Il femminino e i femminili di Maria Micozzi - Oikos-bios

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Il femminino e i femminili di Maria Micozzi - Oikos-bios
Il femminino e i femminili
-il sessuale negli assiomi, nelle procedure di congruenza e nelle
strategie della culturadi Maria Micozzi
Psicoanalisi e arte: viaggi verso un algoritmo sintattico
Interrogarsi su quanto sottende i comportamenti di una collettività implica l’intenzione di
andare oltre la storia dei documenti, oltre la semplice coscienza razionale degli eventi.
Servono strade particolari, linguaggi complessi, codici di diversa natura.
Psicoanalisi ed arte, pur nelle differenti modalità cognitive, linguistiche e procedurali, hanno
in comune il fatto d’essere sostanzialmente “scavo verso un paradigma”; la psicoanalisi
vuole interrogare i grovigli psicologici più o meno affossati, attraversarli e
nell'attraversamento scioglierli cogliendo la natura e i rapporti che li rendeva congrui alla
struttura dell'intero vissuto; l'arte si spinge, per “necessità” sintomatica, a dare voce ad
un'interezza che si costruisce attraverso il desiderio, il dolore e lo stupore del limite, del
confine e della “mancanza”.
La psicoanalisi porta alla coscienza una ‘ragione’ dimenticata per necessità e riordina il
tempo psichico sul tempo storico, l'arte è invece un continuo “mancare” l'oggetto,
un'iterazione compulsiva a rappresentare il non-rapresentabile, un esistere come paradosso
e insieme come suo superamento, paradosso di sintassi e di codici che continuano a
tentare il punto impossibile in cui il sacro si è dato limite creando il profano, dove la
pienezza si è biforcata in significato e significante, dove è la ‘mancanza’ a partorire il
linguaggio.
Ambedue hanno a che fare con dati di fondo, con archetipi chiusi nell’inconscio: la capacità,
l’incapacità, i modi di gestire la paura
Per cogliere le leggi della realtà sottesa, la carica formativa e la sua funzione di algoritmo
sintattico, occorre fare attenzione ai segni della ‘forma’; sia essa del comportamento o sia
dell’invenzione, occorre seguire i segni che, tracciando una qualche Gestalt metaforica,
evidenziano più profondi legami di congruenza; è essenziale distinguere gli aspetti della
formatività dagli altri elementi formali che sono meramente discorsivi, di sottolineatura, di
sostegno plastico.
Una volta ‘colto’ l’algoritmo sintattico, questo, per congruità, cattura e marca tutti i segni
significanti della forma, quelli inerenti l’articolazione della struttura stessa.
Dunque l’essenziale è l’individuazione dei legami di congruenza, sia quelli di tipo logico
deduttivo che quelli di tipo analogico induttivo; una ‘meta-congruenza’, un rapporto di metalivello dove il prodotto non è dato dalla somma dei componenti, ma è ‘altro’, ‘oltre’ la somma
delle singole parti tanto che queste, dopo la relazione, diventano indistinguibili e non più
estrapolabili, entrate come sono nella chimica dei circuiti relazionali dove i processi di
retroazione portano continuamente nuovi stimoli e mutamenti.
Spesso l’aspetto della congruenza logica è fatto predominare su quello della congruenza
analogica in quanto la cultura fa sentire la prima come l’unica portatrice di ordine e
riferimento certo; questo atteggiamento rende più difficile ‘superare’ la forma e coglierne la
struttura formante e questo è tanto più vero quanto più la congruenza analogica resta in
secondo piano o, in ogni caso, quando non c’è reciproca relazione tra le due.
Venendo a mancare il marcatore fornito dall’algoritmo sintattico il risultato è quello di restare
imbrigliati nell’aspetto massivo della forma, nella confusione di segni apparentemente
equipollenti.
Per l’artista la cosa è in qualche modo più complessa che per l’analista in quanto quando
opera in effetti compone una forma traendo cose per metà dall'inconscio e per metà dalla
coscienza, quasi cieco a regole esterne prefissate; nel lavoro si forma un set che supera la
coppia dell’analisi, aprendo più angolature con un soggetto fluido che scivola liberamente di
associazione in associazione, un altro soggetto volatile che, in attenzione fluttuante, spia
dall'alto le congruenze strutturali della forma che via via emerge, e infine, un terzo soggetto
che aspetta ai margini del set, seduto tra “il pubblico”, che aspetta, giocando con la paura,
l’impotenza e la necessità, di vedere “cosa esce dalla macchia”.
L’arte dispone di un singolare set analitico dove nessun transfert trova accoglimento e ogni
presenza finisce per spogliarsi del nome d'origine e aggrumarsi, ormai altra da sè, su
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qualcosa che non ritorna mai a raccogliere l'artista, ma che, piuttosto, vuole vita propria e
libertà d'andarsene dimentica della madre.
La psicoanalisi e l’arte sono quindi domande che cercano il nucleo iniziale, la densità
primaria dell'infinito possibile, ambedue, per motivi e con modi diversi, sono ‘tensione
verso.. ‘, ’ viaggio’ attorno al senso di sé, i significati che reggono le ragioni della cultura.
