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RIMMEL
narrativa italiana
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direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e impaginazione:
Daniele Ceccherini
utili consigli:
Giulio Mozzi
ISBN 978-88-96999-02-8
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2010 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano
www.laurana.it - [email protected]
Veronica Tomassini
sangue di cane
a Patrick,
a Pawel
Perché non vuoi capire che vi son certamente
migliaia e migliaia di Cristi, fra tutti quei
morti? Lo sai anche tu che non è vero che
Cristo ha salvato il mondo una volta per sempre.
Curzio Malaparte, La pelle
I
Marcin era morto. Io avevo i pidocchi. Cioè successe nello stesso momento, Marcin cagava sangue, stava morendo, beveva e
cagava sangue. Io invece avevo prurito ovunque, dietro la nuca
soprattutto. “C’hai la rogna”, mi diceva Tano, il pescatore, l’amico di Ivona. Ma Ivona stava con Marcin e Marcin stava morendo perché cagava sangue.
Io stavo con Sławek, Sławek Raczinski di Radom, Polonia.
Mi ci portò Sławek in quel posto di merda, una casa a due piani,
zona residenziale, bordello con mignotte dell’est, cuscini a
forma di cuore, camere personalizzate, condom personalizzati,
fellatio personalizzate. I pidocchi li presi prima comunque.
Ero una ragazzina nei modi, e forse anche una donna. Perché
avevo ventidue anni. Statura media, carina, sguardo acquoso,
gambe fragiline, magre troppo magre, taglia seconda di reggiseno. Capelli lunghi. Scuri. Graziosa. Italiana. Di Siracusa.
Stavo con un polacco di nome Sławek, professione: semaforista.
Marcin morì alle ventitré in ospedale, seconda chirurgia, era
un sacco informe, sboccava sangue e sangue, dalle orecchie, dal
naso e da sotto, credo. Erano le ventitré ed era lunedì. Sławek
aspettava sotto la luce gialla e malsana del bigio corridoio, io gli
stavo al fianco, non avevo i capelli. E anche Sławek li aveva
rasati ché c’aveva i pidocchi, secondo me, era stato lui per
primo, come per la rogna, lui per primo. Poi toccava a me. Allora
alle diciassette di quel lunedì, Marcin prese il rasoio che usava
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per la barba e nel cortile del bordello per mignotte dell’est estrapolò ciocca per ciocca, Sławek aveva capelli forti, chiari, lucidi;
Marcin aveva pazienza e Sławek non fiatava. Aveva coraggio il
mio uomo polacco perfino nelle piccole cose. Alle ventitré
Marcin moriva per davvero.
Avevo una macchina, era nuova e la pagavo a rate perché
pensavo di lavorare abbastanza. Sicché mi licenziarono per inettitudine, assurdo, inettitudine. Oh, facevo la segretaria per dei
crapuloni, mi uccideva la loro noia; ho sopportato, mani inzaccherate di toner, pc impostato con programmi per crapuloni.
Io sono un’artista. “Belli, mica mi mollate così”. “Belli, io
c’ho la macchina da pagare”. Belli. Io sono cattiva e uso di solito parole troppo lunghe. Tipo: effettivamente, oppure improrogabilmente, improcrastinabile, incontrovertibile. Poi mi toccava
depennare il mio capo-crapulone, quando al secondo rigo specificava: via Tucitite. Somaro. Tucidide. Di, non ti. Somaro.
Era un paesaggio grigio e triste, Siracusa. Grigio nella sostanza,
perché poi c’era la luce paglierina a inondare di falso gaudio
marine e angiporti; era la luce che confondeva i pensieri che tristi erano tristi; come d’altro canto la gente che scorgevo china e
muta, mai un sorriso, accidenti. I miei pensieri erano tristi, prima
di diventare pensieri polacchi.
Oggi sono adulta. È Natale, l’alberello luccica, abbiamo appeso
le bilie colorate, i nastrini di raso delle bomboniere di mia sorella, le mele finte. Il mio polacco è sparito. È tornato a Radom,
dicono, non Tano, l’amico di Ivona che stava con Marcin e
Marcin è morto.
