La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo

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La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo
La nascita di una nuova figura ecclesiale e il suo servizio
SAN FRANCESCO SAVERIO MISSIONARIO
di Gianni Colzani
Sommario.
1. Lo sfondo religioso del tempo del Saverio. A: Il concilio di Trento. B: La disputa di
Valladolid. 2. Il missionario gesuita A: L’interpretazione millenarista del «nuovo mondo».
B: La concezione missionaria dei gesuiti. 3. Il “mahatma” Francesco Saverio (1506-1552).
Le scoperte geografiche – dalla seconda metà del XV secolo in poi – spalancano
all’Europa un mondo nuovo; il mondo conosciuto appare vecchio mentre la stessa storia si
rimette in cammino. Questo ampliamento del mondo ha diverse chiavi di lettura; alla
abituale comprensione in termini di occidentalizzazione o di colonizzazione del mondo, il
nostro tempo ne ha aggiunte altre. Diversi autori, tra cui Todorov1, hanno indicato la
categoria decisiva per la comprensione di quegli eventi nella «alterità»;2 le scoperte sono
l’irruzione della alterità, rimettono in moto la storia dell’umanità ed iniziano un complesso
scambio tra culture.
Questo scambio non avverrà senza profondi contraccolpi sulla stessa identità europea
e cristiana; l’Europa si troverà catapultata in un universo ampio ed in divenire, dove
l’incontro con i nuovi mondi pone problemi non sempre riconducibili alla abituale
comprensione di un ordine sociale di cui la religione cristiana era l’asse portante. Ne viene
una sfida profonda che vedrà evolvere la coscienza europea e mediterranea verso quella
prospettiva mondiale – assunta nella forma del colonialismo – che regolerà poi per secoli i
rapporti degli europei con il resto del mondo.
Questo ampliamento di orizzonti non mancò di creare sconcerto. I nuovi mondi
avevano bisogno di essere capiti, analizzati e compresi; solo così diventava possibile
elaborare un qualche disegno che li riguardasse in profondità. Ora cercare di capire il
mondo è cosa vecchia quanto la filosofia ed il mito ma questa epoca esigerà strade nuove:
1
T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro [1982], Einaudi, Torino 1992; E. Garin,
«Alla scoperta del «diverso»: i selvaggi americani e i saggi cinesi», in Id., Rinascite e rivoluzioni. Movimenti
culturali dal XIV al XVIII secolo, Laterza, Roma-Bari 1976. Non manca chi, pur riconoscendo l’importanza
della nozione di “alterità”, la legge in modo radicalmente diverso: E. Dussel, L’occultamento dell’altro.
All’origine del mito della modernità, La Piccola Editrice, Celleno 1993.
2
Il valore della «alterità» si coglie confrontando il tradizionale ricorso alla crociata ed alla forza nei rapporti
con i mussulmani ed il mai concluso confronto con gli ebrei con la novità di una “conquista” ben più
semplice e la realtà di popoli ben disposti verso il vangelo. Questo spiega la proposta francescana di un «ire
ad infideles» con modi pacifici e proposte evangeliche.
1
«si trattava di sapere che cosa era necessario vedere e come lo si doveva descrivere: e qui
le ricette erano tanto diverse quanto i tipi di viaggiatori».3 In prima fila, in questa costante
attenzione alla realtà, saranno i missionari, attenti a raccogliere ed organizzare queste
osservazioni;4 tra loro, i più sensibili a questo impegno saranno i gesuiti. Ne ricordo due,
diversi tra loro e alquanto posteriori a Francesco Saverio (1506-1552), ma entrambi dotati
di una chiara consapevolezza della propria opera e del suo significato: José De Acosta
(1539/40-1600) e Daniello Bartoli (1607-1685).
J. De Acosta é l’autore del De promulgando Evangelio apud Barbaros sive de
procuranda Indorum salute (1588). Dalle sue continue e accurate osservazioni, De Acosta
giungerà alla conclusione che le popolazioni dei nuovi territori sono molto distanti da
quelle che, pur nella loro diversità, si muovono nell’universo europeo; giunge così alla
convinzione che questa diversità é la ragione del fallimento di molti sforzi missionari. Egli
si porrà cosi il problema se non fosse necessario «novo generi hominum novam
evangelizandi rationem». Le sue considerazioni saranno alla base di molte seguenti scelte
dei gesuiti.
Daniello Bartoli, lo storico dei gesuiti, ci ha lasciato una impressionante massa di
dati. Senza mai muoversi dalla sua stanzetta ma lavorando su lettere e manoscritti di prima
mano, ha offerto un resoconto accurato dei viaggi e delle esperienze missionarie. Per lui
non si trattava solo di pubblicare delle fonti storiche ma di comunicare una esperienza; per
questo, attraverso un lavoro di selezione e di censura, mirava a suscitare nei suoi lettori
determinate emozioni per avvicinarli così ad un entusiasmo apostolico per la diffusione del
vangelo.
5
L’intento di fondo che muove questi missionari ed i loro divulgatori rimane quello
religioso; di fronte a popoli che non conoscono Gesù Cristo, essi hanno l’impressione che
la comunità cristiana si ritrovi in una situazione simile a quella degli inizi, quando Cristo
aveva affidato agli apostoli l’evangelizzazione del mondo. Per questo, tutta la loro fatica é
volta alla conversione di questi popoli, é volta ad incarnare in questi popoli la visione della
vita ed il linguaggio della fede cristiana. Anche là dove la missione ha favorito la
sottomissione alla autorità coloniale, essa ha richiamato con forza i limiti di questa
sottomissione ed ha posto le basi per il suo superamento nella pari dignità dei figli di Dio.
Se è vero che molti missionari si adattarono ad un rapporto pragmatico con il mondo
coloniale, non di rado subordinato ad esso, va pure osservato che più volte entrarono in
conflitto con il potere politico e che lo fecero proprio per le esigenze della
evangelizzazione. Sviluppare fino in fondo questo aspetto porterebbe ad approfondire il
rapporto che la missione ha avuto con questi popoli, un rapporto non solo strumentale ma
di vera e propria mediazione culturale.
3
A. Prosperi, «Il missionario», in R. Villari (ed.), L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 1991, 184.
Il card. Marcello Cervini aveva fatto chiedere a Francesco Saverio, tramite Ignazio, cose di questo genere:
«como andan vestidos, de qué es su comer y bever, y las camas en qué duermen, y que costa haza unos
dellos. Tambien, quanto a la región, donde está, en qué clima...» (Lettera del 5 luglio 1553: Monumenta
Ignatiana. Epistolae V, Romae 1965, 165).
5
Limitandomi all’Asia, possiamo ricordare i volumi sull’Asia: Dell’historia della Compagnia di Gesù. I:
L’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1653; II: Il Giappone seconda parte dell’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1660; III: la
Cina terza parte dell’Asia, Stamperia del Varesei, Roma 1663. Il lavoro sarà ristampato con il titolo: Dalle
opere del Padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù. Dell’Asia. 3 voll., Marietti, Torino 1825.
4
2
1. Lo sfondo religioso del tempo del Saverio
Per illustrare le esigenze della evangelizzazione devo evocare brevemente i dati più
significativi di questo impegno. A questo proposito, non è possibile separare la storia della
evangelizzazione dalle vicende religiose del mondo europeo; non è possibile perché il
mondo europeo è il soggetto di questa evangelizzazione e perché vive queste vicende con il
suo patrimonio di idee e di convinzioni. Senza toccare molte altri aspetti, vorrei qui
richiamare due dati: il concilio di Trento e la disputa di Valladolid.