Il senso di sè si definisce per differenza e per appartenenza, si costruisce partendo dalla
percezione del limite e dell'Altro e si nutre di tutti i riti legati al “dare nome”: dare nome
all'Altro, ricevere nome dall'Altro, darsi il nome che l'Altro può confermare o rifiutare in
continui rimandi di senso, circuiti che tendono a significare “ti accetto, o ti respingo, ma ti
vedo”, “esisti”.
Nel dare e ricevere nome sta il senso magico dei riti più antichi celebrati per vincere la
Morte e attorno a loro si sono strutturate e si strutturano infinite strategie.
Nei processi del ‘dare nome’ perdurano le crasi tra il femminino, l’universo di potenzialità e
strutture di genere proprie dell’essere generanti, e i femminili nominati.
Il sessuale e le differenze
Dal momento che la complessità si misura sulla base delle relazioni tra differenze, il
sessuale presenta la massima complessità di cui un sistema vivente possa dotarsi.
Il vivente è un sistema particolarmente complesso perchè relaziona processi a molti livelli: si
sviluppa, procrea, apprende , apprende ad apprendere e così facendo stratifica leggi e
modelli; si realizza attivando un vastissimo patrimonio di sinergie multiple tra elementi
tipologicamente tanto differenti tra loro da connettersi secondo congruenze anche
fortemente non-contigue, tessendo di continuo il sincronico con il diacronico secondo circuiti
e linguaggi molto elaborati,
La differenza primaria su cui poggia il sessuale è data dalla coppia maschio-femmina e si
configura sulla base delle modalità con le quali il maschio e la femmina si rapportano,
rispettivamente, al fenomeno della generatività.
L’esperienza generante è fondativa e oltre a fissare le coordinate temporali in cui vedere la
propria realtà, stigmatizza l’appartenenza al “continuum vitale”; si manifesta in ogni possibile
‘germinazione’ e ogni germinazione è strutturalmente tesa al ri-gemmare, alla ricerca dei
possibili modi con i quali garantire al proprio patrimonio genetico nuovi segmenti di vita, e
alla propria esistenza personale il sopravvivere alla morte.
Il cerchio dell'umanità primitiva, stretto attorno al fuoco da custodire per esserne protetto,
vede la morte come il mistero della distruzione, lo sconosciuto potente, l’oscuro che può
rompere in ogni momento la sottile protezione del confine tracciato: la morte di un membro è
una breccia che rende tutti aggredibili; il “fuori” entra nell’arco rituale con tutta la sua
potenza allagante, spegne il fuoco e ingoia tutto.
Ma ecco che alcuni viventi del gruppo, solo alcuni, hanno un potere ‘magico’
sull’inaccessibile, partecipano del ‘naturale’ che distrugge col fulmine alcuni alberi e ne fa
gemmare altri inceneriti; alcuni, dentro quel cerchio di esseri simili, solo alcuni, possono
ingrandirsi, ingrossare il ventre in una lunga erezione che dal pube arriva al seno, vivono un
progressivo gonfiamento globoso che infine ‘gemma’, esplode in un evento metà vita e
metà morte, segnato dai segni del dolore, dell'acqua e del sangue, una magia potente che
porta nel gruppo un nuovo essere vivo; il cerchio attorno al fuoco può tornare a vincere il
buio.
E’ la femmina a celebrare questo rito con l’ombra.
Presso il mondo arcaico, e ancora oggi nell'inconscio come in molti angoli della coscienza,
la femmina è quella particolare componente del gruppo che, unica, manifesta una sorta di
contiguità con la sfera del non-visibile, conosce le ‘sapienze’ naturali che rimandano alla
vita, alla morte e al dolore, ai riti risarcitori del lutto: la femmina partorisce; generando, trae
dal Chaos dell’indifferenziato i nuovi membri vivi per arricchire l’ordine del Cosmos, un
confronto esistenziale continuamente teso a compensare il furto operato dalla Morte.
La differenza di paradigma corporeo che distingue la femmina dal maschio conduce a
categorie di grande rilevanza.
Innanzitutto nella femmina il “sè” contiene l' “altro da sè” e questo solo fatto comporta diversi
ordini di considerazioni.
In prima battuta, se ci si mantiene sul piano strettamente legato ai termini, non si può che
rilevare la presenza di un'antinomia, ma se il problema viene visto secondo una prospettiva
a più piani di astrazione, si può riformulare la frase e superare il paradosso: il “sè” della
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femmina comprende sia il piano più astratto del “ghènos” che quello più contingente e
concreto dell' “eautò” e quindi è l'”eautò” a muoversi sullo stesso piano dell'”altro da sè”
realizzando la mancanza, la distanza e quindi l'incontro per definirsi vicendevolmente.
Il paradosso nucleare trova soluzione sul metalivello del “ghenos” e questo comporta per la
femmina una naturale attitudine a cogliere la struttura della complessità, la capacità a
risolvere su piani meta-paradossali il rapporto del contingente con il permanente, del
sincronico col diacronico del logico con l'analogico.
Invece il rapporto del maschio con la generatività è di tipo indiretto in quanto tale rapporto si
realizza solo attraverso la femmina. Il “sè” e l' “altro da sè” si contraffacciano da due insiemi
diversi, quindi il soggetto del “sè” non necessita di strutture atte a risolvere problemi
antinomici, la relazione si attua in modo sostanzialmente lineare.