No, me lo ha detto Justyna. Justyna ha le gambe nere, è cirrosi. Justyna vive in una grotta e beve solo vodka possibilmente.
Perciò fa la mignotta, ma non è mai stata nella casa a due piani.
La casa era un postribolo di zona residenziale, con camere personalizzate, scopate personalizzate. Ricordo lo scaracchio di un
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vecchio guardone, quello che con coraggio e zelo si masturbava
dietro la porta dove Tereza ci dava sotto con la bocca; lo ricordo
perché brillava di alcune prerogative, era il preambolo lurido
della casa di mignotte, lo doveva essere, secco e virile, umido e
filaccioso, mortale e ributtante, preambolo della casa di mignotte, dove puzzava ogni cosa, dove puzzava la vita stessa, i suoi
uomini, la sua gente da sottosuolo. Tereza era brava.
Ricordo questo. Poi Marcin morì. Sławek non andava più al
semaforo. Aveva smesso, non chiedeva soldi, non più, Sławek
era un ex barbone di Radom. Sławek stava con un’italiana.
Ero io. Io mi sentivo speciale. Non lo ero, no, magari sì.
Oggi sono adulta, taglia seconda di reggiseno. Ho un figlio.
Si chiama Grzegorz. Il figlio di Sławek, ex barbone di Radom.
Sławek non era un barbone. No, Sławek era l’angelo nero,
gentile, gonfio soltanto un pochino, ma riuscivo a intercettare i
suoi occhi di slavo, origini ucraine, occhi allungati, non so spiegare. Era slavo.
Oggi sono adulta, posso ricordare. “Poco spicci, prego signora, poco spicci”.
Io mi avvicinai, io ero lì, ero già lì, china sulla sua cinta, giù,
non una parola. Giù. La mano sopra la mia testa. Giù.
E invece ero ancora al rosso. Rosso. Traffico fermo. “Poco
spicci”, mio angelo. “Poco spicci”.
Le lucette brillano, fuori sarà Natale per tutti. Ovvio lo sarà, ho
chiamato l’agenzia Pagat, quella che viaggia sulla tratta PoznanCatania, Poznan-Siracusa. Mio marito non era nella lista dei passeggeri. No, sparito. Tereza lo aveva visto, giurava di averlo
visto sul pullman di Pagat con Annetta Podowice di Tomaszòw
Mazowiecki.
Sławek ricordi? Hai attraversato il Danubio in canotto. Lo
facesti perché aspettavo Grzegorz, ti espatriarono, dieci anni.
“Al confine, amico, è finita la festa”. Ero di tre mesi. E tu avevi
cinque fogli di via. A Radom c’avevi la galera. Rapina a un
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bistrot, erano i Pevec, i grandi magazzini aperti all’Occidente e
ai dollari. Tu eri un cambiavalute, abile e incosciente. Il cavallo,
ti chiamavano. I Pevec, nella mieszka I-go, al civico numero
sedici. Rapina a mano armata. C’avevi la galera a Radom.
Poi sei tornato in canotto.
In guardiola, nella questura della via Politi, eravate in quattro.
C’era Yurko, Wladislaw, Iaczek. Loro avevano le crisi, andavano in epilessia, epilessia da alcolismo. Non inorridivano gli
appuntati. E nemmeno io che aspettavo il mio turno, seduta nell’anticamera, come dal medico, con un piatto di fegato fritto,
coperto da carta di cellophane. Era per te, avevi fame, tu ne avevi
sempre. La tua fame era paurosa, la tua fame sentimentale, perché eri un sentimentale. “Io troppo bisogno di ammore, io troppo bisogno di fare ammore, moie anjela”. Non ti bastava, tu
spacciavi un vuoto secolare, il lutto di un popolo intero. Sì, il tuo
era un dolore spacciato per libertà, ma quando la libertà non è un
crimine? Quando? Lessi i racconti di Marek Hłasko, quelli contenuti ne L’ottavo giorno della settimana, tradotto dall’originale
Osmy dzien tygodnia, morì da alcolizzato, erano gli anni della
Polonia di Gomulka. Un tascabile parecchio datato, un regalo di
Katarina, la vecchia di via Pasubio, l’intellettuale di Cracovia
sposata a un capitano di marina. Sai, Hłasko parlava di te.
