Rischio chimico – Un mare di petrolio
Transcript
Rischio chimico – Un mare di petrolio
Un mare di petrolio:sversamenti idrocarburi in mare accidentali di Ing. Michela Savioli Oil& Gas Professional Frugando negli archivi delle cronache recenti e lontane ritroviamo una moltitudine di eventi accidentali avvenuti al largo delle coste di tutto il mondo e responsabili dello sversamento nei nostri mari di tonnellate e tonnellate di petrolio e derivati. os di fe .o rg Per la realizzazione del nostro breve viaggio attraverso il “mare di petrolio”, lasceremo che siano gli eventi più rilevanti e significativi a trasportarci nella trattazione, spaziando da episodi recenti, come l’incidente della piattaforma BP nel Golfo del Messico, a quelli più remoti come l’affondamento della superpetroliera Haven nel Mar Ligure (1991), o della Exxon Valdez in Alaska (1989). Solo così, infatti, potremo avere la percezione di come il rischio chimico connesso alla contaminazione di idrocarburi continui ad essere una tematica decisamente attuale che periodicamente torna alla ribalta sulle testate giornalistiche, minacciando seriamente la salute dell’ecosistema marino e compromettendo la vita delle comunità locali che dal mare traggono sostentamento. ww w. Gli episodi di rilascio non intenzionale di sostanze chimiche, ancorché disseminati nella storia recente dalla Rivoluzione Industriale in poi, meritano un capitolo dedicato nella storia del petrolio e del trasporto di merci e passeggeri lungo le autostrade del mare. E nonostante gli sforzi profusi abbiano dato risultati decisamente apprezzabili in termini di mitigazione dei rischi, soprattutto con la prevenzione degli incidenti (Figure 1 e 2), la magnitudo di tali episodi è tale da indurre le parti afferenti alle filiere industriali petrolifere e chimiche ad insistere per raggiungere livelli di assoluta eccellenza in termini di tecnologie, procedure e regolamentazioni. Figura 1 – Trend del numero di sversamenti e del trading di greggio trasportato via mare (Fonte dati:ITOPF) 1 Figura 2 – Mappa degli eventi rilevanti di sversamento di petrolio, anno e quantità riversate in mare (Fonte dati:ITOPF) ww w. os di fe .o rg Come a voler figurare il presagio di un sortilegio, o comunque l’emblema della criticità di applicazioni tecnologicamente sfidanti, gli arbori dell’industria petrolifera vengono fatti risalire ai tentativi rocamboleschi del pioniere Edwin Drake, i cui investimenti, proprio a causa di una eruzione incendiaria di gas e petrolio, andarono letteralmente in fumo assieme ai suoi primitivi dispositivi di perforazione. Ci volle l’ascesa di John Rockefeller, considerato padre del comparto petrolifero nonché una delle figure più emblematiche, geniali e spietate dell’industria moderna, per comprendere che il nascente mercato sarebbe stato destinato al caos se lasciato agli appetiti dei centinaia di avidi avventurieri in cerca di fortune improvvisate. Infatti la nuova impostazione del sistema petrolifero guidato da Rockfeller e dalla neonata Standard Oil, se assolutamente antiliberale dal punto di vista economico, ebbe di buono che scoraggiò i folli tentativi di perforazione in atto a quel tempo e gettò le basi tecniche per il processo industriale che avrebbe rivoluzionato le sorti dell’umanità. Di lì in poi la continua evoluzione ha portato a progressi notevolissimi nella prevenzione degli eventi accidentali e dei rischi ad essi connessi; dal punto di vista tecnologico l’industria ha investito nello sviluppo di macchine e dispositivi di controllo sempre più avanzati, dispiegandoli in tutte le fasi della filiera, dalle applicazioni upstream di perforazione e produzione, al trasporto via mare o in pipeline, fino ad arrivare ai processi downstream di raffinerie e impianti petrolchimici. Una così importante evoluzione in materia di sicurezza, figlia di una nascente sensibilità verso aspetti di sostenibilità, non più disgiunti dalle valutazioni di economicità degli