L'”Altro da sè” è “fuori”, e questo sta a dire che la relazione primaria non richiede al maschio
particolari atteggiamenti nei confronti dell’interiorità, ma lo spinge piuttosto a muoversi ed
agire oltre il proprio confine corporeo; il processo si struttura come tensione automatica al
‘fuori’ e il fuori diventa, per necessità, il ‘luogo’ da vincere, possedere e controllare per la
definizione del sé e per il suo mantenimento; la mancanza e il limite si riducono ad ostacoli
da eliminare.
Ne derivano categorie mentali definite dalla netta propensione per i processi lineari causaeffetto, processi che tendono a relegare più o meno sullo sfondo procedure di tipo circuitalecomplesso, le procedure legate alla retroazione e alla gerarchia degli apprendimenti;
l'attenzione è catturata preferibilmente da stimoli a carattere contingente che comportano
risposte reattive di immediatezza, forza e scatto; non conseguono particolari propensioni a
cogliere soluzioni di meta-livello e quindi dimestichezza con la complessità.
Le ostilità di un ambiente naturale, caricato del senso di Mistero e di Morte, caratterizza la
parte più antica e la più lunga della storia umana, facilitando, in una sorta di conferma autoreferenziale, la propensione alla conquista e al possesso con la quale il maschio umano
tende a rapportarsi con l'esterno.
Il “fuori” viene più o meno personificato in un oggetto ( latino `ob-` =contro, e `iacere'
=lanciare; più tardi `obiectus'= opposto), oggetto che inizia ad esistere come tale dopo che
ha ricevuto “ordine” (latino `ordo, -inis' = disposizione, norma; dal verbo `ordior'= fare la
trama).
Questo aspetto del potere e del controllo, conseguiti attraverso il dare ordine, forma il
nucleo dell’Immagine del Mondo che i gruppi preistorici hanno fondato al maschile.
A seconda delle varianti culturali, su questa iniziale ipotesi magica si strutturano veri e
propri sistemi assiomatici complessi , il maschio fissa più o meno rigidamente lungo l'asse
accoglienza-fobia le proprie caratteristiche reattive che ha giudicato più efficaci; le
procedure vengono marcate da minore o maggiore aggressività a seconda della diversa
necessità di possesso e di controllo, e questa forbice deriva a sua volta dalla diversa
capacità di affrontare e sopportare la paura della ‘mancanza’.
Ho accennato al termine “cultura” come ad un sistema assiomatico complesso, sta a dire
che ogni cultura è in realtà l’espressione di un insieme di soggetti umani che si rapportano
reciprocamente, in senso sincronico e in senso diacronico, non a caso, ma secondo una
complicata alchimia di “regole” fortemente congrue con l’Immagine del Mondo ipotizzata
inizialmente e via via sempre più nascosta nell'inconscio.
Queste regole, nate da un'ipotesi magica di Chaos-Cosmos formano modelli congrui
sempre più definiti nei contorni e protetti da tabù; per coerenza e per sedimentazioni
successive, si attivano comportamenti, apprendimenti, dottrine e filosofie articolate sulla
polarità “premio-castigo”, procedure e riferimenti che garantiscono il controllo.
Le generazioni e gli individui traggono nome e senso di sè dall’appartenenza all’insieme di
aspetti che formano lo Schema identitario fornito dalla cultura , il senso di appartenenza è il
nucleo di ogni processo finalizzato al percepirsi come vivi e al sentirsi in grado di essere
definiti per definirsi, di nominare per nominarsi.
La cultura, nel mentre dà nome alle generazioni e agli individui, viene essa stessa
continuamente da essi nominata e, attraverso questo fissarsi del proprio nome, legittima e
tramanda lo schema che la struttura e la conferma
I maschili e i femminili nascono sui “nomi” costruiti e imposti dalla cultura.
I nomi nascono quindi per rispondere ad una necessità e per svolgere una funzione
strutturante.
Interessante è l'etimo di Chaos e a tale proposito è possibile accennare ad aspetti che
portano a considerazioni su diversi ordini di problemi.
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Il termine deriva dal greco “chàos” e, secondo opinione abbastanza accreditata, sembra che
il termine sia stato introdotto per la prima volta, all'nizio del VII secolo a.C.,da Esiodo con
l'accezione di “ fenditura, voragine”; il verbo, di provenienza indoeuropea, da cui origina il
sostantivo è “chàinein”” traducibile in “aprirsi, spalancarsi” ; l'abisso sotterraneo, lo spazio
aperto cui si riferisce Esiodo ha chiaramente una valenza che richiama il mistero della
femmina e del parto, ma non ha una fisionomia definita tanto che alcuni autori successivi
cominciano a liberare il termine dall’aspetto più spiccatamente ctonio intendendolo anche
come “aria” e “spazio vuoto”.
Nel secolo successivo, probabilmente col nascere del pensiero”filosofico” accanto a quello
magico-poetico, la ricerca degli Ilozoisti connota il termine Chàos di un' accezione più
definita , nel senso di “voragine contenente la materia iniziale da cui si è formato il Cosmo”.