Parlava di quel tarlo, Sławek, la vostra vicenda era laconica, era
il tedium perenne che solcava gli angoli della tua bocca, era la
tristezza arrendevole del post coitum, del tuo amore disordinato.
Andammo nel bordello di mignotte dell’est perché eravamo
cani, cani randagi senza padrone, coperti solo da un dolore
eroico, era bello immaginarci così. Non c’era Grzegorz ancora.
Io ero una ragazzina. Ancora. E tu un ex semaforista di Radom,
cento chilometri da Varsavia. Mai contati sulla carta, tutto ruotava intorno a Varsavia, giustificavi la fiacchezza morale del
tuo mondo, il torvo grigiore di un sobborgo rurale. Tutto era
Varsavia.
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Quando scesi dalla macchina, il nostro primo giorno, c’erano
le auto dietro che suonavano maledettamente, ma tu eri già mio,
china sulla tua cinta, una mano sulla testa, allora tu mi dicesti:
“Mia madre è una puttana”.
L’inetta, ex segretaria, l’inetta china sulla cinta, una mano
sulla testa. Giù. Anche tu eri un ragazzo.
Oggi sono adulta, posso ricordare.
Brillano le bilie, è Natale, Sławek, hai piazzato bene l’impianto
elettrico che funziona a meraviglia. Hai lasciato il presepe a
metà, però, hai preso la valigiona, pioveva, e sei andato. Ti guardai e alzai la mano. “Ciao”, urlai mentre ti chiudevi dietro la
porta di casa. Quella era casa nostra, Sławek. Era nostra, non ci
avrebbero espatriato stavolta, estraniato, divelto, separato, dilaniato. Continua tu, è stato il nostro destino, la frontiera in canotto, la nostra convivenza parto di mimesi infinite. Sono stanca
adesso. Questa è casa nostra.
Urlai ancora e ancora, un suono sordo, poi smisi e andai a
dormire.
Questa è casa nostra, le lucette brillano.
Mi piacevi.
Era febbraio, la prima volta che ti vidi. Un crocevia facile, il
solito, il mio, secondo a destra. Ero una ragazzina. Via Carducci,
pietra bianca, appena rifatta, la via decussata a uno sputo dal
centro storico. Dava sui giardini, sui giardini alitavano le magnolie secolari, nei giardini morivano i polacchi. Sulla panca dei
giardini rantolava Yurek, lo fece tre volte, poi morì finalmente.
Marcin aveva vent’anni però, Yurek era barbogio oramai. Marcin
mi piaceva, biondo e ceruleo, operaio di cartiera a Lodz.
Tu eri altra cosa. Spalle solide, struttura quadrata, polacco.
Alto, sciarpa al collo, sguardo obliquo. Occhi grigi di slavo.
Eri già mio, sentivo che era la fatalità, che era prescritto,
eventualità che confabulava sopra le nostre teste.
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Fermai la macchina, ti chiamai. “Ehi!” Ti girasti sorpreso, poi
dal tuo tabernacolo allungasti il passo verso di me: “Dai me zigaretta”.
Eri così bello, lo eri troppo per me, eri la sponda del fiume
che avrei attraversato, lo sapevo, lo sapevo, eri tu. Ti avevo cercato, l’inetta doveva rimettere un debito, la stoltezza e l’audacia
che mi resero sciocca da sempre, credulona, da sempre. Ma
avevo un credito anche, aperto con il mondo: è la mia ora, questa qui. L’estranea trovava casa. Bussai all’uscio del polacco.
Chiedevi con Wojciech, becchino di Chelm. Wojciech non
aveva età, era solo alcol. Giallo di capelli, giallo e lercio, piscio
e vomito; ma non ne ebbi paura. Non ne ebbi quando mi portasti nella casa delle anime morte, in via Nino Bixio. Pustostan in
codice. “Questa casa di polacchi”, pronunciasti orgoglioso.