A: Il concilio di Trento
È vero che il concilio di Trento (1545-1563) non spende una sola parola sulla
problematica missionaria6 ma è anche vero che quel concilio formula la strategia romanocattolica di fronte alle sfide dell’epoca moderna. Di fronte alle sfide dell’umanesimo e
della riforma, Trento elabora una strategia che fa perno sulla predicazione del vangelo e
che, quindi, si articola attorno al contenuto evangelico ed ai ministri che lo proclamano.
Fin dalla quarta sessione dell’8 aprile 1546, il concilio ritiene di dover «conservare la
purezza del vangelo nella chiesa» e di doverla intendere «quale fonte di ogni verità
salvifica e di ogni norma morale».7
A questo scopo la quinta sessione, del 17 giugno 1546, pubblica il decreto Super
lectione et praedicatione; descritta come «salutare ministero», la predicazione è un obbligo
che impegna ad «insegnare ciò che tutti devono sapere per essere salvi» ed a «denunciare
[…]i vizi da fuggire e le virtù da praticare per evitare la pena eterna e conseguire la gloria
celeste».8 Questa esaltazione della predicazione, di per sé finalizzata a recuperare alla fede
chi l’aveva persa ed a consolidare la vita cristiana di chi era rimasto fedele alla chiesa,
genera un clima spirituale che va oltre un orizzonte pastorale e che è alla base di una nuova
strategia apostolica. Evangelium in Ecclesia ed evangelium fons omnis et salutaris veritatis
et morum disciplina9 sono decisivi criteri della vita cristiana e diventano la base anche di
quella apostolica.10
6
La ragione è semplice. Quando Paolo III convocò il concilio, i vescovi americani non ebbero il permesso di
parteciparvi perché Carlo V, re di Spagna, non voleva che i problemi dell’America fossero discussi a Trento
dato che li riteneva di sua esclusiva competenza. Si veda P. De Leturia, Perché la nascente chiesa ispanoamericana non fu rappresentata a Trento, «Il concilio di Trento» 1 (1942) 35-43. Per lo stesso motivo,
Filippo II si opporrà sistematicamente al tentativo di Pio V di istituire un nunzio in America.
7
H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. a cura di P.
Hünermann, Dehoniane, Bologna 1995, 639 (n. 1501).
8
Decreto Super lectione et praedicatione, n. 11; in G. Alberigo (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta,
Dehoniane, Bologna 1991, 669.
9
Il testo – già indicato in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, cit., 1501 – si ritrova anche in G. Alberigo
(ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., 663.
10
Si veda, al riguardo, M. Morán – J.A. Gallego, «Il predicatore», in R. Villari (ed.), L’uomo barocco,
Laterza, Roma-Bari 1991, 139-177.
3
L’enfasi tridentina sulla predicazione del vangelo è il frutto di un clima ecclesiale e
di una riforma cattolica che vi riconosceva la strada basilare per un autentico rinnovamento
ecclesiale. Anche il mondo gesuita ne sarà segnato, compreso il Saverio che lascia Lisbona
solo cinque anni prima della sua approvazione e muore sei anni dopo questo decreto. Si
può anzi dire che il ritorno alla fonte evangelica, per la sua ovvia risonanza apostolica,
troverà uno dei suoi ambiti più concreti proprio nell’aprirsi della chiesa tridentina ad una
responsabilità missionaria mondiale.
Questo rapporto tra vangelo e missione è del tutto evidente una settantina d’anni
dopo. Per convincersene, basta rileggere la lettera circolare ai Nunzi che, il 15 gennaio
1622, annuncia la nascita della Congregazione «de Propaganda Fide»; alquanto posteriore
al periodo che stiamo esaminando, esprime idee che da tempo trovavano cittadinanza nella
chiesa. Con chiarezza, questa lettera sostiene che vi sono due maniere di esercitare «la cura
della fede cattolica»:
«l’una di conservarla [la fede] ne’ fedeli, costringendoli etiandio con pene a ritenerla
fermamente, l’altra di spargerla e propagarla negl’infedeli; perciò due maniere di procedere
sono ancora state tenute nella Chiesa santa, l’una giudiciale, onde l’officio della Santa
Inquisizione si trova istituito, l’altra morale o piuttosto apostolica, onde le missioni degli
operai fra i popoli, che più n’hanno bisogno, s’indirizzano del continuo».11
Nei primi decenni del seicento, la Chiesa riconosceva due vie per il servizio della
fede: la prima, comprendente la forza, andava applicata all’interno della chiesa mentre la
seconda, rivolta all’esterno, era la via della dolcezza o «apostolica».12 Prima però che
questo metodo della dolcezza o della persuasione si imponesse, la chiesa aveva dovuto fare
i conti con una visione diversa, quella che – dalla evidenza della verità – ricavava la
legittimità dell’uso della forza anche nelle missioni. Sarà questa la disputa di Valladolid.
B: La disputa di Valladolid
Questo dibattito ha avuto luogo nel 1550 a Valladolid, quando Bartolomé de Las
Casas (1484-1566) e Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573) avevano pubblicamente
discusso i nodi della evangelizzazione missionaria del tempo. I presupposti di quel
dibattito debbono risalire, forse, fino al grido profetico di Antonio de Montesinos (+1545)
che, già nel 1511, proclamava la piena umanità dell’indio e sosteneva che i cristiani
debbono comportarsi nei suoi riguardi secondo il vangelo, secondo il comando dell’amore
del prossimo. Questo grido ha bisogno di una riflessione sistematica nella quale si prenda
coscienza che la novità della persona e del mondo indio sfidano la chiesa a precisare
meglio il suo modo di predicare e di agire. A questo primo aspetto se ne deve aggiungere
un secondo e cioè una sorta di elementare valutazione dei risultati dell’opera del
missionario. Il dibattuto che, in Spagna, aveva segnato la conversione degli ebrei e dei
11
Lettera circolare della S. Congregazione del 15 gennaio 1622; testo in J. Metzler (ed.), Sacrae
Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum. III/2, Herder, Rom-Freiburg-Wien 1976, 656-658.
12
A. Prosperi la descrive come l’ideale missionario del seicento: «l’esercizio non violento della conquista
passava attraverso la costruzione di un rapporto didattico, di insegnamento, di affermazione della superiorità
del proprio sapere» (A. Prosperi, «Il missionario», cit., 186).
4
mussulmani, obbligati a scegliere tra conversione ed esilio, si ripete anche qui: al suo
centro viene la determinazione precisa del mondo indio e la polemica sulla liceità o meno
dell’uso della forza.
Sepúlveda,13 che in base ad alcuni resoconti li riteneva antropofagi e dediti a
diabolici sacrifici umani, giustificava la forza e la violenza nei loro confronti come
propedeutica ad una successiva evangelizzazione; poiché la conversione doveva
comprendere un processo interiore e libero di cambiamento, queste persone rozze e
violente, senza morale e senza intelligenza, dovevano venir prima sottoposte ad un’opera
di civilizzazione.14 Per questo Sepúlveda vedeva questi indigeni come humuncoli, cioè
come esseri inferiori alla razza umana, e parlava dei conquistadores come di angeli
punitori che sottomettevano questi «infedeli» per guidarli poi sulla via della fede cristiana.
Al contrario, B. de Las Casas15 considerava questi indios «senza malizia e senza
doppiezza»; gli stessi sacrifici umani hanno un peso minore se li consideriamo come atti di
onore a quelle divinità che i nativi riconoscevano con la loro ragione naturale. Per questo
sostiene che l’unico modo di perseguire l’evangelizzazione è la dolcezza evangelica e non
l’uso della forza; la sottolineatura della cupidigia e della violenza degli spagnoli e quella
della onestà e della pace delle popolazioni indigene ne è semplice conseguenza. Assorbito
dalla urgenza drammatica della metodologia missionaria e pastorale, vedrà meno il
problema ed il senso della diversità culturale e non approderà alla interculturalità.
