trombettieri dovettero soffiare forte e a
lungo nei loro strumenti per richiamare i soldati assetati di sangue
all'inseguimento degli ultimi predatori fuggiaschi. Il nostro bilancio fu
di ventitré morti e due volte tanti feriti, contrapposti a
centottantuno nemici morti e nessun prigioniero. Forse un centinaio
erano scappati, ma la notizia che riportò il centurione Rufio ci fece
abbandonare ogni idea di dare loro la caccia. Rufio aveva
combattuto e ucciso uno dei loro capi, e prima di morire l'uomo
aveva maledetto Rufio, aggiungendo che Gulrhys Lot di Cornovaglia
si sarebbe vendicato.
Era una notizia terribile. Se Lot si era scatenato così a nord - più
di cento miglia sopra e a est della nostra Colonia - allora il mio
posto era a Camulod, e io non avevo tempo da perdere. Ma adesso,
grazie a quell'ultimo episodio, avevo più di quaranta uomini invalidi,
con lesioni che andavano da piccoli tagli a ferite gravi, e solo
centotrenta uomini effettivamente in grado di combattere; ciò
significava che non potevo dividere le nostre forze e precedere i
feriti a Camulod. Lasciare indietro i feriti, anche con una grossa
scorta, in un territorio che forse brulicava di nemici, voleva dire
condannarli a morte. E di conseguenza le truppe rimaste, meno la
scorta per i feriti, sarebbero state pericolosamente scarse, ai limiti
della follia, se avessimo incontrato una seria opposizione lungo la
strada verso sud. Mi maledissi per avere costretto i miei uomini, per
la mia colpevole ignoranza e irresponsabilità, a strisciare come delle
lumache, che era la massima velocità a cui potevano viaggiare i feriti
gravi.
Una rapida consultazione con i miei ufficiali confermò la mia
analisi. Non potevamo dividerci adesso che sospettavamo - e
avevamo ragione di credere - che una supposta banda isolata di
predatori fosse in realtà un elemento di una forza molto più vasta:
un esercito invasore.
Mandai Lucano a distribuire i quindici feriti più gravi fra tre dei
nostri grossi carri, e a ripartire il carico tra gli altri. Poi distaccai uno
squadrone di quaranta unità per aumentare il numero degli
esploratori di Fello, e feci loro cambiare uniforme perché potessero
formare intorno a noi uno schermo protettivo più vasto, mobile e
impercettibile. Presi tali provvedimenti, ripartimmo per Camulod
alla velocità più elevata possibile senza procurare gravi danni ai
feriti, e per lo stesso motivo mantenendoci sulla strada principale,
che era la via più regolare e diretta, ma anche la più visibile la più
vulnerabile.
L'esatta verità iniziò ad affermarsi nel giro di poche ore. Per
quanto numeroso, il gruppo di "predatori" nel quale ci eravamo
inavvertitamente imbattuti non era altro che una singola fazione,
buona per scaramucce, di un esercito sparpagliato ma in rapida
aggregazione che doveva contare migliaia di unità. Gli esploratori
tornavano al galoppo da ogni fazione per avvertirmi della presenza
di forze ostili, e nella mia mente si formò ben presto un'immagine
della situazione. Folti gruppi di soldati - non mi restava che
considerarli tali, per quanto indisciplinati e ingovernabili potessero
essere - stavano convergendo, per lo più a piedi, verso un punto di
incontro prestabilito che sembrava trovarsi a sud e a ovest della
nostra attuale posizione. Secondo gli esploratori, tra questi gruppi
c'erano uomini a cavallo e anche delle vecchie bighe, ma nessun
indizio di cavalleria organizzata. C'erano avvistamenti a nord-ovest e
a ovest, a est e a sud-est. Avevo già inviato un distaccamento di
cavalieri veloci a nord, alle nostre spalle, per vedere se da quella
direzione stesse arrivando qualcuno. Infatti. A circa quindici miglia
dietro di noi era ammassata una grossa concentrazione di uomini a
cavallo, che come noi seguivano la strada. L'esploratore che aveva
riferito la notizia era riuscito a spiarli dal margine di un bosco che
arrivava fin sul ciglio della strada, la quale in quel punto formava
un'ampia ansa in mezzo a due colline. Poi aveva tagliato per la
campagna, evitando l'ansa e riguadagnando la superficie della strada
in tempo per non essere visto dal gruppo che emergeva dal passo tra
le colline. Comunicò con assoluta certezza che quegli uomini
viaggiavano a cavallo, ma erano indisciplinati e disorganizzati, e di
certo non erano uno squadrone di cavalleria.