Il termine passa a Roma senza cambiamenti fonetici, ma la cultura latina ne direziona il
significato in modo più consono alle proprie esigenze: il senso di chaos è “massa in attesa
di ordine”.
Si legge in “ Il nostro greco quotidiano” ( P.Janni, Bari, 1986):
“Furono i Latini, che gli diedero il senso di “massa confusa e discirde”, immagine rafforzata
poi dal disordine cosmico prima della creazione descritta dalla Bibbia”.
Dante ne parla come di un' “originario stato di disordine della materia antecedente alla
formazione del mondo”.
Prima del Cosmo, prima dell’ordine
F. Domenichi in “L'arte metrica de' latini ridotta a miglior ordine, chiarezza e brevità”
(Vicenza 1776) scrive:
” Quello che i Greci chiamavano `cosmo', con nome d’ornamento, noi ancora per la sua
perfetta elegantia l'habbiam chiamato `mondo' “.
In latino il termine `mundum' ha come prima accezione quella di `pulito, netto, raffinato'.
Questa veloce carrellata etimologica dentro i termini chaos, e cosmo, ‘in-ordine’, manifesta
un processo molto chiaro di controllo sul significato e sulle regole che ne strutturano la
natura e l'evoluzione.
Si è partiti dal verbo di origine indoeuropea `mi spalanco' per esprimere l'aprirsi attivo di una
voragine che allude ad una forza primaria, non definibile, quindi cangiante perchè densa del
misterioso Intero originario; poi al termine `chaos' si fa perdere l'accezione di `voragine
attiva' e lo si orienta polarizzandolo sul solo concetto di materia primaria, passiva;
successivamente la materia primaria viene sottoposta a sua volta ad un'ulteriore definizione
distinguendo in essa l'ordine riconoscibile da quello non direttamente riconoscibile e quindi
non controllabile ; quest'ultimo prende il nome di `disordine' e tutto ciò che viene inteso
investito dal dis-ordine è detto `confuso', cioè avente un `non-nome' e quindi luogo da cui
difendersi perchè “hic sunt leones”.
Tale processo può essere semplificato dicendo che nasce operando per separazione e si
sviluppa procedendo per definizioni-oppositive: separazione dell'intero in due opposti
ordine/dis-ordine.
L'atto istintivo di staccarsi nettamente dalla fonte del pericolo diventa modello `somatico'
forte, congruo al comportamento di tipo dicotomico: identificarsi nel ‘bene’ per respingere il
‘male’, ambedue sono intesi in senso assoluto.
La dicotomia, come posizione sistematica, è una soluzione tentata che ad un primo
momento appare premiante e che quindi finisce col fissare un paradigma per tutte le
procedure strategiche della cultura che ne nasce; nella delineazione progressiva della
polarità chaos-cosmos la procedura dicotomina si esprime nel senso di “mondare” sempre
di più l'ordine `dato dal sè' da quello portato dall’ ‘altro’, sempre più visto come disordine.
Queste modalità spiegano il contesto che le ha prodotte: un contesto conformato da
un'Immagine del Mondo fondata sul terrore del Mistero, del non non-controllabile, del non
dominabile e strutturata attorno alla necessità di gestire l'irriducibile o attraverso la
sottomissione all’ordine o attraverso la connotazione negativa, l’esclusione.
La nostra cultura, via via che è andata consolidando la propria forma, pur attenta alle
trasformazioni dei tempi, sposta il proprio baricentro verso un sempre più preciso riordino
del selezionato.
E' una chiara deriva dalla visione bi-oculare alla visione mono-oculare in nome di una
compulsiva necessità di ordine e di controllo in mano ad un unico soggetto.
In altri termini si può notare un non casuale cambiamento di significazione che tende via via
ad annullare la primaria complessità di senso a favore di una legge riduzionista, di tipo
apparentemente logico, cioè appartenente alle categorie lineari della coscienza razionale.
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Si volgono le spalle alle congruenze analogiche e quindi al metalivello che permette
l'articolazione logico-analogico .
Le leggi di tipo logico sono state premiate dalla nostra cultura in quanto, rispetto alle leggi di
tipo analogico, sono molto più garanti di oggettivazione, controllabilità e soprattutto di
dominio nei confronti del “fuori” e dell'”altro”.
Il maschio preculturale ha subito il terrore della morte insieme col mistero, altrettanto forte,
rappresentato dalla femmina generante e di questa ha assunto il simbolicamente, contro il
nemico, il modello ‘fallico’ in quanto magia potente dello ‘sbocciare’.
Un'assunzione simbolica che nelle varie culture ha preso posizioni diverse lungo l'asse
`interazione - furto'.
La cultura dell'Occidente ha radicalizzato, più di altre, il furto, la rigida dicotomia procedurale
quindi si pone come un ossessivo costruire muri e fossati: l’ossessione esprime anche un
profondo e atavico terrore nei confronti di una possibile richiesta di restituzione.
Il femminile nato dal sistema dicotomico `mente/corpo', `bene/male', `vero/falso', è un abito
che ha devitalizzato il femminino attraverso anossie teoriche e svuotato del senso
generante, è un femminile sempre colpevole definito da nomi che il femminino non
riconosce e che quindi produce conflitti.
Il primo processo ha operato nella direzione dello `svuotamento'.