In ogni caso, Las Casas sosterrà con forza l’inadeguatezza delle ragioni accampate
dagli spagnoli per rivendicare il dominio sui nuovi mondi; da una parte si fondavano sul
fatto che quei territori, senza rivendicazione di proprietà, erano res nullius legittimamente
acquisite al potere del re di Spagna dai conquistadores che ve le avevano sottomesse e,
dall’altra, rimandavano al primato del fine soprannaturale su ogni altro fine. Il primato del
giogo di Cristo – argomentava Sepulveda – comprende un potere temporale universale così
che con pieno diritto il papa, che ne è il vicario, le ha attribuite al re di Spagna in vista
della evangelizzazione. A Las Casas questi argomenti non bastano. Ai suoi occhi, il diritto
divino non abolisce il diritto umano; questo insegnamento di Tommaso,16 confermato dal
Caietano,17 era ripreso dalla scuola domenicana di Salamanca18 che cominciava ad
13
Tra i suoi lavori De convenientia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus, qui inscribitur
Democrates (1535); Democrates alter, seu de justis belli causis apud Indios (1545).
14
Per questo autore, la condizione umana naturale non è l’uguaglianza ma la gerarchia, cioè il dominio della
perfezione sulla imperfezione e della virtù sul vizio; da qui ricava la sottomissione del corpo all’anima, dei
figli ai genitori, della donna all’uomo, degli schiavi ai padroni. Di conseguenza vi sono uomini la cui
condizione naturale è di obbedire ad altri. Per motivare la sottomissione degli “indios” agli spagnoli, si
appoggia alle tesi aristoteliche, espresse in Politica (1254b), che pone una netta distinzione tra chi è nato
padrone e chi è nato schiavo. Una posizione simile si ritrova nel De regimine di Tolomeo da Lucca che, in
quel tempo, era attribuito a Tommaso d’Aquino.
15
Di Las Casas mi limito a ricordare, oltre la Historia de las Indias (1527-1552), il De unico vocationis
modo (1537), la Apologia (1550) ed il De imperatoria vel regia potestatis (pubblicato per la prima volta in
Germania nel 1571, dopo la morte di Las Casas).
16
Tommaso, Summa Theologica IIa IIae, q. 10, a. 10.
17
Per il Caietano (1468-1534) si veda Secunda secundae partis Summae Theologiae S. Thomae de Aquino ...
cum commentariis R.D.D. Thomae de Vio Caietani, Iuntas, Venetiis 1588; in particolare si veda la q. 10 De
infidelitate, la 40 De bello e l’articolo 8 della q. 46 De peccatis iustitiae oppositis.
5
elaborare uno ius gentium, un primo abbozzo di diritto internazionale che – per il suo
fondamento naturale – non poteva essere stravolto da un semplice atto giuridico. Il
dibattito durerà alcune settimane.19 Se le conclusioni saranno favorevoli a Las Casas,
questo sarà dovuto – oltre che ai suoi argomenti – anche al timore del re che il parere
opposto finisse per potenziare ulteriormente il ruolo degli encomenderos che già godevano
di ampi benefici.
Quel dibattito fissa, comunque, i problemi che investivano allora il mondo della
missione; essi riguardavano il tipo di umanità incarnata da quei popoli e, di conseguenza, il
tipo di evangelizzazione – evangelice o appoggiata alla forza – che doveva venir loro
riservata. Nonostante il ricorso allo ius gentium, entrambe le soluzioni sottintendevano il
primato culturale e civile dell’Occidente; al missionario spettava comunque un ruolo di
educazione e di insegnamento che rifletteva la superiorità del suo sapere su quello
indigeno. Nessuno dei due contendenti si spingerà a formulare ipotesi sul valore di questo
incontro tra identità europea e alterità indigena e sul suo significato per l’umanità futura;
manca la consapevolezza di una qualsiasi interculturalità. Saranno i gesuiti a valorizzare
questa prospettiva ed a farne, anzi, il fondamento e lo specifico del loro impegno
missionario.
2. Il missionario gesuita
I gesuiti giungono relativamente tardi sulla scena della missione; portano però con sé
una loro originale visione che non si accorda con la sensibilità missionaria di coloro che li
hanno preceduti.20 In effetti, introducono nuovi criteri di comportamento che implicavano
un cambiamento complessivo della persona e della vita sociale, un cambiamento che – più
tardi – sarà precisato nelle due sfere della natura e della grazia. É questa nuova sensibilità
che vorrei provare al illustrare.
Le scoperte dei nuovi mondi, per molte persone dell’epoca, erano un fatto ricco di
profondi significati. Nel Libro de las Profeçias, Cristoforo Colombo annota che, quando
vide le nuove terre, gli tornò prepotente alla memoria il testo di Ap 21,1 su «un nuovo
cielo e una nuova terra» e che provò forte la sensazione di essere lui quell’inviato di cui
18
Tra i principali autori di questa scuola vanno annoverati F. de Vitoria (1492-1546), del quale ricordiamo
Relectio de Indis (1539 ca) e Relectio de iure belli (1539), e D. Soto (1494-1560) con il suo Relectio de
dominio (1535).
19
La controversia di Valladolid si svolse in due fasi: mentre la prima ebbe luogo nell’agosto e nel settembre
1550, la seconda si svolse nell’aprile e nel maggio 1551. La sede fu la cappella del convento di San Gregorio.
Nella prima sessione Sepulveda presentò una sintesi del suo Democrates alter che durò tre ore; Las Casas
lesse le prime 156 pagine della sua Apologia in cinque sedute. Tra i teologi presenti vanno ricordati M. Cano,
D. Soto, B. Carranza de Miranda e alcuni giuristi.
20
Sulla missione dei gesuiti si veda G. Imbruglia, «Il missionario gesuita nel Cinquecento e i “selvaggi”
americani», in F. Cuturi (ed.), In nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all’alterità, Meltemi, Roma
2004, 61-73; Id., «Ideali di civilizzazione. La Compagnia di Gesù e le missioni (1550-1560)», in A. Prosperi
– W. Reinhard (edd.), Il nuovo mondo nella coscienza italiana e tedesca del Cinquecento, Il Mulino, Bologna
1993, 287-308; G. Di Fiore, «Strategie di evangelizzazione nell’Oriente asiatico tra cinquecento e
settecento», in G. Martina – U. Dovere (edd.), Il cammino della evangelizzazione. Problemi storiografici, Il
Mulino, Bologna 2001, 97-162.
6
parla il profeta Isaia.21 L’idea di essere stato scelto dalla Provvidenza divina per compiere
le antiche profezie è alla base delle riflessioni che lo accompagnano negli ultimi anni della
sua vita; nutrito dai testi di Gioacchino da Fiore, di cui è assiduo lettore, Colombo legge la
storia come storia sacra, cioè come opera di Dio e dei suoi inviati e, di conseguenza,
enfatizza la novità insita nella scoperta di nuove terre come una novità da leggere in
termini messianici. Ormai si stanno avvicinando «los tardos años del mundo».
A. L’interpretazione millenarista del «nuovo mondo»
Questa convinzione non era del solo Cristoforo Colombo. Come osserva G.
