La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo
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La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo
La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo servizio SAN FRANCESCO SAVERIO MISSIONARIO di Gianni Colzani Sommario. 1. Lo sfondo religioso del tempo del Saverio. A: Il concilio di Trento. B: La disputa di Valladolid. 2. Il missionario gesuita A: L’interpretazione millenarista del «nuovo mondo». B: La concezione missionaria dei gesuiti. 3. Il “mahatma” Francesco Saverio (1506-1552). Le scoperte geografiche – dalla seconda metà del XV secolo in poi – spalancano all’Europa un mondo nuovo; il mondo conosciuto appare vecchio mentre la stessa storia si rimette in cammino. Questo ampliamento del mondo ha diverse chiavi di lettura; alla abituale comprensione in termini di occidentalizzazione o di colonizzazione del mondo, il nostro tempo ne ha aggiunte altre. Diversi autori, tra cui Todorov1, hanno indicato la categoria decisiva per la comprensione di quegli eventi nella «alterità»;2 le scoperte sono l’irruzione della alterità, rimettono in moto la storia dell’umanità ed iniziano un complesso scambio tra culture. Questo scambio non avverrà senza profondi contraccolpi sulla stessa identità europea e cristiana; l’Europa si troverà catapultata in un universo ampio ed in divenire, dove l’incontro con i nuovi mondi pone problemi non sempre riconducibili alla abituale comprensione di un ordine sociale di cui la religione cristiana era l’asse portante. Ne viene una sfida profonda che vedrà evolvere la coscienza europea e mediterranea verso quella prospettiva mondiale – assunta nella forma del colonialismo – che regolerà poi per secoli i rapporti degli europei con il resto del mondo. Questo ampliamento di orizzonti non mancò di creare sconcerto. I nuovi mondi avevano bisogno di essere capiti, analizzati e compresi; solo così diventava possibile elaborare un qualche disegno che li riguardasse in profondità. Ora cercare di capire il mondo è cosa vecchia quanto la filosofia ed il mito ma questa epoca esigerà strade nuove: 1 T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro [1982], Einaudi, Torino 1992; E. Garin, «Alla scoperta del «diverso»: i selvaggi americani e i saggi cinesi», in Id., Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Laterza, Roma-Bari 1976. Non manca chi, pur riconoscendo l’importanza della nozione di “alterità”, la legge in modo radicalmente diverso: E. Dussel, L’occultamento dell’altro. All’origine del mito della modernità, La Piccola Editrice, Celleno 1993. 2 Il valore della «alterità» si coglie confrontando il tradizionale ricorso alla crociata ed alla forza nei rapporti con i mussulmani ed il mai concluso confronto con gli ebrei con la novità di una “conquista” ben più semplice e la realtà di popoli ben disposti verso il vangelo. Questo spiega la proposta francescana di un «ire ad infideles» con modi pacifici e proposte evangeliche. 1 «si trattava di sapere che cosa era necessario vedere e come lo si doveva descrivere: e qui le ricette erano tanto diverse quanto i tipi di viaggiatori».3 In prima fila, in questa costante attenzione alla realtà, saranno i missionari, attenti a raccogliere ed organizzare queste osservazioni;4 tra loro, i più sensibili a questo impegno saranno i gesuiti. Ne ricordo due, diversi tra loro e alquanto posteriori a Francesco Saverio (1506-1552), ma entrambi dotati di una chiara consapevolezza della propria opera e del suo significato: José De Acosta (1539/40-1600) e Daniello Bartoli (1607-1685). J. De Acosta é l’autore del De promulgando Evangelio apud Barbaros sive de procuranda Indorum salute (1588). Dalle sue continue e accurate osservazioni, De Acosta giungerà alla conclusione che le popolazioni dei nuovi territori sono molto distanti da quelle che, pur nella loro diversità, si muovono nell’universo europeo; giunge così alla convinzione che questa diversità é la ragione del fallimento di molti sforzi missionari. Egli si porrà cosi il problema se non fosse necessario «novo generi hominum novam evangelizandi rationem». Le sue considerazioni saranno alla base di molte seguenti scelte dei gesuiti. Daniello Bartoli, lo storico dei gesuiti, ci ha lasciato una impressionante massa di dati. Senza mai muoversi dalla sua stanzetta ma lavorando su lettere e manoscritti di prima mano, ha offerto un resoconto accurato dei viaggi e delle esperienze missionarie. Per lui non si trattava solo di pubblicare delle fonti storiche ma di comunicare una esperienza; per questo, attraverso un lavoro di selezione e di censura, mirava a suscitare nei suoi lettori determinate emozioni per avvicinarli così ad un entusiasmo apostolico per la diffusione del vangelo. 5 L’intento di fondo che muove questi missionari ed i loro divulgatori rimane quello religioso; di fronte a popoli che non conoscono Gesù Cristo, essi hanno l’impressione che la comunità cristiana si ritrovi in una situazione simile a quella degli inizi, quando Cristo aveva affidato agli apostoli l’evangelizzazione del mondo. Per questo, tutta la loro fatica é volta alla conversione di questi popoli, é volta ad incarnare in questi popoli la visione della vita ed il linguaggio della fede cristiana. Anche là dove la missione ha favorito la sottomissione alla autorità coloniale, essa ha richiamato con forza i limiti di questa sottomissione ed ha posto le basi per il suo superamento nella pari dignità dei figli di Dio. Se è vero che molti missionari si adattarono ad un rapporto pragmatico con il mondo coloniale, non di rado subordinato ad esso, va pure osservato che più volte entrarono in conflitto con il potere politico e che lo fecero proprio per le esigenze della evangelizzazione. Sviluppare fino in fondo questo aspetto porterebbe ad approfondire il rapporto che la missione ha avuto con questi popoli, un rapporto non solo strumentale ma di vera e propria mediazione culturale. 3 A. Prosperi, «Il missionario», in R. Villari (ed.), L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 1991, 184. Il card. Marcello Cervini aveva fatto chiedere a Francesco Saverio, tramite Ignazio, cose di questo genere: «como andan vestidos, de qué es su comer y bever, y las camas en qué duermen, y que costa haza unos dellos. Tambien, quanto a la región, donde está, en qué clima...» (Lettera del 5 luglio 1553: Monumenta Ignatiana. Epistolae V, Romae 1965, 165). 5 Limitandomi all’Asia, possiamo ricordare i volumi sull’Asia: Dell’historia della Compagnia di Gesù. I: L’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1653; II: Il Giappone seconda parte dell’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1660; III: la Cina terza parte dell’Asia, Stamperia del Varesei, Roma 1663. Il lavoro sarà ristampato con il titolo: Dalle opere del Padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù. Dell’Asia. 3 voll., Marietti, Torino 1825. 