Educare alla relazione

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Educare alla relazione
SERVIZIO EDUCAZIONE E PROMOZIONE DELLA SALUTE
D i p a r t i m e n to d i P r ev enz i one
ATTI DEL SEMINARIO
Educare alla relazione:
identità, diversità, alterità dell’adolescente
Come passare dalle buone pratiche alle pratiche buone
Giovedì 20 dicembre 2007
La comune arte del crescere di genitori, educatori e figli: tra ragione e tumulti del
cuore che accompagnano il percorso di diversificazione
la Scuola Statale Secondaria di I° grado di Vedelago Via Manzoni, 2 - Vedelago (TV)
A cura del servizio educazione
e promozione alla salute
Azienda ulss n. 8 Asolo – Treviso.
INDICE
“Trame nelle relazioni: Corpo, affettività
e identità sessuale nei nuovi adolescenti”
relazione del Prof. Francesco Pivetta.
Pag. 4
“Attraversando un paese sconosciuto: Adolescenti e genitori
come possibili compagni di viaggio.”
Prof.ssa Letizia Bianchi.
Pag. 9
“Buon prof./O prof. Buono”
Prof.ssa Anna Storgato.
Pag. 19
“Affetto che cos’è?”
Prof.ssa Patrizia Capella.
Pag. 21
Riconoscimento/lasciarti essere”
Prof.ssa Clara Geronazzo.
Pag. 22
“Quella timidezza”
Prof.ssa Maria Pia Simonetto.
Pag. 24
“Quale ghianda ha prodotto la mia quercia?”
Prof.ssa Germana Toso.
Pag. 25
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Capita che i ragazzi e le ragazze possano stupirci raccontandosi: quel momento, l’ora
del giorno, quella luce che filtrava cambiandogli i contorni…resteranno per sempre
indelebili. Quell’istante, con poche parole o gesti è stato capace di cancellare l’immagine
che avevamo di lui/lei, obbligandoci a costruirne una nuova.
Spesso, come genitori, insegnanti, educatori siamo persuasi di conoscere i nostri
ragazze, le nostre ragazze, ma quando attraverso le loro parole scopriamo che la loro
affettività, sessualità, progettualità ci sono improvvisamente estranee, temiamo di non
avere più gli strumenti per interpretare quello che ci stanno comunicando. Allora iniziano
le domande: “Chi è? Dove ho sbagliato? Cosa posso fare?”
L’équipe di insegnanti, educatori, operatori, che organizza il seminario,
affronterà con voi i temi:
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Possiamo crescere con loro rimanendo i loro genitori, i loro insegnanti?
L’adolescenza è una stagione della vita in cui si migra dall’infanzia alla terra
promessa e sconosciuta dell’essere adulti. Una stagione carica di ansie e di
paure, colma di speranze. Come aiutarli in questo passaggio?
E’ un’età di tentativi, di ricerca, di scoperte e di scelte: “chi sono? Chi
diventerò? In che modo mi riconoscerò io e solo io, come diverso, unico e
prezioso rispetto a tutti gli altri? Ce la farò ad essere me stesso?”
Gli adulti ascoltano le domande mute degli adolescenti? Sanno
accompagnarli nel loro passaggio dal corpo infantile e quello adulto, dalla
dipendenza all’autonomia, nella scoperta della loro identità?
Quanta passione gioiosa gli adulti riescono a comunicare agli adolescenti
in quest’età di passaggio? E quanto riescono a scoprire di loro e di se stessi
crescendo insieme a loro?
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RELAZIONE
“Trame nelle relazioni: corpo, affettività e identità sessuale
nei nuovi adolescenti”
di Francesco Pivetta
Premessa
Lo spazio relativo alla sessualità, all’interno del quale agiscono le ragazze e i ragazzi,
presenta una geografia spesso contradditoria, a volte paradossale segnata da:
• Conflitti legati all’identità sessuale
• Silenzio di famiglia e scuola, largamente impreparate al dialogo in materia
• Informazione scientifica di medicina e scuola, che non riesce a parlare con i giovani
• Passaparola tra coetanei confortante e nel contempo pregiudiziale
• Suggestioni nella formazione sentimentale e sessuale offerte dalla massiccia cultura
porno, in televisione, internet, riviste…
• Isolamento e rinuncia a prospettive di un futuro sessuato (ansia, sofferenze,
insicurezze)
• Desiderio non sempre in grado di confrontarsi con la relazione
• Difficoltà di confronto nei momenti in cui l’agire sessuato diventa prova
• Chiusure e scarso investimento progettuale proprio quando si tratta, invece, di
costruire legami affettivi e di solidarietà
Come dice Galimberti (1996):
“Il perimetro della sessualità va ben al di là del coito e della contraccezione, per investire
l’identità, la gestione delle pulsioni, l’orientamento dei desideri, la valutazione della
normalità, i rapporti con i genitori, la relazione con i coetanei, il bisogno di orizzonte
etico a cui riferirsi in un progressivo ampliarsi di cerchi concentrici che coinvolgono
la famiglia, il gruppo, la società, il patrimonio culturale, nonché la storia dell’umanità
così come si è sedimentata nelle forme simboliche che a livello individuale e collettivo
tracciano la trama delle nostre relazioni”.
Sessualità, genere, identità
L’identità sessuale dell’adolescente, sia essa di genere, di orientamento sessuale o
quant’altro appare nel contempo più debole e più articolata di un tempo. L’adolescente
è chiamato a definirsi all’interno della propria cultura, dei modelli proposti nella famiglia
e nella società, delle offerte del mercato, dell’informazione. Tutti poteri formidabili e in
cui più culture e soggetti entrano in contatto tra loro, in cui l’adolescente si trova a fare
i conti con la propria crescita e il proprio futuro in presenza di molteplici proposte “usa
e getta” che rendono difficoltosa una scelta autonoma e originale in cui impegnare
responsabilità e tempi lunghi.
Richieste talmente forti che sembra facile “scrollarsele di dosso” ricorrendo a scelte di
omologazione al piccolo gruppo di appartenenza che conferiscono una più riconoscibile
identità sociale, economica, sportiva, sessuale.
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Vivere in una società in cui, contrariamente a quanto si pensa, sono già preconfezionati
i percorsi di crescita individuale e di gruppo, significa in parte anche essere isolati e
avere forti incertezze sul futuro. Allora a volte è facile, per chi sta facendosi largo nel
mondo, riformulare vecchi pregiudizi, nascere e crescere in nuovi, ritrovarsi incapace di
riconoscere e far riconoscere il proprio percorso di diversificazione.
A volte si riconosce come diverso, strano, estraneo - e quindi straniero e nemico - chi
non condivide nella quotidianità e nella frequentazione i propri usi, costumi, modi di
sentire, leggere e dire il mondo. A volte riconosce come nemico se stesso. Si accentua
in tal modo la divaricazione identitaria tra rischio del conformismo e rischio border line.
L’adolescente si trova a fare i conti con una realtà sociale in cui apparentemente è
cresciuto il numero di famiglie problematiche, incapaci in qualche modo di far fronte ai
compiti evolutivi. Va chiarito per tempo che la problematicità non può essere definita
attraverso catalogazioni patologiche. È più interessante chiedersi “cosa fa problema”
alla famiglia, sempre più in crisi nel suo sentirsi inadeguata: potrebbe essere proprio
l’ideologia di famiglia, il convenzionalismo degli stereotipi e delle aspettative nei
confronti dei figli a creare il problema.
Anche se l’accudimento affettivo funziona, la famiglia spesso non è preparata
a sostenere il percorso dell’identità sessuata e relazionale di ragazzi e ragazze. In un
contesto in cui s’affermano nuovi tipi di famiglia, si impongono nuove riflessioni sulla
stessa, accogliendo proposte di cura nuove e non sempre conformiste. Qualora si
rimanesse legati allo stereotipo di famiglia convenzionale, non si riuscirebbero a capire
le ricchezze di cui sono portatrici le persone che provengono da altre culture o dai
molteplici processi identitari che caratterizzano i percorsi genitoriali anche all’interno
della nostra cultura.
Per proseguire nell’approfondimento del tema appare necessario costruire una base
terminologica comune e perciò comprendere e negoziare il significato di alcune
definizioni.
• In primo luogo la sessualità. Questo termine rappresenta la condizione dell’essere
sessuato, su cui l’individuo fonda le proprie relazioni sociali. La sessualità è legata
alla riproduzione, è fondata biologicamente, inaugura relazioni di tipo simbolico e
culturale.
• Per sesso si intendono, invece, le sue caratteristiche biologiche, il nascere cioè con
attributi maschili, femminili o, anche, di entrambi i sessi.
• Quando si parla di genere ci si riferisce all’identificazione primaria dell’individuo
come uomo o come donna (tratto prevalentemente permanente, solitamente stabilito
nella prima infanzia).
• L’identità di genere è il concetto più interiore che l’individuo ha di sé. La maggior
parte delle persone sviluppa un’identità di genere che è in linea col sesso biologico. Per
altre, invece, l’identità di genere è diversa dal sesso biologico: sono, per esempio le/i
transessuali, che a volte chirurgicamente o mediante ormoni cambiano sesso perché
sia più coerente con la loro identità.
• Per ruolo di genere si intende l’insieme di aspettative (ruoli) su come gli uomini e le
donne si debbano comportare in una data cultura e in un dato periodo storico. Coloro
che escono da ruoli così definiti preferiscono chiamarsi trasgender con comportamenti
dell’uno e dell’altro genere.