Imbruglia, «se l’idea di aver raggiunto l’Asia per via d’occidente fu subito smentita, la
credenza millenarista, invece, attraversò e infiammò tutto il secolo XVI».22 Quella storia
che Agostino aveva indirizzato lungo il paradigma rassicurante della attesa, si percepiva
come percorsa di nuovo da una forza in grado di sovvertire ogni schema e di riproporre,
come ai tempi di Cristo, uno stretto legame tra il destino individuale e la salvezza
dell’umanità, la proclamazione del vangelo e la rigenerazione sociale ed ecclesiale. Per
questo, al fianco di avventurieri di ogni genere, troviamo persone dominate da una
concezione religiosa e apocalittica che sognano un mondo nuovo e si adoperano per farlo
nascere.
Vi è qui una situazione nuova che impone di ripensare a fondo l’originalità cristiana
ed il suo rapporto con il mondo;23 la nascita del termine «missione»,24 espressiva di questo
contesto, non è solo un problema terminologico ma indica nel senso più forte l’invio del
predicatore destinato a portare il messaggio della speranza evangelica. In pratica, le
scoperte geografiche danno vita ad un impulso evangelizzatore che rende attuali modelli
antichi: 1’«omnes gentes» ritrova una singolare attualità, dimenticata in quel Medioevo che
aveva visto la cristianità assediata dal mondo islamico.
Questo rende più pesante il silenzio del papato; nel complesso rapporto tra il papato e
i sovrani iberici, sono le autorità politiche a occuparsi della evangelizzazione, dato che
questa costituisce la giustificazione ideologica e la garanzia giuridica della stessa
conquista.25 Riconducendo questo nodo giuridico ad un confronto di poteri, alcuni
21
C. Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie. a cura di G. Ferro,
Mursia, Milano 1985; insieme a questo testo, si veda pure Lettere e scritti (1495-1506). Libro de las
profeçias. a cura di R. Rusconi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato – Ministero per i beni culturali,
Roma 1993. Quest’ultimo testo, scritto dopo il terzo viaggio e quando già era in disgrazia, mette a fuoco i
presupposti culturali di C. Colombo, come ben spiega R. Rusconi, Il "Libro de las profecías" di Cristoforo
Colombo: retroterra culturale e consapevolezza di uno scopritore, «Rivista di Storia e Letteratura
Religiosa» 29 (1993) 269-303.
22
G. Imbruglia, «Il missionario gesuita nel Cinquecento e i “selvaggi”», in F. Cuturi (ed.), In nome di Dio.
L’impresa missionaria di fronte all’alterità, Meltemi, Roma 2004, 63.
23
Si veda in particolare G. Baudot, Utopia e storia in Messico. I primi cronisti della civiltà messicana
(1520.1569), Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1991 (in specie 221-343).
24
Si vedano, al riguardo, A. Santos Hernández, El termine “misión”, in Id., Misionología. Problemas
introductorios y ciencias auxiliares, Sal Terrae, Santander 1961, 9-67; Th. Ohm, Faites de disciples de toutes
les nations. I, Éd. Saint-Paul, Paris 1964, 33-55.
25
Non tutti accetteranno una simile situazione. Basti ricordare la lettera che due patrizi veneziani indirizzano
a papa Leone X per spiegare che questo ampliamento del mondo è una chance per la fede: P. Giustiniani – P.
7
lamenteranno la mancanza di un quadro di evangelizzazione mondiale e di una «missio»
pontificia; questo finirà per lasciare la missione alla discrezione dei sovrani ed ai privilegi
degli ordini religiosi.26 Di fatto le testimonianze più significative di disponibilità e di zelo
verranno dall’ordine francescano e domenicano; la lettera con la quale fra Francisco de los
Angeles de Quifones, nel 1523, ordinava a dodici frati di andare nel continente americano
per portare il Vangelo ai sudditi dell'impero azteco, conquistato da Cortés, ebbe fin da
allora notevole risonanza.
Caratterizzato da influssi gioachimiti,27 questo testo è destinato a dei frati che sono
visti come operai dell'undicesima ora: si tratta di chiamare gli ultimi invitati al regno dei
cieli e di completare così l’opera apostolica. Per questo sono dodici come i dodici apostoli.
La loro opera è quella di strumenti della Provvidenza chiamati ad annunziare e realizzare il
pieno compimento della storia sotto la sovranità di Cristo. Ne viene una interpretazione ed
una pratica della missione che, considerando i missionari come “tipo” degli apostoli,
insiste sull’intenderla in base ad un disegno provvidenziale nel quale l’unificazione del
mondo e l’inizio del millennio felice trovano il loro senso più vero. La missione era,
insomma, lo specchio di una esigenza di cambiamento e di rinnovamento che vedeva nella
unificazione religiosa del mondo l’inizio dei tempi ultimi.
B: La concezione missionaria dei gesuiti
La concezione dei gesuiti è diversa; non si limitano ad unire alla predicazione la
testimonianza di una vita evangelica ma si propongono la trasformazione di intere società;
questo progetto comporta da una parte l’abbandono di una concezione millenaristica con la
sua imminenza di un futuro di pace e di unità e l’accettazione di tempi storici non sempre
ben definibili. Distinguendo tra infidelitas e barbarie, avviano uno ricerca sulle diverse
condizioni culturali dei popoli ed iniziano un adattamento della strategia missionaria a
queste situazioni. La missione passa così da una proclamazione del vangelo e da una lotta
contro il maligno, in un certo senso astratta, ad una strategia volta a fare della fede il
criterio di una riorganizzazione complessiva delle relazioni sociali.
Si profila così uno scambio culturale con quei popoli che per storia e profondità di
pensiero ne sono all’altezza; per quanto mantenuto nel contesto di una superiorità della
cultura occidentale, la missione è qui collegata al cammino globale di un popolo. Sarà
questa la missione moderna. Vi è qui una evidente diversità dalle concezioni precedenti; la
Compagnia di Gesù non sceglie la strada della separazione dalla storia per attenderne la
fine o per prepararsi ad accogliere una nuova età spirituale ma intende assumere una
responsabilità storica, rendendo i suoi membri disponibili a qualsiasi destinazione o
compito stabilito dalla autorità. Lontani da ogni forma di spiritualismo e attenti alle
Quirini, «Lettera al Papa». Libellus ad Leonem X [1513]. Notizie introduttive e versione italiana di G.
Bianchini, Artioli, Modena 1995.
26
Sono gli stessi due camaldolesi a notarlo richiamando le incalzanti domande di Rm 10,14-15.
27
Fra Francisco de los Angeles apparteneva alla corrente spirituale e si muove nel quadro di una prossima
unificazione del mondo e nell’attesa di un rinnovamento ecclesiale che sarà frutto del governo di un papa
angelico.
8
persone ed alla loro storia;28 i gesuiti mirano ad educare e favorire la maturazione di un
cammino personale di ricerca della volontà di Dio e di impegno in vista di essa. Si tratta di
vivere storicamente ed impegnativamente scegliendo Dio in modo incondizionato.
La radice spirituale di questa prospettiva si trova, probabilmente, nella meditazione
che la seconda settimana degli “Esercizi spirituali” sviluppa a proposito dei due capitani e
delle due bandiere; mentre valorizza le istanze della soggettività moderna, sollecitando la
decisione personale, la riporta però all’interno di un agire determinato dalla fede.29 La base
concreta per una sua traduzione missionaria sarà fornita da J. De Acosta (1539/40-1600).
Autore del De promulgando Evangelio apud Barbaros sive de procuranda Indorum salute
(1588), questi offre uno schema di comprensione differenziata dei popoli30 che permette
una predicazione adatta alle situazioni e volta ad educare le persone in modo che queste
possano risalire verso forme più alte di civiltà e di umanità.