4 2 1. Lo sfondo religioso del tempo del Saverio Per illustrare le esigenze della evangelizzazione devo evocare brevemente i dati più significativi di questo impegno. A questo proposito, non è possibile separare la storia della evangelizzazione dalle vicende religiose del mondo europeo; non è possibile perché il mondo europeo è il soggetto di questa evangelizzazione e perché vive queste vicende con il suo patrimonio di idee e di convinzioni. Senza toccare molte altri aspetti, vorrei qui richiamare due dati: il concilio di Trento e la disputa di Valladolid. A: Il concilio di Trento È vero che il concilio di Trento (1545-1563) non spende una sola parola sulla problematica missionaria6 ma è anche vero che quel concilio formula la strategia romanocattolica di fronte alle sfide dell’epoca moderna. Di fronte alle sfide dell’umanesimo e della riforma, Trento elabora una strategia che fa perno sulla predicazione del vangelo e che, quindi, si articola attorno al contenuto evangelico ed ai ministri che lo proclamano. Fin dalla quarta sessione dell’8 aprile 1546, il concilio ritiene di dover «conservare la purezza del vangelo nella chiesa» e di doverla intendere «quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale».7 A questo scopo la quinta sessione, del 17 giugno 1546, pubblica il decreto Super lectione et praedicatione; descritta come «salutare ministero», la predicazione è un obbligo che impegna ad «insegnare ciò che tutti devono sapere per essere salvi» ed a «denunciare […]i vizi da fuggire e le virtù da praticare per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste».8 Questa esaltazione della predicazione, di per sé finalizzata a recuperare alla fede chi l’aveva persa ed a consolidare la vita cristiana di chi era rimasto fedele alla chiesa, genera un clima spirituale che va oltre un orizzonte pastorale e che è alla base di una nuova strategia apostolica. Evangelium in Ecclesia ed evangelium fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplina9 sono decisivi criteri della vita cristiana e diventano la base anche di quella apostolica.10 6 La ragione è semplice. Quando Paolo III convocò il concilio, i vescovi americani non ebbero il permesso di parteciparvi perché Carlo V, re di Spagna, non voleva che i problemi dell’America fossero discussi a Trento dato che li riteneva di sua esclusiva competenza. Si veda P. De Leturia, Perché la nascente chiesa ispanoamericana non fu rappresentata a Trento, «Il concilio di Trento» 1 (1942) 35-43. Per lo stesso motivo, Filippo II si opporrà sistematicamente al tentativo di Pio V di istituire un nunzio in America. 7 H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. a cura di P. Hünermann, Dehoniane, Bologna 1995, 639 (n. 1501). 8 Decreto Super lectione et praedicatione, n. 11; in G. Alberigo (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Dehoniane, Bologna 1991, 669. 9 Il testo – già indicato in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, cit., 1501 – si ritrova anche in G. Alberigo (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., 663. 10 Si veda, al riguardo, M. Morán – J.A. Gallego, «Il predicatore», in R. Villari (ed.), L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 1991, 139-177. 3 L’enfasi tridentina sulla predicazione del vangelo è il frutto di un clima ecclesiale e di una riforma cattolica che vi riconosceva la strada basilare per un autentico rinnovamento ecclesiale. Anche il mondo gesuita ne sarà segnato, compreso il Saverio che lascia Lisbona solo cinque anni prima della sua approvazione e muore sei anni dopo questo decreto. Si può anzi dire che il ritorno alla fonte evangelica, per la sua ovvia risonanza apostolica, troverà uno dei suoi ambiti più concreti proprio nell’aprirsi della chiesa tridentina ad una responsabilità missionaria mondiale. Questo rapporto tra vangelo e missione è del tutto evidente una settantina d’anni dopo. Per convincersene, basta rileggere la lettera circolare ai Nunzi che, il 15 gennaio 1622, annuncia la nascita della Congregazione «de Propaganda Fide»; alquanto posteriore al periodo che stiamo esaminando, esprime idee che da tempo trovavano cittadinanza nella chiesa. Con chiarezza, questa lettera sostiene che vi sono due maniere di esercitare «la cura della fede cattolica»: «l’una di conservarla [la fede] ne’ fedeli, costringendoli etiandio con pene a ritenerla fermamente, l’altra di spargerla e propagarla negl’infedeli; perciò due maniere di procedere sono ancora state tenute nella Chiesa santa, l’una giudiciale, onde l’officio della Santa Inquisizione si trova istituito, l’altra morale o piuttosto apostolica, onde le missioni degli operai fra i popoli, che più n’hanno bisogno, s’indirizzano del continuo».11 Nei primi decenni del seicento, la Chiesa riconosceva due vie per il servizio della fede: la prima, comprendente la forza, andava applicata all’interno della chiesa mentre la seconda, rivolta all’esterno, era la via della dolcezza o «apostolica».12 Prima però che questo metodo della dolcezza o della persuasione si imponesse, la chiesa aveva dovuto fare i conti con una visione diversa, quella che – dalla evidenza della verità – ricavava la legittimità dell’uso della forza anche nelle missioni. Sarà questa la disputa di Valladolid. B: La disputa di Valladolid Questo dibattito ha avuto luogo nel 1550 a Valladolid, quando Bartolomé de Las Casas (1484-1566) e Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573) avevano pubblicamente discusso i nodi della evangelizzazione missionaria del tempo. I presupposti di quel dibattito debbono risalire, forse, fino al grido profetico di Antonio de Montesinos (+1545) che, già nel 1511, proclamava la piena umanità dell’indio e sosteneva che i cristiani debbono comportarsi nei suoi riguardi secondo il vangelo, secondo il comando dell’amore del prossimo. Questo grido ha bisogno di una riflessione sistematica nella quale si prenda coscienza che la novità della persona e del mondo indio sfidano la chiesa a precisare meglio il suo modo di predicare e di agire. A questo primo aspetto se ne deve aggiungere un secondo e cioè una sorta di elementare valutazione dei risultati dell’opera del missionario. Il dibattuto che, in Spagna, aveva segnato la conversione degli ebrei e dei 11 Lettera circolare della S. Congregazione del 15 gennaio 1622; testo in J. Metzler (ed.), Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum. III/2, Herder, Rom-Freiburg-Wien 1976, 656-658. 12 A. Prosperi la descrive come l’ideale missionario del seicento: «l’esercizio non violento della conquista passava attraverso la costruzione di un rapporto didattico, di insegnamento, di affermazione della superiorità del proprio sapere» (A. Prosperi, «Il missionario», cit., 186). 