• Infine l’orientamento sessuale riguarda l’attrazione erotica ed affettiva per un sesso
o per l’altro: omosessuale, bisessuale, eterosessuale. Questo viene determinato in base
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al sesso da cui le persone sono attratte (lo stesso sesso per gli omosessuali, dal sesso
opposto per gli eterosessuali, da entrambi i sessi per i bisessuali).
L’identità
“Come sono? Sono così”. La battuta sembra semplice, eppure cela la necessità di
riconoscere ad ogni individuo il proprio carattere e il proprio percorso identitario.
Laddove sono più forti i controlli morali e ideologici è facile che l’adolescente si convinca
di avere dentro di sè un sosia che non gli somiglia. Vale per la differenza di genere
che non è interessante come oggetto da conoscere, ma come realtà da cui partire per
indagare e conoscere il mondo e vale per ogni diversità e specificità sessuali. Partire da
questo riconoscimento significa restituire alla complessità del corpo, formato da carne
e psiche, la sua umana realtà, riconoscendo che “nella sessualità di un uomo ci sono le
tracce del suo modo di stare al mondo” (Galimberti, 1997).
In sintesi, ci appare fondamentale ricordare che l’identità è work in progress. A volte
la si guarda come identità statica, un modo di fotografarla per scotomizzazioni, per
sequenze temporali o di situazione.
A volte la si intuisce come identità processuale.
Nel suo percorso di crescita, l’adolescente farà i conti con la sua identità corporea, con
i suoi fantasmi sessuali, con i modelli culturali di comportamento, col bisogno di capire
“chi sono” di fronte alla scelta sessuale (“sono normale?”, “è così che si agisce?”, “chi
mi piace?”) che segue sempre la scoperta dei propri interessi relazionali ed emozionali,
attraverso il riconoscimento del desiderio che lo fa sentire individuo sessuato.
L’identità è una scoperta: tra conservazione e cambiamento è una costruzione di sé,
un continuo intreccio di relazioni interpersonali perché l’identità è anche dipendenza
dall’altro. Come potrebbe esserci relazione senza dipendenza?
L’identità sessuale ha bisogno di nominarsi e di riconoscersi anche per dolore. Chi parla
di ferite, di dolore sa che il dolore è consapevolezza di un limite. Potremmo dire che
l’identità occupa uno spazio tra i limiti e le risorse dell’individuo. L’identità, infatti, muta
attraverso il nutrimento dall’esterno, nella consapevolezza che nessuno esiste senza il
mondo esterno.
“Essere se stessi, essere diversi” (Jervis 1997) sta ad indicare un processo di
identificazione che esiste e che si accompagna a quello di diversificazione. L’identità
vista con gli occhi degli altri è ciò che rende distinguibile da tutti gli altri, cioè permette
a un individuo di non essere confuso con gli altri, di essere diverso dagli altri. Insomma,
l’identità è imprescindibile dal giudizio che gli altri esprimono e che continuamente
confermano e correggono.
Per parlare di identità sessuale è necessario ricordarsi che scoprirsi come individuo
sessuato significa aprirsi a relazioni, desideri ed emozioni che identificano la persona
nel momento in cui li vive. L’identità sessuale è identità, in cui si cerca di armonizzare
biologia, cultura, emozioni, desideri.
Compiti evolutivi
I problemi legati all’identità vengono enfatizzati, soprattutto quando l’adolescente affronta da
solo i compiti evolutivi che l’attendono. Per poterli richiamare alla memoria è prima opportuno
ricordare che l’adolescenza ha alcuni aspetti invarianti (quali il bisogno di nascita e visibilità
sociale e il conflitto tra conservazione e cambiamento) e altri, culturalmente prescritti, variabili
(quali il conflitto intergenerazionale e le caratteristiche del gruppo dei pari).
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I compiti evolutivi, dunque, che l’adolescente si trova di fronte sono molti: la separazione
dalla famiglia d’origine, l’inserimento nella comunità sociale, l’organizzazione della
propria identità e l’acquisizione di nuovi ideali e valori. Così come sono molte le ansie a
ciò connesse: la percezione soggettiva di non riuscire a realizzare i compiti evolutivi, il
ritorno del passato e la paura del
futuro, l’estraneità del corpo nel processo di sessualizzazione.
Il Sé corporeo nell’adolescenza è in continua fluttuazione: è soprattutto un Io corporeo
alle prese con la nascente sessualità, con la tempesta ormonale, con i cambiamenti
repentini legati alla maturazione delle caratteristiche sessuali primarie e secondarie.
Con la preadolescenza la consapevolezza corporea subisce una rivoluzione: si ama e si
odia il proprio corpo alternativamente, lo si riconosce oppure lo si allontana, lo si cura
oppure lo si tratta male, lo si osserva attentamente oppure è come se non esistesse, si
sottolineano le proprie caratteristiche oppure le si nascondono. Ogni giorno è diverso
dall’altro e il velocissimo e tumultuoso cambiamento delle proprie caratteristiche
fisiche si riflette in una grande confusione del vissuto del proprio corpo mai vissuto
interamente.
È il principio di realtà che ha una funzione “equilibrante” sulla propria immagine del corpo
ormai sessuata. La scoperta dell’altro in questo senso è funzionale al riconoscimento del
proprio Io corporeo in relazione alla costruzione del proprio Sé corporeo strettamente
unito al Sé sessuato.
Quando le singole rappresentazioni corporee di sé vengono raccolte dall’Io per entrare
a far parte del Sé allora il soggetto può dare avvio ad una autopercezione unitaria e
stabile.
Passioni & legami
A un certo punto l’adolescente sa che, nella sfera della sessualità e delle relazioni, è
giunto il momento di sperimentare, di mettersi alla prova e superare la prova: è una
spinta motivazionale proveniente dal mondo interno, un progetto di sviluppo che si
traduce nella prova dell’amico del cuore, del gruppo, della compagnia, del legame di
coppia. L’adolescente intuisce quanto una raffica di “no” provenienti dai “nuovi oggetti”
possa influire sulla sua autostima. La prova concerne la capacità o il diritto a costruire
legami sociali, cioè il proprio diritto di cittadinanza nella microsocietà dei coetanei
(Pietropolli Charmet 1999). La prova è la spinta per essere nel mondo. La prova fa
parte del processo di individuazione. Serve per costruire la propria identità. La propria
identità si costruisce mettendosi alla prova nel mondo, costruendo i legami sociali. In
questo senso è ancora più intensa l’esperienza del primo amore: esso raggruppa ed
unifica gli affetti. I primi innamoramenti sembra segnino il vero e proprio debutto dei
propri sentimenti finalmente liberi di esprimersi e delle proprie pulsioni sessuali.
Sentimenti, desideri, pulsioni si fanno strada nel corpo che cresce, si scopre e si apre
al mondo.
Conflitti
Ogni individuo ha una mappa personale, differente da quella degli altri, per orientarsi
nelle emozioni, nei sentimenti, nelle relazioni. L’ago della bussola è quello del desiderio,
che permette ad ognuno, nel corso della vita di conoscere gli altri e di riconoscersi.
La sessualità è il campo per eccellenza in cui il desiderio si manifesta fin dalla
preadolescenza. L’individuo prova emozioni e sentimenti attraverso le proprie preferenze
relazionali e quindi sessuali. Nessuno sceglie la propria sessualità, più semplicemente
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la scopre, la incontra lasciando parlare e ascoltando i propri desideri che spingono alla
ricerca del piacere.
La preferenza sessuale più comune tra gli esseri umani è quella eterosessuale (ovvero
desiderio per persone di sesso diverso da quello di appartenenza). La cultura e la
morale d’appartenenza della società impongono un conformismo nella considerazione
dell’orientamento sessuale dei suoi appartenenti. S’impone, cioè, come norma. I
desideri più comunemente accettati vengono definiti normali e vengono chiamati
differenti, diversi, fuori norma tutti gli altri desideri. La norma di una società crea sempre
problemi e sofferenze a chi non si sente accettato per la propria diversità. Essa fa
scattare meccanismi d’esclusione che rifiutano di confrontarsi con il relativismo del
desiderio.
Un esempio per tutti è quello offerto dall’adolescente omosessuale: omosessuali non
si nasce né si diventa, ma lo si scopre. L’Organizzazione mondiale della sanità, il 1°
gennaio del 1993 ha cancellato l’omosessualità dal suo elenco delle malattie mentali
sostenendo che non è una malattia ed è una variante naturale del comportamento
sessuale.
Anche se la scienza medica dimostra aperture in questo campo, non sempre la società
è altrettanto aperta. Su coloro che hanno una differenza d’orientamento sessuale
gravano pregiudizi d’ogni tipo, tesi a sminuire la persona. La diversità d’orientamento
sessuale quando non è dileggiata è taciuta, “uccisa dal silenzio” a meno che non sia
spettacolarizzata o resa eccentrica come stigma. Nominare le diversità, renderle visibili,
conoscerle, significa alleggerire il peso che grava su chi si percepisce come diverso,
farlo star meglio all’interno di una comunità, fargli utilizzare le risorse di cui è portatore.