“Viva Walesa, jestem naga prawda”, io sono la nuda verità, esultasti con un sorriso. La casa era un vecchio stabile della società
elettrica. Notai degli italiani, colsi nei volti scabri e ombrosi i
tratti di gente indigena, udii mormorare in dialetto, udii imprecare in una lingua sconosciuta, “Cholera!”, la tua.
Tereza che allora stava con Wojciech, prima di finire nel
bordello per mignotte dell’est, era la cagna con cui copulare a
turno. Wojciech non batteva ciglio e cagava in un angolo della
stanza, con i materassi a terra e il vomito alle pareti. Gabriella
l’eroinomane si faceva una pera al lume di una candela, mentre Tereza, la cagna, copulava. Mi tenevi per mano, velocemente attraversammo quel girone di fiele, e uscimmo sul ballatoio
pericolante.
“Bella donna”, mi dicesti, guardandomi severamente con i
tuoi occhi di slavo. Calcinacci rovinarono rumorosamente sotto
i nostri piedi, mi baciasti. Avevi il sapore della morte. Notai il
tremore delle tue mani. Avevi le dita scure, rigide. Ebbi pietà,
riconobbi di amarti perché la pietà è amore.
Entrai nella saga polacca, così cominciò la mia saga polacca.
La tua giubba di pelle puzzava, una sentina che mi parve prove14
nire dalle viscere della terra. Ti lasciai sul ballatoio, corsi in strada, con in testa solo il grosso culo di Tereza, i suoi gemiti rintronavano nel mio stomaco, dovetti fermarmi, respirare a lungo.
Non sarei tornata. Forse giurai sull’oracolo sbagliato. Perché tornai invece. Tornai al parco, la sera dopo.
Wojciech aveva la crisi. “Epilepsia”, mi illuminasti. Toccava
a te, eri l’unico a stare su, il tuo accendino salva-vita era bianco
con una tigre incisa. Lo ficcasti nella bocca del becchino di
Chelm perché non si strozzasse con la sua stessa lingua. Lingua
bruciata di beone. Il becchino si dimenava ai piedi della panca,
al centro dei giardini. Non era un buon frangente. Quello era il
momento dell’espiazione, si rimetteva il debito dei dannati: un
vomito di colpe innominabili. Vomito colore del sangue aspergeva di sacrificio immondo il nostro tiepido appressarci al
miracolo. Il nostro prodigio, al capitolo: amore.
Allora mi baciasti di nuovo. Mentre Wojciech sputava bava.
Stavolta avevi il sapore della fragola. Era un buon sapore, cancellasti ogni perplessità, fosti l’oceano e la tempesta. Mi spingesti contro il poderoso tronco di magnolia.
Mi liberai del piacere con una oscura perfidia, auscultavo la
tiepida risacca di una deriva morale dove sangue, lacrime e
sperma avrebbero tumefatto il riverbero di una vita a scansione che non conoscevo, che impattavo all’istante, mentre il
liquido caldo scorreva sulle mie gambe e Wojciech sputava
bava.
“...siedem dziewczat z Albatrosa, tys jedyna dzis pozostal
mi po tobie, smutek i zal...” Era Wojciech, dopo il demone, era
Wojciech che cantava: “...sette ragazze di Albatros e tu sei
l’unica, oggi mi è rimasta solo la tristezza...”
Tornasti nella casa delle anime morte, ti accompagnai con la
mia auto nuova, da pagare a rate. Dallo stereo partiva la musica del cantante folk. “Sunu cint’anni ca ’sta musica nun cancia,
semu stracotti di frischitta e di tammuri… Cicciu”.
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“Qua vedi, manca la fisarmonica, questo è siciliano, sai, parla
di una terra asfittica, provata dalle conniv…”, dissi, ma tu mi
interrompesti.
“Cosa cazzo tu dire esfitica”.
Però ti garbava quella musica.
Arrivammo, posteggiai con una strana impazienza. Tu scendesti, io pure. Mi bloccasti al muro, la recinzione aveva piccole
spine che mi infilzavano le deboli spalle. Fu ancora amore,
ondeggiavamo con un ritmo lontano, saldo, le due sponde, il
fiume, il sacrificio impuro. Era una sera tiepida di fine febbraio,
l’aria era sottile, i gemiti di Tereza promanavano nel cielo della
via decussata, il suo grosso culo di puttana.