Colsi finalmente un nesso che mi era sfuggito. I nostri esploratori
passavano così liberamente tra i vari gruppi armati proprio perché ce
n'erano tanti che attraversavano e intersecavano la regione intorno a
noi. Evidentemente nessuno si aspettava di venire avvicinato o
sfidato; nessuno sospettava che noi, o altre forze avverse, fossimo in
mezzo a loro. Quello stato di cose sarebbe perdurato fino al
momento in cui qualcuno si fosse accorto delle nostre uniformi.
Scendemmo in una piccola valle boscosa, che ci offrì protezione
abbastanza a lungo da permetterci di sostare, togliere oppure
occultare l'armatura, e acquisire un aspetto quanto più eterogeneo
possibile. Pochi di noi portavano indumenti che non fossero
l'uniforme e i colori regolari, ma facemmo del nostro meglio per
nascondere il fatto che eravamo soldati, molti celando proprio il
motivo del loro orgoglio sotto coperte da cavallo adattate allo
scopo. Per gli elmi c'era poco che potessimo fare. Erano tutti uguali,
e non potevamo levarli, perché se avessimo finto di andare in guerra
a capo scoperto saremmo stati ancora più appariscenti. Spezzai la
loro uniformità chiedendo a un uomo su tre di toglierlo e di portarlo
appeso all'arcione. Avevano tutti i capelli corti, un'altra
inconfondibile caratteristica dell'uniformità militare, ma speravo che
la distanza li avrebbe protetti da uno sguardo casuale. Per fortuna,
molti avevano acquistato indumenti esterni pesanti di vario genere a
Verulamium, a causa del tempo insolitamente freddo, e mi era
sembrata una buona idea, più per necessità che per favorire il
deterioramento del loro aspetto.
Prima di rimontare in sella, spiegai a tutti il mio pensiero, e a
tutti feci capire l'importanza del camuffamento; tutti dovevano
essere consapevoli che, da quel momento e fino a quando non
avessimo più potuto sostenere la finzione, vigeva la necessità
assoluta di evitare ogni e qualsiasi cosa che potesse venire
riconosciuta come disciplina o procedura militare. Dopo avere
impiegato anni a imparare a cavalcare come un tutt'uno, la loro vita
ora dipendeva da quanto riuscivano ad assomigliare a una
marmaglia disordinata.
Verso mezzogiorno uscimmo dalla valletta alberata con un
aspetto completamente diverso da quando eravamo entrati, e nel
corso delle successive quattro miglia rimproverai i miei uomini di
continuo, costringendoli a disperdersi in una carovana irregolare,
scomposta e sparpagliata, in gruppi di non più di cinque unità, fino a
dove i boschi lo consentivano su entrambi i lati della strada. Speravo
di creare così l'impressione che non più di quaranta uomini
appartenessero alla comitiva più vicina, e presumibilmente di scorta,
ai cinque carri che avevamo lasciato in coda. Dentro uno di quei
carri c'erano il mio grande stendardo nero con l'orso, piegato e
nascosto, e tutto l'armamentario che fino a poco prima ci classificava
così chiaramente come una forza da tenere in debita considerazione.
Poche miglia più oltre, dopo avere attraversato un lungo tratto
di fitta foresta, incontrammo i primi "nemici". La strada sbucava dalla
foresta su un terreno aperto, erboso e senza neve, malgrado il vento
ancora abbastanza freddo da farsi beffe del sole accecante. Stavamo
avanzando nel bagliore del sole, e ci trovammo di fronte un gruppo
di una ventina di cavalieri che si avvicinavano alla strada dalla nostra
destra. Quando ci videro tirarono le redini, e rimasero a guardarci
con sospetto ma senza ostilità apparente. Erano chiaramente
preparati ad accettarci, ma erano curiosi di sapere chi eravamo e che
cosa facevamo. La repentinità dell'incontro cristallizzò i pensieri che
mi turbinavano nella mente, e agii d'impulso: mi voltai con
disinvoltura sulla sella e parlai ai miei compagni senza tradire alcuna
delle caotiche reazioni che mi si accavallavano nel petto.
«Ciro, passa parola tra gli uomini, ma senza dare nell'occhio.
Siamo della Northumbria, distaccati da Vortigern a Verulamium
come ambasciatori. Donuil, vieni con me. Andiamo a parlare con
quella gente. Voi rimanete calmi e seguite le mie mosse.»