investimenti, è stata accompagnata ed in parte sollecitata da una regolamentazione locale ed internazionale che, sentendosi inevitabilmente chiamata in causa vista la magnitudo di certe catastrofi, nel tempo si è fatta sempre più puntuale e rigorosa nel legiferare e controllare l’adozione di misure volte alla riduzione dei rischi disseminati lungo la filiera. A seguito dell’incidente avvenuto a largo delle coste dell’Alaska, ad esempio, quando nel marzo del 1989 la superpetroliera Exxon 2 .o rg Valdez urtò uno scoglio riversando in mare 37.000 tonnellate di petrolio, il Governo degli Sati Uniti decise di rivedere i requisiti di sicurezza delle navi. Mediante l’Oil Polluction Act, venne infatti introdotta l’obbligatorietà del doppio scafo per le petroliere di nuova costruzione, e vennero imposte delle 1 limitazioni temporali per il disarmo dei vessel monoscafo . Ma non solo: l’incidente della Exxon fu emblematico anche perché il Governo per la prima volta decise di attribuire i costi della decontaminazione alla compagnia responsabile di una catastrofe ambientale tra le più imponenti della storia. Da ciò si capisce come le direttive specifiche di volta in volta introdotte dagli organismi regolatori, fanno capo o comunque si accompagnano al più generale concetto di attribuzione dei rischi e delle responsabilità al soggetto imprenditoriale, le cui valutazioni di economicità di un investimento non possono più prescindere da aspetti di sostenibilità. In una più ampia visione delle cose, ecco dunque che nei mercati hanno preso vita dei meccanismi più o meno espliciti ed immediati che rendono i livelli di apprezzamento di un brand presso consumatori, clienti, fornitori ed investitori finanziari, non più risultato della sola componente economica, quanto piuttosto funzione di più numerose ed articolate variabili. ww w. os di fe Eppure questo rigoroso e complesso insieme di meccanismi di mercato, leggi, procedure e tecnologie, alle volte non basta a scongiurare il verificarsi di certe catastrofi, come testimonia il recente affondamento della piattaforma BP Deepwater Horizon, al largo delle coste della Luisiana. Era il 20 aprile 2010 quando nel pozzo Macondo, a 1.520 metri sotto il livello del mare, si verificò una eruzione incontrollata di gas e petrolio in risalita dai 5.600 metri di profondità del giacimento. La Deepwater Horizon era un mezzo semisommergibile di quinta generazione, in grado di operare in acque profonde fino a 3000 metri, ed era dotata di un dispositivo di posizionamento dinamico costituito da eliche che reagiscono alle onde e alle correnti mantenendo stabile la posizione della piattaforma. Al termine delle operazioni di perforazione del pozzo appraisal (finalizzato a quantificare la capacità del giacimento), mentre si stavano compiendo le operazioni di abbandono temporaneo, nelle condotte interne al pozzo (casing) si sostituirono i fanghi di perforazione con acqua di mare; la differenza di densità dei due fluidi è stata probabilmente la causa scatenante dell’incidente. Fu a quel punto che, proprio come in un domino, si innescò una inconsueta serie di fenomeni avversi: i casing, probabilmente mal cementati, collassarono su se stessi provocando la violentissima fuoriuscita di una colonna di acqua e gas a pressioni elevatissime (950 atm alla base del pozzo), che si incendiò ingoiando la torre di perforazione. Anche i BOP (Blow Out Preventer), dispositivi di sicurezza attivati in caso di eruzione, fallirono nel loro compito di sigillare il pozzo, probabilmente perché danneggiati sia alla 1 Mentre nelle navi monoscafo il liquido contenuto nelle cisterne è separato dall’ambiente solo dalla lamiera di fondo e dal guscio laterale, con elevati rischi di fuoriuscita in caso di collisioni, nelle costruzioni doppio scafo è prevista una seconda lamiera di contenimento opportunamente distanziata dalla superficie esterna 3 base (dallo spostamento della piattaforma), che nei dispositivi