La femmina che Ippocrate aveva visto anche capace di generare senza essere fecondata,
avendone ricordati alcuni casi significativi, da Platone e Aristotele viene subito strappata a
quella soglia e tradotta in un femminile che nella scala degli esseri viventi occupa lo snodo
tra schiavo (ultimo gradino dell'umanità) e animale.
Dopo la brevissima pausa rivoluzionaria, presente nella predicazione di Cristo, il femminile
della Patristica e della Scolastica perde sempre più drasticamente la propria pienezza
riducendosi ad un contenitore vuoto atto a ricevere il seme del marito nella situazione in cui,
non accettata la castità, la donna debba ricorrere, col matrimonio, al minore dei mali, perchè
la sessualità è il peccato per eccellenza.
Marie-Odile Métral parla della verginità come ”integrità fisica, purificazione dell'anima e
consacrazione a Dio” e pertanto uno stato che rappresenta “il ritorno all'origine” e cioè
“l'immortalità di cui (l'anima) attesta la realtà” (“Le mariage. Les hésitations de l'Occident”
Parigi 1977).
Lo storico Jean Delumeau nota che
“L'atteggiamento maschile nei riguardi del `secondo sesso' è sempre stato contraddittorio,
oscillante dall'attrattiva alla repulsione, dalla meraviglia all'ostilità. Il giudaismo biblico e il
classicismo greco hanno di volta in volta espresso questi sentimenti opposti. Dall'età della
pietra, che ci ha lasciato molte più rappresentazioni femminili che maschili, fino all'epoca
romantica la donna è stata, in un certo modo, esaltata. Dapprima dea della fecondità,
`madre dai seni fedeli' e immagine della natura inesauribile, ella divenne con Atena la
saggezza divina, con la Vergine Maria il canale di ogni grazia e il sorriso della bontà
suprema. Ispirando i poeti da Dante a Lamartine , `l'eterno femminino, scriveva Goethe, ci
porta verso l'alto'.( “La paura in Occidente” SEI , Torino 1986)
Più avanti si legge ancora:
“ Questa venerazione dell'uomo per la donna è stata controbilanciata nel corso dei tempi
dalla paura che egli ha provato per l'altro sesso, particolarmente nella società a struttura
patriarcale. Una paura che si è per lungo tempo trascurato di studiare e che la psicoanalisi
stessa ha sottovalutato fino ad un'epoca recente. (...) Attratto dalla donna, l'altro sesso è in
egual misura respinto dal flusso mestruale, dagli odori, le secrezioni della sua partner, dal
liquido amniotico, le espulsioni del parto. Si conosce la costatazione piena di umiliazione di
Sant'Agostino :”Inter urinam et faeces nascimur”. Questa repulsione e altre simili hanno
generato nel corso degli anni e da un capo all'altro del pianeta molteplici proebizioni. La
donna che aveva le sue regole era ritenuta pericolosa e impura: essa rischiava di portare
ogni sorta di mali, bisognava dunque allontanarla.”
Vorrei fare alcune considerazioni cominciando dai termini ‘comportamento’ e
‘contraddittorio’ usati dall'autore e osservare che negli atteggiamenti presi ad esempio c'è
contraddizione solo se ad essi si toglie la profondità prospettica della visione bi-oculare, e
cioè se li si estrapola dal contesto e dalla sua specifica Immagine del Mondo, cioè se si
considerano i comportamenti umani prescindendo dalle necessità assiomatiche delle
strutture che li esprimono.
Innanzitutto l'età della pietra e l'età degli dei omerici non sono proponibili in rapporto di
diretta consequenzialità nè temporale nè tanto meno strutturale. La prima riguarda un
insieme di culture preistoriche totalmente aperte a varianti, diverse tra loro e la seconda è
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l'infanzia di una cultura più avanzata e ben delineata nei suoi caratteri.
Ai tempi di Omero i nostri antenati avevano già fatto la loro scelta di fondo che li portava a
privilegiare il “logos” alla “ùle”, avevano già scelto la procedura oppositiva e scartato quella
relazionale.
Come seconda considerazione, passando dalle ‘madri dai seni fedeli’ alla saggia Atena
generata dal cervello di Giove (in età pre-minoica protettrice della casa e poi la guerriera
compagna di Ares), alla Vergine Maria, alle donne angelicate dei poeti si evidenzia
l'andamento di un processo che esprime la tensione a creare un femminile basato sulla
progressiva `separazione' del femminile dalla femmina, dalla sua densa sessualità
procreativa.
La seconda citazione fa derivare i tabù di separazione e allontanamento dal disgusto, cioè
tende a leggere i divieti come conseguenze dirette di istinti naturali invece che, viceversa,
vedere come la cultura usa e dà nome alla generica disposizione al disgusto incanalandola
a fini procedurali utili al mantenimento del proprio potere.
Una sintesi emblematica di come la cultura abbia operato per realizzare l’iper-valutazione
del maschio mediante la svalutazione della femmina, è data dal binomio vita/morte eletto
ad archetipo fondativo. In effetti la relazione è un prodotto della cultura che ha estrapolato i
significati dal contesto più articolato e li ha sottoposti, prima, ad uno slittamento e quindi ad
una reificazione; slittamento da processi dell’esistere a realtà dell’esistente, e reificazione
come chiusura delle tante articolazioni di senso in un significato unico e non permeabile.