Per De Acosta si poteva usare sia la metodologia della dolcezza, se queste
popolazioni erano ben disposte verso il vangelo, sia – di fronte alla opposizione – un certo
grado di forza. L’una e l’altra miravano alla salvezza ed il loro utilizzo dipendeva da criteri
il più possibile oggettivi; «poiché non si potranno insegnare le cose divine a chi non
intende le umane», De Acosta scriverà che è fondamentale che queste popolazioni
imparino «a ser hombres y despuès a ser cristianos, principio que es tan capital que de el
depende todo el negocio de la salvación o de la ruina cierta de las almas».31
Il risultato é una nuova visione del missionario che deve tenere insieme una scelta
personale di servizio a Dio, una concezione ecclesiale della predicazione che vede il
vangelo come “fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplina” ed una antropologia
del credente come responsabile della sua vita e del suo contesto sociale. Questo sforzo di
sintesi e di misura spiega la fortuna del modello missionario pensato da J. De Acosta; altri
ne ricaveranno importanti conseguenze come la conoscenza delle popolazioni indigene,
delle loro lingue e dei loro caratteri, o come la consapevolezza di una precisa metodologia.
28
Su questa dimensione antimonastica si veda J.W. O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero, Milano 1999.
Si vedano i nn. 136-155 degli «Esercizi Spirituali» colti come storicamente applicativi di quella conquista
universale tracciata al n. 93 a cui corrisponde la forma radicale di impegno dei nn. 97-98. Questa lettura
storica porterà, a poco a poco, a diffidare della sete di martirio; bisogna servire il Signore ma non affrettare la
propria fine.
30
Secondo De Acosta, si potevano indicare tre gruppi di popolazioni o tre modi diversi di vivere la scala
dell’umanità. Il primo era rappresentato dai popoli caraibici e africani, privi di organizzazione giuridicopolitica e perciò senza un corpo di leggi ed una chiara struttura di autorità; questi venivano collocati in fondo
ad una virtuale scala di umanità. Il secondo gruppo era quello rappresentato dai popoli mesoamericani come
gli aztechi, gli inca od i maya; erano popoli che, pur possedendo notevoli conoscenze giuridiche e
scientifiche e pur avendo istituzioni stimabili, non possedevano però una filosofia ed una scrittura altrettanto
sviluppata. Infine il terzo gruppo era quello rappresentato dalle grandi civiltà asiatiche, come la civiltà cinese
e indiana, giapponese e vietnamita; queste avevano una ampia conoscenza di problematiche filosofiche,
etiche e religiose.
31
J. De Acosta, Obras. De procuranda Indorum salute, Atlas, Madrid 1954, 491.
29
9
Questa metodologia verrà normalmente indicata come «adattamento»;32 prendendo lo
spunto da 1Cor 9,19-23, come Paolo anche i gesuiti accettavano di «farsi tutto a tutti per
salvare ad ogni costo qualcuno». A questo punto, però, le domande si moltiplicavano
facilmente; era necessario “adattarsi” a chi aveva idee religiose diverse da quelle cristiane?
dove finiva il rispetto delle forme e delle regole, il “cerimoniale”, e dove cominciava un
cedimento sui contenuti? La soluzione fu cercata anche in base al testo di Gal 2,11-13, un
testo che parla del cambio di comportamento di Pietro ad Antiochia dopo l’arrivo di alcuni
fratelli dalla Giudea; se ne concluse che lo «adattamento» poteva contenere una misura
elementare e accettabile di «simulazione».33 Per questo Claudio Acquaviva, il generale dei
gesuiti, pur dando al Valignano la sua approvazione invitava a prudenza: «temperi dunque
la cosa in modo che si condescenda sì, ma senza nostro pregiuditio e senza trasformarsi in
altra forma».34
Ovviamente all’epoca del Saverio (1506-1552), questi aspetti sono solo iniziali; sarà
con il suo successore, con il Valignano (1539-1606), che si imporranno nettamente. La loro
piena giustificazione si avrà con gli studi di Tommaso de Vio, detto Caietano (1469-1534),
e con F. Suarez (1548-1617). Il suarezianesimo35 interpreterà Tommaso in modo da
ricavarne la nozione di “natura pura” ed imporrà l’effato scolastico gratia supponit et
perficit naturam, visto come base dell’impegno cristiano e apostolico. Dato che non vi é
opposizione tra natura e gratia, il credente può servirsi di tutte le realtà naturali, e quindi
anche della cultura, per il suo impegno apostolico. A queste prospettive si ispirerà la ben
nota Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, edita a
Roma dalla Congregazione di Propaganda Fide nel 1659.36
3. Il “mahatma” Francesco Saverio (1506-1552)
Anche se Latourette presenta il Saverio come «uno dei più famosi missionari nella
intera storia della Chiesa»,37 con ragione altri invitano a maggiore moderazione;
«l’immagine che la posterità e gli stessi contemporanei si sono fatta di san Francesco
Saverio è il risultato di enormi esagerazioni, scusabili soltanto con l’ignoranza che, per
32
Il testo che lo propugna con più forza é certamente il lavoro del Valignano, scritto nel 1581 e pubblicato
nel 1946; si veda A. Valignano, Il cerimoniale per i Missionari del Giappone. Edizione critica, introduzione
enote di Giuseppe Fr. Schütte, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1946.
33
Si veda A. Biondi, «La giustificazione della simulazione nel Cinquecento», in A. Biondi – L. Firpo, Eresia
e Riforma nell’Italia del Cinquecento. Miscellanea. I, Sansoni – The Newberry Library, Firenze – Chicago
1974, 8-68.
34
La lettera dell’Acquaviva, del 24 dicembre 1585, è riportata in A. Valignano, Il cerimoniale per i
Missionari del Giappone, cit., 315-324 (citazione, 322-323).
35
P. Fransen, «Presentazione storico-dogmatica della dottrina della grazia. II: L’Occidente cristiano. 5.b: Il
suareziamesimo o molinismo», in Mysterium salutis. IX, Queriniana, Brescia 1973, 183-191.
36
Testo italiano in M. Marcocchi, Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. L’Istruzione di
Propaganda Fide ai Vicari apostolici dell'Asia Orientale (1659), Jaca Book, Milano 1981, 61-88; edizione
latina a cura di J. Guennou in Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum. 350 anni a
servizio delle missioni: 1622-1972. cura et studio J. Metzler edita, III/2, Herder, Rom -Freiburg i.Br.-Wien
1976, 696-704.
37
K. Scott Latourette, A History of Expansion of Christianity. III: Three centuries of Advance A.D. 1500 –
A.D. 1800, Harper & Brothers Publishers, New York – London 1939, 251.
10
lungo tempo, ha dominato nei paesi occidentali» sulle cose dell’Oriente.38 A titolo di
esempio, H. Bernard-Maitre fissa a circa 30.000 i battesimi del Saverio39 e rimanda al
lavoro quarantennale dello Schurhammer40 come esempio di demitizzazione. Questo sforzo
di realismo critico non comporta affatto un drastico ridimensionamento della personalità
del Saverio; basta ciò che è stato ed ha fatto ad illuminarne la grandezza.41
Precisandone la figura, lo stesso autore utilizza una citazione di K.M. Panikkar che
vede in lui «la personificazione della grande rinascita religiosa che animava allora i paesi
cattolici».42 Per quanto questo sia indubbiamente vero, non mi pare sufficiente; il Saverio
va messo in rapporto non solo con il mondo da cui viene ma anche con quello a cui è
mandato. Sarebbe sicuramente troppo vedere in lui l’antesignano di quel missionario
gesuita che ritroveremo con Valignano ma, ugualmente, sarebbe troppo poco non vedervi
nemmeno una prima traccia.