Spinsi il mio cavallo verso destra e mi accostai agli sconosciuti
come se mi fossi aspettato di incontrarli. Il loro capo manifesto era
un uomo enorme, barbuto, dagli occhi feroci e i muscoli ben rilevati,
la cui immensa struttura faceva sembrare piccolo il grande cavallo su
cui era montato. La sua corazza era costituita da spessi strati di pelle
di toro temprata e rinforzata con placche di bronzo, e di traverso
sulla schiena portava un grande scudo rotondo. Se ne stava seduto
con perfetta calma, aveva abbandonato le redini sul collo del
cavallo, e mi osservava impassibile, senza tradire alcuna emozione.
Mi rivolsi a lui nel misto di latino e celtico che avevo usato con la
gente di Vortigern.
«Ben trovato» dissi a voce alta quando fui a venti passi da lui. «Io
sono Ambrogio di Lindum, nipote di Giacobbe, consigliere di
Lindum, e porto i saluti di re Vortigern di Northumbria a re Lot di
Cornovaglia. Questa è la prima volta che ci spingiamo così a sud, e
siamo senza guida. Puoi dirmi quanto dista ancora il luogo
d'incontro?»
Ero pronto alla sfida e all'azione immediata, perché l'unico mio
riferimento a un luogo d'incontro derivava da quanto avevo
dedotto dalle informazioni degli esploratori, ma la mia domanda
non suscitò sospetti né reazioni. Mi fermai quasi a portata di spada
da lui, e spostai pigramente lo sguardo sui suoi compagni. Erano
un'accozzaglia sgradevole alla vista, tutti pesantemente armati e
corazzati come il loro capo, tutti scarmigliati, con capelli lunghi,
barba e baffi. Il loro capo continuava a fissarmi in silenzio,
meditando sulle mie parole, e poi i suoi occhi si spostarono su
Donuil, e notarono le dimensioni del giovane.
«Chi sei tu?» gli chiese.
Donuil scrollò le ampie spalle e guardò l'omone con aria di sfida.
«Cormac» disse.
«Cormac? Che razza di nome è? Sei uno dei Sassoni
addomesticati di Vortigern?»
Ero contento di quel segnale di accettazione, ma
contemporaneamente allarmato che gli affari di Vortigern, e la sua
follia, fossero così diffusamente noti. Donuil parlò ancora.
«È un nome gaelico, e nobile. Anch'io cavalco con Vortigern...
per mia scelta.»
«Un mercenario.» Il capo lasciò perdere Donuil e riportò lo
sguardo su di me, indicando con disapprovazione il mio
abbigliamento. «Sembri un romano.» Lo disse come se fosse un
insulto. Io non mi offesi, e gli risposi affabilmente.
«Mio padre lo era. Il mio nome per esteso è Ambrogio
Ambrosiano. E la nostra armatura è romana perché funziona bene. I
Romani capivano certe cose.»
Corrugò la fronte e sbuffò. «Derek» disse poi, «di Ravenglass,
sulla costa nordoccidentale. Era una città romana, una volta, prima
che li sbattessimo fuori.»
«Ne ho sentito parlare» risposi, ignorando la sua spavalda
millanteria, e infatti ne avevo sentito parlare dallo stesso Vortigern
meno di una settimana prima. «I Romani avevano un forte lì vicino,
una volta, un luogo chiamato Mediobogdum.»
Spalancò gli occhi, leggermente sorpreso. «Uh» grugnì.
«C'è ancora, vuoto e abbandonato, sopra la strada che attraversa
l'alto passo. Come fai a saperlo?»
Scossi la testa per mostrare che non era importante. «Ho
memoria per le cose insignificanti. Qualcuno me ne ha parlato, tanto
tempo fa, non so chi né quando, ma ricordo che era il forte più
occidentale lungo il Vallo.»
«Non c'è nessun vallo.» La sua voce era carica di disprezzo. «La
brughiera è vallo sufficiente. È un luogo cupo e desolato, popolato
da spiriti e schivato dagli uomini di buon senso. Cavalcheremo
insieme. Dovremmo raggiungere il luogo prescelto domani, tardi.»
Guardai i suoi uomini, e decisi di correre il rischio e di affermare
subito la mia autorità. «Se così desideri, così sia, ma dì ai tuoi uomini
di stare lontani dai miei. Abbiamo viaggiato molto e i miei uomini
sono stanchi e insofferenti della strada. Vedrai che alcuni sono feriti.
Abbiamo già incontrato degli stranieri poco amichevoli, e non voglio
che altre sciocchezze provochino stupidi danni. Siamo in missione
diplomatica, e non voglio guastarla per dei meschini bisticci con ogni
collerico sconosciuto che incontriamo.» La sua risposta mi sorprese.
