La Cina tra confucianesimo e democrazia
Transcript
La Cina tra confucianesimo e democrazia
La Cina tra confucianesimo e democrazia (Si prega di non citare senza il permesso dell’autore) Anne CHENG Collège de France Cattedra di Storia intellettuale della Cina E’ necessario in primo luogo rendersi conto delle difficoltà di articolare insieme dei termini considerati tanto eterogenei quali «democrazia» e «tradizione confuciana», avremo allora da un lato il simbolo stesso della modernità e della dinamica occidentale, ereditate dall’Europa dei lumi; dall’altro, il peso di una tradizione plurimillenaria, spesso associata ad un ordine socio-politico fortemente gerarchizzato e storicamente immutabile. Sarebbe innanzitutto opportuno sottolineare il carattere problematico dei termini stessi: se lasciamo da parte per il momento il termine di «democrazia», che è lungi dal corrispondere ad una definizione univoca, non dimentichiamoci che le nozioni di «tradizione» e di «democrazia» sono costruzioni ideologiche che vanno ricollocate in un determinato contesto storico. Mentre la «tradizione cinese» si è costruita in reazione al modello proposto (se non addirittura imposto) dalle potenze occidentali dalla metà del XIX secolo, il «confucianesimo» è stato incaricato di ricoprire tutte le complessità della realtà non solo storica ed intellettuale, ma anche di quella sociale e istituzionale, per qualcosa come venticinque secoli. Ancora più problematica è l’articolazione fra questi due termini: quando è sollevata la questione della maturità o meno della Cina per l’instaurazione della democrazia, si nota una ricorrenza persistente di argomenti di tipo «culturalistico», cioè di una pretesa incompatibilità (o al contrario di una perfetta compatibilità) culturale tra la tradizione cinese e la democrazia. I sostenitori dell’incompatibilità sono pronti a denunciare la «mentalità da schiavi» dei cinesi, o ancora la permanenza del regime autocratico che caratterizzano la tradizione cinese. Dall’altra parte stanno i difensori della tesi positiva, che trova la sua espressione più articolata in coloro che sono stati definiti i «nuovi confuciani contemporanei» (dangdai xin rujia). Questi ultimi proclamano in particolar modo una perfetta compatibilità, persino una 1 convergenza, tra «valori confuciani» e «diritti umani» e si sforzano, in questa prospettiva, di riesumare dal terreno cinese dei «germi» (mengya, zhongzi) di democrazia. E’ questa forma particolare che ha preso il discorso culturalista in una certa élite cinese da circa un secolo che mi propongo di esaminare. Si tratta di studiare un fenomeno che rientra essenzialmente nel campo della rappresentazione, ma che non per questo non è stato oggetto di una costruzione storica. Una cosa é fare l’inventario degli argomenti formulati dagli intellettuali cinesi messi a confronto con la sfida occidentale, per mostrare l’esistenza di «germi di democrazia» nei valori culturali della tradizione cinese; un’altra è porsi la questione di sapere di quali risorse endogene disponga la Cina per andare nella direzione di un regime democratico all’occidentale 1 o in mancanza di questo, di una modalità di funzionamento politico partecipativo, controcorrente rispetto ad una circolazione unilaterale del potere dall’alto verso basso della gerarchia sociale. A mio avviso ci troviamo di fronte a due questioni ben distinte, ma per me che non sono affatto politologa, si tratterà di prendere in considerazione soprattutto la prima, da un punto di vista storico. Si constaterà che queste due questioni si sono succedute in quest’ordine anzitutto da un punto di vista prettamente cronologico: la forma che prese la prima ondata di reazione alla supremazia occidentale verso la fine del XIX secolo fu quella della rivendicazione dell’esistenza, nella tradizione autoctona, di «germi» di categorie percepite come costitutive delle conoscenze e della potenza occidentale. Solo in un secondo momento è rivendicata la fecondità della tradizione autoctona stessa in materia di umanesimo democratico, filosofico, ecc., specialmente dai «nuovi confuciani contemporanei» che si sono costituiti in corrente distinta in opposizione dapprima allo spirito del 4 maggio 1919, e in seguito al regime comunista. Ora, sono in parte le loro idee che sono state strumentalizzate e promosse come «valori confuciani» in seno al discorso «asiatistico» negli anni Ottanta e Novanta. Essendo scesa un po’ questa febbre improvvisa dopo la crisi asiatica del 1997, si tratta ora di chiedersi se il rinnovamento confuciano abbia ancora valore o un qualsivoglia interesse al di là del suo sfruttamento congiunturale ed ideologico. Si assiste attualmente all’emergenza di un consenso secondo il quale i «valori confuciani/asiatici» difesi dai governi autoritari, non sono altro che il prodotto di una mera manipolazione ideologica, ma possono e devono eventualmente essere 1 Definito come « il pluripartitismo, la separazione dei poteri e la garanzia delle libertà fondamentali » da Jean-Philippe Béja in À la recherche d’une ombre chinoise. Le mouvement pour la démocratie en Chine (19192004), Paris, Seuil, 2004, p. 15. 2 presi sul serio quando si tratta dell’adattamento al modello democratico di questi regimi autoritari. Partendo da questi presupposti, si pone la questione più generale di sapere se la democrazia rappresentativa di tipo liberale, come la vediamo praticata attualmente nei paesi occidentali, sia la sola forma che possa prendere la via democratica nel mondo di oggi. La «ricerca di antecedenti» alla fine del XIX secolo. Il primo impulso di «ricerca di antecedenti» mi sembra stimolato dalla presa di coscienza, in seguito alle guerre dell’Oppio degli anni 1840-1860, della supremazia occidentale non solo in ambito materiale e tecnologico, ma anche in ambito culturale. Dal che consegue la necessità per i cinesi di cercare nella propria tradizione degli antecedenti capaci di averla vinta sull’arsenale di valori che, ai loro occhi, hanno contribuito a costruire la superiorità occidentale: scienza, religione, filosofia, democrazia. Tutto questo ha inizio con quelli che chiamerei dei tentativi di «annegare il pesce» nel grande bagno dell’armonia e della civiltà universale, attraverso degli amalgami tendenti a stabilire delle gradazioni