Le procedure di astrazione, che dovrebbero cogliere le complessità, in effetti hanno agito
come procedure di riduzione, svilendo processi molto vasti e complessi a semplici ‘cose’.
I processi che stanno dietro al binomio vita/morte, rimossi ed esclusi dal simbolico,
attengono ai rapporti primari che interfacciano il Chaos e il Cosmos, l’Indifferenziato e il
Differenziato, attengono al senso oscuro e ciclico dell’esistenza e portano in primo piano il
problema e la difficoltà del controllo, aspetti fondanti della cultura.
Due soglie permettono il continuum misterioso che lega reciprocamente Chaos e Cosmos,
coordinate essenziali alla mappatura dell’esistente: la rottura dei circuiti del sistema
organico,se la morte, é la soglia-tabù che disperde il differenziato nell’indifferenziato, nel
Chaos, il parto è la soglia-tabù che dà forma compiuta all’indifferenziato aprendolo al
differenziato, all’ordine del Cosmos.
Il binomio vita/morte massimizza le astrazioni e spoglia la forza generante del codice
simbolico.
La cultura occidentale non parla mai dei propri assiomi di partenza, pur avendo creato
l'antropologia culturale, la sociologia, la psicoanalisi e quanto da questi atteggiamenti
autoriflessivi possa derivare, non sa da dove trae le proprie necessità ideative e da queste
discipline sembra trarre soprattutto razionalizzazioni per confermarsi piuttosto che
conoscenza per evolvere.
Nel ‘naturale’ viene raccolto tutto ciò cui non si vuole mettere mano; e ‘naturali’ sono
chiamate le basi della cultura cui il maschio ha dato ordine e nomi.
Il femminile delle culture dicotomiche è, in definitiva, la costruzione di una donna spogliata
della sua primaria potenza, privata dell'interezza che `conosce' gli opposti e che abita i livelli
`meta-paradossali'.
Il suo ventre si riduce a contenitore, la generatività si piega a funzione di servizio; il parto
non ha ritualità fuori del privato, resta chiuso nelle cose di donne, nè tantomeno ha
legittimità tra le liturgie collettive che raccolgano il gruppo a viverne il senso relazionale; la
magia del parto, da un lato, viene trasferita sulla ‘natura’ e ne danno testimonianza i
tantissimi miti e riti sulla primavera e, da un altro lato, viene traslata in potenza creatrice del
“logos” e del “mythos” maschili, diventa il ‘parto della mente’ e la mente detta la legge:
‘mulier taceat in ecclesia’.
Il furto operato sulla generatività della femmina lavora in tutti i modelli che da quella paura
primaria derivano; se i riti del “dare nome” e il sessuale sono i nuclei essenziali che ogni
cultura tende a dominare, per una cultura fortemente dicotomica, come quella occidentale,
tale possesso è ancora più radicale e compulsivo.
Il ‘femminile’ è sempre la norma di un modello culturale dato, è il primo nome che la
femmina di quella cultura deve vestire; in esso opera la bipolarità bene/male che garantisce
rigidamente il controllo, è il recinto entro cui la donna deve articolarsi per essere
‘riconosciuta’, legittimata ad esistere.
E' l'ordine che esige il controllo sia delle forme di obbedienza che delle forme di
trasgressione, circoscrivendo ogni cosa dentro nomi normanti.
La struttura dicotomica tende ad annullare le posizioni intermedie e procede
oppositivamente: ci sono la madre a la puttana per dominare obbedienze e disobbedienze
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umane e ci sono la santa e la strega per obbedienze e disobbedienze metafisiche.
La bellezza è uno degli elementi del femminile di grande portata strutturale: un dato modello
è imposto perchè ci si conformi ad esso; questa tensione , a seconda del grado di necessità
di cui è investito, crea progetti che assorbono grandi energie garantendo maggiore facilità di
controllo attraverso la forchetta premio/castigo.
In Bangladesch i maschi rifiutati distruggono con l'acido una bellezza nella quale il maschile
stesso ha culturalmente fissato l’identità femminile; un regalo e, insieme, un ricatto, una
prassi per controllare le tensioni del femminile e fissare nella dipendenza la modalità di
relazione.
Il ‘regalo’ di un canone di bellezza e, insieme, i ricatti che minacciano l’esclusione da quel
canone, sono prassi correnti anche da noi; mutatis mutandis, entra nel costo del ricatto
anche la vita.
I femminili hanno coartato la forza del femminino e ridotto la sua bellezza a spot di mercato,
a carta colorata per rendere golosa la merce.
La bellezza del femminino è eterodossa rispetto a questo bisogno culturale, è in senso lato
interezza, complessità, eros e seduzione e anche terribilità; cose difficili da controllare,
cose dell’ombra, fuori dal cono luminoso del luminoso Apollo, cose vive della potenza del
serpente ctonio, la divinità arcaica che Apollo aveva vinto e cacciato nel ventre della terra.
Le simbologie metaforiche sono evidenti.
