La Cina tra confucianesimo e democrazia

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La Cina tra confucianesimo e democrazia
La Cina tra confucianesimo e democrazia
(Si prega di non citare senza il permesso dell’autore)
Anne CHENG
Collège de France
Cattedra di Storia intellettuale della Cina
E’ necessario in primo luogo rendersi conto delle difficoltà di articolare insieme dei
termini considerati tanto eterogenei quali «democrazia» e «tradizione confuciana», avremo
allora da un lato il simbolo stesso della modernità e della dinamica occidentale, ereditate
dall’Europa dei lumi; dall’altro, il peso di una tradizione plurimillenaria, spesso associata ad
un ordine socio-politico fortemente gerarchizzato e storicamente immutabile. Sarebbe
innanzitutto opportuno sottolineare il carattere problematico dei termini stessi: se lasciamo da
parte per il momento il termine di «democrazia», che è lungi dal corrispondere ad una
definizione univoca, non dimentichiamoci che le nozioni di «tradizione» e di «democrazia»
sono costruzioni ideologiche che vanno ricollocate in un determinato contesto storico. Mentre
la «tradizione cinese» si è costruita in reazione al modello proposto (se non addirittura
imposto) dalle potenze occidentali dalla metà del XIX secolo, il «confucianesimo» è stato
incaricato di ricoprire tutte le complessità della realtà non solo storica ed intellettuale, ma
anche di quella sociale e istituzionale, per qualcosa come venticinque secoli.
Ancora più problematica è l’articolazione fra questi due termini: quando è sollevata la
questione della maturità o meno della Cina per l’instaurazione della democrazia, si nota una
ricorrenza persistente di argomenti di tipo «culturalistico», cioè di una pretesa incompatibilità
(o al contrario di una perfetta compatibilità) culturale tra la tradizione cinese e la democrazia.
I sostenitori dell’incompatibilità sono pronti a denunciare la «mentalità da schiavi» dei cinesi,
o ancora la permanenza del regime autocratico che caratterizzano la tradizione cinese.
Dall’altra parte stanno i difensori della tesi positiva, che trova la sua espressione più articolata
in coloro che sono stati definiti i «nuovi confuciani contemporanei» (dangdai xin rujia).
Questi ultimi proclamano in particolar modo una perfetta compatibilità, persino una
1
convergenza, tra «valori confuciani» e «diritti umani» e si sforzano, in questa prospettiva, di
riesumare dal terreno cinese dei «germi» (mengya, zhongzi) di democrazia. E’ questa forma
particolare che ha preso il discorso culturalista in una certa élite cinese da circa un secolo che
mi propongo di esaminare. Si tratta di studiare un fenomeno che rientra essenzialmente nel
campo della rappresentazione, ma che non per questo non è stato oggetto di una costruzione
storica.
Una cosa é fare l’inventario degli argomenti formulati dagli intellettuali cinesi messi a
confronto con la sfida occidentale, per mostrare l’esistenza di «germi di democrazia» nei
valori culturali della tradizione cinese; un’altra è porsi la questione di sapere di quali risorse
endogene disponga la Cina per andare nella direzione di un regime democratico
all’occidentale
1
o in mancanza di questo, di una modalità di funzionamento politico
partecipativo, controcorrente rispetto ad una circolazione unilaterale del potere dall’alto verso
basso della gerarchia sociale. A mio avviso ci troviamo di fronte a due questioni ben distinte,
ma per me che non sono affatto politologa, si tratterà di prendere in considerazione soprattutto
la prima, da un punto di vista storico.
Si constaterà che queste due questioni si sono succedute in quest’ordine anzitutto da
un punto di vista prettamente cronologico: la forma che prese la prima ondata di reazione alla
supremazia occidentale verso la fine del XIX secolo fu quella della rivendicazione
dell’esistenza, nella tradizione autoctona, di «germi» di categorie percepite come costitutive
delle conoscenze e della potenza occidentale. Solo in un secondo momento è rivendicata la
fecondità della tradizione autoctona stessa in materia di umanesimo democratico, filosofico,
ecc., specialmente dai «nuovi confuciani contemporanei» che si sono costituiti in corrente
distinta in opposizione dapprima allo spirito del 4 maggio 1919, e in seguito al regime
comunista. Ora, sono in parte le loro idee che sono state strumentalizzate e promosse come
«valori confuciani» in seno al discorso «asiatistico» negli anni Ottanta e Novanta. Essendo
scesa un po’ questa febbre improvvisa dopo la crisi asiatica del 1997, si tratta ora di chiedersi
se il rinnovamento confuciano abbia ancora valore o un qualsivoglia interesse al di là del suo
sfruttamento congiunturale ed ideologico. Si assiste attualmente all’emergenza di un consenso
secondo il quale i «valori confuciani/asiatici» difesi dai governi autoritari, non sono altro che
il prodotto di una mera manipolazione ideologica, ma possono e devono eventualmente essere
1
Definito come « il pluripartitismo, la separazione dei poteri e la garanzia delle libertà fondamentali » da
Jean-Philippe Béja in À la recherche d’une ombre chinoise. Le mouvement pour la démocratie en Chine (19192004), Paris, Seuil, 2004, p. 15.
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presi sul serio quando si tratta dell’adattamento al modello democratico di questi regimi
autoritari. Partendo da questi presupposti, si pone la questione più generale di sapere se la
democrazia rappresentativa di tipo liberale, come la vediamo praticata attualmente nei paesi
occidentali, sia la sola forma che possa prendere la via democratica nel mondo di oggi.
La «ricerca di antecedenti» alla fine del XIX secolo.
Il primo impulso di «ricerca di antecedenti» mi sembra stimolato dalla presa di
coscienza, in seguito alle guerre dell’Oppio degli anni 1840-1860, della supremazia
occidentale non solo in ambito materiale e tecnologico, ma anche in ambito culturale. Dal che
consegue la necessità per i cinesi di cercare nella propria tradizione degli antecedenti capaci
di averla vinta sull’arsenale di valori che, ai loro occhi, hanno contribuito a costruire la
superiorità occidentale: scienza, religione, filosofia, democrazia. Tutto questo ha inizio con
quelli che chiamerei dei tentativi di «annegare il pesce» nel grande bagno dell’armonia e della
civiltà universale, attraverso degli amalgami tendenti a stabilire delle gradazioni puramente
quantitative, piuttosto che delle distinzioni qualitative, tra Cina e Occidente. E’in questo modo
che Xunzi può essere presentato come preludio a Spencer, o Laozi a Darwin, o ancora che il
solo pensiero di Mencio sarebbe atto a contenere i «germi» della democrazia, del
cristianesimo e anche — perché no? — della scienza occidentale.