di attivazione (per effetto dell’esplosione). In realtà le dinamiche dell’incidente sono ancora da chiarire; l’unica inconfutabile verità è che, come in tutte le grandi catastrofi di questo tipo, si è trattato di un concorso di fatalità avverse, negligenze ed errori umani, che hanno portato ad uno dei più grandi disastri ambientali della storia. ww w. os di fe .o rg E come se la gravità di tali eventi non fosse già di per sé sufficiente, a peggiorare l’orrore di tali scenari di tanto in tanto subentra anche l’intenzionalità umana. Si tratta di casi di sversamenti dolosi che, seppur poco frequenti, meritano una riflessione soprattutto in considerazione degli attuali disordini interni dei Paesi Nord-africani, dei movimenti terroristici, nonché delle sempre forti tensioni geopolitiche nelle aree del Medio Oriente. Non sarebbe infatti la prima volta che, in uno scenario di guerra o di rivolta come quelli a cui stiamo assistendo recentemente, ingenti quantità di petrolio vengano rilasciate a seguito del bombardamento di obiettivi ritenuti sensibili o strategici per lo Stato sotto assedio, distrutti o sabotati per mano di paesi nemici o di movimenti interni anarchici o rivoluzionari. Il caso più emblematico da ricordare risale alla Guerra del Golfo del 1991, quando le truppe di Saddam Hussein assaltarono i terminali petroliferi del malcapitato Kuwait, provocando il rilascio di una quantità di greggio stimata tra le 800 mila e gli 1,5 milioni di tonnellate nelle sole acque del Golfo Persico (senza considerare i 732 pozzi onshore incendiati o distrutti, che hanno provocato un forte inquinamento di terra, aria ed acque interne). In quel caso le truppe irachene aprirono deliberatamente le valvole delle condutture allo scopo di ostacolare lo sbarco dell’esercito americano, provocando lo sversamento della marea nera che dal Golfo Persico si espanse fino a colpire anche le coste di Iran e Arabia Saudita. Sempre restando nei casi “non convenzionali” di inquinamento da idrocarburi, dobbiamo citare anche sversamenti che riguardano mondi apparentemente lontani dal petrolio e dai suoi derivati. Si tratta delle comuni navi adibite al trasporto di merci o passeggeri, che in caso di collisione o affondamento, minacciano di rilasciare il loro carburante contaminando le aree marine circostanti. Proprio in questi giorni i reportage di giornali, tv e portali web sono ricchi di aneddoti e vicende riguardanti l’incidente della Costa Concordia, che dopo essere entrata in collisione con uno sperone di roccia si è adagiata su un fianco in prossimità dell’Isola del Giglio, destando preoccupazioni per la possibile fuoriuscita delle circa 2400 tonnellate di olio combustibile presenti nei serbatoi. Le squadre speciali dispiegate per l’emergenza si sono da subito messe al lavoro sia preparando un piano di svuotamento delle cisterne, e sia disponendo delle barriere superficiali volte a contenere l’eventuale spargimento della marea nera in quella parte di Mediterraneo dall’inestimabile 4 valore naturalistico (ad essere minacciato è anche il Santuario dei Cetacei). Un simile esempio lascia intendere quanto nella realtà possa risultare limitativo relegare il problema del rischio di contaminazione da idrocarburi ai soli processi di perforazione o di trasporto di prodotti petroliferi, dal momento che ogni singolo gigante in viaggio nei nostri mari costituisce e deve essere trattato come una potenziale e seria fonte di inquinamento. In considerazione di una così vasta casistica di fattori inerenti il verificarsi di un evento, è doveroso inoltre considerare ciò che accade a valle dell’incidente e cosa è possibile fare per fronteggiare al meglio il potenziale scenario di danno che si viene a configurare. ww w. os di fe .o rg Innanzitutto vi è da dire che il petrolio riversato in mare subisce un processo lento ma inesorabile di movimento e trasformazione. Avendo un peso specifico inferiore rispetto a quello dell’acqua, dopo