puramente quantitative, piuttosto che delle distinzioni qualitative, tra Cina e Occidente. E’in questo modo che Xunzi può essere presentato come preludio a Spencer, o Laozi a Darwin, o ancora che il solo pensiero di Mencio sarebbe atto a contenere i «germi» della democrazia, del cristianesimo e anche — perché no? — della scienza occidentale. Questo progetto culturalistico di riscrivere la storia o di fare della storia-finzione propende veramente per un’«invenzione della tradizione», ossia per una «rilettura della storia (se non addirittura dei testi sacri) destinata a fornire ciò che rafforzi uno stato di fatto 2 contemporaneo ». Questo processo d’invenzione della tradizione s’intensifica negli ultimi anni del XIX secolo. Il 1895 viene considerato come l’anno che marca il traumatismo maggiore che fu la disfatta della Cina contro il Giappone, il momento in cui «non è più stato possibile credere, come l’avevano fatto i primi modernizzatori dopo la guerra dell’Oppio, che si potessero imparare ed utilizzare a proprio profitto le tecniche dell’Occidente senza per 3 questo intaccare la sostanza della cultura cinese », vale a dire la fine della validità della formula Zhong ti xi yong «la Cina come sostanza, l’Occidente come strumento». Si impone allora l’idea che la Cina necessiti di una riforma in profondità delle sue istituzioni politiche, sul modello della riforma Meiji (1868) che mira all’ascesa del Giappone attraverso 2 Cf. David Camroux, « Des nations imaginées à la région rêvée », in David Camroux e Jean-Luc Domenach (a cura di), L'Asie retrouvée, Paris, Seuil, 1997, p. 55. 3 Pierre-Étienne Will, « La tradition chinoise et la démocratie », conferenza all’Università popolare di Le Havre (3 febbraio 2000). 3 l’occidentalizzazione. Nel 1898, durante uno degli ultimissimi regni della dinastia Manciù dei Qing, dei letterati riuniti attorno a Kang Youwei (1858-1927) e al suo discepolo Liang Qichao (1873-1929), cominciano, per la prima volta in tutta la storia imperiale, ad abbozzare una riforma politica gettando le basi di una monarchia costituzionale sul modello giapponese. L’ambizione di Kang è di fare del confucianesimo una religione di stato, ad imitazione dell’«essenza nazionale» giapponese, in un quadro costituzionale rinnovato all’occidentale; ma, da buon letterato tradizionale, egli crede poter mobilitare ancora una volta (ma sarà l’ultima) le fonti canoniche confuciane per compiere la riforma politica dalle mire utopistiche, caratteristiche dell’ideale della «Grande unità» (da tong) del ritualismo antico, di una «fusione delle civiltà in una religione confuciana sincretista che conduca alla scomparsa delle frontiere 4 nazionali, dei governi e della famiglia ». Pensando e conducendo la propria azione all’interno di pratiche confuciane di cui si limita a rinnovare il contenuto, Kang finisce di minare, paradossalmente e involontariamente, le ultime fondamenta della tradizione, e quest’ultimo tentativo culturalistico si rivela un fiasco totale. Cosi’, mentre il Giappone ha saputo, dal 1868, negoziare il viraggio di Meiji, la Cina ha perso l’occasione offerta nel 1898 continuando a riferirsi ad una tradizione canonica che non permetteva di creare un vero Stato-nazione. Questo fallimento del tradizionale lascia un vuoto nella costruzione del politico che le rivoluzioni successive del XX secolo cercheranno di colmare. Di fatto, il movimento politico si radicalizza in seguito al fiasco dei Cento giorni, senza dubbio una delle cause principali della rivoluzione anti-manciù del 1911. Di conseguenza, si passa dall’universalismo più globalizzante (tianxia: tutto ciò che sta sotto il Cielo) al nazionalismo più vendicativo (guojia: la patria): la volontà di «salvare la nazione» ha ucciso il culturalismo cinese che irradia dalla fonte centrale che è la Cina (zhong). Basti vedere il contrasto tra l’universalismo canonico di un Kang Youwei, per il quale la libertà individuale si raggiunge attraverso la dissoluzione di ogni forma di legame istituzionale nella «Grande Unità» di cui parla il Trattato dei riti e una generazione dopo, la fede nello Statonazione di un Chen Dexiu (1880-1942), futuro fondatore del Partito comunista cinese, che in un famoso testo del 1916, condanna l’etica confuciana in quanto ostacolo alle nozioni d’indipendenza e di autonomia individuali, indispensabili secondo lui all’edificazione di uno Stato costituzionale moderno. 4 Cf. Yves Chevrier, « Chine, “fin de règne” du lettré ? Politique et culture à l’époque de l’occidentalisation », Extrême-Orient, Extrême-Occident, 4 (1984), p. 87. Si veda anche Anne Cheng, « Tradition canonique et esprit réformiste à la fin du XIXe siècle en Chine », Études chinoises, 14, 2 (1995), p. 7-42. 4 Tra queste due generazioni che incarnano due posizioni estreme figurano quelli che, come Liang Qichao, non sono sostenitori dell’opzione rivoluzionaria e non vedono il confucianesimo necessariamente come un ostacolo all’adozione di valori moderni, vale a dire occidentali, quali la democrazia o i diritti umani. Alcune citazioni delle fonti classiche ricorrono spesso nel minben sixiang, il pensiero che concepisce il popolo come fondamento dell’ordine politico. Nel Libro dei Documenti (Shujing) appare come un leitmotiv l’idea che il popolo debba essere vezzeggiato e non oppresso, poiché è quest’ultimo che costituisce la base del potere. Sono di nuovo i Documenti ad essere citati nel Mengzi, fonte principale del minben 5 sixiang: «Il Cielo vede come il popolo vede; il Cielo sente come il popolo sente .» Nella celebre frase « E’il popolo ad avere il maggior valore; vengono in seguito gli altari degli dei 6 del Suolo; il principe è colui che ha la minor importanza », Mencio afferma il primato del benessere del popolo, la sovranità non dovendo essere altro che una manifestazione delle virtù necessarie ad assicurare la stabilità e la prosperità del corpo sociale. Principio corroborato dall’altrettanto celebre formula del Trattato dei riti « L’Impero è il bene comune di tutti» — in altre parole il sovrano non possiede l’impero in proprio e esercita la propria autorità solo per assicurare il bene comune — e spinto fino alle ultime conseguenze da Mencio che, interrogato sulla possibilità da parte di un suddito di uccidere il proprio principe risponde «Colui che