Questo progetto culturalistico di riscrivere la storia o di fare della storia-finzione
propende veramente per un’«invenzione della tradizione», ossia per una «rilettura della storia
(se non addirittura dei testi sacri) destinata a fornire ciò che rafforzi uno stato di fatto
2
contemporaneo ». Questo processo d’invenzione della tradizione s’intensifica negli ultimi
anni del XIX secolo. Il 1895 viene considerato come l’anno che marca il traumatismo
maggiore che fu la disfatta della Cina contro il Giappone, il momento in cui «non è più stato
possibile credere, come l’avevano fatto i primi modernizzatori dopo la guerra dell’Oppio, che
si potessero imparare ed utilizzare a proprio profitto le tecniche dell’Occidente senza per
3
questo intaccare la sostanza della cultura cinese », vale a dire la fine della validità della
formula Zhong ti xi yong «la Cina come sostanza, l’Occidente come strumento». Si impone
allora l’idea che la Cina necessiti di una riforma in profondità delle sue istituzioni politiche,
sul modello della riforma Meiji (1868) che mira all’ascesa del Giappone attraverso
2
Cf. David Camroux, « Des nations imaginées à la région rêvée », in David Camroux e Jean-Luc Domenach
(a cura di), L'Asie retrouvée, Paris, Seuil, 1997, p. 55.
3
Pierre-Étienne Will, « La tradition chinoise et la démocratie », conferenza all’Università popolare di Le
Havre (3 febbraio 2000).
3
l’occidentalizzazione. Nel 1898, durante uno degli ultimissimi regni della dinastia Manciù dei
Qing, dei letterati riuniti attorno a Kang Youwei (1858-1927) e al suo discepolo Liang Qichao
(1873-1929), cominciano, per la prima volta in tutta la storia imperiale, ad abbozzare una
riforma politica gettando le basi di una monarchia costituzionale sul modello giapponese.
L’ambizione di Kang è di fare del confucianesimo una religione di stato, ad imitazione
dell’«essenza nazionale» giapponese, in un quadro costituzionale rinnovato all’occidentale;
ma, da buon letterato tradizionale, egli crede poter mobilitare ancora una volta (ma sarà
l’ultima) le fonti canoniche confuciane per compiere la riforma politica dalle mire utopistiche,
caratteristiche dell’ideale della «Grande unità» (da tong) del ritualismo antico, di una «fusione
delle civiltà in una religione confuciana sincretista che conduca alla scomparsa delle frontiere
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nazionali, dei governi e della famiglia ».
Pensando e conducendo la propria azione all’interno di pratiche confuciane di cui si
limita a rinnovare il contenuto, Kang finisce di minare, paradossalmente e involontariamente,
le ultime fondamenta della tradizione, e quest’ultimo tentativo culturalistico si rivela un fiasco
totale. Cosi’, mentre il Giappone ha saputo, dal 1868, negoziare il viraggio di Meiji, la Cina
ha perso l’occasione offerta nel 1898 continuando a riferirsi ad una tradizione canonica che
non permetteva di creare un vero Stato-nazione. Questo fallimento del tradizionale lascia un
vuoto nella costruzione del politico che le rivoluzioni successive del XX secolo cercheranno
di colmare. Di fatto, il movimento politico si radicalizza in seguito al fiasco dei Cento giorni,
senza dubbio una delle cause principali della rivoluzione anti-manciù del 1911. Di
conseguenza, si passa dall’universalismo più globalizzante (tianxia: tutto ciò che sta sotto il
Cielo) al nazionalismo più vendicativo (guojia: la patria): la volontà di «salvare la nazione»
ha ucciso il culturalismo cinese che irradia dalla fonte centrale che è la Cina (zhong). Basti
vedere il contrasto tra l’universalismo canonico di un Kang Youwei, per il quale la libertà
individuale si raggiunge attraverso la dissoluzione di ogni forma di legame istituzionale nella
«Grande Unità» di cui parla il Trattato dei riti e una generazione dopo, la fede nello Statonazione di un Chen Dexiu (1880-1942), futuro fondatore del Partito comunista cinese, che in
un famoso testo del 1916, condanna l’etica confuciana in quanto ostacolo alle nozioni
d’indipendenza e di autonomia individuali, indispensabili secondo lui all’edificazione di uno
Stato costituzionale moderno.
4
Cf. Yves Chevrier, « Chine, “fin de règne” du lettré ? Politique et culture à l’époque de l’occidentalisation »,
Extrême-Orient, Extrême-Occident, 4 (1984), p. 87. Si veda anche Anne Cheng, « Tradition canonique et esprit
réformiste à la fin du XIXe siècle en Chine », Études chinoises, 14, 2 (1995), p. 7-42.
4
Tra queste due generazioni che incarnano due posizioni estreme figurano quelli che,
come Liang Qichao, non sono sostenitori dell’opzione rivoluzionaria e non vedono il
confucianesimo necessariamente come un ostacolo all’adozione di valori moderni, vale a dire
occidentali, quali la democrazia o i diritti umani. Alcune citazioni delle fonti classiche
ricorrono spesso nel minben sixiang, il pensiero che concepisce il popolo come fondamento
dell’ordine politico. Nel Libro dei Documenti (Shujing) appare come un leitmotiv l’idea che il
popolo debba essere vezzeggiato e non oppresso, poiché è quest’ultimo che costituisce la base
del potere. Sono di nuovo i Documenti ad essere citati nel Mengzi, fonte principale del minben
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sixiang: «Il Cielo vede come il popolo vede; il Cielo sente come il popolo sente .» Nella
celebre frase « E’il popolo ad avere il maggior valore; vengono in seguito gli altari degli dei
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del Suolo; il principe è colui che ha la minor importanza », Mencio afferma il primato del
benessere del popolo, la sovranità non dovendo essere altro che una manifestazione delle virtù
necessarie ad assicurare la stabilità e la prosperità del corpo sociale. Principio corroborato
dall’altrettanto celebre formula del Trattato dei riti « L’Impero è il bene comune di tutti» —
in altre parole il sovrano non possiede l’impero in proprio e esercita la propria autorità solo
per assicurare il bene comune — e spinto fino alle ultime conseguenze da Mencio che,
interrogato sulla possibilità da parte di un suddito di uccidere il proprio principe risponde
«Colui che viola la virtù di umanità è chiamato malfattore, colui che viola il principio del
giusto è chiamato scellerato. Un malfattore o uno scellerato non sono altro che individui
ordinari. Ho sentito dire che (il re Wu) ha punito colla morte l’individuo Zhou (ultimo
sovrano degli Shang dalla reputazione sanguinaria), e non, che io sappia, che abbia ucciso il
suo principe.» Benché questo passaggio spesso citato non costituisca in alcun modo una
giustificazione del regicidio e ancor meno una teoria «del diritto del popolo alla rivoluzione»,
è il criterio del minben che ha prevalso in tutti critici del potere autocratico, da Mencio a
Huang Zongxi (1610-1695) e Tang Zhen (1630-1704) nell’era premoderna.