lo sversamento gli idrocarburi si dispongono formando una pellicola impermeabile che tende ad allargarsi e a posizionarsi in strati di vario spessore, in funzione dei venti e delle correnti marine. Gli strati superiori della chiazza oleosa, essendo più volatili, si liberano in atmosfera per evaporazione, mentre gli strati inferiori, soggetti a fenomeni di emulsione, aerosol e fotossidazione, in parte penetrano in acqua e vengono biodegradati naturalmente dagli organismi marini, ed in parte si aggregano in grumi catramosi che precipitano sul fondo o che viaggiano alla deriva fino ad approdare su lidi e scogliere. Il lungo viaggio delle longeve particelle di petrolio è già di per sé sufficiente a capire come questa forma di inquinamento possa seriamente nuocere alla salute dell’ecosistema marino. La serietà dell’incidente può poi aggravarsi in funzione di una moltitudine di fattori quali la tossicità del tipo di prodotto fuoriuscito, il tratto di mare colpito (vicinanza con le coste, presenza di aree marine protette ecc.), nonché il raggio di contaminazione, fortemente legato alle condizioni meteo-marine (si stima che la marea nera viaggi con velocità pari al 3% di quella del vento). Chiaramente a ciò va aggiunta la tempestività e l’efficacia dei piani di intervento nelle fasi immediatamente successive all’incidente, che con la gravità dello stesso si trovano in una evidente condizione di mutua e reciproca relazione. Posto infatti che la prima azione di contenimento del danno sia la rimozione della fonte inquinante, il processo decisionale inerente a quali contromisure adottare per fronteggiare lo spargimento della marea nera non può prescindere da una attenta valutazione della gravità dell’evento. Le soluzioni tra cui scegliere in questi casi sono diverse, ma riconducibili alle due principali tecniche di rimozione e dispersione. La rimozione può avvenire mediante l’utilizzo di materiali inerti assorbenti e inaffondabili, che inducono la gelificazione 5 dell’idrocarburo, oppure mediante il ricorso a mezzi meccanici statici o dinamici, che presuppongono il supporto di panne galleggianti di contenimento, natanti in grado di ricevere e separare il greggio dall’acqua, e navi cisterna o serbatoi galleggianti in cui raccogliere l’inquinante recuperato. Purtroppo il ricorso anche combinato a queste tecniche di rimozione, pur ammettendo condizioni ottimali di luce e mare, consente di raccogliere al massimo il 30% del petrolio sversato. w. os di fe .o rg Molto più tempestive ed efficienti sono invece le soluzioni che agiscono per dispersione dell’inquinante grazie all’azione di appositi agenti chimici che operano rompendo i legami molecolari degli idrocarburi. Infatti il frazionamento delle molecole provoca un aumento della superficie di separazione acqua/petrolio che consente un’accelerazione fino a 1000 volte del naturale processo di metabolizzazione degli idrocarburi da parte di alcuni batteri presenti nel mare, i quali ricavano le loro energie dalla separazione del biossido di carbonio dall’acqua. Tale tecnica, che come detto risulta un mezzo rapido ed efficiente per tamponare l’emergenza, riduce notevolmente il rischio di incendio e rallenta il naturale processo di emulsificazione dell’acqua in olio, stato che complica notevolmente i processi artificiali e naturali di degradazione (basti pensare che con l’emulsificazione la massa oleosa aumenta in volume fino a 5 volte). Il ricorso a tali tecniche, rigorosamente disciplinato dalle legislazioni locali, è tuttavia consentito solo in caso di greggi caratterizzati da bassa viscosità e che si trovano in acqua da un periodo di tempo non sufficiente ad innescare processi di trasformazione in grado di rendere le molecole refrattarie agli agenti dispersivi. ww Ormai prossime al disuso sono invece altre tecniche di disinquinamento, quali la combustione e l’abbattimento, che si limitano semplicemente a trasferire il contaminante rispettivamente in