viola la virtù di umanità è chiamato malfattore, colui che viola il principio del giusto è chiamato scellerato. Un malfattore o uno scellerato non sono altro che individui ordinari. Ho sentito dire che (il re Wu) ha punito colla morte l’individuo Zhou (ultimo sovrano degli Shang dalla reputazione sanguinaria), e non, che io sappia, che abbia ucciso il suo principe.» Benché questo passaggio spesso citato non costituisca in alcun modo una giustificazione del regicidio e ancor meno una teoria «del diritto del popolo alla rivoluzione», è il criterio del minben che ha prevalso in tutti critici del potere autocratico, da Mencio a Huang Zongxi (1610-1695) e Tang Zhen (1630-1704) nell’era premoderna. Una rinascita del culturalismo nel XX secolo : il « nuovo confucianesimo contemporaneo » Nel 1911 è tutto il regime imperiale a crollare, lasciando posto all’instaurazione di una repubblica. Con esso scompare il confucianesimo istituzionale che gli era servito da fondamento ideologico. Di fatto, dopo secoli di funzionamento, il sistema di reclutamento 5 Mengzi V A 5. La citazione proviene dalla «Grande dichiarazione» dello Shujing IV, 1 (trad. Couvreur, p. 179). 6 Mengzi VII B 14. 5 della burocrazia attraverso i famosi esami mandarinali, fondati essenzialmente sulla conoscenza dei classici canonici, è soppresso nel 1905, mettendo così fine al «confucianesimo 7 scritturale ». L’opzione culturalista tende a farsi da parte in favore di una radicalizzazione politica che passa attraverso il fallimento della prima esperienza repubblicana del 1912 e raggiunge il parossismo nel movimento del 4 maggio 1919, inizialmente scatenato dagli studenti di Pechino all’annuncio della concessione al Giappone degli antichi possedimenti tedeschi in Cina. Il movimento che segna l’inizio di un periodo di forte agitazione politica, si definisce nei termini risolutamente occidentali di Scienza (al singolare) e Democrazia le quali, incarnate da Sai xiansheng e De xiansheng (Signor Scienza e Signor Democrazia), sono oggetto di un’idolatria uguagliata soltanto dalla violenza diretta contro la tradizione identificata come confuciana. «Abbasso la bottega di Confucio!» è lo slogan preferito di coloro che, come il grande scrittore Lu Xun, considerano il confucianesimo come il responsabile di tutti i mali di cui soffre la Cina, della sua arretratezza materiale e morale. Raramente una cultura si sarà così radicalmente negata come negli anni successivi a questo movimento che riflette le frustrazioni degli intellettuali alle prese con una realtà cinese umiliante e che soffriva della mancanza di modernità, ciò che spiega il suo carattere apparentemente paradossale: in nome di un anti-tradizionalismo ad oltranza, esso preconizza l’avvento di una cultura radicalmente nuova in cui la modernità passi attraverso un’occidentalizzazione totale, sollevando al contempo un’ondata di proteste che hanno la pretesa di essere nazionali, se non addirittura nazionaliste, contro le grandi potenze occidentali. Mettendosi in cerca di un modernismo all’occidentale, gli iconoclasti del 4 maggio si spingono nella stessa direzione dell’analisi marxista, che riporta il confucianesimo in quanto ideologia ad un’infrastruttura sociale caratteristica di un periodo feudale (benché questo 8 durerà quasi tremila anni). Il confucianesimo può così essere relegato al «museo» della storia , conservato per la posterità senza pertanto interferire col processo di modernizzazione. Al volgere degli anni Venti, un’altra diagnosi, questa volta occidentale, condanna ancora più radicalmente il confucianesimo: quella di Max Weber, le cui preoccupazioni sono di mostrare i fattori ideologici (a suo parere, l’etica protestante) alle origini del capitalismo in Europa. Pensando di aver identificato le condizioni materiali dell’avvento del capitalismo in Cina, 7 Mark Elvin, « The Collapse of Scriptural Confucianism », Papers on Far Eastern History (Canberra), 41 (1990). 8 Cf. Joseph R. Levenson, Confucian China and its Modern Fate, vol. III, Berkeley, University of California Press, 1965, p. 76-82. 6 Weber ne conclude che se questo non si è prodotto, è in ragione dei fattori ideologici, confucianesimo al primo posto. Perciò, sbarazzarsi una volta per tutte di questo peso morto appare come la conditio sine qua non di qualsiasi velleità di accedere ad una modernità occidentale. A queste diagnosi negative si aggiunge lo choc della nuova razionalità scientifica, che distrugge la visione cosmologica ed olistica predominante nella tradizione cinese. Di fatto, gli intellettuali degli anni Venti che tentano di preservare il pensiero confuciano orientano la loro resistenza in primo luogo contro lo spirito «scientista» (da distinguersi da «scientifico»), contro la fede senza limiti che i modernisti hanno nella «Scienza». In questo modo, non mettono in discussione la capacità della scienza di spiegare l’universo, ma ne contestato l’applicazione al campo umano, per il quale rivendicano la superiorità della «filosofia di vita» confuciana, innalzata al rango di metafisica e di sistema di valori etico - spirituali. Questi nuovi confuciani, tra i quali alcuni hanno frequentato le università giapponesi, europee o americane, si sforzano di dare all’eredità culturale confuciana una dignità filosofica capace di renderla credibile agli occhi degli Occidentali e di preservarla dopo la sparizione del confucianesimo scritturale ed istituzionale: è in questa direzione che cercano una via alternativa verso una nuova modernità che tenga conto della tradizione intellettuale. Il manifesto del 1958 e la questione della democrazia Una generazione dopo il 1919, il 1949 segna, al termine del conflitto sino-giapponese e della guerra civile, la fondazione della Repubblica Popolare cinese da parte dei comunisti e la fuga del governo nazionalista a Taiwan, seguito da numerosi intellettuali ostili al regime marxista. Mentre la maggior parte delle figure di rilievo della prima generazione dei «nuovi confuciani» rimangono in Cina continentale, Taiwan si sforza di apparire come un conservatorio vivente della cultura cinese tradizionale. Alcuni «nuovi confuciani» della seconda generazione si raggruppano anche ad Hong Kong per fondare il New Asia College. Nel 1958 quattro di loro, che figurano tra gli intellettuali di