4 mussulmani, obbligati a scegliere tra conversione ed esilio, si ripete anche qui: al suo centro viene la determinazione precisa del mondo indio e la polemica sulla liceità o meno dell’uso della forza. Sepúlveda,13 che in base ad alcuni resoconti li riteneva antropofagi e dediti a diabolici sacrifici umani, giustificava la forza e la violenza nei loro confronti come propedeutica ad una successiva evangelizzazione; poiché la conversione doveva comprendere un processo interiore e libero di cambiamento, queste persone rozze e violente, senza morale e senza intelligenza, dovevano venir prima sottoposte ad un’opera di civilizzazione.14 Per questo Sepúlveda vedeva questi indigeni come humuncoli, cioè come esseri inferiori alla razza umana, e parlava dei conquistadores come di angeli punitori che sottomettevano questi «infedeli» per guidarli poi sulla via della fede cristiana. Al contrario, B. de Las Casas15 considerava questi indios «senza malizia e senza doppiezza»; gli stessi sacrifici umani hanno un peso minore se li consideriamo come atti di onore a quelle divinità che i nativi riconoscevano con la loro ragione naturale. Per questo sostiene che l’unico modo di perseguire l’evangelizzazione è la dolcezza evangelica e non l’uso della forza; la sottolineatura della cupidigia e della violenza degli spagnoli e quella della onestà e della pace delle popolazioni indigene ne è semplice conseguenza. Assorbito dalla urgenza drammatica della metodologia missionaria e pastorale, vedrà meno il problema ed il senso della diversità culturale e non approderà alla interculturalità. In ogni caso, Las Casas sosterrà con forza l’inadeguatezza delle ragioni accampate dagli spagnoli per rivendicare il dominio sui nuovi mondi; da una parte si fondavano sul fatto che quei territori, senza rivendicazione di proprietà, erano res nullius legittimamente acquisite al potere del re di Spagna dai conquistadores che ve le avevano sottomesse e, dall’altra, rimandavano al primato del fine soprannaturale su ogni altro fine. Il primato del giogo di Cristo – argomentava Sepulveda – comprende un potere temporale universale così che con pieno diritto il papa, che ne è il vicario, le ha attribuite al re di Spagna in vista della evangelizzazione. A Las Casas questi argomenti non bastano. Ai suoi occhi, il diritto divino non abolisce il diritto umano; questo insegnamento di Tommaso,16 confermato dal Caietano,17 era ripreso dalla scuola domenicana di Salamanca18 che cominciava ad 13 Tra i suoi lavori De convenientia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus, qui inscribitur Democrates (1535); Democrates alter, seu de justis belli causis apud Indios (1545). 14 Per questo autore, la condizione umana naturale non è l’uguaglianza ma la gerarchia, cioè il dominio della perfezione sulla imperfezione e della virtù sul vizio; da qui ricava la sottomissione del corpo all’anima, dei figli ai genitori, della donna all’uomo, degli schiavi ai padroni. Di conseguenza vi sono uomini la cui condizione naturale è di obbedire ad altri. Per motivare la sottomissione degli “indios” agli spagnoli, si appoggia alle tesi aristoteliche, espresse in Politica (1254b), che pone una netta distinzione tra chi è nato padrone e chi è nato schiavo. Una posizione simile si ritrova nel De regimine di Tolomeo da Lucca che, in quel tempo, era attribuito a Tommaso d’Aquino. 15 Di Las Casas mi limito a ricordare, oltre la Historia de las Indias (1527-1552), il De unico vocationis modo (1537), la Apologia (1550) ed il De imperatoria vel regia potestatis (pubblicato per la prima volta in Germania nel 1571, dopo la morte di Las Casas). 16 Tommaso, Summa Theologica IIa IIae, q. 10, a. 10. 17 Per il Caietano (1468-1534) si veda Secunda secundae partis Summae Theologiae S. Thomae de Aquino ... cum commentariis R.D.D. Thomae de Vio Caietani, Iuntas, Venetiis 1588; in particolare si veda la q. 10 De infidelitate, la 40 De bello e l’articolo 8 della q. 46 De peccatis iustitiae oppositis. 5 elaborare uno ius gentium, un primo abbozzo di diritto internazionale che – per il suo fondamento naturale – non poteva essere stravolto da un semplice atto giuridico. Il dibattito durerà alcune settimane.19 Se le conclusioni saranno favorevoli a Las Casas, questo sarà dovuto – oltre che ai suoi argomenti – anche al timore del re che il parere opposto finisse per potenziare ulteriormente il ruolo degli encomenderos che già godevano di ampi benefici. Quel dibattito fissa, comunque, i problemi che investivano allora il mondo della missione; essi riguardavano il tipo di umanità incarnata da quei popoli e, di conseguenza, il tipo di evangelizzazione – evangelice o appoggiata alla forza – che doveva venir loro riservata. Nonostante il ricorso allo ius gentium, entrambe le soluzioni sottintendevano il primato culturale e civile dell’Occidente; al missionario spettava comunque un ruolo di educazione e di insegnamento che rifletteva la superiorità del suo sapere su quello indigeno. Nessuno dei due contendenti si spingerà a formulare ipotesi sul valore di questo incontro tra identità europea e alterità indigena e sul suo significato per l’umanità futura; manca la consapevolezza di una qualsiasi interculturalità. Saranno i gesuiti a valorizzare questa prospettiva ed a farne, anzi, il fondamento e lo specifico del loro impegno missionario. 2. Il missionario gesuita I gesuiti giungono relativamente tardi sulla scena della missione; portano però con sé una loro originale visione che non si accorda con la sensibilità missionaria di coloro che li hanno preceduti.20 In effetti, introducono nuovi criteri di comportamento che implicavano un cambiamento complessivo della persona e della vita sociale, un cambiamento che – più tardi – sarà precisato nelle due sfere della natura e della grazia. É questa nuova sensibilità che vorrei provare al illustrare. Le scoperte dei nuovi mondi, per molte persone dell’epoca, erano un fatto ricco di profondi significati. Nel Libro de las Profeçias, Cristoforo Colombo annota che, quando vide le nuove terre, gli tornò prepotente alla memoria il testo di Ap 21,1 su «un nuovo cielo e una nuova terra» e che provò forte la sensazione di essere lui quell’inviato di cui 18 Tra i principali autori di questa scuola vanno annoverati F. de Vitoria (1492-1546), del quale ricordiamo Relectio de Indis (1539 ca) e Relectio de iure belli (1539), e D. Soto (1494-1560) con il suo Relectio de dominio (1535). 19 La controversia di Valladolid si svolse in due fasi: mentre la prima ebbe luogo nell’agosto e nel settembre 1550, la seconda si svolse nell’aprile e nel maggio 1551. La sede fu la cappella del convento di San Gregorio. Nella prima sessione Sepulveda presentò una sintesi del suo Democrates alter che durò tre ore; Las Casas lesse le prime 156 pagine della sua Apologia in cinque sedute. Tra i teologi presenti vanno ricordati M. Cano, D. Soto, B. Carranza de Miranda e alcuni giuristi. 20 Sulla missione dei gesuiti si veda G. Imbruglia, «Il missionario gesuita nel Cinquecento e i “selvaggi” americani», in F. Cuturi (ed.), In nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all’alterità, Meltemi, Roma 2004, 61-73; Id., «Ideali di civilizzazione. La Compagnia di Gesù e le missioni (1550-1560)», in A. Prosperi – W. Reinhard (edd.), Il nuovo mondo nella coscienza italiana e tedesca del Cinquecento, Il Mulino, Bologna 1993, 287-308; G. Di Fiore, «Strategie di evangelizzazione nell’Oriente asiatico tra cinquecento e settecento», in G. Martina – U. Dovere (edd.), Il cammino della evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, 97-162. 