Possiamo cominciare dal fatto che, quando parte per le Indie, nulla e nessuno l’aveva
preparato a comprendere la cultura e la civiltà indiana;43 inoltre si può dire che il Saverio
non entra quasi mai a contatto con l’induismo colto e raffinato ma piuttosto con il mondo
povero e spesso sfruttato che girava attorno ai portoghesi. Di fatto, quando giunge in India,
non si preoccupa di strategia missionaria ma cerca ogni occasione ed ogni mezzo per
diffondere il cristianesimo. Con tutto questo, il Saverio appare una persona piena di amor
di Dio e dei poveri; in termini indiani, si potrebbe descrivere questa passione per gli altri
che lo assorbe totalmente come l’atteggiamento di un «mahatma», di «una grande
anima».44 Forse, é proprio dell’India sviluppare a fondo la grandezza interiore dei suoi figli
migliori e, con essi, di quegli stranieri che stabiliscono con le sue caratteristiche una
profonda e viva sintonia.45
La storia del Saverio è nota. È l’incontro parigino con Ignazio prima46 e poi quello
con la missione a decidere della sua vita. Nel marzo 1540 il Saverio lascia Roma per
38
H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier et la Mission japonaise», in S. Delacroix (ed.), Histoire
universelle des Missions catholiques. I: Les Missions des origines au XVIe siècle, Librairie Grund – Ed. de
l’Acanthe, Paris – Monaco 1956, 269.
39
H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 270.
40
G. Schurhammer, Franz Xavier, his life his times. 4 voll., The Jesuit historical Institute, Rome 1973-1982.
41
Per una prima, chiara ma precisa inquadratura della sua persona e del suo lavoro si veda M. Sivernich,
«Xavier, Franz», in Theologische RealEnzyklopädie. XXXVI, De Gruyter, Berlin-New York 2004, 425-430.
42
H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 271.
43
Di fatto il Saverio parte per le Indie perché Ignazio, che aveva promesso due missionari alll’ambasciatore
del Portogallo, di fronte alla malattia di questi religiosi, è costretto, all’ultimo momento, a ripiegare sul
Saverio; per altro, è ben nota la sua famosa frase di accettazione: «pues, sus, hème aqui», e cioé: «bene,
eccomi pronto».
44
Su questa figura mi limito a richiamare un solo autore: il padre gesuita Georg Schurhammer. Di lui ricordo
G. Schurhammer, Franz Xavier, his life his times. 4 voll., The Jesuit historical Institute, Rome 1973-1982;
Id., Der “Grosse Brief” des heiligen Franz Xaver, The Herald Press, Tokyo 1934; Id., San Francesco
Saverio: apostolo delle Indie (1506-1552), Apostolato della preghiera, Roma 2005. A questi testi rimando
per le citazioni di brani di lettere che si ritrovano in molti testi ed articoli.
45
Oltre che al Saverio, basta pensare a Roberto de Nobili ed a madre Teresa di Calcutta.
46
Nella camera che condivide con lui, Ignazio gli ripete continuamente: «che giova all’uomo guadagnare il
mondo intero se poi perde la propria anima?» (Mc 8,56); di fronte a questa provocazione, il Saverio
comincerà a vibrare ed, alla fine, si arrenderà. Sarà uno dei sette che, nel 1534 a Montmartre, daranno vita a
11
Lisbona, dove lo raggiunge il “breve” pontificio con cui Paolo III lo nomina «Nunzio
apostolico dell’Oriente». Il 7 aprile 1541, giorno in cui il Saverio compie 35 anni, la flotta
portoghese salpa per le Indie; sbarcherà a Goa il 6 maggio 1542. Nonostante il suo titolo di
Nunzio, il primo gesto che compie é quello di presentarsi al vescovo di Goa, il francescano
J. Albuquerque, per garantirgli obbedienza e chiedergli l’approvazione. Invece che
nell’episcopio, dove gli era stato preparato un alloggio, il Saverio sceglierà di vivere presso
l’ospedale per poter assistere meglio i malati. Di fatto la sua attività non comporta
cambiamenti di linea apostolica ma, piuttosto, una qualche radicalizzazione: gira per strade
e piazze con una campanella per radunare così i fedeli e condurli in chiesa dove predica e li
istruisce. Non particolarmente dotato per le lingue, é costretto a preparare le sue prediche o
a servirsi di «lenguas», cioè di interpreti che non di rado ne travisano il pensiero;
nonostante questo, si applica senza soste all’insegnamento dei primi rudimenti della fede.47
Al cuore della sua attività apostolica vi é però una costante preghiera, spesso
notturna, ed un radicale impegno di carità che lo spinge a trascorrere le domeniche con i
lebbrosi, a visitare i carcerati, a prodigarsi per l’erezione di collegi dove i giovani possano
essere educati e formati;48 la predicazione e la confessione, la formazione dei giovani e la
vicinanza ai poveri, unitamente alla lotta contro la corruzione e l’immoralità, sono i cardini
del suo lavoro di missionario. L’ideale del missionario, pieno di zelo per Dio per la chiesa
e per i poveri, trova una vivente realizzazione nella sua vita apostolica e virtuosa. Agli
occhi della gente comune, il Saverio si imporrà per la complessiva immagine di «uomo di
Dio» che le folle intuiscono in lui: distaccato dai beni terreni ed assorto nella preghiera,
egli riversa la comunione con Dio in un disinteressato impegno per gli altri, senza
risparmiarsi nessuna fatica. Troviamo così realizzato in lui l’ideale tridentino di una
rinascita religiosa capace di tenere insieme la predicazione del vangelo e la carità per i
poveri, la salvezza delle anime e l’attenzione alle persone e alle loro condizioni di vita.49
Le folle lo seguono e lo cercano almeno quanto lui cerca loro. In una lettera del 15
gennaio 1544 scrive: «folle intere di persone non possono convertirsi al cristianesimo per
mancanza di uomini che si consacrino al compito di istruirli. Spesso mi prende il desiderio
di recarmi nelle Università, specialmente a Parigi alla Sorbona, e gridare a squarciagola,
come un uomo che abbia perduto il senno, a quelli che hanno più scienza e che desiderino
usarne con profitto quante anime siano prive della gloria e cadano nell’inferno a causa
della loro negligenza». Le folle avvertono questo interesse per loro, per il loro bene e lo
ricambiano con lo stesso ardore. Questo singolare dialogo di amore, per il suo bisogno di
quel gruppetto che, fin dall’inizio, si proporrà quattro punti decisivi: la povertà e la castità, il pellegrinaggio
in Terra santa e il viaggio a Roma per mettersi totalmente a disposizione del papa. Il Saverio aveva vent’otto
anni ma, già a partire da questo tempo, è una persona totalmente volta alla maggior gloria di Dio ed al
servizio della chiesa
47
Per quanto dotato di una certa creatività come quando, a Ternate nelle Molucche, mette in forma di canto
le preghiere e il Credo, per lo più si affida alla memoria; insiste fino a che non hanno imparato a memoria le
preghiere, il Credo, i comandamenti ed i principali sacramenti.
48
Bisogna dire che anche questo dato, così caro alla educazione impartita dai gesuiti ai giovani, non è del
tutto nuovo. Se è vero che il Saverio apre a Goa il collegio di Santa Fé e ne edificherà altri a Cochin, a
Bassein, a Quilon..., è però vero che, già l’anno precedente il suo arrivo, era stato creato a Goa il collegio San
Paolo.
49
Lo stesso rapporto con l’amministrazione coloniale é, per lui, subordinato e funzionale alla missione.