atmosfera e sul fondo del mare. La combustione infatti, oltre ad essere molto pericolosa per le squadre di intervento, libera ingenti quantità di gas combusti e provoca la ricaduta in mare di residui solidi difficilmente degradabili. Analogamente la rimozione per abbattimento consiste nello spargimento di materiali inerti che, aumentando la densità dell’inquinante, ne provocano l’affondamento. Chiaramente qualsiasi sia il piano di intervento messo in atto, non si può prescindere dalle due fasi di monitoraggio e di previsione della dinamica di contaminazione, quest’ultima attuata mediante avanzati modelli di simulazione che, in base a variabili come condizioni meteo-marine, tempo trascorso dall’incidente, tipo di greggio ecc., consentono di prevedere gli spostamenti e le espansioni della massa olesoa. Tali simulazioni giocano un ruolo fondamentale anche per allertare le squadre di intervento a terra, dal momento che nella quasi totalità dei casi le operazioni di rimozione e spargimento attuati in mare non sono sufficienti a 6 contrastare il lento verso le coste. ma inesorabile avanzare della marea nera .o rg Qualsiasi siano le dinamiche e le fenomenologie, esse sono comunque tali da provocare un serio impatto sugli ecosistemi marini colpiti. Dopo il rischio più grave inerente alla perdita di vite umane, il primo effetto che si verifica con lo spargersi della marea nera è un “soffocamento” del mare. L’impermeabilità della pellicola, infatti, inibisce gli scambi gassosi ed energetici con l’atmosfera, con il risultato che la scarsità di ossigeno provoca una sorta di “soffocamento” del mare, mentre l’azione filtrante della luce va ad inibire i processi fotosintetici e metabolici di plancton, piante marine, alghe e madrepore. Oltre al danno in quanto tale, pregiudicare la salute di questi che possono essere considerati la “base nutritiva” del mare (soprattutto i microrganismi planctonici), può voler dire innescare delle ripercussioni più o meno importanti lungo tutta la catena alimentare, dalle posizioni più basse occupate da pesci, molluschi e crostacei, fino ad arrivare ai posti di vertice di cetacei e predatori pelagici. ww w. os di fe Nel caso delle madrepore e degli organismi vegetali cosiddetti bentonici (ovvero ancorati ai fondali), questo tipo di pericolo viene a manifestarsi nel momento in cui la marea nera si espande nelle acque a bassa profondità in cui essi risiedono (massimo 30 metri). Le madrepore che costituiscono le barriere coralline vivono infatti in una condizione di simbiosi con le zooxantelle, delle alghe unicellulari contenute all’interno della loro struttura calcarea, che per sopravvivere necessitano di particolari condizioni di irraggiamento e trasparenza dell’acqua. Vien da sé che le ombre gettate dalla macchia oleosa pregiudicano tali condizioni, ed inibendo le loro fisiologiche funzioni fotosintetiche, di fatto mettono a rischio la sopravvivenza dell’intera comunità corallifera interessata. Chiaramente oltre ad effetti impermeabilizzanti ed isolanti, la massa di petrolio che man mano si propaga anche in profondità produce degli effetti tossici immediati nel momento in cui entra in contatto con qualsiasi organismo vivente. A differenza dei cugini bentonici, gli organismi pelagici (pesci, mammiferi, ecc.) che non vivono ancorati al fondale, hanno la possibilità di allontanarsi dalle nube di inquinamento. Ciò nonostante, in caso di fuoriuscita di ingenti quantitativi, sono molti gli animali che rimangono invischiati nella coltre, oppure che muoiono per ingestione o per aver respirato le esalazioni rilasciate. Parlando dei pesci a farne le spese sono soprattutto gli stati evolutivi più deboli, ovvero le uova, le larve e gli avannotti. Particolarmente vulnerabili sono poi le tartarughe ed i mammiferi (delfini, otarie, leoni marini, foche, ecc.), che per respirare non possono fare a meno di emergere in superficie con una certa periodicità. In particolare per i