Permangono nel mondo della salute e della scuola stereotipi culturali e vecchi pregiudizi:
si omette di nominare, dunque riconoscere, le diversità d’orientamento sessuale, dando
per scontato che tutte le persone sono eterosessuali. Tutto ciò rinforza il senso di
esclusione, soprattutto nelle persone più giovani, che si sentono emarginate, invisibili,
stigmatizzate. Va da sé che un meccanismo del genere abbassa l’autostima della
persona che si sente diversa: la persona tenderà a celare le proprie risorse, a limitare
l’espressione della propria individualità e a posticipare la propria autoaffermazione
affrontando un percorso di solitudine e di disagi.
Bibliografia:
AA. VV. E’ accaduto non per caso, in Sottosopra ed. rossa, gennaio 1996
Benasayag M.e Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004
Foucault, Michel, ‘Dialogues’, France-Culture, 4 aprile 1978
Galimberti U., I paesaggi dell’anima, Mondatori, 1996
Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, 1997.
Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, Cortina ed., 2000.
Jervis G., La conquista dell’identità, Feltrinelli, 1997.
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RELAZIONE
Attraversando un paese sconosciuto: Adolescenti e genitori
come possibili compagni di viaggio.
di Letizia Bianchi
II programma di questo ciclo di incontri, ‘Il benessere nella relazione tra adolescenti ed
adulti’, parla di “comune arte del crescere “ di padri e madri, educatori ed educatrici,
figli e figlie. La crescita infatti non è qualcosa che riguarda solo i giovani: ci riguarda
tutti, sempre e personalmente. E forse c’è una relazione tra la capacità di ognuna/o di
noi di stare in contatto con il nostro proprio processo di crescita e di cambiamento e la
capacità di sapere/volere/poter stare in contatto con una età della vita, l’adolescenza,
in cui il cambiamento - del corpo, della voce, delle emozioni, dei sentimenti, delle
prospettive di vita personali e sociali – e l’elaborazione degli stessi, è compito proprio
dell’età. Un compito certamente esaltante ma anche oneroso e spesso faticoso, per chi
lo vive e per chi vi assiste. Per noi adulte e adulti può infatti risultare sgradito, o difficile,
rivivere tramite il contatto - educativo, professionale o familiare - con le adolescenti e
gli adolescenti, un’età che ci riconduce sul terreno dell’incertezza, dell’imprevedibilità,
del ripensarsi e mettersi in discussione, tutte cose che speravamo di aver lasciato per
sempre alle nostre spalle. Ma il cambiamento, si è detto, è un qualcosa da cui nessuno
è escluso, adulti compresi; ci riguarda tutti. Stare vicini all’adolescenza ci potrebbe allora
essere di aiuto per non dimenticare che dobbiamo assumerlo come parte della esistenza
umana. Forse allora potremo meglio ricordarci che quando arriva è un trauma e che ha
bisogno di luoghi e persone per essere elaborato e nutrito.
Secondo il Dizionario etimologico Cortellazzo Zoli, adolescente è voce dotta che deriva
dal latino adolescente participio presente di adolescere, intensivo di alere nutrire. Un
adolescente è qualcuno che ha un bisogno specifico legato all’età di avere nutrimento
per il corpo, l’intelligenza, lo spirito. Sono quindi molto importanti luoghi come questo
da voi creato che vuole essere, come avete scritto nel pieghevole, “uno spazio di
pensiero e di riflessione (…) al fine di migliorare la relazione tra adolescenti e i docenti
e più in generale tra adolescenti ed adulti”, un luogo in cui tutte le persone coinvolte ed
interessate possono trovare un luogo di confronto e di scambio per praticare la comune
arte di nutrire il cambiamento.
Il mio lavoro ha due numi tutelari, Anna Maria Ortese e Le Madres de Plaza de Mayo.
Il titolo del mio intervento, rimanda a quello di un saggio contenuto nel libro di Anna
Maria Ortese, Corpo Celeste, in cui questa straordinaria scrittrice fa una riflessione
su quello che lei chiama “il continuo terremoto del crescere” (p.10), a partire da una
riflessione sulla sua vita di scrittrice, sul cambiamento che è avvenuto in lei, nell’Italia e
nel mondo in un arco di cinquant’anni circa.
Nel 1997 Ortese qualifica il nostro tempo come” un tempo di separazione, prima di tutto
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da se stessi”. Dice Ortese che nessuna cosa ci sembra come prima, tutto è differente e
confuso, e spesso abbiamo la sensazione di trovarci “in un paese straniero e sconosciuto”.
Una sensazione di nebbia, che deriva dal non sapere bene perché siamo così cambiati;
che cosa volevamo prima e cosa speravamo non è più a nostra disposizione. E tutto
è avvenuto all’improvviso, ci è capitato addosso a tradimento. Il mondo attorno a noi
cambia con una velocità sorprendente e con violenza, e il mutamento viene percepito
da noi come veloce e violento. E questo può indurre alcuni a pensare, ci può indurre a
pensare, che sia il mutamento la cosa cattiva o innaturale, strana, e non la velocità dello
stesso e la violenza dei mutamenti (p.19). Anche perché a questo si accompagna un
quotidiano “maligno e triste” (p.21). La estraneità al mondo e a noi stessi fa sì che poi
stentiamo a riconoscere questo quotidiano come nostro, di noi e del nostro paese, e
ad impegnarci per renderlo più festoso, non solo un frettoloso svolgersi di compiti e di
scadenze da cui evadere in estranianti viaggi, fine settimane e vacanze, partite alla play
station, bevute di birra. Altra era la vita che avevamo progettato, altro lo scenario che
avevamo previsto. Scrive sempre Ortese “Viviamo in un’area che non è più la nostra. Il
Mediterraneo non è più azzurro: montagne e territori , popoli, esperienze che credevamo
lontanissimi ci hanno raggiunti e noi nel nostro quotidiano non ci riconosciamo più,
facciamo fatica ad intenderci, siamo tristi( p.22). Questa frase mi ha profondamente
colpita. L’incontro con l’altro, con il lontano e il diverso, per provenienza geografica o
per generazione, non è una occasione di apertura e di scambio, ma ingenera estraneità
invasiva e disorientamento. Ingenera una non conoscenza di chi incontriamo e di noi
stessi in rapporto a loro.
Mi voglio soffermare su due punti della frase citata: facciamo fatica ad intenderci e siamo
tristi. Poco tempo fa, il New York Times ha dedicato un lungo articolo all’Italia in cui ci
definiva un popolo vecchio e triste. Vecchio è un dato demografico, ma triste? Credo che
la lettura di quell’articolo abbia spiazzato molti, perché l’immagine dell’Italia all’estero
è stata a lungo quella di un popolo creativo, inventivo e prolifico, allegro, persino un
po’ incosciente, che vive in un paese molto bello, è cordiale e amichevole e coltiva la
buona vita, pur in condizioni non sempre ottimali. Ma di figli se ne fanno pochissimi,
sempre di meno. Non riusciamo ad investire nel futuro e così ci priviamo della gioia e
della allegria che il nuovo porta con sé… Ci dimentichiamo addirittura della gioia che la
novità apporta. La nostra non è una cultura della vita e del nuovo ma della duplicazione:
di oggetti, animali e persone … e del loro consumo. E’ la civiltà del medesimo (Luce
Irigaray) della omologazione.
Il Mediterraneo non è più azzurro e siamo tristi. La parola tristezza come un elemento che
caratterizza il nostro oggi è stata portata alla ribalta dall’analisi di Benasayag e Scmidt,
il cui testo si intitola, appunto, ‘L’epoca delle passioni tristi’. Viviamo nell’epoca delle
passioni tristi dominata dalla insicurezza, dall’idea di un futuro minaccioso che spinge
ad una risposta individualistica ai problemi, al trovare rifugio in beni solamente materiali.
Il danaro sembra essere l’unico valore che non decade, che tutti riconoscono e in cui
ci si riconosce e tende a diventare la misura unica del benessere di un paese e delle
esistenze individuali.
E’ una corruzione della mente: penso ai miei studenti che fanno volontariato, si
impegnano e poi vogliono che questo sia riconosciuto come credito formativo. Penso alla
comprensibile preoccupazione dei genitori che però li induce, in una ricerca di sicurezza
per il futuro dei figli, a vedere la loro sistemazione essenzialmente come sistemazione
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economica (Giannina Longobardi). Penso ai responsabili dei servizi alla persona, basilari
per il benessere delle persone e per la civiltà di un paese, che oppongono sempre lo
stesso ritornello: non ci sono soldi. Siamo immersi in una idea di economia che non ha
più la vita alla sua radice (Vita Cosentino, Giannina Longobardi) e pur patendo questo
stato di cose, spesso facciamo fatica a ricordare che compito dell’economia è dare
risposte ai bisogni, ad ognuno ed ognuna secondo necessità e che la nostra personale
economia è fatta di denaro ma anche di ricerca di senso, di relazioni, di agio.
E’ quindi successo qualcosa, un improvviso salto di qualità, non nella direzione del
miglioramento, per cui di colpo oggi sembra che non ci sia di fronte a noi, per i giovani,
un avvenire rassicurante, per cui ci sembra che le nostre azioni quotidiane siano
immesse nella vita senza una mediazione di senso. Ho detto volutamente qualcosa,
perché credo che sia importante non dare per scontato di aver capito in che cosa
consiste il cambiamento. Siamo di fronte ad una complessità che necessita innanzi
tutto di essere descritta senza semplificarla, senza abbandonarsi a timori e apprensioni.