maggior spicco al di fuori della Cina comunista (Mou Zongsan, Xu Fuguan, Tang Junyi e Zhang Junmai), firmano nella prima pagina del giornale di Hong Kong «La tribuna democratica», un «manifesto indirizzato al mondo per una rivalutazione della sinologia ed una ricostruzione della cultura cinese» nel 7 quale «supplicano» (questo il termine impiegato) i loro pari di voler ammettere che la cultura 9 cinese non è morta e che la filosofia confuciana è ancora fonte vivente di valori . I nostri nuovi confuciani cominciano col piazzare la « speculazione sul cuore-spirito e la natura» (xin xing zhi xue) e la «teoria della bontà della natura umana» (xing shan shuo) al centro del pensiero cinese e rivendicano per quest’ultimo lo statuto universale di fondamento dell’umanità. Ammettono tuttavia che questo non è riuscito, precisamente per aver messo l’accento sulla questione morale, a sviluppare democrazia e scienza. All’inizio della Sezione 9 del Manifesto, intitolata «Lo sviluppo della cultura cinese e la ricostruzione democratica», costatano che dalla più alta antichità fino al 1911 la Cina ha conosciuto soltanto il modello politico autocratico del sovrano unico. L’intero sistema riposando sulla sola persona del sovrano, che non era necessariamente competente o saggio (molto spesso né l’uno né l’altro), la storia dinastica cinese non è stata che un ciclo ininterrotto di periodi d’ordine e di disordine. La democrazia appare dunque come l’unico mezzo per far cessare questo ciclo. Sarebbe però falso affermare, continuano i nostri autori, che il confucianesimo «non contenga né i germi della, né la propensione alla, democrazia, e che sia ostile alla scienza e alla tecnica». Secondo loro i germi (zhongzi) della democrazia sono contenuti nella formula del Trattato dei riti « L’impero é il bene di tutti » (tianxia wei gong) e nell’idea menciana che il sovrano è secondo rispetto al popolo; ma questi germi, già menzionati prima, hanno visto la loro crescita intralciata, se non addirittura soffocata, dall’assolutismo imperiale. Si aggiungono alla rinfusa: il Mandato celeste che dovrebbe fondarsi sull’assenso del popolo, le pratiche di denominazione postuma dei sovrani (sorte di sanzioni per la posterità), il dovere di ammonizione e l’istituzione del censorato, ecc. Nella sezione seguente, intitolata «Le nostre concezioni della storia politica cinese contemporanea», gli autori si concentrano sulle ragioni dirette ed immediate della situazione catastrofica in cui si trova la Cina nel 1958 e in cui si trovano essi stessi: si tratta di spiegare i fallimenti successivi dei tentativi di costruzione democratica e, di conseguenza, l’avvento dei comunisti. È presa di mira in primo luogo la figura di Chen Dexiu, fondatore del partito comunista cinese e capofila del 4 maggio, accusato di aver sostenuto la scienza e la democrazia distruggendo nel contempo la cultura tradizionale fino alle fondamenta, mentre i 9 Esiste del Manifesto una versione inglese riprodotta dell’opera di Carsun Ghang (nome col quale Zhang Junmai è conosciuto negli ambienti anglofoni), The Development of Neo-Confucian Thought, vol. 2, New York, Bookman, 1957, ried. Westport (Conn.), Greenwood Press, 1977, p. 471-472. 8 nostri autori basano al contrario i loro argomenti sui «germi» di scienza e di «democrazia» che vedono presenti nella tradizione cinese. E’ a questo titolo che il comunismo, in particolar modo nella sua versione marxista-leninista, sarebbe destinato a sparire, poiché, contrariamente alla scienza e alla democrazia, non avrebbe «germi» nella cultura cinese. Conclusione: non solo la cultura cinese tradizionale non è morta, ma può ancora servire da fondamento ad un nuovo umanesimo di scala mondiale. Tutto ciò è diretto contro la tesi levensioniana di una tradizione confuciana da relegare al museo dal momento in cui la società che la faceva vivere non esiste più: si tratta al contrario di dissociare il confucianesimo dal proprio ancoraggio alla storia imperiale ed alla società cinese per farne emergere i valori universali ed eterni. Per i nuovi confuciani, la rivincita dell’universalità cinese dovrebbe essere presa sul terreno dei «valori confuciani» o dell’«umanesimo confuciano» poiché, come dice Tu Wei-ming, il loro portavoce più in vista attualmente, «la vera sfida per essi è la seguente: come può un umanesimo confuciano resuscitato rispondere alle questioni sollevate da scienza e democrazia? (…) Si rendono conto che le preoccupazioni per la sopravvivenza della tradizione confuciana e per la continuità della cultura cinese tradizionale debbano essere 10 sussunte in una più ampia preoccupazione per l’avvenire dell’umanità .» La febbre dei « valori confuciani » durate gli anni Ottanta Il tono patetico dell’appello del 1958 traduce bene lo spirito di questa generazione dell’esilio che ha tuttavia formato le future menti del revival confuciano degli ultimi vent’anni, a cominciare da Tu Wei-ming (nato nel 1940), il quale, prima di fare una brillante carriera universitaria negli Stati Uniti, a Berkeley e ad Harvard, fu in primo luogo discepolo di Mou Zongsan a Taiwan. Mentre la corsa alla modernizzazione (dapprima sul modello sovietico, poi su quello occidentale) nella quale era lanciata la Cina continentale relegava i nostri «nuovi confuciani» ad una posizione periferica e marginale, dagli anni Ottanta si opera un capovolgimento spettacolare, non nel contenuto dell’interpretazione stessa del confucianesimo, ma nella valutazione di questo contenuto riguardo alla questione della modernità. Dallo statuto di ostacolo insormontabile il confucianesimo passa, dall’oggi al domani, a quello di motore centrale della modernità. 10 Tu Wei-ming, « Towards a third epoch of Confucian humanism », in Way, Learning, and Politics. Essays on the Confucian Intellectual, Albany, State University of New York Press, 1993, p. 158. 