Una rinascita del culturalismo nel XX secolo : il « nuovo confucianesimo
contemporaneo »
Nel 1911 è tutto il regime imperiale a crollare, lasciando posto all’instaurazione di una
repubblica. Con esso scompare il confucianesimo istituzionale che gli era servito da
fondamento ideologico. Di fatto, dopo secoli di funzionamento, il sistema di reclutamento
5
Mengzi V A 5. La citazione proviene dalla «Grande dichiarazione» dello Shujing IV, 1 (trad. Couvreur, p.
179).
6
Mengzi VII B 14.
5
della burocrazia attraverso i famosi esami mandarinali, fondati essenzialmente sulla
conoscenza dei classici canonici, è soppresso nel 1905, mettendo così fine al «confucianesimo
7
scritturale ». L’opzione culturalista tende a farsi da parte in favore di una radicalizzazione
politica che passa attraverso il fallimento della prima esperienza repubblicana del 1912 e
raggiunge il parossismo nel movimento del 4 maggio 1919, inizialmente scatenato dagli
studenti di Pechino all’annuncio della concessione al Giappone degli antichi possedimenti
tedeschi in Cina. Il movimento che segna l’inizio di un periodo di forte agitazione politica, si
definisce nei termini risolutamente occidentali di Scienza (al singolare) e Democrazia le quali,
incarnate da Sai xiansheng e De xiansheng (Signor Scienza e Signor Democrazia), sono
oggetto di un’idolatria uguagliata soltanto dalla violenza diretta contro la tradizione
identificata come confuciana. «Abbasso la bottega di Confucio!» è lo slogan preferito di
coloro che, come il grande scrittore Lu Xun, considerano il confucianesimo come il
responsabile di tutti i mali di cui soffre la Cina, della sua arretratezza materiale e morale.
Raramente una cultura si sarà così radicalmente negata come negli anni successivi a questo
movimento che riflette le frustrazioni degli intellettuali alle prese con una realtà cinese
umiliante e che soffriva della mancanza di modernità, ciò che spiega il suo carattere
apparentemente paradossale: in nome di un anti-tradizionalismo ad oltranza, esso preconizza
l’avvento di una cultura radicalmente nuova in cui la modernità passi attraverso
un’occidentalizzazione totale, sollevando al contempo un’ondata di proteste che hanno la
pretesa di essere nazionali, se non addirittura nazionaliste, contro le grandi potenze
occidentali.
Mettendosi in cerca di un modernismo all’occidentale, gli iconoclasti del 4 maggio si
spingono nella stessa direzione dell’analisi marxista, che riporta il confucianesimo in quanto
ideologia ad un’infrastruttura sociale caratteristica di un periodo feudale (benché questo
8
durerà quasi tremila anni). Il confucianesimo può così essere relegato al «museo» della storia ,
conservato per la posterità senza pertanto interferire col processo di modernizzazione. Al
volgere degli anni Venti, un’altra diagnosi, questa volta occidentale, condanna ancora più
radicalmente il confucianesimo: quella di Max Weber, le cui preoccupazioni sono di mostrare
i fattori ideologici (a suo parere, l’etica protestante) alle origini del capitalismo in Europa.
Pensando di aver identificato le condizioni materiali dell’avvento del capitalismo in Cina,
7
Mark Elvin, « The Collapse of Scriptural Confucianism », Papers on Far Eastern History (Canberra), 41
(1990).
8
Cf. Joseph R. Levenson, Confucian China and its Modern Fate, vol. III, Berkeley, University of California
Press, 1965, p. 76-82.
6
Weber ne conclude che se questo non si è prodotto, è in ragione dei fattori ideologici,
confucianesimo al primo posto. Perciò, sbarazzarsi una volta per tutte di questo peso morto
appare come la conditio sine qua non di qualsiasi velleità di accedere ad una modernità
occidentale.
A queste diagnosi negative si aggiunge lo choc della nuova razionalità scientifica, che
distrugge la visione cosmologica ed olistica predominante nella tradizione cinese. Di fatto, gli
intellettuali degli anni Venti che tentano di preservare il pensiero confuciano orientano la loro
resistenza in primo luogo contro lo spirito «scientista» (da distinguersi da «scientifico»),
contro la fede senza limiti che i modernisti hanno nella «Scienza». In questo modo, non
mettono in discussione la capacità della scienza di spiegare l’universo, ma ne contestato
l’applicazione al campo umano, per il quale rivendicano la superiorità della «filosofia di vita»
confuciana, innalzata al rango di metafisica e di sistema di valori etico - spirituali. Questi
nuovi confuciani, tra i quali alcuni hanno frequentato le università giapponesi, europee o
americane, si sforzano di dare all’eredità culturale confuciana una dignità filosofica capace di
renderla credibile agli occhi degli Occidentali e di preservarla dopo la sparizione del
confucianesimo scritturale ed istituzionale: è in questa direzione che cercano una via
alternativa verso una nuova modernità che tenga conto della tradizione intellettuale.
Il manifesto del 1958 e la questione della democrazia
Una generazione dopo il 1919, il 1949 segna, al termine del conflitto sino-giapponese e
della guerra civile, la fondazione della Repubblica Popolare cinese da parte dei comunisti e la
fuga del governo nazionalista a Taiwan, seguito da numerosi intellettuali ostili al regime
marxista. Mentre la maggior parte delle figure di rilievo della prima generazione dei «nuovi
confuciani» rimangono in Cina continentale, Taiwan si sforza di apparire come un
conservatorio vivente della cultura cinese tradizionale. Alcuni «nuovi confuciani» della
seconda generazione si raggruppano anche ad Hong Kong per fondare il New Asia College.