Entrai nella saga polacca. Tu appeso al mio seno, io inondata
dallo sperma della salvezza.
Avremmo lavato le offese, le nostre, le nostre ragioni retroattive.
Ingollasti l’ultimo quarto dal brick di vino. Vino di cantina,
rosso sangue.
Oggi sono adulta, posso ricordare. Oggi c’è Grzegorz che guarda stupito le lucine che brillano.
Dicono che tu sia a Radom, con Annetta Podowice di
Tomaszòw Mazowiecki. Dicono che Tomaszòw sia un brutto
posto, fumoso e sporco. Dicono che a Tomaszòw ci siano le
donne più avvenenti della Polonia.
Non conosco Annetta.
È Natale, questa è casa nostra. Stamani ho incontrato
Marcello, il Ricetta, sai bene chi. Mi ha aiutato per quel che ha
potuto, ha fatto un giro di telefonate a tutte le amiche polacche.
“Renata, ciao, tu ricordare Marcello? Sì, tak, io sono Marcello.
Tu conoscere Sławek, marito dell’italiana. Dove partire
Sławek?” Marcello usa stupidamente questi verbi all’infinito,
non gli entra nella zucca che a conversare fa più fatica lui, che
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Renata o Janina sanno perfettamente coniugare. È una bestia ’sto
Marcello.
Ad ogni modo, non avevano notizia o sarà la vostra bizzarra
omertà di polacchi ad aver giocato la partita. Non lo so.
Grzegorz guarda le luci ma non mi ha domandato, non ancora. Dov’è la novità, giusto Sławek?
Grzegorz ti conosce poco, meno male, oserei. Sei entrato e
uscito dalla sua vita sempre molto fugacemente, dunque lui ha
capito che bisogna soprassedere su certune assenze, che insomma un padre è uno che c’è se capita. Se capita, no.
Quando venne alla luce, oh mamma, che pianti i tuoi, sul mio
addome rilassato. Facesti commuovere persino l’ostetrica.
“Che uomo, figlia mia, che uomo hai avuto in dono, figlia
mia”.
Sarebbe stato il secondo. Non irritarti adesso, ti prego, voglio
parlarti di Claude. Claude alla maniera francese, ma non sappiamo veramente se lo fosse stato Claude o piuttosto Annamaria,
giacché la femmina era responsabilità mia, avrebbe avuto un
nome italiano casomai.
Otto settimane, prematuro pronunciarsi, senz’altro. Dovevi
starmi vicino, diavolo di un polacco. E invece ti facesti beccare
nel postribolo di borgata, con Irenka, Beata, Yaczek. Potevi
aspettare.
Rissa, oltraggio a pubblico ufficiale, atti osceni in luogo pubblico. Io non avevo il tuo coraggio, Sławek. Dimentica, ok?
Dimentica, ché io ci sono quasi riuscita.
È andata, quindici minuti, l’anestetico, l’oblio, dopo i dolori.
E un pannolone alla fine. La stanzetta era in un’ala isolata. Ci
sarà ancora, immagino. Mi svegliai per prima, dormii male pure
con l’anestetico. Mi svuotarono e aspirarono, piano piano.
Gambette e manine.
Au revoir. Non irritarti, lo dico alla maniera francese.
Dimentica.
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In fondo, erano soltanto cinque mesi che ci frequentavamo,
non stava in piedi la nostra storia, portatori malmessi di sventure, io e te. Ti sbattevi Irenka e io da sola a rimuginare sul fatto.
Non ebbi fermezza.