E’ importante non cedere ad un sentimento di nostalgia del passato (William J. Goode),
pensato come un luogo/tempo di certezze e valori. Per inciso non c’è niente di più
improduttivo di questo atteggiamento per riuscire a capire la realtà che ci circonda o per
capire i giovani. Quando si comincia a dire ai miei tempi o quando io avevo la tua età …
l’alterità dell’altro è già minacciata o comunque non valorizzata.
Come insegnante e zia mi è capitato di trovarmi a pensare che il bel bambino, l’affettuosa
ragazza erano diventate per me degli estranei. E delle studentesse e degli studenti che
non avevamo nulla in comune o tentare di capirli usando come metro delle loro esistenze
ciò che la mia generazione, io da giovane, facevo, desideravo, pensavo. Ma ho subito
capito - loro me lo hanno fatto capire chiaramente - che non era questo il modo per
affrontare il problema. Loro non sono io e a una relazione impostata in questo modo i
giovani giustamente si sottraggono.
Di tristezza parlano in uno scritto redatto assieme ad altri soggetti sociali dell’america
del Sud, Le Madres di Plaza de Mayo. Queste donne che oggi hanno dagli Ottanta
anni in su e che sono riuscite - senza usare le armi – a far cadere una dittatura efferata
come quella Argentina, che hanno aperto quasi senza mezzi, scuole e luoghi di incontro,
ritengono che uno dei principali compiti che abbiamo come singole/i e società sia
‘Resistere alla tristezza’. Viviamo in un’epoca profondamente segnata dalla tristezza.
Non solo la tristezza dei pianti e dei lamenti, ma soprattutto la tristezza dell’impotenza.
Le donne e gli uomini del nostro tempo vivono nella certezza che la complessità della
vita è tale che non si può far altro, a rischio di aumentarla, che sottomettersi alle regole
dell’economicismo, dell’interesse e dell’egoismo. La tristezza sociale ed individuale
ci corrode e ci convince che non ci sono più i mezzi per vivere una vita vera: così ci
sottomettiamo all’ordine e alla disciplina della sopravvivenza. Ma ci avvertono Le Madri,
il “tiranno” ha bisogno della tristezza perché così ognuno di noi si isola nel suo piccolo
mondo , virtuale e inquietante, e a loro volta gli uomini tristi hanno bisogno del tiranno
per giustificare la loro tristezza. Le Madri ritengono che il primo passo contro la tristezza
sia la creazioni di relazioni concrete e di solidarietà, la costruzione di legami personali e
sociali, a partire da necessità e responsabilità condivise, battersi per la vita e l’allegria,
tramite la liberazione della potenza che è in ognuno di noi. Così da non volgere questa
potenza in impotenza e di non indurre la stessa in altri.
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Come insegnanti, padri, madri, adulte e adulti quindi dovremmo batterci per questa
potenza che è in noi e a partire da lì incontrare l’adolescente che cerca con forza di
metterla nel mondo, di trovare un modo per esprimerla, batterci insieme per la nostra
e loro “vita e l’allegria”.
Facciamo fatica ad intenderci
La cultura giovanile – appare ad Ortese – come “fatta di slogan, di atteggiamenti, di
accompagnamento col peggio e con il più facile, e sempre, intanto, una grave solitudine
dell’io che non si vede portata a niente che ha orrore di sé e lo nasconde nel vanto”.
Può sembrare una descrizione estrema e ingenerosa, ma quanto sconcerto si registra
e circola oggi in chi legge e descrive i comportamenti di adolescenti e giovani. Non
si riesce a capirli. Anche perché gli strumenti usati non sono spesso all’altezza per
mettersi in contatto con il mistero che ogni alterità presenta, per mettersi in rapporto
senza volerlo ridurre a sé, ma rispettandolo e custodendolo. Non riuscendo a farlo si
dichiara che la comprensione non è possibile, ci si arrende.
Io appartengo ad una “generazione fortunata”, cresciuta in un momento in cui tutto
il mondo era teso al cambiamento – o così si credeva –, che voleva cambiare sé e il
mondo e che questo cambiamento ha agito collettivamente. E’ stata una stagione in cui
mi sono, ci siamo sentite e sentiti, protagonisti, in cui quello che eravamo e sentivamo
si è potuto esprimere. Il problema espressivo, il problema di una reale individualità,
nell’adolescenza gareggia con lo stesso problema della esistenza ma una volta divenuti
adulte ed adulti molte e molti di noi sacrificano il loro potenziale creativo a favore della
sopravvivenza.
Anna Maria Ortese dice: “Esprimersi: un bambino la fa di solito con il disegno, con il
gioco, fantasticando, correndo e perfino inventando un altro io, che lo difenderà dal
mondo. Un adolescente cercherà soprattutto i mezzi tecnici di una tale espressione
e vorrà tradurla in una personale produzione. Se il mondo, l’istruzione ricevuta glielo
consentirà, la sua ricerca sarà fortunata e la crescita del suo io sarà armoniosa. Se
invece, in questo delicatissimo periodo in cui vorrà dare una forma propria, quindi nuova,
a ciò che sente, il mondo gli presenterà i suoi propri modelli culturali, l’adolescente verrà
plagiato e abbandonato ad una crescita distorta.”
Il mondo attuale è oggi pieno di bambini e adolescenti plagiati dalla società – da noi
adulti? – nei paesi ricchi e abbandonati al ripiegamento su se stessi nei paesi poveri.
Quando il ragazzo cerca mezzi espressivi, per dirsi e per mettere la sua impronta originale
nel mondo e non ne trova o non vengono accolti allora si ripiega su se stesso. Forse non
smette di lottare per sopravvivere e per esprimersi ma i risultati sono del tutto inferiori
alle sue possibilità e alla fine si arrende a circostanze che limitano grandemente il suo
potere di espressione e al dolore di constatare che il mondo non ha posto per quanto
di nuovo lei o lui vi potrebbe portare. L’adolescente sta entrando in un mondo per lui
nuovo, di scoperte e stupori e di questo mondo vuole entrare a far parte, portandovi il
suo personale segno: ciò che gli viene proposto è stare in un già dato in cui non ha
avuto parte, di entrare, accettandolo così come è, nel territorio di noi adulti, che spesso
da tempo abbiamo rinunciato alla nostra personale creatività, al bisogno di esprimerci,
a cui non diamo più neppure la giusta importanza.
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Mentre l’adolescente, come l’artista, si inoltra in un mondo in cui tutto risplende “di
una luce senza origini” la luce della scoperta. Ogni cosa che tocca “scotta e lo sfolgora
di stupore”. Egli capisce ciò che l’adulto ha smesso di capire o crede di non potersi
più permettere di capire, che il mondo è un corpo celeste, che tutte le cose sono di
materia celeste e che la loro natura e il loro senso sono insondabili. Tutto lo fa piangere
e chiede inutilmente alla ragione e o ai superiori - maestri, genitori – “il perché di tali
magnificenze”.(p.59)
Vi ricordate quando ci dicevano, ‘tu esageri’? Oppure: ‘che cosa ti manca? Io alla tua
età non avevo neppure la metà di quello che hai tu: Non sei mai contenta…’ Oppure:
‘bisogna stare con i piedi per terra’? Non proprio un atteggiamento che coglie con
empatia lo speciale approssimarsi al mondo reale dell’adolescente che è “un’ estasi
che ha bisogno di essere accolta per entrare in quel reale nel modo giusto”.(ibidem)
Avere mezzi espressivi, essere educati ad usarli, vorrebbe dire avere un paraurti o un
paracadute. Significherebbe entrare nel mondo del reale per il verso giusto e proprio
dell’animo dell’uomo che è il fatto creativo. Quando ciò non avviene e si entra nel mondo
solo attraverso la proprietà di oggetti e il mercato, nell’adolescente resta un’ansia, un
vuoto che spesso si fa amara insoddisfazione – anche se apparentemente ha tutto
– o ira. Perché nella sua educazione o nascita al mondo, è mancato l’apporto della
sua propria invenzione e creatività. Ha trovato già tutto fatto. E il tutto fatto da altri lo
distruggerà e lui quando si accorgerà della propria amputazione fantastica, quel mondo
vorrà distruggere. Il problema massimo del mondo e della sua pace - conclude Ortese
- è avere bambini ed adolescenti in grado di entrare nel mondo, cosi detto adulto,
creando e non invece appropriandosi o distruggendo. Perché creare, poter creare è una
forma di maternità: educa, rende felici e adulti in senso buono. Non creare è morire e
prima irrimediabilmente invecchiare, spesso senza neppure essere diventati grandi.
L’insegnamento come passione trasformativa e incontro dell’altro nella sua
differenza.
Che cosa fa la scuola e noi insegnanti per una adolescente, un adolescente? Che
responsabilità continuiamo a sentire, prima di tutto, nei confronti della nostra creatività,
che è il punto a partire da cui possiamo incontrare il bisogno espressivo degli altri? Che
ne è della nostra capacità di vedere la terra come un corpo celeste? Si dice spesso e lo
diciamo a proposito dei professori che abbiamo avuto, che quello che veramente passa
di noi a studenti e studentesse è una qualche nostra passione: per la nostra materia di
insegnamento, per la relazione con i ragazzi, per la vita, la politica…
Alcuni anni fa, in un gruppo di lavoro, una persona per me autorevole mi chiese: ‘che
cosa ti muove a fare quello che fai?’ Io mi sorpresi a dire che avevo fatto l’insegnante, e
tante altre cose nella mia vita, “per aiutare mia madre”. Sto ancora decifrando il senso
e le implicazioni profonde di quella frase, ma so che è un punto da cui non voglio
prescindere. Per “aiutare mia madre”, mi ricorda che l’insegnamento non si riduce alla
trasmissione di contenuti disciplinari o alla capacità di programmare la propria azione
di insegnante ma rimanda alla ricchezza e alla complessità propria delle relazioni tra
esseri umani e in particolare a quelle tra essere umani di generazioni diverse; mi parla di
una dipendenza non gerarchica, di bisogni basilari che aspettano di essere soddisfatti,
di una responsabilità adulta nella relazione di crescita. Mi parla di un linguaggio che
media la realtà viva e non la occulta e della relazione amorosa che la veicola.