Nel 1958 quattro di loro, che figurano tra gli intellettuali di maggior spicco al di fuori della
Cina comunista (Mou Zongsan, Xu Fuguan, Tang Junyi e Zhang Junmai), firmano nella prima
pagina del giornale di Hong Kong «La tribuna democratica», un «manifesto indirizzato al
mondo per una rivalutazione della sinologia ed una ricostruzione della cultura cinese» nel
7
quale «supplicano» (questo il termine impiegato) i loro pari di voler ammettere che la cultura
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cinese non è morta e che la filosofia confuciana è ancora fonte vivente di valori .
I nostri nuovi confuciani cominciano col piazzare la « speculazione sul cuore-spirito e la
natura» (xin xing zhi xue) e la «teoria della bontà della natura umana» (xing shan shuo) al
centro del pensiero cinese e rivendicano per quest’ultimo lo statuto universale di fondamento
dell’umanità. Ammettono tuttavia che questo non è riuscito, precisamente per aver messo
l’accento sulla questione morale, a sviluppare democrazia e scienza. All’inizio della Sezione 9
del Manifesto, intitolata «Lo sviluppo della cultura cinese e la ricostruzione democratica»,
costatano che dalla più alta antichità fino al 1911 la Cina ha conosciuto soltanto il modello
politico autocratico del sovrano unico. L’intero sistema riposando sulla sola persona del
sovrano, che non era necessariamente competente o saggio (molto spesso né l’uno né l’altro),
la storia dinastica cinese non è stata che un ciclo ininterrotto di periodi d’ordine e di disordine.
La democrazia appare dunque come l’unico mezzo per far cessare questo ciclo.
Sarebbe però falso affermare, continuano i nostri autori, che il confucianesimo «non
contenga né i germi della, né la propensione alla, democrazia, e che sia ostile alla scienza e
alla tecnica». Secondo loro i germi (zhongzi) della democrazia sono contenuti nella formula
del Trattato dei riti « L’impero é il bene di tutti » (tianxia wei gong) e nell’idea menciana che
il sovrano è secondo rispetto al popolo; ma questi germi, già menzionati prima, hanno visto la
loro crescita intralciata, se non addirittura soffocata, dall’assolutismo imperiale. Si
aggiungono alla rinfusa: il Mandato celeste che dovrebbe fondarsi sull’assenso del popolo, le
pratiche di denominazione postuma dei sovrani (sorte di sanzioni per la posterità), il dovere di
ammonizione e l’istituzione del censorato, ecc.
Nella sezione seguente, intitolata «Le nostre concezioni della storia politica cinese
contemporanea», gli autori si concentrano sulle ragioni dirette ed immediate della situazione
catastrofica in cui si trova la Cina nel 1958 e in cui si trovano essi stessi: si tratta di spiegare i
fallimenti successivi dei tentativi di costruzione democratica e, di conseguenza, l’avvento dei
comunisti. È presa di mira in primo luogo la figura di Chen Dexiu, fondatore del partito
comunista cinese e capofila del 4 maggio, accusato di aver sostenuto la scienza e la
democrazia distruggendo nel contempo la cultura tradizionale fino alle fondamenta, mentre i
9
Esiste del Manifesto una versione inglese riprodotta dell’opera di Carsun Ghang (nome col quale Zhang
Junmai è conosciuto negli ambienti anglofoni), The Development of Neo-Confucian Thought, vol. 2, New York,
Bookman, 1957, ried. Westport (Conn.), Greenwood Press, 1977, p. 471-472.
8
nostri autori basano al contrario i loro argomenti sui «germi» di scienza e di «democrazia»
che vedono presenti nella tradizione cinese. E’ a questo titolo che il comunismo, in particolar
modo nella sua versione marxista-leninista, sarebbe destinato a sparire, poiché,
contrariamente alla scienza e alla democrazia, non avrebbe «germi» nella cultura cinese.
Conclusione: non solo la cultura cinese tradizionale non è morta, ma può ancora servire
da fondamento ad un nuovo umanesimo di scala mondiale. Tutto ciò è diretto contro la tesi
levensioniana di una tradizione confuciana da relegare al museo dal momento in cui la società
che la faceva vivere non esiste più: si tratta al contrario di dissociare il confucianesimo dal
proprio ancoraggio alla storia imperiale ed alla società cinese per farne emergere i valori
universali ed eterni. Per i nuovi confuciani, la rivincita dell’universalità cinese dovrebbe
essere presa sul terreno dei «valori confuciani» o dell’«umanesimo confuciano» poiché, come
dice Tu Wei-ming, il loro portavoce più in vista attualmente, «la vera sfida per essi è la
seguente: come può un umanesimo confuciano resuscitato rispondere alle questioni sollevate
da scienza e democrazia? (…) Si rendono conto che le preoccupazioni per la sopravvivenza
della tradizione confuciana e per la continuità della cultura cinese tradizionale debbano essere
10
sussunte in una più ampia preoccupazione per l’avvenire dell’umanità .»
La febbre dei « valori confuciani » durate gli anni Ottanta
Il tono patetico dell’appello del 1958 traduce bene lo spirito di questa generazione
dell’esilio che ha tuttavia formato le future menti del revival confuciano degli ultimi vent’anni,
a cominciare da Tu Wei-ming (nato nel 1940), il quale, prima di fare una brillante carriera
universitaria negli Stati Uniti, a Berkeley e ad Harvard, fu in primo luogo discepolo di Mou
Zongsan a Taiwan. Mentre la corsa alla modernizzazione (dapprima sul modello sovietico,
poi su quello occidentale) nella quale era lanciata la Cina continentale relegava i nostri «nuovi
confuciani» ad una posizione periferica e marginale, dagli anni Ottanta si opera un
capovolgimento
spettacolare,
non
nel
contenuto
dell’interpretazione
stessa
del
confucianesimo, ma nella valutazione di questo contenuto riguardo alla questione della
modernità. Dallo statuto di ostacolo insormontabile il confucianesimo passa, dall’oggi al
domani, a quello di motore centrale della modernità.
10
Tu Wei-ming, « Towards a third epoch of Confucian humanism », in Way, Learning, and Politics. Essays
on the Confucian Intellectual, Albany, State University of New York Press, 1993, p. 158.