6 parla il profeta Isaia.21 L’idea di essere stato scelto dalla Provvidenza divina per compiere le antiche profezie è alla base delle riflessioni che lo accompagnano negli ultimi anni della sua vita; nutrito dai testi di Gioacchino da Fiore, di cui è assiduo lettore, Colombo legge la storia come storia sacra, cioè come opera di Dio e dei suoi inviati e, di conseguenza, enfatizza la novità insita nella scoperta di nuove terre come una novità da leggere in termini messianici. Ormai si stanno avvicinando «los tardos años del mundo». A. L’interpretazione millenarista del «nuovo mondo» Questa convinzione non era del solo Cristoforo Colombo. Come osserva G. Imbruglia, «se l’idea di aver raggiunto l’Asia per via d’occidente fu subito smentita, la credenza millenarista, invece, attraversò e infiammò tutto il secolo XVI».22 Quella storia che Agostino aveva indirizzato lungo il paradigma rassicurante della attesa, si percepiva come percorsa di nuovo da una forza in grado di sovvertire ogni schema e di riproporre, come ai tempi di Cristo, uno stretto legame tra il destino individuale e la salvezza dell’umanità, la proclamazione del vangelo e la rigenerazione sociale ed ecclesiale. Per questo, al fianco di avventurieri di ogni genere, troviamo persone dominate da una concezione religiosa e apocalittica che sognano un mondo nuovo e si adoperano per farlo nascere. Vi è qui una situazione nuova che impone di ripensare a fondo l’originalità cristiana ed il suo rapporto con il mondo;23 la nascita del termine «missione»,24 espressiva di questo contesto, non è solo un problema terminologico ma indica nel senso più forte l’invio del predicatore destinato a portare il messaggio della speranza evangelica. In pratica, le scoperte geografiche danno vita ad un impulso evangelizzatore che rende attuali modelli antichi: 1’«omnes gentes» ritrova una singolare attualità, dimenticata in quel Medioevo che aveva visto la cristianità assediata dal mondo islamico. Questo rende più pesante il silenzio del papato; nel complesso rapporto tra il papato e i sovrani iberici, sono le autorità politiche a occuparsi della evangelizzazione, dato che questa costituisce la giustificazione ideologica e la garanzia giuridica della stessa conquista.25 Riconducendo questo nodo giuridico ad un confronto di poteri, alcuni 21 C. Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie. a cura di G. Ferro, Mursia, Milano 1985; insieme a questo testo, si veda pure Lettere e scritti (1495-1506). Libro de las profeçias. a cura di R. Rusconi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato – Ministero per i beni culturali, Roma 1993. Quest’ultimo testo, scritto dopo il terzo viaggio e quando già era in disgrazia, mette a fuoco i presupposti culturali di C. Colombo, come ben spiega R. Rusconi, Il "Libro de las profecías" di Cristoforo Colombo: retroterra culturale e consapevolezza di uno scopritore, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» 29 (1993) 269-303. 22 G. Imbruglia, «Il missionario gesuita nel Cinquecento e i “selvaggi”», in F. Cuturi (ed.), In nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all’alterità, Meltemi, Roma 2004, 63. 23 Si veda in particolare G. Baudot, Utopia e storia in Messico. I primi cronisti della civiltà messicana (1520.1569), Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1991 (in specie 221-343). 24 Si vedano, al riguardo, A. Santos Hernández, El termine “misión”, in Id., Misionología. Problemas introductorios y ciencias auxiliares, Sal Terrae, Santander 1961, 9-67; Th. Ohm, Faites de disciples de toutes les nations. I, Éd. Saint-Paul, Paris 1964, 33-55. 25 Non tutti accetteranno una simile situazione. Basti ricordare la lettera che due patrizi veneziani indirizzano a papa Leone X per spiegare che questo ampliamento del mondo è una chance per la fede: P. Giustiniani – P. 7 lamenteranno la mancanza di un quadro di evangelizzazione mondiale e di una «missio» pontificia; questo finirà per lasciare la missione alla discrezione dei sovrani ed ai privilegi degli ordini religiosi.26 Di fatto le testimonianze più significative di disponibilità e di zelo verranno dall’ordine francescano e domenicano; la lettera con la quale fra Francisco de los Angeles de Quifones, nel 1523, ordinava a dodici frati di andare nel continente americano per portare il Vangelo ai sudditi dell'impero azteco, conquistato da Cortés, ebbe fin da allora notevole risonanza. Caratterizzato da influssi gioachimiti,27 questo testo è destinato a dei frati che sono visti come operai dell'undicesima ora: si tratta di chiamare gli ultimi invitati al regno dei cieli e di completare così l’opera apostolica. Per questo sono dodici come i dodici apostoli. La loro opera è quella di strumenti della Provvidenza chiamati ad annunziare e realizzare il pieno compimento della storia sotto la sovranità di Cristo. Ne viene una interpretazione ed una pratica della missione che, considerando i missionari come “tipo” degli apostoli, insiste sull’intenderla in base ad un disegno provvidenziale nel quale l’unificazione del mondo e l’inizio del millennio felice trovano il loro senso più vero. La missione era, insomma, lo specchio di una esigenza di cambiamento e di rinnovamento che vedeva nella unificazione religiosa del mondo l’inizio dei tempi ultimi. B: La concezione missionaria dei gesuiti La concezione dei gesuiti è diversa; non si limitano ad unire alla predicazione la testimonianza di una vita evangelica ma si propongono la trasformazione di intere società; questo progetto comporta da una parte l’abbandono di una concezione millenaristica con la sua imminenza di un futuro di pace e di unità e l’accettazione di tempi storici non sempre ben definibili. Distinguendo tra infidelitas e barbarie, avviano uno ricerca sulle diverse condizioni culturali dei popoli ed iniziano un adattamento della strategia missionaria a queste situazioni. La missione passa così da una proclamazione del vangelo e da una lotta contro il maligno, in un certo senso astratta, ad una strategia volta a fare della fede il criterio di una riorganizzazione complessiva delle relazioni sociali. Si profila così uno scambio culturale con quei popoli che per storia e profondità di pensiero ne sono all’altezza; per quanto mantenuto nel contesto di una superiorità della cultura occidentale, la missione è qui collegata al cammino globale di un popolo. Sarà questa la missione moderna. Vi è qui una evidente diversità dalle concezioni precedenti; la Compagnia di Gesù non sceglie la strada della separazione dalla storia per attenderne la fine o per prepararsi ad accogliere una nuova età spirituale ma intende assumere una responsabilità storica, rendendo i suoi membri disponibili a qualsiasi destinazione o compito stabilito dalla autorità. Lontani da ogni forma di spiritualismo e attenti alle Quirini, «Lettera al Papa». Libellus ad Leonem X [1513]. Notizie introduttive e versione italiana di G. Bianchini, Artioli, Modena 1995. 26 Sono gli stessi due camaldolesi a notarlo richiamando le incalzanti domande di Rm 10,14-15. 27 Fra Francisco de los Angeles apparteneva alla corrente spirituale e si muove nel quadro di una prossima unificazione del mondo e nell’attesa di un rinnovamento ecclesiale che sarà frutto del governo di un papa angelico. 