9 Ciò che è all’origine di questo capovolgimento ha ben poco a che vedere col confucianesimo stesso: dopo gli anni detti di «delirio utopista» della Rivoluzione culturale e la morte di Mao nel 1976, il modello comunista rivoluzionario è abbandonato de facto nella Cina stessa, mentre in periferia si assiste ad uno sviluppo economico senza precedenti, sulla scia del Giappone, dei «quattro piccoli dragoni» (Taiwan, Hong Kong, Singapore e la Corea del Sud). Di conseguenza, questi «margini dell’impero», contemporaneamente ai «valori asiatici», in particolare confuciani, che rivendicano, si trovano proiettati in una centralità esemplare e diventano l’oggetto di tutte le attenzioni e di tutte le emulazioni, in particolare da parte degli Occidentali. In effetti, nel momento in cui il comunismo in Cina, ma anche in Europa dell’Est affronta una crisi maggiore, le società occidentali capitaliste pensano di avvertire dei segni di declino nel loro proprio sviluppo. In questo contesto, i «valori confuciani» che dovrebbero spiegare lo sviluppo di un capitalismo specificamente asiatico, arrivano al momento opportuno per preconizzare di rimediare all’incapacità del modello occidentale di modernità attraverso il suo superamento. Se il rinnovamento confuciano costituisce una preoccupazione maggior per alcuni intellettuali cinesi dagli anni 1920-1930, il fattore che scatena il ribaltamento degli anni Ottanta è da cercarsi nella situazione mondiale e il suo epicentro da individuare, non esattamente nelle società cinesi, ma negli ambienti dei cinesi occidentalizzati ed anglofoni, negli Stati Uniti e a Singapore. Dalla fine degli anni Settanta vediamo il governo di Singapore di Lee Kwan Yew prendere in considerazione «l’introduzione crescente di valori asiatici nel ciclo scolastico per contrastare l’influenza culturale dell’Occidente sui giovani». Il programma è in seguito realizzato su due piedi su consiglio di universitari sino-americani rinomati, Tu Wei-ming per primo. In soli cinque anni, l’enclave di Singapore si ritrova trasformata di sana pianta in un paradiso confuciano (e questo grazie alla mediazione dell’inglese!). Nella metà degli anni Ottanta il contagio, che non risparmia ovviamente neppure Taiwan, Hong Kong e la Corea del Sud (con la notevole eccezione in fin dei conti comprensibile del Giappone), raggiunge la Cina popolare che, dalla fine degli anni Settanta, è occupata a liquidare l’eredità maoista e vorrebbe riagganciarsi ai vagoni dell’asiatismo per, se possibile, diventarne la locomotiva. Il confucianesimo, vilipendiato da due generazioni e attaccato, se non addirittura fisicamente distrutto, con estrema violenza durante la Rivoluzione culturale che è appena finita, è oggetto nel 1978 di un primo convegno mirante alla sua 10 riabilitazione. Da questa data, non passerà un solo anno senza che si tengano diversi convegni internazionali sul confucianesimo. Nel 1984, una «fondazione Confucio» è creata a Pechino in occasione del 2535° anniversario di nascita del Saggio, sotto l’egida delle massime autorità del partito comunista. Dall’anno successivo, Tu Wei-ming è invitato all’Università di Pechino per dare una serie di conferenze che saranno tutte pubblicate. Nel 1992, Deng Xiaoping, durante la famosa tournée nelle province del sud, cita la Singapore di Lee Kwan Yew come modello per la Cina. Questa «febbre confuciana» ha tutto di un fenomeno globalizzato che trae origine da un «confucianesimo americano» o «Boston Confucianism». Questa si traduce in una proliferazione senza precedenti di convegni e pubblicazioni che vertono tutti sulla questione: qual è il rapporto tra confucianesimo e modernizzazione realizzata negli ultimi trent’anni dai paesi recentemente industrializzati dell’Asia orientale? E più precisamente: il confucianesimo ha un ruolo effettivo nello sviluppo del capitalismo ed è in grado di rimediare alle sue disfunzioni? Prendendo in contropiede le idee di Max Weber, alcuni pensatori anglosassoni in materia di sviluppo stabiliscono un legame causa-effetto tra il «modello di sviluppo estasiatico» e i «valori confuciani»: valorizzazione della famiglia, rispetto delle gerarchie, motivazione all’educazione, piacere nel lavoro assiduo e senso del risparmio. Ironicamente, sono precisamente questi fattori, che erano considerate come ostacoli allo sviluppo capitalista, a promettere ormai alle società est-asiatiche di evitare i problemi che colpiscono le società occidentali moderne … Se il confucianesimo non ha, in realtà, molto a che vedere con lo sviluppo economico, non per questo non serve i fini dei dirigenti autoritari di Singapore, di Pechino o di Seul i quali, alle prese con un’accelerazione improvvisa dello sviluppo economico che le strutture sociopolitiche non riescono a seguire, trovano comodo fare propri dei «valori confuciani» garanti di stabilità, disciplina e ordine sociale, in opposizione ad un Occidente-repoussoir il cui declino si spiegherebbe con le sue prese di posizione individualiste ed edoniste. Si noterà che in questo «neo-autoritarismo» s’identificano su di un punto cruciale sia gli ex-ideologi marxisti sia quelli anti-marxisti: alle rappresentazioni utopistiche di un socialismo senza l’Occidente, si sostituisce l’aspirazione ad una modernità economica anch’essa senza l’Occidente, che passa per una «post-modernità» o una «post-occidentalità», alibi comodo per eludere la costruzione democratica. 11 Possiamo quindi dire che in origine, il revival confuciano non è una forma qualsiasi di rinascita del confucianesimo in terreno cinese, ma un fenomeno ideologico che riguarda prima di tutto l’élite d’origine cinese al di fuori dello spazio cinese propriamente detto e che s’indirizza in realtà ai propri pari «occidentali» — ossia principalmente americani — ciò che spiega come tutto avvenga in inglese. Se il «nuovo confucianesimo contemporaneo» continua ad avere un certo pubblico (benché limitato ai circoli universitari), questo avviene — in modo per lo meno paradossale— da un lato grazie al sostegno autoritario dei dirigenti cinesi, dall’altro grazie all’appoggio logistico della potente macchina intellettuale americana. Certo, questi due tipi di sostegno non vanno confusi, l’uno appare come un discorso ideologico e l’altro come un movimento intellettuale, ma è giocoforza constatare l’andirivieni, gli scambi e i congressi tra la Cina e gli Stati Uniti, diventati molto frequenti da una decina d’anni per alcuni universitari in vista. Tradizione confuciana e pragmatismo americano. Di fatto, la sollecitudine di cui hanno sempre dato prova gli intellettuali cinesi nel ricercare i «germi» della modernità nella propria eredità, si trova in un certo senso sostenuta dalle preconizzazioni di alcuni teorici