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Perché questo sia possibile ritengo sia necessario rimanere in contatto con se stessi,
volerci essere interi/e in ciò che facciamo (Ina Praetorius). Non in parte o con parti di noi
amputate. Personalmente il mio essere intera in ciò che faccio si è sempre legato alla
necessità di esserci come donna, di insegnare tenendo conto del sapere che le donne
hanno elaborato nel movimento politico delle donne.
Questo desiderio mai superato di voler esserci in ciò che pensavo, studiavo, insegnavo
mi ha sempre orientato ad operare perché studentesse e studenti non siano delle
ripetitrici, dei ripetitori del sapere già dato ma possano mettervi la loro impronta creativa,
possano anche loro “esserci”. Tenere conto della propria esperienza significa anche
saperla nominare e metterla in relazione con quella di altre e altri. Il che aiuta a dire la
differenza di ognuna/o e la possibile relazione e a dar vita ad uno scambio che non si
riduca al prendere atto di ciò che ci fa eguali o diverse. Al cuore del nostro lavoro vi
è l’ incontro con l’altro che si propone, anche tramite l’insegnante, di dare risposta
ad un bisogno di conoscenza e di crescita. L’insegnante mette a disposizione quanto
sa, frutto di competenza disciplinare e di vita, per aiutare chi ha davanti a tirar fuori
(e-ducere), quanto ha in sé in potenzialità per poter affrontare il compito che, come
studente o adolescente in crescita, in quel momento deve affrontare. Si tratta di una
professione che ha al suo cuore il nodo del cambiamento: chi insegna deve avere una
passione trasformativa. Nel lavoro di insegnante è necessario partire dalla certezza,
comunicare la certezza, che chi hai davanti ha in sé la potenzialità del cambiamento.
Come diceva una vecchia maestra, con serenità e sicurezza, il primo giorno di scuola
delle elementari ad una giovane madre timorosa per il suo bambino: ”Non si preoccupi
signora, a Natale iniziano a leggere e per Pasqua a scrivere”. Questo cambiamento, non
riducibile alla assimilazione di nozioni e dati, è strettamente connesso con lo sviluppo
della personalità della creatura che si ha davanti. La maestra che si mette in relazione
con i piccoli con tutto quello che l’esperienza le ha insegnato, che sa che è possibile
che accada, ancora e ancora, ciò che ha già visto succedere, fornisce loro un contesto
entro cui crescere e un pensiero positivo dello stesso.
Oggi la nostra apprensione e sconcerto, la preoccupazione per il futuro - nostro e loro-,
la caduta dell’idea che il futuro non può che portare a dei miglioramenti, è come un
grande nuvolone nero che sovrasta la crescita dei giovani e la opprime. Ma il lavoro
di insegnante ha a che fare con la fiducia e la speranza. Nel tempo ho imparato che
l’incontro con studentesse e studenti va ricercato e atteso; ho imparato a stare in
attesa di uno scatto, di un cambiamento anche minimo che si segnala con spostamenti
anche lievi tra ciò che essi facevano all’inizio e ciò che si azzardano a fare dopo; un
passaggio che accompagna il momento in cui studentessa ed insegnante diventano
la docente Letizia Bianchi e la studentessa Marianna. E’ un qualche momento di affido
che ci svela nella nostra singolarità e unicità reciprocamente una all’altra, in cui davvero
il fatto che non si può essere una insegnante se non si hanno allieve o una studentessa
senza che qualcuno venuto prima ti offra il suo sapere, diventa l’elemento strutturante
la relazione. Avviene un aggancio relazionale che permette a Giacomo, Marianna o
Mirko di avvalersi delle indicazioni che metto a loro disposizione. Per poi trovare il loro
modo di dare un apporto alla questione che insieme stiamo affrontando, seguendo per
un tratto il cammino che io ho già tracciato. Loro possono avere una via da percorrere
nel mentre che individuano la loro propria via, io ho qualcuno che cresce a partire dal
bisogno di quanto io già possiedo e che scambiato gli dà, mi dà valore. Nel tempo la vita
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mi ha fatto acquisire consapevolezza e amore per la fatica che i passaggi comportano,
maggiore capacità di saper dire oltre che il necessario impegno che lo studio implica
anche il valore che ne viene e il piacere che risulta. E che questo lavoro lo si fa da
soli necessariamente, ma non necessariamente nell’isolamento o basandosi solamente
sulle proprie forze.
C’è una adulta/o interessata a questo viaggio, curiosa di vedere come la studentessa
o lo studente procederà, cosa aggiungerà o toglierà di quanto già si sa e si conosce,
curiosa di vedere che giovane donna o uomo diventerà.
Partire dalla differenza mia e altrui, dal bisogno di libertà mio e altrui, dall’esperienza
e dalla consapevolezza dell’irriducibile alterità del corpo, il proprio e l’altrui, mi ha
insegnato a stare nel tempo senza troppa ansia, a stare nel silenzio, nell’attesa di ciò
che solo l’altro può fare. Credo che in parte la scontentezza e l’insoddisfazione di noi
adulte e adulti possa anche derivare dal fatto che la ricchezza che abbiamo accumulato
e che vorremmo accolta e a disposizione di altri, rimane inerte e senza eredi.
L’impresa di “comporre” la mia vita (Catherine Bateson) a partire dai tanti momenti
che l’hanno segnata ha ulteriormente rafforzato in me l’idea dell’importanza che chi
insegna parta da sé per capire come vuole stare nell’incontro con allieve ed allievi e
che, a partire dalla propria singolarità consapevolmente assunta, si può incontrare la
singolarità, la ricchezza ed eterogeneità di esseri umani in crescita. In fondo io insegno
quella che sono.
E credo che per ogni insegnante la passione per la propria materia, quanto riesce a
veicolare di questa passione per lo studio e la conoscenza , il tenersi aggiornate e dare
a loro ciò che in quel momento ci sembra il massimo di quanto sappiamo e abbiamo
capito, perda di efficacia se non c’è anche il desiderio di confrontarsi e mettersi in
relazioni con quanto studentesse e studenti portano.
Cosa ci insegnano le Madres circa la relazione con i giovani?
Le Madri di Piazza di Maggio sono le madri di giovani uomini e donne che la dittatura
argentina fece sparire. I cosiddetti desaparecidos. Il 24 marzo 1976 va al potere in
Argentina una giunta militare che nei sette anni di esistenza incarcerò 10.000 prigionieri
politici, costrinse all’esilio 1milione e 500.000 dissidenti, fucilò 3000 persone in strada
e fece sparire 30.000 persone.
I due terzi dei desaparecidos aveva tra i venti e i trenta anni. C’era complicità in tutti i
settori della società: nella magistratura, nella chiesa, nel sindacato, nell’università, nei
giornali e quando non c’era connivenza, la reazione della società argentina di fronte ai
sequestri e alle violenze fu di paura e sgomento, di incredulità. Il risultato fu una società
paralizzata dal terrore, attenta a non dire una parola di troppo, disposta ad occuparsi
solo delle cose che riguardavano strettamente la propria famiglia e i propri affari.
Le Madri dei desaparecidos nei giorni dopo il sequestro dei figli, si dicevano che era
successo qualcosa di impensabile. Era impensabile ed era successo ed era necessario
stare a quanto stava loro accadendo. Prima singolarmente poi insieme, si recarono in
tutti i luoghi, andarono da tutte le persone che potevano dar loro notizie dei figli che
erano stati portati via all’improvviso, senza nessuna spiegazione. Per poter essere più
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forti e visibili, un giorno alcune di loro si diedero appuntamento nella piazza dove si
affaccia la Casa Rosada, sede del Governo argentino, la Plaza de Mayo che ha dato
loro il nome. Il loro dolore di madri venne “messo in piazza”, nel luogo pubblico e di
incontro per eccellenza.
Erano molto sole ed isolate, ma il desiderio di far sapere al mondo cosa era successo ai
figli, cosa stava avvenendo in Argentina al di là delle menzogne dei golpisti, le portò ad
inventare i più svariati modi per comunicare. Scrissero “ho un figlio scomparso” sulle
banconote e quando si accorsero che la gente spaventata le distruggeva, iniziarono
a farlo su banconote di grosso taglio affidando la circolazione del loro messaggio a
quel mediatore universale che è il denaro; andarono in chiesa la mattina presto, e nei
libri di preghiera dove c’era il segno della liturgia del giorno, infilavano un foglio in cui
era scritto, “è venuta la polizia e si è presa mio figlio”; stampare volantini era proibito,
scrissero a mano ognuna di loro centinaia di cartoline che distribuivano all’angolo
delle strade. Le madri, come ha scritto Daniela Padoan che ha raccontato in un libro
intervista la loro storia, hanno sempre avuto una grande capacità di convertire una cosa
nel suo contrario: un insulto “pazze” in un punto di forza “sì, siamo pazze d’amore per
i nostri figli”, un divieto non si fanno volantini in una invenzione. La loro forza è stata
non la ribellione ma la fedeltà a se stesse e al legame con i loro figli e una grande
capacità creativa. Una delle armi più potenti da loro usate è stato il linguaggio. Le
parole vanno scelte bene, usate per dire la realtà di ciò che avviene nel mondo, per
dare agli avvenimenti il proprio senso e segno. Nelle madri la cura della parola rimanda
alla verità e quindi alla lingua materna, una madre “insegna al bambino a nominare le
cose con parole che corrispondono al vero”, dice Hebe de Bonafini, Presidente delle
Madres, nel libro di Padoan.