8 persone ed alla loro storia;28 i gesuiti mirano ad educare e favorire la maturazione di un cammino personale di ricerca della volontà di Dio e di impegno in vista di essa. Si tratta di vivere storicamente ed impegnativamente scegliendo Dio in modo incondizionato. La radice spirituale di questa prospettiva si trova, probabilmente, nella meditazione che la seconda settimana degli “Esercizi spirituali” sviluppa a proposito dei due capitani e delle due bandiere; mentre valorizza le istanze della soggettività moderna, sollecitando la decisione personale, la riporta però all’interno di un agire determinato dalla fede.29 La base concreta per una sua traduzione missionaria sarà fornita da J. De Acosta (1539/40-1600). Autore del De promulgando Evangelio apud Barbaros sive de procuranda Indorum salute (1588), questi offre uno schema di comprensione differenziata dei popoli30 che permette una predicazione adatta alle situazioni e volta ad educare le persone in modo che queste possano risalire verso forme più alte di civiltà e di umanità. Per De Acosta si poteva usare sia la metodologia della dolcezza, se queste popolazioni erano ben disposte verso il vangelo, sia – di fronte alla opposizione – un certo grado di forza. L’una e l’altra miravano alla salvezza ed il loro utilizzo dipendeva da criteri il più possibile oggettivi; «poiché non si potranno insegnare le cose divine a chi non intende le umane», De Acosta scriverà che è fondamentale che queste popolazioni imparino «a ser hombres y despuès a ser cristianos, principio que es tan capital que de el depende todo el negocio de la salvación o de la ruina cierta de las almas».31 Il risultato é una nuova visione del missionario che deve tenere insieme una scelta personale di servizio a Dio, una concezione ecclesiale della predicazione che vede il vangelo come “fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplina” ed una antropologia del credente come responsabile della sua vita e del suo contesto sociale. Questo sforzo di sintesi e di misura spiega la fortuna del modello missionario pensato da J. De Acosta; altri ne ricaveranno importanti conseguenze come la conoscenza delle popolazioni indigene, delle loro lingue e dei loro caratteri, o come la consapevolezza di una precisa metodologia. 28 Su questa dimensione antimonastica si veda J.W. O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero, Milano 1999. Si vedano i nn. 136-155 degli «Esercizi Spirituali» colti come storicamente applicativi di quella conquista universale tracciata al n. 93 a cui corrisponde la forma radicale di impegno dei nn. 97-98. Questa lettura storica porterà, a poco a poco, a diffidare della sete di martirio; bisogna servire il Signore ma non affrettare la propria fine. 30 Secondo De Acosta, si potevano indicare tre gruppi di popolazioni o tre modi diversi di vivere la scala dell’umanità. Il primo era rappresentato dai popoli caraibici e africani, privi di organizzazione giuridicopolitica e perciò senza un corpo di leggi ed una chiara struttura di autorità; questi venivano collocati in fondo ad una virtuale scala di umanità. Il secondo gruppo era quello rappresentato dai popoli mesoamericani come gli aztechi, gli inca od i maya; erano popoli che, pur possedendo notevoli conoscenze giuridiche e scientifiche e pur avendo istituzioni stimabili, non possedevano però una filosofia ed una scrittura altrettanto sviluppata. Infine il terzo gruppo era quello rappresentato dalle grandi civiltà asiatiche, come la civiltà cinese e indiana, giapponese e vietnamita; queste avevano una ampia conoscenza di problematiche filosofiche, etiche e religiose. 31 J. De Acosta, Obras. De procuranda Indorum salute, Atlas, Madrid 1954, 491. 29 9 Questa metodologia verrà normalmente indicata come «adattamento»;32 prendendo lo spunto da 1Cor 9,19-23, come Paolo anche i gesuiti accettavano di «farsi tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno». A questo punto, però, le domande si moltiplicavano facilmente; era necessario “adattarsi” a chi aveva idee religiose diverse da quelle cristiane? dove finiva il rispetto delle forme e delle regole, il “cerimoniale”, e dove cominciava un cedimento sui contenuti? La soluzione fu cercata anche in base al testo di Gal 2,11-13, un testo che parla del cambio di comportamento di Pietro ad Antiochia dopo l’arrivo di alcuni fratelli dalla Giudea; se ne concluse che lo «adattamento» poteva contenere una misura elementare e accettabile di «simulazione».33 Per questo Claudio Acquaviva, il generale dei gesuiti, pur dando al Valignano la sua approvazione invitava a prudenza: «temperi dunque la cosa in modo che si condescenda sì, ma senza nostro pregiuditio e senza trasformarsi in altra forma».34 Ovviamente all’epoca del Saverio (1506-1552), questi aspetti sono solo iniziali; sarà con il suo successore, con il Valignano (1539-1606), che si imporranno nettamente. La loro piena giustificazione si avrà con gli studi di Tommaso de Vio, detto Caietano (1469-1534), e con F. Suarez (1548-1617). Il suarezianesimo35 interpreterà Tommaso in modo da ricavarne la nozione di “natura pura” ed imporrà l’effato scolastico gratia supponit et perficit naturam, visto come base dell’impegno cristiano e apostolico. Dato che non vi é opposizione tra natura e gratia, il credente può servirsi di tutte le realtà naturali, e quindi anche della cultura, per il suo impegno apostolico. A queste prospettive si ispirerà la ben nota Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, edita a Roma dalla Congregazione di Propaganda Fide nel 1659.36 3. Il “mahatma” Francesco Saverio (1506-1552) Anche se Latourette presenta il Saverio come «uno dei più famosi missionari nella intera storia della Chiesa»,37 con ragione altri invitano a maggiore moderazione; «l’immagine che la posterità e gli stessi contemporanei si sono fatta di san Francesco Saverio è il risultato di enormi esagerazioni, scusabili soltanto con l’ignoranza che, per 32 Il testo che lo propugna con più forza é certamente il lavoro del Valignano, scritto nel 1581 e pubblicato nel 1946; si veda A. Valignano, Il cerimoniale per i Missionari del Giappone. Edizione critica, introduzione enote di Giuseppe Fr. Schütte, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1946. 33 Si veda A. Biondi, «La giustificazione della simulazione nel Cinquecento», in A. Biondi – L. Firpo, Eresia e Riforma nell’Italia del Cinquecento. Miscellanea. I, Sansoni – The Newberry Library, Firenze – Chicago 1974, 8-68. 34 La lettera dell’Acquaviva, del 24 dicembre 1585, è riportata in A. Valignano, Il cerimoniale per i Missionari del Giappone, cit., 315-324 (citazione, 322-323). 35 P. Fransen, «Presentazione storico-dogmatica della dottrina della grazia. II: L’Occidente cristiano. 5.b: Il suareziamesimo o molinismo», in Mysterium salutis. IX, Queriniana, Brescia 1973, 183-191. 36 Testo italiano in M. Marcocchi, Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. L’Istruzione di Propaganda Fide ai Vicari apostolici dell'Asia Orientale (1659), Jaca Book, Milano 1981, 61-88; edizione latina a cura di J. Guennou in Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum. 350 anni a servizio delle missioni: 1622-1972. cura et studio J. Metzler edita, III/2, Herder, Rom -Freiburg i.Br.-Wien 1976, 696-704. 37 K. Scott Latourette, A History of Expansion of Christianity. III: Three centuries of Advance A.D. 1500 – A.D. 1800, Harper & Brothers Publishers, New York – London 1939, 251. 