Sedurre deriva direttamente dalla voce latina `seducere' (`se-d” e “ducere”) con la prima
accezione di `condurre in disparte rispetto a..., distogliere da..' (Plauto), e una seconda
accezione di `sedurre, corrompere ‘(Ecclesiastici) ; già il confronto tra i due diversi significati
esprime da solo la direzione verso cui, nel tempo, il significato cambia: si passa da un primo
ambito polivalente, aperto su molti orizzonti di senso, ad uno successivo già ingabbiato
nella morale e regolato dalla forbice premio/castigo..
Le vicende della seduzione, nella nostra storia, seguono un cammino di funzionalità
strategica segnato da più o meno evidenti sintomi di paura, vissuti dal maschio e gestiti dal
maschile.
L'orgasmo, in quanto acme dell'eccitazione sessuale, è anche un'esperienza di perdita di
sè; infatti a partire da Galeno viene chiamato `piccola epilessia' e ancora, nel settecento, il
naturalista Antonio Vallisnéri lo riporta in forma latina ` brevis epilepsia'.
Alla paura della perdita di sè, sentita come pericolo di perdere il controllo, si somma la
paura apocalittica del peccato che un cattolicesimo fobico, inquisitorio e proiettivo ha
rigidamente strutturato in una gerarchia piramidale di colpe, sul vertice è posta la sessualità,
il peccato dei peccati.
La femmina erotica e generante viene chiusa nel nome della strega, dell'agente di Satana, il
suo potere viene addomesticato come ogni buon processo fobico addomestica il nemico .
Attraverso un radicale processo proiettivo l'inquisizione trasforma la femmina che genera
nel nemico che vende la salvezza dei generati a Satana, il distruttore dell’ordine in cui il
maschile si identifica.
In effetti, una cultura maschile fondata sull’ossessione del controllo, non può che costruire
un femminile la cui seduttività e bellezza siano ridotte il più possibile a svago irrilevante,
relegate dentro binari gestibili e garanti di una fruibilità sicura.
A tale proposito Jean Delumeau scrive:
-“E' proprio la paura della donna ad aver dettato alla letteratura monastica gli anatemi
periodicamente lanciati contro le attrattive fallaci e demoniache della complice preferita di
Satana.”
Ecco cosa dice Ottone, abate di Cluny (X secolo):
“La bellezza fisica non va al di là della pelle. Se gli uomini vedessero che c'è sotto la pelle,
la vista delle donne gli farebbe mancare il cuore. Quando noi non possiamo toccare con la
punta del dito uno sputo o dello sterco, come possiamo desiderare di, abbracciare questo
sacco di escrementi? (...)Bellezza e virtù sono incompatibili(...) Una donna così abbraccia
teneramente il suo sposo e gli dà dolci baci, mentre secerne il veleno nel silenzio del suo
cuore! La donna non ha paura di niente; ella crede che tutto sia permesso.”La letteratura è ricchissima di bordate feroci contro le donne, dal “De planctu ecclesiae”
redatto su ordine di papa Gioovanni XXII, contenente il catalogo dei centodue “vizi e
misfatti” della donna , al Malleus Maleficarum, ordinato, in pieno umanesimo, da un altro
papa a due inquisitori tedeschi, alle rigide “Istruzioni ai confessori” di san Carlo Borromeo;
milioni di righe scritte tra le quali è difficile scegliere, ma la citazione di Ottone di Cluny è
significativa per l'eminenza della fonte, uno dei primi luoghi in cui rinasce la sapienza
dell'Occidente, dove, attraverso gli arabi, avviene la scoperta di molti classici greci.
Anche per questo è molto significativa l'unilateralità della descrizione perchè esprime con
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chiarezza come il senso di sè maschile si identifichi in un’essenza assolutamente astratta,
nell’ineffabilità dei parti della mente intesa come l'occhio `esterno' della coscienza.
Ancora dall'abazia di Cluny, nel 1100, un monaco, Bernard de Morlas dà al mondo un
trattato in versi “De contemptu feminae”.
Riporto un verso, uno, purtroppo de tanti.
“La donna è cosa cattiva, cosa malamente carnale, carne tutta intera.”
L'antifemminismo clericale ha usato capziosamente l'arma della parola e della colpa, la
misoginia del potere politico e militare ha completato l’intero arco dell’esclusione e
legittimato il razzismo di genere.
Ritornando alle parole dell'abate Ottone, si nota con facilità come dietro ad esse si articoli
un feroce controllo sulle possibili derive eterodosse destabilizzanti per la cultura; la norma
sancisce:”la bellezza femminile è menzogna”; la paura che lo genere dice :”la bellezza della
femmina è potente e può far perdere il controllo all'uomo: occorre vanificarla, denunciarla
come falsa”.
Il sessuale oggi è ridotto al genitale: nulla è quindi veramente cambiato sul fronte delle
difese che la cultura attua contro la potenza attiva del femminino: i femminili che costruisce
continuano a costruire aspetti di irrilevanza.
La cultura, in quanto sistema assiomatico, ha procedure e teoremi che pur variando e
vivendo del contingente, restano sempre congrui all'assioma di fondo.
Questo fa in modo che molti atteggiamenti anche fortemente critici e intelligenti finiscono per
perdere la maggior parte della propria efficacia propositiva perchè nell'accusare gli effetti
della cultura, la prassi usa le stesse categorie dicotomiche della cultura stessa; la
persistenza dell'assioma affossato nell'inconscio mantiene le leggi e potenzia i nomi usati
nelle reciproche definizioni.