9
Ciò che è all’origine di questo capovolgimento ha ben poco a che vedere col
confucianesimo stesso: dopo gli anni detti di «delirio utopista» della Rivoluzione culturale e
la morte di Mao nel 1976, il modello comunista rivoluzionario è abbandonato de facto nella
Cina stessa, mentre in periferia si assiste ad uno sviluppo economico senza precedenti, sulla
scia del Giappone, dei «quattro piccoli dragoni» (Taiwan, Hong Kong, Singapore e la Corea
del Sud). Di conseguenza, questi «margini dell’impero», contemporaneamente ai «valori
asiatici», in particolare confuciani, che rivendicano, si trovano proiettati in una centralità
esemplare e diventano l’oggetto di tutte le attenzioni e di tutte le emulazioni, in particolare da
parte degli Occidentali. In effetti, nel momento in cui il comunismo in Cina, ma anche in
Europa dell’Est affronta una crisi maggiore, le società occidentali capitaliste pensano di
avvertire dei segni di declino nel loro proprio sviluppo. In questo contesto, i «valori
confuciani» che dovrebbero spiegare lo sviluppo di un capitalismo specificamente asiatico,
arrivano al momento opportuno per preconizzare di rimediare all’incapacità del modello
occidentale di modernità attraverso il suo superamento.
Se il rinnovamento confuciano costituisce una preoccupazione maggior per alcuni
intellettuali cinesi dagli anni 1920-1930, il fattore che scatena il ribaltamento degli anni
Ottanta è da cercarsi nella situazione mondiale e il suo epicentro da individuare, non
esattamente nelle società cinesi, ma negli ambienti dei cinesi occidentalizzati ed anglofoni,
negli Stati Uniti e a Singapore. Dalla fine degli anni Settanta vediamo il governo di Singapore
di Lee Kwan Yew prendere in considerazione «l’introduzione crescente di valori asiatici nel
ciclo scolastico per contrastare l’influenza culturale dell’Occidente sui giovani». Il
programma è in seguito realizzato su due piedi su consiglio di universitari sino-americani
rinomati, Tu Wei-ming per primo. In soli cinque anni, l’enclave di Singapore si ritrova
trasformata di sana pianta in un paradiso confuciano (e questo grazie alla mediazione
dell’inglese!).
Nella metà degli anni Ottanta il contagio, che non risparmia ovviamente neppure
Taiwan, Hong Kong e la Corea del Sud (con la notevole eccezione in fin dei conti
comprensibile del Giappone), raggiunge la Cina popolare che, dalla fine degli anni Settanta, è
occupata a liquidare l’eredità maoista e vorrebbe riagganciarsi ai vagoni dell’asiatismo per, se
possibile, diventarne la locomotiva. Il confucianesimo, vilipendiato da due generazioni e
attaccato, se non addirittura fisicamente distrutto, con estrema violenza durante la Rivoluzione
culturale che è appena finita, è oggetto nel 1978 di un primo convegno mirante alla sua
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riabilitazione. Da questa data, non passerà un solo anno senza che si tengano diversi convegni
internazionali sul confucianesimo. Nel 1984, una «fondazione Confucio» è creata a Pechino
in occasione del 2535° anniversario di nascita del Saggio, sotto l’egida delle massime autorità
del partito comunista. Dall’anno successivo, Tu Wei-ming è invitato all’Università di Pechino
per dare una serie di conferenze che saranno tutte pubblicate. Nel 1992, Deng Xiaoping,
durante la famosa tournée nelle province del sud, cita la Singapore di Lee Kwan Yew come
modello per la Cina.
Questa «febbre confuciana» ha tutto di un fenomeno globalizzato che trae origine da un
«confucianesimo americano» o «Boston Confucianism». Questa si traduce in una
proliferazione senza precedenti di convegni e pubblicazioni che vertono tutti sulla questione:
qual è il rapporto tra confucianesimo e modernizzazione realizzata negli ultimi trent’anni dai
paesi recentemente industrializzati dell’Asia orientale? E più precisamente: il confucianesimo
ha un ruolo effettivo nello sviluppo del capitalismo ed è in grado di rimediare alle sue
disfunzioni? Prendendo in contropiede le idee di Max Weber, alcuni pensatori anglosassoni in
materia di sviluppo stabiliscono un legame causa-effetto tra il «modello di sviluppo estasiatico» e i «valori confuciani»: valorizzazione della famiglia, rispetto delle gerarchie,
motivazione all’educazione, piacere nel lavoro assiduo e senso del risparmio. Ironicamente,
sono precisamente questi fattori, che erano considerate come ostacoli allo sviluppo capitalista,
a promettere ormai alle società est-asiatiche di evitare i problemi che colpiscono le società
occidentali moderne …
Se il confucianesimo non ha, in realtà, molto a che vedere con lo sviluppo economico,
non per questo non serve i fini dei dirigenti autoritari di Singapore, di Pechino o di Seul i
quali, alle prese con un’accelerazione improvvisa dello sviluppo economico che le strutture
sociopolitiche non riescono a seguire, trovano comodo fare propri dei «valori confuciani»
garanti di stabilità, disciplina e ordine sociale, in opposizione ad un Occidente-repoussoir il
cui declino si spiegherebbe con le sue prese di posizione individualiste ed edoniste. Si noterà
che in questo «neo-autoritarismo» s’identificano su di un punto cruciale sia gli ex-ideologi
marxisti sia quelli anti-marxisti: alle rappresentazioni utopistiche di un socialismo senza
l’Occidente, si sostituisce l’aspirazione ad una modernità economica anch’essa senza
l’Occidente, che passa per una «post-modernità» o una «post-occidentalità», alibi comodo per
eludere la costruzione democratica.
11
Possiamo quindi dire che in origine, il revival confuciano non è una forma qualsiasi di
rinascita del confucianesimo in terreno cinese, ma un fenomeno ideologico che riguarda prima
di tutto l’élite d’origine cinese al di fuori dello spazio cinese propriamente detto e che
s’indirizza in realtà ai propri pari «occidentali» — ossia principalmente americani — ciò che
spiega come tutto avvenga in inglese. Se il «nuovo confucianesimo contemporaneo» continua
ad avere un certo pubblico (benché limitato ai circoli universitari), questo avviene — in modo
per lo meno paradossale— da un lato grazie al sostegno autoritario dei dirigenti cinesi,
dall’altro grazie all’appoggio logistico della potente macchina intellettuale americana. Certo,
questi due tipi di sostegno non vanno confusi, l’uno appare come un discorso ideologico e
l’altro come un movimento intellettuale, ma è giocoforza constatare l’andirivieni, gli scambi e
i congressi tra la Cina e gli Stati Uniti, diventati molto frequenti da una decina d’anni per
alcuni universitari in vista.
Tradizione confuciana e pragmatismo americano.