10 lungo tempo, ha dominato nei paesi occidentali» sulle cose dell’Oriente.38 A titolo di esempio, H. Bernard-Maitre fissa a circa 30.000 i battesimi del Saverio39 e rimanda al lavoro quarantennale dello Schurhammer40 come esempio di demitizzazione. Questo sforzo di realismo critico non comporta affatto un drastico ridimensionamento della personalità del Saverio; basta ciò che è stato ed ha fatto ad illuminarne la grandezza.41 Precisandone la figura, lo stesso autore utilizza una citazione di K.M. Panikkar che vede in lui «la personificazione della grande rinascita religiosa che animava allora i paesi cattolici».42 Per quanto questo sia indubbiamente vero, non mi pare sufficiente; il Saverio va messo in rapporto non solo con il mondo da cui viene ma anche con quello a cui è mandato. Sarebbe sicuramente troppo vedere in lui l’antesignano di quel missionario gesuita che ritroveremo con Valignano ma, ugualmente, sarebbe troppo poco non vedervi nemmeno una prima traccia. Possiamo cominciare dal fatto che, quando parte per le Indie, nulla e nessuno l’aveva preparato a comprendere la cultura e la civiltà indiana;43 inoltre si può dire che il Saverio non entra quasi mai a contatto con l’induismo colto e raffinato ma piuttosto con il mondo povero e spesso sfruttato che girava attorno ai portoghesi. Di fatto, quando giunge in India, non si preoccupa di strategia missionaria ma cerca ogni occasione ed ogni mezzo per diffondere il cristianesimo. Con tutto questo, il Saverio appare una persona piena di amor di Dio e dei poveri; in termini indiani, si potrebbe descrivere questa passione per gli altri che lo assorbe totalmente come l’atteggiamento di un «mahatma», di «una grande anima».44 Forse, é proprio dell’India sviluppare a fondo la grandezza interiore dei suoi figli migliori e, con essi, di quegli stranieri che stabiliscono con le sue caratteristiche una profonda e viva sintonia.45 La storia del Saverio è nota. È l’incontro parigino con Ignazio prima46 e poi quello con la missione a decidere della sua vita. Nel marzo 1540 il Saverio lascia Roma per 38 H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier et la Mission japonaise», in S. Delacroix (ed.), Histoire universelle des Missions catholiques. I: Les Missions des origines au XVIe siècle, Librairie Grund – Ed. de l’Acanthe, Paris – Monaco 1956, 269. 39 H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 270. 40 G. Schurhammer, Franz Xavier, his life his times. 4 voll., The Jesuit historical Institute, Rome 1973-1982. 41 Per una prima, chiara ma precisa inquadratura della sua persona e del suo lavoro si veda M. Sivernich, «Xavier, Franz», in Theologische RealEnzyklopädie. XXXVI, De Gruyter, Berlin-New York 2004, 425-430. 42 H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 271. 43 Di fatto il Saverio parte per le Indie perché Ignazio, che aveva promesso due missionari alll’ambasciatore del Portogallo, di fronte alla malattia di questi religiosi, è costretto, all’ultimo momento, a ripiegare sul Saverio; per altro, è ben nota la sua famosa frase di accettazione: «pues, sus, hème aqui», e cioé: «bene, eccomi pronto». 44 Su questa figura mi limito a richiamare un solo autore: il padre gesuita Georg Schurhammer. Di lui ricordo G. Schurhammer, Franz Xavier, his life his times. 4 voll., The Jesuit historical Institute, Rome 1973-1982; Id., Der “Grosse Brief” des heiligen Franz Xaver, The Herald Press, Tokyo 1934; Id., San Francesco Saverio: apostolo delle Indie (1506-1552), Apostolato della preghiera, Roma 2005. A questi testi rimando per le citazioni di brani di lettere che si ritrovano in molti testi ed articoli. 45 Oltre che al Saverio, basta pensare a Roberto de Nobili ed a madre Teresa di Calcutta. 46 Nella camera che condivide con lui, Ignazio gli ripete continuamente: «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?» (Mc 8,56); di fronte a questa provocazione, il Saverio comincerà a vibrare ed, alla fine, si arrenderà. Sarà uno dei sette che, nel 1534 a Montmartre, daranno vita a 11 Lisbona, dove lo raggiunge il “breve” pontificio con cui Paolo III lo nomina «Nunzio apostolico dell’Oriente». Il 7 aprile 1541, giorno in cui il Saverio compie 35 anni, la flotta portoghese salpa per le Indie; sbarcherà a Goa il 6 maggio 1542. Nonostante il suo titolo di Nunzio, il primo gesto che compie é quello di presentarsi al vescovo di Goa, il francescano J. Albuquerque, per garantirgli obbedienza e chiedergli l’approvazione. Invece che nell’episcopio, dove gli era stato preparato un alloggio, il Saverio sceglierà di vivere presso l’ospedale per poter assistere meglio i malati. Di fatto la sua attività non comporta cambiamenti di linea apostolica ma, piuttosto, una qualche radicalizzazione: gira per strade e piazze con una campanella per radunare così i fedeli e condurli in chiesa dove predica e li istruisce. Non particolarmente dotato per le lingue, é costretto a preparare le sue prediche o a servirsi di «lenguas», cioè di interpreti che non di rado ne travisano il pensiero; nonostante questo, si applica senza soste all’insegnamento dei primi rudimenti della fede.47 Al cuore della sua attività apostolica vi é però una costante preghiera, spesso notturna, ed un radicale impegno di carità che lo spinge a trascorrere le domeniche con i lebbrosi, a visitare i carcerati, a prodigarsi per l’erezione di collegi dove i giovani possano essere educati e formati;48 la predicazione e la confessione, la formazione dei giovani e la vicinanza ai poveri, unitamente alla lotta contro la corruzione e l’immoralità, sono i cardini del suo lavoro di missionario. L’ideale del missionario, pieno di zelo per Dio per la chiesa e per i poveri, trova una vivente realizzazione nella sua vita apostolica e virtuosa. Agli occhi della gente comune, il Saverio si imporrà per la complessiva immagine di «uomo di Dio» che le folle intuiscono in lui: distaccato dai beni terreni ed assorto nella preghiera, egli riversa la comunione con Dio in un disinteressato impegno per gli altri, senza risparmiarsi nessuna fatica. Troviamo così realizzato in lui l’ideale tridentino di una rinascita religiosa capace di tenere insieme la predicazione del vangelo e la carità per i poveri, la salvezza delle anime e l’attenzione alle persone e alle loro condizioni di vita.49 Le folle lo seguono e lo cercano almeno quanto lui cerca loro. In una lettera del 15 gennaio 1544 scrive: «folle intere di persone non possono convertirsi al cristianesimo per mancanza di uomini che si consacrino al compito di istruirli. Spesso mi prende il desiderio di recarmi nelle Università, specialmente a Parigi alla Sorbona, e gridare a squarciagola, come un uomo che abbia perduto il senno, a quelli che hanno più scienza e che desiderino usarne con profitto quante anime siano prive della gloria e cadano nell’inferno a causa della loro negligenza». Le folle avvertono questo interesse per loro, per il loro bene e lo ricambiano con lo stesso ardore. Questo singolare dialogo di amore, per il suo bisogno di quel gruppetto che, fin dall’inizio, si proporrà quattro punti decisivi: la povertà e la castità, il pellegrinaggio in Terra santa e il viaggio a Roma per mettersi totalmente a disposizione del papa. Il Saverio aveva vent’otto anni ma, già a partire da questo tempo, è una persona totalmente volta alla maggior gloria di Dio ed al servizio della chiesa 47 Per quanto dotato di una certa creatività come quando, a Ternate nelle Molucche, mette in forma di canto le preghiere e il Credo, per lo più si affida alla memoria; insiste fino a che non hanno imparato a memoria le preghiere, il Credo, i comandamenti ed i principali sacramenti. 48 Bisogna dire che anche questo dato, così caro alla educazione impartita dai gesuiti ai giovani, non è del tutto nuovo. Se è vero che il Saverio apre a Goa il collegio di Santa Fé e ne edificherà altri a Cochin, a Bassein, a Quilon..., è però vero che, già l’anno precedente il suo arrivo, era stato creato a Goa il collegio San Paolo. 49 Lo stesso rapporto con l’amministrazione coloniale é, per lui, subordinato e funzionale alla missione. 