E soprattutto è questione di responsabilità di fronte alle parole che si dicono: ogni parola
è una promessa. Bisogna rispettare la verità delle parole e allora si avrà a disposizione la
forza che hanno le parole che contengono la verità. Che differenza non solo dall’uso che
le dittature fanno del linguaggio, ma da un uso oggi diffuso in cui le parole sembrano
essere pensate per stornare la realtà dalla realtà: esuberi invece che licenziamenti,
operatore scolastico invece che bidello, o in cui vige l’etichettamento: extracomunitari,
giovani senza ideali… parole che aiutano a porci in distanza dall’altro, a non viverlo
come appartenente al consorzio umano di cui noi invece faremmo parte. Sarà per
questo che le Madri che oggi lavorano molto con e per i bambini che vivono in strada
non vogliono che li si chiami bambini di strada: in questo modo, dicono, diventano della
strada e possiamo non occuparcene, ma se sono bambini, sono nostri, e a noi adulti
spetta prendersi cura di loro.
Lo scopo delle Madri era spezzare il muro di omertà e di silenzio, l’idea che quello che
stava loro succedendo era un lutto privato, se non una vergogna. Le Madri dicono sempre
che quello che ha permesso loro di sopravvivere, che ha impedito ad una dittatura
brutale di farle sparire tutte, fu aver rotto l’isolamento e la solidarietà internazionale.
Chiedere, incontrarsi, dire, stringere relazioni: è proprio quello che tutte e tutti possiamo
fare, contrastando la rottura generazionale, tutelando i rapporti di vicinato, curando
i rapporti tra la scuola e la famiglia, tra docenti e studenti. Quando il tessuto sociale
si sfrangia e si corrompe, i legami diventano deboli, la società si atomizza e tutto
può succedere. Le Madri hanno continuato a tessere relazioni, ad occuparsi di chi è
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in difficoltà o di chi stenta ad inserirsi nel tessuto sociale, anche quando la dittatura è
caduta. Il lavoro di tessitura sociale non ha fine.
Che è poi il compito di ogni educatrice ed educatore, il senso “vero”del lavoro che noi
tutte e tutti portiamo avanti nella scuola. Poter vivere in una società che non esclude e
lavorare perché possa essere tale, operando nella quotidianità della vita e del lavoro,
facendo di questo un sapere.
Per questo lavorano con i giovani e per loro, si occupano dei bambini che vivono nella
strada, continuano ad andare puntualmente in piazza, luogo di lotta e di conquista,
hanno aperto la casa delle Madri, una scuola, una università, una stamperia, un
centro culturale, un caffè letterario. Fanno corsi di ceramica, laboratori di scrittura, di
comunicazione mediatica. Lavorano e si preoccupano perché le nuove generazioni
possano vivere con dignità, pensare, studiare, dissentire, criticare, far lavoro politico
senza che nessuno li reprima come è successo ai loro figli.
Come sono riuscite in questo? Abbiamo preso un profondo impegno con i nostri figli di
non abbandonarli mai, dicono.
La loro bussola, la forza interiore che le ha sempre sostenute è stata la riconoscenza
per quello che i figli e le figlie avevano fatto e per cui erano stati fatti sparire.per il loro
impegno per un mondo migliore, per le loro speranze e sogni. Le madri, i genitori non si
possono sostituire ai figli, ma possono lottare per un mondo migliore per sé e per loro,
costruendo legami sociali e un mondo più simile a quello in cui vorrebbero che i propri
figli e figlie vivessero.
Non tristezza, né impotenza ma lotta e vita e non solo per i propri figli e figlie ma per
tutti. Socializzazione della maternità hanno chiamato le Madres la loro convinzione che
non potevano lottare solo per i loro figli, che non potevano lasciare soli e dimenticati
tutti quei ragazzi e ragazze che non avevano nessuno a lottare per loro.
La socializzazione della maternità dice una delle Madri intervistata da Daniela Padoan,
fu una decisione molto importante perché dimostra come tutto, a partire dalla cosa più
sacra che è la maternità, si possa condividere e socializzare.
E’ come dire che non si può scegliere, escludere, privilegiare. “Gli altri sono io” dicono
oggi le madri, facendo dell’ empatia e della responsabilità quotidiana della vita e del
vivente il loro impegno e la loro politica.
Sono riuscite a questo dicono le Madri , imparando dai loro figli e figlie; sono stati loro
che le hanno “messe al mondo” della consapevolezza di ciò che dobbiamo agli altri ,
oltre che a noi stessi e alla nostra famiglia.
Lo scambio generazionale è importante nell’accrescere l’esperienza di ciascuno di noi
e non è a senso unico. Attraverso la loro lotta hanno capito meglio il bisogno di lotta
dei loro figli e le figlie e hanno capito che questo è lo scambio più vitale che ci può
essere nelle famiglie, come nella scuola o all’università, sapere apprendere gli uni dagli
altri. L’energia che deriva dal riconoscimento di questo debito reciproco, il praticarlo
insegnando ed apprendendo gli uni dagli altri, il saper restituire in forma accresciuta ed
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elaborata ciò che gli altri ci hanno dato è una delle cose più importanti che possiamo
tutte e tutti guadagnare dalla loro esperienza. Un padre, una madre, un insegnante se
vuole lottare per i propri figli e studenti, non deve tarpare ma accompagnare il loro
cambiamento e deve avere anche qualcosa per cui vale la pena di lottare, qualcosa che
si impegna a cambiare, una lotta in cui essere insieme generazioni diverse , forse non
la stessa lotta, ma compagni di viaggio nel desiderio comune di un mondo migliore, di
un quotidiano e di relazioni meno tristi ed alienate.
Riferimenti bibliografici
Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 1997
Miguel Bensayag, Gèrard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004.
Red de resistencia alternativa.
Giannina Longobardi, “Sono soldi i soldi?”, in A.A.V.V., La rivoluzione inattesa, Milano,
Pratiche, 1997
Ina Praetorius, “La filosofia del saper esserci”, in Via Dogana, Marzo 2002
Luce Irigaray, Io Tu Noi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992
Vita Cosentino ( a cura di), Lingua bene comune, Città aperta edizione, 2006
William J.Goode, Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Zannichelli, 1982
Giulio Ameglio,” Frammenti di autobiografie”, in Vita Cosentino ( cura di), cit.
Catherine Bateson, Comporre una vita, Milano, Feltrinelli, 19
Daniela Padoan, Le Pazze,Un incontro con le Madri di Piazza di maggio, Milano,
Bompiani, 2005
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RELAZIONE
“Buon prof./O prof. Buono”
Prof.ssa Anna Storgato.
Il mio intervento vuole essere una riflessione sulla nostra identità di genere in quanto
docenti. Per entrare in relazione con l’altro ci vuole una forza e sicurezza di sè che
spesso vacilla di fronte alle sfide e provocazioni quotidiane dei nostri allievi.
Le recenti Indicazioni per il curricolo per la scuola primaria e per il primo ciclo d’istruzione
mostrano una scuola che sembra sempre più consapevole di non essere semplice
strumento per la trasmissione di conoscenze ma comunità educante in cui si formano
persone competenti.
Compito precipuo della scuola oggi è quindi organizzare, fornire metodi e chiavi di
lettura, permettere esperienze in contesti relazionali significativi per dare senso alle
conoscenze e alle esperienze acquisite in contesti formali (come la scuola, la famiglia, i
gruppi e le agenzie del territorio) e informali (le esperienze spontanee di vita).
In questa prospettiva come possiamo noi, docenti, metterci in gioco per diventare figure
significative capaci di promuovere benessere rispetto ad un gruppo di preadolescenti e
adolescenti che tutto è fuor che omogeneo e prevedibile?
Rispetto alla dimensione dell’essere docente, il dubbio amletico che ci siamo posti nel
gruppo di formazione che ha condotto a questo seminario e stato questo. Essere Buon
professore, capace di raggiungere un risultato atteso, misurabile nella sua efficienza
e nella sua efficacia, oppure essere professore Buono capace di lasciarsi andare alle
ragioni del cuore per prendersi cura e nutrire gli allievi in senso quasi materno in un
ambiente che, citando le Indicazioni, genera diffusa convivialità relazionale, intessuta di
linguaggi affettivi ed emotivi.
Nella mia vita di studente, le figure significative, quelle che non sono svanite nella nebbia
di un vago ricordo, sono quelle di – pochi- Buoni professori buoni, persone che hanno
saputo unire competenze professionali in senso stretto a competenze di tipo personale,
sociale, relazionale, disposizionale.