Sul lettino con le rotelle mi agitavo inutilmente, l’anestetico
non funzionava, ne provarono un altro; l’infermiera mi fissava
con una smorfia, o forse era compiacimento, scolpita nel viso
paonazzo, da contadina; si mostrava nella sua mole enorme, protendendosi a malincuore. Io ero inchiodata alla vergogna, le fitte
strozzavano timidi scampoli di orgoglio, un orgoglio infedele e
plumbeo, non più mio, non più. Sul corpicino insulso che supplicava quiete, l’infermiera sovrastava vittoriosa, il suo era il privilegio degli anaffettivi, la sua giustezza monumentale era sterile e
affidabile come il camice che indossava. Una giustezza che non
intercede, non lo avrebbe fatto per me, intercedere tra me e il
Creatore. Era tardi, l’infermiera mi parve sorridere con cattiveria. Io non saprei sorridere con cattiveria. Il mio stato d’animo
era paragonabile a un caleidoscopio regolato al napalm.
Volevi spassartela, sgualdrinella? Eccoti servita. Cichodajka,
già, sgualdrinella.
Figlia della malora, avrebbe berciato la vecchia di Cracovia
sposata al capitano di marina, figlia della malora, potevi chiuderle le gambe. Tu eri dentro, invece, qualche giorno, mica tanto.
Rissa, resistenza a pubblico ufficiale, atti osceni in luogo pubblico. Credo che avessi semplicemente esibito il tuo eroico scudo
fallico, un vero e proprio inno nazionale, tale per importanza e
saccenza anche. C’era un’eccitazione alcolica piuttosto generale
e direi anche abbastanza promiscua. Non era importante. Avevo
un rimedio a tutto. Torno, mi svuotano e torno. Mi rialzo, misek,
mio orsetto.
Mi pare si trattasse della via Agrigento, eravate là, a casa di
Irenka, beveva e tirava a sorte le sue vesti, no? Fino alle mutande, voilà. Ti piacciono le donne mature Sławek? Allora perché
hai scelto me? Va bene, ho cominciato io per prima, come tu per
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primo con la rogna e poi con i pidocchi e poi con le pustole ai
polpacci. Irenka è pesce marcio, prendimi in parola, te la scopavi perché la baldracca ti rifilava un biglietto da venti dopo.
Meglio così che avevo finito l’oro di casa e non avevo altro da
darti. Vendere al Ricetta, al buon Marcello, era diventato affare
nauseabondo considerata la fama da seduttore del marrano.
Brutto come la fame. Tu ci provasti, una volta, stavamo insieme da un mese, ci provasti. “Chiudi occhi, lui non vedi, lui dopo
te aiutare, a dopo tu aiutare me”. Ma era un mese che ci amavamo.
Tu, fiero polacco di Radom, lo avresti ucciso. Avresti ucciso per
molto meno e per la ragazzina italiana, me lo confidarono i tuoi
amici. Adesso mi dirai: “Sono tutti morti”. Me lo disse Wojciech,
il becchino, e quello che chiamavate Jaruzelski. Ti sorprende? Non
fosti tu a batterti con il rosso, Tadek, l’idiota di Strachowice? Lo
facesti per me, per difendere la mia reputazione.
Stavi sempre nella casa dei morti, però, in via Nino Bixio.
Meglio il bordello per mignotte dell’est, meglio tutta la merda
che mangiammo dopo che quella peste nera.
Scoprii che avevi un animo delicato. Lo scoprii molto presto.
Jaruzelski cadde dentro uno scavo fresco di ruspa sul lato ovest
del parco di via del Foro. Erano le dieci del mattino, tu non avevi
bevuto, per questo stavi male. Jaruzelski aveva già fatto il suo
primo turno al semaforo e raccolto abbastanza per rimediare due
litri di vino alla solita cantina, dietro l’angolo, venti metri dai
giardini. Ritengo che la postazione non sia un caso, accanto c’è
la banca dei pegni. Ritengo sia zona commerciale concepita
apposta per un drappello di semaforisti. Per cui, Jaruzelski finì
nel fosso, lo seguisti a ruota. Rimasi di sasso, non ebbi reazione,
mi gelò l’impotenza forse, non so, la sensazione che ogni dramma, ogni dolore, ogni accidenti vissuto con te avrebbe trascinato
d’appresso un avanzo di grottesco e paradosso che ci avrebbe
sottratto finanche il privilegio di piangere con zelo, con partecipazione, con serietà. E invece un ghigno, lì, sempre a portata di
mano, un lemure dedito a sbatacchiare il nostro seppur minimo
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amor proprio. Ora comprendo alcune cose, ad esempio il vostro
modo di sfidare il destino e la morte, un calice alzato e uno
schiocco di piatti.