Di fatto, la sollecitudine di cui hanno sempre dato prova gli intellettuali cinesi nel
ricercare i «germi» della modernità nella propria eredità, si trova in un certo senso sostenuta
dalle preconizzazioni di alcuni teorici americani di tradizione pragmatista come John Dewey
o, più di recente, Richard Rorty. Per Dewey, essendo la democrazia definita in termini di
«communicating community», questa è meno una questione d’istituzioni che di educazione,
idea che conferma al momento giusto la validità delle tesi confuciane, cosa che non hanno
mancato di notare Roger Ames e David Hall nell’opera The Democracy of the Dead. Uno dei
capitoli si intitola: «Confucian Democracy: a Contradiction in Terms ? » (Democrazia
11
confuciana: una contraddizione in termini?) .
All’opposto della visione huntingtoniana dello «choc delle civiltà», Hall e Ames vedono
delinearsi una possibile convergenza di preoccupazioni e d’interessi tra la tradizione
pragmatica americana da un lato e la tradizione confuciana dall’altro, le quali — a loro dire —
si sono entrambe ritrovate marginalizzate, ciascuna nel proprio contesto culturale nella corsa
ad un certo tipo di modernità, ma stanno suscitando un nuovo interesse tra le élite attuali negli
Stati Uniti e in Cina.
11
Come lo costatano ironicamente Hall e Ames, la domanda « La democrazia confuciana: una contraddizione
in termini ? » potrebbe fare pendant a quest’altra, allo stesso modo riduttrice: «la cultura americana, un
ossimoro?».
12
Hall e Ames si mostrano critici nei confronti di una democrazia di tipo liberale, fondata
su una concezione individualista atomistica che fornisce di fatto semplicemente un quadro
istituzionale e giuridico, e non un progetto etico, alla vita sociale. E’il legame che si spaccia
per congenito tra democrazia e capitalismo ch’essi ricusano, proponendo il ritorno ad una
filosofia autenticamente «americana», cioè pragmatica, ispirata da Emerson e Thoreau e
costruita in opposizione alle fonti europee del pensiero liberale (John Locke, Adam Smith,
ecc.). Perorano così la causa di una democrazia di tipo «comunitario», sostenuta da Dewey ma
anche dalla tradizione confuciana. Parallelamente, preconizzano il ritorno ai valori autentici
cinesi (si intenda confuciani) in vista di una nuova concezione della modernità in Cina, la
quale — dal loro punto di vista — potrebbe ispirarsi alla concezione pragmatica di
democrazia partecipativa. Così, i due grandi dimenticati — pragmatismo e confucianesimo,
negli Stati Uniti e in Cina rispettivamente — potrebbero far causa comune per costruire una
nuova modernità che non sia più sinonimo d’occidentalizzazione. Hall e Ales finiscono così
per ricollegarsi alle tesi cinesi sui «germi» di democrazia proprie alla tradizione confuciana.
Chiaramente Hall e Ames sono completamente rivolti verso l’orizzonte di un avvenire
confucio-pragmatisma radioso; ma ciò che rimane irriducibilmente problematico è questo
«confucianesimo» che invocano senza mai storicizzarlo, che ci dà una giustapposizione
sommaria, totalmente sprovvista d’articolazioni storiche o dialettiche, di citazioni di Confucio
e di Dewey. E’ opportuno innanzitutto ricordare che il termine stesso di «confucianesimo» è
un neologismo occidentale, un’invenzione la cui origine risale ai missionari cristiani presenti
in Cina durante il XVII e il XVIII secolo e di cui si sono impossessati i filosofi illuministi,
seguiti da razionalisti e spiriti forti di ogni tipo, che hanno creduto scorgervi una religione
senza Dio. E’ solo al momento in cui gli intellettuali cinesi si sono trovati confrontati ad una
crisi di senso e d’identità alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, ch’essi si sono
appropriati di questa denominazione per designare la cultura tradizionale nel suo insieme,
presa come un tutto omogeneo. Tuttavia, hanno così occultato il fatto che il termine
confucianesimo è tutt’altro che applicabile ad ogni campo di una cultura cinese nutrita da una
molteplicità e da una diversità di fonti locali e che ha conosciuto delle evoluzioni e dei
cambiamenti storici radicali. Per i nuovi confuciani era urgente rispondere alla domanda:
l’umanesimo confuciano può sopravvivere quando la società che l’ha introdotto è sparita? Ma
la vera domanda non sarebbe piuttosto: la società cinese è mai stata confuciana, o perfino
confucianizzata? Il problema centrale del confucianesimo è precisamente stato la sua
incapacità a trasformare un modello normativo e prescrittivo in una realtà sociale. A proposito
13
degli intellettuali cinesi moderni, Jean-Philippe Béja fa notare che «situandosi, spesso senza
volerlo, nella tradizione dei letterati, hanno sempre avuto la tendenza a considerarsi i
portavoce della società, stimando di avere il dovere morale di esprimerne le rivendicazione e
12
di farle valere presso il potere ». In questa prospettiva, il revival confuciano rappresenta
senza dubbio in gran parte la rivincita (per quanto simbolica) di un’élite di letterati che per
quasi due millenni ha garantito una funzione mediatrice indispensabile e che, nel corso di un
XX secolo segnato dalla supremazia occidentale e da una rivoluzione comunista contadina, ha
avuto l’impressione di perdere ogni controllo sul destino della Cina.
Il problema con il Grande Studio
Comunque sia, si deve decisamente prendere una posizione risolutamente astorica per
far credere alla possibile restaurazione d’una società cinese unificata all’insegna di valori
confuciani condivisi che farebbero primeggiare il comunitarismo, i comportamenti ritualizzati
garanti della coesione e dell’ordine gerarchico e l’armonia che dovrebbe propagarsi nel corpo
sociale dal nucleo centrale che è la famiglia. Ritroviamo qui il famoso schema del passaggio
inaugurale del Grande Studio (Daxue), uno dei quattro libri canonizzati da Zhu Xi nel XII
secolo e resi obbligatori dal secolo successivo nel programma degli esami ufficiali:
Nell’antichità, per far risplendere la luce della virtù in tutto l’universo, si cominciava
coll’ordinare il proprio paese. Per ordinare il proprio paese, si cominciava col regolare la
propria casa. Per regolare la propria casa, si cominciava col perfezionare la propria persona.
Per perfezionare la propria persona, si cominciava col rettificare il proprio cuore. Per
rettificare il proprio cuore, si cominciava col rendere autentica la propria intenzione. Per
rendere autentica la propria intenzione, si cominciava collo sviluppare la propria conoscenza,
e si sviluppava la propria conoscenza esaminando le cose.