«Nemmeno io. I miei uomini se ne staranno tranquilli, perciò
bada che i tuoi non li stuzzichino.»
E così avvenne che cavalcammo in compagnia dei nostri nemici
per diverse ore, durante le quali appresi molto di Lot e dei suoi piani
e di quello che aveva fatto dopo il suo ultimo attacco a Camulod.
Mi stupì - ma a ben pensarci non mi stupì poi tanto - scoprire che
Lot, come suo padre Emrys prima di lui, era padrone di una grande
flotta di galee permanentemente impegnate nella pirateria.
Possedeva una roccaforte, adesso, dotata di fortificazioni naturali:
una terra irta di alte scogliere, circondata dal mare, sulla costa
settentrionale della Cornovaglia, che garantiva ai suoi pirati una base
sicura, e a lui la possibilità di attingere ai loro bottini e di accumulare
ricchezze sempre maggiori. Le ricchezze così accuratamente
ammassate venivano utilizzate per acquistare ovunque appoggio
armato, e costituire un grande esercito pagando in oro, e con la
promessa di ingenti ricchezze frutto della futura conquista della
prosperosa zona intorno a Glevum, Aquae Sulis e, per associazione,
Camulod.
Derek, re di diritto, era stato reclutato da uno dei capitani di
mare di Lot, che aveva comprato i suoi servizi con l'oro e la
promessa di poterne conquistare altro. Derek aveva preso l'oro, e
poi lui e i suoi venti uomini a cavallo erano partiti da soli dalla loro
terra montuosa diretti a sud, per unirsi alla schiera di Lot. Il resto dei
suoi uomini, una forza di forse duecento unità, si era imbarcata sulle
galee di Lot, e l'avrebbe raggiunto al luogo d'incontro, trenta miglia
a nord di Aquae Sulis e circa venti miglia a sud-ovest della nostra
posizione. Ascoltai tutto ciò e dissi poco in cambio.
Mentre cavalcavamo e parlavamo, la strada aveva incominciato
a scendere in lieve ma costante pendenza, riportandoci in mezzo a
fitti e alti alberi; sapevo che la foresta si sarebbe estesa ancora più
densa e indomita da lì fino al punto di riunione dell'esercito di Lot.
Se volevamo evitare di rimanere intrappolati, dovevamo fare
dietrofront, e subito, e tornare sul terreno elevato e senz'alberi, dove
avremmo avuto qualche speranza di aggirare il luogo d'incontro e
proseguire verso sud e verso Camulod. Guardai la piccola chiazza di
cielo tra le cime degli alberi che si affollavano ai lati della strada. Si
stava facendo tardi, e la mia mente fremeva per l'urgenza della
nostra situazione in via di rapido peggioramento. Più ci fossimo
avvicinati al raduno di Lot, maggiore sarebbe diventata la
concentrazione di truppe ostili, e presto o tardi saremmo arrivati a
un punto - sempre che non l'avessimo già oltrepassato - in cui la
scoperta della nostra identità sarebbe diventata inevitabile.
Derek di Ravenglass, malgrado la rozzezza e i modi inurbani, si
era rivelato un compagno di viaggio abbastanza piacevole, ma
incominciavo a pensare seriamente al modo di uccidere lui e i suoi
uomini senza fare troppo rumore e senza attrarre indesiderata
attenzione. Si andava rapidamente approssimando il momento in cui
il nostro nuovo compagno avrebbe voluto fermarsi per la notte, e
ciò era impensabile. Se fossimo rimasti con lui fino al mattino, i miei
uomini e io non avremmo avuto possibilità di scampo dalla trappola
nella quale ci eravamo ficcati, e che ci si stava stringendo addosso
ogni momento di più.
Voltai il cavallo e tornai indietro verso i carri, lasciando in testa
Derek e Donuil con tre uomini di Derek, poi mi ritirai dalla strada in
mezzo ai cespugli e guardai i carri passare in un fragore di ruote. Un
gruppo misto dei miei uomini e degli uomini di Derek cavalcava tra
e intorno ai carri: non vedevo indizi di ostilità; erano tutti soldati,
all'apparenza, contenti di spartire il fardello della noia tra un
pericolo e l'altro.
Passando, alcuni mi fecero un cenno ma, miracolosamente,
nessuno scattò nel consueto e rigoroso saluto romano. Non vidi
Lucano, e supposi che fosse su uno dei carri con i feriti.
La retroguardia della carovana si stava avvicinando; in coda a
tutti cavalcava Fello. Mi raggiunse, e ins