12
raggiungere tutti, è all’origine di una itineranza per certi versi sconcertante.50 Sbarcato a
Goa il 6 maggio 1542, vi resta cinque mesi poi parte per Capo Comorin, la terra dei
pescatori di perle.51 Nel 1545 parte per la Malesia e poi s’imbarca per Amboina,
nell’arcipelago delle Molucche;52 lavora in quelle terre per due anni battezzando e
catechizzando ma, appena il cristianesimo può contare su un certo numero di missionari,53
le lascia per il Giappone. Il 15 agosto 1549, dopo un viaggio di quattro mesi, sbarca in
Giappone; anche se vi conoscerà un apostolato difficile,54 all’inizio del 1952 ritiene che
quella chiesa sia abbastanza fondata e ritorna prima in Malacca e poi a Goa. L’aveva
lasciata dieci anni prima. Dopo due mesi passati a scrivere, riordinare, visitare le case e
lasciare raccomandazioni, il giovedì santo dello stesso anno riparte per l’ultimo viaggio: la
meta é la Cina.
Il Saverio sa bene che la Cina è terra proibita agli stranieri; per questo si provvede di
credenziali che lo presentano come ambasciatore del vicerè dell’India ma soprattutto si
affida a Dio: «siamo decisi – scrive il Saverio – ad aprirci una via in Cina a tutti i costi.
Spero in Dio che il risultato del nostro viaggio sarà di aumentare la nostra fede, qualunque
sia la persecuzione del demonio e dei suoi ministri. Se Dio é con noi, chi può abbatterci?».
Una serie di contrattempi gli impediranno di realizzare il suo sogno; morirà sull’isoletta di
Sancian, all’età di 46 anni e 8 mesi: «col nome di Gesù sulle labbra – scrive Antonio, un
cinese che lo accompagna nel viaggio – egli rese l’anima al suo Creatore, con gran serenità
e pace».55
Una valutazione della sua persona e della sua opera, come abbiamo visto, non è
semplice. Contemplativus in actione, il Saverio lascia una traccia incredibile nella storia
della missione di cui, non a torto, sarà proclamato patrono: Patrono dell’Oriente cristiano
nel 1748, dell’Opera della Propagazione della Fede nel 1904 ed, infine, Patrono delle
50
Legando questo aspetto al suo incarico di “Nunzio apostolico”, C. Testore prova così – con una certa
ragione – a salvaguardare il Saverio dall’accusa di incostanza, impulsività e mobilità sfrenata del carattere:
sarebbe parte del suo compito di Nunzio vedere il posto, preparare, dare indicazioni precise ai missionari; cfr
C. Testore, «Francesco Saverio», in Enciclopedia Cattolica. V, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il
Libro Cattolico, Città del Vaticano 1950, 1616-1619.
51
Il linguaggio di Francesco vale più di molti discorsi: «quando sbarcai in questi luoghi, battezzai tutti i
fanciulli che ancora non erano stati battezzati, e quindi un gran numero di ragazzi, che non sapevano neppure
distinguere la destra dalla sinistra. [...] Mi assediava una folla di giovani, tanto che non riuscivo più a trovare
il tempo per dire l’Ufficio, né per mangiare, né per dormire; chiedevano insistentemente che insegnassi loro
nuove preghiere. Cominciai a capire che a loro appartiene il regno dei cieli».
52
Dopo aver descritto i pericoli di quel viaggio, il Saverio scrive: «Dio N.S. volle provarci con questi pericoli
e farci comprendere quel che valiamo se speriamo nelle nostre forze o confidiamo nelle creature, e quanto,
invece, se ci liberiamo da queste false speranze senza riporre in esse alcuna fiducia, ma sperando solo nel
Creatore di tutte le cose, la cui mano ha il potere di renderci forti quando i pericoli sono ricevuti per il Suo
amore. E coloro che trovandosi nei pericoli li ricevono solo per suo amore, sanno per certo che tutto
l’universo obbedisce al Creatore e comprendono chiaramente che nel momento in cui quest’uomo dovesse
terminare i suoi giorni, sono maggiori le consolazioni che non il timore della morte».
53
Quando lascia le Molucche vi lavorano ormai, oltre ai francescani ed ai domenicani, ben 32 gesuiti.
54
Basta ricordare quanto scrive D. Bartoli quando ricorda che, in Giappone, il Saverio «non pescò [...]con la
rete, conducendo al battesimo i Giapponesi a popoli interi, ma stentatamente con l’hamo, gittato assai delle
volte indarno e trahendo ad uno ad uno i presi...» (D. Bartoli, Dell’historia della Compagnia di Gesù. II: Il
Gioappone seconda parte dell’Asia, de’ Lazzeri, Roma 1660, 3).
55
Solo più tardi, nel 1554, il suo corpo sarà portato a Goa.
13
Missioni nel 1927. La sua formazione teologica é quella del tempo; di conseguenza, da una
parte vede le religioni non cristiane come vie di perdizione e dall’altra si muove nel quadro
di una chiesa universale che non fa particolare conto delle chiese locali. Non é qui, nella
teologia, che va cercata la sua grande anima; va piuttosto cercata nella testimonianza di
Dio che ha offerto e nell’amore misericordioso e generoso con cui ne ha servito la verità.
Le folle percepiscono questo offerta di Dio, nella forma di una vita umana che ne diventa
segno, e accolgono l’intreccio di verità e di amore che offre.
Il suo impegno missionario è, in larga misura, quello del pioniere che apre vie ed
inizia nuove fondazioni; è presumibile che la brevità della sua vita e l’ansia di spingere
sempre più avanti la frontiera missionaria gli impediscano di seguirne a fondo il cammino
spirituale e la maturazione delle persone che, pure, introduce alla fede. Il problema di una
evangelizzazione di massa e per motivi non sempre limpidi non è solo del Saverio ma di
tutta un’epoca; può essere di qualche interesse vedere che la posizione del Saverio, due
decenni dopo, era ancora sostanzialmente condivisa da quei confratelli che lavoravano nel
suo medesimo campo.56
Un punto significativo della sua personalità e della sua opera, in proiezione futura, mi
sembra significativamente illustrato nella seconda fase della sua missione giapponese.
Come il Bartoli aveva riconosciuto,57 l’apostolato giapponese era particolarmente difficile;
resta da aggiungere che se, in una prima fase, il Saverio si era presentato poveramente
affidandosi ad una predicazione che denunciava l’immoralità e minacciava l’inferno a chi
non si convertiva, la scarsità dei risultati lo porterà ad un cambio di atteggiamento. Avendo
colto che la povertà ritornava a discredito del vangelo invece che ad una sua conferma, il
Saverio si presenterà al daimyô di Yamaguchi, Ôuchi Yoshitaka, sontuosamente vestito e
con regali preziosi; inoltre, mutando profondamente il suo atteggiamento dai tempi
dell’India, l’incontro con una classe di bonzi colti e profondi nel ragionare porterà il
Saverio a chiedere l’invio di missionari virtuosi certo ma anche colti.58 Arriverà addirittura
56
Mi riferisco ad un episodio del 1579 quando il Valignano, venticinque anni dopo la morte del Saverio,
scrive dal Giappone al generale Everardo Mercuriano, terzo successore (1573-1580) di S. Ignazio, per sapere
come regolarsi di fronte a conversioni di massa avvenute per la spinta dei capi e per motivi economici più
che per intima convinzione. É giusto chiudere le porte a chi cerca Cristo? non si può ritenere che, col tempo,
potranno ugualmente diventare buoni cristiani? non può Dio servirsi di motivi meno nobili per attirarli a se?