americani di tradizione pragmatista come John Dewey o, più di recente, Richard Rorty. Per Dewey, essendo la democrazia definita in termini di «communicating community», questa è meno una questione d’istituzioni che di educazione, idea che conferma al momento giusto la validità delle tesi confuciane, cosa che non hanno mancato di notare Roger Ames e David Hall nell’opera The Democracy of the Dead. Uno dei capitoli si intitola: «Confucian Democracy: a Contradiction in Terms ? » (Democrazia 11 confuciana: una contraddizione in termini?) . All’opposto della visione huntingtoniana dello «choc delle civiltà», Hall e Ames vedono delinearsi una possibile convergenza di preoccupazioni e d’interessi tra la tradizione pragmatica americana da un lato e la tradizione confuciana dall’altro, le quali — a loro dire — si sono entrambe ritrovate marginalizzate, ciascuna nel proprio contesto culturale nella corsa ad un certo tipo di modernità, ma stanno suscitando un nuovo interesse tra le élite attuali negli Stati Uniti e in Cina. 11 Come lo costatano ironicamente Hall e Ames, la domanda « La democrazia confuciana: una contraddizione in termini ? » potrebbe fare pendant a quest’altra, allo stesso modo riduttrice: «la cultura americana, un ossimoro?». 12 Hall e Ames si mostrano critici nei confronti di una democrazia di tipo liberale, fondata su una concezione individualista atomistica che fornisce di fatto semplicemente un quadro istituzionale e giuridico, e non un progetto etico, alla vita sociale. E’il legame che si spaccia per congenito tra democrazia e capitalismo ch’essi ricusano, proponendo il ritorno ad una filosofia autenticamente «americana», cioè pragmatica, ispirata da Emerson e Thoreau e costruita in opposizione alle fonti europee del pensiero liberale (John Locke, Adam Smith, ecc.). Perorano così la causa di una democrazia di tipo «comunitario», sostenuta da Dewey ma anche dalla tradizione confuciana. Parallelamente, preconizzano il ritorno ai valori autentici cinesi (si intenda confuciani) in vista di una nuova concezione della modernità in Cina, la quale — dal loro punto di vista — potrebbe ispirarsi alla concezione pragmatica di democrazia partecipativa. Così, i due grandi dimenticati — pragmatismo e confucianesimo, negli Stati Uniti e in Cina rispettivamente — potrebbero far causa comune per costruire una nuova modernità che non sia più sinonimo d’occidentalizzazione. Hall e Ales finiscono così per ricollegarsi alle tesi cinesi sui «germi» di democrazia proprie alla tradizione confuciana. Chiaramente Hall e Ames sono completamente rivolti verso l’orizzonte di un avvenire confucio-pragmatisma radioso; ma ciò che rimane irriducibilmente problematico è questo «confucianesimo» che invocano senza mai storicizzarlo, che ci dà una giustapposizione sommaria, totalmente sprovvista d’articolazioni storiche o dialettiche, di citazioni di Confucio e di Dewey. E’ opportuno innanzitutto ricordare che il termine stesso di «confucianesimo» è un neologismo occidentale, un’invenzione la cui origine risale ai missionari cristiani presenti in Cina durante il XVII e il XVIII secolo e di cui si sono impossessati i filosofi illuministi, seguiti da razionalisti e spiriti forti di ogni tipo, che hanno creduto scorgervi una religione senza Dio. E’ solo al momento in cui gli intellettuali cinesi si sono trovati confrontati ad una crisi di senso e d’identità alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, ch’essi si sono appropriati di questa denominazione per designare la cultura tradizionale nel suo insieme, presa come un tutto omogeneo. Tuttavia, hanno così occultato il fatto che il termine confucianesimo è tutt’altro che applicabile ad ogni campo di una cultura cinese nutrita da una molteplicità e da una diversità di fonti locali e che ha conosciuto delle evoluzioni e dei cambiamenti storici radicali. Per i nuovi confuciani era urgente rispondere alla domanda: l’umanesimo confuciano può sopravvivere quando la società che l’ha introdotto è sparita? Ma la vera domanda non sarebbe piuttosto: la società cinese è mai stata confuciana, o perfino confucianizzata? Il problema centrale del confucianesimo è precisamente stato la sua incapacità a trasformare un modello normativo e prescrittivo in una realtà sociale. A proposito 13 degli intellettuali cinesi moderni, Jean-Philippe Béja fa notare che «situandosi, spesso senza volerlo, nella tradizione dei letterati, hanno sempre avuto la tendenza a considerarsi i portavoce della società, stimando di avere il dovere morale di esprimerne le rivendicazione e 12 di farle valere presso il potere ». In questa prospettiva, il revival confuciano rappresenta senza dubbio in gran parte la rivincita (per quanto simbolica) di un’élite di letterati che per quasi due millenni ha garantito una funzione mediatrice indispensabile e che, nel corso di un XX secolo segnato dalla supremazia occidentale e da una rivoluzione comunista contadina, ha avuto l’impressione di perdere ogni controllo sul destino della Cina. Il problema con il Grande Studio Comunque sia, si deve decisamente prendere una posizione risolutamente astorica per far credere alla possibile restaurazione d’una società cinese unificata all’insegna di valori confuciani condivisi che farebbero primeggiare il comunitarismo, i comportamenti ritualizzati garanti della coesione e dell’ordine gerarchico e l’armonia che dovrebbe propagarsi nel corpo sociale dal nucleo centrale che è la famiglia. Ritroviamo qui il famoso schema del passaggio inaugurale del Grande Studio (Daxue), uno dei quattro libri canonizzati da Zhu Xi nel XII secolo e resi obbligatori dal secolo successivo nel programma degli esami ufficiali: Nell’antichità, per far risplendere la luce della virtù in tutto l’universo, si cominciava coll’ordinare il proprio paese. Per ordinare il proprio paese, si cominciava col regolare la propria casa. Per regolare la propria casa, si cominciava col perfezionare la propria persona. Per perfezionare la propria persona, si cominciava col rettificare il proprio cuore. Per rettificare il proprio cuore, si cominciava col rendere autentica la propria intenzione. Per rendere autentica la propria intenzione, si cominciava collo sviluppare la propria conoscenza, e si sviluppava la propria conoscenza esaminando le cose. E’ esaminando le cose che la conoscenza raggiunge la sua più grande estensione. Quando la conoscenza è estesa, l’intenzione diviene autentica. Quando l’intenzione è autentica, il cuore diventa retto. E’ rendendo retto il cuore che si perfeziona la propria persona. E’ perfezionandosi che si regola la propria casa; é regolando la propria casa 12 À la recherche d’une ombre chinoise (vedi sopra, nota 1), p. 17. 