La scuola oggi più che mai richiede noi docenti un alto profilo umano oltre che
professionale. Eppure la sociologia delle professioni non ha esitato a relegare i docenti
nel profilo di una “semi-professione” in quanto mancherebbero alcuni connotati
essenziali per il riconoscimento pieno dell’ insegnamento come professione :
• non abbiamo un condiviso codice deontologico,
• non esprimiamo rappresentanze significative della comunità professionale ,
• non ci facciamo sufficientemente carico dello sviluppo e dell’accredito sociale della
professione mediante una comunità professionale,
• perpetuiamo una concezione ed un comportamento di segno individualistico .
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Un nodo problematico che connota la “questione insegnante” è secondo me costituito
proprio dallo scarso costume aggregativo. La gestione di un processo di cambiamento
richiede che da parte del gruppo professionale vi sia “un’identità forte”.
L’aspetto “umano”, la qualità della relazione, “l’orgoglio” professionale come
consapevolezza di valori condivisi all’interno del gruppo docente, sono condizioni
indispensabili per superare l’effetto paralizzante vuoi dell’ansia, vuoi del disimpegno,
del rifugio nel “sempre fatto” e nell’individualismo.
La socializzazione professionale degli insegnanti è elemento di primaria per aiutarci ad
essere “Buoni professori buoni” e la formazione in servizio dovrebbe essere sempre
più una formazione da ricercatore che abiliti il docente ad una rilettura critica della
proprie azioni professionali al vaglio critico delle novità pedagogiche in un itinerario che
dalla pratica sostenga una riflessione teorica perseguendo la circolarità pratica/teoria,
azione/ricerca.
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RELAZIONE
“Affetto che cos’è?”
Prof.ssa Patrizia Capella.
C’è una persona nella mia vita che è stata ed è tuttora importante. Forse lei non lo sa
neppure, ma a 31 anni dalla maturità, penso alla mia prof. di italiano, al classico, con
immensa gratitudine e tanto affetto.
Un’ insegnante contraddistinta dalla passione e la curiosità per ciò che insegnava e per
le persone che aveva di fronte, il gusto per l’imprevisto insiti in ogni relazione umana, il
senso della complessità.
È riuscita a farmi attraversare quell’insicurezza oceanica e quelle fantasie d’assoluto
tipiche di chi non è più piccolo e non è ancora grande.
facendomi sentire, non immaginare, che aveva fiducia in me. Non ha tacitato incertezze,
desideri, bisogni e sogni mentre ero protesa alla ricerca di sé.
NON È STATA INDULGENTE, oh no, anzi, non me ne lasciata passare mezza, ma attenta
e comprensiva per quei miei segnali anche aggressivi a volte, a quella supponenza che
spesso è necessità di sicurezza, stima e senso di appartenenza che tutti abbiamo.
L’ho sentita vicina, senza bisogno di tante parole, con in volto l’espressione serena di
chi è consapevole della sofferenza altrui senza esserne oppresso.
Quando lavorando in gruppo abbiamo ripercorso le trame del nostro essere stati ciò
che sono i ragazzi che ogni giorno abbiamo davanti, ho pensato all’AFFETTO: mi sono
venuti in mente dei pensieri sparsi, mi sono rivista seduta in quel banco, il mio, giorno
dopo giorno.
Ho ripensato a quello che credo sia stato un vero legame affettivo.
Un legame che riesco a definire solo scrivendo ciò che ha costituito per me: ha
ridotto il senso di incomprensione, mi ha idealmente abbracciata nell’affacciarmi a
nuove esperienze, ai distacchi, ai cambiamenti tanto desiderati ma che fanno paura,
riscaldato, allontanato il senso di solitudine, è stato un paracadute e al tempo stesso
quel trampolino di lancio che apre uno spazio tra i desideri e gli atti: il luogo della
creatività.
I nostri scontri hanno mobilitato in me nuove energie e vitalità, contribuito a cercare
identità, aumentando la motivazione, l’attenzione e la coscienza dei nostri ruoli diversi.
Hanno liberato vitalità, forza e tolto il “tappo” al senso di pressione che spesso incombe
nella mente e nel corpo di un ragazzo.
Dentro di me tante volte le ho chiesto: “SE MI VUOI BENE ASCOLTAMI, ASCOLTA ME”,
e lei evidentemente l’ha fatto.
Disse il piccolo principe… Che cosa vuol dire “addomesticare” ?
“E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami” … rispose la volpe.
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RELAZIONE
Riconoscimento/lasciarti essere”
Prof.ssa Clara Geronazzo.
Il mio intervento prende spunto dalla considerazione che il rapporto con la materia
di studio è spesso condizionato dal rapporto con l’insegnante che lo media. E’ una
grossa responsabilità di cui noi docenti dobbiamo essere sempre consapevoli. La mia
esperienza personale di alunna è stata in tal senso così particolare da diventare per
me oggetto di riflessione e di stimolo per la mia attività di docente. La mia antipatia
per la matematica è cominciata presto: già alla scuola elementare non mi piaceva, la
maestra ce la presentava in modo troppo rigoroso e severo. Penso, col senno di poi,
che la mia maestra avesse ben altri problemi da gestire in classe, eravamo in 35 alunni,
11 femmine e 24 maschi! Ma è alla scuola media che ho ricevuto il colpo di grazia, il
mio prof. di matematica era proprio il classico” prof. di matematica”, molto preparato
e competente, ma severo ed esigente quanto basta per allontanarmi definitivamente
dalla materia. Ricordo che incuteva a tutti un sacro timore, e, soprattutto, che mi sentivo
valutata non come persona, ma per come sapevo la matematica, cioè una buona a
nulla. Della serie “autostima sotto le scarpe”! In terza media la grande decisione relativa
alla scuola superiore: la professoressa di lettere mi consigliò il liceo classico e ricordo
che mi documentai sul numero delle ore di matematica. Scoprii che erano poche e
che, soprattutto, la materia non era considerata molto importante. Deciso: iscritta al
classico! Sono stati effettivamente cinque anni di italiano, latino, greco e....pochissima
matematica! Ho la consapevolezza di aver fatto una buona scelta, sono stati anni
importantissimi per la mia maturazione personale; sono convinta che a me la scuola
superiore abbia dato tanto, mi abbia, insomma, come si dice, formato. Però, durante gli
ultimi anni dl liceo, ho cominciato sempre più a capire che la cultura umanistica non mi
bastava. Mi sono allora avvicinata alle Scienze, che sono diventate una vera passione,
e, ancora una volta, è stata determinante un’insegnante. Lei, la prof. di scienze, era
bravissima, preparata e, soprattutto, capace di trasmetterci la sua passione per la
materia. Mi ha aperto un mondo nuovo, nel quale ho trovato il mio “filo di Arianna”, la
mia chiave di interpretazione del mondo. Alla fine del liceo avevo le idee molto chiare:
facoltà scientifica. Già, ma quale? Quale facoltà scientifica senza matematica? Non mi
vergogno ad ammettere che ho scelto la facoltà di Scienze Biologiche semplicemente
perché, dopo accurata ricognizione, risultava essere la facoltà scientifica con il minor
numero di esami di matematica. Ricordo bene che, quando ho superato l’ultimo esame
di matematica, mi sono detta: “bene, Clara, finalmente sei libera!” Invece il destino aveva
in serbo un’ amara sorpresa: una volta laureata ho scoperto che l’unica professione
possibile a breve termine sarebbe stata insegnare matematica e scienze alla scuola
media. Subito ho pensato “ no, non ci penso proprio!” E dopo ci ho ripensato, qualcosa
dovevo pur cominciare a fare. Ed è così che ho iniziato ad insegnare, e in pochi anni mi
sono ritrovata con un’ abilitazione in tasca. Ricordo che, uscendo dall’aula in cui avevo
sostenuto la prova orale del concorso abilitante, mi sono fermata un attimo a pensare
che ero veramente diventata una prof. di matematica, e mi sono improvvisamente
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sentita come la Monaca di Monza al momento dei voti definitivi, quando il Manzoni
scrive “ e fu monaca per sempre”. Messa così sembra la storia di una sconfitta, invece
è la storia di una vittoria , la mia vittoria sulla matematica; perché, insegnandola, mio
sono accorta che non era poi così male. Ho imparato, con umiltà, a capirne il fascino e
le potenzialità. Ho realizzato, soprattutto, che me l’avevano presentata male, facendomi
partire fin dall’inizio col piede sbagliato. Oggi mi metto facilmente nei panni dei miei
alunni quando mi dicono sconsolati che non capiscono niente, li capisco quando trovano
ostacoli su aspetti che per me, adesso, sono ovvi; mi impongo di non scandalizzarmi
se se ne escono con strafalcioni che non stanno né in cielo né in terra, perché ripenso a
me come alunna, e rivedo in loro tutte le mie difficoltà. A volte racconto in classe questa
mia storia; quest’anno la mamma di un mio alunno mi ha riferito che suo figlio gliene ha
parlato e che poi ha aggiunto:” sai che a me la matematica non piace, ma penso alla
mia professoressa e mi dico che, se ce l’ha fatta lei, posso farcela anch’io!”
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RELAZIONE
Quella timidezza…
di Maria Pia Simonetto
Anno dopo anno, mi rendo sempre più conto che attraverso l’adolescenza dei miei
alunni rivivo la mia e, talvolta, “curo” qualche suo aspetto irrisolto e, talvolta, ancora
dolente.
L’episodio del quale vorrei rendervi partecipi è accaduto poco tempo fa.