12 raggiungere tutti, è all’origine di una itineranza per certi versi sconcertante.50 Sbarcato a Goa il 6 maggio 1542, vi resta cinque mesi poi parte per Capo Comorin, la terra dei pescatori di perle.51 Nel 1545 parte per la Malesia e poi s’imbarca per Amboina, nell’arcipelago delle Molucche;52 lavora in quelle terre per due anni battezzando e catechizzando ma, appena il cristianesimo può contare su un certo numero di missionari,53 le lascia per il Giappone. Il 15 agosto 1549, dopo un viaggio di quattro mesi, sbarca in Giappone; anche se vi conoscerà un apostolato difficile,54 all’inizio del 1952 ritiene che quella chiesa sia abbastanza fondata e ritorna prima in Malacca e poi a Goa. L’aveva lasciata dieci anni prima. Dopo due mesi passati a scrivere, riordinare, visitare le case e lasciare raccomandazioni, il giovedì santo dello stesso anno riparte per l’ultimo viaggio: la meta é la Cina. Il Saverio sa bene che la Cina è terra proibita agli stranieri; per questo si provvede di credenziali che lo presentano come ambasciatore del vicerè dell’India ma soprattutto si affida a Dio: «siamo decisi – scrive il Saverio – ad aprirci una via in Cina a tutti i costi. Spero in Dio che il risultato del nostro viaggio sarà di aumentare la nostra fede, qualunque sia la persecuzione del demonio e dei suoi ministri. Se Dio é con noi, chi può abbatterci?». Una serie di contrattempi gli impediranno di realizzare il suo sogno; morirà sull’isoletta di Sancian, all’età di 46 anni e 8 mesi: «col nome di Gesù sulle labbra – scrive Antonio, un cinese che lo accompagna nel viaggio – egli rese l’anima al suo Creatore, con gran serenità e pace».55 Una valutazione della sua persona e della sua opera, come abbiamo visto, non è semplice. Contemplativus in actione, il Saverio lascia una traccia incredibile nella storia della missione di cui, non a torto, sarà proclamato patrono: Patrono dell’Oriente cristiano nel 1748, dell’Opera della Propagazione della Fede nel 1904 ed, infine, Patrono delle 50 Legando questo aspetto al suo incarico di “Nunzio apostolico”, C. Testore prova così – con una certa ragione – a salvaguardare il Saverio dall’accusa di incostanza, impulsività e mobilità sfrenata del carattere: sarebbe parte del suo compito di Nunzio vedere il posto, preparare, dare indicazioni precise ai missionari; cfr C. Testore, «Francesco Saverio», in Enciclopedia Cattolica. V, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1950, 1616-1619. 51 Il linguaggio di Francesco vale più di molti discorsi: «quando sbarcai in questi luoghi, battezzai tutti i fanciulli che ancora non erano stati battezzati, e quindi un gran numero di ragazzi, che non sapevano neppure distinguere la destra dalla sinistra. [...] Mi assediava una folla di giovani, tanto che non riuscivo più a trovare il tempo per dire l’Ufficio, né per mangiare, né per dormire; chiedevano insistentemente che insegnassi loro nuove preghiere. Cominciai a capire che a loro appartiene il regno dei cieli». 52 Dopo aver descritto i pericoli di quel viaggio, il Saverio scrive: «Dio N.S. volle provarci con questi pericoli e farci comprendere quel che valiamo se speriamo nelle nostre forze o confidiamo nelle creature, e quanto, invece, se ci liberiamo da queste false speranze senza riporre in esse alcuna fiducia, ma sperando solo nel Creatore di tutte le cose, la cui mano ha il potere di renderci forti quando i pericoli sono ricevuti per il Suo amore. E coloro che trovandosi nei pericoli li ricevono solo per suo amore, sanno per certo che tutto l’universo obbedisce al Creatore e comprendono chiaramente che nel momento in cui quest’uomo dovesse terminare i suoi giorni, sono maggiori le consolazioni che non il timore della morte». 53 Quando lascia le Molucche vi lavorano ormai, oltre ai francescani ed ai domenicani, ben 32 gesuiti. 54 Basta ricordare quanto scrive D. Bartoli quando ricorda che, in Giappone, il Saverio «non pescò [...]con la rete, conducendo al battesimo i Giapponesi a popoli interi, ma stentatamente con l’hamo, gittato assai delle volte indarno e trahendo ad uno ad uno i presi...» (D. Bartoli, Dell’historia della Compagnia di Gesù. II: Il Gioappone seconda parte dell’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1660, 3). 55 Solo più tardi, nel 1554, il suo corpo sarà portato a Goa. 13 Missioni nel 1927. La sua formazione teologica é quella del tempo; di conseguenza, da una parte vede le religioni non cristiane come vie di perdizione e dall’altra si muove nel quadro di una chiesa universale che non fa particolare conto delle chiese locali. Non é qui, nella teologia, che va cercata la sua grande anima; va piuttosto cercata nella testimonianza di Dio che ha offerto e nell’amore misericordioso e generoso con cui ne ha servito la verità. Le folle percepiscono questo offerta di Dio, nella forma di una vita umana che ne diventa segno, e accolgono l’intreccio di verità e di amore che offre. Il suo impegno missionario è, in larga misura, quello del pioniere che apre vie ed inizia nuove fondazioni; è presumibile che la brevità della sua vita e l’ansia di spingere sempre più avanti la frontiera missionaria gli impediscano di seguirne a fondo il cammino spirituale e la maturazione delle persone che, pure, introduce alla fede. Il problema di una evangelizzazione di massa e per motivi non sempre limpidi non è solo del Saverio ma di tutta un’epoca; può essere di qualche interesse vedere che la posizione del Saverio, due decenni dopo, era ancora sostanzialmente condivisa da quei confratelli che lavoravano nel suo medesimo campo.56 Un punto significativo della sua personalità e della sua opera, in proiezione futura, mi sembra significativamente illustrato nella seconda fase della sua missione giapponese. Come il Bartoli aveva riconosciuto,57 l’apostolato giapponese era particolarmente difficile; resta da aggiungere che se, in una prima fase, il Saverio si era presentato poveramente affidandosi ad una predicazione che denunciava l’immoralità e minacciava l’inferno a chi non si convertiva, la scarsità dei risultati lo porterà ad un cambio di atteggiamento. Avendo colto che la povertà ritornava a discredito del vangelo invece che ad una sua conferma, il Saverio si presenterà al daimyô di Yamaguchi, Ôuchi Yoshitaka, sontuosamente vestito e con regali preziosi; inoltre, mutando profondamente il suo atteggiamento dai tempi dell’India, l’incontro con una classe di bonzi colti e profondi nel ragionare porterà il Saverio a chiedere l’invio di missionari virtuosi certo ma anche colti.58 Arriverà addirittura 56 Mi riferisco ad un episodio del 1579 quando il Valignano, venticinque anni dopo la morte del Saverio, scrive dal Giappone al generale Everardo Mercuriano, terzo successore (1573-1580) di S. Ignazio, per sapere come regolarsi di fronte a conversioni di massa avvenute per la spinta dei capi e per motivi economici più che per intima convinzione. É giusto chiudere le porte a chi cerca Cristo? non si può ritenere che, col tempo, potranno ugualmente diventare buoni cristiani? non può Dio servirsi di motivi meno nobili per attirarli a se? Poiché la risposta, preparata da consultazioni e discussioni, non arriverà che quattro anni dopo, il Valignano consulterà i padri per sapere come comportarsi e, lui stesso, riassumerà così il frutto della sua consultazione: «non si deve perdere nessuna occasione di estendere la fede nei vari reami; anzi si dovrebbe fare ogni sforzo per mettere in fiamme tutto il Giappone col fuoco del divino amore. Dobbiamo aver fiducia in Dio per la perseveranza nella fede dei nostri cristiani. Così Dio ha fatto con gli Sciti e con altri popoli barbari convertiti dagli Apostoli e dai discepoli: quanto più non dovremmo noi riporre le più vive speranze in un popolo così dotato e così saggio come il giapponese, così desideroso di salvezza e così pronto a sottomettersi alla ragione» («Consulta del Giappone. Questione 4», in J.F. Schütte, Valignanos Missionsgrundsätze für Japan. I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1951, 224). 