14 che si ordina il proprio paese; ed è quando i paesi sono ordinati che la Grande Pace si 13 realizza in tutto l’universo . Quest’immagine dell’influenza morale del sovrano che si sviluppa e si diffonde in cerchi o in onde concentriche sempre più larghe a mano a mano che il sovrano stesso cresce come essere morale e che mette in scena la finzione di una continuità tra la cultura morale dell’élite (xiushen, «cultura morale individuale» o neisheng, «saggezza interiore») ed il controllo politico del corpo sociale (zhiguo, «governo del paese» o waiwang, «sovranità esteriore»), è messa al centro degli argomenti di tutti i sostenitori della tesi dell’esistenza di «germi» di democrazia nella tradizione intellettuale cinese. Idealismo confuciano ispirato dal ritualismo antico e portato al parossismo dal suo profeta moderno Tu Wei-ming : Cosi’ come l’io deve sormontare l’egoismo per diventare autenticamente umano, allo stesso modo la famiglia deve sormontare il nepotismo per diventare autenticamente umana. Per analogia, la comunità deve sormontare il campanilismo, l’etnocentrismo e 14 l’antropocentrismo, per formare un solo corpo con il Cielo, la Terra e i diecimila esseri . Oltre a questo discorso ovviamente fantasmagorico si pongono diversi problemi per chiunque voglia prendere sul serio l’inizio del Grande studio. In primo luogo, vi vediamo la schematizzazione di un ordine politico che si elabora a partire da una dimensione individuale, ma in cui l’individuo non è considerato come un’entità a se stante (una persona valente un unità allo stesso titolo che tutte le altre unità costitutive del corpo socio-politico), ma è colto «in situazione» nelle sue molteplici relazioni sociali (come figlio rispetto al proprio padre o come padre rispetto al proprio figlio, come soggetto rispetto al sovrano, come maestro rispetto ai suoi discepoli, ecc.). Si tratta di partire, non da una concezione costruita delle unità di base, ma dalla natura stessa del tessuto umano percepito prima di tutto come relazionale; da cui consegue la centralità del modello familiare che obbliga a prendere in considerazione la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata diversamente da quanto avvenga in un modello di contratto sociale. Ciò che prevale in uno schema di questo genere é la preoccupazione, non di 13 73. Traduzione di Anne Cheng, Histoire de la pensée chinoise, ried. « Points-Essais », Paris, Seuil, 2002, p. 72- 14 Tu Wei-ming, Centrality and Commonality. An Essay on Confucian Religiousness, Albany, State University of New York Press, 1989, p. 115-116. 15 far valere a parità quelle entità a tutti gli effetti che sono le unità-individui, ma di rendere il più armonioso possibile il funzionamento di tutte le reti di relazioni contemporaneamente. Inoltre, la «cultura di sé» (xiu shen) di cui parla il Grande studio riguarda in modo particolare, se non esclusivo, la persona del jun/junzi (sovrano/gentiluomo), il quale non può essere chiunque. Si potrebbe spingersi fino a considerare che tutto il pensiero politico confuciano non aspiri a rispondere che a quest’unica domanda: «Chi è il più adatto a governare?». Non è preso in considerazione che colui che eccelle, gli altri non dovranno far altro che seguire. Questo è detto senza possibilità d’equivoci nel Libro dei Documenti e nei Dialoghi di Confucio: «La potenza morale del gentiluomo (junzi) è come il vento; sotto di essa, il popolo si piega e si inclina». «Al popolo non si può che mostrare la via da seguire, non 15 spiegargliene le ragioni .» In Mencio, la relazione tra sovrano e soggetto è presentata in modo ricorrente per analogia con la relazione genitori-figli. Eccone le ripercussioni nell’età moderna: «I ministri al governo e i funzionari di Stato hanno finito per essere considerati come le incarnazioni moderne del junzi. Il rispetto dei diritti individuali cede il passo all’accento messo su un’armoniosa partecipazione comunitaria nella ricerca dei beni 16 economici e sociali definiti a livello nazionale dai governi .» Possiamo vedervi l’ideale del buon padrone della cultura d’impresa giapponese (o allora — perché no? — quella del buon quadro del Partito comunista cinese), ciò che porta Daniel Bell a parlare di «managerial democracy» a proposito di paesi come il Giappone, Taiwan o la Corea del Sud, che hanno più o meno adottato il modello europeo di democrazia parlamentare. La rappresentazione del junzi come esempio e guida da seguire per le masse indifferenziate e poco illuminate (min, «il popolo») pone il problema della compatibilità di questo schema con quello della partecipazione decisionale del maggior numero di persone che è alla base della logica democratica (per lo meno nella sua definizione liberale) e che presuppone il concetto di uguaglianza, mentre Confucio afferma subito il ruolo fondatore della reciprocità, della deferenza mutuale che, lungi dal dirigersi verso un qualsiasi egualitarismo, fa radicare e appoggia al contrario l’idea che ogni relazione umana, ovvero sociale, sia gerarchica. 15 16 Shujing IV, 21 e Lunyu XII, 19 e VIII, 8 (trad. Anne Cheng, Entretiens de Confucius, Paris, Seuil, 1981). Shaun O'Dwyer, « Democracy and Confucian values », Philosophy East and West, 53, 1 (gennaio 2003), p. 45. 