Insegno Lettere alla scuola media “Efrem Reatto” di Valdobbiadene. Quest’anno ho
una classe terza, nella quale c’è un’alunna che riesce molto bene. A scuola segue con
una grande attenzione le lezioni, a casa è puntuale nello svolgimento dei compiti e fa
sempre più di quanto richiesto. E’ matura e responsabile, le piace imparare ed è in
grado di approfondire gli argomenti, di fare collegamenti tra le varie discipline. A causa
della sua timidezza, però, non alza mai la mano per intervenire, nonostante abbia cose
interessanti da dire e riesce decisamente meglio nello scritto che nel parlato. Insomma,
se ne sta “tranquilla” nel suo cantuccio e, anche quando viene sollecitata, fa fatica ad
esporsi.
Questo aspetto le è stato più volte rimarcato nell’arco del triennio, anche nelle schede
di valutazione, soprattutto perché da una ragazza così ci si aspetta ( evidentemente a
torto) che riesca a trascinare positivamente il resto della classe.
Qualche settimana fa, la nostra scuola ha consegnato ai ragazzi la cosiddetta
“pagellina”, ovvero il documento interquadrimestrale di valutazione, nel quale, ancora
una volta, il Consiglio di Classe ha posto l’accento sulla sua scarsa partecipazione.
Poco dopo, durante una verifica scritta, ho assegnato, tra le altre, una traccia relativa
all’adolescenza, ai suoi aspetti positivi e critici, che lei ha scelto. Ha scritto un bel tema,
esauriente e corretto, nel quale, ad un certo punto, ha spiegato come la sua timidezza sia
un peso enorme e che le dà fastidio che venga continuamente sottolineata. Leggendo
il suo testo, mi ha colpito il modo con cui ha descritto la situazione, perché ha saputo
rendere bene il suo disagio.
Dopo aver corretto le verifiche, sotto o accanto al giudizio, spesso io scrivo alcune
riflessioni ai ragazzi, un commento, una precisazione, una battuta, a seconda del
contesto. Così ho fatto in quel caso, soprattutto perché mi sono resa conto, una volta
di più, di come i nostri giudizi spesso pesino come macigni sui nostri alunni.
Le ho scritto, in sostanza, che la timidezza fa parte della sua natura e che, anziché
rifiutarla, dovrebbe provare ad accettarla, come primo passo per, se non superarla,
almeno conviverci il più serenamente possibile.
Dopo aver riletto quelle frasi, mi sono resa conto che, in realtà, le avevo scritte per me.
Anch’io alla sua età ero molto timida. Anch’io andavo bene a scuola, ma ero tanto
timida e con la timidezza ho fatto i conti per tutta la vita e ancora continuo a farli.
Quelle frasi sono state come un balsamo, molto più di quanto fior di esperti hanno
tentato di fare con me nei vari percorsi che ho intrapreso e, forse solo in quel momento,
scrivendole, ho capito che ero approdata, o almeno ero molto vicina, ad accettare la
mia timidezza. Ho avuto bisogno, probabilmente, di vederla in lei, in una ragazza di
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tredici anni molto simile a com’ero io a quell’età, soprattutto in quel suo disagio che lei
ha saputo spiegare in modo incisivo.
Resto una persona fondamentalmente timida, ma dopo quel tema il peso della timidezza
si è fatto più leggero.
Nelle schede di valutazione successive, in qualità di coordinatrice di classe, ho insistito
perché non si facesse più cenno alla sua scarsa partecipazione a causa della timidezza,
e lei lo ha apprezzato.
RELAZIONE
“Quale ghianda ha prodotto la mia quercia?”
Prof.ssa Germana Toso.
La quercia che oggi sono non può dimenticare di quand’era ghianda.
Crescere significa discendere, riconoscere le proprie radici, la propria biografia.
Nel nostro modo di educare-insegnare ci sono le tracce del nostro stare al mondo.
La maturazione dell’individuo è un processo molto lungo che dura tutta la vita e non
si esaurisce con il termine dell’adolescenza. Sono le esperienza quotidiane e quelle
straordinarie che facciamo nel corso di un’esistenza, a contribuire al nostro sviluppo
cognitivo ed affettivo. Si tratta di un processo molto lento, di cui ci possiamo accorgere
solo se abbiamo tempo per soffermarci a riflettere, a differenza dell’adolescenza, in cui
i cambiamenti sono molti ed avvengono velocemente.
Ogni esperienza positiva o negativa vissuta deve diventare “maestra di vita” in modo da
proporci come educatori nel modo migliore possibile.
Ricordo un fatto vissuto nel pieno della mia adolescenza, che più volte mi ritorna alla
mente, perché mi ha fatto molto soffrire. …frequentavo il primo anno dell’Istituto
Magistrale. L’insegnante di Matematica, mi adorava, perché, rispetto alle mie compagne
ero, come mi definiva lei “pulita”, bella e tranquilla. Durante l’estate però la “tempesta
adolescenziale” aveva colpito anche me e all’inizio del secondo anno, mi ero presentata
a scuola completamente cambiata nell’aspetto, negli atteggiamenti, nel mio modo di
essere. Lei, l’insegnante di matematica, non aveva accettato il mio cambiamento e,
puntualmente, ogni volta che entrava in classe mi prendeva a termine di confronto
ridicolizzandomi di fronte a tutti, senza cercare un’ analisi dei miei cambiamenti.
Non mi sentivo capita, ascoltata. La mancanza di una relazione dialogante, il non essere
accettata perché ero cambiata, aveva creato in me una insicurezza estrema. Mi ero
trovata di fronte ad un adulto giudicante, ad un non-ascolto. Per fortuna il sostegno
psicologico di mia madre che mi apprezzava per quello che ero, valorizzando le mie
qualità, la sua guida e i suoi consigli mi hanno ridato fiducia in me stessa.
Gli insegnanti hanno un ruolo rilevante nella formazione dei giovani, perché sono delle
figure adulte non legate agli allievi da rapporti affettivi, e per questo possono offrire un
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modello sociale meno invischiante di quanto non lo siano i genitori. Un buon insegnante,
oltre a essere preparato professionalmente, dovrebbe possedere capacità relazionali
che gli permettano di essere in sintonia con gli allievi e far funzionare bene la classe e
non porsi quindi come soggetto giudicante.
Il problema, di oggi, a mio avviso, è la mancanza di un’educazione emozionale e, come
sostiene Galimberti, l’incapacità di cogliere, di comprendere la diversità tra la leggerezza
e la gravità di una situazione. Vivere nell’indifferenza l’incapacità di esprimere le proprie
emozioni porta a rendere sterile ogni dialogo e ogni relazione.
Uno dei problemi fondamentali degli adolescenti di oggi è la difficoltà ad esprimere
con il linguaggio le proprie emozioni, le paure, i sentimenti, per comprendersi e per
essere capiti. Ogni volta che si incontra o ci si “scontra” con la contrarietà, con il non
ascolto, con la non considerazione ed accettazione c’è la chiusura in se stessi o il fiorire
di comportamenti negativi per dar sfogo ad uno stato d’animo da interpretare come
richiesta d’aiuto.
In ogni caso l’adolescente ha un grande bisogno di essere ascoltato, considerato ed
accettato. I giovani sono gli “esperti del proprio vissuto” e devono essere al centro
dello svolgimento del dialogo. Un dialogo nel quale i genitori e gli insegnanti devono
poter aiutare il ragazzo a riflettere sui molteplici aspetti delle situazioni, a saper
valutare i significati dei suoi comportamenti, ad assumersi responsabilità. Una relazione
educativa dialogante che faccia emergere un’accettazione della persona cosi come è,
che permetta di immergersi nel mondo interiore e soggettivo del giovane,che faccia
comprendere appieno che si è lì, a loro vicini, senza passività ed eccessivo interventismo,
per ascoltare e ristabilire una comunicazione interrotta.
Ma, se continuiamo a ritenerci gli unici esperti nel comprendere e dare questa o quella
soluzione, se deviamo discorsi che ci annoiano o disturbano, se vogliamo imporre il
nostro pensiero, proibire ed esortare; se vogliamo,attraverso un monologo, rivelare tutto
il nostro egocentrismo, il nostro essere al centro dei pensieri, delle emozioni, sentimenti
dell’altro senza mai pensare a metterci dal punto di vista dei figli o degli alunni; se
alimentiamo una sterilità dialogica che denota scarso interesse per il giovane, che non
favorisce l’indispensabile presa di coscienza dell’adolescente di cosa sta succedendo, di
essere responsabile del proprio dire e fare e di quelle convinzioni, giuste o sbagliate, utili
ad iniziare un cammino di crescita; se continuiamo a giudicare, a classificare in categorie
dei “bravi” e “cattivi” ragazzi a seconda del comportamento, senza soffermarci per un
momento sulla completa accettazione del personale mondo interiore dell’adolescente
che sicuramente produrrebbe fiducia, distacco da quelle difese e timori che bloccano la
comunicazione; se pensiamo che la relazione educativa non si configura come IoTu, dove il Tu soggetto, figlio, persona deve significare che “Tu esisti”, “Tu sei importante”,
“Tu sei Tu”, allora il tutto diventerà “una cosa difficile da concepire” da parte di chi “non
ha mai ascoltato, parlato ed agito partendo da uno schema di riferimento diverso dal
suo” (C.Rogers, G.Kinget, 1970).
(Alcuni concetti sono stati tratti da A. Banche e R. Crescenzo in Psicopedagogika.it)
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SERVIZIO EDUCAZIONE E PROMOZIONE DELLA SALUTE
Dipartimento di Prevenzi one