mammiferi, oltre ai rischi di ingestione ed inalazione, si possono verificare casi di ipotermia 7 (per la riduzione della capacità isolante della pelliccia o della epidermide) e di inibizione dell’olfatto che pregiudica le capacità predatorie ed ostacola il riconoscimento tra le mamme ed i cuccioli. Altra specie animale particolarmente a rischio è quella degli uccelli marini, che generalmente trascorrono lunghi periodi di tempo in superficie o in prossimità delle coste. Il rischio principale per questa categoria risiede nel contatto con il piumaggio che, rimanendo invischiato dalla coltre di petrolio, perde la capacità di assolvere la funzione del volo e di isolare termicamente l’organismo, provocando la morte degli uccelli rispettivamente per annegamento o per ipotermia. ww w. os di fe .o rg Inutile dire che gli impatti ambientali devono essere considerati anche in un orizzonte temporale più ampio. In apertura si è citato ad esempio l’incidente alla superpetroliera Haven battente bandiera cipriota, avvenuto nel 1991 nel Golfo di Genova. Tutto ebbe inizio quando a bordo della nave si innescò un incendio a cui fece seguito una violenta esplosione. 144 mila tonnellate di petrolio si riversarono in mare e l’incendio a bordo della nave, successivamente affondata nello specchio d’acqua antistante Arenzano, durò per 3 lunghissimi giorni, provocando la formazione di una densa nube di fumo che avvolse l’intero Golfo di Genova. Cinque persone persero la vita e l’incidente passò alla storia come il più grave disastro ecologico mai accaduto nel Mediterraneo. Sebbene le buone condizioni meteo-marine e l’ingente dispiegamento di risorse consentirono la raccolta di buona parte del petrolio che si riversò in mare, si stima che ancora oggi a distanza di 21 anni, vi siano 75 tonnellate di materiale solido catramoso depositato a mò di asfalto sui fondali limitrofi al relitto. E’ evidente che tutto ciò, oltre ad arrecare un serio impatto sull’ambiente, ha avuto delle notevolissime ricadute economiche e sociali. Si consideri che la sola monetizzazione del danno ecologico provocato dalla Haven riporta stime di 2000 miliardi di lire, a cui vanno ad aggiungersi i danni, difficili da quantificare, subiti dalle economie locali. Nel caso della Deepwater Horizon le cifre stimate appaiono ancor più imponenti: la BP ha già sostenuto costi per oltre 21 miliardi di dollari per le bonifiche ed i risarcimenti ad imprese, persone ed amministrazioni, ed ha accantonato altri 40 miliardi di dollari a copertura degli ulteriori costi. Inoltre ha dichiarato di voler contribuire al recupero delle economie locali destinando un totale di circa 30 miliardi di dollari, a cui vanno ad aggiungersi altri 58 miliardi di dollari per le attività di ricerca e di ripristino ambientale. Cifre da capogiro, purtroppo non sufficienti a scalfire l’irreversibilità di una catastrofe che, almeno nel breve e medio periodo, ha irrimediabilmente pregiudicato la stabilità dei 8 ww w. os di fe .o rg sistemi ecologici, economici e sociali. Come a dire...una goccia d’acqua in un mare di petrolio! 9 ww w. os di fe .o rg Fonti: - www.incidentnews.gov - L’era del petrolio, di Leonardo Maugeri - www.aspoitalia.it - www.ilsole24ore.com - it.wikipedia.org - ISPRA – Sversamenti di prodotti petroliferi: sicurezza e controllo del trasporto marittimo - Piano di intervento Nazionale per la difesa da inquinamento di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini – Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 19.11.2010, Serie n. 271 - www.sapere.it - www.mondomarino.net - La Repubblica - ITOPF – The International Tanker Owners Pollution Federal Limited - www.greenreport.it 10
Documenti analoghi
Chargement de “swissinfo - Dalla provetta la soluzione alle
Altri gruppi di ricerca del progetto FACEit - che vede l'equipe losannese coordinare il lavoro di 12 partner in tutta Europa - si concentrano infatti sulla capacità di
certi microrganismi di distru...