E’ esaminando le cose che la conoscenza raggiunge la sua più grande estensione.
Quando la conoscenza è estesa, l’intenzione diviene autentica. Quando l’intenzione è
autentica, il cuore diventa retto. E’ rendendo retto il cuore che si perfeziona la propria
persona. E’ perfezionandosi che si regola la propria casa; é regolando la propria casa
12
À la recherche d’une ombre chinoise (vedi sopra, nota 1), p. 17.
14
che si ordina il proprio paese; ed è quando i paesi sono ordinati che la Grande Pace si
13
realizza in tutto l’universo .
Quest’immagine dell’influenza morale del sovrano che si sviluppa e si diffonde in cerchi
o in onde concentriche sempre più larghe a mano a mano che il sovrano stesso cresce come
essere morale e che mette in scena la finzione di una continuità tra la cultura morale dell’élite
(xiushen, «cultura morale individuale» o neisheng, «saggezza interiore») ed il controllo
politico del corpo sociale (zhiguo, «governo del paese» o waiwang, «sovranità esteriore»), è
messa al centro degli argomenti di tutti i sostenitori della tesi dell’esistenza di «germi» di
democrazia nella tradizione intellettuale cinese. Idealismo confuciano ispirato dal ritualismo
antico e portato al parossismo dal suo profeta moderno Tu Wei-ming :
Cosi’ come l’io deve sormontare l’egoismo per diventare autenticamente umano, allo
stesso modo la famiglia deve sormontare il nepotismo per diventare autenticamente
umana. Per analogia, la comunità deve sormontare il campanilismo, l’etnocentrismo e
14
l’antropocentrismo, per formare un solo corpo con il Cielo, la Terra e i diecimila esseri .
Oltre a questo discorso ovviamente fantasmagorico si pongono diversi problemi per
chiunque voglia prendere sul serio l’inizio del Grande studio. In primo luogo, vi vediamo la
schematizzazione di un ordine politico che si elabora a partire da una dimensione individuale,
ma in cui l’individuo non è considerato come un’entità a se stante (una persona valente un
unità allo stesso titolo che tutte le altre unità costitutive del corpo socio-politico), ma è colto
«in situazione» nelle sue molteplici relazioni sociali (come figlio rispetto al proprio padre o
come padre rispetto al proprio figlio, come soggetto rispetto al sovrano, come maestro rispetto
ai suoi discepoli, ecc.). Si tratta di partire, non da una concezione costruita delle unità di base,
ma dalla natura stessa del tessuto umano percepito prima di tutto come relazionale; da cui
consegue la centralità del modello familiare che obbliga a prendere in considerazione la
distinzione tra sfera pubblica e sfera privata diversamente da quanto avvenga in un modello di
contratto sociale. Ciò che prevale in uno schema di questo genere é la preoccupazione, non di
13
73.
Traduzione di Anne Cheng, Histoire de la pensée chinoise, ried. « Points-Essais », Paris, Seuil, 2002, p. 72-
14
Tu Wei-ming, Centrality and Commonality. An Essay on Confucian Religiousness, Albany, State
University of New York Press, 1989, p. 115-116.
15
far valere a parità quelle entità a tutti gli effetti che sono le unità-individui, ma di rendere il
più armonioso possibile il funzionamento di tutte le reti di relazioni contemporaneamente.
Inoltre, la «cultura di sé» (xiu shen) di cui parla il Grande studio riguarda in modo
particolare, se non esclusivo, la persona del jun/junzi (sovrano/gentiluomo), il quale non può
essere chiunque. Si potrebbe spingersi fino a considerare che tutto il pensiero politico
confuciano non aspiri a rispondere che a quest’unica domanda: «Chi è il più adatto a
governare?». Non è preso in considerazione che colui che eccelle, gli altri non dovranno far
altro che seguire. Questo è detto senza possibilità d’equivoci nel Libro dei Documenti e nei
Dialoghi di Confucio: «La potenza morale del gentiluomo (junzi) è come il vento; sotto di
essa, il popolo si piega e si inclina». «Al popolo non si può che mostrare la via da seguire, non
15
spiegargliene le ragioni .» In Mencio, la relazione tra sovrano e soggetto è presentata in
modo ricorrente per analogia con la relazione genitori-figli. Eccone le ripercussioni nell’età
moderna: «I ministri al governo e i funzionari di Stato hanno finito per essere considerati
come le incarnazioni moderne del junzi. Il rispetto dei diritti individuali cede il passo
all’accento messo su un’armoniosa partecipazione comunitaria nella ricerca dei beni
16
economici e sociali definiti a livello nazionale dai governi .» Possiamo vedervi l’ideale del
buon padrone della cultura d’impresa giapponese (o allora — perché no? — quella del buon
quadro del Partito comunista cinese), ciò che porta Daniel Bell a parlare di «managerial
democracy» a proposito di paesi come il Giappone, Taiwan o la Corea del Sud, che hanno più
o meno adottato il modello europeo di democrazia parlamentare.
La rappresentazione del junzi come esempio e guida da seguire per le masse
indifferenziate e poco illuminate (min, «il popolo») pone il problema della compatibilità di
questo schema con quello della partecipazione decisionale del maggior numero di persone che
è alla base della logica democratica (per lo meno nella sua definizione liberale) e che
presuppone il concetto di uguaglianza, mentre Confucio afferma subito il ruolo fondatore
della reciprocità, della deferenza mutuale che, lungi dal dirigersi verso un qualsiasi
egualitarismo, fa radicare e appoggia al contrario l’idea che ogni relazione umana, ovvero
sociale, sia gerarchica.
15
16
Shujing IV, 21 e Lunyu XII, 19 e VIII, 8 (trad. Anne Cheng, Entretiens de Confucius, Paris, Seuil, 1981).
Shaun O'Dwyer, « Democracy and Confucian values », Philosophy East and West, 53, 1 (gennaio 2003), p.
45.
16
A coloro che vedono un’incompatibilità tra gerarchia e democrazia, e, pertanto, una
contraddizione nella nozione stessa di democrazia confuciana, i nuovi confuciani rispondono
senza problemi che l’egalitarismo allo stato grezzo delle società moderne ha un effetto
perverso sulla qualità delle relazioni umane e del tessuto sociale. Hall e Ames sottolineano dal
canto loro che questo tipo di « false idee (…) identificano in modo troppo netto la democrazia
con delle concezioni fondate sull’affermazione di un individualismo discreto e sulla nozione
17
puramente matematica di uguaglianza che ne deriva ». Per essi si tratta di opporre ad una
logica puramente quantitativa, matematica ed astratta, una pratica dei rapporti sociali che
ricerchi la giustezza ottimale per il bene della comunità concepita sul modello familiare.