16 A coloro che vedono un’incompatibilità tra gerarchia e democrazia, e, pertanto, una contraddizione nella nozione stessa di democrazia confuciana, i nuovi confuciani rispondono senza problemi che l’egalitarismo allo stato grezzo delle società moderne ha un effetto perverso sulla qualità delle relazioni umane e del tessuto sociale. Hall e Ames sottolineano dal canto loro che questo tipo di « false idee (…) identificano in modo troppo netto la democrazia con delle concezioni fondate sull’affermazione di un individualismo discreto e sulla nozione 17 puramente matematica di uguaglianza che ne deriva ». Per essi si tratta di opporre ad una logica puramente quantitativa, matematica ed astratta, una pratica dei rapporti sociali che ricerchi la giustezza ottimale per il bene della comunità concepita sul modello familiare. Al centro di questa opposizione si trova la questione di sapere se ci sia compatibilità tra il principio meritocratico, messo in opera nel famoso sistema di reclutamento dei servitori dello Stato tramite gli esami, e il principio democratico qual è chiaramente enunciato da Aristotele: «Il giusto secondo la costituzione democratica, è che ciascuno abbia una parte 18 uguale numericamente e non secondo il proprio merito .» Su questo punto, Hall e Ames sono obbligati ad ammettere che «la meritocrazia inerente alle idee confuciane sui benefici dell’educazione è problematica, almeno rispetto alle concezioni più semplicistiche dell’uguaglianza democratica.» Il passaggio, rappresentato nel Grande studio come un processo perfettamente continuo tra l’educazione di sé dell’uomo eccezionale e la condotta ottimale del maggior numero di persone, implica un’educazione delle masse, concepita in maniera un po’differente dai confuciani e dai pragmatici: «Per i confuciani, l’educazione di massa è necessaria per favorire le condizioni nelle quali gli individui esemplari possano emergere come sovrani potenziali o come consiglieri del bene pubblico. Per i pragmatici invece, l’educazione di massa è necessaria non solo per facilitare l’emergenza d’individui esemplari, ma anche perché il popolo stesso possa acquisire, al meglio delle sue possibilità, la capacità di deliberare su 19 quello che considera giusto in ambito morale e politico . » Abbiamo qui l’ideale di una società auto-regolata che dà il primato all’etica sulla legge penale. 17 The Democracy of the Dead, p. 159-160. Politica, libro VI, cap. 2. 19 Shaun O’Dwyer, « Democracy and Confucian values » (supra, nota 43), p. 58. 18 17 Gli intellettuali anglosassoni come Daniel Bell si schierano dalla parte di Hall e Ames per difendere l’idea che quest’educazione etica di massa equivalga ad una confucianizzazione della società: Se il confucianesimo è nato in un ambiente d’élite composto da intellettuali e/o da eruditi-burocrati, la sua diffusione plurisecolare attraverso la maggior parte dei ceti sociali di questi paesi (la Cina, la Corea del Sud, Taiwan, Singapore) è stata facilitata da un’educazione morale dispensata prima di tutto in famiglia o nelle scuole locali, in altre parole attraverso dei 20 mezzi che non dipendevano direttamente dalle decisioni dell’élite statale . In questo modo la continuità tra «santità interiore» e «sovranità esteriore» affermata all’inizio del Grande studio, non abbandonando mai la dimensione etica che pretende restare essa stessa basata sulla natura, non lascia alcuno spazio ad un’autonomia del politico. Ora, quest’autonomia non sarebbe necessaria per invertire il processo decisionale che, nello schema confuciano, circola in priorità dall’alto verso il basso? Domanda a cui Randall 21 Peerenboom risponde ricorrendo ad un gioco di parole diventato luogo comune ma possibile solo in inglese: « rites versus rights ». Il nocciolo del problema è che il ritualismo (rule of rites), costitutivo del legame sociale nella tradizione confuciana, non ha mai potuto trasformarsi in giuridismo (rule of rights, o rule of law), cioè in fondamento sociale di tipo contrattuale. A questo Peerenboom oppone, in una prospettiva completamente pragmatista, l’argomento secondo cui il right thinking (pensare retto) è una condizione preliminare al right to think (diritto di pensare), nella misura in cui sarebbe opportuno educare i membri del corpo sociale a pensare giusto prima di conceder loro il diritto di pensare, ovvero di avere del peso nel processo decisionale collettivo. Dopo essersi sforzato dalla metà del XIX secolo a rispondere mano a mano, parola per parola, alla sfida occidentale a colpi di «ricerche di antecedenti» e di «invenzioni culturalistiche», il confucianesimo contemporaneo pretende al contrario di superare l’equazione «modernità uguale a occidentalizzazione» che ha dominato gli spiriti da oltre un secolo. Ma non si tratterebbe piuttosto dell’elaborazione del mito di una post-modernità che 20 Tesi di Daniel Bell (formulate in particolare in Daniel A. Bell e al., Towards Illiberal Democracy in Pacific Asia, Oxford, Oxford University Press, 1995) riportate da Shaun O’Dwyer, « Democracy and Confucian Values », p. 43. 21 « Confucian Harmony and Freedom of Thought », in Confucianism and Human Rights (supra, nota 8), p. 234-260. 18 altro non sarebbe che un comodo alibi per eludere la costruzione di uno spazio autonomo propriamente politico? Sembra che il fenomeno «post-confuciano» debba essere messo in relazione, a monte, col fallimento del tentativo di riforma del 1898 e più particolarmente col fallimento del tentativo di riforma culturalistica e modernista di Kang Youwei. Da vari punti di vista, il «nuovo confucianesimo contemporaneo» può essere compreso come un tentativo di compensare il fiasco del mutamento politico in Cina alla fine del XIX secolo, che ha avuto come conseguenze il vuoto creato dalla sparizione delle istituzioni e della legittimità imperiale e l’incapacità di rimpiazzarle attraverso la costruzione della modernità sotto forma di Stato-Nazione. Un contro-esempio interessante è fornito dal Giappone che è stato relativamente poco toccato dalla «febbre confuciana» degli anni Ottanta. In assenza di una costruzione politica di lunga durata, il discorso post-confuciano, che evolve ormai in un contesto globalizzato grazie all’interesse che gli manifestano un buon numero di universitari anglosassoni, è condannato ad immaginarsi, dopo aver saltato la modernità, di poter passare direttamente ad un ipotesi post-moderna che non può essere altro che il ritorno ad una certa forma di tradizionalismo, in delle versioni più o meno fondamentaliste, conservatrici o pragmatiche. Dopo tutti i ruoli che si è visto assegnare nel XX secolo — «essenza nazionale», pilastro dei «valori asiatici», garante dell’autoritarismo politico, motore della prosperità economica … — questo «confucianesimo tutto fare» ha veramente gli atout necessari per svolgere il più bel ruolo a cui possa aspirare, quello di «salvatore della democrazia»? Traduzione dal francese da Alice Bianchi 19