57 Vedi nota 45. 58 La preparazione intellettuale dei bonzi, ben diversi da quelli che M. Ricci troverà in Cina, lo spinge a chiedere ad Ignazio (lettera da Goa del 9 aprile 1552) persone ben preparate: «è pure necessario che siano letterati per rispondere alle molte domande che fanno i giapponesi. Sarebbe bene che fossero buoni artisti e nulla perderebbero se fossero sperimentati nella sofistica per pigliare nelle dispute i Giapponesi in contraddizione e che sapessero qualche cosa della sfera perché godono grandemente i Giapponesi di sapere i 14 a porre la questione dei termini con cui annunciare Dio,59 anche se la sua scarsa preparazione lo porterà a scelte ben diverse da quelle di coloro che verranno dopo. Il Saverio intuirà la necessità del rispetto e fin della umiltà che richiede l’accostamento di culture ben elaborate ma profondamente diverse da quelle europee e, nel suo linguaggio, chiede ai missionari di essere come fanciulli tracciando come un percorso dalla passività delle statue alla presenza umile e rispettosa dei fanciulli. «Adesso siamo fra loro come statue, perché parlano e praticano con noi di molte cose; et noi, per non intendere la loro lingua, taciamo. Et adesso ci bisogna essere come fanciulli per imparar la lingua e piaccia a nostro Signore che in vera purità e simplicità di cuore gli invitiamo. Noi siamo sforzati in pigliar rimedi e disponerci a esser come fanciulli, così nel imparar la lingua come in mostrar simplicità di fanciulli che non hanno malitia».60 Il Saverio, insomma, si rende conto della curiosità intellettuale dei giapponesi, specie se colti, per quel nuovo mondo che si affacciava alle loro porte; intuisce non solo l’importanza del rispetto delle autorità ma anche il valore della condivisione di costumi e abitudini di vita come condizione necessaria per la evangelizzazione. In questo modo, nel suo aprire nuove vie, il Saverio si ferma sulle soglie di un nuovo metodo; come osserva H. Bernard-Maitre, «per conquistare questo popolo fiero, intelligente e razionale, […]occorrevano missionari scelti, tanto liberi da sapersi conformare alle usanze del paese nella misura più larga che la loro fede poteva permettere».61 Ma questa è la storia di coloro che, ricchi della sua passione e delle sue intuizioni, verranno dopo di lui. Conclusione Figlio del suo tempo e missionario gesuita, il lavoro del Saverio appare una piccola parte di un complesso e discusso intreccio tra storia coloniale, vita ecclesiale e impegno missionario. Va inquadrato, innanzitutto, nel contesto della esperienza gesuita che, nel linguaggio proprio del tempo e di quel medesimo mondo, era da intendersi come conquista spirituale. Mi limito a ricordare che, nel 1639, Ruiz de Montoya pubblica la Conquista espiritual hecha por los religiosos de la la Compania de Jèsus en la provincias de Paraguay, Uruguay y Tapi e che, nel 1640, Bartoli pubblica la Imago primi saeculi societatis Iesu nella quale paragonerà l’opera della Compagnia ad una conquista e ad un mvimenti del cielo, l’eclissi di sole, lo scemare e crescere della luna…» (Traduzione italiana di J. Brodrick, S. Francesco Saverio, apostolo delle Indie e del Giappone, I.S.M.E., Parma 1961, 416-417). 59 In un primo tempo Saverio utilizza il termine Dainichi – letteralmente «Grande Sole » - per parlare di Dio ai giapponesi ma, quando si accorge che non evoca un Dio personale e creatore ma una potenzialità insita in tutte le cose, abbandona questo linguaggio e si orienta verso una semplice traslitterazione giapponese del termine latino. Parlerà così di Deusu. Su tutto questo problema, che ritornerà con M. Ricci e altri, si veda G. Schurhammer, Das kirchliche Sprachproblem in der Japanischen Jesuitenmission des 16. und 17. Jahrhunderts. Ein Stück Ritenfrage in Japan, Deutsche Gesellschaft für Natur- u. Völkerkunde Ostasiens, Tokyo 1928. 60 Lettera al collegio di Coimbra del 5 ottobre 1549, tradotta in italiano da G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi. a cura di M. Milanesi, Einaudi, Torino 1979, II. 1028-1029 (Epistolae S. Francisci Xaverii. II, Mnumenta Historica Societatis Jesu, Romae 1945, 201). 61 H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 285. 15 impero simile a quello romano. Se, all’interno del mondo missionario, la missione é vissuta come servizio apostolico per la conversione degli indigeni e la salvezza delle loro anime, all’esterno questo impegno é all’origine di una realtà che può essere assimilata ad un impero. Al di là di qualche analogia, questa «imperii propagatio» ha il carattere di un impero ben diverso dagli altri, volto a diffondere la libertà cristiana con la benevolenza, la mansuetudine e l’interiorità. I limiti di questa strategia saranno recepiti, verso la fine del ’600, dalle Lettres édifiantes et curieuses che saranno alla base di revisione della strategia missionaria e gesuita. Il Saverio é a monte ed al principio di molte di queste scelte; in qualche modo le precede e le anima ed in qualche modo, invece, le trascende. Con lui la vita apostolica e l’impegno missionario appaiono non solo al centro della formazione e dell’impegno personale del gesuita ma anche di quello della Compagnia e della stessa Chiesa. I gesuiti saranno tra i pochi, se non gli unici, ad intuire che la diffusione del vangelo presso società colte come quella indiana e cinese doveva essere capace di comprenderle dall’interno. Era questo il succo della lezione di J. de Acosta; ma questa lezione dovrà essere completata con l’apporto di Francesco Saverio: il suo apporto mistico e spirituale, caritativo e apostolico, non rappresenta soltanto una aggiunta di spiritualismo ma la base stessa di quell’adattamento che sarà il cuore della seguente metodologia gesuita. Nel Saverio questa metodologia é meno presente nelle sue conclusioni operative ma é ben salda nelle sue radici; é perché, nella sua scelta di Cristo, ha imparato a rinunciare a se stesso per darsi totalmente a Dio, che il Saverio mette al centro del suo mondo i popoli che incontra: l’indiano, il giapponese e, nell’amore, ...il cinese. In questa rinuncia, il Saverio non é spagnolo od europeo ma è pura disponibilità dell’amore cristiano al dono di sé per l’altro così com’é: con la sua povertà, con il suo bisogno di Dio e con la sua cultura. É un uomo nuovo, universale, disponibile ad ogni tempo, popolo e cultura quello esigito dalla missione gesuita; di questa antropologia, universale per amore, il Saverio é il primo, grande esempio. Abbracciando amorevolmente il mondo intero, la sua persona fa rifulgere – anche in un’epoca coloniale – lo splendore del vangelo di Cristo. 16