Noi abbiamo le pie, noi abbiamo uno spiccato culto del lutto.
Noi siamo maledettamente consapevoli del nostro baricentro.
Noi non ridiamo mai, voi ridete con la bile. Voi, nel senso, voi
polacchi.
Ancora fango, tu e Jaruzelski nella buca, come se non bastasse lo sterco di ogni giorno, la casa dei morti, le sue terrificanti
flatulenze, e l’orrore di quelle creature di confine, tutti gli ex che
incontrai, ex mariti, ex operai, ex insegnanti, tutti polacchi, tutti
col fegato in pappa. Tu però eri bello sul serio, facevi la doccia
in Caritas e indossavi una camicia bianca.
Jaruzelski emerse dalla fossa. Mi fece impressione, aveva
un piccolo taglio in fronte che non smetteva di sanguinare.
Gracchiò in un polacco gergale: “Che il diavolo ti porti,
Sławek, sangue d’un cane”, avanzando con passi incerti fino
alla panca dei semaforisti dove Wojcech dormiva profondamente. Alzasti le spalle con noncuranza, tirasti in fuori il petto
e stringesti i pugni, subito dietro. Non barcollavi. Io seguii te,
come non farlo? Perché non farlo? Dico, seguire te. I miei non
scusabili “Sorry” avevano individuato la sostanza, il centro
delle cose, per questo assolutamente assolvibili, con te Sławek,
aveva una ragione il mio inane modo di stare al mondo, un
modo separato, macchiato di imperdonabili omissioni.
Entrambi vivevamo con la falsa percezione di un rifiuto a priori, roba da sfigati. Tu perché vivesti da figlio di zoccola certificata nell’orfanotrofio di Konskie fino a dieci anni, poteva
andarti peggio tuttavia, poi una madre ti è venuta in soccorso,
l’alter ego di colei che abdicò. Io piuttosto incline al melodramma, con una precisa opinione rispetto all’elemento fato,
fato senza pathos. Ma soltanto fino a un po’. Fino a quando non
incrociai la via dei dannati, cioè la tua.
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Sì, misek, mi hai guarito. E insieme abbiamo attraversato un
ponte. Bisognava dimostrare coraggio, e io, a mio modo, lo
dimostrai, non retrocedendo.
Ora, un amico mi disse: “Tesoro, non hai coscienza borghese”. Perché, di grazia? Perché quel semaforo lì, quello che era lo
spartiacque tra noi e il senso comune, il sentire retto, onesto,
conforme, aveva il calco della deregolamentazione; forte e primitivo il simbolo, una battaglia etica perfino, da giocarsi sul
tempismo intelligente di un tabernacolo luminoso. Chiamasi
distanza sociale. Io mastico l’espressione e non vi trovo valore.
Distanza sociale: un bolo che rumino e rumino e che non sputo
volentieri.
Non dovevo provarci, convengo. È andata.
Non ci crederai, ma io sapevo il tuo nome ancora prima di
quel giorno di febbraio. Non chiedermi una spiegazione, non
detengo alcuna verità. Solo avanzi allucinati di una rivelazione
prescritta.
Io ero la serva che nel libro di Ruth corre a ripararsi sotto l’ala
bonaria dell’Eterno, nella tenda del Dio degli Eserciti, sul monte
Sion.
Ero la vedova bianca che Isaia esortava a giubilare. La sposa
che non saggiò il suo talamo coniugale.
Il nostro amore serbò un segreto biblico, scritturale. Prendimi
in parola, Sławek.
Dunque Jaruzelski in realtà al secolo era Jan Rybicki, e Rybicki era
pure il nome di un personaggio di Hłasko. Non è straordinario?
È morto senza intestino, mi sembra, o ricordo male?
Marcello dice che si è scopato la sorella. Ci crederesti?
Spengo le luci, Sławek, sennò l’impianto fuma, è già successo. Spengo l’albero e vado a dormire.
Dobranoc.
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