Poiché la risposta, preparata da consultazioni e discussioni, non arriverà che quattro anni dopo, il Valignano
consulterà i padri per sapere come comportarsi e, lui stesso, riassumerà così il frutto della sua consultazione:
«non si deve perdere nessuna occasione di estendere la fede nei vari reami; anzi si dovrebbe fare ogni sforzo
per mettere in fiamme tutto il Giappone col fuoco del divino amore. Dobbiamo aver fiducia in Dio per la
perseveranza nella fede dei nostri cristiani. Così Dio ha fatto con gli Sciti e con altri popoli barbari convertiti
dagli Apostoli e dai discepoli: quanto più non dovremmo noi riporre le più vive speranze in un popolo così
dotato e così saggio come il giapponese, così desideroso di salvezza e così pronto a sottomettersi alla
ragione» («Consulta del Giappone. Questione 4», in J.F. Schütte, Valignanos Missionsgrundsätze für Japan.
I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1951, 224).
57
Vedi nota 45.
58
La preparazione intellettuale dei bonzi, ben diversi da quelli che M. Ricci troverà in Cina, lo spinge a
chiedere ad Ignazio (lettera da Goa del 9 aprile 1552) persone ben preparate: «è pure necessario che siano
letterati per rispondere alle molte domande che fanno i giapponesi. Sarebbe bene che fossero buoni artisti e
nulla perderebbero se fossero sperimentati nella sofistica per pigliare nelle dispute i Giapponesi in
contraddizione e che sapessero qualche cosa della sfera perché godono grandemente i Giapponesi di sapere i
14
a porre la questione dei termini con cui annunciare Dio,59 anche se la sua scarsa
preparazione lo porterà a scelte ben diverse da quelle di coloro che verranno dopo.
Il Saverio intuirà la necessità del rispetto e fin della umiltà che richiede
l’accostamento di culture ben elaborate ma profondamente diverse da quelle europee e, nel
suo linguaggio, chiede ai missionari di essere come fanciulli tracciando come un percorso
dalla passività delle statue alla presenza umile e rispettosa dei fanciulli. «Adesso siamo fra
loro come statue, perché parlano e praticano con noi di molte cose; et noi, per non
intendere la loro lingua, taciamo. Et adesso ci bisogna essere come fanciulli per imparar la
lingua e piaccia a nostro Signore che in vera purità e simplicità di cuore gli invitiamo. Noi
siamo sforzati in pigliar rimedi e disponerci a esser come fanciulli, così nel imparar la
lingua come in mostrar simplicità di fanciulli che non hanno malitia».60 Il Saverio,
insomma, si rende conto della curiosità intellettuale dei giapponesi, specie se colti, per quel
nuovo mondo che si affacciava alle loro porte; intuisce non solo l’importanza del rispetto
delle autorità ma anche il valore della condivisione di costumi e abitudini di vita come
condizione necessaria per la evangelizzazione.
In questo modo, nel suo aprire nuove vie, il Saverio si ferma sulle soglie di un nuovo
metodo; come osserva H. Bernard-Maitre, «per conquistare questo popolo fiero,
intelligente e razionale, […]occorrevano missionari scelti, tanto liberi da sapersi
conformare alle usanze del paese nella misura più larga che la loro fede poteva
permettere».61 Ma questa è la storia di coloro che, ricchi della sua passione e delle sue
intuizioni, verranno dopo di lui.
Conclusione
Figlio del suo tempo e missionario gesuita, il lavoro del Saverio appare una piccola
parte di un complesso e discusso intreccio tra storia coloniale, vita ecclesiale e impegno
missionario. Va inquadrato, innanzitutto, nel contesto della esperienza gesuita che, nel
linguaggio proprio del tempo e di quel medesimo mondo, era da intendersi come conquista
spirituale. Mi limito a ricordare che, nel 1639, Ruiz de Montoya pubblica la Conquista
espiritual hecha por los religiosos de la la Compania de Jèsus en la provincias de
Paraguay, Uruguay y Tapi e che, nel 1640, Bartoli pubblica la Imago primi saeculi
societatis Iesu nella quale paragonerà l’opera della Compagnia ad una conquista e ad un
mvimenti del cielo, l’eclissi di sole, lo scemare e crescere della luna…» (Traduzione italiana di J. Brodrick,
S. Francesco Saverio, apostolo delle Indie e del Giappone, I.S.M.E., Parma 1961, 416-417).
59
In un primo tempo Saverio utilizza il termine Dainichi – letteralmente «Grande Sole » - per parlare di Dio
ai giapponesi ma, quando si accorge che non evoca un Dio personale e creatore ma una potenzialità insita in
tutte le cose, abbandona questo linguaggio e si orienta verso una semplice traslitterazione giapponese del
termine latino. Parlerà così di Deusu. Su tutto questo problema, che ritornerà con M. Ricci e altri, si veda G.
Schurhammer, Das kirchliche Sprachproblem in der Japanischen Jesuitenmission des 16. und 17.
Jahrhunderts. Ein Stück Ritenfrage in Japan, Deutsche Gesellschaft für Natur- u. Völkerkunde Ostasiens,
Tokyo 1928.
60
Lettera al collegio di Coimbra del 5 ottobre 1549, tradotta in italiano da G.B. Ramusio, Navigazioni e
viaggi. a cura di M. Milanesi, Einaudi, Torino 1979, II. 1028-1029 (Epistolae S. Francisci Xaverii. II,
Mnumenta Historica Societatis Jesu, Romae 1945, 201).
61
H. Bernard-Maitre, «Saint François Xavier», cit., 285.
15
impero simile a quello romano. Se, all’interno del mondo missionario, la missione é vissuta
come servizio apostolico per la conversione degli indigeni e la salvezza delle loro anime,
all’esterno questo impegno é all’origine di una realtà che può essere assimilata ad un
impero.
Al di là di qualche analogia, questa «imperii propagatio» ha il carattere di un impero
ben diverso dagli altri, volto a diffondere la libertà cristiana con la benevolenza, la
mansuetudine e l’interiorità. I limiti di questa strategia saranno recepiti, verso la fine del
’600, dalle Lettres édifiantes et curieuses che saranno alla base di revisione della strategia
missionaria e gesuita. Il Saverio é a monte ed al principio di molte di queste scelte; in
qualche modo le precede e le anima ed in qualche modo, invece, le trascende. Con lui la
vita apostolica e l’impegno missionario appaiono non solo al centro della formazione e
dell’impegno personale del gesuita ma anche di quello della Compagnia e della stessa
Chiesa.
I gesuiti saranno tra i pochi, se non gli unici, ad intuire che la diffusione del vangelo
presso società colte come quella indiana e cinese doveva essere capace di comprenderle
dall’interno. Era questo il succo della lezione di J. de Acosta; ma questa lezione dovrà
essere completata con l’apporto di Francesco Saverio: il suo apporto mistico e spirituale,
caritativo e apostolico, non rappresenta soltanto una aggiunta di spiritualismo ma la base
stessa di quell’adattamento che sarà il cuore della seguente metodologia gesuita. Nel
Saverio questa metodologia é meno presente nelle sue conclusioni operative ma é ben
salda nelle sue radici; é perché, nella sua scelta di Cristo, ha imparato a rinunciare a se
stesso per darsi totalmente a Dio, che il Saverio mette al centro del suo mondo i popoli che
incontra: l’indiano, il giapponese e, nell’amore, ...il cinese. In questa rinuncia, il Saverio
non é spagnolo od europeo ma è pura disponibilità dell’amore cristiano al dono di sé per
l’altro così com’é: con la sua povertà, con il suo bisogno di Dio e con la sua cultura. É un
uomo nuovo, universale, disponibile ad ogni tempo, popolo e cultura quello esigito dalla
missione gesuita; di questa antropologia, universale per amore, il Saverio é il primo,
grande esempio. Abbracciando amorevolmente il mondo intero, la sua persona fa rifulgere
– anche in un’epoca coloniale – lo splendore del vangelo di Cristo.
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