La famosa chiave della famosa cintura di castità sembra ancora al collo del signore partito
per la sua guerra.
Parole indossate- il corpo nudo e il corpo spogliato.
Oggi, mentre il nostro tempo si definisce come il tempo della liberazione della donna, e in
cui la donna ha effettivamente maturato dentro di sé grandi cambiamenti, la cultura
continua e concentra il proprio lavoro di difesa accentuando la banalizzazione dei processi
che cercano di liberare la vitalità del femminino; i femminili nella moda e nella pubblicità
articolano una bellezza anoressica e indifferente, nello spettacolo d’intrattenimento,
soprattutto televisivo, tracciano i segni anonimi di cornici che inquadrano altro.
L'anoressia e la spersonalizzazione, non a caso, si pongono come vuoto, chiusura e rifiuto.
I grandi costruttori di miti contemporanei, apparentemente innocui e banali nei loro
ammiccamenti, sono gli attrezzi con in quali la cultura misogina ostacola il processo di
sminamento che la donna si affanna a perseguire nel campo dei femminili, vuoti e pesanti,
che le sono stati cuciti addosso.
Il corpo è un creatore di linguaggi e comunicare comporta di fondo un “sé” da esprimere,
comporta una propria identità da proporre all'’altro" perché possa essere vista e accolta;
sentirsi “riconosciuti” è l’esperienza di base che struttura tutta la vita di relazione.
La necessità di essere accolti, e pertanto riconosciuti come “esistenti”, è un processo che
conduce il “sè”, della primaria sensazione narcisistica, ad un “sé” capace di darsi quel limite
che permette l’accoglimento dell’ “altro”.
Fisiologicamente, il “sé totale” dovrebbe sublimarsi per far nascere un “sé-persona”, più
intimo e vero, nudo dio che si fa linguaggio.
La cultura, fin dall’inizio, ha tracciato sul corpo i propri segni, per definirlo: dalle terre
colorate e l’impronta impressa, dal tatuaggio, al mantello la cultura crea schemi e modi per
le ritualità della comunicazione, per i reticoli delle definizioni; il corpo della femmina è stato
preda di tanti femminili imposti, di tanti nomi fatti indossare come etichette rigide, la nudità
potente del femminino è stata coperta sotto gli stracci ricamati dell’obbedienza, del servizio
genitale e della colpa
L’espressione “corpo nudo” dice l’armonia di una forma piena, compiaciuta della propria
essenzialità; “corpo spogliato” evoca invece l’esistenza di uno strappo, la spezzatura di
un’aggressione legittimata.
La contrapposizione tra la valenza positiva dell’espressione “corpo nudo” e quella negativa
suggerita dall’espressione “corpo spogliato” apre ad un fitto intrecciarsi di significati che
ruotano, tutti, attorno al concetto di abito inteso come ‘forma’ che testimoni l’appartenenza.
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Il termine abito rimanda al latino “habitus” col significato di “modo di essere”,
“disposizione”, derivato, a sua volta dal verbo “habere” :”avere in sé”, “avere in serbo”.
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L’accezione primaria di abito, dunque, richiama la valenza di autenticità propria della
naturalezza del corpo nudo, della persona “in sé”, anche il corpo nudo ha un suo abito in
quanto ha ciò che la persona serba in sé.
Ma , seguitando a percorrere gli intrecci semantici tracciati nel tempo dal bisogno di senso,
ci si trova con le radici etrusche della parola “persona” , “phersu” , cioè “maschera” , cioè
“viso posticcio”.
Allora cosa c’è tra l’essere nudi e l’essere spogliati ? forse gomitoli e gomitoli di paure,
pensieri, parole che esprimono e parole che nascondono; parole come abiti, mantelli che
danzano i giochi del corpo e mantelli che tagliano quei giochi come stupri.
Nel corpo femminile le valenze del “dentro” e del “fuori”, del custodire e del significare per
comunicarsi si arricchiscono di sfaccettature particolarmente complesse.
Come si è detto i femminili possono essere tanti quante le modalità costruite da una
cultura; la cultura dicotomica ha dato nome a femminili sostanzialmente costruiti per il
potere del maschile; il controllo sulla generatività produce strategie e articola processi; dal
possesso della femmina, oltre che una sorta di immortalità personale, deriva al maschio il
potere sui figli e sul patrimonio.
I femminili sono quindi abiti imposti per mantenere il potere, ruoli protetti da leggi sancite e
norme subliminali: il senso di colpa è l’anticorpo più emblematico.
Sarebbe interessante fermarsi a considerare il ruolo simbolico che, nel processo a
Giovanna D’Arco, ha avuto il rifiuto d’indossare abiti femminili
Quel rifiuto esemplifica il peccato contro il ‘naturale’, contro il ruolo subordinato che era
vietato dismettere pena l’essere spogliate ed esposte.
I femminili della cultura dicotomica esprimono tutti uno stesso tabù: la difese che i “maschili”
hanno strutturato per difendersi dalla potenza del femminino, quella che, generando, vince
sulla morte; di questa esperienza i maschili possono essere soltanto spettatori.
Questi maschili la morte possono solo darla.
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