Al centro di questa opposizione si trova la questione di sapere se ci sia compatibilità tra
il principio meritocratico, messo in opera nel famoso sistema di reclutamento dei servitori
dello Stato tramite gli esami, e il principio democratico qual è chiaramente enunciato da
Aristotele: «Il giusto secondo la costituzione democratica, è che ciascuno abbia una parte
18
uguale numericamente e non secondo il proprio merito .» Su questo punto, Hall e Ames sono
obbligati ad ammettere che «la meritocrazia inerente alle idee confuciane sui benefici
dell’educazione è problematica, almeno rispetto alle concezioni più semplicistiche
dell’uguaglianza democratica.»
Il passaggio, rappresentato nel Grande studio come un processo perfettamente continuo
tra l’educazione di sé dell’uomo eccezionale e la condotta ottimale del maggior numero di
persone, implica un’educazione delle masse, concepita in maniera un po’differente dai
confuciani e dai pragmatici: «Per i confuciani, l’educazione di massa è necessaria per favorire
le condizioni nelle quali gli individui esemplari possano emergere come sovrani potenziali o
come consiglieri del bene pubblico. Per i pragmatici invece, l’educazione di massa è
necessaria non solo per facilitare l’emergenza d’individui esemplari, ma anche perché il
popolo stesso possa acquisire, al meglio delle sue possibilità, la capacità di deliberare su
19
quello che considera giusto in ambito morale e politico . » Abbiamo qui l’ideale di una
società auto-regolata che dà il primato all’etica sulla legge penale.
17
The Democracy of the Dead, p. 159-160.
Politica, libro VI, cap. 2.
19
Shaun O’Dwyer, « Democracy and Confucian values » (supra, nota 43), p. 58.
18
17
Gli intellettuali anglosassoni come Daniel Bell si schierano dalla parte di Hall e Ames
per difendere l’idea che quest’educazione etica di massa equivalga ad una confucianizzazione
della società:
Se il confucianesimo è nato in un ambiente d’élite composto da intellettuali e/o da
eruditi-burocrati, la sua diffusione plurisecolare attraverso la maggior parte dei ceti sociali di
questi paesi (la Cina, la Corea del Sud, Taiwan, Singapore) è stata facilitata da un’educazione
morale dispensata prima di tutto in famiglia o nelle scuole locali, in altre parole attraverso dei
20
mezzi che non dipendevano direttamente dalle decisioni dell’élite statale .
In questo modo la continuità tra «santità interiore» e «sovranità esteriore» affermata
all’inizio del Grande studio, non abbandonando mai la dimensione etica che pretende restare
essa stessa basata sulla natura, non lascia alcuno spazio ad un’autonomia del politico. Ora,
quest’autonomia non sarebbe necessaria per invertire il processo decisionale che, nello
schema confuciano, circola in priorità dall’alto verso il basso? Domanda a cui Randall
21
Peerenboom risponde ricorrendo ad un gioco di parole diventato luogo comune ma possibile
solo in inglese: « rites versus rights ». Il nocciolo del problema è che il ritualismo (rule of
rites), costitutivo del legame sociale nella tradizione confuciana, non ha mai potuto
trasformarsi in giuridismo (rule of rights, o rule of law), cioè in fondamento sociale di tipo
contrattuale. A questo Peerenboom oppone, in una prospettiva completamente pragmatista,
l’argomento secondo cui il right thinking (pensare retto) è una condizione preliminare al right
to think (diritto di pensare), nella misura in cui sarebbe opportuno educare i membri del corpo
sociale a pensare giusto prima di conceder loro il diritto di pensare, ovvero di avere del peso
nel processo decisionale collettivo.
Dopo essersi sforzato dalla metà del XIX secolo a rispondere mano a mano, parola per
parola, alla sfida occidentale a colpi di «ricerche di antecedenti» e di «invenzioni
culturalistiche», il confucianesimo contemporaneo pretende al contrario di superare
l’equazione «modernità uguale a occidentalizzazione» che ha dominato gli spiriti da oltre un
secolo. Ma non si tratterebbe piuttosto dell’elaborazione del mito di una post-modernità che
20
Tesi di Daniel Bell (formulate in particolare in Daniel A. Bell e al., Towards Illiberal Democracy in Pacific
Asia, Oxford, Oxford University Press, 1995) riportate da Shaun O’Dwyer, « Democracy and Confucian
Values », p. 43.
21
« Confucian Harmony and Freedom of Thought », in Confucianism and Human Rights (supra, nota 8), p.
234-260.
18
altro non sarebbe che un comodo alibi per eludere la costruzione di uno spazio autonomo
propriamente politico? Sembra che il fenomeno «post-confuciano» debba essere messo in
relazione, a monte, col fallimento del tentativo di riforma del 1898 e più particolarmente col
fallimento del tentativo di riforma culturalistica e modernista di Kang Youwei. Da vari punti
di vista, il «nuovo confucianesimo contemporaneo» può essere compreso come un tentativo di
compensare il fiasco del mutamento politico in Cina alla fine del XIX secolo, che ha avuto
come conseguenze il vuoto creato dalla sparizione delle istituzioni e della legittimità
imperiale e l’incapacità di rimpiazzarle attraverso la costruzione della modernità sotto forma
di Stato-Nazione. Un contro-esempio interessante è fornito dal Giappone che è stato
relativamente poco toccato dalla «febbre confuciana» degli anni Ottanta.
In assenza di una costruzione politica di lunga durata, il discorso post-confuciano, che
evolve ormai in un contesto globalizzato grazie all’interesse che gli manifestano un buon
numero di universitari anglosassoni, è condannato ad immaginarsi, dopo aver saltato la
modernità, di poter passare direttamente ad un ipotesi post-moderna che non può essere altro
che il ritorno ad una certa forma di tradizionalismo, in delle versioni più o meno
fondamentaliste, conservatrici o pragmatiche. Dopo tutti i ruoli che si è visto assegnare nel
XX secolo — «essenza nazionale», pilastro dei «valori asiatici», garante dell’autoritarismo
politico, motore della prosperità economica … — questo «confucianesimo tutto fare» ha
veramente gli atout necessari per svolgere il più bel ruolo a cui possa aspirare, quello di
«salvatore della democrazia»?
Traduzione dal francese da Alice Bianchi
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